Vario 82

agosto-settembre 2013 n.82 • € 4.50

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D'Orsogna le sorelle tutto pepe / Agire le aziende del polo di innovazione agroalimentare

Piccolo grande piacere Il Gelato artigianale

agosto-settembre 2013

Pescara la città del Jazz

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Simona Molinari la voce dell’Abruzzo

Abbateggio Museo del paleolitico Sangritana Un treno per il Meeting 23/07/13 10:33

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23/07/13 10:33

82 in copertina: Simona Molinari “vestita” di Pescara Jazz

agosto-settembre 2013

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Rubrica BreVario

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Speciale Pescara Jazz Festival

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Personaggi Lucio Fumo

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Personaggi Simona Molinari

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Personaggi Abruzzo Big Band

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Abbateggio Museo del Paleolitico

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Aziende Sangritana

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Ribalta

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Letteratura Marco Tornar/Giovanni Di Iacovo/Edoardo Tiboni/ Enrico Graziani

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Libri

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Mostre

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VarioART Franco Fiorillo

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Arte Antonio Iacovetti

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Eventi Fondazione Carichieti

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Eventi Matta Convergenze VARIOGUSTO

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Gusto Il gelato

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Aziende Sorelle D’Orsogna

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Speciale Polo AGIRE Dalla terra la crescita dell’Abruzzo Eatarte - Oleificio Matalucci - Api Pescara-Chieti - De Cecco - Jubatti - Agriverde - Casino di Caprafico - Nepa Packaging - Coldiretti Abruzzo - Chiusa Grande - Crab - Novatec - Falcone dolciaria - Modiv - Gal Terre Aquilane

Direttore Responsabile Claudio Carella Redazione Fabrizio Gentile (testi), Enzo Alimonti (grafica) Hanno collaborato a questo numero Fabio Ciminiera, Annamaria Cirillo, Bruno Cortesi, Giacomo D’Angelo, Francesco Di Vincenzo, Franco Pasquale, Barbara Scorrano

Stampa, fotolito e allestimento AGP - Arti Grafiche Picene - Via della Bonifica, 26 Maltignano (AP) Claudio Carella Editore Aut. Trib. di Pescara n.12/87 del 25/11/87 Rivista associata all’Unione Stampa Periodica Italiana Redazione: Via Puccini, 85/2 Pescara Tel. 08527132 - redazione@vario.it

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BREVario Marchionne, ricomincio da Sevel L’entusiasmo con cui l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, in visita alla Sevel di Atessa è stato accolto da dirigenti e operai ha riportato alla memoria il clima di euforia che accompagnò l’inaugurazione dello stabilimento, nel 1981, per opera dell’allora patron, Gianni Agnelli, presente al taglio del nastro con il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini.

Trentadue anni dopo, vissuti tra crisi, manovre di rilancio, nuovi piani industriali e di marketing, la fabbrica fiore all’occhiello della Val di Sangro si avvia a divenire protagonista di una nuova campagna di investimenti decisa dal manager abruzzese. Oltre settecento milioni di euro per estendere la leadership del Ducato in tutto il mondo e potenziare la joint-venture con il gruppo Peugeot-Citroen. Un piano di lavoro ambizioso per il quale è necessario, ha spiegato Marchionne, un’azione sinergica con le istituzioni regionali, chiamate a collaborare per il rilancio di quella che un tempo era denominata tristemente la “Valle dei morti”, a causa dell’alto tasso di emigrazione che la caratterizzava. Per l’amministratore delegato della casa torinese sono ancora molte le potenzialità inespresse di quest’area, che ha tutte le carte in regola per divenire una struttura industriale all’avanguardia. Merito del Polo d’innovazione dell’automotive, voluto dalla Regione, e di quel crocevia costituito dalle aziende che insistono su questa porzione di territorio, a cominciare dalla Honda, senza dimenticare le piccole e medie realtà industriali che lavorano nell’indotto. Un ruolo centrale nel programma di investimenti che riguarderà la Sevel sarà rappresentato dalle infrastrutture, indispensabili a supportare gli ambiziosi piani del management Fiat. «Approfitto dell’occasione –ha detto Marchionne– per richiamare l’attenzione delle istituzioni locali sulla necessità che un’attività industriale come la nostra possa avvalersi di infrastrutture adeguate». L’asse viario che collega lo stabilimento di Atessa all’autostrada non sarà l’unico perno sul quale poggiare i collegamenti e impostare il trasporto dei mezzi prodotti. Molta parte sarà affidata anche alla ferrovia Sangritana, che si occuperà di smistare i veicoli nelle diverse destinazioni nazionali ed europee. Unico neo, nel programma infrastrutturale, è quello relativo al porto di Ortona, ancora sottodimensionato rispetto alle potenzialità reali. Per scrivere il nuovo

• Alcuni momenti della visita di Sergio Marchionne allo stabilimento Sevel di Atessa.

In basso, il manager di fronte alle linee di produzione del Ducato.

Qui sotto: il saluto alle maestranze; una foto ricordo con il nuovo direttore dello stabilimento Carlo Materazzo; Marchionne salutato dalle autorità locali: il senatore Giovanni Legnini, l’arcivescovo di Chieti Mons. Bruno Forte, il presidente della Regione Gianni Chiodi, il presidente del Consiglio Regionale Nazario Pagano e il presidente della Provincia di Chieti Enrico Di Giuseppantonio

capitolo della storia della Sevel Marchionne ha chiamato a raccolta non solo gli amministratori della Regione, ma anche operai e addetti ai lavori. Fuori dalle polemiche che oppongono lo stato maggiore della Fiat alla Fiom-Cgil, non ammessa agli incontri e fortemente polemica con la strategia aziendale di Torino, resta l’invito da parte dell’amministratore delegato a rafforzare le capacità di quello che è oggi il più grande stabilimento di veicoli commerciali in Europa, con picchi produttivi che hanno sfiorato le 250 mila unità. Per Marchionne non ci sono alibi: «C’è un lavoro enorme da fare –ha detto a chiusura del suo discorso– ma sappiamo anche che siamo i soli responsabili delle scelte che faremo e di quelle che non faremo». Un monito che non cadrà certamente nel vuoto.

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BREVario

Industrial Designer cercasi

nasce La città dell’accoglienza Sessanta posti letto e 180 pasti da poter distribuire ogni giorno agli homeless che vivono in città. Sono i dati più significativi della nuova Cittadella della solidarietà, il dormitorio sorto in Via Alento per iniziativa della Cei, che sull’opera ha investito un milione di euro, e della Fondazione PescarAbruzzo presieduta da Nicola Mattoscio, che ha concesso il terreno. Per inaugurare la struttura, dedicata alla memoria di Giovanni Paolo II, è arrivato a Pescara il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Confederazione Episcopale Italiana, che, in linea con il nuovo corso di evangelizzazione e il ritorno allo spirito più genuino del cattolicesimo tanto caro al nuovo Pontefice, Papa Francesco, non ha mancato di puntare l’attenzione sulla crisi economica. «Essa può essere arginata –ha spiegato– solo se si

opera un cambiamento culturale che imputi a ciascuno le proprie responsabilità». A cominciare da quelle dello Stato che per Bagnasco non può essere sostituito dalla Chiesa. Nelle parole dell’arcivescovo, grande attenzione è stata data ai temi della famiglia e della vita, da difendere sempre e comunque. Quanto alla struttura che supplisce alle gravi carenze del dormitorio di Via Gran Sasso, gestito dalla Caritas ma in grado di ospitare solo 20 persone, Bagnasco non ha mancato di sottolineare che si tratta di «un’ opera di grande importanza per il centro adriatico, oggi finalmente in linea con le altre città italiane nel campo dell’accoglienza e della solidarietà».

• Nicola Mattoscio, presidente della Fondazione PescarAbruzzo, con il Cardinale Angelo Bagnasco.

In alto l’inaugurazione del dormitorio

Giovani talenti si sfidano a colpi di design nel concorso più importante del settore: il Lucky Strike Talented Designer Award, promosso dalla Raymond Loewy Foundation e giunto quest’anno alla nona edizione. Il contest studentesco, che ha visto tra i finalisti della VII edizione anche l’abruzzese Marco Gregori con la sua “Cucina domestica for all”, ha coinvolto negli anni oltre 1000 studenti, 65 città e 58 Atenei, premiando 16 progetti e consegnando 90 menzioni d’onore.

La novità del 2013 è l’ampliamento del numero dei progetti premiati (da tre a cinque) e l’assegnazione di un ulteriore riconoscimento dal pubblico online ad uno dei progetti finalisti. Le aree oggetto del concorso saranno: interior design, web/grafica (comprensiva di apps per • Marco Gregori, finalista dell’ottava edizione del smartphone e tablet), environmental/urLucky Strike Award ban design, fashion e product design. Per la seconda novità del concorso, il contest on line, gli studenti potranno concorrere inviando un video che illlustri il progetto ed il motivo per il quale dovrebbero vincere. Il premio sarà assegnato dal pubblico del web ad uno dei progetti finalisti e potrà cumularsi sia al primo premio che ai premi di categoria. Il montepremi complessivo di 30mila euro, messo in palio con lo scopo di facilitare l’avviamento alla carriera o gli studi successivi dei giovani designer, sarà suddiviso in 16mila euro per il primo classificato, 2.500 euro per i vincitori di categoria e 1.500 euro per il miglior progetto del contest on line.

L’AQUILA, RICOSTRUZIONE IN FIERA Quattro intensi giorni, di esposizione, confronti e proposte; 200 espositori, 10mila visitatori, un’imponente programma culturale: il terzo Salone della Ricostruzione chiude in attivo e pensa al futuro. L’Aquila riparte, il titolo scelto dagli organizzatori per la terza edizione di quello che è ormai diventato un evento, che è stato foriero anche di anticipazioni e novità sul futuro della ricostruzione nell’intero cratere, a partire dall’annuncio dell’emendamento di 1,2 miliardi di euro votato dal Senato proprio alla vigilia della manifestazione. Tanti i temi affrontati: dalla presentazione dei progetti di rinascita per il centro storico del capoluogo, all’innovazione rappresentata dalla sostenibilità di materiali e cantieri, alla sicurezza che è diventata modello per l’Emilia Romagna, a seguito del sisma che ha colpito la regione dopo quello aquilano. La ricostruzione è stata raccontata in tutti i possibili aspetti, anche singolari, come il progetto “L’Aquila città delle donne”, presentato in chiusura dell’evento e che nell’arco di un anno vedrà le professioniste aquilane al lavoro per una ricostruzione partecipata della • Antonio D’intino (a sinistra), presidente di Ance Abruzzo.

A fianco, un momento della manifestazione

città, condivisa con la cittadinanza, progettata perché nella città del futuro ci sia spazio per le esigenze e i bisogni di tutti coloro che la compongono, uomini, donne, bambini, giovani, anziani, disabili e stranieri.

«Il Salone –ha affermato Antonio D’Intino, presidente di ANCE Abruzzo– ha dimostrato di saper mettere al centro le tematiche operative della rinascita, affrontandole in modo positivo pur in un momento di transizione nel processo di ricostruzione. Speriamo che il successo di questa terza edizione sia di auspicio alla definizione di una nuova fase, attiva, in cui tutti i soggetti che in questi quattro anni dal sisma hanno vissuto in sofferenza possano veder rinascere la vita economica del territorio, insieme agli agglomerati urbani:

dalle famiglie rimaste senza casa, alle imprese prive di certezze su tempi, disponibilità di risorse e pagamenti». L’organizzatore del Salone Roberto Di Vincenzo, presidente di Carsa Srl, ha commentato: «Avvertiamo l’esigenza di costruire un’identità positiva dell’Aquila e del suo territorio perché entrambi diventino più attrattivi, anche a livello nazionale. Sul fronte operativo occorre stabilizzare la sede del Salone, perché qualsiasi progetto importante deve poter essere programmato con i tempi giusti; aver trovato nell’ex Italtel la sede assolutamente perfetta per accogliere manifestazioni fieristiche anche di grande rilevanza permette di poter continuare a lavorare affinché il Salone diventi la più importante fiera di settore del centro Sud».

L’Aquila

Restauro e recupero di un edificio direzionale danneggiato dal sisma del 2009

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BREVario SANTA MARIA ARABONA, DOVE L’ARTE INCONTRA LA NATURA Uno splendido arboreto in uno dei luoghi più caratteristici, dal punto di vista artistico e architettonico, dell’intera regione. È l’originale iniziativa nata a Santa Maria Arabona per volontà di una giornalista abruzzese trapiantata a Milano, Cinzia Toto, che ha impiantato una collezione di 90 specie di alberi, ciascuno dei quali contrassegnato dal nome comune e da quello scientifico.

Tra i tanti esemplari spicca il caco di Nagasaki, ottenuto dai semi contenuti nei frutti di un albero di cachi sopravvissuto alla bomba atomica che distrusse durante la Seconda Guerra mondiale la città giapponese di Nagasaki. «I “figli” per così dire di questo caco –spiega la Toto– sono diventati in tutto il mondo simbolo di pace e da circa venti anni vengono piantati nei giardini delle scuole e degli edifici pubblici in tutto il mondo, come strumento per educare i bambini al rispetto della vita

e della solidarietà». Il progetto di far nascere un alboreto è nata come atto di omaggio nei confronti di Giancarlo Cipressi, agronomo prematuramente scomparso, ex sindaco di Manoppello nonché zio della Toto. «Fu lui a lanciare l’idea di piantare degli alberi in questo appezzamento di terra di proprietà della mia famiglia, rimasto incolto. Io ho voluto dare concretezza al suo desiderio». All’ideale passaggio di testimone, si aggiunge anche la volontà di regalare un angolo di verde «in un paese che –continua Toto– negli ultimi tempi ha visto un’opera massiccia di edificazioni. E poi, ritenendo di aver avuto nella mia vita molta fortuna, ritenevo di dover fare qualcosa di concreto per gli altri».

A cominciare dai bambini, ai quali verrà offerta l’opportunità di frequentare un’aula di scienze all’aperto «e di apprendere che gli alberi, come gli uomini, sono gli uni diversi dagli altri».

L’Aquila, la città mortale tra note e poesia Affrontare il tema della distruzione/ ricostruzione di una città staccandosi dal reale, dal contingente, dalla cronaca, dalla storia recente, da L’Aquila. E’ quanto ha scelto di fare il regista e scenografo Giancarlo Gentilucci, fondatore e direttore dell’ Associazione Arti e Spettacolo, portando in scena il testo di Roberto Melchiorre Le città mortali.

La rappresentazione è incentrata sulla storia di due tragici picari, fuggiti dalla loro città distrutta da un terremoto, che intraprendono un lungo viaggio alla ricerca del senso di ciò è stato. In loro soccorso arriva un coro, simile a quello delle tragedie greche, che narra la scomparsa di antiche città del passato. Distruzioni che si spiegano con un sillogismo: le città sono costruite dagli uomini, gli uomini sono mortali, quindi anche le città sono mortali. Crederle immortali rappresenta un tragico e fatale errore.

Ad accompagnare la recitazione degli attori Giacomo Vallozza, Giulio Votta, Tiziana Irti, le musiche dei Solisti Aquilani. Lo spettacolo è realizzato in collaborazione con il Conservatorio di Musica dell’Aquila “A. Casella”.

UN Premio AL design Qualità e originalità nei progetti.

Sono le caratteristiche che accomunano i lavori dei vincitori del Premio Design Abruzzo. La giuria, composta da Stefano Schirato, Alejandro Bozzi, Lucio Rosato e Antonio Marano ha voluto assegnare i maggiori riconoscimenti per la categoria professionisti a Ilias Fragkakis e, per la categoria studenti, a Martina Faccia. Menzioni speciali sono andate poi a Arago De-

sign e Claudia Rapagna. Secondo il parere dei giurati, i loro progetti si distinguevano per gli elementi di innovazione e di sensibilità, cui si aggiungevano la chiarezza nei contenuti e la qualità degli eleborati.

Civitella, paese arancione Civitella Alfedena è stata insignita dal Touring club Italia della Bandiera Aranccommissione preposta ha infatti rilevato che il piccolo centro del Parco è in linea con gli standard turistico-ambientali previsti e ha saputo mantenere alti livelli di sostenibilità ambientale nel rapporto tra la struttura urbanistica e il paesaggio circostante, preservando le caratteristiche naturalistiche che ne hanno fatto una delle località più suggestive nel territorio abruzzese.

La mia amica libreria L’associazione Editori Abruzzesi ha stilato una convenzione con alcune delle principali librerie presenti nella regione per promuovere i prodotti editoriali dei propri associati. Nelle

librerie che aderiscono all’iniziativa “Libreria Amica” potranno essere richiesti e acquistati anche volumi pubblicati negli anni passati.

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Il festival di Pescara

La città del jazz

Pescara come New Orleans:

in riva all’Adriatico hanno suonato i più grandi jazzisti internazionali, da Duke Ellington a Ella Fitzgerald, da Keith Jarrett a Miles Davis, da Paolo Fresu a Enrico Rava.

In un concerto che dura da quarantun anni di Fabio Ciminiera

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’estate del 1969, due anni dopo la famosa Summer of Love che ebbe nel raduno di San Francisco il punto di partenza della hippie revolution, vide la nascita a Pescara di uno dei più importanti festival jazz al mondo. Una grande massa di giovani, amanti del jazz e dei concerti in generale, affollò l’area delle Naiadi per una serie di esibizioni di quelli che, all’epoca, erano i grandi nomi della scena internazionale: tra il 18 e il 20 luglio i “tre giorni di pace, amore e musica” di Pescara videro alternarsi sul palco il Bill Evans Trio, il Philly Joe Jones Quintet, il trio di Georgios Avanitas e il quartetto di Lucky Thompson, l’Ensemble di Barney Kessel e il New Dixieland Sound di Marcello Rosa, oltre ad Albert Nicholas, Jean-Luc Ponty Quartet e la Big Band di Maynard Ferguson. Nomi noti forse solo agli appassionati, ma che negli anni sono stati seguiti da quelli di star internazionali della musica come Chet Baker, Ella Fitzgerald, Miles Davis, Sarah Vaughan, Dizzy Gillespie, Oscar Peterson. E poi Keith Jarrett, Michel Petrucciani, Pat Metheny, ma anche Bob Dylan, Joan

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Baez, Burt Bacharach. Pescara, in oltre quarant’anni, è stata una città conosciuta in tutto il mondo grazie al suo festival jazz, il primo del genere in Italia e a tutt’oggi il più longevo (sopravvissuto anche ad altri di pari livello in Europa e negli Stati Uniti) al quale hanno partecipato “tutti, ma proprio tutti” i più grandi rappresentanti del jazz mondiale, per dirla con le parole del suo direttore artistico Lucio Fumo. E proprio il patron del festival è il protagonista di una lunga intervista nelle pagine che seguono, in cui si abbandona ai ricordi e traccia un bilancio della manifestazione che ha raggiunto, ormai, il ragguardevole traguardo di 41 edizioni in 44 anni di attività. L’edizione del 2013, dopo tante stelle internazionali, vede finalmente affacciarsi sul palco del teatro D’Annunzio una voce italiana, anzi abruzzese: quella dell’aquilana Simona Molinari, paladina dell’electroswing, reduce dai successi di un altro festival (quello di Sanremo) che l’ha definitivamente proiettata in cima alle classifiche dei dischi più venduti. Simona è stata scelta anche come testimonial del Pescara Jazz per

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• Nella pagina a fianco, in apertura: il concerto in piazza Salotto della Lino Patruno Big Band. Sotto, una foto ricordo dello staff di Pescara Jazz allo stadio con alcuni musicisti; Lucio Fumo con Chet Baker; Diego De Sisto, inventore del Festival. In questa pagina alcune storiche esibizioni: i Sun Ra (1), Charlie Mingus (2), Chet Baker (3), Keith Jarrett (4), Art Blakey (5), Miles Davis (6), Sarah Vaughan (7), Enrico Rava (8), Don Cherry (9) e Herbie Hancock (10).

la presentazione del festival avvenuta lo scorso aprile all’Enit, nel prestigioso Rockefeller Center di New York: la sua esibizione ha costituito non solo una succosa anteprima dell’edizione numero 41 di Pescara Jazz, ma anche del suo tour che la porterà il prossimo autunno a varcare la soglia del tempio del jazz statunitense, il Blue Note di New York.

Ma il Pescara Jazz non è solo una splendida vetrina che da quarant’anni mette in mostra i gioielli mondiali della musica.

La sua importanza sta anche nell’aver ispirato e dato vita a una generazione di musicisti abruzzesi che nel loro Dna hanno quello che potremmo chiamare il “fattore J”, un’impronta genetica che rende questi artisti tra i più attivi e apprezzati della scena italiana ed europea. Molti di loro hanno scelto altri Paesi dove esprimere il loro talento, altri sono ancora saldamente legati, professionalmente, alla loro terra d’origine.

Per tutti, ma proprio per tutti, il Pescara Jazz è un punto di riferimento: è stato “il modo per scoprire e amare un genere musicale”,“uno stimolo allo studio e all’impegno sul proprio

strumento”, un “mezzo per alimentare la propria passione”.

A non pochi di loro è stata data la possibilità di esibirsi sul palco del festival, ad altri la manifestazione ha dato modo di studiare e di perfezionarsi attraverso le borse di studio istituite in collaborazione con il Columbia College di Chicago.

Per i più giovani questo evento, autentico fiore all’occhiello della nostra regione, resta un appuntamento importante: un’occasione per confrontarsi con i propri idoli, per superare i propri limiti, per alzare l’asticella dei sogni e delle ambizioni.

Abbiamo intervistato alcuni di loro riunendoli in quella che potrebbe essere una ipotetica “Abruzzo Big Band”.

Da pagina 18 le risposte alle nostre domande: 1. Che cos’è e che cos’è stato Pescara Jazz per la nostra realtà musicale e, in particolare, jazzistica?

2. Cosa ha rappresentato per te il festival e come questa “presenza forte” ha influenzato la tua carriera?

3. Il concerto più rappresentativo visto al festival?

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Tutto Fumo e molto Jazz Ci voleva fiuto oltre 40 anni fa per presagire che un festival jazz avrebbe avuto tanto successo. Accreditato tra i più autorevoli d’Europa e seguito da tanti appassionati e non solo, il Pescara Jazz è oggi la manifestazione più longeva e frequentata dell’estate abruzzese Testo e foto Claudio Carella

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li italiani cantavano “Zingara”, la canzone vincitrice del Festival di Sanremo del 1969 presentata da Bobby Solo e Iva Zanicchi. In pochi conoscevano un tal Bill Evans, che il 18 luglio dello stesso anno apriva i battenti del primo Festival Internazionale del Jazz di Pescara che sarebbe diventato il più longevo tra i festival jazz italiani, tra i più autorevoli e seguiti d’Europa.

«Direi piuttosto che è uno dei festival più importanti del mondo. Finito quello di New York e quello di Newport, rimangono festival europei come Montreaux, Nizza, l’Aja e il nostro».

A precisare è Lucio Fumo, patron, anima e corpo del Pescara Jazz Festival, che quest’anno festeggia 41 edizioni in 44 anni.

E Umbria Jazz?

«Umbria Jazz è nato nel 1973, dopo il Pescara Jazz. Carlo (Pagnotta, il patron della manifestazione umbra, ndr) veniva a Pescara nel ’69, ’70, ’71 e dopo aver visto il festival qui partorì l’idea di Umbria Jazz. Ho da sempre ottimi rapporti con lui. Addirittura nel ’73, per la loro prima edizione, ci portarono migliaia di depliant, e noi li distribuimmo al nostro pubblico. L’unica differenza sta nel fatto che Umbria Jazz ha avuto da subito sponsor come la Perugina e appoggi istituzionali piuttosto consistenti cui ha fatto seguito una politica regionale che ha puntato tutto su Umbria Jazz e sul Festival dei Due Mondi di Spoleto. Che, peraltro, fu inizialmente proposto da Gian Carlo Menotti all’Abruzzo».

Ma cos’è il Pescara Jazz? «Èsenzaalcundubbiolamanifestazionepiùimportantechel’Abruzzo possa vantare nel campo dello spettacolo e della musica....»

E L’Aquila? Il Teatro Stabile,L’Istituzione Sinfonica,i Solisti Aquilani...

«Certo. L’Aquila ha cominciato a fare manifestazioni culturali molto prima di Pescara e ha creato le grandi strutture che lei giustamente ricorda. Però credo sia giusto sottolineare che la consi-

stenza dei finanziamenti pubblici, regionali soprattutto, erogati alle strutture aquilane anche con leggi dedicate è stata sempre imparagonabilmente maggiore della quota riservata a noi. Mi sembra però incontestabile che nessuna manifestazione abruzzese abbia la risonanza mediatica e l’incidenza sociale ed economica di Pescara Jazz. A parte i 44 anni e le 41 edizioni, che basterebbero a dimostrarne il valore, è che a Pescara sono passati tutti i mostri sacri del jazz, da Duke Ellington a Miles Davis, da Ella Fitzgerald a Oscar Peterson, da Sarah Vaughan a Herbie Hancock».

I più grandi nomi della scena americana. E anche negli USA l’eco del festival si fa sentire.Quest’anno,come nel 2012,avete presentato l’evento insieme al main sponsor, Cantina Tollo…

«Sono stato recentemente a Chicago e a New York, dove ti rendi conto che se qualcuno conosce Pescara è grazie al Festival Jazz. Un anno andai con mia moglie a New York e decisi di fare un salto a sentire Clark Terry in un locale. Appena entrati fummo accolti da un sonoro “Ciao, Pescara!”. Era Oliver Jackson, il batterista, che aveva passato una settimana a suonare in provincia: il mio nome non lo ricordava ma ricordava benissimo Pescara. Questo entusiasmo si sente anche durante le conferenze stampa fatte a Chicago e New York.

Il sostegno di Cantina Tollo è stato per noi fondamentale specie negli ultimi due anni, con la crisi economica e la Regione che ha tagliato dell’80% i fondi attribuiti all’Ente Manifestazioni Pescaresi, e il Comune di Pescara che è in grosse difficoltà. Senza l’aiuto di Cantina Tollo probabilmente saremmo stati costretti a fermarci. Solo da due anni peraltro la Regione ha cominciato a darci attenzione, finanziando la promozione del festival negli USA e associando all’evento la promozione delle nostre eccellenze enogastronomiche.

• Lucio Fumo, direttore del Festival Jazz di Pescara

• Lucio Fumo col suo braccio destro Mary Cipriani. Nelle foto a destra alcuni incontri storici: con Keith Jarrett (sopra) e, sotto, con Elvin Jones.

Quest’anno è tornata a farsi sentire anche la Provincia, che ha voluto partecipare alla missione a New York e ha anche ripristinato la sezione del Festival “Jazz in Provincia”, che negli anni Settanta è stato un punto di forza del festival».

Insieme alle famose “Jam sessions”.

«Irripetibili esperienze, quelle. Erano i primi anni del Festival, e i musicisti non avevano tour intensissimi, per cui si trattenevano qui anche due o tre giorni. Erano alloggiati tutti all’Esplanade, e improvvisavano tra di loro nella cave dell’hotel. Roy Eldridge una sera mi disse che non avrebbe partecipato perché il mattino dopo aveva l’aereo per Milano. Restò un po’ con me al bar, poi sparì e io pensai che fosse andato a dormire. Dieci minuti dopo scendeva le scale con la tromba, improvvisando sul pezzo che stavano suonando gli altri musicisti, e suonò fino alle sei del mattino; lo accompagnai all’aereoporto giusto in tempo per prendere il volo. In quella saletta sono passati Chet Baker, Dexter Gordon, Charlie Mingus: gente che viveva di jam sessions. Ma noi abbiamo fatto suonare in quei contesti anche Oscar Peterson, John Lewis, personaggi che quel genere di situazioni non le vivevano mai. Ma lì si sedevano al pianoforte e suonavano per tre ore di fila».

Parla da appassionato. Ma a lei il jazz è sempre piaciuto?

«Io sono cresciuto in mezzo alla musica: da piccolo vivevo con una zia che aveva due figlie, una pianista e una soprano. Fu proprio mia cugina a portarmi con sé quando ebbe una particina all’Opera di Roma, avevo cinque o sei anni: sedevo dietro le quinte in teatro, tornavo a casa e mi immergevo nell’ascolto dei 78 giri di lirica e classica. Sempre lei mi iniziò allo studio del pianoforte, che abbandonai appena lei si sposò trasferendosi a Bari. Il

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jazz l’ho scoperto da adolescente, a 14 anni, ed è diventata la mia passione insieme alla musica sinfonica».

Come è cominciata l’avventura del Pescara Jazz?

«Iniziò in seguito al successo dei concerti di grande risonanza che, sporadicamente, avevo organizzato a Pescara con la Società del Teatro e della Musica. Il giorno dopo il concerto di Duke Ellington al Massimo (e che veniva dopo quello di Oscar Peterson), mi chiamò Diego De Sisto, l’allora presidente dell’Azienda di soggiorno, proponendomi di organizzare un festival Jazz. Mi disse che poteva mettermi a disposizione l’area delle Naiadi, e che io avrei dovuto occuparmi solo di organizzare il tutto. Era il settembre 1968.

Una settimana dopo andai a Bologna, dove suonava Bill Evans, e lo contattai per l’evento d’esordio. Lì conobbi anche Alberto Alberti, che rappresentava in Italia George Wein, uno dei più importanti manager statunitensi. Tramite lui ho avuto a disposizione tutti gli artisti più famosi del mondo. Wein, più tardi, fondò anche il festival di Nizza, e questo ci diede l’occasione per fare il famoso “Jazz in provincia”: lui scritturava gli artisti per quindici giorni, così loro facevano una settimana a Nizza e una qui a costi accettabili».

Il suo concerto preferito?

«Nella mia memoria una delle serate più entusiasmanti fu quella del 16 luglio 1973, quando sul palco delle Naiadi ospitammo Keith Jarrett e Miles Davis. Ricordo che dalle tre del pomeriggio da ogni treno che giungeva in stazione scendevano circa cento, centocinquanta ragazzi che venivano all’Azienda di soggiorno col sacco a pelo in spalla a comprare i biglietti. Dovemmo far aprire la Siae e farci dare altri blocchetti, avevamo esaurito i tagliandi. Quella sera alle Naiadi c’erano 4mila persone a fronte di 2mila posti. Fu una festa enorme con persone giunte da tutta Italia. Senza voler sem-

• Altre immagini dagli archivi di Pescara Jazz: da sinistra in alto, Lucio Fumo con Michel Petrucciani; con Caetano Veloso; con Johnny Griffin; con Natalie Cole.

brare irriverente, fu una specie di piccola Woodstock. Quest’anno a New York, dove sono stato per promuovere la nuova edizione, c’era Mauro Pagani (lo storico membro della Pfm e collaboratore di De André, nonché direttore artistico di Sanremo, ndr) che durante la cena di gala è venuto a salutarmi e mi ha detto “io ti devo il più bel concerto della mia vita: Keith Jarrett e Miles Davis a Pescara, venimmo in 10-15 persone da Roma; un concerto così bello non l’ho mai visto e credo che non lo rivedrò mai più”. Ma anche il concerto di Ella Fitzgerald due anni prima fu eccezionale».

Com’era la grande Ella?

«Andai a prenderla in albergo a mezzanotte con la mia macchina. Era con Norman Granz e si sedette vicino a me, davanti. Non ci vedeva già quasi più, per entrare in macchina si fece aiutare.

Quando Granz le disse che il driver era il direttore del festival lei mi chiese se fosse adatto un repertorio più impegnativo o più popolare, mi chiese consigli sulle canzoni da eseguire. Incredibile che un personaggio del genere domandasse a me cosa cantare e soprattutto che si ponesse ancora questo problema dopo tanti anni sulla scena. Ella cantò fino alle due di notte, alla fine Granz fu costretto a trascinarla via dal palco. La mattina dopo la riaccompagnai all’aeroporto e il giorno successivo lessi sul giornale che era stata ricoverata a Nizza: il diabete le aveva portato via la vista».

Quali sono stati i personaggi più memorabili?

«Alcuni li ricordo per la loro disponibilità, altri per motivi meno nobili. Bob Dylan, ad esempio, aveva un cordone di sicurezza enorme che lo rendeva praticamente inavvicinabile; entrò in albergo alle 6,30 del mattino coprendosi il volto con un giornale per non farsi riconoscere. Duke Ellington, invece, era disponibilissimo: lo incontrai per pochi minuti, il tempo di farmi fotografare

con lui davanti all’ingresso del Singleton. Un anno e mezzo dopo lui suonava a Bologna e io andai a sentirlo. Mi presentai al camerino con la fotografia in mano e gli chiesi di autografarla. Mentre scriveva mi chiese:“Quando mi fai tornare a suonare a Pescara?”».

E Chet Baker com’era?

«Mi sono sempre chiesto come facesse a suonare uno con una tale dipendenza da sostanze tossiche. È venuto qui quattro volte, non ha mai mostrato nessun segno della sua tossicodipendenza. Non era molto incline a fare conversazione spontaneamente ma non si sottraeva ai fans, era dolcissimo e disponibile. L’ultima sua partecipazione al Pescara Jazz fu una scommessa: era stato arrestato, gli avevano rotto tutti i denti, aveva trascorso cinque anni senza suonare. Tra mille difficoltà anche legali riuscii a portarlo qui e fu un evento dall’eco fortissima: addirittura ci dedicarono la copertina riviste popolari come Gente e Oggi, che con la musica non avevano nulla a che fare, titolando “Il ritorno di Chet Baker in Italia”. Quella sera venne a piovere e dovemmo trasferirci allo stadio, dotato di palco e tribune coperte. Sette, ottomila persone, un gran brusìo, ma alla prima nota calò tra il pubblico un silenzio rotto solo dagli applausi alla fine di ogni brano. Era uno che ti conquistava, Chet».

Invece Miles Davis?

«Era inavvicinabile, teneva tutti a distanza. E fu protagonista di un brutto “dietro le quinte” all’Esplanade, combinò un gran casino… era mezzo svenuto, dovetti chiamare un mio amico medico che lo rimise in sesto. La seconda volta che venne, eravamo alle Naiadi: finito il concerto si rimise subito in macchina davanti ai camerini, con l’autista che aspettava che si aprisse

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qualcosa di più della “semplice” maestria tecnica, della padronanza dello strumento».

Abbiamo già chiarito cosa sia stato per Pescara e per l’Abruzzo il Festival Jazz. Ma cosa ha rappresentato per Lucio Fumo?

(Lo sguardo, finora impenetrabile e serio, del direttore artistico per un momento lascia trapelare un bagliore, una lama di luce, un’emozione; un’esitazione, poi un colpo di tosse e nella sua voce si avverte un cambiamento). «Per me… diciamo… che io mi sono un po’ identificato col festival, sebbene mi sia occupato anche di teatro e di molte altre cose. A Chicago, l’anno scorso, durante la presentazione del Festival qualcuno mi ha chiamato “Lucio Fumo, the legend”, come a sottolineare che sto ancora qui da 45 anni, che ormai sono tutt’uno con la manifestazione».

• Lo staff del Pescara Jazz: da sinistra Mary Cipriani, Fabio Ciminiera, Giancarlo Alfani, Christian Sulpizio, Lucio Fumo, Aldo Franceschini

il cancello per andar via. Lui era dietro, da solo, con lo sguardo fisso nel vuoto. Assente. Tanto io che il suo tour manager italiano restammo a guardarlo senza avvicinarci. Del resto cosa avrei dovuto dirgli? Era Miles Davis».

Altri aneddoti?

«Mingus era un altro tipo strano: venne qui per quattro giorni, durante i quali trascorremmo molto tempo insieme, tra una jam session e una festa, una cena a pasta e fagioli e una bevuta. Una settimana dopo era a Perugia, al festival, e c’ero anch’io.

Eravamo nello stesso albergo. Mi avvicinai per salutarlo, e mi passò accanto come se non mi avesse mai conosciuto. La cosa si ripetè per due giorni. Poi, d’improvviso, al terzo giorno, era seduto nella hall dell’albergo, e lui mi salutò: “Ehi, Fumo!”. Ci sedemmo insieme e parlammo come vecchi amici».

Il Festival è stato anche l’occasione per molti di scoprire il jazz come forma espressiva. Grazie alla manifestazione sono nati tanti musicisti in Abruzzo. Qual è il rapporto tra Pescara Jazz e queste giovani leve?

«Farò un esempio. Dieci anni fa facemmo un workshop a Pescara con il Columbia College di Chicago. L’anno scorso siamo andati a Chicago portando un quintetto composto da musicisti che dieci anni prima avevano partecipato al workshop vincendo una borsa di studio. I nomi sono Max Ionata, Claudio Filippini, Maurizio Rolli, Nicola Angelucci e Giancarlo Alfani.

A parte Alfani che suona per diletto ma fa un altro mestiere, gli altri sono musicisti di carriera, e sono tra i migliori in Italia.

Insomma, il Festival ha senz’altro fatto germogliare una terra che era già fertile, e i frutti si vedono».

Qualche nome locale che si possa paragonare ai grandi del jazz?

«I nostri migliori musicisti sono ancora giovani per poter fare paragoni. A parte Rolli, che ha una carriera avviata ormai da tempo, di sicuro tra quelli che ho ricordato Max Ionata e Claudio Filippini sono tra i più promettenti».

E Michele Di Toro? «È un altro che promette bene, ma secondo me deve fare una scelta chiara tra jazz e classica. Ha una gran tecnica, questo è certo, ma per diventare veramente grandi ci vuole sempre

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Antonio De Nicola Gong Music WorkShop Non un semplice negozio, ma un vero e proprio “Music WorkShop”, come recita la sua insegna: un luogo d’incontro, di studio, di conoscenza, punto di riferimento per tutti gli appassionati di jazz.

Gong, in via Palermo a Pescara, è guidato da Antonio Di Nicola, grande appassionato e cultore del jazz, che conosce molto bene la scena internazionale e segue fin dall’inizio il Festival Jazz cittadino.

«Un festival che inizia con un concerto di Bill Evans si presenta con un biglietto da visita che ne garantisce la qualità per il futuro. Per come è stato strutturato, per gli artisti che ha ospitato, per il significato che ha avuto sia per gli addetti ai lavori e per gli appassionati, è stato per lungo tempo faro e prestigio a livello internazionale», dice della manifestazione. «Qualche volta è mancato il coraggio di iniziare nuove strade, altre volte ne ha avuto tanto (basti pensare che fin dagli anni ‘70 nei cartelloni figurava un gruppo italiano). In ogni caso, considerato che non si è riuscita a creare nel corso degli anni una Fondazione che ne curasse l’immagine e la programmazione continua, è quasi un miracolo che sia riuscito a durare tanti anni». L’impatto di Pescara Jazz nel panorama culturale e sociale della regione, sottolinea Di Nicola, è stato comunque determinante: «Più culturale che sociale, in quanto è riuscito ad attirare verso la musica ed il jazz in particolare, un incredibile numero di giovani creando curiosità ed interesse verso questa musica. Credo che la percentuale di musicisti professionisti nati all’ombra del Festival non abbia confronto con nessuna regione d’Italia in rapporto al numero di abitanti». Il Festival, aggiunge, «Ha rappresentato per me una crescita culturale e professionale oltre ad una opportunità economica. Inoltre i momenti di socializzazione sono stati intensi e duraturi». Ma qual è il concerto che lo ha più colpito? «Indelebile è stato, nel 1987, oltre mezzanotte alle Naiadi sotto una pioggerellina insistente che aveva ridotto il pubblico, l’ultimo concerto dell’ultima serata, il Trio di Herbie Hancock con Buster Williams e Al Foster.

Notte magica! Al pensiero mi vengono ancora i brividi».

Cantina Tollo

Sulle note del gusto Per il secondo anno la più grande realtà enologica abruzzese sposa l’evento più atteso dell’estate.

Un sostegno fondamentale che ribadisce ancora una volta l’importanza delle sinergie tra pubblico e privato

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randi vini, grandi eventi. Dopo il clamoroso successo dello scorso anno Cantina Tollo torna a sponsorizzare una manifestazione di enorme interesse culturale come il Pescara Jazz Festival, “bagnando” la rinnovata collaborazione con una nuova bottiglia: il Sei%, vino a bassa gradazione alcolica che, insieme al suo predecessore, il Rosso 409, fa parte della linea “I vini del Jazz” che Cantina Tollo dedica agli appassionati di questa intramontabile musica. Ma da cosa nasce la collaborazione tra queste due eccellenze regionali?

«Nasce dall’amore per il nostro territorio –spiega Tonino Verna, presidente di Cantina Tollo– e dalla volontà di valorizzarlo il più possibile attraverso due eccellenze: la musica e il vino. Unendo il marchio Cantina Tollo ad un evento di grande tradizione musicale come il Pescara Jazz Festival intendiamo far conoscere non solo i nostri vini, ma anche mete turistiche abruzzesi che hanno necessità di essere promosse al grande pubblico, come la Costa dei Trabocchi e gli Eremi Celestiniani».

In un momento di crisi economica la cultura riesce a sopravvivere solo grazie all’intervento privato, che si fa carico oltre che dello sviluppo economico e occupazionale, anche dell’aspetto prettamente culturale, la valorizzazione del territorio abruzzese.

«Certamente, l’intervento di soggetti privati in manifestazioni culturali è sempre più auspicato dai promotori, tanto più quando si tratta di eventi di risonanza internazionale come il Pescara Jazz Festival. Bisogna tuttavia ricordare che il sostegno di Cantina Tollo al Festival è un ottimo biglietto da visita per una realtà che vuole

• Qui sopra Tonino Verna, presidente di Cantina Tollo.

Sotto, il nuovo nato “SEI%”

crescere senza dimenticare le proprie radici, che sono e saranno sempre in terra abruzzese».

Il jazz come cultura, il vino come tradizione. Un messaggio che ha raggiunto anche gli Stati Uniti.

«La cultura non ha confini giusto? Senza dimenticare che il vino è un ottimo strumento di comunicazione internazionale. Il segreto del nostro successo è tutto qui, come racconterà nei giorni del Festival la madrina Simona Molinari, abruzzese d’origine, che ha presentato la manifestazione anche a New York in compagnia dei vini Cantina Tollo».

A tal proposito, il 2012 è stato l’anno del “409”, il 2013 è quello del “Sei %”. La musica fa germogliare nuovi prodotti?

«Direi proprio di sì, basti pensare al piacere di ascoltare musica degustando un bicchiere di vino. Nel nostro caso abbiamo sfruttato la sinergia con il Pescara Jazz Festival per creare dei vini ad hoc, i vini del jazz, espressione di una tradizione fortemente legata alla terra.

Sia il Rosso 409 che il SEI% racchiudono il gusto del territorio abruzzese e sono quindi perfetti per le serate del Pescara Jazz Festival.

Un esempio? In occasione del concerto della Glenn Miller Orchestra di venerdi 26 luglio offriremo un cocktail party a base del mosto parzialmente fermentato SEI%. In generale vogliamo che i nostri vini siano la cornice di gusto del Festival. Per questo abbiamo organizzato aperitivi e cene d’autore con degustazione, le serate “Round Pescara Jazz”. Fra musica e vino il nostro obiettivo è sempre lo stesso: promuovere l’Abruzzo che piace».

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Simona Molinari

La felicità?

Cantare a Pescara Jazz Ormai diventata una star internazionale,

apprezzata anche negli USA per il suo originale electroswing, la giovane e bella cantautrice aquilana sbarca al Festival Jazz di Fabrizio Gentile

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l Pescara Jazz del 1972 è ricordato come quello di Ella Fitzgerald. Negli anni Ottanta fu la volta di Sarah Vaughan (e, nel 2007, fu Natalie Cole a incantare il pubblico del Teatro D’Annunzio). Quella del 2013 è stata, per la prima volta, l’edizione di una cantante italiana, perdipiù abruzzese: Simona Molinari.

Che emozione hai provato a salire sul più antico palco del jazz italiano, fra i più prestigiosi in Europa?

«Una grande gratificazione e soddisfazione. Ho calcato altri palcoscenici da mozzare il fiato, l’Ariston per esempio, o l’Arena di Verona. Ma il D’Annunzio ha per me un valore speciale: i concerti che vi ho ascoltato (penso in particolare a quello di Natalie Cole, e quello di Ornette Coleman che mi hanno colpito di più) hanno influenzato il mio modo di fare musica».

Il tuo è un jazz moderno, non tradizionale: spesso ti cimenti in generi diversi, sei eclettica. A te come piace definirti?

«Prima di tutto cantautrice. Scrivo le mie canzoni, e quando scrivo sono chiaramente influenzata da tutto quello che mi piace e quello che ho ascoltato, in particolare dal jazz; ma in questo momento, ad esempio, dall’electroswing. Direi che sono una cantautrice che strizza l’occhio al jazz. Nel mio ultimo disco, Dr Jekyll Mr Hyde, l’introduzione dell’elemento elettronico è frutto dell’intenzione di voler dare uno scossone a questo genere per renderlo fruibile anche dalle nuove generazioni».

Ma una voce “bianca” può essere una voce Jazz?

«Sì, assolutamente. Una volta ero a Hong Kong, impegnata in una jam session con un cantante di colore, e mi trovai in difficoltà quando cominciarono un brano che io non conoscevo. Il cantante mi rispose che la musica non ha colore, non ha lingua, e che se canti con l’anima puoi farti capire dal mondo intero».

Del resto ci sono voci italiane che a modo loro hanno attraversato spesso il confine tra pop e jazz. Ornella Vanoni, ad esempio, con la quale hai anche collaborato, e naturalmente Mina. A chi ti ispiri?

«Beh, prima di arrivare ad essere come loro ho davanti ancora un bel po’ di strada da fare! Comunque sono state due colonne della musica italiana, e paragonarle è un po’ come fare il confronto tra Billie Holiday e Ella Fitzgerald: una ha più cuore, l’altra più tecnica. Certamente mi piacerebbe essere un mix delle due».

E tra i mostri sacri del jazz internazionale?

«Vado a “momenti”. In questo periodo ascolto parecchio Ella Fitzgerald. Che peraltro venne a Pescara 40 anni fa, quando non ero ancora nata. Ma Lucio Fumo mi ha raccontato tanti aneddoti legati a lei e agli altri personaggi. Credo che Lucio abbia fatto un grandissimo lavoro, portando a Pescara tutti i grandi del jazz, coinvolgendo nella sua passione un’intera città».

E ha anche il merito di aver fatto crescere artisticamente un gran numero di musicisti.

«Certo, io per prima. E due musicisti della mia band: Fabrizio Pierleoni (contrabbasso) è di Celano e Fabio Colella (batteria) di Trasacco. Ma anche molti altri, tanto da poter costituire una “Abruzzo Big Band” di altissimo livello che spopolerebbe ovunque».

Come a New York, dove la tua esibizione quale madrina del festival ha riscosso un grande successo. «È stato emozionante, molto bello anche perché avevo un pubblico completamente nuovo per me. Io ho suonato a Toronto, a Montreal, ma non ero mai stata prima negli Stati Uniti. Mi sono meravigliata di quanta attenzione, quanto rispetto mostrassero anche per una perfetta estranea come la sottoscritta. Ed è stato un primo passo verso il tempio del jazz newyorkese, il Blue Note, dove suonerò a dicembre con tutta la band».

Qual è il rapporto di una jazzista italiana con la patria del jazz, gli USA? «Mi sono presentata per ciò che sono: una cantautrice, con la mia musica. Non ho cercato di fare ciò che fanno i grandi del jazz americano, non ho voluto imitare nessuno, né omaggiare la loro cultura proponendo gli standard. Ho presentato il mio repertorio, nello stesso identico modo con cui mi esibisco a Verona come a Tokyo. Io ci tengo, quando vado all’estero, a cantare nella mia lingua e a portare le mie canzoni».

E le tue origini. Cogli spesso l’occasione per parlare della tua città, L’Aquila, e del dramma che ha vissuto e sta ancora vivendo.

«Lo faccio ogni volta. Alcune delle mie canzoni le ho scritte proprio all’indomani del terremoto. Approfitto di ogni possibilità per ricordare questa città e quel che è successo, perché credo che sia giusto; anche se non ho un’idea precisa di come questo possa aiutare realmente la mia città, che ha sofferto per cose che non dipendono, purtroppo, solo dagli uomini».

• Simona Molinari in concerto.

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Abruzzo Big Band Michele Di Toro Pianoforte

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1. Mi fa molto piacere che una città come Pescara abbia un festival jazz di risonanza internazionale ormai da molti anni. A mio avviso dovrebbero essere valorizzati maggiormente i tanti progetti interessanti di molti musicisti abruzzesi. Sarebbe una bella occasione per confrontarsi con i “grandi”. Per la mia regione sto cercando di dare un forte e continuo contributo artistico in quanto amo molto la mia terra e credo sia giusto e doveroso per un artista far sentire la propria voce in primis alla sua gente.

2. La mia carriera è stata certamente anche influenzata dall’occasione di poter ascoltare grandi della musica jazz nel mio territorio. Ha contribuito all’arricchimento della mia anima di artista.

3. Se proprio devo sceglierne uno direi Chick Corea in tutte le salse.

Fabio Colella Batteria

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1. Il Pescara Jazz Festival è senza dubbio tra gli eventi più importanti d’Italia in questo ambito musicale e questo permette agli abruzzesi di assistere a concerti di qualità altissima senza dover fare lunghi viaggi. In più rappresenta una sponsorizzazione di rilievo a favore della nostra bellissima e poco conosciuta regione.

2. Il festival ha permesso di far crescere nel pescarese e, più in generale in Abruzzo, l’interesse verso il jazz. Questo fattore ha sicuramente favorito la mia crescita artistica e quella di molti musicisti abruzzesi, ormai tra i più apprezzati della penisola.

3. Ricordo con molto piacere il concerto di Pat Metheny con Christian McBride e Antonio Sanchez.

Luca Bulgarelli Contrabbasso

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1. È sicuramente l’evento più importante della regione, dell’Italia e non solo. Billboard cita fra i numerosi festival mondiali quello di Perugia e quello di Pescara, che è il più antico festival jazz d’Italia.

2. Un’importanza determinante nella mia carriera. Ho avuto la fortuna di ascoltare concerti e musicisti fantastici proprio mentre iniziavo a studiare il jazz. Ho avuto l’onore di suonarci nel 1997 con Tony Pancella e nell’edizione del 2004 con Sergio Cammariere assieme a Toots Thielemans e Fabrizio Bosso. Poi ho suonato anche a Jazz’n’Fall nel 2002 con i chitarristi Mundell Lowe, Philippe Catherine e John Pisano e con Enrico Pieranunzi nel 2006.

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interviste a cura di Fabio Ciminiera 3. Tantissimi concerti ma ricordo affettivamente e con grande emozione quello del Pat Metheny Group nell’estate del 1991.

Carmine Ianieri Sassofoni

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1. Il festival ha un ruolo tanto importante che a volte, nonostante gli sforzi fatti in tutti questi anni, fa fatica a ricoprire un compito così arduo e impegnativo. Immagino un futuro Pescara Jazz Festival come un’apoteosi di musica, in tutta la città, in ogni luogo, più volte al giorno e per più giorni. Lo vedo come la festa di una intera città, di una intera regione.

2. Il festival mi ha dato modo di conoscere la musica, quella dal vivo, all’aperto, alla luce del sole, letteralmente. Mi ha dato modo di scoprire il mio sogno: suonare. Ho avuto la possibilità di essere parte attiva di questo grandioso evento in più occasioni, l’ultima sul palco centrale con l’orchestra di Maurizio Rolli insieme a Bob Mintzer e Peter Erskine nel 2009.

3. Il concerto di McCoy Tyner, 1986, in trio con i New York All Stars.

Bepi D’Amato Clarinetto/Sassofoni

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1. Il festival ha costituito un apporto culturale di valore incalcolabile; inoltre, specialmente di questi tempi, possiamo guardare alla sua storia come ad un esempio di soldi pubblici spesi bene.

2. Se non ci fosse stato Pescara Jazz io non avrei conosciuto personalmente Tony Scott a 11 anni, non avrei stretto la mano a Woody Herman a 15. Sicuramente nella prassi esecutiva, gli americani, anche quelli più radicali, hanno avuto sempre una concezione spettacolare del jazz, anche quando voleva essere una rivendicazione. Credo di aver imparato molto da questo e il pubblico mi dice che si avverte nei miei concerti, nel modo di porgermi agli spettatori, persino nella maniera di vestire.

3. Dopo aver sentito in un festival tutti i mostri sacri che sono venuti a Pescara, noi musicisti non possiamo fare altro che ringraziare Lucio Fumo e i suoi collaboratori, perché altrimenti questa gente a Pescara non sarebbe mai venuta: una cosa sono i dischi e i libri, un’altra l’esperienza dell’evento dal vivo e le Naiadi sembravano davvero Newport. Aver sentito tutti questi musicisti da ragazzino è stata davvero un’esperienza che ti resta dentro: sicuramente il concerto di Tony Scott nel 1971 con Romano Mussolini alla Camera di Commercio, anche se non era parte del festival estivo, e quello di

Woody Herman nel 1974 alle Naiadi sono state esperienze indimenticabili.

Alessia Martegiani Voce

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1. Pescara jazz è il festival jazz in Abruzzo.

Porta nella memoria di ogni appassionato una serie di racconti mitologici, gloriose serate con personaggi incredibili, incontri indimenticabili.

2. Ho cominciato a seguirlo nel 1994, poco più che adolescente. È stato fondamentale per capire che avrei voluto e potuto fare la cantante e proprio in quel modo lì. Il concerto della Ghiglioni con il Tenco Project mi folgorò! Anni dopo anche gli Oregon e Carla Bley mi indicarono un cammino buono per la mia evoluzione stilistica.

3. La serata dedicata idealmente ai Weather Report, con Shorter nel primo set e Zawinul nel secondo, un incanto assoluto.

Claudio Filippini Pianoforte

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1. Il Festival di Pescara è senza dubbio uno dei beni culturali più importanti che abbiamo. Ho cominciato a seguirlo a fine anni ‘90, e forse mi sono perso il meglio: oggi le cose sono un po’ cambiate, bisogna fare i conti con i numerosi tagli alla cultura e allo spettacolo. La speranza è che Pescara Jazz continui per la sua strada a testa alta offrendo sempre musica di qualità, magari valorizzando di più i musicisti italiani.

2. Grazie al festival io mi sono perdutamente innamorato del jazz: è diventato la mia passione, il mio lavoro e il mio modo di vivere. Può bastare?

3. Il primo concerto jazz della mia vita, un quintetto con Benny Carter, Johnny Griffin e Tommy Flanagan. Meravigliosa fu poi l’edizione del ‘99: ho visto Elvin Jones, Joe Lovano, Bobby McFerrin, John Scofield, Herbie Hancock e molti altri.

Gianni Ferreri Tromba

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1. Il Festival jazz di Pescara è sempre molto interessante ed appassionante. Ha permesso a noi musicisti, e non solo, di conoscere ed ascoltare dal vivo artisti nazionali ed internazionali di altissimo livello.

2. Il festival di Pescara mi ha dato sempre stimoli nuovi per andare avanti e migliorarmi e mi ha permesso anche di avviare collaborazioni con tanti musicisti.

3. Sicuramente Dizzy Gillespie con la sua big band, visto che io sono trombettista, ma ho apprezzato anche tantissimi altri concerti in tutti questi anni.

Le foto sono di Fabio Ciminiera e di Andrea Buccella (39), Elio Colella (32), Fabio Conti (33), Fabrizio Cirulli (2), Marcella Cistola (36), Maya Hed (23), Paolo Jammarrone (24, 31), Marcin Juszczak (14), Federica Nico (21), Alessandro Pizzarotti (37), Stefano Schirato (16), Marina Sgamato (19), Franco Truscello (3), Vinicio Tullio (10).

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Abruzzo Big Band Marco Di Battista Pianoforte

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1. Una manifestazione, quella del festival jazz di Pescara, che per i pregressi storici e la realtà presente mi viene da associare alla figura, recentemente scomparsa, del pianista Dave Brubeck, un musicista che esordisce sperimentando per poi allontanarsi gradualmente dal cuore dei significati africani del jazz. Una kermesse importante per la regione, che con le sue sortite in provincia ha connesso, soprattutto nel passato la realtà urbana di Pescara con quella rurale dei paesi della provincia, favorendo antropologicamente un dialogo artistico-espressivo basato non solo su questo aspetto ma anche su una ricaduta economica per i piccoli centri.

2. Il festival mi ha permesso, nel periodo della mia formazione musicale, di trovare riscontri e conferme su quanto congetturavo nello studio del pianoforte, mi ha permesso di entrare in un contatto esperienziale e diretto con i musicisti “modello” della mia formazione. Il festival non ha inciso sulla mia carriera di musicista jazz, ma non posso esimermi dall’esprimere la mia gratitudine agli organizzatori che, in più di un’occasione, mi hanno permesso di parteciparvi.

3. Uno dei concerti di cui conservo un ricordo vivido è del 2008, quello della Maria Schneider Orchestra.

Cinzia Gizzi Pianoforte

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1. Pescara Jazz ha avuto un ruolo di primaria importanza nel panorama regionale, nazionale e internazionale del jazz. La programmazione, a mio avviso, ha saputo raccogliere in poche giornate i migliori artisti internazionali con particolare attenzione alla qualità più che alle mode.

2. Da giovane lo seguivo, ma non ero ancora coinvolta in questa musica. Tuttavia il fatto che in seguito, lasciata la mia città, abbia iniziato a frequentare gli ambienti jazzistici e abbia scelto di diventare musicista professionista, mi fa pensare che quegli incontri devono aver lasciato un segno importante.

3. Non saprei citare un concerto in particolare, ma sicuramente molti incontri entusiasmanti e di grande spessore artistico.

Toni Fidanza Pianoforte

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1. Credo sia riduttivo parlare di valenza “regionale” di Pescara Jazz: quel palcoscenico è stato calcato dai più importanti nomi del mondo. La crisi economica si può superare foraggiando di cultura il popolo, perchè non si vive di solo pane

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e Pescara Jazz è pane per il cervello.

2. Il Festival mi ha dato l’opportunità di ascoltare e vedere alcuni miei idoli che purtroppo ci hanno lasciato e che i più giovani avranno modo di ascoltare solo su cd.

3. Avevo 17 anni quando ho visto il concerto della Big Band di Dizzy Gillespie e quando gli ottoni si accordarono (per quarte giuste ascendenti) ricevettero un grandissimo applauso da parte del pubblico… vi lascio immaginare il concerto.

Diana Torto Voce

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1. Il Festival è stato ovviamente uno dei principali punti di riferimento per chi si occupa di jazz.

2. È stato molto importante nei miei anni di formazione, per avermi dato la possibilità di vedere e ascoltare alcuni dei migliori musicisti della scena americana, anche se poi mi sono occupata prevalentemente di jazz europeo.

3. Ho visto tanti bei concerti, ma forse quello più forte nei miei ricordi di giovane musicista è stato Lester Bowie nel ‘95.

Massimiliano Coclite Pianoforte

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1. Il festival ha indubbiamente rappresentato qualcosa di importante per Pescara e l’Abruzzo, è uno dei più longevi del mondo. Ultimamente alcune scelte artistiche sono state oggetto di discussione, forse si dovrebbe rischiare un pò di più e premiare magari musicisti non proprio da botteghino.

2. Onestamente, non ho mai frequentato molto i festival in genere e ho vissuto fuori regione fino al 2000. Ho studiato musica classica fino ad allora, il jazz, purtroppo, lo ascoltavo poco dal vivo.

Molti dischi, sì, ma live pochissimi.

3. Indubbiamente l’accoppiata Zawinul Syndacate e Wayne Shorter quartet.

Giancarlo Alfani Chitarra

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1. Per tanti anni il Festival Jazz di Pescara ha rappresentato per tutti i musicisti e gli appassionati della regione l’unico modo di poter ammirare jazzisti straordinari senza dover percorrere centinaia di chilometri. Ha una grandissima importanza nel panorama culturale abruzzese, ha avvicinato al jazz moltissimi pescaresi ed è un fenomenale attrattore turistico.

2. Pescara Jazz è stato doppiamente importante per me: da un lato mi ha dato l’opportunità di conoscere i migliori musicisti sulla scena internazionale, dall’altro mi ha spronato al suo studio attraverso la borsa di studio vinta nel 1999 in

occasione dei seminari estivi del festival.

3. Il concerto più “rappresentativo” per me è quello che ho avuto l’onore di tenere sul palco del Teatro D’Annunzio in occasione del Pescara Jazz 2009 con la Big Band di Maurizio Rolli e le guest star Peter Erskine e Bob Mintzer.

Maurizio Rolli Basso

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1. Il ruolo del Festival è sempre stato importante, per me e per tutti i musicisti con cui ho incrociato la mia strada negli ultimi 35 anni. Avere la possibilità di incontrare, conoscere, personalmente e artisticamente, i musicisti che vengono a presentare qui il loro lavoro è il momento più importante dell’anno per la comunità jazzistica e per la città.

2. Pescara Jazz, quando ero uno studente, era una sorta di parco giochi in cui andare a curiosare su cosa sapessero fare gli altri per aggiornarmi e ispirarmi. Da musicista di professione, è diventata una meta, una ambizione professionale: diventare abbastanza bravo da salire sul palco dove i miei idoli si sono esibiti. In questa terza fase della mia vita, professionale e non, il Festival è diventato un “tesoro”, un bene prezioso per la nostra città e per tutta la comunità abruzzese, sia quella dei musicisti che quella degli appassionati e delle persone che io definisco “curiose”.

3. Il primo che mi viene in mente è quello di Bob Mc Ferrin, ma direi una bugia se non ammettessi che il più importante della mia vita è stato quello della mia Rolli’s Tones Big Band nel 2009 con Peter Erskine e Bob Mintzer.

Piero Delle Monache Sassofoni

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1. Negli ultimi anni mi sono esibito spesso all’estero, e ho potuto constatare con piacere quanto il Festival sia conosciuto oltre i confini nazionali. Ecco, credo che il ruolo del Pescara Jazz sia soprattutto questo: offrire alla città una bella vetrina musicale e ai suoi cittadini un ottimo argomento di conversazione.

2. È stato molto importante, è anche grazie al Festival che mi sono innamorato del jazz. E poi, ho partecipato ai workshop organizzati insieme al Columbia College di Chicago, vincendo una borsa di studio che mi ha permesso di fare la mia prima esperienza negli USA. 3. Senza dubbio quello di Ornette Coleman nel 2007: un concerto strepitoso, molto stimolante, che ricordo ancora con piacere e che ritengo una delle mie fonti di ispirazione.

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Abruzzo Big Band Gianfranco Continenza 17 Chitarra 1. Sicuramente il mio giudizio è positivo. Forse l’unica pecca è che si è vista troppe volte la presenza di stessi artisti, anche se bravissimi.

L’Abruzzo si è giovato culturalmente, nel corso degli anni, di Pescara Jazz, anche se, a mio modesto parere, c’è ancora da lavorarci sopra.

2. Sin da ragazzino ho seguito dei concerti fantastici. Non credo questo abbia influenzato la mia carriera di musicista che è stata motivata sin da piccolo grazie a mio padre, che era un chitarrista jazz, facendomi ascoltare il meglio di questa musica sin dalla mia infanzia.

3. Miles Davis nel 1986, veramente fantastico!

Lorenzo Tucci Batteria

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1. Credo che Pescara Jazz sia una manifestazione importante per la nostra regione e per tutto il Centro Italia. L’Abruzzo ha bisogno e merita queste grandi manifestazioni. Personalmente ho notato un avvicinamento e di conseguenza un attaccamento a questo genere, grazie alla sua divulgazione attraverso il festival.

2. Il festival ha rappresentato molto per me, mi spostavo da Atessa con amici più grandi, io non guidavo ancora; chiaramente, da appassionanto e studente di musica, era un appuntamento che aspettavo con ansia tutto l’anno.

3. Wynton Marsalis Quartet. All’epoca Marsalis suonava un jazz molto innovativo e trascinante, più di quello che propone ultimamente.

Max Ionata Sassofoni

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1. Il Festival di Pescara è stato uno dei primi jazz festival in Italia, ha ospitato i più grandi jazzisti della storia e sicuramente ha contribuito allo sviluppo del jazz nel nostro paese, oltre che a divulgare la cultura jazzistica.

2. Il festival è stato fondamentale per la mia carriera artistica perché mi ha dato la possibilità di ascoltare concerti memorabili dai quali ho imparato moltissimo e, nel jazz, è fondamentale l’ispirazione scaturita dall’ascolto dei grandi.

3. Il concerto di Bob Berg, senza dubbio. Ero talmente eccitato che andai ad ascoltare anche il sound check, rimasi folgorato dal suo suono e dalla sua presenza. Non lo dimenticherò mai.

Carlo Morena Pianoforte

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1-2. Il Festival, per noi che seguiamo da anni il

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Jazz e per tutti coloro che lo hanno abbracciato come modus vivendi et pensandi, è stato fondamentale. Ha rispecchiato, ovviamente, umori, tendenze e gusti del mercato. E ad esso vanno aggiunti la stagione invernale della Luigi Barbara e la stagione estiva alle Naiadi, sia pure, quest’ultima, orientata verso forme musicali più popolari. Nel Festival sono passati nomi clamorosi, il cui elenco qui sarebbe superfluo. Senza esagerare, quel contatto ci ha portati a voler spalancare porte nuove. Fortunato chi ci è riuscito: Pescara ha sfornato, e continua a sfornare, dei bei talenti.

3. La prima edizione dopo la pausa di fine anni ‘70 è stata un vero e proprio spartiacque. Un gran segnale per dire che c’eravamo ancora. Il gruppo di Pieranunzi con Urbani come ospite fu una graditissima ventata di aria nuova. I nostri erano all’altezza della situazione.

Lorenzo Paesani Pianoforte

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1. Pescara Jazz è fondamentale, è un luogo di ritrovo che riunisce anno dopo anno musicisti abruzzesi che cercano la propria voce e portano avanti strenuamente i propri progetti nonostante le difficili condizioni in cui versa il Jazz in Italia.

2. Per me rappresenta un luogo di “scoperta” del sè che alimenta la nascita di nuove idee.

3. Wayne Shorter Quartet nel 2006, una vera e propria rivelazione che mi ha spinto nella direzione in cui sono adesso e mi ha dato coraggio e voglia di esprimermi.

Bruno Marcozzi Batteria

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1. Pescara Jazz ha una valenza molto rilevante per la regione e non solo: a livello artistico è stato sempre un Festival Jazz d’eccezione e poi, come sappiamo, è il festival più antico d’Italia! Sicuramente è, e rimarrà un “monumento” che non svanirà mai! Anzi, beati i più anziani che hanno goduto di un’epoca e di un linguaggio musicosociale a mio parere superiore a quello che viviamo oggi nel nostro paese.

2. Il festival per me innanzitutto rappresenta sicuramente l’Abruzzo a livello musicale ed essendo una “presenza forte” ha influenzato molto la mia carriera di musicista. Ci sono stati anni in cui suonavo meno e quindi avevo più possibilità di ascoltare i concerti. E questo per me diventava una fusione di tante cose, un viaggio continuo di mente e corpo, uno stimolo continuo di pensieri e di sogni, quindi in sintesi una vera e propria

lezione di vita.

3. Questa è una domanda molto difficile perché la bellezza del festival è proprio mettere a confronto le differenze musicali… spero che questa tradizione continuerà negli anni a venire.

Tony Pancella Pianoforte

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1. Qualunque manifestazione culturale è importante e va promossa e incentivata. Parlando di Pescara Jazz il “ruolo” sul territorio però non dovrebbe limitarsi alla “discesa dell’UFO” nei quattro giorni di luglio: quello che serve è una vera attività annuale della quale il festival dovrebbe essere solo il punto di arrivo. Si riuscirà a far comprendere al ragazzo o al signore della terza fila chi sia l’alieno, tale Wayne Shorter, sbarcato dall’astronave al Teatro D’Annunzio?

Ma questo purtroppo ha a che fare con la scientifica distruzione della cultura musicale in Italia e la sua estinzione dalla televisione. Rispettando il passato ma pensando al futuro spero in un festival che faccia sempre più produzione originale, meno “sfilate di moda”, che sia meno legato ai carrozzoni dove gli artisti si comprano a pacchetti da chilo, dove ci sia più coraggio nelle proposte artistiche, meno business e marchette.

2. Ho avuto la rara fortuna di suonare sul palco delle Naiadi nella “Piano Night” dell’edizione 1990 insieme a Marcus Roberts e a McCoy Tyner. Per me è stato l’inizio della carriera importante, una sorta di conferma dei successi personali avvenuti in quel periodo.

3. Miles Davis nel 1986.

Gianluca Esposito Sassofoni

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1. Il festival recita un ruolo fondamentale: molti giovani si sono avvicinati al jazz ascoltando i concerti, i linguaggi musicali elaborati dai vari interpreti, le jam session serali. Le serate del festival sono anche un ritrovo per tanti musicisti abruzzesi e non che si incontrano per condividere questa bellissima passione.

2. Il festival di Pescara è stata una tappa fondamentale per la mia carriera di musicista, sin da quando mio padre mi portava fin da bambino ai concerti. E si può dire che io sia nato col Pescara Jazz: l’anno scorso ho presentato Biancoscuro, il mio ultimo disco, proprio sul palco della 40ma edizione, che coincideva con i miei 40 anni.

3. Dovendone citare uno in particolare, ricordo di essere rimasto fortemente impressionato dal quartetto di Wayne Shorter.

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Abruzzo Big Band Marco Fumo Pianoforte

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1. È assolutamente innegabile che Pescara Jazz abbia svolto un ruolo fondamentale per la crescita culturale della nostra gente. Oggi Pescara e l’Abruzzo possono vantare musicisti di ottimo livello: senza il Festival forse non avremmo questa situazione. Da un po’ di anni, tuttavia, non si può disconoscere che a causa di situazioni economiche sempre più precarie, o di qualche carenza di scelte più coraggiose e originali, sia cominciata una specie di parabola discendente che si riflette sulla manifestazione nel suo complesso.

2. Per me il Festival ha rappresentato l’occasione di ascoltare dal vivo musica e musicisti di rara qualità e spessore, di conoscerne alcuni personalmente e, anche se non sono un musicista jazz, tutto ciò ha significato per la mia carriera un grande stimolo e una grande iniezione di entusiasmo.

3. Tra i più indimenticabili l’Orchestra di Duke Ellington, Sarah Vaughan e Bill Evans.

Raffaele Pallozzi Pianoforte

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1. Pescara Jazz è sicuramente uno dei primi festival per importanza, avendo ospitato i migliori musicisti della storia del jazz. Positivo quindi il suo impatto per la formazione dei musicisti abruzzesi che ricoprono un ruolo importante nella scena odierna, nazionale ed internazionale, e importante per la vita culturale della nostra regione.

2. Frequento Pescara Jazz dal 1983 e ricordo con piacere il pellegrinaggio con mezzi di fortuna, autostop e quant’altro, che portava me ed altri amici di Sulmona ai concerti delle Naiadi.

Oggi nel ricordo di quelle frequentazioni ritrovo la scintilla della mia passione per il jazz e comprendo anche tutta l’influenza che quegli ascolti hanno avuto sulla mia coscienza musicale.

3. Tanti: Hancock, Shorter, Miles, Gillespie, Corea, Petrucciani, Galliano, Ray Charles e altri ancora…

Mauro De Federicis Chitarra

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1. Il Festival Jazz di Pescara è un’istituzione. Pescara era un’importante meta per musicisti che hanno fatto la storia del jazz, e citarne solo qualcuno sarebbe fare un torto a tutti gli altri.

2. Sono fortunato ad avere due dischi che racchiudono le famose jam session, dove si respirava l’aria di un vero e proprio jazz club. Sento di ringraziare Lucio Fumo e tutti i suoi collaboratori per il grande operato di questi anni, per

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aver contribuito a divulgare sempre più quella che è stata la “forma d’arte” per eccellenza dello scorso secolo.

3. Jim Hall è stato l’artista che più mi ha impressionato tra i tanti.

Fabrizio Mandolini Sassofoni

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1. Sicuramente Pescara Jazz ha avuto un grosso impatto sulla mia formazione e penso che possa essere un vero contributo per chi si avvicina ad un percorso musicale e artistico.

2. I ricordi legati al festival sono belli perchè sposati alla mia adolescenza. Ci sono stati concerti memorabili: Miles Davis, Herbie Hancock, Michel Petrucciani e tanti altri. Tutte informazioni rese disponibili attraverso un’esperienza diretta altrimenti impossibile a quei tempi nel nostro territorio.

3. Sicuramente il trio di Herbie Hancock con Al Foster e Buster Williams, fu un “viaggio”!

Manuel Trabucco Sassofoni

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1. Frequento il Festival da 12 anni e penso che dal punto di vista culturale sia stato fondamentale. Se penso ai musicisti che mi hanno preceduto e che hanno vissuto un’epoca in cui era più difficile ascoltare jazz, il festival ha contribuito ad alimentare la passione per il jazz e a stimolare persone che a loro volta hanno dato vita ad iniziative importanti per l’intera regione. Nonostante il difficile momento in cui viviamo, le iniziative che fanno da contorno ai concerti (i seminari del Columbia College, gli incontri didattici con gli artisti, le jam session dell’Aurum) permettono agli studenti e musicisti della nostra regione di entrare in contatto con grandi artisti e di vivere pienamente il periodo del Festival.

2. Il festival mi ha dato l’opportunità di poter ascoltare musicisti di grandissimo livello e questo influenza senz’altro il mio percorso musicale. È stato sempre un appuntamento importante: quando ero agli inizi aspettavo con ansia il periodo del festival per poter ascoltare dal vivo molti dei musicisti che d’inverno ascoltavo sui dischi.

3. Il quartetto di Joshua Redman nel 2001. Ancora ricordo la versione di Summertime in 7/4 come bis. Avevo 15 anni e suonavo da poco il sax.

Paolo Russo Pianoforte/Bandoneon

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1. Importantissimo, come tutti gli eventi musicali ed artistici di carattere internazionale. Dare la possibilità a tutti di ascoltare a prezzi modici i rappresentanti più significativi della musica jazz

–e non solo della scena statunitense– è senza dubbio una cosa importante per la città di Pescara e per tutta la regione. Tuttavia credo che, perlomeno in passato, sarebbe stata necessaria un po’ più di attenzione verso le risorse musicali autoctone, anche se ultimamente vengono occasionalmente proposti anche artisti locali, con progetti originali e validi.

2. Intorno ai sedici anni ho iniziato ad ascoltare il jazz ed a frequentare assiduamente i concerti proposti nella mia città natale. È naturale che il contatto diretto con i più grandi jazzisti del mondo, visti ed ascoltati da vicino, abbia generato in me una grandissima ispirazione. Peccato però che, al di là dei meravigliosi giorni del festival, poi la realtà musicale urbana fosse irrimediabilmente costretta a tornare alla sua normalità.

3. Ne cito volentieri due: Bill Frisell trio, al festival del 1993, semplicemente magico, e Mingus Epitaph, a Jazz’n Fall ‘91, concerto strepitoso, dirompente, entusiasmante e commovente al tempo stesso.

Giuseppe Continenza Chitarra

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1. Il festival ha avuto ed ha tuttora un impatto notevole nella cultura della nostra regione in quanto fonte di grande musica e di tanti nuovi talenti.

2. Praticamente penso di aver visto la maggior parte delle edizioni del Festival e da giovane studente di chitarra jazz ho avuto grandi stimoli ed emozioni.

3. Uno dei concerti più belli fu quello di Miles Davis alle Naiadi: fu emozionante e mi diede tanta carica ed energia.

Giorgio Ranalletta Sassofoni

32 1. Pescara Jazz è stato da sempre un festival di altissima qualità, grazie allo spessore artistico dei musicisti e anche grazie ad una certa lungimiranza, da parte del direttore artistico Lucio Fumo, nel saper scegliere proposte sempre stimolanti e nuove nel panorama nazionale ed internazionale. Ha fatto crescere musicisti di talento e ha avvicinato tante persone a questa cultura musicale.

2. Ho incominciato a seguire il festival a 18 anni, ero a Pescara per le vacanze, in quegli anni avevo appena preso il diploma in sassofono presso il Conservatorio dell’Aquila. Sentii Dexter Gordon, poi Phil Woods e mi innamorai del jazz.

3. Tim Berne con il suo sestetto in un’edizione di Jazz’n’Fall.

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Abruzzo Big Band Paolo Giordano Chitarra

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1. È sempre stato un evento atteso da tutta la città. L’unico rammarico è che avrebbe potuto essere ancora più prestigioso a livello italiano in quanto antecedente a Umbria Jazz; non abbiamo approfittato del fatto che potevamo “dettar legge” e quindi avere noi una sorta di monopolio.

2. Paradossalmente lo seguivo di più da piccolo in quanto poi, negli anni successivi, sono diventato musicista di professione e il periodo del festival coincideva con i miei concerti.

3. Don Cherry, Barney Kessel, il grandissimo Lionel Hampton, Philippe Catherine, ma sarebbe impossibile nominarli tutti. Li fissavo quasi in trance, fino alla fine, per poi andare a casa carico di magia. Il loro ricordo è vivo e indelebile.

Walter Gaeta Pianoforte

Marcello Di Leonardo Batteria

1. Sentire musicisti illustri della capitale che 36 ricordano i concerti storici a cui hanno assistito negli anni ‘70, in quello che era allora il festival di riferimento, dà un senso di malinconica soddisfazione.

2. Io e il festival siamo coetanei: mio padre mi portava ai concerti che si tenevano alle Naiadi. È stato il primo contatto col jazz dal vivo.

3. Ho un bel ricordo di un’edizione che si tenne nell’ex Ippodromo del Parco D’Avalos credo nel 1991. Pat Metheny Group e Chick Corea Acoustic Band mi piacevano molto allora.

34 1. Pescara Jazz è servito da apripista a tanti altri in regione e in tutta Italia e non può che avere il mio plauso. Basta guardare i nomi che sono passati sul palco per rendersi conto dell’altissimo livello dei musicisti, che sicuramente hanno contribuito a far amare il jazz in tutte le sue vesti a moltissimi abruzzesi. Un evento importante socialmente, anche per le nuove generazioni che possono nutrirsi, da casa, di un’arte così pregnante per la vita umana.

2. Negli anni in cui cominciavo a definire il mio “genere” preferito e quello sul quale approfondire lo studio, sicuramente i concerti che si svolgevano alla pineta dannunziana hanno contribuito a farmi capire che il jazz era la musica della libertà.

Poi ho compreso che questa libertà apparente è frutto di tanto studio e devozione totale: ma ormai era troppo tardi per tornare indietro.

3. Il più incredibile è stato quello dello Stan Getz Quartet con Kenny Barron al piano, nel 1987, e nello stesso anno il quello del trio di Herbie Hancock sotto la pioggia, che ha fatto fuggire i meno interessati e, come per magia, ha regalato agli irriducibili un concerto meraviglioso.

Paolo Di Sabatino Pianoforte

Nicola Angelucci Batteria

1. Spesso mi chiedono come mai in Abruzzo 38 ci siano così tanti jazzisti di rilievo nazionale ed internazionale. La mia risposta è sempre: “Lo dobbiamo a Pescara Jazz”. In questi anni ci ha fatto ascoltare dal vivo il meglio del jazz internazionale stimolando l’approfondimento e la nascita di scuole che hanno a loro volta allevato talenti ormai affermati.

2. Confesso di non sentirmi molto rappresentato da questa realtà ormai lontana dalle mie idee

35 1. Il festival valorizza e dà spazio ad una musica che purtroppo nella “mia” regione è ben poco presente.

2. Artisticamente, il festival mi ha fatto da “padre”: nel 2000 ho vinto una borsa di studio indetta dal festival che mi ha dato la possibilità di studiare presso il Columbia College di Chicago e di esplorare per la prima volta terre e

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culture musicali mai viste prima.

3. Vedere concerti del festival è una cosa che mi manca: sono molto impegnato e non vivo più in Abruzzo da ormai 13 anni. Spero mi possa capitare presto di tornare, anche a suonarci.

37 1. Pescara Jazz è senza dubbio uno dei più importanti festival italiani e negli ultimi decenni ha permesso a diverse generazioni di ascoltare vere e proprie leggende della musica afroamericana.

2. Ho seguito diverse edizioni e ascoltare i grandi jazzisti americani è sempre servito da stimolo. Guardare quei musicisti e sognare di emularli, magari proprio con la spinta della più importante vetrina della mia regione, era un pensiero che sovente mi accompagnava. Invece ho dovuto constatare negli anni che, nonostante i miei venticinque cd da leader, ancora non ricevo un invito a salire su quel palco, quello principale intendo, cosa peraltro accaduta in passato ad alcuni privilegiati colleghi abruzzesi.

Ritengo fondamentale per una manifestazione che gestisce anche soldi pubblici, dare il giusto spazio alle meritevoli realtà locali.

3. Sono rimasto impressionato dal suono meraviglioso del Pat Metheny Group.

Renzo Ruggieri Fisarmonica

della musica improvvisata. Purtroppo –come anche a Umbria Jazz o altri festival di pari livello– i direttori artistici hanno dimenticato che la globalizzazione consente a tutti di conoscere, vedere e sentire ogni genere e artista. Quindi “fare botteghino” denota poca creatività. Le vetrine di successo sono facili da fare e a me piacciono i rischi e coloro che sono disposti a correrli. Banalità e arte non s’incontrano mai.

3. Il duo di Gianni Coscia e Antonello Salis di molti anni fa: da incontro improvvisato divenne nota dopo nota un micidiale susseguirsi di creatività, emozioni e linguaggi originali fondati sull’italianità... altro elemento che forse oggi Pescara Jazz ha dimenticato.

Angelo Valori Compositore

1. Sicuramente il festival è stato un punto di 39 riferimento importante che ha trasmesso una formazione agli appassionati e quindi una cultura del jazz diffusa. E, conseguenza naturale, c’è stata una generazione di musicisti che ha tratto ispirazione dal festival: questo è il motivo per cui troviamo in zona tanti musicisti che praticano il jazz ad ottimi livelli.

2. Rientro, con gli altri, nel gruppo dei musicisti che trovato ispirazione nel festival. Inoltre ho fatto parte per diversi anni del Consiglio di Amministrazione dell’Ente Manifestazioni Pescaresi, e ho avuto modo di vedere dall’interno la macchina del Festival.

3. Ricordo quello di Jan Garbarek, perché diverso dai suoni “abituali” del festival e quello di Bob Dylan per le tante discussioni provocate.

Gianluca Caporale Sassofoni

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1. A mio avviso è il festival più importante nel panorama italiano: la quarantunesima edizione rappresenta un festival che guarda al futuro a partire dalla propria storia. Elemento imprescindibile poi sono i seminari, con il ritorno dei docenti del Columbia College di Chicago per un ciclo di lezioni per i giovani talenti emergenti.

Il festival prosegue il suo cammino orientato al rinnovamento e al dialogo con la città e con il mondo intero.

2. Pescara Jazz è il punto di partenza della mia evoluzione musicale. I concerti che ho visto hanno fortemente influenzato il mio stile musicale nella continua ricerca di me stesso e soprattutto nella voglia di scoprire nuovi suoni e sentimenti da cogliere.

3. Ne ricordo in particolar modo tre: Phil Woods, Joshua Redman e Pat Metheny Group.

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Archeologia in natura

Quattro passi nella storia

di Barbara Scorrano

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otrebbero essere molti i motivi per celebrare Abbateggio, non ultimi i suoi valori paesaggistici e culturali. Ma a rendere unico questo centro della Majella è in realtà la sua pietra, conosciuta sin dalla antichità dalle popolazioni nomadi che se ne servivano per costruire gli utensili necessari alla caccia e alla pesca. Una peculiarità che, come spiega il sindaco Antonio Di Marco, attribuiva a questo angolo di terra abruzzese «la stessa importanza che può ave-

re oggi la Fiat nelle regioni dove è situata». I primi a capire l’importanza, dal punto di vista archeologico, di questa area furono per primi gli studiosi che, nel secondo Dopoguerra, diedero inizio ad una serie di scavi, durante i quali emersero quei reperti e quelle vestigia che costituiscono l’asse portante del neonato Museo del Paleolitico, inaugurato qualche settimana fa con tutti gli onori alla presenza dell’ambasciatore di Francia, Alain Le Roy, dal presidente Franco Marini, da

Ad Abbateggio nasce il Museo del Paleolitico.

Un laboratorio per riscoprire le tracce dell’antico passato e promuovere il turismo nel cuore della Maiella

Luciano D’Alfonso, dall’ambientalista Grazia Francescato, dal senatore Giovanni Legnini e dal Presidente del Consiglio regionale, Nazario Pagano.

Il progetto, realizzato grazie a un finanziamento di 350 mila euro erogato dal Cipe e dalla Cassa Depositi e Prestiti, diventerà il fiore all’occhiello del rilancio della Valle Giumentina. A gestire la struttura, costituita da sei piccoli edifici, realizzati in pietra con l’antica tecnica costruttiva dei tholos, provvederà

in questa prima fase la cooperativa Maggiociondolo, che li adibirà ad uffici di accoglienza dei visitatori. Per Di Marco, la nascita dell’Ecomuseo è un traguardo di cui andare giustamente fieri, reso possibile dalla dedizione e dalla passione che hanno accompagnato le fasi di realizzazione del progetto, seguito passo passo dalla Sovrintendenza archeologica di Chieti. «Può sembrare strano a dirsi –spiega Di Marco– ma del valore di queste scoperte si parlava in tutta Italia, fatta

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eccezione che qui in Abruzzo. Non è stato facile ottenere le autorizzazioni per il riavvio dei lavori, anche perchè la presenza del Parco rendeva delicata qualsiasi iniziativa. Eppure, siamo riusciti a creare una felice sinergia, realizando un laboratorio che crediamo possa diventare modello di sviluppo innovativo e, soprattutto, un polo di attrazione turistica di cui beneficerà l’intera regione». Per promuovere al meglio quello che definisce il “tesoro del sottosuolo”, Di Marco è pronto a lanciare nei prossimi mesi un progetto di marketing turistico territoriale, realizzato con il sostegno delle cooperative e dei privati che operano sul territorio: realtà diverse –agriturismi, ristoranti, country house– tutte disposte a scommettere sulla possibilità di rilanciare un angolo tra i più suggestivi della nostra regione.

«Siamo passati da 20 posti letto a 170 –sottolinea Di Marco–con strutture ricettive altamente specializzate. Il nostro obiettivo è quello di far conoscere questi luoghi di incanto non solo agli addetti ai lavori, agli archeologi o agli studiosi in genere, ma alle migliaia di turisti che ancora non conoscono un centro che può fregiarsi di fare parte dei Borghi più belli di Italia e che con il Museo del Paleolitico acquisterà un valore ancora più significativo».

Modello di riferimento indiscusso per l’amministrazione di Abbateggio rimane Santo Stefano di Sessanio e non è certo un caso se, all’indomani della sua elezione a primo cittadino, Di Marco ha scelto di far visitare ai suoi collaboratori il gioiello dell’Aquilano. «Indiscutibilmente un esempio mirabile,

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dal punto di vista di recupero dei luoghi, ma noi puntiamo a fare di Abbateggio, più che un paese museo, un centro vivo».

Dove, e il sindaco non dimentica di sottolinearlo, si svolge da anni un evento di rilevanza nazionale come il premio letterario Majella, che ha contribuito a sdoganare dai confini regionali il Comune della Valle Giumentina.

A riempire nei prossimi mesi l’agenda del primo cittadino di Abbateggio non sarà solo il Museo del Paleolitico. «Stiamo lavorando con il sovrintendente dei Beni archeologici di Chieti, Andrea Staffa, a una nuova fase di lavori, rivolti soprattutto a far emergere tracce del periodo Italico. E poi c’è un gemellaggio con la Romania nel quale crediamo molto, cui si aggiunge un progetto, che stiamo studiando con una nostra concittadina, sposata a un ambasciatore di stanza a Bruxelles, per far conoscere le meraviglie del vecchio continente europeo partendo proprio dai piccoli centri, come il nostro». E da un Museo appena nato e destinato a far parlare ancora molto di sé.

• In queste pagine, immagini del Museo all’aperto: una veduta panoramica e uno dei tholos ricostruiti in pietra della Maiella. Nelle foto in alto alcune fasi della cerimonia inaugurale del Museo di Abbateggio. Dall’alto e da sinistra: il senatore Franco Marini; le autorità presenti: Luciano D’Alfonso, l’ambientalista Grazia Francescato, il presidente dell’Anci Antonio Centi, il sindaco di Abbateggio Mattia Di Marco, il senatore Giovanni Legnini, l’ambasciatore di Francia Alain Le Roy, il presidente del consiglio regionale Nazario Pagano e il presidente della Provincia di Pescara Guerino Testa

Il Consorzio di Promozione Turistica “Terre di Abbateggio” Insieme per un migliore risultato. È la filosofia che ha accompagnato la nascita del Consorzio “Terre di Abbateggio”, presieduto da Mattia Di Marco. Un gruppo di aziende e attività diverse che collaborano, senza fini di lucro, con l’obiettivo di migliorare le le attività turistiche, commerciali, agricole e artigianali del territorio nel quale operano. Per raggiungere questo risultato, le risorse dei singoli consorziati vengono coordinate e disciplinate all’interno di un programma di azioni complessive, punto di riferimento per una strategia che ha il so elemento di forza nello sviluppo territoriale e nel potenziamento dell’immagine dei diversi associati. Al Consorzio aderiscono:

Scuola Alpinismo Montabruzzo Scuola di arrampicata - Giampiero Di Federico Il Portone Agriturismo - Giancarlo Di Biase Case Catalano Casa vacanze - Cristina Di Gregorio Borgo Majella Alloggi di turismo rurale - Assunta Di Marco La Torre di Cusano Casa vacanze - Christina Hendriks Agriturismo Pietrantica Agriturismo - Camillo Sanelli Casa Giumentina B&B - Maria Angela Coccato Il vecchio casale Alloggi di turismo rurale - Sergio Di Marco Le antiche dimore Country house - Antonio Ferrante

Artigianato artistico Negozio di artigianato - Morelia Persico Edil Di Marco Impresa edile - Giuseppe Di Marco Il carro di Abbateggio Ristorante - Raffaele Rosati Col di Gotte Ristorante - Gabriella De Angelis Il cervo Ristorante - Patrizia Simone Sapori di Bea B&B - Beatrice Tortora Il Maggiociondolo Cooperativa di produzione e lavoro Minimarket Toppi bar tabacchi Alimentari, bar e tabacchi Comune di Abbateggio Pro Loco di Abbateggio Presidente Deborah Di Giacomo

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Sangritana

Un meeting di linea Collegamento giornaliero con i treni della ferrovia abruzzese per il Festival dell’Amicizia tra i Popoli di Rimini.

La prova generale per l’avvio della tratta con il capoluogo emiliano

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untuali come il treno, le grandi manifestazioni culturali e sociali si ripetono anno dopo anno. Il Meeting di Rimini è senz’altro una di quelle che richiamano più folle da tutta la penisola. E puntuale torna anche la Sangritana con il suo treno speciale che collegherà, partendo da Termoli, l’Abruzzo e il Molise alla cittadina romagnola per il popolare evento. Anche quest’anno, per il terzo consecutivo, la Ferrovia Adriatico Sangritana organizza treni speciali per Rimini dal 18 al 23 agosto prossimi, allorquando si svolgerà la XXXIV edizione del “Meeting dell’amicizia fra i popoli”.

I collegamenti saranno giornalieri: partenza da Termoli alle ore 07.35, arrivo a Rimini fiera previsto per le ore 11.00, in tempo utile per partecipare alla Santa Messa, presieduta da S. E. Mons. Francesco Lambiasi, Vescovo di Rimini, nella giornata inaugurale.

Sarà il premier Enrico Letta ad avviare i lavori dell’importante happening internazionale, dal titolo “emergenza uomo”.

L’uomo che sente che ciò da cui è definito e caratterizzato è la libertà.

Il meeting, la parola stessa lo dice, è occasione d’incontro e può risultare utile anche per sperimentare che le diversità rappresentano una ricchezza per ciascuno di noi. Una ricchezza che deriva dal confronto, quello sano che aiuta a crescere.

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Torniamo al servizio offerto dalla Ferrovia Adriatico Sangritana. Nello specifico i treni fermano alle stazioni di: VastoSan Salvo, Fossacesia-Torino di Sangro; San Vito-Lanciano; Ortona, Pescara, Giulianova, Ancona, Rimini e Rimini Fiera.

In meno di tre ore e mezza, quindi, i treni Sangritana raggiungono Rimini, partendo da Termoli.

«Sono ormai tre anni che garantiamo questo servizio –ha ricordato il Presidente Di Nardo– avviato per formare il personale e testare i mezzi con un obiettivo preciso: quello di raggiungere Bologna centrale. Oggi, continuando a garantire questi collegamenti, manteniamo le competenze per essere pronti, non appena RFI ci darà l’ok, ad attivare il servizio in modo permanente».

Come prenotare ed acquistare i biglietti per viaggiare con Sangritana diretti a Rimini dal 18 al 23 agosto prossimi?

Da quest’anno è possibile scegliere e prenotare i posti anche on line. Attraverso il sito della Sangritana si acquistano biglietti con carta di credito. Diversamente le agenzie viaggi&vacanze della FAS di L’Aquila e Lanciano, nonché altre agenzie convenzionate, sono a disposizione degli interessati.

Altra novità è data dal servizio wi-fi: una rete wireless consente di accedere ad Internet, digitando la password che il personale di bordo fornirà ai viaggiatori.

• Sopra: il lupetto della Sangritana che trasporterà i viaggiatori da Termoli a Rimini. Qui sotto il presidente della Sangritana Pasquale Di Nardo

Offerte speciali per i gruppi (20 persone) e prezzi low cost per quei posti (ne sono disponibili 24 a viaggio) che sono laterali e frapposti dal corridoio centrale.

Tutte le notizie utili sono pubblicate su www.sangritana.it a cui è possibile accedere anche attraverso il link attivo sul portale ufficiale del meeting di Rimini, cliccando sul banner che compare in basso a destra.

Sangritana ama coccolare i suoi viaggiatori. Non si esclude che, anche quest’anno, a bordo vengano offerte prelibatezze preparate da maestri pasticceri o chef stellati per uno snack in prima serata, piuttosto che una dolce colazione.

Il meeting dell’amicizia tra i popoli richiama tanti giovani, ma anche intere famiglie. Genitori con figli al seguito, (non importa se in tenera età), animano i padiglioni della fiera di Rimini. Di conseguenza, capita che i vagoni del “lupetto” della Sangritana si trasformino ora in una ludoteca per ragazzi, ora in un campus universitario.

Attraverso la customer satisfaction, il servizio offerto dalla Sangritana è risultato ottimo, soprattutto per il trasporto ferroviario: treni puliti, puntualità e cordialità a bordo.

Una sensazione ha pervaso la gran parte di coloro che hanno viaggiato con Sangritana per il Meeting di Rimini: quella di sentirsi come a casa, quella della grande famiglia Sangritana.

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Sangritana

Il turismo prende il volo In idrovolante sul Lago di Bomba: la nuova scommessa della Sangritana

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utto è partito da una scommessa, lanciata dal presidente della Ferrovia Adriatico Sangritana, Pasquale Di Nardo: far conoscere le aree interne dell’Abruzzo con una mobilità a impatto zero, in linea con la necessità di tutelare la qualità ambientale di uno degli angoli più suggestivi della regione. Per farlo si è pensato di utilizzare un idrovolante, dotato di ruote, oltre che di pattini galleggianti, con il quale turisti e visitatori potranno atterrare sul lago di Bomba e poi da lì, utilizzando il treno della Valle messo a disposizione dalla stessa Sangritana, andare alla scoperta delle molteplici bellezze presenti nel territorio del Medio Sangro. Un modo che avvicina l’Abruzzo ad alcuni paesi del grande Nord, in primis la Finlandia, dove è possibile volare tra i fiordi e atterrare nei laghi circondati dai boschi per trascorrere giornate all’insegna del verde. Il progetto della Sangritana ha trovato immediato consenso ed approvazione da parte dell’amministrazione provinciale di Teramo, che aveva già avallato un’analoga iniziativa relativa ai collegamenti turistici tra Giulianova e la Croazia e tra la Grecia e il Montenegro utilizzando lo stesso tipo di velivolo. Ed è stato proprio il presidente della Provincia, Walter Catarra, a voler partecipare al primo esperimento, per testare la fattibilità di un’idea che sembrava all’inizio solo frutto di fantasia. L’iniziativa, ambiziosa quanto interessante, si inserisce nell’ambito del programma europeo “Adri sea planes”, finanziato dalla Comunità Europea e di cui la stessa Provincia di Teramo è capofila. Le finalità turistico ambientale che hanno

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fatto da sfondo al progetto si intersecano con quelle legate alla volontà di favorire la cooperazione transfrontaliera, attraverso una nuova rotta che ha il proprio punto di riferimento nel Lago di Bomba.

Gli obiettivi sottesi all’iniziativa sono stati unanimamente condivisi, oltre che dal Presidente della Provincia di Teramo, dall’assessore alle politiche comunitarie, Davide Di Giacinto, dal Presidente della Provincia di Chieti, Enrico Di Giuseppantonio e dal sindaco del Comune di Bomba, Donato Di Santo.

La sinergia tra le diverse istituzioni è riuscita in tempi brevi a dare concretezza a quella che fino a qualche tempo fa era semplicemente un’idea vergata sulla carta. Il primo volo, avvenuto in una calda ma plumbea domenica di inizio luglio, è stato organizzato con dovizia di particolari, non lasciando nessun elemento al caso. L’idrovolante è partito da Pescara per poi atterrare, dopo un volo durato circa venti minuti, sul lago di Bomba. A seguire l’atterraggio e a raccogliere idealmente il testimone di un viaggio inconsueto, i vagoni dell’Aquilotto, il treno recentemente ristrutturato dalla società Sangritana, posizionato sul binario che fiancheggia il lago. A riprova del perfetto meccanismo di collegamento che potranno saggiare tutti coloro che vorranno provare un modo diverso di viaggiare e di conoscere da vicino un angolo di territorio, ancora sconosciuto a molti. O, al contrario, noto per lo più per gli articoli di cronaca che raccontano il braccio di ferro che oppone la cittadinanza e le associazioni ambientaliste al progetto di

estrazione di gas da parte della società americana Forest Oil. Il binomio idorvolante-treno della Valle non è che uno dei tanti programmi messi in cantiere dalla società Sangritana.

L’azienda di trasporti sta infatti lavorando al ripristino della tratta Archi - Castel di Sangro, che negli anni scorsi veniva attraversata dal simpatico trenino colorato. Un’iniziativa poi sospesa e ripresa ora dai vertici aziendali della Sangritana, decisi a dare alla propria offerta di trasporti un carattere innovativo e al passo con i tempi. Una scelta aziendale frutto della consapevolezza che occorre una strategia differenziata e lontana dai tradizionali mezzi di promozione per attrarre turisti e ridare fiato ad un settore che negli ultimi ani ha sentito il peso della crisi. E mentre in Regione ferve il dibattito sulla riorganizzazione di tutto il sistema regionale dei trasporti, tra fautori e oppositori dell’azienda unica, i sindaci dei paesi che insistono su questa parte di territorio hanno dato il loro plauso all’iniziativa. Non un consenso di facciata ma il convincimento autentico che, come ha sottolineato il Presidente della Sangritana Di Nardo, «il progetto idrovolante - treno rappresenta un modo originale per promuovere questa parte dell’Abruzzo. Il tutto in un’ottica che vede i trasporti ormai intimamente legati alla necessità di tutelare le ragioni dell’ambiente. Solo attraverso il ricorso a mezzi ecocompatibili a impatto zero, quali l’idrovolante ed il treno potremo dire di avere realmente a cuore la sostenibilità ambientale, al di là delle dichiarazioni programmatiche ma prive di riscontro».

• Nelle immagini l’idrovolante e il trenino della Sangritana che collegano il lago di Bomba. Nella pagina accanto il test di prova dell’idrovolante con il presidente della Provincia di Teramo Valter Catarra, il presidente della Sangritana Pasquale Di Nardo, il sindaco di Bomba Donato Di Santo, il presidente della Provincia di Chieti Enrico Di Giuseppantonio e altri amministratori.

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LETTERATURA

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MOSTRE Pagina

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VarioART

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ARTE

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EVENTI Pagina

Un testo difficile, una messa in scena esemplare. Autore dell’uno e dell’altra il regista Sabatino Ciocca che con il Canto dei distruttori dei mondi (da lui tratto liberamente da Lo spazio interiore dello scrittore surrealista franco-belga Henri Michaux e rappresentato sabato 6 luglio al Teatro Tosti di Ortona per il decennale dell’Accademia dello Spettacolo) ha dato una brillante prova del suo talento. Cominciamo dal testo. Scritto benissimo, innanzitutto, con linguaggio asciutto ma denso di suggestioni emotive e concettuali, di grande resa scenica nel suo periodare paratattico che richiede, e consente, agli attori (bravissimi i ragazzi dell’Accademia ortonese) una recitazione essenziale e • Un’immagine del Canto dei distruttori di mondi fluida. Un testo di grande maturità di Sabatino Ciocca. (Foto di Phototeate) e misura, pur così anarchico e surreale nella distruzione d’ogni logica, d’ogni senso e significato. Proprio questo è il tema del Canto dei distruttori dei mondi: l’insensatezza, la follia della vita e del mondo almeno così come l’hanno edificato e distrutto i “costruttori”. Quasi tutti i personaggi, infatti, hanno costruito qualcosa, ma con modi e idee tanto strampalate e bizzarre e, per l’appunto, insensate, che il risultato di tanto costruire è un mondo da day after spettrale ed opaco, ben esemplificato dalla scena scarna ma di grande impatto visivo ed emotivo: qualche sedia, qualche panca, un uomo su una carrozzina e l’immagine, proiettata sulla parete di fondo, di una enorme palla di ferro da demolizione che dondola ininterrottamente, lentissimamente e minacciosamente, tranne che nel momento in cui una gigantesca, apocalittica vampata di luce crudissima sembra voler cancellare finanche i tetri residui del mondo.

Ma la cosa più interessante e pregevole del testo, e quindi dello spettacolo, è che l’assurdità e l’insensatezza del mondo e degli uomini costruttori/distruttori non è ideologicamente denunciata (con tirate, invettive, sarcasmi, denunce indignate, etc.), bensì teatralmente rappresentata, evocata: dalla scenografia, dal gioco delle luci, dai movimenti e dai costumi da zombi degli attori, dagli stralunati, demenziali discorsi su aironi e pulci e aironi nelle pulci e cavalli-nani e mosche-cavalli e balene che s’arenano in strade cittadine, edifici e città costruiti in un occhio o in un orecchio o in un dado, in un trascorrere metamorfico dal minerale all’animale al vegetale all’umano senza soluzione di continuità.

E, coup de theatre di grande impatto emotivo ed efficacia scenica, per due volte (o tre) sfolgora inatteso un raggio di sole che illumina tanta desolazione e fa gioire i desolati protagonisti del Canto per subito deluderli scomparendo dopo pochi secondi. Un raggio di speranza? Ma no: solo teatro. Buon teatro.

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Che spettacolo la follia degli uomini

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Ribalta

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degli impianti delle stazioni ferroviarie di Pescara, Chieti Scalo e L’Aquila Comune di Pescara manutenzione ordinaria e straordinaria con

VARIO

Letteratura

Marco Tornar

Enrico VII, imperatore in estasi

Bellissimo romanzo con un protagonista di grande rilievo narrativo di Francesco Di Vincenzo

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a qualche anno Marco Tornar porta il suo talento letterario a spasso per il tempo. Ci ha dato un romanzo ambientato a fine ‘800 (il bellissimo Claire Clairmont, Solfanelli 2010) e un altro nel primo ‘900 (il meno riuscito Nello specchio di Mabel, Tracce 2011). Scelte temporali che sottolineano la sua condanna e il suo rifiuto della contemporaneità, vista come tempo di volgarità, di bruttezza e di arido materialismo.

Con il suo ultimo romanzo Lo splendore dell’aquila nell’oro, pubblicato da Tabula Fati, Tornar ambienta il suo racconto nel basso Medio Evo, condensando il presente narrativo in un unico anno, dal 1312 al 1313. Sono i tempi del conflitto diffuso, endemico, tra Guelfi e Ghibellini, e tra papato e impero, ora dissimulato ora aperto ed aspro. Ma è anche il tempo della più intensa religiosità. Il secolo precedente era stato segnato da tumultuosi movimenti spiritualisti, sulla scia delle profezie di Gioacchino da Fiore e della radicalità evangelica di Francesco d’Assisi. Molti avevano visto in Celestino V quel Pastore Angelico che, secondo Gioacchino, avrebbe purificato la Ecclesia Carnalis trasformandola in Ecclesia Spiritualis. Con il Giubileo del 1300, Bonifacio VIII diede spazio e sfogo a quella ribollente, anarchica spiritualità incanalandola nell’alveo istituzionale della Chiesa.

Uomo di profonda fede e di intensa vita spirituale è il protagonista del romanzo di Tornar: Enrico VII di Lussemburgo, in-

coronato Imperatore del Sacro Romano Impero nel 1312 e morto avvelenato l’anno dopo, a 38 anni. Saggio e paziente, abile negoziatore ma capace di rapide e irrevocabili decisioni, l’Enrico di Tornar svolge al meglio il suo altissimo ruolo pubblico, ma appare costantemente immerso in una dimensione malinconica e contemplativa che talvolta s’addensa in accensioni mistiche che ne acuiscono le facoltà veggenti e intuitive, donandogli una percezione preternaturale del tempo, dello spazio, dello spirito. Ed ecco apparirgli Cristo, il suo adorato Cristo “a metà tra un uomo e un agnello… un ovino dalle sembianze umane, bellissimo… mi gettai tra le sue braccia, e lui mi strinse a sé, colmo di felicità”. Ma Enrico è anche un uomo nel pieno della maturità e della virilità, e allora il suo proposito di fedeltà alla adorata moglie scomparsa viene meno di fronte alla sfrontata offerta di una bella cortigiana. E subito se ne pente e si confessa, per poi, di lì a poco, cedere di nuovo. Certo, fuori dal contesto linguistico e narrativo in cui trova perfetta coerenza, fa un po’ sorridere l’idea di un imperatore che corre dal suo confessore ogni volta che ha un coito poco ortodosso con la sua bella “dea impudica”.

Ma questi aspetti ingenui, quasi infantili della religiosità di Enrico, la sua ansia “catechistica” di confessarsi subito dopo aver commesso peccato, costituiscono tratteggi magistrali nella costruzione di un personaggio di assoluta originalità

e di statura inusuale. Ed è il linguaggio usato da Tornar che gli dà credibilità e coerenza, è la sua scrittura sinuosa, di minuziosa ed elegante tessitura, ma anche di brusche asciuttezze lessicali e sintattiche nell’invettiva e nello spregio, è questa scrittura che già di per sé prefigura Enrico, il suo animo sensibile e fervido, il suo stupore per il tradimento e la malvagità, l’inesorabilità della sua ira.

Un romanzo singolare e bellissimo, che segna decisamente il punto più alto nella narrativa di Tornar.

Marco Tornar Lo splendore dell’aquila nell’oro Tabula Fati, 2013, pp. 144, € 12,00.

• In alto, l’autore (a destra) insieme all’editore Solfanelli.

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Giovanni Di Iacovo

Letteratura

“Liebe? Sono io” Il terzo romanzo del giovane autore pescarese prende di mira il concetto di “normalità” mettendo in scena un mondo popolato di “diversi”

di Francesco Di Vincenzo • Giovanni Di Iacovo e la copertina del suo ultimo romanzo: La sindrome dell’Ira di Dio (Ed. Zero91, 2013, pp. 202)

“L

iebe Wallace c’est moi”.Non avrebbe sfigurato questa parafrasi flaubertiana nel paratesto abilmente costruito intorno a La sindrome dell’ira di Dio, l’ultimo romanzo di Giovanni Di Iacovo.

Ne avrebbe sintetizzato bene l’assunto tematico e formale di fondo. Se la monocola escort protagonista accetta solo clienti poco “normali” (disabili, freak, borderline e disgraziati vari), l’autore include nel suo romanzo solo personaggi, ambienti, situazioni, arredi, avvenimenti, dialoghi, idee che di “normale” hanno poco o niente. Ed il linguaggio non è da meno: se normale è la lingua disadorna e piatta che corre nella nostra narrativa mainstream di oggi (con eccellenti eccezioni, per fortuna), allora non lo è la lingua di Di Iacovo.

Anch’egli usa un italiano tutto sommato semplice per lemmi e sintassi, ma ne trae una scrittura sapida e brillante, sfrontata e narcisa, a volte deformata in periodi lunghi e ritmati come vecchi assoli di batteria jazz, sovente scandita da ardimenti barocchi spesso mirabili per ricchezza, varietà d’immagini e profondità di senso.

La descrizione dei capelli di Liebe, per esempio (“rigagnoli di buio sul collo, sulle spalle e sul viso, ferite di ostinata notte”),

pur indecisa tra Gongora e Gianny Mirra, è splendida per l’esattezza lieve e indiretta con la quale evoca la malinconia di fondo del personaggio.

Ed è questa compattezza tematico-linguistica la forza della Sindrome dell’ira di Dio. Il suo evidente bersaglio è il concetto di normalità, fonte di conformismi e fobie sociali, dal razzismo alla discriminazione dei diversi, di coloro che “non hanno nessuna qualità monetizzabile” (come si dice nel romanzo). Ma Di Iacovo è scrittore di prim’ordine (diciamolo: tra i migliori, oggi, in Italia) e di grande accortezza culturale, perfettamente consapevole che l’impegno dello scrittore sulla realtà è, per dirla con un longevo saggio di Eco, innanzitutto sul modo di formare, cioè sulla scelta degli strumenti linguistici e narrativi. Allora egli non attacca frontalmente, cioè ideologicamente, l’idea di normalità, bensì mettendo in scena il suo contrario, linguaggio compreso. Tutto è anormale, strano, bizzarro e grottesco o banalmente folle e criminale nel mondo di Liebe Wallace. Un mondo di diversi, dove anche i Perfettamente Normali sono diversi dai Normalmente Normali, come nella Repubblica indipendente di

Whiteford, dove la normalità è così totale e perfetta, così ossessivamente praticata e imposta da fare del microstato un’intollerante comunità bigotta, puritana e razzista, nonché sospettata di dare rifugio all’uomo che creò il virus dell’Aids. Ma la demenziale comicità del Gioco del Lupino e della Flotta Inzuppata e dell’Autocertificazione di Normalità praticati a Whiteford è roba da scompisciarsi. L’unica traccia di normalità che ricordo a libro chiuso è la bottiglia di Romanée-Conti del 1956 messa in tavola nella cena di Liebe con il Victor Lockwood, il grande amore della sua vita nonché ricchissimo fondatore e capo della Repubblica Democratica, uno stato dove non esiste la bruttezza,“esiste solo la diversità” poiché “la natura non premia le omologazioni e gli irrigidimenti ma le diversità e i mutamenti”. Ben detto.

Ma nella stessa Repubblica Democratica (occhio al nome) esistono le Quote Nere, vera e propria discriminazione al contrario: le persone sane e belle sono per legge svantaggiate nei confronti dei deformi e dei diversi. Ci sarebbe da riflettere, ma Di Iacovo dice che lui non scrive romanzi per mandare messaggi politici e noi ne rispettiamo la volontà.

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VARIO

Letteratura

Io, Ennio e Gabriele

Edoardo Tiboni

Vita e opere dell’infaticabile uomo di cultura in un libro-intervista sui suoi “primi cinquant’anni” di Giacomo D’Angelo

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i Vasto come don Raffaele Mattioli, Edoardo Tiboni trasfonde la sua abruzzesità nel libro Fatiche e sogni, gente d’Abruzzo (ed. Textus), in cui, stimolato da Enzo Fimiani, narra opere e giorni della sua vita. Un itinerario esistenziale di operatore culturale, che ha creato associazioni e istituti che durano da quarant’anni, all’insegna di glorie abruzzesi, fra cui Croce, d’Annunzio e Flaiano. Pescara e l’Abruzzo devono all’impegno tenace di Tiboni se di loro si parla e si scrive, relegati com’erano in una palude stigia di rimozione.

Tiboni, fedele a un credo umanistico di impronta crociana, ha avuto come stelle fisse d’Annunzio e Flaiano, scrutinando l’arte del primo in convegni e volumi degli atti(“apostolo degli atti”, lo ha definito Giuseppe Rosato) e facendo conoscere del secondo libri, film e il poetico rapporto con la sua “piccola patria”. A cominciare dall’aneddoto, di sapore flaianeo-beckettiano (ma potrebbe essere rosatiano), in cui, seduti in un caffè romano di piazza del Popolo, Tiboni e Giuseppe Rosato attendono per otto ore Flaiano che li aspettava in un bar di fronte. Abruzzesemente testardi, sarebbero rimasti giorni, pur di non tradire l’appuntamento. L’episodio rivela anche il legame non effimero che ha unito Flaiano con Tiboni che cercò in vari modi di utilizzare la comune passione del teatro per istituzioni cittadine e con Rosato, che stimava come scrittore al punto di copiarne una boutade. Dell’autore di Tempo di uccidere, Tiboni ricorda momenti scherzosi, la sua onicofagia nevrotica, ma soprattutto le dolorose vicende familiari, la vita nei collegi, la figlia encefalopatica, le disarmonie con la moglie Rosetta

(diffidava degli amici del marito, tra cui Federico Fellini: erano freddi con la figlia), “l’infelicità profonda della sua vita”.Tiboni, anch’egli studente ramingo (Spoleto), tornava a Pescara d’estate come d’Annunzio e Flaiano, immersi nella marina dell’Amarissimo («E intorno a noi vasta, giallissima / tacea la state…»), con Flaiano che rileggeva incantato i versi dannunziani di Madrigali dell’estate e in Spirale tentatively evocava «il mare della Pineta di Pescara, soprattutto».

Edoardo Tiboni, sudocrate e multanime, impresario di cultura come pochi altri in Abruzzo (ad es. l’avvocato aquilano, Nino Carloni, fondatore della Società aquilana dei concerti), per il suo fervore di iniziative e l’agenda fitta di impegni va accostato alla capacità di lavoro di grandi abruzzesi come Benedetto Croce, d’Annunzio, Raffaele Mattioli, Panfilo Gentile, Raffaele Colapietra, ma più specificamente si avvicina a Giovan Pietro Vieusseux, geniale editore fiorentino , fondatore di Antologia e dell’Archivio Storico Italiano.

L’intervista riverbera un sentimento del tempo, la presenza costante alla vita cittadina, senza spirito di fazione partitica o pose narcisistiche: si può affermare che la politica di Tiboni sia stata quella di aver usato il suo potere, alla RAI e nelle sue creazioni culturali (Mediamuseum, Oggi e domani, giunta al 40° anno, Ediars, Premi letterari) per far conoscere agli abruzzesi percorsi inesplorati della loro storia e la grandezza di figure che hanno inciso profondamente nella società regionale (Amedeo Pomilio,“singolare industriale e idealista”, Raffaele Laporta, Giovanni Iannucci, Antonio Mancini, don Brandano,

con il “demone dell’affare”, Manlio Maini, Diego De Sisto). La sua politica era (ed è) la cultura a tutto tondo, per la quale si adopera con umiltà di monaco medievale, disinteressatamente. Ma negli anni roventi del ’68, quando la RAI regionale si proponeva come l’unica centrale culturale, parve a qualche critico, eorum ego, che il patron di via De Amicis volesse concentrare gli intellos e i chierici, non soltanto abruzzesi, in una fortezza ideologicamente omologante. Nel libro affiora il laudator temporis acti, che ricorda con asciutta nostalgia la classe politica di un tempo, in particolare quella di sinistra (Chiola, Di Primio, D’Angelosante, Sandirocco, che fu in collegio con lui), e non risparmia critiche al sindaco democristiano che avallò il teatricidio del Pomponi.

Pescara con Tiboni ha ospitato i nomi più insigni della letteratura italiana, delle arti e dello spettacolo, con poche omissioni: inutile citarli. Rari i nomi illustri sfuggiti all’ansia enciclopedica di Tiboni: don Giovanni Minozzi, Orio Vergani, Andrea Pazienza, Peppino D’Emilio di Convergenze.

Il libro non è solo un affresco che rimanda cinquanta e più anni di vita cittadina, ma la memoria di un servizio civile che la passione e l’impegno ininterrotto di Edoardo Tiboni hanno reso alla gente d’Abruzzo. La vita che pulsa nel cuore e nella mente di Tiboni smentisce i versi del Poeta (“questo scialo di triti fatti, più vani che crudeli”), perché di certo, quando il più tardi possibile, arriverà la vecchia signora, non lo troverà con le mani in mano, come diceva don Benedetto Croce che Tiboni cita, anche se con “angustia”.

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Letteratura

Enrico Graziani

Un memoir per il senatore A metà strada tra romanzo e autobiografia la storia di un giovane idealista che attraverso i libri scopre la passione politica Enrico Graziani Prima che scenda la notte Robin, 2013, pp. 478, € 18,00

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he cos’è Prima che scenda la notte?

Un’autobiografia? Un romanzo?

Dell’autobiografia non ha la pignoleria cronologica e documentale nella ricostruzione dei fatti. Del romanzo non ha l’evidenza fittizia propria dell’opera di fantasia, anche se il protagonista ce l’ha un nome fittizio (Federico), e di fantasia sono i nomi che designano i luoghi. Ma è del tutto evidente che la storia raccontata da Enrico Graziani è la vita di Enrico Graziani, avvocato, già senatore e sindaco di Paglieta, personaggio popolare e amato nella Val di Sangro, un po’ meno nelle stanze di comando del partito cui ha dedicato cinquant’anni della sua vita.

E allora chiamiamolo memoir, questo bel libro ottimamente scritto e piacevolmente letto.

Il memoir è genere letterario diversamente strutturato sia dalla tradizionale autobiografia sia dal romanzo. Il memoir, come dice la parola, è innanzitutto memoria, e la memoria è legata alle emozioni vissute più che ai ricordi reali, alla verità emotiva più che alla verità fattuale. Senza l’ossessione della verità oggettiva, la memoria emotiva consente di muoversi liberamente nel proprio tempo interiore, e il ricordo dei fatti si configura non per ciò che essi sono esattamente stati ma per ciò che hanno significato e inciso nella vita di chi li ha vissuti. Un processo che ha il suo nobile ascendente letterario

nella mémoire involontaire che in Proust scatta inzuppando le madeleinettes nel tè.

E Proust ci teneva alla distinzione tra mémoire volontaire che restituisce il passato e mémoire involontaire che permette di rivivere quel passato e di appropriarsene.

Graziani (pardon, Federico) compie una personale ed efficace fusione tra le due memorie, ed è proprio in questo che consiste l’originalità e il valore del racconto, nonché il suo interesse letterario: la madeleinette di Federico non ha la minuta delicatezza del celebre biscottino normanno, essendo, molto più grossolanamente, la casa paterna che ha deciso di vendere.

“Prima di firmare il compromesso volli rivedere la casa un’altra volta, per ravvivarne la memoria e preservarla intatta dentro di me”(p. 14). L’ultima visita alla vecchia casa disabitata è, dunque, un evidente atto di mémoire volontaire di Federico, ma quando egli entra e prende ad aggirarsi nella malridotta abitazione della sua infanzia e adolescenza, è la mémoire involontaire a scattare ed invaderlo, portandogli un fiume di ricordi che suscitano in lui emozioni e sentimenti diversi. Sono gli oggetti della casa, le sue stanze, i suoi passaggi, lle porzioni di mondo inquadrate dalle sue finestre a innestare in lui la memoria che lo porta a ripercorrere non solo la propria esistenza ma quella della sua famiglia e della famiglia dei suoi genitori e dei tanti personaggi che ha conosciuto nella sua

infanzia e giovinezza.

Ne viene fuori un vero e proprio affresco dalla vigilia della Seconda Guerra Mondiale ai nostri giorni. Ma Prima che scenda la notte è soprattutto il racconto della vita di un ragazzo colmo di sogni e di speranze che parte alla conquista del mondo convinto di poterli tradurre nella realtà.

Nato nel centro-meridione poco prima della Seconda Guerra Mondiale da una famiglia di piccola borghesia, Federico costruisce la propria cultura e le proprie convinzioni ideali divorando libri su libri.

“Chi legge vive molte vite” è la sua scoperta.

A vent’anni emigra, come tanti, al Nord e capita in una bella e ricca città emiliana dove lavora per mantenersi agli studi e dove incontra il grande amore della sua vita. Laureatosi, fa inaspettatamente il percorso inverso, ritornando nella sua terra. Qui incontra grandi difficoltà ma, pur nella durezza della sua esistenza, affronta ardue sfide politiche ed umane: il disagio di vivere e le condizioni del Paese lo spingono verso la politica, vissuta nel più grande partito della sinistra. La passione politica gli complica l’esistenza ma la rende anche più intensa e ricca. Questo memoir ripercorre le tappe della sua formazione e le sue scelte umane, politiche e sentimentali, e le sue esperienze sessuali, raccontate con inusuale franchezza.

Francesco Di Vincenzo

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Libri

a cura di Bruno Cortesi

Architettura/Pozzi e Palestini

Saggi/Di Carlo

Più di mezzo secolo di storia raccontato attraverso le opere di una generazione di architetti che ha saputo rinnovare l’immagine delle città abruzzesi. È lo straordinario viaggio raccontato nel volume L’Architettura in Abruzzo e Molise dal 1945 ad oggi curato da Caterina Palestini e Carlo Pozzi, che hanno selezionato le opere di rilevante interesse storico e artistico sorte negli ultimi decenni nelle località più importanti della due regioni. Si va dal complesso “Il Molino”, realizzato sulla base del progetto di Oriol Bohigas, agli uffici Fater, edificati dall’archistar di fama internazionale Massimiliano Fuksas. E poi ancora il Ponte del Mare, che con la sua passerella curvilinea lega i lungomari di Pescara e dell’antica Castellammare. Lo sguardo degli studiosi va oltre la costa adriatica, fino all’Aquila, riflettendo sul piano CASE, su Casa Onna e Casa Bicocca a Rocca di Mezzo. E poi a Teramo con le sue ville e Chieti, con la Casa che guarda il mare di Lucio Rosato, e l’ampliamento del cimitero di Ortona. Senza dimenticare il Parco della Memoria, realizzato per commemorare le giovani vittime del crollo della scuola elementare di San Giuliano. Per scoprire che anche anche le costruzioni possono rivelare le pagine di una storia che merita di non essere dimenticata.

Il rapporto del Poeta Vate con il cibo è stato oggetto negli anni di ampie ed accese diatribe, tali talvolta da raggiungere il parossismo. Enrico Di Carlo ha scelto stavolta di occuparsi del rapporto del poeta con il vino, il che potrebbe risultare paradossale, vista la poca simpatia che D’Annunzio nutriva nei confronti delle bevande alcoliche in genere. Eppure Di Carlo ci offre una prospettiva del tutto inedita, forte delle dichiarazioni di biografi che, come spesso accade quando si tratta di grandi personalità, sono pronti a giurare tutto e il contrario di tutto. In questa ricerca, che tuttavia egli conduce scrupolosamente, scopriamo che i riferimenti al bere ed al mangiare abbondano nella corrispondenza epistolare del Vate con i suoi amici e conoscenti abruzzesi. Si intende mostrare un D’Annunzio intimamente legato alla propria terra. Il che, al centocinquantenario dalla nascita, gli rende doveroso omaggio.

Enrico Di Carlo Gabriele D’Annunzio e l’enogastronomia della memoria Verdone 2013, € 10,00

Caterina Palestini e Carlo Pozzi L’architettura in Abruzzo e Molise dal 1945 a oggi Cangemi Editore, 2013, pp.304

Saggi/Ranieri

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Narrativa/De Sanctis

Romanzi/Bernava

Antonioni è figura di riferimento del cinema moderno. Quanto in lui c’è di neorealista e quanto invece egli ha contribuito ad una nuova stagione del cinema italiano? In che misura il suo cinema e l’arte del ‘900 si sono influenzati vicendevolmente? A questi e ad altri interrogativi ha tentato di rispondere Nicola Ranieri, classe 1947, laureato in filosofia della scienza presso l’università di Urbino, in Amor vacui. Il cinema di Michelangelo Antonioni, autentica opera di esegesi metacinematografica, totalmente ripensata rispetto all’edizione ‘92. Partendo dai primi lavori (Gente del Po), sino a Lo sguardo di Michelangelo, l’autore, interessato all’Antonioni sperimentatore, maestro nell’evocare suggestioni e nell’uso del colore, reinterpreta il cinema del maestro ferrarese in un’ottica ben precisa, forte dei concetti di relatività e della meccanica quantistica.

In Il marchese che seminava libri di Stefano De Sanctis concorrono due prospettive fondamentali alla riuscita di un buon libro di racconti: il desiderio dell’autore di dar vita a circostanze e personaggi che si intreccino come nella vita reale, e la capacità, attraverso il linguaggio, di comunicare con immediatezza ed efficacia la propria sensibilità.

Nonostante le vicende narrate siano dilatate nello spazio e nel tempo, si direbbe che esse convergano tutte verso una sostanziale omogeneità di vedute e di intenti. Il libro non ha riguardi per nessuna classe sociale ed affronta temi cari al nostro tempo: dalle esperienze di avanguardia letteraria di un gruppo di giovani artisti, alle stramberie di un pensatore solitario dedito alla diffusione della cultura. Resta, sottaciuto, l’ambizioso proposito di inculcare nel lettore l’ansia del conoscere e la fatica del pensare.

Oscuri e sinistri figuri s’aggirano in Abruzzo nel Luglio ’43. Arturo Bernava ci rende il quadro inquietante e sanguigno di una terra ridotta a brandelli dalla guerra. Una sottile, penetrante inquietudine attraversa il paese come un vento gelido, una serie di domande si sollevano tra la gente, e strane lettere anonime cominciano ad essere recapitate.

La notte in cui i Tedeschi giungono nella nuova veste di invasori e non più di alleati, un’anziana signora viene trovata morta. Ella custodiva i segreti di cui tutti erano alla ricerca. Soltanto uno, però, alla fine, riuscirà a carpirli. Lo stesso che andava alla ricerca dell’amore, che giunge improvviso e folgorante ad interrompere un gioco delle parti serrato ed inesorabile, e a ridonare luce e speranza ad un mondo grottesco, accartocciato su se stesso, dilacerato dall’odio.

Nicola Ranieri Amor vacui. Il cinema di Michelangelo Antonioni Meta edizioni, 2013, pp. 304, € 18,00

Stefano De Sanctis Il marchese che seminava libri

Arturo Bernava Scarpette bianche

Tabula fati 2013, pp. 144 - € 12,00

Solfanelli 2013, pp. 256 - € 16,00

Jazz/Cipriani Già collaboratore di artisti quali Baglioni, Cocciante, Zero e soprattutto del Festival Jazz di Pescara, Antonio Cipriani è cresciuto in mezzo alla musica e ai musicisti. Le prime esperienze alla batteria, poi l’amore per la chitarra lo ha accompagnato per tutta la vita. Ora questo amore, insieme a quello per la musica brasiliana, si concretizza in un CD dal titolo Bossanuova, nel quale Cipriani ha coinvolto molti suoi amici musicisti abruzzesi e firme della bossanova riconosciute in tutto il mondo: Paulo Calasans, Ricardo Silveira, Joao Baptista, Rique Pantoja, Bororò e Filò Machado. Arricchito dalla copertina firmata Sandro Visca, un lavoro piacevolissimo e struggente, da ascoltare in una notte di luna piena.

Chieti/Olivares Per tutta la vita Teresita Olivares Paglione ha amato e collezionato tartarughe di grandi artisti e d’ogni specie. Alla sua morte, il marito Alfredo ha scelto di donarle al Museo dell’Università di Chieti. Una collezione che consta di ben 301 pezzi tra opere e oggetti d’arte di varia natura, piuttosto inusuali da trovarsi in un museo scientifico. Le tartarughe hanno sempre colpito l’immaginario di Teresita Olivares, violoncellista di origine colombiana di vasta e profonda cultura e grande sensibilità. Al marito, noto gallerista, è sembrato naturale far conoscere al pubblico i vari oggetti d’arte, preziosi e non, che la sua amata moglie aveva custodito e raccolto, un modo spontaneo per testimoniare un grande amore. Da questa donazione nasce il presente volume: un percorso tra arte e scienza, o meglio, come i due mecenati avrebbero gradito, tra conoscenza ed amore.

Tartarughe tra arte e scienza: la collezione Teresita Olivares Paglione a cura di Maria Del Cimmuto èDICOLA EDITRICE, 2013, pp.111

Antonio Cipriani Bossanuova Protosound/Edel, 2013

Poesia/Marucci

Celebrazioni/ Ferrovia

Dario Marucci è un uomo solo. Pieno di rabbia. E se la rabbia non prende strade sbagliate può accadere che si trasformi in versi .

Non dite mai più che col tempo si dimentica, con prefazione di Ubaldo Giacomucci, è la sua ultima fatica letteraria dopo l’altra silloge Come come se fosse amore (2007 Edizioni Libroitaliano world). Campano di nascita, ma abruzzese di adozione, laureato in Giurisprudenza ed esperto in Psicologia psicoanalitica, Dario Marucci con la sua scrittura “si proietta lungo le diverse traiettorie psicologiche dell’introspezione per recuperare uno spazio simbolico attuale e suggestivo” attraverso un linguaggio talora volutamente anche troppo diretto.

Segnalato in vari premi di poesia a livello nazionale, l’autore ha ricevuto apprezzamenti e recensioni positive da Mario Luzi e Carlo Betocchi.

Franco Pasquale

Il 13 Maggio 1863 la prima locomotiva a vapore raggiungeva Castellamare, carica delle ambizioni dei Savoia di unire materialmente l’Italia prima, gli Italiani poi. Portava anche il sogno di migliaia di famiglie, desiderose di partecipare a quel progresso che il nuovo mezzo di trasporto testimoniava.

Il sogno cominciò a materializzarsi in una Città che crebbe attorno alla neonata stazione, inglobando sempre più ampi settori produttivi. Pescara deve dunque la sua esistenza alla fortuna di trovarsi su quella linea ferroviaria che all’epoca fu simbolo di integrazione, ma anche di appartenenza ad un destino comune. Allo scoccare del centocinquantenario, come questo libro testimonia benissimo, lo spirito di quegli anni deve essere recuperato. Le celebrazioni devono andare al di là della semplice rievocazione storica, e fungere da occasione per approfondire i motivi che hanno portato all’interruzione di quel sogno, con uno sguardo volto al passato ma teso al futuro.

Dario Marucci Non dite mai più che col tempo si dimentica Edizioni Tracce, 2012, pp. 144, € 12,00

L. Di Biase, R. Gallerati, A. Lato, D. Recubini 150 anni di binari tra Ancona e Pescara Fondazione Pescarabruzzo, 2013

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VARIO

Mostre

Pescara/Vistamare Quattro tra i maggiori artisti della scena contemporanea –Joseph Kosuth, Ettore Spalletti, Mimmo Jodice e Pavel Büchler– raccontano se stessi e il proprio lavoro, il modo di concepire l’arte e la vita. Il tutto attraverso un ciclo di filmati trasmessi negli spazi della galleria Vistamare di Benedetta Spalletti. E se Jodice ha scelto di raccontare i luoghi più suggestivi e dolenti della sua amata Napoli, Büchler parla del rapporto e dell’influenza che su di lui hanno avuto personaggi come Beckett, Kafka, Cage e Warhol.

Scelta in parte condivisa anche da Kosuth, che narra le sue relazioni con artisti e filosofi. Nel film Lo spazio che accoglie lo sguardo, l’abruzzese Ettore Spalletti sottolinea, invece, la genesi della sua pittura e i diversi momenti • Da sinistra: Sergio Sarra, Joseph Kosuth e Ettore Spalletti nei locali della galleria Vistamare che caratterizzano l’atto creativo.

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Atessa/Sassu

Roma/Grillo

Roma/Candeloro

Venezia/Bonanni

Sessanta ceramiche e sculture prodotte tra il 1939 e il 1989 da Aligi Sassu costituiscono il cuore della mostra in programma presso il Museo Sassu a Palazzo Ferri ad Atessa. E se ad Atessa, paese del vino, risplende l’arte di Sassu, a Tornareccio, paese del miele, i riflettori saranno puntati sui mosaici. Due eventi che hanno in comune la grande arte come motore di promozione e sviluppo di un territorio che vuole sottolineare come la cultura possa essere volano di sviluppo, purchè si punti su iniziative innovative e di grande spessore culturale, capaci di attrarre visitatori anche da fuori regione. Grazie ai due eventi, Atessa e Tornareccio si candidano a diventare un unico polo culturale e turistico, con un’offerta integrata e coinvolgente di arte, cultura ed enogastronomia.

Il terremoto dell’Aquila raccontato attraverso i volti dei suoi involontari protagonisti. È l’originale scelta stilistica di Roberto Grillo, il fotografo aquilano ospite al Vittoriano di Roma con la mostra L’Aquila. Volti e segni di un terremoto. Cinquanta scatti che raccontano le reazioni, i volti e le sensazioni di chi ha vissuto i drammatici eventi che il 6 aprile del 2009 hanno cambiato il volto di un’intera regione. La mostra, divisa in tre sezioni, Oggetto, Soggetto e Soggetto/ Oggetto, vuole essere, oltre che una testimonianza, la personalissima interpretazione di un evento che, come ammette Grillo, ha cambiato il suo sguardo sul mondo.

Un poker di artisti tra i più promettenti nel panorama nazionale sono i protagonisti della mostra Preview, di scena fino al 7 settembre presso la galleria Montoro12 Contemporary Art di Roma. In esposizione le opere di Riccardo Gusmaroli, Federico Guerri, Alia Scalvini, Alessandro Procaccioli e Lucilla Candeloro, che, pur mediante l’utilizzo di tecniche e linguaggi molto diversi tra loro, sono accomunati dal desiderio di confrontarsi con temi quali lo spazio, il viaggio, il gioco, afforntati ottenendo risultati che producono un forte impatto emotivo nello spettatore.

Tra i lavori esposti spiccano quelli dell’abruzzese Lucilla Candeloro, che con i suoi alberi arsi ci conduce all’interno di un universo poetico dominato dal senso della luce.

In concomitanza con la Biennale internazionale d’Arte di Venezia, sbarca in laguna l’artista aquilano Vincenzo Bonanni, con la mostra “Dreams”, allestita nelle sale di Ca’ Zanardi.

L’appuntamento veneziano segue il successo della personale intitolata Solitudini/Loneliness, presentata l’anno scorso all’Aquila durante la Perdonanza Celestiniana. Vincenzo Bonanni, sociologo di formazione e artista per vocazione, ha esposto per la prima volta a Roma nel 2008, ottenendo unanimi riconoscimenti, tra cui quello di un maestro del cinema come Mario Monicelli, che ha voluto inserire alcuni suoi lavori nel documentario-tributo Vicino al Colosseo c’è Monti, presentato fuori concorso alla 56° Mostra del Cinema di Venezia.

Città S.Angelo/Museo Laboratorio L’obiettivo è ambizioso: unire in un’unica esposizione discipline artistiche diverse, dal cinema alle arti visive. È quanto previsto al Museo Laboratorio, ex manifattura tabacchi, di Città S. Angelo, dove fino al 31 agosto sarà di scena Il grado zero dello sguardo. Il vernissage, giunto alla sua seconda edizione, vuole mostrare le diverse interazioni tra cinema e opere d’arte visive e plastiche. Allo spettatore viene proposto un percorso critico che spazia in una costellazione di luoghi tra loro diversi. L’intento è quello di far comprendere che un’immagine o un’opera possono essere intimamente fruite solo nella relazione con alre immagini e opere. Entrando nel dettaglio, ad ognuna delle opere selezionate nell’ambito della mostra viene abbinato un film, proiettato o trasmesso su di un monitor. Ad aiutare lo spettatore nel suo percorso interpretativo provvederanno brevi schede tecnicoesplicative. Quest’anno l’attenzione degli organizzatori è incentrata sul tema dell’emigrazione. Ciascuno dei linguaggi presi in considerazione offrirà dunque spunti di riflessione su questo delicato tema di attualità.

Il tutto nell’ottica, spiega l’ideatore della manifestazione Enzo De Leonibus, di “fornire immagini che danno da pensare e soprattutto immagini che danno da pensare nel momento in cui dialogano tra loro e il tempo”.

La mostra rimarà aperta tutti i giorni, dal mercoledì alla domenica, dalle 19.30 alle 23.30.

Castelbasso/ Paladino Un appuntamento da non perdere quello in programma fino al 30 settembre nel borgo medioevale di Castelbasso, dove vengono presentati i lavori più importanti di Mimmo Paladino. Nella mostra, curata da Laura Cherubini e Eugenio Viol, viene ripercorsa a lunga carriera dell’artista, e si evidenziano i motivi di continuità e divergenze all’interno della sua poetica, i temi prediletti, le fonti d’ispirazione, l’eclettismo. L’evento, dal titolo VARIeAZIONI, ben sintetizza la complessità dell’universo interpretativo di Paladino, declinato tra pittura, scultura, disegni, manufatti di terracotta e ceramica. La retrospettiva è promossa dalla Fondazione Malvina Menegaz e dall’Associazione Naca Arte.

• Tre opere esposte al Museo Laboratorio: dall’alto quelle di Francesco D’Incecco, di Angelo Colangelo (a sinistra) e di Franco Fiorillo.

Pescara/Barbi

Spoleto/Sciannella Ginevra/Odoardi

Un progetto di arte relazionale, un osservatorio urbano mobile, uno studio da realizzare con l’obiettivo di compiere un’opera insieme alla gente che si renderà disponibile alla compartecipazione. La ricerca di Emanuela Barbi, artista inquieta che si muove in territori sempre diversi nell’ambito della sua indagine sulla natura, con il suo nuovo progetto Girovita vive e si relaziona in cerca di nutrimento essenziale al di fuori dei canonici ambienti dell’arte: il suo terreno è la città, i suoi abitanti, la “gente”, che spesso rivela un gran bisogno di protagonismo alla ricerca del proprio essere.

L’arte come strumento di indagine del mondo interiore, come viatico per illuminare la vita nei momenti più difficili. È l’affascinante tema scelto per la mostra Arte in Terapia, 33 diagnosi d’artista, programmata nell’ambito della 56° Edizione del Festival dei Due Mondi e affidata a un un collettivo di artisti di fama internazionale, tra i quali spicca il teramano Giancarlo Sciannella. A caratterizzare l’evento di Spoleto è il carattere itinerante dell’esposizione, ospitata nei reparti dell’ospedale San Matteo degli Infermi, ma anche negli alberghi più belli della città. A Sciannella rende poi omaggio anche la città di Faenza. Alla Bottega Bertaccini fino alla fine di agosto saranno esposte una serie di opere in ceramica realizzate dall’artista abruzzese.

L’arte di Gino Sabatini Odoardi sbarca in Svizzera. Fino al 23 agosto la galleria Gowen di Ginevra esporrà sculture, installazioni, disegni creati negli ultimi anni dall’artista, che si divide tra Roma e Pescara, dove ha compiuto i suoi studi con Ettore Spalletti. Allievo di Jannis Kounellis, ha al suo attivo un nutrito curriculum di mostre importanti, personali e collettive. Moltissimi i riconoscimenti ricevuti, che lo hanno accreditato come una delle voci più interessanti del panorama artistico contemporaneo.

La mostra di Ginevra, dal titolo Tra le pieghe, sottolinea la cifra stilistica di Sabatini Odoardi e la sua polemica con il pensiero tradizionale e il continuo bisogno di conferme da parte dell’uomo.

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Vario ART 2013

FRANCO

FIORILLO Da bambino sognava di fare l’artista. Oggi, passati i 50 anni, Fiorillo è un bambino che scopre il mondo attraverso l’arte

«D

a che mi ricordo, ho sempre voluto essere un’artista». Parafrasando la celebre tagline del film Goodfellas (1991) di Martin Scorsese, incentrato sulla vita del “bravo ragazzo” Henry Hill, ecco una frase che rappresenta perfettamente Franco Fiorillo. Che “bravo ragazzo” nel senso comune dell’espressione, lo è davvero: il suo atteggiamento è genuino, il suo approccio all’arte (e alla vita) schietto, quasi naif. «Non ricordo un solo giorno della mia vita senza una matita in mano», rivela. Fiorillo, aquilano, guarda il mondo con gli occhi di un bambino; e lui stesso, superati da poco i 50 anni e con una moglie e due figlie, dice di non essere cresciuto. Del bambino ha anche l’entusiasmo, la gioia per le piccole cose, la critica disarmante alle convenzioni e alla modernità idolatrata, ma anche la curiosità verso il nuovo, il gusto della scoperta, che lo spinge costantemente in territori inesplorati.

Franco Fiorillo, pittore?

«Non solo».

Scultore?

«Anche».

Artista multimediale?

«Se proprio vogliamo fare il gioco delle categorie, sono un artista relazionale: un ibrido tra arte, giornalismo, psicologia e molte altre cose. È un concetto che abbraccia molte discipline ma si riconduce comunque a una forma d’arte, che mi accompagna fin da bambino».

Che vuol dire per un bambino essere un artista?

«Essere comunque proiettato in una dimensione estetica. Mi costruivo i giocattoli da solo, in legno, usando un coltellino. Ricordo di aver scolpito anche il modello di un Concorde da un ramo d’abete. E disegnavo: in famiglia, per me, per i miei amici, disegnavo a scuola, per la classe. All’università, per sconfiggere la mia paura degli insetti, li disegnavo dal vero».

Ha funzionato?

«Affatto, anzi la paura è peggiorata: vedessi che mandibole hanno, i ragni».

La tua formazione è avvenuta all’Aquila?

«Sì, in Accademia, con Fabio Mauri. Dopo il diploma ho comin-

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ciato ad affacciarmi negli ambienti pescaresi, all’epoca –primi anni Novanta– tra i più fertili e dinamici, come dimostra la magnifica esperienza di Fuori Uso. Oggi viaggio molto ma frequento perlopiù l’ambiente romano».

Hai sempre potuto fare quello che ti piaceva?

«Non sempre, ma in un certo senso sono sempre rimasto legato al settore artistico. Anche quando ho dovuto lavorare per vivere ho sempre svolto lavori che avevano a che fare con le mie attitudini, col disegno, con la creatività».

Ma la tua famiglia ti ha sempre sostenuto?

«Mio padre era un cuoco, di origine napoletana. Malgrado avesse una smisurata collezione di libri, da grande appassionato di arte e musica, l’arte non è mai stata il suo pane né è mai stata vista come un “lavoro” nella mia famiglia. Ma questo non ha impedito ai miei genitori di lasciarmi seguire i miei istinti, anzi: mi hanno aiutato fino alla fine dei loro giorni».

Prima del sisma vivevi in un meraviglioso palazzo all’Aquila…

«Avevamo diverse proprietà, una delle quali era questa casamuseo di 500 metri quadrati, piena zeppa di opere mie e di artisti che ho conosciuto: sono uno che scambia molto con i colleghi. Il terremoto si è portato via una parte della mia vita: circa 600 opere, più tutti i backup digitali. E oltre a collezioni di ogni genere, avevo una biblioteca ricchissima: ottomila volumi circa, tra settecentine e libri d’arte, opere rare, firmate o con dediche.

Circa 4mila sono andati perduti nel crollo dell’edificio, che ha interessato purtroppo proprio la biblioteca d’arte. All’indomani del terremoto, quando sono andato a esaminare i resti del palazzo, ho notato che alcuni libri, in particolare quelli antichi, bagnandosi erano diventati neri, non si distinguevano dai mattoni. Sotto i piedi di un vigile del fuoco ho recuperato un’Eneide del 1770. Quell’ammasso di macerie e cultura era affascinante, tanto che organizzai anche una mia personale a Roma con sculture realizzate con i libri».

Ne parli con una invidiabile serenità, come se non ti importasse di aver perso un simile tesoro…

«Tanto li ho letti…».

• Franco Fiorillo

VARIO

Antonio Iacovetti

Arte

Astrazione e realtà Un autore che ha fatto della contestazione il suo stile pittorico: l’analisi spietata della realtà esistenziale, la scrittura del linguaggio parlato, l’ironia sulle infinite ambiguità del contemporaneo di Annamaria Cirillo

L

a personalità artistica di Antonio Iacovetti appare condotta da una intrigante caratterialità che si impone anche nella scelta e nella decisa proposizione delle sue opere in nome di un messaggio diretto di contestazione o profondo confronto anche nell’attualità più recente dell’arte contemporanea. Quindi la sua arte si lega all’interno della nostra capacità di decifrazione e di appropriazione della istintuale astrazione del suo dato figurale siglato anche da scritture.

Disegni a colori ed in bianco e nero, acrilici su carta e tela, spesso accostati a frasi e aforismi trascritti; acquerelli di forte intensità coloristica ed episodicamente anche sculture, raffiguranti spesso teste di un particolare primitivismo fisiognomico, attoniti volti di alterate personalità, immagini talora traslate in pittura o anche singolarmente dipinte a mò di ritratto; verosimiglianze o vicinanze all’arte di Enrico Baj e di Tano Festa ma nel senso risalenti a Jean Dubuffet (1901-1985).

Tali opere costituiscono territorio astraente di incontri emotivi talora inquie-

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tanti che impongono una prepotente e diretta comunicazione. Quasi un raptus gestuale, di genuina sintesi espressiva, elabora infatti la tensione del suo inconscio e l’istante è colto dall’artista come spinta ad un diktat compositivo che obbedisce allo stato d’animo di quel preciso momento.

Quella idea improvvisa che è esigenza di carpire e fissare l’istante sulla tela o su qualsivoglia pezzo di carta purché si soddisfi e si plachi l’esigenza emozionale dell’impulso creativo, espresso a volte anche in geometrismi compositivi, figure a confronto che paiono esprimere sdegno o rivendicazione.

Quasi sempre un concetto di base della sua caratterialità vive nella sua arte nel rimando a Jean Dubuffet, fautore dell’Art Brut che in un’analisi spietata della realtà esistenziale ha voluto scrivere o disegnare il linguaggio parlato, percorrendo con ironia le infinite ambiguità di cui è fatto il linguaggio. Un’arte che va oltre la materia. Spesso l’artista dimentica di dare nell’immediato un titolo all’opera, lasciandolo a una futura attinenza del ricordo o completamente

libero alla personale interpretazione del fruitore. Noncuranze che appartengono anche queste a una personalissima vicinanza all’Art Brut (André Breton, Jean Paulhan, Antoni Tàpies ecc.) per la quale non esistono stimoli di confronto né accettazione di particolari valenze o tendenze imposte. In Iacovetti quest’assoluta libertà di pensiero è maturata nel percorso di continue esperienze culturali di tipo artistico, letterario e cinematografico, in tanti viaggi all’estero, fin dai primi anni Settanta, in Europa e anche negli Stati Uniti.

L’artista Iacovetti può quindi definirsi un caso unico per quantità di esperienze, viaggiatore di territori anche interiori, ricchi di percorsi allusivi e di verità, e lo è tuttora, tenacemente –nel caos dell’odierna globalizzazione– sempre alla ricerca di singolari ipotesi alternative o idee di conoscenza e di urticante comunicazione, ma comunque di coinvolgimento.

• In alto Antonio Iacovetti nel suo studio.

Nella pagina a fianco, quattro opere che ne rappresentano la produzione

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VARIO

Eventi

Fondazione Carichieti

M’illumino di Greco Continua l’importante attività culturale dell’istituto con la proposta di grandi mostre nel restaurato Palazzo de’Mayo a Chieti di Barbara Scorrano

È

stato il cantore della bellezza del corpo umano, indagato nelle figure di donna scolpite nel bronzo o tratteggiate nei disegni, ricolmi di una sensualità che non mancò di suscitare l’ammirazione dei grandi artisti del suo tempo. A cominciare da un maestro come Pablo Picasso che, visitando una sua mostra a Parigi, lo definiì il più grande disegnatore d’Europa.

Emilio Greco, protagonista indiscusso della scultura del Novecento, è celebrato ora in una mostra, La Vitalità della scultura, a cura di Gabriele Simongini, ospitata fino al 29 settembre a Palazzo de’ Mayo a Chieti. Una retrospettiva, quella dedicata al grande artista catanese di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita, fortemente voluta dalla Fondazione Carichieti e dal suo nuovo presidente, Pasquale Di Frischia, che prosegue così quel percorso di cura e promozione della cultura, da anni tratto distintivo nelle attività della Fondazione.

Nella retrospettiva, inaugurata il 29 giugno nel capoluogo teatino, c’è tutta l’evoluzione stilistica di Greco, consegnata ai disegni e alle sculture, dove l’armonia delle forme rimanda a un ideale di classicità sempre presente nell’opera dell’artista siciliano. Per capire la sua opera, avverte Gabriele

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Simongini nel saggio che accompagna il catalogo pubblicato dall’editore Allemandi, la si deve pensare come “un equivalente plastico, pur nella sua piena autonomia tecnica e linguistica, della poesia”. Del resto, lo stesso Greco è stato poeta, conquistando con le sue prose liriche lo scrittore Vincenzo Cardarelli, che a Roma, dove l’artista si era trasferito prima della fine della guerra per insegnare all’Accademia di Belle Arti, gli pubblicò alcuni lavori sulla rivista La Fiera letteraria. D’altronde, il consenso della critica accompagnò Greco lungo tutta la vita. Nel 1956 gli venne attribuito il Gran Premio per la scultura alla Biennale di Venezia dove espose La Bagnante n.1. I direttori dei più grandi e prestigiosi musei, dalla Tate Gallery di Londra all’Ermitage di San Pietroburgo, fecero a gara per ospitare le sue opere.

A tesserne le lodi furono davvero in tanti, non ultimo il conterraneo Leonardo Sciascia, per il quale “la sua saggezza, legata al corpo femminile come alla fonte della vita, dell’armonia, dell’accordo con se stessi e con il mondo, è la fondamentale originalità e vitalità della sua arte”.

Protagonista indiscusso dell’Accademia di Villa Massimo a Roma, voluta nel 1947 dall’allora ministro del governo provvisorio, Palmiro Togliatti, come atelier per gli artisti antifascisti, Greco ha

saputo sintetizzare in un’unità stilistica del tutto originale una molteplicità di richiami culturali che vanno da Donatello ai maestri del XX secolo, Picasso, Brancusi e l’amato Henry Moore, di cui Greco era grandissimo estimatore. La mostra di Palazzo de’Mayo anticipa altre due rassegne dedicate allo scultore, che in autunno saranno di scena a Londra e a Roma. Un’attenzione, quella abruzzese per Greco, non nuova. Già nel 1988 a L’Aquila venne ospitata una retrospettiva dedicata al maestro, presente, inoltre, con una scultura in bronzo e terracotta in una delle sale del Museo nazionale d’Abruzzo. E di arte, seppure declinata attraverso i codici miniati tra Medioevo e Rinascimento, racconta un interessante volume, Illuminare l’Abruzzo, pubblicato dalla casa editrice Carsa, a cura di Gaetano Curzi, Francesca Manzari, Francesco Tentarelli e Alessandro Tomei.

Un lungo e dettagliato itinerario sulla miniatura realizzata in Abruzzo grazie a figure quali Berardo, il maestro del Trittico di Beffi e Niccolò di Valle Castellana. Non un semplice censimento dei codici miniati realizzati in Abruzzo, ma un ampio ed esauriente repertorio, che attraverso la selezione dei materiali più importanti, illumina di nuova luce il panorama storiografico tradizionale.

• Nella pagina a fianco la copertina del catalogo della mostra “Illuminare l’Abruzzo”. Qui sopra: il nuovo presidente della Fondazione Carichieti Pasquale Di Frischia con il curatore della mostra su Emilio Greco, Gabriele Simongini, e il direttore del Museo di Roma. Sotto, la figlia dello scultore, Nicoletta Greco

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Peppino D’Emilio

Una questione di Convergenze

Sotto alcuni protagonisti di quella

Il Laboratorio Matta rende omaggio all’ideatore

un giovanissimo Andrea Pazienza,

e promotore della galleria d’arte, protagonista della scena artistica e culturale pescarese degli anni ‘70 di Barbara Scorrano

P

er una manciata di anni, dal 1973 al 1981, la sua galleria è stata una fucina di esperienze culturali, un contenitore dove trovavano spazio e forma concerti, mostre, recital di poesie e rappresentazioni teatrali. Una stagione magica legata al nome e all’attività di Peppino D’Emilio, fondatore di Convergenze, lo spazio espositivo dove si formarono alcuni degli artisti più rappresentativi di quegli anni, uno tra tutti Andrea Pazienza. A D’Emilio ha voluto rendere omaggio il Matta di Pescara, il nuovo spazio-contenitore per le arti della città, con una due giorni ricca di eventi, concerti, happening, dibattiti sul ruolo e la centralità di un personaggio cui la cultura abruzzese deve molto. L’evento chiamato Convergenze Matta - Città, arte, utopia è stato curato da Claudio Di Carlo, Arcangela Durini, Bruno Marini, Giovanni Mostarda, Germano Scurti e Antonio Zimarino. Come ricorda l’artista Sandro Visca, uno dei protagonisti indiscussi di quella stagione, che con D’Emilio condivise un’esperienza destinata a rimanere un unicum nella storia della città: «Il grande merito di D’Emilio è stato quello di aver creato con Convergenze un laboratorio culturale che andava ben al di là dei confini regionali. Si trattava di uno spazio che ha visto la formazione e il successo di decine di artisti, poi divenuti nomi importanti dell’arte». Del rapporto di D’Emilio con Andrea Pazienza, Visca ricorda l’affetto del gallerista nei confronti del giovane artista. «Andrea, che era mio allievo, era allora alle prime armi, ma era già evidente il suo spessore.

D’Emilio si innamorò artisticamente di Andrea e organizzammo una mostra dei suoi lavori, che contribuì non poco a farlo conoscere». Definire D’Emilio un semplice gallerista sarebbe però riduttivo. «Era un uomo appassionato di cultura, grande lettore, curioso delle varie espressioni artistiche. Un intellettuale a tutto tondo che seppe intercettare tutta la temperie culturale di quegli anni». Convergenze fu un’esperienza di avanguardia ben diversa dalle gallerie che sorsero dopo la sua chiusura. «La verità è che non aveva nulla di commerciale, ma era un luogo dove si produceva cultura».

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• Peppino D’Emilio nella Galleria Convergenze di Via De Amicis a Pescara. stagione culturale e artistica: Albano Paolinelli, Sandro Visca e Peppino D’Emilio

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Il gelato artigianale

Piccolo, grande piacere Tradizionale, classico o esotico. Innovativo, sfizioso e originale.

A base di olio d’oliva, di frutta fresca o biologico.

La passione per il cono non conosce crisi di Barbara Scorrano

• Nella foto in alto Tiziana Castelli dell’Altro Gelato in Piazza della Rinascita; sopra Valentina Sala della Bottega del Gelato di Via Piave.

In copertina Sofia Di Carlo della gelateria DeOro a Pescara.

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• Nelle foto alcune gelaterie di qualità a Pescara. In alto Luigi Parente; lo staff dell’Altro Gelato in Piazza della Rinascita; lo staff della gelatera 80Voglia di Via Roma; Riccardo

S

arà che, come dimostrato in un recente studio, è un toccasana per il buonumore, sarà che a giuste dosi non è una minaccia per la linea, sarà, soprattutto, che tra gli sfizi è decisamente low cost. Quali che siano le ragioni, resta il fatto che il gelato, classico o dal gusto esotico, sotto l’ombrellone o sulla tavola, non conosce declino. E come ogni estate è boom di consumi. Un vero ambasciatore del gelato pescarese, pluripremiato su tutte le riviste di settore è Fabrizio Camplone. Il mastro pasticcere tende all’utilizzo della frutta come ingrediente principe delle sue creazioni: «Non potrebbe essere altrimenti in una stagione come quella estiva. La qualità della frutta che adoperiamo amplifica sapore e gusto». Come ben sanno i tanti vip che, di passaggio a Pescara, non mancano di fare tappa nel tempio cittadino dei dolci, Caprice in piazza Garibaldi. Tra le creazioni che frullano nella mente del maestro pasticcere, una variante di gelato a base di mostacciolo farcito con amarene. Una leccornia

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destinata a conquistare anche i palati più esigenti. E non mancano le sperimentazioni, l’ultima delle quali accosta il gelato all’olio di oliva. È quanto propone La bottega del gelato di Lorenzo Camplone e Riccardo Casiraghi in via Piave, ultima nata tra le gelaterie stellate pescaresi, che offre anche una linea di prodotti in cui la parte grassa proveniente dal latte e dalla panna è stata sostituita con l’alimento principe della dieta mediterranea. «In questa maniera –spiegano i titolari– si unisce la bontà al benessere a vantaggio anche dei clienti che sono intolleranti al latte o ai suoi derivati. Senza contare che non ci sono glutini: viene utilizzato fruttosio al posto dello zucchero, e inulina, una fibra vegetale che regola l’equilibrio della flora intestinale». Su versanti più tendenti al classico, le offerte della gelateria 80 Voglia, in Via Roma, dove i ragazzi, ma non solo loro, fanno la fila per rinfrescarsi, a qualunque ora, con il mitico cono ai gusti più fantasiosi. «Va moltissimo il Pinopinguino a base di Nutella –spiega Gabriella Mammarella,

Cas

rdo

Casiraghi della Bottega del Gelato in Via Piave; Sopra le creazioni di Caprice di Piazza Garibaldi; Romeo Frusciacchi della Gelateria DeOro sul lungofiume Paolucci.

titolare della gelateria insieme a Luigi Parente– ma anche le classiche creme che non passano mai di moda». In pochi sanno poi rinunciare alle godurie proposte dalla gelateria De Oro, di Romeo Frusciacchi, sul Lungofiume Paolucci. Un consenso cresciuto in tempi brevissimi che ha reso il locale uno dei punti di riferimento degli amanti di questa prelibatezza:“Abbiamo coniugato - spiega Frusciacchi - la qualità degli ingredienti alla ricerca di gusti originali, come la Dannunziana, a base di arancia candita e Aurum e la Pescarese, con il dolce tipico del territorio”. Famoso poi per il gusto alla crema che ricorda quella fatta in casa grazie all’utilizzo delle bacche di vaniglia, L’altro Gelato in Piazza della Rinascita. Un angolo di paradiso per chi non vuole rinunciare a questo piacere del palato. «La nostra fortuna commerciale sta nell’utilizzo di prodotti di grandissima qualità –sottolinea Tiziana Castelli– del tutto genuini. Non abbiamo bisogno di scrivere l’etichetta “biologico” sui nostri prodotti perché i clienti sanno che

usiamo solo ingredienti naturali: il gusto al pistacchio che piace tanto è fatto con il pistacchio di Bronte, così come il mascarpone con le perle di cioccolato, altro must del nostro locale». Stando a una recente indagine dell’Eurisko, al gelato non rinuncia l’85% della popolazione, che dichiara di consumarlo abitualmente. E chissà se avrebbe pensato a tanto successo Francesco Procopio, il pasticcere palermitano vissuto nella seconda metà dei Seicento, cui si imputa l’invenzione del gelato così come lo conosciamo oggi. E seppure alcuni storici contestano al cuoco siciliano la paternità del gelato, attribuendola ad un architetto fiorentino, Bernardo Buontalenti, che avrebbe creato una mitica miscela di ingredienti, su un dato non c’è possibilità di interpretazioni: al gelato non si può rinunciare, tanto più nei tempi di crisi, quando con pochi euro ci si può regalare un piccolo grande piacere, in grado di allontanare l’amaro delle difficoltà.

Barbara Scorrano

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Maria Rita, Marina e Diana D’Orsogna

Le sorelle tutto pepe Anice, cannella e maggiorana; dragoncello, pimento e peperoncino.

Il successo ha il profumo delle spezie • Diana, Marina e Maria Rita D’Orsogna nel loro atelier.

In basso una vetrina dei loro prodotti

D

i sorelle di successo nel mondo imprenditoriale è piena la storia; e i loro nomi, soprattutto nell’alta moda, sono famosissimi. Anche le tre sorelle Maria Rita, Marina e Diana D’Orsogna hanno cominciato da lì, allestendo un atelier di alta moda nella natìa Lanciano; ma il successo, più che nell’haute couture, gli arrideva grazie all’haute cuisine, ovvero nei buffet che seguivano alle sfilate.

Merito del talento di Diana, abile cuoca, raffinata soprattutto nel miscelare sapientemente sapori e spezie. E così le tre sorelle si sono subito spostate in un altro tipo di atelier, quello gastronomico. Sempre di alto livello, naturalmente; e ritagliandosi un posto d’onore in un settore particolare ma fondamentale come quello delle spezie. E dire che il padre, che aveva fatto fortuna in Australia proprio con i prodotti agricoli e un salumificio, le aveva ammonite: “Mai donne in campagna”, diceva. Un monito parzialmente disatteso da Diana, che nel 2004 decise –un po’ per gioco, un po’ per sfida– di creare una linea commerciale di spezie raffinate, la “Diana Gourmet” (www.dianagourmet.it), unica allora in Italia per tipologia di prodotti, che catturava con eleganza e originalità i profumi dell’Oriente, in unione alle fragranze e agli aromi della nostra civiltà contadina, quasi scomparsa. Un’iniziativa subito condivisa da Maria Rita e Marina: «Abbiamo sempre fatto tutto insieme» confida fiera Diana. In breve tempo, a rimanere conquistati dagli eleganti barattoli dai nomi evocativi –l’Apicio (dolce e piccante), il Delicato per carni grigliate, il Verde Abruzzo ideale per formaggi freschi, Sapori di Mare e l’Originale– furono in tanti, dai critici blasonati di prestigiose riviste enogastronomiche come il Gambero Rosso, ai vip ita-

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liani e stranieri, come Lucio Dalla, Carlo Verdone, Renzo Arbore, Gigi Proietti e persino Carlo d’Inghilterra, che in occasione delle nozze con Camilla ha ricevuto un prezioso e gradito scrigno di spezie rare. Dono ricambiato con una lettera di ringraziamenti che le sorelle D’Orsogna custodiscono gelosamente ed espongono con orgoglio nel loro laboratorio. A Torino, l’elegante Delfina Rattazzi e altri componenti della famiglia Agnelli sono clienti abituali delle spezie delle sorelle D’Orsogna. In pochi anni per le sorelle lancianesi è stato un susseguirsi di riconoscimenti. Il celebre gastronomo francesce, Alain Denis, ha voluto Diana D’Orsogna come consulente per il suo libro dal titolo “Erbe, Spezie e Condimenti. Aromi e sapori di un gourmet”, bibbia dei maggiori chef stellati italiani.

Tra le ragioni del successo della linea, la perfetta simbiosi, nella vita come nel lavoro, delle tre sorelle. Tutte per una, una per tutte. Il resto lo fa la qualità e l’originalità delle loro proposte.

Tra le erbe e le spezie aromatiche sapientemente inventate dalle tre sorelle, il non plus ultra –perché si tratta di un condimento tipicamente abruzzese– è il “Mosto Cotto” da uve di Montepulciano d’Abruzzo. Un must e un condimento prelibato inarrivabile, ottimo su carni alla brace e bollito; meglio ancora su formaggi freschi e quelli stagionati; e anche sulla frutta. Ed è eccellente con gelati e dolci. Spiega Maria Rita: «Io consiglio di provare il nostro Mosto Cotto con un pezzetto di formaggio brie assieme a una fragola o a dei chicchi di uva, ottimo su una fetta di melone bianco e su una pera». Con l’accompagnamento, magari, di un calice di Pecorino delle tante cantine di qualità abruzzesi… e buon appetito!

George Spoltore

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Eventi

Spoltore a tutta birra I birrifici artigianali abruzzesi si ritrovano nel borgo del Pescarese in un festival che celebra l’immortale bevanda più famosa del mondo • Qui sopra i titolari del birrificio Desmond di Cavaticchi nel loro locale con Juri Ferri, titolare del birrificio Almond di Spoltore (secondo da sinistra)

U

ndici anni fa decise di lasciare un buon lavoro da consulente per mettersi a fare il birraio. Una scelta che ha fatto la fortuna di Juri Ferri, patron della Almond a Spoltore, uno dei marchi più apprezzati dagli intenditori. Come del resto la Desmond, l’azienda nata negli stessi luoghi e nota per le sue birre non filtrate, non pastorizzate ma crude, così lontante dai prodotti industriali che, avvertono gli esperti, sono privi delle caratteristiche organolettiche e nutritive di cui la birra è originariamente ricca. La birra artigianale, celebrata anche da Shakespeare ( “un boccale di birra è un pasto da re”), è stata protagonista della quarta edizione del Febar, il festival della birra artigianale organizzato a Spoltore. Una tre giorni all’insegna della musica live, dei piatti della tradizione enogastronomica abruzzese e della bevanda annoverata tra le più antiche del mondo. Ormai sdoganata anche dai gourmet più raffinati, che la propongono con piatti della tradizione e non solo, la produzione di birra in Abruzzo muove un indotto pari a 6 milioni di euro. Un traguardo destinato ad essere superato, visti i brillanti risultati commerciali conseguiti nel giro di pochi anni dai birrifici locali, ormai riconosciuti tra i migliori in Italia. A Spoltore gli appassionati hanno potuto gustare oltre 30 tipi di birra alla spina, a riprova che la birra può avere infinite declinazioni di gusto. Purchè non si deroghi alla prerogativa della qualità degli ingredienti di base.

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Lo stile italiano della pizza

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DALLA TERRA LA CRESCITA DELL’ABRUZZO A Mosciano un seminario sulle sfide dell’agroalimentare d’Abruzzo

È

stata la Facoltà di Bioscienze e Tecnologie Agroalimentari e Ambientali dell’Università degli studi di Teramo, a Mosciano Sant’Angelo, la sede scelta per presentare lo scorso venerdì 19 luglio il “Rapporto sul sistema agroalimentare abruzzese”,il primo studio dettagliato sulle dinamiche del comparto a livello regionale. Il rapporto, spiega Salvatore Di Paolo, presidente del Polo «è frutto della positiva collaborazione che all’interno del Polo di innovazione si è instaurata tra imprese, centri di ricerca e università. Una collaborazione che ci consente per la prima volta di trasformare le informazioni in strategie operative e quindi intervenire su tutta la filiera agroalimentare, da una parte migliorando i prodotti e adeguando i processi e, dall’altra, sfruttando le opportunità che l’export in crescita offre sul mercato estero”.Realizzato dal Polo Agire insieme all’Università di Teramo, all’Inea (Istituto nazionale di economia agraria) e al Cresa, lo studio è stato discusso all’interno di un seminario sul tema “L’agroalimentare abruzzese tra crisi e crescita” alla presenza di Luciano D’Amico, rettore dell’Università degli Studi di Teramo, Dario Compagnone, preside della Facoltà di Bioscienze e Tecnologie Agro-Alimentari e Ambientali, Salvatore Di Paolo, presidente del Polo Agire, Alberto Manelli, direttore generale dell’Inea, Alfredo Castiglione, vice presidente e assessore allo Sviluppo Economico della Regione Abruzzo e di Mauro Febbo, assessore alle Politiche Agricole e Sviluppo Rurale della Regione Abruzzo.

Qual è dunque lo stato dell’arte nel comparto agroalimentare?

Fra luci ed ombre, la ricerca condotta dal Polo evidenzia una situazione che, seppure in controtendenza rispetto all’andamento nazionale, mostra alcune rilevanti criticità soprattutto nei consumi interni, mentre il sistema si regge soprattutto grazie a una buona performance delle esportazioni.

«Il settore agroalimentare –commenta Donato De Falcis, amministratore delegato del Polo Agire– è caratterizzato da una forte eterogeneità: non tutti i segmenti hanno le stesse performance e i soggetti della filiera sono diversi sia per competizione che per redditività. E questo è uno degli aspetti messi in luce dal rapporto, che analizza tutto il comparto, dalla produzione alla trasformazione al consumo fino all’esportazione. Proprio in merito all’export si rileva la capacità del settore agroalimentare, anche in un momento di crisi come quello che stiamo vivendo, di imporsi bene sul

• Salvatore Di Paolo, presidente del Polo Agire, con l’amministratore delegato Donato De Falcis

mercato internazionale: i prodotti regionali sono ben apprezzati a livello globale».

Il dato più preoccupante, stando alla relazione presentata, è infatti quello che riguarda i consumi: «Il consumo interno –prosegue De Falcis– si è notevolmente ridotto, dopo cinque anni di crisi le famiglie non hanno più soldi da spendere. Purtroppo questa flessione si verifica (e credo sia la prima volta nella storia) anche per i prodotti alimentari: in genere il settore agroalimentare è considerato “anelastico”,non segue cioé l’andamento del reddito; in questo caso invece si è dimostrato elastico, e i consumi dei prodotti alimentari in presenza di un calo del reddito pro capite si sono ridotti notevolmente. In generale il consumatore si orienta sui prodotti a minor costo, e guarda con favore al consumo locale e alla filiera corta. Vengono quindi privilegiate iniziative come quella di Campagna Amica di Coldiretti, che offre prodotti locali di qualità a prezzi contenuti grazie all’abbattimento dei costi di filiera. A tal proposito insieme a Coldiretti e alla Confederazione Italiana Agricoltori il Polo Agire sta sviluppando un progetto di filiera corta per mettere in condizione le imprese della nostra regione di accedere direttamente al mercato attraverso un sistema organizzativo adeguato, certificazioni di qualità e infrastrutture per facilitare questo tipo di rapporto.

Quindi le politiche del Polo cominciano a dirigersi anche verso il mercato interno, non solo all’internazionalizzazione delle imprese «Certamente. Le esportazioni rappresentano una parte importante, ma non decisiva. La maggior parte dei prodotti finiscono sul mercato interno e su quello locale. Ma il rapporto mette in luce anche un altro aspetto importante: e cioé che le aziende dell’agroalimentare manifestano un alto fabbisogno di innovazione e di ricerca. Per essere competitivi si ha bisogno di un prodotto migliore qualitativamente, costantemente nuovo, in grado di essere realizzato a costi bassi: tutti elementi che fanno riferimento all’innovazione come strategia. Ed è questa la funzione che si è data principalmente il Polo. Favorire il trasferimento di conoscenze all’interno dei processi produttivi che mettano in condizione le imprese di essere competitive. La maggior parte delle nostre imprese non sono in grado di produrre da sole innovazione, hanno bisogno di trovarla disponibile da parte di altri soggetti, come appunto il Polo d’Innovazione».

VARIOGUSTO

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DE CECCO

NEL NOME DELLA PASTA Dalle sorgenti incontaminate, pure e limpide della Maiella l’acqua scende fino a Fara S. Martino, dove lo storico pastificio De Cecco produce la pasta che ormai è sinonimo della qualità abruzzese nel mondo.

E ora l’azienda lancia sul mercato una nuova linea di prodotti che si apprestano a diventare un must sulla tavola degli italiani

«S

ono 127 anni che siamo sul mercato e ci saremo anche tra 127 anni!”. Filippo Antonio De Cecco, presidente del pastificio abruzzese che nel mondo è sinonimo di qualità, ha lanciato la sfida al futuro prendendo spunto dalla storia.

La frase, che ha scatenato l’applauso dei presenti, è stata pronunciata il 10 aprile a Ortona, nell’ambito del discorso di presentazione della due nuove linee di produzione, una per la pasta lunga e una per la corta. L’investimento nello stabilimento della frazione Caldari _ circa 30 milioni di euro compreso un contributo della Regione _ permetterà di aumentare la capacità produttiva di circa il 30, 35 per cento, lasciando inalterate le caratteristiche qualitative dei prodotti. Eh già, perché per De Cecco la qualità è un dogma, un principio inviolabile sancito dal fondatore dell’industria, il geniale Filippo De Cecco, e ribadito quotidianamente dai discendenti.

A fianco del presidente Filippo Antonio, ci sono gli amministratori delegati Giuseppe Aristide e Saturnino De Cecco.

Giuseppe Adolfo De Cecco, invece, è il presidente dell’unità di Ortona.

Adesso la capacità produttiva dell’azienda che ha le radici a Fara San Martino è

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di circa 200 quintali di pasta di semola all’ora. Nel ventaglio dell’offerta bisogna aggiungere altri prodotti, sempre di fascia premium: pasta all’uovo, pasta di di Kamut e integrale, olio, sughi, rossi, aceto balsamico di Modena, farine e, da poche settimane, i sostitutivi del pane, per i quali è stato scelto un nome fascinoso: I Grani.

Per i Grani, le referenze sul mercato sono nove e tutte di altissimo livello: tre Pan Soffice, due Grissini, due Cracker, un Grissinotto e un Tarallino. La caratteristica del bakery De Cecco è rappresentata dalla qualità e dalla varietà dei grani utilizzati: grano duro, grano tenero, Kamut e grano saraceno. Non c’è in nessun prodotto neppure la minima percentuale di grassi idrogenati, coloranti e Ogm. In compenso, fa bella mostra l’olio extravergine d’oliva.

L’obiettivo della De Cecco è diventare il secondo brand del ricco e composito mercato dei sostitutivi del grano. La sfida è lanciata.

A conferma che in De Cecco la qualità è un valore imprescindibile, c’è la Certificazione di prodotto rilasciata dalla società norvegese Dnv, o meglio Det Norske Veritas, uno degli enti di certificazione più autorevoli al mondo, che va a implementare un percorso già avviato da anni con l’adozione del Sistema di

A Qualità ISO 9001. La certificazione di prodotto attesta che la pasta è conforme alle caratteristiche di eccellenza dichiarata dal soggetto certificato: la De Cecco è il primo produttore di pasta in Italia ad aver ricevuto questa certificazione. Sono sette i parametri che garantiscono la qualità della pasta De Cecco: resa dell’estrazione della semola non superiore al 60 per cento, indice di glutine non inferiore al 70 per cento, granulometria delle semole (sulle presse la semola con granulometria superiore ai 425 micron è superiore al 40 per cento), temperatura dell’acqua di impasto inferiore ai 15 gradi centigradi, tempi di essiccazione tra le 18 e le 36 ore, tenuta alla sovracottura e trafile in bronzo.

Azienda fortemente legata nell’anima al territorio abruzzese, ma da sempre a vocazione internazionale, la De Cecco deve quasi la metà dell’importante fatturato, alle esportazioni. Fatturato che negli ultimi anni, malgrado la fortissima crisi economica, è sempre cresciuto: 341 milioni nel 2010, 373 nel 2011 e 393 nel 2012.

L’internazionalizzazione viene confermata dalla presenza in Russia, dove sono state acquisite quattro aziende: tre produttive a Smolensk, San Pietroburgo e Mosca e una di servizi, sempre a Mosca. Il fatturato è di

36 milioni di euro di soli prodotti locali e le persone impiegate, al primo gennaio 2013, sono poco più di 500. La Russia è stata scelta per la grandezza del mercato (il quarto nel mondo), le performance di crescita e l’evoluzione delle abitudini alimentari: la tradizionale pasta di grano tenero sta via via cedendo il passo alla pasta di grano duro, per intenderci quella italiana.

De Cecco internazionale nella vocazione, italiana nella cultura e fortemente abruzzese nei valori. De Cecco a Fara San Martino, nel fatato scenario ai margini del Parco della Majella (un pezzo dello stabilimento, addirittura, è all’interno del Parco).

Lì si produce la pasta dal 1986. De Cecco nella piana di Caldari, a Ortona, dove c’è l’unità produttiva da poco oggetto dell’ampliamento industriale inaugurato da presidente Filippo Antonio De Cecco e dal governatore della Regione Gianni Chiodi. De Cecco a Pescara, nel moderno centro direzionale che si staglia nel cuore di Porta Nuova, sulle ceneri del vecchio Molino De Cecco.

Tra gli aspetti che contribuiscono a rendere unica la De Cecco c’è l’acqua della Majella. Viene captata pura e limpida alla sorgente. Una condotta la porta all’impianto di Fara e un’altra, lunga una

trentina di chilometri, a Caldari.

Filippo Giovanni De Cecco, il fondatore, oggi sarebbe orgoglioso della sua industria. Orgoglioso proprio come ai suoi tempi, quando era un infaticabile mugnaio famoso per fare “la farina migliore del contado”. Nel 1886, Filippo Giovanni decise di diventare pastaio. A lui, e lo riconosce anche l’enciclopedia Treccani, va ascritto il merito di aver creato il primo impianto ad aria calda di essiccazione artificiale della pasta. Geniale.

Nelle foto lo stabilimento di Ortona recentemente rinnovato. In questa pagina il Cavaliere Filippo Antonio De Cecco e la nuova linea di prodotti “I Grani”

F.LLI DE CECCO di FILIPPO FARA S. MARTINO S.p.A. Il celebre pastificio, attivo dal 1886, dal cuore della Maiella ha portato nel mondo il nome dell’Abruzzo grazie a una produzione di qualità superiore, che oggi comprende paste alimentari, farina, semola e sottoprodotti (oli, sughi, etc.).

Zona Industriale 66015 Fara S. Martino (CH) Tel. +3908729861 Fax +390872980426 www.dececco.it E-mail: dececco@dececco.it

VARIOGUSTO

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matalucci

LA DONNA DELL’OLIO Un frantoio al servizio del territorio, un paesaggio incantevole e una signora molto determinata: questi gli ingredienti di un olio D.o.p. di altissima qualità, prodotto e commercializzato a Pineto e presto disponibile nelle case di tutti gli italiani

S

ulle colline che circondano Pineto, il paesaggio è dominato dalla campagna e dalle coltivazioni.

Vigne e oliveti ricoprono i pendii, case coloniche e piccoli antichi borghi si alternano armoniosamente in una delle zone più suggestive dell’intera regione. È qui, in una meravigliosa cornice naturale, che Ortenzia Matalucci conduce una piccola azienda olearia. «L’azienda era di proprietà di mio suocero –racconta la signora Matalucci– Vincenzo De Luca, che utilizzava il frantoio per lavorare le olive in conto terzi. Andato lui in pensione e non potendo io trenta anni fa con due bimbe andare a lavorare altrove decisi di rilevare l’attività». Una decisione che si è rivelata difficile, almeno in una prima fase. «Certamente mi è costata molta fatica, non solo dal punto di vista strettamente imprenditoriale, ma anche perché quello del frantoio era un lavoro “per soli uomini”: nella cultura contadina dell’epoca il compito delle donne era quello di servire i pasti e svolgere attività più casalinghe. Con il passare degli anni invece le cose sono cambiate: mi sono inserita positivamente in questa attività e ho assistito con piacere al mutamento anche nella concezione dei ruoli, nella mia come in

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altre aziende del settore agroalimentare». L’emancipazione della donna dal retaggio culturale agricolo ha portato cambiamenti importanti, e ha anzi visto le donne assumere in misura sempre maggiore ruoli di responsabilità, non solo all’interno delle proprie attività ma anche in seno alleassociazioni di categoria e di rappresentanza. E proprio l’impegno e la caparbietà di Ortenzia Matalucci le hanno fatto conquistare posizioni di tutto rispetto: «Sono stata eletta presidente della sezione frantoi oleari in Confindustria Teramo. È un ruolo prestigioso e importante, ma tra le attività che svolgo al di là di quella in azienda una a cui tengo molto è quella con l’associazione Pandolea, ovvero le donne dell’olio italiane. Pandolea cerca di diffondere la conoscenza dell’olio, sia a livello di valore del prodotto oleario che dei suoi effetti positivi nell’alimentazione. È un’azione che conduciamo soprattutto nelle scuole, dove noi produttrici siamo affiancate da nutrizionisti, agronomi, personale di supporto psicologico, giornaliste».

Recentemente l’azienda ha intrapreso un percorso di rinnovamento e di ampliamento che ha riguardato non soltanto le strutture ma anche le

attività. «È stato mio nipote, Berardo Matalucci, ingegnere che lavora negli Usa, a realizzare il nuovo capannone con materiali innovativi: policarbonato, legno naturale. La produzione ora consta di due linee, una tradizionale con carrelli in acciaio esterni, e un frantoio a ciclo continuo Barigelli, con spremitura a freddo e una elevata capacità lavorativa. Dalla lavorazione continua recuperiamo anche il nocciolino, che adoperiamo come combustibile nelle caldaie, per il riscaldamento, per l’acqua, e per le ventole. Inoltre nell’antico casale di famiglia abbiamo ricavato una zona per l’imbottigliamento e un piccolo negozio per la vendita dei prodotti aziendali». In azienda lavorano l’infaticabile Ortenzia aiutata dal marito Gino, dalle tre figlie Grazia, Roberta e Giulia e dai generi Massimo e Piero che nel periodo di conferimento delle olive e quindi nei mesi di molitura si avvalgono della collaborazione di circa dieci operai specializzati. «Durante l’anno –spiega la titolare– mi occupo anche di svolgere tour didattici per le scolaresche e per i turisti che visitano la nostra regione.

Ritengo molto importante un’azione educativa tesa a far conoscere un modo sano e pulito di alimentarsi, preferendo

prodotti genuini come l’olio extravergine d’oliva, e in particolare quello D.o.p.

Pretuziano delle colline teramane: prodotti che malgrado l’altissimo valore dal punto di vista nutrizionistico non sono ancora oggi accompagnati da politiche regionali che li valorizzino anche in termini di mercato».

Tra i prodotti dell’Oleificio Matalucci va menzionato senz’altro l’olio Dop extravergine da agricoltura biologica, fiore all’occhiello dell’azienda, e gli olii aromatizzati «che –sottolinea la titolare– vengono realizzati solo con prodotti naturali: aglio, peperoncino, arancia e limone. Da qualche tempo abbiamo lanciato anche una linea di patè e di sott’oli, e stiamo mettendo a punto una linea cosmetica a base di olio d’oliva extravergine e latte d’asina». Degne di nota sono anche le originali confezioni di olio per condimento in versione spray, in bottigliette di vetro.

Tramite la Camera di commercio di Teramo, l’oleificio Matalucci si è fatto onore in diverse fiere, tra cui il prestigioso Sol di Verona al quale si è presentato col nuovo logo aziendale.

Grazie alla partecipazione nel Polo Agire –conclude Ortenzia Matalucci– abbiamo intrapreso due progetti: il primo

è quello per ottenere la certificazione di qualità Iso 9001, il secondo prevede l’allestimento e la formazione di una rete vendita per esportare i nostri prodotti al di fuori del mercato di riferimento, attualmente limitato al territorio regionale. Crediamo fortemente nella qualità del nostro prodotto e vogliamo dare al nostro olio la massima diffusione possibile».

•In questa pagina due momenti del lavoro nel frantoio. Nella foto in alto la famiglia Matalucci: Gino, Ortenzia e le tre figlie Grazia, Roberta e Giulia

Oleificio Matalucci Ortenzia Trasformazione olive con impianto continuo e discontinuo per la produzione di olio extravergine (biologico,dop, agrumati e condimenti), vendita di olio extravergine (biologico, agrumati e condimenti) in diversi formati, vendita di prodotti sott’olio.

Via Orsa Maggiore, 14, 64025 Scerne di Pineto (TE) Tel/Fax: +39 0859462129 www.oliomatalucci.it info@oliomatalucci.it

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API PESCARA-CHIETI

VICINI ALLE IMPRESE L’associazione datoriale grazie alla sua capillarità e alla specificità delle sue competenze riesce a dare risposte veloci ed efficaci alle sue associate, specialmente in tempi di crisi.

Con l’obiettivo di farle crescere e di aprire i loro orizzonti oltreconfine

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l fianco delle aziende per la crescita e lo sviluppo, ma anche per risolvere i problemi legati all’attività commerciale, soprattutto per quanto riguarda l’apertura verso i mercati esteri. Quello dell’internazionalizzazione è un tema che sta particolarmente a cuore all’API Pescara-Chieti, una delle principali associazioni datoriali che raggruppa oltre 300 aziende e che “sconfina” oltre il proprio territorio di riferimento, fin nell’area costiera del teramano e nella Valle Peligna. «La maggior parte dei nostri associati sono aziende del settore edile, ragione per la quale siamo presenti anche nel Polo dell’Edilizia; ma abbiamo associati che operano in comparti diversi, tra cui circa 60 appartenenti al gruppo dell’agroalimentare». Chi parla è Mauro Di Cola, che del settore agroalimentare è responsabile all’interno di API Pescara-Chieti, l’associazione di imprese con sede a Montesilvano che da diverso tempo ha assunto anche il carico della Provincia di Chieti, diventando così API PescaraChieti. «Essere vicini alle aziende per noi significa supportarle in tutta una serie di necessità, che possono andare

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dalle più banali alle più complesse.

Svolgiamo la nostra azione sia a livello di rappresentanza istituzionale, con la presenza di nostri rappresentanti ai principali tavoli di discussione, sia a livello sindacale (tra l’altro l’API, aderente al Sistema Confapi, è titolare del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro per la Piccola Industria, ovvero per le aziende da 5 a 249 dipendenti, vale a dire la maggior parte del tessuto imprenditoriale abruzzese), sia a livello organizzativo, e qui si parla di internazionalizzazione. Del resto, circa l’80% delle aziende da noi rappresentate fanno export in maniera massiccia». È la differenza sostanziale tra l’API e altre associazioni di categoria: un’attenzione maniacale agli aspetti commerciali e una competenza specialistica in materia di commercio e rapporti con l’estero, basata sulla grande esperienza dei suoi dipendenti e sulla capacità dell’associazione di relazionarsi con enti omologhi sparsi nei quattro angoli del globo. «Uno dei mercati più attenzionati dalle nostre aziende è attualmente quello russo – prosegue Di Cola– e non a caso siamo presenti, come Confapi, nella task force italo-russa, che si riunisce due volte

l’anno, una volta in Italia e una volta in Russia; questo semestre la riunione si è tenuta nella regione del Nizhniy Novgorod, alla presenza del Ministero dello Sviluppo Economico. E sempre su questo fronte abbiamo partecipato lo scorso aprile ad un bando, con i fondi del PSR, supportando un progetto di internazionalizzazione di 14 nostre aziende di vari comparti, per fare promozione in Polonia, Lettonia, Estonia, Lituania e Finlandia. Abbiamo altresì supportato le nostre aziende nella partecipazione a diverse fiere in Italia e all’estero –basti pensare a ExpoItalia, fiera di Bruxelles del 2011, oppure alla partecipazione delle varie edizioni di TuttoFood ed Artigiano in Fiera a Milano o al Cibus di Parma– di concerto con il sistema delle CCIAA d’Abruzzo, ovvero Centro Interno e Centro Estero, e con il sostegno della Regione Abruzzo». Ma c’è un altro fronte sul quale l’API è molto attiva: quello della formazione. «Dalla nascita del gruppo agroalimentare (nel 2011) ad oggi, sono stati implementati (vinti) fondi pari a circa 150mila euro, destinati alla formazione di dipendenti delle aziende agroalimentari –importi davvero notevoli, visti i periodi

di “magra” – grazie alla partecipazione ai bandi FAPI (i fondi interprofessionali per la formazione continua) della Confapi (di cui noi siamo espressione territoriale, con le varie API), oppure grazie alla partecipazione a bandi provinciali e regionali». I fondi interprofessionali sono stati istituiti perché la legge obbliga le aziende alla formazione continua e sono costituiti dallo 0,30 per cento dei contributi versati all’Inps dalle aziende mensilmente.

«Ogni anno –prosegue Di Cola– si pubblicano bandi per la formazione aziendale: l’anno scorso il Fapi a livello nazionale ha avuto a disposizione circa 16 milioni di euro, e l’Abruzzo ha avuto accesso a circa 400mila euro destinati alla formazione dei dipendenti aziendali. La maggior parte li abbiamo impiegati proprio per la formazione alle aziende agroalimentari: i lavoratori messi in formazione, solo in questo comparto, sono stati oltre 60, appartenenti a più di dieci aziende.

Con il nostro ente accreditato alla Regione Abruzzo, Formapi srl, supportiamo le esigenze formative e progettuali delle nostre aziende associate».

Nelle foto: la partecipazione delle aziende del gruppo API Agroalimentare ad Artigiano in Fiera del 2012 e lo stand del presidente del gruppo Agroalimentare, Claudio Cosanni della Evangelista Liquori ad ExpoItalia 2011 a Bruxelles.

API PESCARA-CHIETI Rappresentanza istituzionale, relazioni sindacali, formazione e internazionalizzazione: questi i principali rami di attività dell’API Pescara - Chieti, che conta circa 300 aziende associate.

C. so Umberto I , 207 65016 Montesilvano (PE) Tel. 0859435382 Fax 0859435376 info@api-pescara.it www.api-pescara.it

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EATARTE

Fast food, slow taste Giovane, dinamica e innovativa, l’azienda di Chieti è entrata nel business della ristorazione veloce con una marcia in più: la qualità.

Naturalmente made in Abruzzo

EATARTE Nata nel 2010 e guidata da tre dinamici imprenditori, l’azienda produce piatti pronti freschi e surgelati utilizzando materie prime quasi esclusivamente abruzzesi e una tecnica di conservazione che garantisce l’alta qualità dei prodotti.

Piazza Trento e Trieste, 12 66100 Chieti Tel. +39087169620 Fax +390871411523 www.eatarte.it info@eatarte.it

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e le parole “fast food” vi fanno pensare subito a colossali hamburger traboccanti di salse e grondanti formaggio fuso, preparatevi a cambiare idea: una giovane e intraprendente società di Chieti è pronta ad allargare il vostro campionario di immagini. E vi ritroverete a pensare, anche, che “fast food” non ha sempre – grazie a una buona dose di innovazione e all’alta tecnologia– un significato negativo. Il futuro (e il presente) della ristorazione veloce si chiama Eatarte e si propone –con successo, dati i numeri– di rivoluzionare il mondo del “fast” introducendovi il concetto della qualità: delle materie prime innanzitutto, e della preparazione e della conservazione dei cibi in secondo luogo.

«Ci sono state diverse considerazioni che ci hanno spinto a guardare in questa direzione» spiega Francesco Mancini, che col fratello Daniele e Giulio Polimeni è titolare dell’azienda di Chieti. «Avevamo la convinzione che il settore della ristorazione veloce di alta qualità avesse un potenziale di crescita enorme per una serie di ragioni legate alla praticità di preparazione e alla sempre più diffusa mancanza di tempo e di conoscenza nella preparazione di cibi mantenendo

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inalterato il gusto e la qualità degli ingredienti. Abbiamo, quindi, pensato di trasformare il “piatto pronto”, che nella percezione del consumatore è parecchi gradini più in basso della “cucina della mamma”, in qualcosa di unico». Da qui la decisione di avvalersi, per la preparazione dei piatti, di ricette tradizionali, prodotti e materie prime di alta qualità e soprattutto innovazione tecnologica.

Grazie a tecniche di conservazione del prodotto che consentono la perfetta sterilizzazione dei cibi senza l’utilizzo di alcun conservante, Eatarte è in grado infatti di offrire ai propri consumatori un’ampia gamma di piatti, freschi o surgelati, pronti per essere gustati in una manciata di secondi: confezionati in pratici contenitori, i piatti Eatarte necessitano solo di essere passati al forno a microonde o riscaldati in padella.

Il “menù” aziendale comprende una selezione di oltre 50 ricette di alta scuola culinaria, realizzate con ingredienti naturali sceltissimi e a basso contenuto calorico. Non manca nemmeno una proposta “Bio”, una linea salutista di 8 referenze, preparate usando ingredienti rigorosamente ed esclusivamente biologici.

Scelte che hanno pagato con numeri

elevati: a soli tre anni e mezzo dalla sua costituzione, la società di Polimeni e dei fratelli Mancini ha realizzato fatturati di tutto rispetto –che vanno dai 30mila euro del 2010, anno di inizio dell’attività, agli odierni 350mila euro– e distribuito i suoi prodotti in oltre 20 alberghi in tutta Italia, nella GDO e localmente in circa un centinaio di bar, ristoranti e piccoli esercizi abruzzesi. La giovane età della ditta e le relativamente piccole dimensioni non le impediscono di dialogare con centri di ricerca e importanti case farmaceutiche nella creazione di piatti preparati per determinate patologie a sottolineare la vocazione innovativa della società e con colossi come la multinazionale Unilever (per la distribuzione dei suoi prodotti) oltre che di creare sinergie con importanti aziende italiane come Illy, per cui Eatarte ha sviluppato una linea di 5 referenze in bicchiere formato Take-Away per le loro 280 caffetterie Espressamente Illy dislocate in giro per il mondo. Merito di una intelligente targettizzazione del prodotto, che oltre ad essere commercializzato attraverso vari canali privilegia il settore della ristorazione alberghiera. «Abbiamo scelto di puntare su quella che in gergo tecnico si chiama

Hotellerie –spiega Giulio Polimeni, direttore commerciale di Eatarte– perché il settore alberghiero vive un momento di grande difficoltà, dovuto al cambiamento delle abitudini del turista: oggi difficilmente chi va in vacanza in hotel decide per un trattamento di mezza pensione, ancor meno per quello di pensione completa. Con la conseguenza che spesso i ristoranti degli alberghi sono vuoti, specialmente a pranzo. E questo anche perché si mangia in orari variabili, che non corrispondono con quelli della cucina dell’hotel. Ecco perché è utile, per l’albergatore, esternalizzare i servizi legati alla ristorazione e avere dei piatti pronti a disposizione, mantenendo –com’è ovvio– un alto livello qualitativo, ottimizzando così le risorse e i costi di gestione. Utilizzando i nostri prodotti si consente alla struttura di modulare l’organizzazione della cucina in funzione delle esigenze del servizio ristorante nell’arco delle 24 ore.

Va sottolineata poi anche la maggiore facilità di somministrazione dei pasti all’esterno della sala: camera, piscina, sala conferenze, spiaggia, ecc.; ci sono poi i notevoli risparmi conseguibili in termini di spazio, forza lavoro, costi delle materie prime, consumi

energetici, spese burocratiche che si aggiungono ai vantaggi di una piú accurata programmazione dal lato dei costi: l’acquisto di un solo “output”, caratterizzato da un altissimo rapporto qualità/prezzo quale il nostro, al posto di diversi “input” consente alla struttura di calcolare e conoscere in anticipo buona parte della componente di costo associata alla ristorazione. Last but not least: la possibilità offerta alla strutture ricettive di concentrarsi sul loro core business che, mi permetto di dire, rimane quello di vendere le camere e migliorare il servizio». Polimeni, che ha maturato una lunga esperienza di consulente per aziende (prevalentemente italiane) del settore food e non solo, negli States, dove ha studiato (ha un Master in Economia alla New York University, è esperto di marketing internazionale) motiva così la scelta di associarsi al Polo Agire: «Crediamo che il futuro dipenda dalla capacità delle aziende di superare i propri limiti, che non sono solo quelli territoriali e di mercato. Unirsi e creare sinergie può portare notevoli e reciproci vantaggi»

•Nelle immagini alcuni dei prodotti Eatarte

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JUBATTI

QUALITà, una tradizione di Dalla natura lussureggiante della regione verde la Carne del Parco arriva sulla tavola di tutti gli italiani.

Garantita da un’azienda che fa della qualità dei suoi prodotti la propria bandiera

Iubatti s.a.s.

Il gruppo Jubatti è composto di diverse società, che ruotano attorno alla principale azienda di famiglia: Soalca, importante industria di trasformazione e commercializzazione carni di alta qualità.

Località Cerrani 13/b 66010 Pretoro (CH) Tel. +390871898521 Fax +390871898135 www.soalca.it info@soalca.it

N

el 1945, a Guardiagrele, iniziava l’attività della famiglia Jubatti con l’apertura di una piccola macelleria gestita da Gabriela Iubatti. Quella piccola macelleria è ancora lì, oggi, a testimoniare due cose: l’attaccamento al territorio e l’importanza della tradizione. «In settant’anni l’attività è cresciuta grazie alla filosofia dell’azienda –spiega l’omonima nipote Gabriela Iubatti, responsabile marketing– che è sempre stata quella di offrire un prodotto di qualità. Anche nei periodi più difficili, quando gli allarmi sulla sicurezza alimentare hanno messo in crisi il settore, abbiamo sempre rispettato i nostri valori che sono quelli di bontà e genuinità della carne». Immersa nella natura alle porte di Pretoro, nel territorio protetto del Parco della Majella, la sede aziendale odierna è il simbolo dell’evoluzione dell’attività: i figli di Gabriela Carlo e Gianfranco, negli anni Settanta, grazie alla loro intraprendenza e alla notevole esperienza nel settore acquisita negli anni, trasformano quella piccola macelleria di Guardiagrele prima in ingrosso carni, e poi gradualmente e con l’inserimento della terza generazione in una

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affermata industria di trasformazione e di lavorazione delle carni: Soalca Srl. «Il nostro oggi è un gruppo di aziende –prosegue Gabriela– al vertice delle quali c’è la Carlo e Gianfranco Iubatti & C. s.a.s.; del gruppo fanno parte la Soalca, che si occupa di trasformare e commercializzare le carni; la Jubatti srl, che cura la gestione della storica macelleria al dettaglio di Guardiagrele; Gieffe srl, l’azienda di trasporti che fornisce i suoi servizi alle società del gruppo, e infine la Italian Meat Centro srl, una joint venture con la milanese Molteni Carni srl nata dalla volontà della GDO di far riferimento ad una cerchia ristretta di fornitori capaci di assicurare una copertura commerciale a livello nazionale, garantendo le diversità e tipicità di lavorazione del prodotto a livello locale». Già, perché può capitarvi, se vi recate in un grande supermercato in Piemonte o in Lombardia, di trovare le carni lavorate e confezionate dall’azienda abruzzese, che copre con i suoi prodotti l’intero territorio nazionale, “isole comprese”, come si suol dire. E all’estero? «Stiamo testando una nuova linea di prodotti rivolta esclusivamente ai mercati esteri, in collaborazione con il Polo

e di famiglia Agire, ma il nostro fiore all’occhiello è la “Carne del Parco”, ovvero carne proveniente da allevamenti situati all’interno del Parco della Majella, ai quali poi si sono aggiunti anche allevamenti dei restanti parchi abruzzesi, che noi oggi commercializziamo su scala nazionale». Sono tre in pratica i marchi che recano il nome di famiglia: «Il primo è “Jubatti tradizionalmente carni”, sotto il quale commercializziamo carni selezionate e lavorate secondo i rigorosi standard fissati e che comprende diverse linee: linea ATP, Osso, Sottovuoto, Skin, ecc., e alcune referenze di prodotti pronti da cuocere; il secondo è “La Carne del Parco” che identifica quei prodotti ottenuti solo da capi nati e allevati nei Parchi d’Abruzzo, con un’alimentazione basata esclusivamente su frumento, cereali ed erba di pascolo; infine il terzo, “Bravanonna”, l’ultimo nato, il cui nome volutamente evoca i sapori e le meticolose preparazioni di un tempo: un’ampia gamma di prodotti pronti da cuocere che parla la lingua della tradizione attraverso carni sceltissime (per la quasi totalità delle referenze proveniente dai Parchi d’Abruzzo) e freschi ingredienti DOP e IGP della più

pura tradizione italiana. Un prodotto moderno che coniuga bontà, praticità e velocità. Perché se abitudini alimentari e stili di vita evolvono, i nuovi modi di stare a tavola non devono intaccare la qualità: mangiare buono e sano è per noi il fulcro della dieta quotidiana, sempre e comunque».

Nella pagina a fianco, la famiglia Iubatti: da sinistra, Gabriela Iubatti e suo fratello Antonio, Francesco Iubatti, suo padre Carlo e sua sorella Chiara. In questa pagina, Antonio Iubatti con la nonna e una foto d’epoca della storica macelleria.

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AGRIVERDE RELAIS DEL VINO

IL VINO TI FA BELLA “Chi beve vino campa cent’anni”, dice il saggio.

E sottoporsi a un trattamento di vinoterapia ritarda l’invecchiamento della pelle.

Tra bagni nel Montepulciano e degustazioni di vini biologici, l’azienda di Gianni Di Carlo e Fania Basciani è una realtà unica in Italia che sposa la produzione enologica di qualità con la ristorazione e la vacanza relax

C

leopatra era una che in fatto di bellezza pare non dovesse chiedere consigli a nessuno. Molti sanno della sua predilezione per i bagni nel latte d’asina, ma pochi conoscono la sua abitudine di praticare anche bagni nel vino. Già, perché il vino «ha un ricco contenuto di polifenoli, che hanno potere antiossidante e quindi proteggono la pelle contro i radicali liberi, principali responsabili dell’invecchiamento cutaneo». Chi parla è Fania Basciani, nutrizionista, che ha messo la sua esperienza e le sue conoscenze scientifiche al servizio della cantina Agriverde, di cui è fondatore il marito Gianni Di Carlo, e che dal 2006 è responsabile del Relais del vino annesso alla cantina: una struttura ricavata nell’antico casale ottocentesco di famiglia, che integra ristorazione, centro benessere e ricettività all’insegna del vino. «La vinoterapia si praticava già in epoca romana, ma è tornata alla ribalta alla fine degli anni ‘90 quando i viticoltori francesi Mathilde Cathiard e Bertrand Thomas, creatori del marchio Caudalie, hanno fondato la prima Spa al mondo incentrata sulla vinoterapia. Noi siamo stati i secondi». E i primi in Italia, presto imitati da numerosi altri centri dal Trentino alla Sicilia. Ma la particolarità di Agriverde è quella di essere anche pro-

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duttori di vino, e quindi in grado di offrire trattamenti basati sull’uso di materie prime, non di prodotti cosmetici: «Per la vinoterapia utilizziamo esclusivamente materie prime provenienti dalla cantina: i vinaccioli, i grappoli e il vino vengono tutti dai nostri vigneti. Il Montepulciano che utilizziamo per l’idromassaggio viene naturalmente trattato diversamente da quello che imbottigliamo» spiega orgogliosa la dottoressa Basciani.

E sono tutti prodotti biologici, secondo la filosofia della cantina Agriverde, attiva fin dall’Ottocento e riconvertita da Gianni Di Carlo, agli inizi degli anni Novanta, in azienda biologica: bando all’uso di pesticidi e fertilizzanti chimici, dunque, e largo all’innovazione, fin dall’architettura: materiali ecocompatibili, minimo impatto ambientale, forme dolci che richiamano tanto le colline abruzzesi quanto le onde del mare, a pochi chilometri dalla tenuta. «Il centro benessere e il ristorante servivano, inizialmente, ad accogliere gli importatori, dato che all’inizio dell’attività abbiamo scelto di rivolgerci soprattutto al mercato estero, mentre oggi siamo molto presenti anche in Italia e abbiamo inserito i nostri vini anche nel circuito della Gdo. Poi abbiamo progressivamente implementato la ristorazione, rinunciando a qualche

camera e realizzando una sala banchetti, dove oggi ospitiamo matrimoni e altre cerimonie. Siamo diventati un ristorante a tutti gli effetti e proponiamo pacchetti turistici che integrano l’offerta del centro benessere con quella della ristorazione». Ovvero, una settimana di completo relax con trattamenti di vinoterapia e pacchetto dietetico personalizzato sulle esigenze del cliente. «Chi viene qui in vacanza vuole rilassarsi. Il centro benessere propone la vinoterapia come trattamento di elezione, e dura circa 4 ore. Si comincia con uno scrub con vinaccioli, poi parte il percorso benessere che comprende bagno turco, cromoterapia, aromaterapia, una doccia jet tonificante (con acqua proveniente da una falda freatica che scorre proprio sotto il centro, in un pozzo naturale di circa 30 metri) poi prepariamo la pelle per l’idromassaggio col vino». Con degustazione “in vasca” di Montepulciano, ça va sans dire. «Il Montepulciano –è stato dimostrato da molti studi– possiede più polifenoli di altri vitigni, ed è quindi particolarmente indicato per la vinoterapia. Per l’idromassaggio utilizziamo una miscela particolare ricca di polifenoli e povera di alcool. La tappa finale è un massaggio rilassante all’olio di vinaccioli, dopodiché il percorso si conclude

nell’angolo relax e tisaneria». I benefici del trattamento sono immediati, ma per ottenere un reale effetto ringiovanente di lunga durata «bisognerebbe praticare trattamenti per circa tre volte a settimana lungo l’arco di almeno sei mesi. E solo in pochi potrebbero permettersi di spendere così tanto tempo e denaro».

Ecco spiegato il perché dell’autocura, ovvero dei prodotti cosmetici Agriverde, la cui formula esclusiva «è stata studiata e messa a punto da me insieme a una cosmetologa, che collabora col laboratorio in cui viene prodotta. Ma nel centro svolgiamo anche trattamenti diversi: quello al cioccolato, ad esempio, che ha alte proprietà antiossidanti; e poi i trattamenti al latte d’asina, che ha proprietà idratanti ed emollienti per la pelle. Anche in questo caso ci riforniamo di latte d’asina proveniente da allevamenti biologici abruzzesi». I cosmetici Agriverde sono stati lanciati prima sul mercato estero: «Negli USA, in Cina e in Giappone stanno ottenendo un grande successo, dovuto anche all’effetto depigmentante che rende quindi la pelle più chiara, ma soprattutto per il fatto di essere un prodotto Made in Italy e biologico. Quest’anno abbiamo messo a punto la linea definitiva che ha anche un nuovo packaging e che sta per esse-

re testata anche su mille punti vendita farmaceutici negli stessi Paesi. In Italia stiamo conducendo una serie di indagini di mercato per verificare se sia meglio distribuirli in profumeria o in farmacia.

Data l’alta presenza di cellule staminali (che sono molto costose all’origine e quindi collocano il prodotto in una fascia di prezzo medio-alta) abbiamo cercato di mantenere i costi entro un certo range per consentire la massima diffusione possibile del prodotto». E per permettere a tutte le donne di sentirsi un po’ come Cleopatra.

Alcune splendide immagini del Relais Agriverde.

In questa pagina Fania Basciani, al centro della foto, con lo staff del ristorante.

Agriverde Relais del vino Azienda vinicola dal 1830, oggi specializzata nella produzione di vini biologici. All’azienda, unico caso in Italia, è annesso un centro benessere che pratica trattamenti estetici incentrati sulla vinoterapia.

Via Stortini 32/a 66020 Caldari di Ortona (CH) tel.: +390859032101 fax: +390859031089 www.agriverde.it

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SANTOLERI

ingegneria del gusto Da ingegnere elettronico a agricoltore ecosostenibile.

La storia di Giacomo Santoleri è quella di un uomo che ha sentito forte il richiamo della terra e della tradizione familiare, declinata nel rispetto dell’ambiente e della naturalità del prodotto

• In alto Giacomo Santoleri nella Tenuta di Caprafico.

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i potrebbe definire un “richiamo della foresta” quello che ha condotto Giacomo Santoleri, avviato alla professione di ingegnere elettronico, dalla natìa Roma alla paterna Guardiagrele. Aveva solo diciannove anni il giovane Giacomo quando la prematura scomparsa del padre lo costringe a dividersi tra l’ingegneria e l’agricoltura: «La nostra è una famiglia di origine borghese, che nel sei-settecento si occupò della conduzione di terreni ex feudis, per la precisione quelli del Feudo d’Ugni, della tenuta di Caprafico e di Crognaleto. È su questi feudi che mio padre possedeva oltre 300 ettari di terra, sui quali lavorò per tutta la vita».

E sui quali condusse anche operazioni innovative: basti pensare, per esempio, al tentativo di importare pecore sarde per produrre Fiore Sardo in Abruzzo (tentativo fallito, ma presto imitato con successo da altri produttori in tutta la Penisola) o al vigneto da 22 ettari di Montepulciano impiantato tra il ‘68 e il ‘71, anni nei quali dominava il vino bianco, relegando a soli due ettari la produzione di uve Trebbiano e Malvasia.

«Ma la sua più grande intuizione –ricorda Giacomo– fu quella di coltivare molti terreni a cereali, in particolare nella te-

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nuta di Caprafico. Dopo una prima fase in cui insieme ai mei fratelli mi sono occupato anche io del vigneto, cominciai, all’inizio degli anni Ottanta, a cercare la diversificazione, e mi dedicai a quei terreni marginali che per me risultavano più interessanti». Folgorato sulla via di Trastevere da un negozio di commercianti umbri che vendevano farro, Giacomo decise quindi di approfondire la conoscenza dell’antico cereale, «del quale ignoravo perfino l’esistenza.

Studiando e facendo un’attenta opera di ricerca individuai una popolazione autoctona e selvatica abruzzese, che decisi di piantare nei terreni della tenuta di Caprafico insieme ad altre colture come orzo, lenticchie, ceci. L’idea che avevo era quella di riscoprire un modo diverso di fare agricoltura, che andasse controcorrente rispetto al trend delle produzioni intensive: un modo più ecosostenibile, rispettoso della terra e delle proprietà nutritive della materia prima». E da qui la decisione di abbandonare definitivamente Roma e la professione di ingegnere per dedicarsi esclusivamente alla produzione agricola e tornare nell’avita Guardiagrele, alle porte del Parco nazionale della Maiella.

«Ho cominciato impiantando un picco-

lo uliveto, poi mi sono completamente dedicato ai cereali. Oggi l’azienda produce infatti un modesto quantitativo di olio (circa 20 quintali l’anno), mentre in larga parte produciamo cereali: Farro, Orzo Mondo (ovvero quello naturalmente decorticato), e legumi per fare rotazione: Fave, Trifoglio, Lenticchie e Ceci. Per le produzioni ricorro sempre ad artigiani specializzati, sia per l’olio che per il farro. I prodotti commercializzati sono Olio, Farro (in chicchi interi o semiperlato), Farricello (ossia farro spezzato), poi miscele di Farro e legumi come la “Sfarrata” (un nome che ho dato a un mix di farro e legumi che costituiscono le proteine nobili: Farro, Farro spezzato, Orzo perlato, Lenticchie e Ceci spezzati); poi Lenticchie, Orzo perlato, Orzo Mondo tostato e macinato (da usare per preparare infusi), e poi le varie paste di farro (10 formati, 4 lunghi e 6 corti: spaghetti, linguine, tagliatelle, tagliolini, strozzapreti, pennette, sedanini, ricciutelle, fusilli, cortina)». Ultima nata nella linea della pasta è la Ma’kaira, una pasta di semola di grano duro con aggiunta di sfarinato di Orzo Mondo, che migliora le qualità nutrizionali del prodotto finito. «Il nome l’ho trovato in un libro di Prezzolini, Maccheroni & C.:

nella sua escursione tra i diversi tipi di pasta e nell’indagarne le origini, Prezzolini spiega che “Maccherone” viene dal latino maccare e cioe’ schiacciare, quindi indica qualcosa che somiglia a una specie di polenta; ma in greco si trova un’altra parola, “makaira” appunto, che indica un cibo fatto di brodo e di farina d’orzo. La radice è la stessa di makairòs (“beato”) perché questa mistura veniva usata nelle cerimonie religiose in onore dei beati». Emerge prepotentemente il lato erudito del vulcanico Santoleri.

«L’orzo è un cereale che ha delle proprietà incredibili. Contiene Beta-glucani, che hanno proprietà rinfrescanti per l’intestino: fino a cinquant’anni fa, le nostre nonne usavano decotti di orzo per calmare le coliche dei neonati.

Le proprietà calmanti dell’orzo sono all’origine anche della parola “tisana”, che deriva dal greco “ptissein” (ovvero “mondare” l’orzo, cioé fare “ptisané”, orzo sbucciato e pestato). Nel chicco d’orzo poi si trovano grassi come tocoferoli e tocotrienoli, la cui molecola è strutturalmente legata alla vitamina E, che favoriscono il controllo del colesterolo e contrastano i radicali liberi, e sono utilizzabili in patologie quali l’arteriosclerosi.

Il problema dell’orzo è che è un cereale

poco produttivo e molto delicato, e per questo è stato abbandonato in favore di altri che assicurano maggiori rese e maggiori guadagni». Un’azienda, quella di Santoleri, che del biologico e del sostenibile ha fatto una filosofia. «È il mio modo di lavorare: coltivare meno (a livello di quantità) ma con l’attenzione alle proprietà nutritive del prodotto.

Un’abitudine che oggi sta tornando prepotentemente di moda, grazie a una maggior consapevolezza non solo degli agricoltori ma dei consumatori, che richiedono sempre più cibo di qualità».

CASINO DI CAPRAFICO Az. Agr. Giacomo Santoleri Produce con metodi tradizionali cereali antichi come farro e orzo, oltre a olio e legumi.

Commercializza orzo, farro e diversi tipi di pasta di farro.

Piane di Caprafico 66016 Guardiagrele (CH) Tel. e Fax +390871897492 www.casinodicaprafico.com info@casinodicaprafico.com

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NEPA PACKAGING

CARTONE VUOL DIRE Q Da azienda artigianale a grande realtà industriale in poco più di vent’anni: lo scatolificio di Bellante ragiona in termini di efficacia, velocità e qualità del servizio, proponendosi di conquistare sempre maggiori settori di mercato grazie al desiderio di creare innovazione

Qui sopra un’immagine dello stabilimento produttivo di Bellante. Nella pagina a fianco, l’area di stoccaggio e la linea di produzione

G

ià nel 1973, quando apre il suo scatolificio a Mosciano, Florindo Nepa dimostrava di pensare in grande. L’etichetta di “artigiano” gli stava stretta: malgrado la conduzione totalmente familiare del laboratorio, l’allora Scatolificio Nepa possedeva un magazzino di circa 2mila metri quadrati e tecnologie che lasciavano presagire un rapido sviluppo. Che comincia, puntualmente, grazie alla realtà imprenditoriale locale, fatta di grandi e piccoli mobilifici e di altre aziende manifatturiere: un mercato in forte espansione che necessitava di un soggetto in grado di fornire servizi in maniera veloce ed efficace. Presto però la configurazione socioeconomica del territorio cambia, il mercato di riferimento inizia a sfaldarsi e quindi all’azienda di Florindo Nepa spetta il difficile compito di rinnovarsi e cercare nuovi mercati di sbocco. «Quella che opera dalla fondazione fino agli anni Ottanta –spiega l’ingegner Pasquale Di Antonio, direttore della Nepa Packaging– è sostanzialmente un’azienda a conduzione familiare che malgrado le sue dimensioni pur ragguardevoli ha le caratteristiche di un laboratorio artigianale. Seppur dotata di tecnologie di ottimo livello e di strutture importanti, aveva un mercato limitato

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e scarse risorse per svilupparsi da un punto di vista commerciale. Una certa evoluzione del mercato ha comunque portato l’azienda a investire e quindi a crescere, passando da una fase artigianale a una semi-industriale, con l’ingresso dei primi operai specializzati e di figure manageriali che sovrintendevano alla produzione e all’organizzazione, lasciando al titolare le funzioni più strettamente commerciali». Questa fase pre-industriale dura più di dieci anni, dalla fine degli anni ‘80 fino all’inizio del nuovo millennio, «ed è molto importante perché consente all’azienda di sviluppare il proprio organico proiettandosi in una dimensione più articolata: entrano infatti in azienda concetti di redditività legati all’efficienza produttiva, all’efficienza logistica, tutte cose che prima non erano richieste ma che, in un’ottica di crescita, diventano necessarie». E si sviluppano anche nuove politiche commerciali, che traghettano la Nepa nella sua fase più recente, quella appunto industriale. «In questi ultimi anni abbiamo implementato la nostra struttura organizzativa, produttiva e commerciale (penetrando mercati nuovi e stimolanti come quello alimentare, farmaceutico e chimico), e mettendo in atto processi di rinnova-

E QUALITà mento tecnologico per permettere di concretizzare le metodiche di efficienza non solo quantitative ma anche qualitative. E quindi si è proceduto a conseguire anche le certificazioni di qualità, tra cui quella ambientale e quella sulla sicurezza, cui si sta aggiungendo quella alimentare che danno garanzie aggiuntive al cliente». Una politica che sta dando i suoi frutti, anche per le elevate competenze raggiunte dalla Nepa non solo nella produzione, ma nella capacità di sviluppare rapporti di partnership: «Stiamo attenti a valutare le esigenze del cliente, a capirlo; entriamo nel suo sito produttivo per toccare con mano i loro sistemi, vedere cosa gli serve e studiare insieme le migliori soluzioni possibili per fornire un servizio efficace a costi sostenibili. In certi casi, la qualità dell’imballaggio può significare spendere magari un centesimo in più, ma può risolvere molti problemi costosi a monte e a valle della filiera, ovvero tanto in fase di confezionamento quanto in fase di trasporto e stoccaggio». Il Polo Agire, di cui Nepa è tra i soci fondatori, è per lo scatolificio di Bellante l’opportunità proprio di sviluppare partnership con le aziende del settore agroalimentare: «Il polo serve per aggregare delle aziende con l’obiettivo

di creare eccellenze: lavorare su nuovi prodotti, progettare insieme soluzioni diverse dalle attuali per crescere non solo in termini di rapporti commerciali ma di know-how e avanzamento tecnologico».

Trenta dipendenti, circa dieci dei quali in ruoli amministrativi e venti in produzione (e con un’età media di 38 anni), con il fondatore Florindo ormai fiero di vedere la sua creatura camminare con le proprie gambe, e i suoi due figli che cominciano a prendere le redini aziendali, la Nepa Packaging è oggi una realtà industriale a tutti gli effetti –con un fatturato che si aggira intorno agli 8 milioni di euro– che vuole diventare «un modello per le aziende del settore che operano nel territorio. Il bacino che serviamo, attualmente, va dalle alte Marche a Nord fino alla Puglia a Sud, e ad Ovest al Lazio e Umbria, oltre naturalmente all’Abruzzo e Molise, dove abbiamo grandi clienti: multinazionali del settore farmaceutico, aziende di livello nazionale nell’agroalimentare. Abbiamo investito nel miglioramento dei nostri processi produttivi, nella logistica, nella qualità ed efficienza complessiva dei sistemi. Dal 2003 siamo nel nuovo stabilimento di Bellante (50mila metri quadrati), mantenendo la vecchia sede come magazzino (che nel

corso degli anni ha subìto vari ampliamenti fino a raggiungere i 7mila metri quadrati attuali); siamo capaci di realizzare qualsiasi imballaggio in cartone ondulato e stiamo implementando knowhow e opportunità commerciali su altri prodotti in cartone; abbiamo ampliato il nostro settore di mercato inserendoci in modo consistente nel settore alimentare e farmaceutico, che costituiscono oggi una larga fetta del fatturato. E presto usciremo con un nuovo sito che offrirà un’autentica novità a livello nazionale: l’opportunità per aziende e privati di realizzare un prototipo partendo da un progetto personalizzato, con realizzazione e consegna entro 24ore».

NEPA PACKAGING L'azienda, attiva fin dal 1973, produce imballaggi per una vasta gamma di prodotti, garantendo soluzioni personalizzate per soddisfare le esigenze specifiche di ogni cliente.

Zona Ind.le Bellante Stazione 64020 Bellante (TE) Tel. +390861612701 Fax +390861610371 www.nepa.it amministrazione@nepa.it

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COLDIRETTI

VIVA L’ITALIA La principale associazione di categoria leader nella lotta in difesa del Made in Italy: l’evoluzione di Coldiretti ha portato vantaggi non solo al mondo rurale che ne costituisce la base associativa, ma anche a una larga parte della società.

Primi fra tutti, i consumatori

Alcune immagini del mercato di Campagna Amica a Pescara. Nella pagina a fianco, al centro, il direttore di Coldiretti Abruzzo Simone Ciampoli

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ome uscire dalla crisi? È la domanda che si pongono tutti –istituzioni, mondo imprenditoriale, economisti– e alla quale tutti cercano di dare una risposta. Sono molti anche gli intellettuali, che vedono nel patrimonio culturale italiano una delle leve capaci di far ripartire il Paese. Un patrimonio che, sottolinea Coldiretti, è costituito da grandi eccellenze soprattutto nel settore agroalimentare. Per questo da anni, in tempi non sospetti, la principale associazione di categoria (che rappresenta circa 40mila imprese sul territorio abruzzese) ha cominciato una strenua lotta in difesa del Made in Italy, inteso come valorizzazione e riconoscibilità del prodotto 100% italiano.

Una battaglia che ha dato i suoi frutti, evidenziando come l’azione di Coldiretti non abbia tutelato soltanto gli interessi delle aziende che ne costituiscono la base associativa, ma si sia invece indirizzata ad ottenere miglioramenti e vantaggi per l’intero Paese in termini di territorio, di imprenditoria e –last but not least– di tutela dei diritti del consumatore. «Coldiretti –spiega Simone Ciampoli, direttore della federazione abruzzese– ha avvicinato una parte di società che non è agricola, perché nelle sue lotte in difesa del Made in Italy alimentare, dell’etichettatura dei prodotti

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agricoli, dell’eticità della produzione, si è trovata ad avere alleata una buona parte della società che non è o non proviene dal mondo rurale». E che ha imparato a conoscere e a condividere le istanze e gli obiettivi che l’associazione si propone. Il più importante di questi obiettivi è stato quello di trasformare la figura dell’agricoltore in “imprenditore agricolo”,ovvero di allargare le sue funzioni non limitandosi a quelle della coltivazione: con l’ampliamento di tali funzioni però l’imprenditore (che diventava quindi anche trasformatore del proprio prodotto e venditore dello stesso) assumeva anche degli obblighi nei confronti dell’ambiente e del territorio: «Oltre agli onori, la nuova figura che nasce con la cosiddetta Legge di orientamento in agricoltura, ossia il Dlgs 228 del 2001, assume gli oneri di tutela dell’ambiente e del territorio, che vanno dalla disponibilità a spalare la neve per liberare le strade in montagna o a potare il verde pubblico a costi inferiori rispetto ad altre imprese.

In questo modo Coldiretti ha arricchito il territorio, agevolato l’imprenditore agricolo che ottiene la “multifunzionalità” e fatto sì che il primo a difendere questa multifunzionalità sia proprio il territorio, perché la riconosce come utile e necessaria». Da quel momento, prosegue Ciampoli, tutto è

avvenuto di conseguenza, come un fiume in piena. «La possibilità, offerta dalla legge all’imprenditore, di vendere direttamente i prodotti agroalimentari ha portato – parallelamente all’azione di “educazione” e al recupero del valore del Made in Italy nella società– all’iniziativa di Campagna Amica, ovvero alla risposta di Coldiretti alla domanda da parte del consumatore di un prodotto riconoscibile come italiano e agricolo al 100%. «Il marchio Campagna Amica identifica il prodotto come proveniente da aziende agricole italiane che ne effettuano la trasformazione eventuale nonché la vendita diretta. I prodotti con questo marchio si possono trovare quindi sia direttamente nelle aziende che hanno un loro punto vendita, sia nei mercati di Campagna Amica (in Abruzzo c’è quello di Pescara, all’interno del Mercato ittico dal giovedì al sabato) che nelle botteghe di Campagna Amica (a Pescara, Ortona e Coppito), gestite da un produttore che però distribuisce anche prodotti di altri.

Le botteghe stanno avendo un grande successo e presto ne verranno aperte altre dieci su tutto il territorio regionale. Negli ultimi quattro anni il marchio Campagna amica è diventato a tutti gli effetti il simbolo del Made in Italy alimentare in Italia. Un risultato grandioso». Ma poiché

Coldiretti non tutela solo gli interessi delle aziende agricole “multifunzionali”,che costituiscono appena il 10% del totale, si è studiata una soluzione «condivisibile e applicabile a tutto il territorio nazionale anche per il restante 90%, costituito da artigiani e industriali che, pur non producendo materie prime, le trasformano e le vendono, immettendole anche nel circuito della Grande Distribuzione». Nasce così il marchio Fai (Firmato Agricoltori Italiani) varato nel 2011, che garantisce l’identità 100% italiana del prodotto, la tracciabilità, la sostenibilità ambientale e l’equa distribuzione del valore tra gli attori delle filiere.

«E questo ha portato, oltre alla reperibilità e identificazione del prodotto italiano nella GDO, anche ad un’altra conseguenza: l’apertura delle “Botteghe Italiane”,ossia negozi di prossimità che raccolgono i prodotti a marchio Fai e, naturalmente, anche quelli di Campagna Amica. Si tratta di negozi gestiti da commercianti che vogliono puntare sul Made in Italy per differenziarsi da chi vende prodotti semplicemente di marca, che però il consumatore preferisce acquistare nei supermercati per risparmiare sul prezzo». Tutte queste iniziative, però, acquistano un valore molto maggiore, alla luce dell’esistenza, in Coldiretti, di una Banca di Garanzia, chiamata Creditagri: «È,

in pratica –conclude Ciampoli– un fondo di garanzia di proprietà di imprenditori agricoli, che svolge funzioni anche di intermediazione: offrendo la sua garanzia per percentuali ragguardevoli sugli investimenti richiesti (a seconda dei casi si va dal 50 all’80%) favorisce l’accesso al credito da parte delle imprese agricole, sostenendo ed incentivando la pianificazione di investimenti nel settore agricolo e agroalimentare. E consente all’imprenditore che voglia aprire un punto vendita Campagna amica o Bottega Italiana un accesso agevolato al credito bancario».

Coldiretti Abruzzo Organismo di rappresentanza delle persone e delle imprese che operano in agricoltura e nelle attività connesse, è parte, della Confederazione Nazionale Coldiretti. Gestisce l’organizzazione nella Regione Abruzzo e coordina l’azione delle Federazioni interprovinciali e provinciali associate.

Via Po, 113 - 66020 S.Giovanni Teatino (CH) Tel. +39085444941 Fax +390854449461 Email abruzzo@coldiretti.it www abruzzo.coldiretti.it

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CHIUSA GRANDE

VINO, ATTRAZIONE FATALE “Alla natura si comanda solo ubbidendole”, diceva Francesco Bacone.

Franco D’Eusanio ha fatto suo il pensiero del grande filosofo e ha creato un’azienda che produce vini biologici capaci di sedurre Chiusa Grande

Azienda vitivinicola biologica, tra le più certificate d’Europa,dislocata su tre poderi tra Pietranico, Nocciano (dove ha sede la cantina) e Cugnoli.

Contrada Casali 65010 Nocciano (PE) Tel. +39085847460 Fax +390858470818 www.chiusagrande.com info@chiusagrande.com

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ranco D’Eusanio, ovvero la vita come passione. Emozioni, sentimenti, ideali. È un Ulisse moderno, che spinge la sua imbarcazione sempre più avanti, alla scoperta di nuove terre del gusto nel mare multicolore del vino. Anzi, come lo definì un cronista del Sole24Ore, Franco D’Eusanio è un “Vinosofo”,e quest’etichetta gli è rimasta appiccicata fin dall’inizio della sua avventura enologica. Un’avventura che comincia nel 1991, quando il vulcanico imprenditore approfitta di un finanziamento europeo e converte la tenuta di famiglia (circa 50 ettari di vigne nei territori di Cugnoli, Nocciano e Alanno, tra la Maiella e il Gran Sasso) all’agricoltura biologica. Nasce così Chiusa Grande. «Sono laureato in Scienze agrarie –racconta D’Eusanio– e lavoravo come tecnico e consulente per numerose aziende agricole, non solo in Abruzzo. Sono stato, in questa veste, tra i primi a seguire aziende che cominciavano a orientarsi al biologico, e appena l’Unione Europea ha rilasciato un regolamento apposito ho deciso di intraprendere questa strada».

Ma la sua non è stata una scelta dettata da ragioni di mercato: «All’epoca non avevo ancora mai trasformato le mie uve in vino, la prima vendemmia è del ‘99. No, la scelta era dettata da alcune riflessioni, tra cui

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quella che l’agricoltura convenzionale, con l’utilizzo sempre maggiore di prodotti chimici, non avesse un gran futuro. E mi piacerebbe lasciare alle nuove generazioni un pianeta in condizioni migliori di quelle in cui l’abbiamo ridotto noi». Una scelta idealistica, quindi. Anzi:“vinosofica”.Perché tutta la produzione di Chiusa Grande riflette le convinzioni del suo fondatore, la sua personalità, il suo modo di vivere, di cui il rispetto per l’ambiente e per la natura è solo una delle caratteristiche. «Sono un imprenditore poco attento al profitto: non inseguo il facile guadagno, non bramo le onorificenze ma punto alla qualità ed alle certificazioni, che sono oggettive e indiscutibili. Chiusa Grande è oggi una delle realtà vitivinicole più certificate d’Europa nel campo dell’agricoltura biologica: abbiamo l’Iso 9001 per i processi di qualità, l’Iso 14001 per la tutela e difesa dell’ambiente, la 14064 Carbon Footprint che attesta i livelli bassissimi di CO2 che immettiamo nell’ambiente per ogni bottiglia prodotta, la certificazione di vino biologico, e garantiamo il rispetto del disciplinare dell’associazione italiana agricoltura biologica. In sostanza applichiamo delle norme ancor più restrittive di quelle europee». Per D’Eusanio la qualità non è un obiettivo, ma un mezzo per raggiungere il suo scopo, che

è quello di offrire al mercato vini capaci di stregare, di incantare. «Il mio metodo è il contrario di quello tradizionale. Per fare un vino non parto dalle uve, ma dall’emozione che desidero evocare tramite il vino, che poi traduco in caratteristiche organolettiche, quindi in una specie di “ricetta” con la quale realizzo il vino». Il risultato è un vino che, come recita la comunicazione aziendale,“non fa prigionieri, soltanto schiavi”.E l’85% di questi “schiavi” vive all’estero: Stati Uniti in primo luogo, Europa (specialmente al Nord) e Giappone a seguire, mentre l’azienda ha cominciato a dialogare anche con la Russia. Una diffusione crescente, in Italia e oltreconfine, che è merito dell’idea, strettamente legata alla filosofia aziendale, di far sì che all’atto del bere partecipino tutti i sensi. «Il vino buono –spiega il “Vinosofo”– non è quello che prende un bel voto da un sommelier o da un enotecnico, ma quello che si fa bere. Il grande vino è quello che scatena un’attrazione fatale per cui vorresti continuare a berlo fino all’appagamento totale dei sensi. Bisogna produrre in funzione delle emozioni. La multisensorialità è una mia fissazione: in ogni momento della mia vita cerco sempre di far partecipare tutti i sensi, anche quelli apparentemente poco correlati all’esperienza che sto facendo». Il primo step del

percorso multisensoriale fu qualche anno fa DiWine Jazz, il progetto in cui D’Eusanio coinvolse il jazzista Tony Pancella: nove melodie jazz inedite composte dal Rythm’s sing sextet del pianista teatino, descritte dallo stesso D’Eusanio e da Simone D’Alessandro, raccontate dalla voce narrante di Gio Gio Rapattoni e raccolte nel cd “DiWine Jazz”., promosso in un tour internazionale con tappe a Mosca, San Pietroburgo, New York, Singapore, Montreal e Tokyo. Al progetto ha fatto seguito recentemente la “Sfilata multisensoriale”: alla musica e alla recitazione delle caratteristiche organolettiche descritte in etichetta si è aggiunta una suggestiva sfilata in cui 11 modelle “interpretavano” le emozioni dei vini di Chiusa Grande. Che, naturalmente, hanno nomi ispirati ai valori aziendali: si va dai “vini della tradizione” Roccosecco, Tatà e Mattè (soprannomi di famiglia) a quelli “della seduzione” Soma, Mezzetto e Tommolo, per arrivare ai due prodotti di punta Perla Nera e Perla Bianca. «Il primo è dedicato all’amore romantico, un po’ dannato, che hai paura di perdere da un momento all’altro; un vino a livello organolettico di grande personalità, che non si concede subito, che non ha tannini troppo morbidi, anzi ha delle piccole spigolosità, proprio perché deve evocare insieme alla passione

anche il tormento. Il suo alter ego è il Perla Bianca, l’amore assoluto e corrisposto: un vino di grande struttura, che dà un senso di serenità e tranquillità della vita; un vino importante che coccola il palato». Vini che si fanno bere, grazie a tecniche di lavorazione come la microossigenazione (che rende “maturo” anche il vino giovane) o l’ossidazione del mosto (che rende gli aromi persistenti anche con l’esposizione all’aria) o la fermentazione naturale dell’acido malico che si trasforma così in acido lattico, più piacevole e facile da digerire. Vini che da oggi –grazie al riconoscimento dell’UE dei vini prodotti con uve da agricoltura biologica– possono fregiarsi dell’etichetta di “vini biologici” in tutto e per tutto. «Da sei anni –conclude D’Eusanio– produciamo anche vini senza solfiti, che abbiamo chiamato “Natura”: sull’etichetta c’è un vulcano in eruzione, perché la natura da cratere affascinante può divenire energia crudele; comunque sempre affascinante, al punto da poterla definire una mia amante. Non a caso lo slogan rappresentativo dell’azienda è:“Alla natura si comanda solo ubbidendole”», frase del naturalista inglese Francesco Bacone che il vinosofo ben rappresenta.

• In alto, Franco D’Eusanio nella tenuta di Nocciano.

Nelle altre foto, immagini della cantina e dei vini Chiusa Grande

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CRAB

LA RICERCA DI SUCCESSO Il ruolo fondamentale del Consorzio di Ricerche Applicate alle Biotecnologie all’interno del tessuto produttivo regionale e il suo apporto al Polo d’Innovazione dell’Agroalimentare CRAB Il Consorzio di Ricerca Applicata alle Biotecnologie fornisce servizi di ricerca, sviluppo ed ottimizzazione di processi e prodotti biotecnologici per le Pmi del territorio nel settore agroindustriale, farmaceutico e ambientale Via Pertini, 106 67051 Avezzano (AQ) Tel. +390863412296 Fax +390863412300 www.crab.abruzzo.it segreteria@crabavezzano.it

C

oniugare innovazione e tradizione porta al successo. È questa, secondo Emidio Tenaglia, presidente del Crab, la formula vincente per poter crescere.

«Il modello di sviluppo che ha guidato le scelte della classe dirigente degli anni della ricostruzione post-bellica, quello che ha portato cioè ai grandi insediamenti di industrie di cui oggi paventiamo la delocalizzazione, è superato, perduto e irrimediabilmente irrecuperabile» spiega Tenaglia. «Non dico che fosse sbagliato, era la logica del tempo!

Ora bisogna guardare avanti, a un modello che, a causa dei repentini e velocissimi cambiamenti, è tuttora da immaginare; ma di sicuro deve prevedere il recupero della identità del territorio –che è quella del turismo, dell’agricoltura, dell’ambiente– e valorizzarla creando servizi endogeni.

Insomma, recuperare i nostri valori per poter contare su risorse che sono nostre e che nessuno possa portarci via: la qualità della nostra vita, i nostri paesaggi, i nostri prodotti. Ovviamente è riduttivo immaginare lo sviluppo di qualunque territorio legandolo solo alle produzioni locali; ben venga, quindi, il manifacturing che integri, innovi ed accompagni quello che di meglio può esprimere il nostro territorio». E questo tema è al centro del progetto della Regione, a cui ha lavorato proprio il presidente del

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Crab, volto alla «fusione dei tre centri di ricerca costituiti negli anni Ottanta –Crab (il consorzio per la ricerca sulle biotecnologie), Cotir (il centro di ricerca creato per studiare le tecniche irrigue e le necessità idriche delle colture) e Crivea (quello che si occupa di ricerca viticola ed enologica)– che oggi non sono più sostenibili e rischiano di scomparire, in un unico organismo, un unico “cervello pensante” che racchiuda in sé le migliori professionalità dei rispettivi ambiti, integrato con esperienze anche del settore produttivo, del consumo del territorio, del turismo, per metterle al servizio dello sviluppo regionale a tutto tondo». Un progetto, già approvato dalla Giunta ed ora al vaglio del Consiglio Regionale, che, spera Tenaglia, dovrebbe vedere la luce entro la fine dell’anno. Questo consentirebbe ai tre centri «di poter continuare a realizzare ed a proseguire la forte azione di sviluppo». Perché, entrando nel merito, è dagli inizi degli anni ’90 che il Crab, come il Cotir ed il Crivea, realizza processi per il miglioramento dei prodotti dell’agroindustria, relazionandosi anche con istituti di ricerca europei, università ed aziende internazionali. «Il Crab “produce” ricerca applicata e si pone come “cinghia di trasmissione” fra il bisogno di innovazione e la implementazione della soluzione: sta al management metterla a disposizione del

circuito produttivo, evitando che resti chiusa nei cassetti». Del resto è proprio dal mondo manageriale che proviene Tenaglia, una vita spesa prevalentemente nel settore privato ma con importanti presenze ai vertici di società miste pubblico-privato come AbruzzoCapital, la prima società di venture capital abruzzese, il Parco Scientifico e Tecnologico dell’Aquila o la Fira, la Finanziaria regionale.

Le biotecnologie, ovvero la materia di cui si occupa il Crab, del resto non sono il suo pane quotidiano. Lo sono invece per la dottoressa Daniela Maria Spera, direttore del centro di ricerca, che sovrintende alla parte “scientifica” del consorzio. «La biotecnologia –spiega– è l’applicazione tecnologica che si serve dei sistemi biologici, degli organismi viventi per produrre o modificare prodotti o processi per un fine specifico e fa parte del nostro vivere quotidiano fin dai tempi antichi, quando cioè l’uomo ha cominciato a incrociare tra loro diversi tipi di piante o a trasformare i prodotti dell’agricoltura e della zootecnia in alimenti e bevande come ad esempio formaggi, vino e birra. E il Crab è un’eccellenza assoluta in questo campo». Il Consorzio costituito da soci pubblici, quali Regione, Provincia e Comune, si occupa di «sviluppare e ottimizzare processi e prodotti biotecnologici per i settori agroalimentare, ambientale e farmaceutico» spiega la dot-

toressa Spera. «Chiaro che una struttura così sia fondamentale nel Polo d’innovazione dell’agroalimentare, perché tra l’altro eroga servizi importanti come analisi chimiche, biochimiche e microbiologiche, e svolge attività di Ricerca e Sviluppo con particolare riferimento all’impiego di microrganismi/ starters, concentrati vitaminici, proteici ed enzimi. Inoltre il CRAB svolge un ruolo molto importante nello sviluppo dei processi sostenibili, che vanno dalla produzione di bioenergia alla valorizzazione di eccedente, scarti e surplus di produzione». Tra i progetti portati avanti nel corso degli anni, ad esempio, vale la pena ricordare lo sviluppo dei processi per la valorizzazione delle materie prime quale ad esempio, l’estrazione di Beta-carotene dalle carote del Fucino, l’estrazione degli acidi grassi Omega 3 dagli scarti di lavorazione del pesce nonché la concentrazione del mosto d’uva al fine di limitare l’impiego dei mosti concentrati rettificati. La struttura che ospita il Crab, un complesso di circa 4 mila metri quadrati al centro della piana del Fucino, accoglie al suo interno 24 dipendenti –tra ricercatori, tecnici e operai specializzati– molti dei quali al lavoro sull’Impianto Pilota Multifunzionale a Configurazione Variabile (IPMCV), «con il quale è possibile rilevare i dati cinetici e termodinamici necessari per la progettazio-

L’interno dei laboratori del Crab e alcuni momenti della quotidiana attività dei ricercatori. Nella foto in alto a sinistra il presidente del Crab Emidio Tenaglia.

ne di processi biotecnologici avanzati o tradizionali». Vale a dire? «Con questo impianto, composto di numerose Unità Operative, possiamo studiare e successivamente realizzare quei processi innovativi tesi al miglioramento dei prodotti dell’agroindustria, del settore farmaceutico e ambientale.

In pratica è il cuore del Crab, un po’ come “l’antro dello stregone”,dove si studiano e si mettono a punto i progetti che poi portano alla realizzazione di un prodotto o di un servizio». Ad esempio, NbioFix (un prodotto microbico biostimolante della crescita vegetale) oppure CompoActive, un compost di qualità da scarti agroindustriali additivato con microrganismi. «Ma anche veri e propri prodotti alimentari –conclude la dottoressa Spera– come Crostì (un prodotto da forno con caratteristiche nutrizionali speciali) o come Kaciotta+, un formaggio iposodico ottenuto con latte vaccino standardizzato, e infine il DeWi, bevanda analcolica a base di vino. Il CRAB opera da anni anche in ambito europeo in progetti che prevedono la strutturazione di partenariati pubblico-privati di elevata valenza tecnico-scientifica e svolge attività di ricerca commissionata direttamente da privati. Questa è la dimostrazione di come la Ricerca e Sviluppo possa fungere da traino dello sviluppo territoriale».

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NOVATEC

INNOVARE PER CRESCERE Dal mondo delle idee a quello della produzione: nata da una costola dell’ateneo dell’Aquila, una giovane e brillante società di ingegneria sviluppa processi e prodotti ad alto tasso tecnologico e punta al mercato estero.

Con un partner d’eccezione come la Tecnomatic

In questa pagina una parte dello staff Novatec: Da sinistra Massimo Parisse, Olivier Orlando, il presidente della società Pierluigi Beomonte Zobel e Antonio Marinilli. Nella pagina a fianco, un particolare dell’impianto realizzato per la Sanofi e due progetti aziendali.

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all’Università al territorio, ovvero dal pensiero all’azione. La vera ricchezza prodotta dagli atenei è nell’immenso patrimonio di conoscenze, capaci di convogliare l’interesse di grandi aziende che di risorse umane capaci e brillanti hanno sempre bisogno. Lo sa molto bene la Sanofi, azienda farmaceutica con sede alle porte dell’Aquila, che ha chiesto alla Novatec –una società d’ingegneria nata all’interno dell’Università– un progetto che risolvesse un problema specifico legato alla sua catena di produzione. La Novatec ha risolto all’azienda non solo quel problema specifico, ma ha costruito un impianto in grado di migliorare nettamente anche altri momenti del processo produttivo, inclusi aspetti legati alla sicurezza sul luogo di lavoro. Quello degli spin-off universitari (società che nascono all’interno degli atenei e che diventano vere e proprie aziende capaci di attrarre capitali e creare innovazione e lavoro) è un tema sul quale l’Università dell’Aquila può dire di saperla lunga: nel periodo 2004-2010 sono ben nove le aziende nate da altrettante costole dell’ateneo, tra le quali appunto la Novatec, costituita nel 2006 «con l’idea di mettere sul mercato le conoscenze e le competenze maturate dai soci fondatori

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universitari» come racconta il professor Pierluigi Beomonte Zobel, docente di Meccanica applicata e Automazione industriale a fluido, presidente della società nonchè fondatore insieme ad un gruppo di docenti e ricercatori universitari, all’Università dell’Aquila ed alla Tecnomatic.

«Emerse subito la necessità e l’utilità del coinvolgimento di un partner industriale perché la società potesse unire alle proprie conoscenze tecnologiche anche quelle proprie del “fare impresa”». E quel partner venne individuato in Tecnomatic, azienda abruzzese leader nel settore delle linee automatiche di assemblaggio, che rispose rapidamente e con entusiasmo alla proposta mettendo a disposizione di Novatec tutto il suo know-how, incluso quello sulle tecnologie di processo.

«Novatec nasce con l’idea di portare sul mercato dei prodotti della ricerca universitaria, ovvero fare sviluppare un’azienda che ha nel suo Dna la collaborazione con il mondo dell’Università, con chi fa ricerca e innovazione. Per essere competitivi sul mercato è necessario mettere in campo una strategia di innovazione continua sui prodotti/processi ma anche sull’attività di servizi. E Novatec nasce anche per dimostrare di essere capace di stare sul mercato. Infatti a tutt’oggi abbiamo

un’attività di servizi abbastanza importante (progettazione e sviluppo prodotto e upgrade di processo conto terzi) e da qualche tempo abbiamo cominciato a muovere i primi passi nell’aspetto manifatturiero, che è in fondo il nostro obiettivo di medio-lungo periodo. Vogliamo diventare una realtà in grado di produrre prodotti innovativi per il mercato. Questo prescinde dall’esistenza di una domanda sul territorio, anche perché la nostra è una vocazione internazionale, molto più ampia dell’ambito strettamente locale.

Ma è chiaro che abbiamo rapporti con le aziende della regione, che sono del resto i nostri primi clienti». Non a caso la Novatec è entrata nel polo Agire, perché «fa parte del nostro background di conoscenze: siamo tutti progettisti meccanici/meccatronici, in grado di fare integrazione di sistema, che è il campo di chi fa automazione, e che consiste nel realizzare (sulla base di specifiche esigenze del cliente) un impianto “chiavi in mano”: un’isola, una linea automatica di montaggio. In pratica è quello che fa Tecnomatic: ma loro lavorano nell’automotive e su linee importanti, noi cerchiamo di realizzare impianti ad alto valore aggiunto su linee più modeste e in settori diversi». È il caso del suddetto impianto realizzato per la

Sanofi, quindi per il settore farmaceutico, «che con opportune modifiche può essere utilizzato anche nella produzione agroalimentare. Il Polo Agire è quindi per noi l’occasione di farci conoscere da aziende abruzzesi con le quali vogliamo sviluppare nuovi progetti, alle quali ci interessa fornire i nostri servizi, anche se la nostra vocazione è, ripeto, internazionale. Siamo in Abruzzo con la testa e con i piedi, ma il nostro orizzonte deve necessariamente essere più ampio». Finora tutto il lavoro svolto dalla Novatec in materia di progettazione e sviluppo di prodotti/processi conto terzi è servito a finanziare in toto i progetti propri dell’azienda: «Abbiamo lavorato con Dmp electronics, azienda del Teramano; collaboriamo con aziende che fanno automazione industriale che ci chiedono di occuparci di piccole parti dei loro progetti per altre aziende; abbiamo anche clienti che ci hanno chiesto di sviluppare dei prodotti ex novo, esclusivi: è il caso di esigenze legate per esempio alla ricambistica, in cui ci viene chiesto di progettare (ed eventualmente realizzare, se ne abbiamo la possibilità) un pezzo di ricambio che poi l’azienda commercializza». Cinque dipendenti e un fatturato che da 50mila è giunto a circa 300mila euro, la Novatec è incubata dalla nascita nei labo-

ratori del DIMEG, oggi confluito nel DIIIE, Dipartimento di Ingegneria Industriale e dell’Informazione e di Economia con sede storica a Monteluco di Roio e sede attuale in L’Aquila, in via Giovanni Gronchi n. 18; dopo una parentesi di 6 mesi per l’inagibilità dovuta al sisma del 6 aprile 2009, nel mese di ottobre 2009 la società è ritornata nei suoi laboratori. «Nel periodo post sisma abbiamo avuto una sede provvisoria in un camper, operativa dal 10 aprile, e poi in un garage, non abbandonando mai la città dell’Aquila. Perché siamo convinti di dover contribuire con la nostra attività alla ripartenza del tessuto economico della città».

NOVATEC Spin-off dell’Università dell’Aquila, nata nel 2006, è una società di ingegneria che progetta e costruisce macchinari e impianti “chiavi in mano” per aziende del settore automotive, farmaceutico e alimentare. c/o Dimeg Univaq via Campo di Pile, 67010 L’Aquila (AQ) Tel/Fax +390862434354 www.novatecspinoff.com info@novatecspinoff.com

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FALCONE

dolcetti D’ABRUZZO Dalla grande distribuzione alla produzione: la famiglia Falcone si è reinventata nell’industria dolciaria con una mentalità innovativa, che ha portato alla valorizzazione di un prodotto tanto da renderlo “tipico” e legarlo in maniera indissolubile all’immagine dell’Abruzzo

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a una parte e dall’altra della barricata, ovvero dalla grande distribuzione alla produzione, da commercianti a industriali. La storia della famiglia Falcone si può dividere così, in due parti: un “prima” che riguarda l’attività fino al 1998, e un “dopo”, che parte dal passaggio appunto da un capo all’altro della catena del commercio. «Il nostro nome –racconta Andrea Falcone– è stato per anni legato al settore della grande distribuzione: il piccolo negozio di mia madre Giuseppina, 40 metri quadrati a Montesilvano, diventò uno dei primi cosiddetti “minimarket” negli anni Settanta, al quale seguirono nuove aperture di negozi di media grandezza sempre tra Pescara e Montesilvano, fino a costituire una vera e propria catena (locale) di “supermercati Falcone”». Un nome che diventa ben presto familiare a tutti e che fidelizza il cliente nei confronti del “brand” Falcone, improntato alla qualità dei prodotti. «Nel ‘97 abbiamo avuto l’occasione di vendere tutto e ci siamo sperimentati in altre attività: dalla gastronomia (la Pizza Falcone), editoria (la nipote Marzia fonda il magazine “La dolce vita”) all’immobiliare, l’unica di queste attività che oggi abbiamo abbandonato. E, soprattutto, la produzione dolciaria: nasce infatti nel 1998 la Falcone

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Dolciaria, che esordisce sul mercato con due prodotti che riscuotono subito un grande successo: «Il “Piacere”, una torta al cioccolato di mia invenzione, è la rivisitazione di una tipica torta al cioccolato casalinga, che nel nome e nel packaging evoca l’immagine di D’Annunzio legandosi così a un’immagine complessiva di tradizione culturale abruzzese», spiega Falcone. «La stessa cosa è stata fatta con l’altro prodotto da noi lanciato contemporaneamente: il cantuccio, che abbiamo volutamente chiamato “Cantuccio d’Abruzzo”, connotandolo come prodotto tipico. Il cantuccio (o cantuccino che dir si voglia) è tradizionalmente legato alla Toscana, ma non è affatto un prodotto tipico toscano: è un biscotto secco che si trova in tutta Italia, da Bolzano a Messina. E infatti anche qui in Abruzzo è molto diffuso.

Ho quindi intrapreso un percorso teso alla valorizzazione e diffusione del cantuccio “d’Abruzzo”, diverso senz’altro da quello toscano e molto, molto più apprezzato perché consumabile in più e diversi modi». La principale differenza, prosegue Andrea Falcone, presidente della Dolciaria, «sta nella consistenza: il nostro è più morbido, quello toscano più secco; e poi c’è l’aggiunta di varianti di frutta che rendono il nostro cantuccio ideale per essere

consumato ad esempio insieme al caffé, cosa impossibile per quello toscano che ha una componente agrumata». Varianti che incontrano un crescente apprezzamento da parte dei consumatori, sempre maggiormente orientati a scegliere snack di qualità: si va dai classici alla mandorla a quelli al cioccolato, dai gustosi cantucci al mirtillo rosso a quelli alle noci e albicocca, fino a quelli, nuovissimi, al pistacchio e cedro. E i risultati si vedono: in quindici anni di attività il fatturato aziendale ha raggiunto i 10 milioni di euro, con un mercato interno che spazia in tutta la penisola (grazie anche ad un’attenta politica commerciale che mira a diffondere il prodotto su vasta scala); dallo stabilimento di Moscufo, dove Falcone ha la sede produttiva («due linee sulle quali lavorano dai 40 ai 50 dipendenti») e quella logistica per una superficie totale di 5mila metri quadrati, i prodotti –specialmente i Cantucci d’Abruzzo– partono alla volta di un mercato estero che copre circa 42 Paesi in tutti e cinque i continenti, dalle Americhe all’Australia passando per l’Europa, l’Africa (nuovi importatori sono Sudafrica e Libia) e naturalmente l’Asia: «Abbiamo ottimi riscontri dalla Russia, dalle ex repubbliche sovietiche, e anche dalla Cina dove il Made in Italy è sempre

più diffuso e ricercato. Ma il mercato che ci dà più soddisfazione è quello occidentale: copriamo quasi la totalità dei Paesi dell’America del Sud oltre a Stati Uniti e Canada, con volumi consistenti». I prodotti Falcone, naturalmente non si esauriscono nelle due referenze descritte: «La linea “Il Piacere” comprende, oltre alla torta (di cui esistono anche due versioni “snack”, una con mandorle, gianduia e cioccolato e un’altra alla frutta, con more e lamponi).

La linea NonnAnnunziata, un brand dedicato alla riscoperta delle classiche ricette di una volta, vede nel Cantuccio d’Abruzzo con le sue varianti il prodotto principe, affiancato da frollini, tortine, plumcake, wafers e le neole all’arancia. Ultima in ordine di arrivo, una nuova linea di tranci di crostata con farine speciali (farina di saragolla, grano saraceno e riso) disponibili nei gusti gianduia, frutti rossi, albicocca e pesca». Il segreto di questo successo? «La forza della famiglia. Siamo in tre: oltre a me, che mi occupo anche di marketing, di sviluppo e del personale, lavorano in azienda i miei fratelli Franco (responsabile amministrativo) e Rodolfo, responsabile commerciale, e naturalmente anche i nostri figli. Ci sono, come sempre, divergenze e incomprensioni, ma ciò che ci unisce è più forte di ciò che ci divide».

Nella pagina a fianco la sede dell’azienda a Moscufo; in questa pagina alcune immagini della produzione e i Cantucci d’Abruzzo.

In alto a destra, Andrea Falcone.

Falcone Industria dolciaria specializzata nella produzione di snack e piccola pasticceria. Produce e commercializza in 42 Paesi del mondo i Cantucci d’Abruzzo.

Via Sardegna 1/A 65010 Moscufo (PE) Tel. +39085975305 Fax +39085975152 www.falcone.dolciaria.com info.falcone@dolciaria.com

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MODIV

NON SOLO CARTA Editoria cartacea, digitale, social media marketing e nuove forme di comunicazione: ecco una giovane società che punta alla valorizzazione del territorio e della tradizione utilizzando gli strumenti della modernità MODIV Dall’editoria gastronomica agli uffici stampa di argomento culturale, ambientale, sociale, la società è specializzata nell’arte della comunicazione integrata grazie ad un supporto fondamentale: il lavoro in rete.

Via Matrino, 36 65013 Città Sant’Angelo (PE) Tel/Fax +39085959746 www.modiv.it info@modiv.it

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ascere durante un terremoto non è cosa da tutti. Ma è andata proprio così: a due giorni dal sisma dell’Aquila, Cristina Mosca e Daniele Di Vittorio –compagni di lavoro e di vita– hanno deciso di costituire una società, MoDiv appunto, per rilevare la rivista enogastronomica C che avevano fondato l’anno prima con i due pubblicitari della Creo Advertising di Pescara. «Avevamo dato vita alla rivista –racconta Cristina Mosca– un po’ per gioco e un po’ per scommessa. Avevamo avuto l’opportunità di rilevare un progetto editoriale già esistente, ma alla fine abbiamo optato per crearne uno nostro, più consono alle nostre attitudini, alle nostre teste; a lavori in corso ci siamo resi conto che il segmento dell’enogastronomia in Abruzzo non aveva più un organo di stampa che se ne occupasse in maniera specifica». La Modiv dà vita a C come Magazine e si inserisce, quindi, in una nicchia di mercato rimasta scoperta, trovandosi davanti a un mare di opportunità garantite dalla ricchezza del patrimonio enogastronomico regionale.

«Io vengo da un altro settore –racconta Cristina– perché, giornalisticamente, mi sono formata in ambito cultura e spettacoli. Ma mi sono resa subito conto che, in fondo, parlare di cibo e di vini, di

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prodotti e di piatti, non è poi così diverso: in fondo, oggi la cucina è spettacolo. Basti pensare al gran numero di trasmissioni tv incentrate sulla cucina, sui vini e sui dolci, e a come la figura del cuoco si sia evoluta fino a rendere quelli odierni dei veri e propri divi, capaci di stupire e di incantare il pubblico con le loro esibizioni, sia che si svolgano davanti a una telecamera sia che avvengano nella cucina del loro ristorante, nascosti agli spettatori. E poi hanno diversi approcci: alcuni si concentrano più sull’immagine, altri hanno uno stile più ricercato, altri hanno il potere di parlare attraverso un piatto, come un regista fa con un film». E se la cucina fa spettacolo fa anche audience, che in termini editoriali “cartacei” si traduce in tiratura: bimestrale, con 27 numeri all’attivo (28 includendo il cosiddetto “numero zero”, il test di lancio della rivista), C come Magazine si è ritagliato un posto di tutto rispetto all’interno del panorama editoriale abruzzese, capillarmente distribuito gratuitamente in tutta la regione. «È una rivista che, malgrado le sollecitazioni che abbiamo ricevuto per allargare il raggio di diffusione, è rivolta soprattutto agli abruzzesi. Specialmente nel settore enogastronomico siamo spesso vittime del bombardamento mediatico, che premia chi grida più forte

a scapito, spesso, della verità dei fatti. E ci siamo resi conto che siamo proprio noi, e in particolare la nostra generazione, a conoscere poco della terra in cui viviamo: il patrimonio enogastronomico abruzzese è talmente ricco, e talmente a portata di mano (credo che siano ben pochi quelli che non hanno un parente con l’orto o un frutteto o un vigneto) che quasi riteniamo “provinciale” valorizzarlo. Il nostro scopo è proprio questo: far capire quanto c’è di buono in Abruzzo e cercare di stimolare i nostri lettori a scegliere il buono. Io stessa, che pure non ho abitudini alimentari malsane, mi rendo conto che una cosa è frequentare il mercato contadino e un’altra è comprare frutta e verdura al supermercato». Uno stimolo recepito in primis proprio dai collaboratori della rivista, ai quali «abbiamo chiesto di indagare la verità, senza dire cosa sia giusto o sbagliato, ma mostrando la realtà per quella che è. Un esempio è il reportage che un nostro collaboratore ha svolto sul bocconotto, che non è “uno”, come spesso capita di sentire, ma conta almeno tre varietà. Esplorare questo mondo è una continua scoperta». Giovani penne, ma anche tecnici, esperti di gastronomia, chef e ristoratori, enologi e viticoltori. «Abbiamo costituito una bella squadra, persone

che cerchiamo di tenere strette intorno a noi, perché sono piene di entusiasmo e credono fortemente nel progetto. La loro voglia di esserci ci spinge ad andare avanti e a migliorarci sempre, e di questo li ringrazio ogni giorno».

Ma Modiv non è solo editoria, anche se questa costituisce sicuramente l’immagine più forte della società. Il duo Mosca-Di Vittorio si occupa di comunicazione in maniera più ampia, dall’ufficio stampa ai piani marketing, passando per il social networking. «Uno dei settori in cui ci stiamo muovendo di più –spiega Daniele Di Vittorio, l’anima strategica della società– è quello legato alle nuove forme di comunicazione. Ci occupiamo della gestione della comunicazione aziendale all’interno dei social media, ossia quegli spazi web dove i contenuti vengono direttamente messi in rete dagli utenti: social network come Facebook, Twitter, per intenderci, ma anche forum, blog, siti di condivisione di foto e video: in pratica siamo dei creatori di contenuto. Questo tipo di comunicazione mira a portare più accessi diretti ai siti delle aziende tramite richiesta diretta e più accessi dai motori di ricerca ottenuti da quanti ricercano direttamente il brand; ma soprattutto si tratta di un lavoro che porta a un aumento della

popolarità del marchio e a una maggiore credibilità per le operazioni di marketing.

Difatti con i social la comunicazione aziendale si trasforma da unidirezionale a bidirezionale, creando un dialogo diretto con i consumatori: questo rappresenta un’opportunità per tutti i brand di fidelizzare i propri clienti. Ma attenzione: se eseguita in modo sbagliato una cattiva gestione della community porta invece, ad un danno di immagine rilevante che la rete è in grado di amplificare in maniera esponenziale».

E non solo. Se Mo (Mosca) si occupa specificamente di comunicazione, Div (Di Vittorio) mette al servizio della società la sua specializzazione nel marketing, seguendo il cliente dagli studi di mercato alla definizione del business plan, dalla pianificazione strategica delle campagne pubblicitarie passando per la cura dell’immagine coordinata. «Progettiamo e sviluppiamo piani integrati, studiando la fattibilità del progetto dal packaging alla distribuzione, passando per lo studio della comunicazione sia below sia above the line».

•Nella pagina a fianco Daniele Di Vittorio e Cristina Mosca. Qui sopra, alcune pagine curate dalla Modiv

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GAL TERRE AQUILANE

UNITI PER LO SVILUPPO Non solo agricoltura nei progetti intrapresi dal Gruppo azione locale Terre Aquilane, che contribuisce allo sviluppo territoriale della Piana del Fucino fin dal 1994 Gal Terre Aquilane Agenzia territoriale per lo sviluppo locale che propone e gestisce progetti strategici, innovativi e di interesse generale, finalizzati alla crescita del territorio.

Via Sandro Pertini, 106 67051 Avezzano (AQ) Tel. +390863333350 Fax +390863442869 e-mail gal@marsica.it

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are rete:“imperativo categorico” di derivazione europea, al quale nessuno, oggi, può sottrarsi. Unire le forze, le conoscenze e le risorse per intervenire con efficacia in diversi ambiti, come la valorizzazione del territorio e dei prodotti locali, l’utilizzo di nuovi knowhow e tecnologie, il potenziamento dei servizi a sostegno del sistema produttivo locale, ma anche la valorizzazione e difesa delle risorse naturali e culturali ed il miglioramento della qualità della vita nelle zone rurali. Queste linee programmatiche sono alla base della costituzione, nel 1994, del Gal Marsica (uno dei sette Gruppi di Azione Locale abruzzesi), oggi Gal Terre Aquilane, nato con lo scopo di realizzare il programma comunitario Leader II il cui obiettivo prioritario è stato la valorizzazione del comprensorio marsicano. «Si tratta – spiega il presidente Lorenzo Berardinetti, alla guida del Gal dallo scorso 2011– di un’associazione che vede la partecipazione attiva di soggetti sia pubblici che privati, tra il territorio e l’Unione Europea, che amministra localmente i fondi comunitari destinati soprattutto all’agricoltura. In tal senso il Gal Terre Aquilane svolge un’intensa attività di animazione del territorio rurale, promuo-

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ve campagne di sensibilizzazione per stimolare la consapevolezza dell'identità del territorio e delle sue prospettive, concorre allo sviluppo rurale attraverso l'assistenza tecnica alle piccole e medie imprese (agricole artigiane, industriali e del terziario) con lo scopo di stimolarne ed affiancarne le iniziative di sviluppo, facilitarne l'accesso alle informazioni ed ai servizi avanzati». Il Gal Terre Aquilane è, in sostanza, un’agenzia territoriale per lo sviluppo locale, e come tale, si colloca nell’area della concertazione, ideazione, gestione di progetti strategici, innovativi e di interesse generale, finalizzati alla crescita e allo sviluppo locale, agendo su tutti i temi e i settori, utilizzando fondi e strumenti di portata regionale, locale, nazionale e internazionale, ma in ogni caso nell’ambito di una strategia finalizzata allo sviluppo del territorio.

«Dalla nostra costituzione abbiamo intrapreso numerosi progetti, non solo in ambito agricolo. Ci siamo impegnati, per esempio con l’iniziativa Coarpa che sfruttava i fondi Interreg, di sviluppo sostenibile in cooperazione con i paesi dell’area balcanica; ci stiamo impegnando in un progetto per l’attivazione di azioni strutturali per la diffusione dell’uso della bicicletta come mezzo di traspor-

to; abbiamo partecipato al progetto Equal-Comagri, che aveva la finalità di sviluppare un sistema che, con forme di organizzazione del lavoro e di imprenditorialità, permettesse l’integrazione di immigrati e soggetti deboli; sviluppiamo programmi di alta formazione nel marketing internazionale rivolti a italiani residenti all’estero in Algeria e in Turchia; abbiamo istituito un fondo di garanzia per la erogazione di microcrediti. In particolare, nel nostro settore precipuo, che è quello agricolo, abbiamo attivato il progetto “Buona carne della Marsica” con l’obiettivo di attivare una filiera della carne bovina di razza marchigiana sino alla commercializzazione ed alla promozione di carattere turistico nel settore della ristorazione, attraverso l’introduzione di sistemi innovativi di gestione e marketing; il progetto della “Rete delle osterie tipiche abruzzesi” prevede la realizzazione di una rete di vetrine promocommerciali in grado di far conoscere e valorizzare i territori rurali partner, e di commercializzarne i prodotti e le offerte, in locali che si richiamino alle tradizionali locande o osterie rurali, certificandole con un marchio di tipicità, club di eccellenza della ristorazione tipica in rete certificata e sotto marchio associato; un

altro progetto,“La cittadella rurale”, prevede l’attivazione di enti fiera e centri di promozione delle produzioni tipiche e di qualità». Il Gal Terre Aquilane consorzia aziende di vario genere e dimensione, con interessi che spaziano dal mercato locale a quello internazionale; inevitabile, per un soggetto di tale portata, l’ingresso nel Polo Agire, che offre «la possibilità di allargare i nostri orizzonti e partecipare a progetti di più ampio respiro, sempre nel settore agroalimentare, augurandoci che abbiano ricadute positive sulle aziende del nostro territorio». All’interno del Gal Terre Aquilane infatti troviamo –oltre alla componente “pubblica” rappresentata dalle Comunità montane– una nutrita compagine di aziende private, che lavorano in ambito rurale: si va dalle aziende agricole (produttori, allevatori, coltivatori) alle strutture ricettive (agriturismi, B&B) fino al vasto indotto generato dal comparto agricolo (aziende produttrici di fertilizzanti e prodotti per l’agricoltura,società di servizi e di trasporti). «La zona del Fucino da cui ha origine il Gal ha una forte vocazione agricola. Il nostro lavoro è sempre stato quello di mettere le imprese del territorio nelle condizioni di poter usufruire di finanziamenti europei

che oggi, anche data la situazione non certo florida che vive il comparto agroalimentare, ancorché meno drammatica di quella di altri settori economici, sono di un’importanza vitale per la sopravvivenza delle imprese locali. Il patrimonio di conoscenze e di economie locali deve essere salvaguardato; ci sono alcune aziende, tra le più importanti a livello regionale, che si concentrano nel Fucino e che hanno necessità di trovare nuovi orizzonti per le loro attività».

Nelle foto in alto la Piana del Fucino.

Qui sopra, il presidente del Gal Terre Aquilane Lorenzo Berardinetti

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LE AZIENDE DEL POLO AGIRE • Abruzzo Vini srl • Agriverde srl • Ali d’Oro Srl • AMPP Soc. Coop. Agricola • API Pescara - Chieti • Associazione Italiana Sommeliers ABRUZZO • Associazione Produttori Zootecnici d’Abruzzo scrl • Associazione Regionale Allevatori d’Abruzzo • Associazione Regionale Terranostra Abruzzo • Astra srl • Az. Agr. “Chiusa Grande” di D’Eusanio Franco • Az. Agr. “La Sorgente di Remartello” di Carota Luigi • Az. Agr. Battaglia Roberto • Az. Agr. Di Francesco Mirko • Az. Agr. Di Giorgio Antonio • Az. Agr. Il Bosco degli Ulivi di Pracilio Vittoriano • Az. Agr. Masciarelli Sas di Masciarelli M. & C. • Az. Agr. Meepanya La Ongdao • Az. Agr. Sichetti Nicola Antonio • Az. Agr. Sissa Catuscia • Az. Agricola Angelucci Srl • Az. Vinicola F.lli De Luca Srl • AZIEND’UP srl • Azienda Agricola Giacomo Santoleri • Azienda Marramiero srl • BDA di Luca Forcella • Bellizzi 1906 Srl • C.A.D.A. - Consorzio Agrario d’Abruzzo • C.N.A. - Conf. Nazionale Artigianato • Cacao srl • Carlo e Gianfranco Iubatti & C Sas • Casal Thaulero • CIA Abruzzo - Conf. Italiana Agricoltori • CIPAT Abruzzo

• CITRA VINI - Consorzio Coop. Riunite d’Abruzzo • CO.T.IR. Srl - Consorzio Divulgazione Sperimentale Tecniche Irrigue • CO.VAL.PA. - Abruzzo Soc. Coop.

Agricola • COLDIRETTI Abruzzo - Fed.ne Reg.le Coltivatori Diretti • Confcooperative Abruzzo • Confindustria Teramo • Consorzio DEP (Distretto Economico Produttivo) Abruzzo • Consorzio di Tutela Vini Colline Teramane • Consorzio Patto Territoriale della Marsica • CRAB - Consorzio Ricerche Applicate alla Biotecnologia • Cykel Software del Dottor Giammaria de Paulis • D&D Corporation srl • Delverde Industrie Alimentari SpA • EatArte srl • EDF srl • Eurobic Abruzzo e Molise SpA • F.lli Candelori s.n.c.

• F.lli De Cecco di Filippo SpA • FIESA Regionale d’Abruzzo • Frantoio Montecchia di Montecchia Gennaro & C • GAL Terre Aquilane Srl • Galeno Engineering • Gelco srl • Gesco Consorzio Cooperativo Soc. Coop. Agricola • Gexma Srl • Hotel Villa Elena di Buonasorte Maria • Ico srl Industria cartone ondulato • Impresabruzzo Srl • Industrie Riunite Confetti William Di Carlo srl • Industrie Rolli Alimentari SpA

AGIRE • Polo di Innovazione Agroalimentare d'Abruzzo

• Innova Solar Energy srl • Ist. Zooprofilattico Sper.le Abruzzo e Molise “G. Caporale” • ISTEMA Group srl • L.G. International Srl • LeVirtù d’Abruzzo Srl • Luigi D’Amico Parrozzo sas • Made in Bio srl • MATER FOOD srl • Metron Srl • MoDiv s.n.c.

• Nepa Florindo Packaging srl • Novatec Srl • Oleificio “La selva d’Abruzzo” snc • Oleificio Matalucci Ortenzia • Outsourcing Group srl • Partner Srl • Peltuinum Antica Azienda Agricola • Pescaradolc Srl • Prodotti Alimentari Fioravanti & C srl • Reginella d’Abruzzo srl • Relais del Vino Agriverde di Fania Basciani • Rustichella d’Abruzzo SpA • S.Ole.M A. snc • SAF ALLESTIMENTI srl • Siros - Sistemi Sas di R. Di Gianfilippo & C. • Soc. Agr. Fattoria Nora S.S. • Soc. Agricola Franco Pasetti Soc. Semplice • Società Agricola Anfra • Società Agricola Colle d’oro • Straccia Packaging srl • Tenuta Strappelli di Strappelli Guido • Terre dei Peligni Soc. Cons. Coop. a r.l.

• Testingpoint 10 srl • Torrefazione Adriatica Spa • Università degli Studi dell’Aquila • Università di Teramo • Victoria sas • Vision Device srl

P.O. FESR Abruzzo 2007-2013. Attività I.1.2. Approvato con D.D. n. DI9/55 del 08/08/2011 P.O. FESR Abruzzo 2007-2013. Attività I.1.2. Approvato con D.D. n. DI9/55 del 08/08/2011