Vario n.86

Page 1

www.dececco.it

ABRUZZO IN RIVISTA 86

Anche le opere d’arte

Noi di De Cecco difendiamo da sempre il valore di una pasta fatta a regola d’arte. Solo semola di grana grossa impastata a freddo con acqua purissima, essiccata lentamente e trafilata al bronzo, così come vuole la tradizione. Un saper fare che siamo orgogliosi di aver mantenuto vivo nel tempo e che altrimenti sarebbe andato perduto. Un metodo antico e sapiente che potete ritrovare ogni giorno nel sapore unico della pasta De Cecco.

V 86 - COPERTINA - IN LAVORAZIONE>05.03.2015 1

aprile /maggio 2015

richiedono un metodo.

[ VARIOZOOM ]

FRANCESCOPAOLO MICHETTI Fotografo

Vario 86 €4,50

aprile/maggio 2015 Spedizione A.P. Art.1 comma 1353/03 Aut. n°12/87 25/11/87 Pescara CMP

[ VARIO COLLEZIONE ] 23/03/15 10:43


HO14_059_Pagina_Tollo_Autenticita_10nov.indd 1

V 86 - COPERTINA - IN LAVORAZIONE>05.03.2015 2

10/11/14 12.12

23/03/15 10:43


ABRUZZO IN RIVISTA 86

APRILE - MAGGIO 2015

3

EDITORIALE

4

VARIOAPPUNTI di Lilli Mandara

6

VARIOidee Pierluigi Visci, Pierluigi Sacco, Luciano Di Tizio, Tommaso Di Biase

14

BreVario

16

VALENTINA COLADONATO E LUISA PRAYER LE RICAMATRICI DELLA MUSICA

20

SATURNINO GATTI ALLA RICERCA DELL’ARTISTA DIMENTICATO

24

gerardo di cola la voce dei doppiatori

28

Germano scurti fa+re, note di cultura

30

CATERINA ARTESE sculture? no, alberi

34

marco tornar il poeta in cattedrale

Direttore Responsabile Claudio Carella

38

RIBALTA Libri

Redazione Fabrizio Gentile

44

RIBALTA Teatro

46

RIBALTA cinema

47

RIBALTA mOSTRE

49

LA RICETTA

50

monti foods import Il baccalà detto e fatto

52

PASTA Forcella tutto il sapore del grano

54

OLIO pollinaria l’arte contadina

56

gentile vini un giovane vecchio

58

ciTRa UN NOME UNA STORIA

60

ALI D’ORO CONI PER TUTTI I GUSTI

62

GLOCAL FOODS IL TESORO NASCOSTO

64

BREVI GUSTO

[ VARIO COLLEZIONE ] F. P. MICHETTI Fotografo SAN CLEMENTE A CASAURIA Raccoglitori in omaggio nei prossimi numeri

GRAFICA Giorgio De Angelis Hanno collaborato a questo numero Lucia Arbace, Andrea Buccella, Andrea Carella, Bruno Cortesi, Anna Cutilli, Giorgio D’Orazio, Tommaso Di Biase, Luciano Di Tizio, Francesco Di Vincenzo, Daniela Garofalo, Cristina Legnini, Lilli Mandara, Milva Perinetti, Clori Petrosemolo, Pier Luigi Sacco, Sandro Visca, Pierluigi Visci, Marco Tornar Stampa, fotolito e allestimento AGP - Arti Grafiche Picene Via della Bonifica, 26 Maltignano (AP) Claudio Carella Editore Aut. Trib. di Pescara n.12/87 del 25/11/87 Rivista associata all’Unione Stampa Periodica Italiana Redazione: Via Puccini, 85/2 Pescara Tel. 08527132 - redazione@vario.it

www.vario.it


ILLUSTRAZIONE GRAFICA DESIGN

PESCARA

389 8562136 gio.adv@hotmail.com

2


[EDITORIALE]

CLAUDIO CARELLA

Vario si rinnova. Vario resta Vario, con la sua voglia di rappresentare l’Abruzzo negli aspetti migliori ma senza nasconderne le criticità e le mille contraddizioni. Siamo nati nel 1988 per accreditare un Abruzzo moderno in alternativa allo stereotipo della regione arretrata. Dopo ventisette anni sembra di essere tornati indietro. Mai come in questi ultimi anni l’immagine mediatica della regione è stata così negativa: più che di Abruzzo forte e gentile si è parlato di Abruzzo ignorante e corrotto; più che di “regione verde d’Europa”, di “regione inquinata”. Che tristezza ascoltare molti politici che, pur avendo tradizioni contadine, pensano che ci sia altro che tira più di un carro di buoi; che tristezza vedere studenti universitari in fila per un selfie con la controfigura di Crozza; che tristezza dover leggere che non ci sono responsabili per uno dei maggiori disastri ambientali di sempre. Colpa della classe dirigente? Sicuramente ma non solo. Forse anche di una società distratta. Vario cercherà di fare la sua parte come sempre con professionalità, entusiasmo, curiosità. Vanno in questa direzione il restyling della rivista, il nuovo formato, la nuova grafica, così come le novità editoriali: più spazio alle opinioni e alle idee da mettere in campo per la crescita della regione, attenzione ai personaggi emergenti e alle proposte della società e delle imprese regionali, due fascicoli da collezionare sul patrimonio artistico e sulla fotografia. Alle due date 1988 e 2015 non aggiungiamo altro. La scommessa è rivederci al prossimo anniversario e rallegrarci per quanto sia cresciuto, da tutti i punti di vista, il nostro Abruzzo.

3


[VARIO APPUNTI]

LILLI MANDARA

MA ALLE 3:32 NON ERANO CROLLATI TUTTI I CAMPANILI?

È

bastata una faida di quartiere, una guerra di poltrone, una stizza andropausale, la costante ambizione da prima pagina per passare dalla lacrima all’insulto. La crociata d’Abruzzo sta per ripartire, a 45 anni dagli scontri e dalle barricate per il capoluogo e a sei dal terremoto e dall’abbraccio dell’aprile 2009 con cui Pescara accolse gli aquilani senza più casa, vestiti, speranze, senza pezzi di famiglia. Un abbraccio così caldo che in tanti poi decisero di rimanere, di comprare casa, di spostare uffici e lavoro. Sei anni fa. E L’Aquila adesso e all’improvviso torna ad essere zavorra d’Abruzzo. E che fa se ci sono ancora migliaia di persone senza tetto, e se il cuore della città è ancora raso al suolo, la zavorra è zavorra, ed è colpa dell’Aquila se l’Abruzzo non ingrana: i campanili suonano a Pescara, che rivendica titoli, soldi, e Regione. Sì, vuole diventare capoluogo di Regione. Così, è bastata una frase di Paolo Primavera, e la guerra interna a Confindustria e un imbarazzo grande come una casa per un iscritto che aspirava alla massima carica pur non avendo, secondo i probiviri, le carte in regola, una frase rilanciata da Carlo Costantini che da politico in carica non si sarebbe mai sognato un’uscita così, per rimettere in moto gli antichi bollori. Che zavorra, e quanti soldi si è fregata L’Aquila, dodici miliardi, e non se li merita dice Primavera, facciamo il referendum rilanciano a Pescara, e poi vediamo chi vince. Solo il silenziatore messo dal governatore Luciano D’Alfonso che da pochissimo ha approvato la legge per L’Aquila capoluogo, ha impedito che 4

le istanze dei separatisti uscissero sui giornali magari con tanto di marcia sull’Aquila. Ma covano arrabbiate sotto la cenere. È il limite del capitale umano. È nanismo che da economico e finanziario fatalmente diventa culturale. Certo, gli aquilani dovrebbero anche loro guardare più a ovest che a est, più alla Regione che a Porta Romana, più alla macro regione adesso, ricordare che i particolarismi non portano lontano. Ma la zavorra d’Abruzzo dopo il terremoto ha subito l’onta del commissariamento, venendo estromessa dalle scelte e dalla gestione della ricostruzione, la zavorra d’Abruzzo quei miliardi li usa per ricostruire le case, i luoghi, le strade per i propri vecchi, quelli che ci arriveranno, e per i propri figli. La zavorra d’Abruzzo rischia ancora di morire per i danni del Progetto Case, quando crollano i balconi per esempio. E i campanili tornano a suonare perchè le nostre élite sono inadeguate e immature. Succede sempre quando Pescara viene umiliata nella competizione dell’Adriatico: da Ancona, dove la Snav continuerà a trasportare passeggeri in Croazia, con porto e aeroporto molto più efficienti; da Bari che è riuscita a riconnettersi all’Alta Velocità pur essendo molto ma molto più a sud. Ora, proprio ora che il porto di Pescara viene ridimensionato dalla Snav, ora che Ryanair ha deciso di tagliare i voli, ora Pescara gira la testa e cerca qualcuno con cui prendersela. Frustrazione, incapacità e sconfitte portano i pescaresi a rivalersi con L’Aquila. Con la più debole delle nostre città. Si faceva da bambini, quando ci rubavano il pallone.


L

e ha battezzate “nazarenate”, ma non hanno niente a che fare col patto. Piuttosto con Nazario, che qui diventa Nazareno. La faida per il candidato sindaco di Chieti, nel centrodestra made in Abruzzo, e che vede schierati Mauro Febbo, ex assessore regionale e Fabrizio Di Stefano, parlamentare forzista da una parte e il coordinatore regionale Nazario Pagano dall’altra, si spinge molto ma molto oltre i confini della città teatina. Nazarenate, appunto, le ha chiamate l’ex assessore alludendo al contestatissimo coordinatore azzurro che tenta di imporre Febbo a scapito di Di Primio o di lavarsi le mani dalla scelta suprema delegando Roma, per non assumersi responsabilità e evitarsi antipatie. Diplomazia o coniglieria? Niente affatto. In ballo, alla fine di tutto, ci sono le prossime anche se non proprio tanto prossime, elezioni politiche. Nel centrodestra i posti disponibili si contano col contagocce e i politici spazzati via dalla vittoria del centrosinistra sono tantissimi. Tutti disoccupati e in lista d’attesa. Le politiche quindi sono l’ultima spiaggia prima di una noiosa e anche magretta pensione. Chiaro che bisogna lavorarci per tempo. Per esempio togliendo di mezzo ogni possibile contendente, magari sistemandolo su una poltrona di sindaco. Della serie: meno siamo meglio stiamo.

C

omodità, silenzio, relax e convenienza per soggiornare nel cuore di Roma, a metà di via Sistina e a due passi da piazza di Spagna. Trenta euro a notte all’istituto Immacolata Concezione Nostra signora di Lourdes, che accoglie turisti e pellegrini. Non ci trovi un letto matrimoniale manco a pagarlo oro e la colazione è, come in molti b&b, molto frugale. Questa è la risposta di Luciano D’Alfonso, governatore d’Abruzzo, al suo predecessore. Nella sua prima sosta notturna a Roma si ferma a dormire proprio lì, dalle suore di Nostra Signora, e ci tiene a farlo sapere scrivendolo sul suo quotidiano report su Facebook. Cassata così per sempre la stanza 114 dell’hotel Sole al Pantheon dove l’ex governatore Gianni Chiodi dormì con la sua amica finendo in un’inchiesta della procura di Pescara, D’Alfonso rilancia con le suorine alludendo a sacrificio e contrizione per conto terzi, a castità e preghiera. Va bene, niente fasti e niente sprechi però manca un tassello: dalle suorine si può dormire bene (anche perchè i conventi adesso vanno molto di moda) ma si mangia male e le recensioni di Tripadvsor confermano, quindi sarà il caso che si pubblichino anche i nomi dei ristoranti. Piaceri della carne anche quelli. Sennò non vale.

E

rano ancora alla terza votazione quando sui giornali on line è comparso il primo video: Sergio Mattarella a Montesilvano con Renzo Gallerati sindaco giovanissimo e il non ancora presidente della Repubblica in veste di ministro della Difesa. Scatenando una corsa a metterci il cappello sopra, a chi lo conosce di più e meglio, a chi ha il numero in rubrica, a chi risponde al telefono, a chi ha una foto (perchè i selfie ancora non esistevano e poi chi ce lo vede Mattarella a farsi i selfie), e insomma l’Abruzzo si è prodotto in una corsa di quelle che manco Abebe Bikila a piedi nudi. Ma il video più bello l’hanno tirato fuori gli ex democristiani, ai tempi della disfida del vino tra Franco Marini e Oliviero Diliberto che ogni anno avevano l’abitudine di misurarsi a suon di bottiglie: l’abruzzese appassionato di Valentini e il sardo di Cannonau. Nel video, del 2008, presentato col titolo “Mattarella canta Bella ciao”, si vedono appunto Marini, Diliberto e un po’ di politici dell’epoca, allegri e forse un po’ alticci, mentre fanno karaoke con l’Inno di Mameli e poi appunto con Bella ciao. In realtà Mattarella non canta, si limita a stare in piedi un po’ appartato e imbarazzato, come nel suo stile.

P

oi si racconta che alla cena che ha fatto seguito al convegno su Federico Caffè col governatore della banca d’Italia Ignazio Visco, organizzata a Pescara per il venerdì precedente l’elezione del presidente, D’Alfonso abbia telefonato a Mattarella per scusarsi della sua assenza alla terza votazione, e per rassicurarlo sulla sua presenza come grande elettore il giorno successivo. Facendo strike e dimostrando quindi: che lui aveva il numero di cellulare, che Mattarella gli rispondeva pure, e che ci stava in grande confidenza. Ma questa è leggenda, e qualcuno in realtà ha pensato che D’Alfonso in realtà stesse parlando con la moglie, come la mamma del dottor Tersilli. Vero invece l’sms che ha mandato a Mattarella dopo la sua elezione, chiedendogli di venire presto in visita in Abruzzo. E mentre tutti si affannavano a metterci il cappello sopra, a riesumare foto video e letterine, il primo e unico abruzzese che lo ha incontrato, è stato Giovanni Legnini in qualità di vice presidente del Csm. Della serie: tiè.

S

tefy e Simone si amano e ce lo hanno detto in tutte le salse. Bene hanno fatto ad andare dalla Bignardi, dalla D’Urso, a mettere all’asta tapiri, a piangere e a sbaciucchiarsi in diretta tv, alla faccia di tutti quelli che li insultano e li invidiano. Ma il carnevale di Sulmona, quello Stefania Pezzopane e Simone Coccia Colaiuda se lo potevano risparmiare. Masochisti.

C

e lo dice da amico, Antonio Razzi. Ci dice che dobbiamo bere il vino suo. Buono? Macché: ce lo dobbiamo bere perché “Fatti una cantina di Vino Razzi tutta tua, così gli altri sono invidiosi !”, perché “Poi glielo rivendi a peso t’oro, perché “Fai la crana a palate, altro che vitalizio”, eccetera eccetera, tutti spot che compaiono sulle etichette delle sue bottiglie. Magari uno le compra così ci fa una risata a tavola con gli amici. O per fare uno scherzo. O vattelappesca e in ogni caso i soldi vanno in tasca a lui. Poi sempre lui ci piomba in casa col suo video in cui canta e balla nella parodia di se stesso, o di Crozza che è praticamente lo stesso: “Famme canta’, quello che io faccio non ho mai pentito, sono stato eletto senatore anche perché di fame si muore. Poi Crozza mi ha imitato e ora sono anche famoso”. Un brand. Il brand Razzi che si sovrappone pericolosamente al brand Abruzzo. Guardi il video e ti vergogni per lui (e molto anche per te, che a Roma ce l’hai mandato, elettore o no) e non fa niente se i ricavi poi vanno a finanziare un’opera buona. Ti vergogni e basta. E insomma: uno ci mette 60 anni per affrancarsi dall’oleografia pecore&tratturi, a sdoganarsi dall’Abruzzo furbo & gentile e poi in un attimo, per colpa sua, risprofonda nel Volavola. Si dirà: so’ fatti suoi, lo dicevano tutti gli elettori del Berlusca ai tempi del Ruby-gate, varrà anche per il senatore ex Idv e ora forzista. No, sono fatti nostri. Proprio Razzi nostri. Conferiamogli la cittadinanza (dis)onoraria. 5


[VARIOIDEE ]

PIERLUIGI VISCI

L’ABRUZZO E L’EXPO 2015

Q

ui ci vuole un’idea. Perché con gli slogan –del tipo: “occasione irripetibile per comunicare il territorio”, “portare sul territorio operatori e turisti”, “valorizzare tradizione e innovazione”, “cogliere la grande opportunità” e via elencando frasi fatte e anche consumate e solenni banalità– non si va da nessuna parte. Nè, tantomeno, con le “cabine di regìa” o i “coordinamenti” o peggio ancora i “tavoli”. Tutta roba vecchia e inutile, buona solo per dare ruoli, contentini e gettoni. Anche perché, poi, usano tutti (o tutte, parlando di Regioni) gli stessi stereotipi. Francamente non c’è proprio da invidiare quanti hanno l’onere di organizzare la presenza (adesso si chiama marketing territoriale) del proprio marchio a Expo 2015, a Milano dal primo maggio al 31 ottobre. Ogni regione è un moscerino tra 130 Paesi in concorrenza agguerrita tra loro per mostrare quanto di meglio hanno da proporre al resto del mondo e per rientrare oggi e in prospettiva di investimenti impegnativi. Per qualcuno anche troppo: la Lituania ha rinunciato perchè sei milioni di euro sono troppi per il potenziale ritorno in termini di immagine, commerci, turismo. Le Regioni, poi, saranno in partnership formale (e concorrenza sostanziale) con 19 consorelle, qualcuna più moscerino di altre, una a fianco dell’altra lungo il cardo del grandioso quartiere espositivo milanese e nel Padiglione Italia, il luogo verosimilmente più frequentato da quei 20-22 milioni di visitatori, 2-300 mila al giorno, attesi nei sei mesi della fiera e che tutti vogliono “catturare”, coccolare, sbalordire. Impresa ardua se tutti i territori puntano, sostanzialmente, sulle stesse opportunità: beni culturali e ambientali, stili di vita, prodotti della tradizione enogastronomica e del patrimonio agroalimentare. Soprattutto questi, soprattutto terra e cibo. Come sappiamo, il cappello tematico dell’evento –Nutrire il pianeta, energia per la vita– ci interroga pesantemente, Paesi ricchi e Paesi poveri, sulla grande questione della sufficienza alimentare per tutti gli abitanti della Terra che nel 2050 saranno, saremo, nove miliardi. Con gli squilibri che ci sono noti e sui quali Expo ci farà riflettere per trovare soluzioni, tecnologie, culture in grado di assicurare cibo e acqua potabile per tutti. (Quand’ero bambino si raccoglievano fondi per gli affamati dell’India, poi cominciarono a circolare le sconvolgenti immagini dei

6

bimbi del Biafra, col ventre gonfio. Quanti Biafra ci sono ancora sulla Terra?). L’impegno è di eliminare fame, sete, mortalità infantile, malnutrizione dai cosiddetti Paesi del Terzo e Quarto Mondo. E per noi, fortunati, che viviamo nelle terre del benessere e dell’eccesso di cibo, cogliere l’occasione dell’Expo per avviare processi di benessere con una corretta alimentazione per i bambini, gli adolescenti, i diversamente abili, gli anziani. Affrontare, ancora, gli eccessi da malsana obesità, causa di malanni (diabete, patologie cardiovascolari) con forti impatti sociali ed economici. Ecco: penso che la prima “grande opportunità” da cogliere sia proprio questa: capire lo spirito di Expo 2015, come istituzioni, popoli, singoli. E produrre risposte appropriate. Mettiamoci in mostra, allora: ma come? Vista da altri territori, leggendo programmi e iniziative, la “grande opportunità” dell’Abruzzo somiglia tanto a quella delle altre regioni. A Bruxelles, poche settimane fa, l’Abruzzo Day proponeva un menù dei migliori vini e cibi. Bene. Specie per quei fortunati che si sono seduti a tavola. Basta fare un viaggetto in internet, soffermarsi sui siti delle Regioni alla voce Expo 2015, e trovare più o meno le stesse proposte. Il Lazio, ad esempio, mostra subito la “mappa delle cento eccellenze”, dal vino aleatico di Gradoli alla mortadella di Amatrice, dall’olio Sabina Dop al pane casereccio di Genzano. In Emilia Romagna, regione dove ormai vivo, possono contare su esperti internazionali di agricoltura come Paolo De Castro, già presidente della commissione agricoltura del Parlamento europeo, che ha costituito un think tank internazionale per attrarre gli attori mondiali della ricerca e della sicurezza alimentare. Emiliano, poi, è Andrea Babbi, direttore generale dell’Enit (Ente nazionale per il Turismo), già capo dell’APT regionale. E in Emilia, a Parma, ha sede l’autorità europea per la sicurezza alimentare. Sarà dura. Le Marche puntano su Tipicità, benemerita organizzazione per valorizzare le eccellenze enogastronomiche, l’Umbria si sofferma su “tradizione, creatività, innovazione nell’alimentazione”. Ce la possiamo giocare. Non solo pecora. Ovvero: a fare la lista delle eccellenze in campo enogastronomico riempiremmo mille articoli di Vario. Portiamoli pure a Expo 2015 caciocavalli e burrini, arrosticini di pecora e agnello incaporchiato, brodetto di pesce di Vasto (o


di Pescara) e scapece chietino, virtù e maccheroni alla chitarra, cicerchiata e ferratelle, olio d’oliva dop Aprutino e Pretuziano delle colline teramane, Trebbiani e Montepulciani, Centerbe e Aurum. È scontato, ma fa Abruzzo. Così come è importante che l’Abruzzo sia capofila di Ape, Appennino Parco d’Europa, costituito dalle regioni appenniniche, che avrà un suo spazio nel Padiglione Italia. Un riconoscimento dovuto a un territorio che può vantare (e far fruttare, finalmente) primati dei quali essere assolutamente orgogliosi: l’Abruzzo è la maggiore area naturalistica d’Europa, cuore verde del Mediterraneo, Regione d’Italia con il più alto tasso di protezione della natura (il 28% della superficie territoriale a fronte di una media nazionale del 10%). Un risultato frutto di politiche che vengono da lontano: il Parco Nazionale d’Abruzzo (con la propaggine laziale e quella molisana) fu istituito nel 1923. Nel 1989 è venuto il Parco Regionale Velino-Sirente e due anni dopo il Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga e il Parco Nazionale della Maiella. Nel tempo, poi, si sono aggiunte 14 riserve statali, 17 riserve regionali e altre 19 aree e riserve con diversi gradi e livelli di salvaguardia e protezione. Anche la montagna fa Abruzzo. Eppure… Qui ci vuole un’idea. È dal sesto secolo avanti Cristo (ce lo dicono il santuario di Ercole Curino a Sulmona e i siti archeologici di Alba Fucens a Avezzano) che calchiamo questa terra. C’era il Guerriero di Capestrano, ora c’è il futuribile laboratorio di fisica nucleare del Gran Sasso, dove si fanno ricerche fantascientifiche di astrofisica delle particelle e si dialoga con il CERN di Ginevra che “spara” fasci di neutrini. Eravamo la terra dei “cafoni” di Ignazio Silone e dei pastori (“Settembre, andiamo, è tempo di migrare…”) di Gabriele D’Annunzio. Oggi siamo Telespazio, Mario Negri Sud (un delitto non aiutare questa eccellenza scientifica mondiale), Zooprofilattico di Teramo, centro di referenza FAO per l’epidemiologia veterinaria, un’altra eccellenza della ricerca

abruzzese nel mondo. Anche questo è Abruzzo. Matera ha battuto città sicuramente più blasonate e meglio attrezzate, come Cagliari, Perugia, Ravenna, Siena nella corsa per rappresentare l’Italia nel 2019 come “Capitale Europea della Cultura”, ruolo in passato attribuito solo a Firenze (1986) e a Bologna (2000). La Città dei Sassi (o Città Sotterranea), uno dei nuclei abitativi più antichi del mondo, ha puntato sulla cultura “che può cambiare un territorio”, come segno “di civiltà e riscatto” (dice il sindaco Salvatore Adduce). Era il luogo raccontato da Carlo Levi (Cristo si è fermato a Eboli), “terra arida, desolata e dimenticata dal Dio della Basilicata”. Ha proposto i suoi Sassi, emblema del degrado, all’Unesco e sono diventati Patrimonio Universale dell’Umanità (1993). Si è fatta carico di culture dimenticate per rappresentare il Sud e tutti i Sud del mondo, come Capitale Europea della Cultura. Un’idea, appunto.

Giornalista, si è occupato di cronaca giudiziaria (la P2, Tangentopoli, la camorra di Raffaele Cutolo, il maxiprocesso a Cosa Nostra istruito da Falcone e Borsellino) e di politica guidando la redazione romana di il Resto del Carlino, La Nazione, Il Giorno. È stato direttore responsabile di Quotidiano Nazionale, il Resto del Carlino e ilrestodelcarlino.net.Scrive sul periodico di politica e cultura liberaldemocratica Libro Aperto e segue le attività della società di comunicazione ed editoria Musica e Parole, che ha fondato col figlio Lorenzo nel 2012.

7


[VARIOIDEE ]

PIER LUIGI SACCO

UNA STRATEGIA PER L’ABRUZZO? SUPERARE I LUOGHI COMUNI L

’Abruzzo di oggi si trova di fronte ad un bivio, e le scelte che ci accingiamo a fare condizioneranno in modo importante il futuro della nostra Regione. Per molto tempo siamo cresciuti grazie ad una formula efficace, che soltanto in parte ha seguito la logica dei distretti industriali tipica della Terza Italia, e cha saputo combinare agricoltura, industria e punte interessanti di terziario avanzato, permettendoci di superare i problemi di arretratezza socio-economica tipici del Mezzogiorno italiano nell’arco di un paio di generazioni. Ma quel ciclo virtuoso oggi si è interrotto, e non soltanto a causa della crisi economica che appesantisce l’intero Paese. L’Abruzzo di oggi non fa semplicemente fatica a stare al passo della competizione internazionale, ma è piuttosto una Regione a cui manca una chiara visione di sviluppo su cui scommettere, una visione che possa dare luogo ad un nuovo processo di “specializzazione intelligente”, secondo la terminologia adottata dalla Commissione Europea nel suo quadro strategico 2014-2020. Una specializzazione intelligente richiede elementi relativamente unici di vantaggio competitivo, e nell’Abruzzo di oggi questi vanno sicuramente cercati nelle sue risorse naturali, ambientali e culturali, e nella capacità di produrre ed intercettare canali interessanti di innovazione sociale e tecnologica che abbiano una solida ragione d’essere nei nostri territori. Il turismo è certamente parte di questo quadro, ma non bisogna commettere l’errore di pensare che una Regione come la nostra possa vivere prevalentemente di turismo: basta guardare i dati recenti sulla percezione che delle destinazioni turistiche italiane hanno i visitatori internazionali per rendersi conto che, nella mappa italiana in cui le Regioni sono dimensionate alle percezioni e ai flussi stranieri, l’Abruzzo è quasi invisibile, come del resto pressoché tutto il tratto centrale del versante adriatico del nostro paese. Questo ci dà ovviamente ampi margini di miglioramento, ma ci fa anche capire che, realisticamente, nei prossimi anni ci sarà molto da lavorare per conquistare qualche nicchia in un mercato estremamente competitivo e già ampiamente presidiato da concorrenti più esperti e più visibili di noi. Molti guardano con grande speranza all’occasione di visibilità offerta dall’imminente Expo milanese, ma anche in questo caso inviterei a non farsi troppe illusioni: l’Expo è sì una grande vetrina, ma anche una vetrina estremamente affollata e chiassosa, e sarà difficile attirare l’attenzione sui nostri

8

territori, anche a causa dei ritardi e delle approssimazioni del percorso di progettazione e preparazione dell’Expo, che come è purtroppo costume per il nostro Paese ci porta a svolgere gran parte del lavoro decisivo sul filo di lana in mezzo ad una grande confusione e seguendo una logica emergenziale. È probabile che qualche piccolo effetto benefico si riesca ad ottenere, ma è imprudente pensare che la vetrina milanese possa offrire più di questo. La vera opportunità, come è già accaduto in passato, viene piuttosto dal europea appena [ ciclo di programmazione ] iniziato, che assegna alla nostra Regione risorse significative che vanno utilizzate soprattutto in un’ottica di rafforzamento competitivo. Un uso attento e strategicamente sofisticato di tali risorse potrà aiutarci ad elaborare e tradurre concretamente quella visione di sviluppo di cui abbiamo tanto bisogno, e che passa sicuramente dai temi dell’economia verde, dell’economia dei contenuti e dei servizi digitali, dell’artigianato intelligente – e naturalmente anche del turismo, ma di un turismo di nuova generazione, che offre prodotti e servizi innovativi. Nella vision attualmente individuata nel documento preliminare del POR-FESR Abruzzo 2014, il principale documento di programmazione economica legato alla politica di coesione europea della nostra Regione, l’enfasi è posta principalmente sul rapporto tra ricerca scientifica, innovazione, manifatturiero avanzato e tecnologie della sicurezza in campi quali l’agrifood, l’energia, la chimica verde e le scienze della vita: un quadro competitivo sicuramente importante, ma relativamente al quale l’Abruzzo deve sapersi posizionare in un’arena molto affollata e agguerrita. In questo ambito, gli aspetti legati alla dimensione ambientale e culturale, su cui si fondano gran parte delle nostre vere specificità di territorio, finiscono per avere un ruolo piuttosto marginale. C’è da sperare che questo indirizzo di impostazione possa essere integrato, e che il ciclo di sviluppo che si apre non sia interpretato come un aggiornamento e una riproposizione di quello appena concluso, e in particolare della prevalente vocazione manifatturiera, per quanto debitamente ripensata. È arrivato il momento di esplorare nuove possibilità, e il momento di farlo è ora, quando appunto le scelte di programmazione devono essere messe a punto e validate. Spero proprio che la nostra Regione non sottovaluti l’importanza di questo momento, e sappia mobilitarsi per non perdere un’opportunità forse irripetibile.

Professore di Economia della Cultura e Prorettore alle reti di ricerca internazionali e ai progetti europei presso l’Università IULM di Milano. È inoltre Direttore Scientifico della Fondazione Campus di Lucca e membro del comitato tecnico-scientifico del MIBACT sull’economia della cultura. Scrive per il Sole 24 Ore e segue a livello internazionale progetti di sviluppo a base culturale. È regolarmente invitato come keynote speaker presso conferenze di livello internazionale sui temi dell’economia della cultura.


9


[VARIOIDEE ]

LUCIANO DI TIZIO

OLTRE GLI SLOGAN S

arà una eccezionale vetrina per l’Abruzzo. Questo il commento più frequentemente utilizzato negli ultimi mesi per celebrare la partecipazione regionale all’Expo Milano 2015 “Nutrire il pianeta. Energia per la vita”, evento che riempirà le cronache nazionali e si spera anche internazionali da maggio a ottobre prossimi. Sarà davvero così? Comincerei col sottolineare che il concetto stesso di “vetrina”, inteso come sito, reale o metaforico, nel quale la merce in vendita viene messa in mostra per conquistare l’attenzione dei potenziali acquirenti, è una invenzione moderna, con meno di un secolo e mezzo di vita. Perché le vetrine, nel senso che oggi diamo a questa parola, potessero concretamente esistere è stata in primo luogo necessaria una innovazione tecnica: le lastre di vetro di grandi dimensioni sono state realizzabili solo da quando, nel 1870, la ditta francese Saint-Gobain mise a punto un sistema per impiegare nelle vetrerie un soffio di aria compressa in sostituzione dei polmoni umani. Prima niente vetrina reale, niente vetrina metaforica: per le merci c’era l’unica possibilità di avvicinarsi agli acquirenti con le bancarelle nelle fiere. Oggi, al contrario, si spostano i clienti. Non basta, però, avere la struttura espositiva: perché il sistema e il concetto stesso della vetrina possano funzionare è necessario –ed è stato sin dall’inizio sempre così– che ci siano anche merci da esporre e potenziali compratori desiderosi di osservarle. Senza ciascuno di questi ingredienti il sistema non funziona, non può funzionare. Fuor di metafora appare ormai scontato che l’esposizione universale milanese, nonostante tutto, aprirà regolarmente i battenti. Ed è almeno molto probabile che l’evento attragga visitatori in quantità. L’unico elemento sul quale qualche incertezza permane, almeno dal punto di vista di un ambientalista abruzzese, è legato alla… merce che potrà essere esposta. Nessun dubbio sulle eccellenze agroalimentari abruzzesi né sulle enormi potenzialità nel settore della ristorazione e in tutto il vasto campo delle attività legate al comparto turistico. Molti i dubbi, invece, sulle reali capacità della politica, a livello regionale e della nostra rappresentanza nei palazzi romani, di saper davvero incanalare, valorizzare ed esaltare queste potenzialità. Sono tanti gli indizi che scoraggiano in tal senso: i quasi quindici anni buttati al vento per la perimetrazione del Parco Nazionale della Costa Teatina, ad esempio, oppure la cocciuta insistenza su scelte “di sviluppo” che puntano soltanto sul cemento e che stanno producendo ovunque soltanto palazzi

Giornalista e delegato regionale WWF Abruzzo

10

vuoti e centinaia di alloggi invenduti. Qualche anno fa a Chieti una amministrazione, di centrosinistra per quel che conta oggi la tradizione politica ereditata dal Novecento, commissionò e pagò un opuscoletto auto-promozionale di poche pagine mal fatto e costosissimo, praticamente inutile. Il rischio è proprio questo, ed è comune a qualsiasi vetrina, grande o piccola che sia: sbagliare la scelta di quel che si mette in esposizione e propagandare il peggio e non il meglio oppure, al contrario, propagandare le potenzialità dimenticandosi poi di realizzarle concretamente sul territorio. L’Abruzzo il primo di questi rischi lo ha splendidamente superato. Da anni si inventano slogan accattivanti in linea con le tendenze prevalenti a livello internazionale: “regione dei Parchi”, “regione verde d’Europa”, ad esempio. Concetti attraenti che danno del nostro territorio una immagine molto spendibile, nel resto del Paese e all’estero. Definizioni che tuttavia mal si sposano con l’Abruzzo distretto minerario; con piani regolatori dettati da chi ha interesse solo a costruire; con i ricorrenti progetti faraonici per nuove infrastrutture stradali mentre la rete delle vie provinciali e comunali va in rovina; con la privatizzazione di fatto di ampi tratti di costa; con i ripetuti attacchi, anche da parte delle amministrazioni locali, alle aree protette; con il costante tentativo di ridurre i fondi stanziati per le riserve regionali; con resort e inutili e vuoti porti turistici a gogo su tutta la costa; con un’Area Marina Protetta sotto costante assedio da parte di alcuni pescatori più predatori che sagaci coltivatori delle tutt’altro che illimitate risorse marine… Potrei andare avanti a lungo con analoghi esempi, ma non serve. Il concetto è che predicare bene e agire male, come non da oggi facciamo, non è e non può essere in alcun caso la scelta giusta. L’auspicio che mi sentirei di sottoscrivere per l’Expo 2015 e segnatamente per la partecipazione dell’Abruzzo è che ci sia un preciso impegno a costruire contenuti reali, nella programmazione e nelle scelte economiche regionali, per quei patinati e accattivanti depliant che certamente distribuiremo in grande quantità nei sei mesi della vetrina milanese. Fatti e non soltanto parole perché la regione verde d’Europa non sia più soltanto uno slogan ma una precisa direzione da perseguire per il futuro, ma già da oggi. Solo così le prospettive dell’Abruzzo verde diventeranno anche rosee e piene di rinnovata speranza.


11


[VARIOIDEE ]

TOMMASO DI BIASE

L’ANIMA DEGLI ABRUZZI

N

ella nostra regione convivono due distinti caratteri, quello appenninico e quello adriatico. L’Abruzzo Appenninico è dominato dalla natura. Una natura forte che accoglie e contestualizza le città d’arte, i castelli, i centri minori sparsi nel suo territorio. Ignazio Silone, non a caso, ha detto che “le montagne sono i personaggi più prepotenti della vita abruzzese”. E Mario Pomilio che “...in Abruzzo la natura ha condizionato più che altrove la storia.” Infine Flaiano, in una famosa lettera al giornalista Pasquale Scarpitti, scriveva che l’Abruzzo è “...un’isola schiacciata tra un mare esemplare e due montagne che non è possibile ignorare, monumentali e libere” aggiungendo “se ci pensi bene, il Gran Sasso e la Majella sono le nostre basiliche...” L’Abruzzo Appenninico è denso di spiritualità, di storia, di magia. La dimensione di spazio incantato della sua montagna è stata colta e disegnata da Escher. Uno spazio incantato che va rianimato e ‘ricostruito’ per restituirlo a nuova vita. Nell’Abruzzo Adriatico la natura è soprattutto l’esito del lavoro umano e della trasformazione antropica funzionale alla produzione di ricchezza. Ma muove ugualmente dalla natura: dal mare, risalendo le colline e le valli lungo le vie del vino, dell’olio e del grano duro fino ad oltre gli ottocento metri. Il territorio costiero e vallivo è caratterizzato da una forte struttura urbana che non ha ancora per fortuna la forma invasiva e ossessiva della metropoli; certo la evoca, ma la sua natura è alternativa a qualunque metropoli. Questa sua alternatività alla forma metropolitana è la sua qualità e contiene il suo progetto per il futuro. È questa alternatività che rende

Architetto e urbanista

12

l’Abruzzo attraente soprattutto agli occhi di quanti fuggono la dimensione ormai invivibile della metropoli contemporanea. La costa dei trabocchi, delle spiagge dorate e delle pinete litoranee si nutre del mare e dei prodotti del ricco territorio retrostante e delle colline che finiscono con l’aggrapparsi ai fianchi del Gran Sasso e della Majella. Il Parco della Costa Teatina è un potenziale modello di sviluppo endogeno per l’Adriatico; non solo non va macchiato di petrolio, ma andrebbe esteso oltre il Molise, almeno fino al Gargano. Ci vuole davvero poco ad attraversare l’Abruzzo per prendere il mare in direzione di altre mete mediterranee, tanti sono i porti sulla sua costa. Dal mare e dalla costa si intuisce la forza e la “magia” delle montagne, la loro monumentalità. Dalle montagne il mare è una meta e un approdo sicuro, una promessa di vita e di avventura. L’anima dell’Abruzzo, ancora da svelare, è nella relazione virtuosa tra queste sue due grandi identità, tra la costa e le sue montagne – come sembra suggerirci Flaiano: tra quel “mare esemplare” e le “le nostre basiliche”. Il suo futuro risiede nello sviluppo di questa relazione, nella sua messa in valore. Nella messa in valore di quella ricchezza e bellezza dell’anima del suo territorio che portò Primo Levi a definirlo “forte e gentile”. L’Anima dell’Abruzzo vive nell’idea moderna di Regione Verde d’Europa, di una regione dei parchi intesi non solo come aree protette, ma come carattere e contesto del più generale sistema ambientale, sociale e produttivo dell’intera Regione. Ora l’imperativo è percorrere con coerenza un tale cammino.


13


[ BREVARIO ] IL BACIO DELLA MINERVA

BUIO IL PUNTO SULLA RICOSTRUZIONE IN AULA

S

L’

Università Gabriele d’Annunzio ha conferito l’Ordine della Minerva ad Alfredo Paglione, operatore artistico e mecenate abruzzese. Il prestigioso riconoscimento viene conferito a personalità nazionali e internazionali che abbiano contribuito significativamente al progresso della scienza, della cultura e dell’economia. Alfredo Paglione, nato a Tornareccio, dopo la chiusura della sua Galleria Trentadue a Milano, gestita insieme alla moglie Teresita Olivares, ha donato circa 1.500 opere a musei abruzzesi. L’Ordine della Minerva è stato assegnato in precedenza, tra gli altri, a Pietro Cascella, Cesare Romiti, Sergio Marchionne. Nello stesso giorno di Paglione è stato premiato Tony Vaccaro, fotografo e giornalista italo-americano di origine abruzzesemolisana.

CHATTA CHE TI PASSA

È

l’alternativa tutta italiana a Whatsapp l’ultimissima importante novità sul fronte della messaggistica telefonica che porta la firma di un’azienda pescarese. Si chiama Bubbles (www. bubblesapp.co) l’applicazione (per Android e iOS) più rivoluzionaria e giovane del momento, che conta già 180 download giornalieri. Bubbles nasce dalla collaborazione dell’imprenditore Ermes Amadio e del programmatore Angelo Peluso, entrambi di Taranto, di Enry’s Island, incubatore di start up con base a Dublino e di Luigi Valerio Rinaldi, titolare dell’agenzia Lime5 di Pescara, Innovation Agency che ha già all’attivo collaborazioni di successo. L’ultima è quella con Ripani pelletterie, storico marchio del made in Italy che ha affidato all’agenzia pescarese il suo nuovo piano di comunicazione.

14

ono 40 i Comuni con un piano di ricostruzione già approvato che possono avviare cantieri. I restanti quindici stanno completando il processo di formazione e approvazione. Tutto per un investimento pari a due miliardi di euro per la ricostruzione privata e a 310 milioni per quella pubblica che arriverà, in proiezione e a piani chiusi, a 3 miliardi e 200 milioni di euro per la privata e a 450 milioni per la pubblica. Queste sono le cifre emerse da Officina L’Aquila, primo di una serie di incontri tra l’Ufficio speciale per la ricostruzione, i rappresentanti di alcune tra le principali major del panorama nazionale e internazionale produttrici di materiali per l’edilizia, Ance Abruzzo e Salone della ricostruzione. Incontro organizzato per presentare lo stato dell’arte del processo di ricostruzione nei Comuni del cratere. I piani riguardano esclusivamente i centri storici. In realtà lo stato attuale della ricostruzione è all’84% delle periferie, mentre è in avviamento il 13,7% dei centri (687 cantieri aperti di cui 207 in centro storico. I chiusi sono 1.658). «Officina L’Aquila è il laboratorio che nasce in seno al Salone della Ricostruzione per mettere in relazione positiva le grandi imprese e il territorio aquilano –ha spiegato Roberto Di Vincenzo di Carsa, coordinatore del Salone della ricostruzione– per le imprese aderenti, Officina svolgerà il ruolo di facilitatore, perchè farà loro conoscere la realtà amministrativa e operativa locale così da poter programmare l’attività». «Con la conferma di Officina L’Aquila –ha aggiunto Enrico Ricci, presidente Ance Abruzzo– battiamo un percorso di evoluzione del Salone che modifica il suo ruolo meramente espositivo per approdare alla funzione di luogo di qualificazione dell’attività di ricostruzione».

IN CORSIA CON ANDREA

T

re lezioni al buio per illuminare la conoscenza. All’Aquila nell’aula magna del dipartimento di Scienze Umane in viale Nizza, è andato in scena “M’illumino di dentro”, in occasione della giornata di sensibilizzazione al risparmio energetico promossa da Caterpillar RadioRai Due che si intitola ormai da anni “M’illumino di meno”. Il buio quindi non solo come eccezionale opportunità per risparmiare,

ma anche come via alternativa alla comprensione e alla comunicazione. “M’illumino di dentro”, organizzato dall’Università dell’Aquila grazie alla sua “costola culturale anarchica” Backstage Univaq, ha proposto un interessante esperimento di comunicazione al buio «per accendere lampadine della mente», come spiegano i docenti Giusi Pitari e Luca Ottaviano. «Risparmiamo energia spegnendo le luci, tutte, neanche una candelina, e proviamo ad accendere l’attenzione e la curiosità su temi scientifici introdotti da tre ricercatori dell’università». Tre lezioni brevi di venti minuti ciascuna, su temi molto distanti l’uno dall’altro, scarnificate da tutto ciò che non è pura comunicazione verbale: luci spente, lavagna inutilizzabile, proiettore spento, come spento sarà il linguaggio non verbale degli oratori invisibili. In mezzo, lezioni di musica di archi dal vivo. Unico feedback ad assicurare l’attenzione dei presenti e’ stato il silenzio. Gli ascoltatori, seduti sui banchi, sono stati costretti all’ascolto. Con i cellulari rigorosamente spenti.

S

i chiama Andrea, e ha già lasciato segni tangibili della sua attività nell’Ospedale di Pescara: pareti decorate con i personaggi dei cartoni animati; lettini, fasciatoi, giochi e seggioloni; feste e animazioni in corsia. Il progetto nazionale “Andrea” dell’A. Ge. Onlus (l’associazione italiana dei genitori) punta a migliorare la qualità dell’accoglienza nei reparti pediatrici. L’A.Ge. di Pescara, per finanziare ulteriori interventi nel reparto di Pediatria del S.Spirito ha organizzato la rappresentazione di una commedia, C’est la vie, di Fausto Verdecchia, il 16 maggio al teatro Massimo di Pescara. Il costo dei biglietti, non nominativi, è di 25 euro (spettacolo delle 17) e di 30 per quello delle 21. Per prenotazioni con consegna a domicilio: info@teatroilsipario.it, tel. 071202216.

PESCARABRUZZO PER EXPO 2015

I

l tema di Expo Milano 2015, Nutrire il pianeta. Energia per la vita diventa anche quello di un concorso fotografico che la Fondazione Pescarabruzzo ha bandito per gli studenti della Provincia di Pescara. Tre sezioni (Cibo & Natura, Cibo & Vita, Cibo & Cultura) riservate agli studenti delle scuole secondarie di secondo grado, più una quarta (Nutrire il pianeta) dedicata agli studenti dell’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche, dell’Accademia di Belle Arti dell’Aquila e delle tre Università abruzzesi. L’iscrizione è gratuita e dovrà essere formalizzata entro e non oltre martedì 31 marzo per poter partecipare al concorso che prevede premi in denaro per i primi tre classificati di ogni sezione più un vincitore assoluto, al quale andranno €750. Per informazioni rivolgersi alla Fondazione Pescarabruzzo (tel. 0854219109 - fondazionepescarabruzzo@pec.it).


15


VALENTINA COLADONATO e LUISA PRAYER

LE RICAMATRICI 16


Concerti preparati con estrema cura e attenzione; un repertorio tessuto finemente, con un occhio al classico e una propensione al contemporaneo. Il ritratto di due artiste dalle mani e dall’ugola d’oro

DELLA MUSICA 17


Testo e foto Claudio Carella

U

n duo cementato dalla professionalità e dall’amicizia, nata in un luogo dove il cemento caratterizza esteticamente l’ambiente, creando un’acustica che esalta le note emesse da uno splendido Steinway e da una voce possente. Luisa Prayer, pianista, e Valentina Coladonato, soprano, nel 2012 hanno unito le loro strade professionali, già affermate e ricche di soddisfazioni personali. Ma si sa, l’unione fa la forza; e i successi sono raddoppiati, portandole anche nella casa più importante d’Italia: quella del Presidente della Repubblica, il Quirinale. Era il 25 maggio del 2014 quando il concerto dalla Cappella Paolina è stato trasmesso in diretta da RadioTre Rai, raggiungendo una platea internazionale. «L’emozione è stata grande –racconta Valentina Coladonato– e la soddisfazione per l’apprezzamento della nostra esibizione è stata enorme». «Abbiamo sfogliato il repertorio per canto e pianoforte degli ultimi cento anni di musica –interviene Luisa Prayer– scegliendo le strade meno battute: tra i romantici, Mendelssohn al posto dei “soliti” Schumann o Schubert; per l’impressionismo/simbolismo, Debussy ma anche Pizzetti, Respighi, autori poco frequentati; e per il Novecento Bernstein, con le sue Ricette di cucina, e due Folksongs di Berio. Un programma che è sinonimo anche di una certa elasticità». «E abbiamo voluto caratterizzare l’esibizione –aggiunge Valentina– inserendo da buone abruzzesi anche D’Annunzio, autore delle Quattro canzoni di Amaranta di Tosti e della Mattinata di Ottorino Respighi. In più Ildebrando Pizzetti ha musicato I Pastori, la celebre poesia che tutti abbiamo studiato a scuola». Quando lavorano insieme, spiega Luisa, «Sembriamo due ricamatrici all’uncinetto: questo sì, questo no, accoppiamo questi, mettiamoci quest’altro… un processo meticoloso, perché ci piace che i pezzi che proponiamo abbiano un filo logico, una linea di ricerca sia temporale che stilistica. E sperimentiamo sempre nuove soluzioni». Luisa Prayer e Valentina Coladonato vengono entrambe da esperienze internazionali e hanno alle spalle due carriere costellate di momenti prestigiosi. Luisa ha conseguito il diploma a Roma, all’Accademia di Santa Cecilia, e a Salisburgo alla Hochschule Mozarteum. «Quella di Salisburgo è stata un’esperienza estremamente formativa, che mi ha consentito di approfondire lo studio dello stile classico viennese (Mozart, Beethoven) e di collaborare con musicisti dell’area austriaco-tedesca: ho lavorato per molti anni con il Konzertmeister dei Wiener Philarmoniker proprio sull’interpretazione di Schubert e Mozart, e allo stesso tempo frequentavo le masterclass all’Accademia Chigiana di Siena. Per molti anni ho fatto musica 18

d’insieme strumentale, e solo da qualche anno mi sto dedicando alla scoperta del repertorio per voce e pianoforte, collaborando, prima di Valentina, con Monica Bacelli, altra cantante abruzzese». Valentina, figlia d’arte, nata a Guardiagrele, ha mosso i primi passi nel canto grazie alla Schola Cantorum Settimio Zimarino diretta da Donato Martorella, «un coro dove hanno cantato, e cantano ancora, i miei genitori: mio padre ne fa parte fin dalla sua creazione, nel 1963. Posso dire di essere cresciuta a pane e musica, e a 12 anni, stufa di recitare solo il ruolo di spettatrice, ho chiesto di entrare anch’io nel coro. Poi ho studiato canto al conservatorio di Pescara mentre frequentavo la Facoltà di Lingue, determinata a diventare interprete parlamentare. I successi in ambito musicale mi hanno fatto scegliere questa strada, ma la conoscenza delle lingue è stata fondamentale: parlo benissimo il Francese, ma conosco anche l’Inglese e il Tedesco; è importante saper interpretare il testo in modo da trasmetterlo al pubblico, e una semplice sbavatura può essere deleteria. Partita dalla provincia ho poi iniziato a fare concorsi, a vincere premi internazionali, e ho conosciuto diversi gruppi che fanno musica barocca e contemporanea. Importante è stata la collaborazione con Ivan Fedele, compositore salentino tra i maggiori del nostro tempo, che scrive per me. E la sua amicizia mi ha aperto le porte di altri ambienti, che mi hanno consentito di approfondire il repertorio contemporaneo. Un mio fiore all’occhiello è stata la collaborazione con Riccardo Muti, che mi ha portata a Salisburgo, all’Opera di Parigi, al Ravenna Festival, e con altri direttori di livello internazionale come John Axelrod, Michel Tabachnik, Roberto Abbado (nipote di Claudio), grazie ai quali ho frequentato festival importantissimi. Ho cantato alla Frick Collection di New York, alla Filarmonica di Stoccarda…ma l’emozione più grande l’ho provata durante l’esibizione al Quirinale alla presenza di Giorgio Napolitano». Ma nonostante il loro lavoro le porti ad esibirsi all’estero, il rapporto professionale con l’Abruzzo per le due artiste è ancora strettissimo: Luisa Prayer, oltre ad essere docente di musica da camera al Conservatorio “Alfredo Casella” dell’Aquila, è dal 2000 direttore artistico del festival Pietre che cantano, «una mia creazione della quale curo tutti gli aspetti; le difficoltà organizzative sono tante, in primis dal punto di vista economico, ma quest’iniziativa mi ha dato molte soddisfazioni. Mi sono accorta che per il pubblico di oggi ascoltare la musica classica è un’esperienza molto impegnativa, ma se gli offri un medium culturale ci arrivano più facilmente. Ad esempio, al Festival ho fatto ascoltare dei pezzi di Bartok: molto difficili, ma associarli al Dracula di Bram Stoker li ha resi accettabili. La poesia, il testo, è un medium molto importante per entrare nel discorso musicale. E sono uno dei pochi direttori artistici donna che esistono: è un ruolo che stranamente non viene affidato alle donne».Valentina, dal canto suo (ci si passi il calembour) ha partecipato con la sua voce alla colonna sonora del film Mancanza-Inferno di Stefano Odoardi, girato a L’Aquila lo scorso anno, oltre a esibirsi in molte occasioni nei più importanti teatri della regione. E sarà proprio presentato in Abruzzo il primo cd che le due artiste stanno finendo di “ricamare”. A quattro mani.


Nella foto, da sinistra: Luisa Prayer e Valentina Coladonato 19


SATURNINO GATTI

alla ricerca dell’ artista DIMENTICATO Pittore e scultore del Rinascimento, il maestro aquilano va considerato a pieno titolo un grande, al pari di personaggi come Leonardo Da Vinci, il Ghirlandaio, il Perugino, il Pinturicchio, che con lui transitarono nella bottega fiorentina di Andrea Verrocchio. Parola di Ferdinando Bologna

L’

Abruzzo al centro dell’attenzione nazionale. Per una volta non per fatti di cui vergognarsi ma per la presentazione di un lavoro di grande livello artistico e culturale: la pubblicazione per i tipi della Textus di un volume dedicato a Saturnino Gatti, scritto da Ferdinando Bologna. Un saggio che si è già ritagliato un posto tra i testi fondamentali della storia dell’arte rinascimentale italiana. Saturnino Gatti, artista aquilano sicuramente noto agli addetti ai lavori ma pressoché sconosciuto ai più, grazie al lavoro del grande storico dell’arte suo concittadino, torna alla ribalta rivendicando la paternità di numerose opere che finora erano state attribuite ad altri e riguadagnando così il posto che merita nel gruppo di artisti che hanno reso famoso il rinascimento italiano, come Botticelli, il Perugino, Pinturicchio.

20

Personaggi che a vario titolo erano legati alle corti dei mecenati (come Federico da Montefeltro, duca di Urbino) e alle botteghe artistiche fiorentine: come quella del Verrocchio, che Saturnino frequentò, al pari del giovane Leonardo da Vinci, di Lorenzo di Credi, del Ghirlandaio, dello stesso Perugino, negli anni tra il 1470 e 1478, e dalle quali uscirono capolavori indimenticabili. Ma se per alcuni di questi grandi artisti la conoscenza presso il grande pubblico è dovuta anche alla banalizzazione contemporanea (il Pinturicchio citato da Gianni Agnelli per accostarlo all’ “artista” del pallone Del Piero), per Gatti vale il rigoroso studio del grande storico Ferdinando Bologna, che ne dimostra ancora una volta il valore artistico, il suo ruolo nel Rinascimento italiano e l’influenza che l’opera di Gatti ebbe anche presso i suoi contemporanei.


21


Il libro è la prima monografia in assoluto sull’artista aquilano, ad opera del più eminente storico dell’arte rinascimentale. Con 131 immagini a colori, 103 in B/N e una cronologia delle opere documentate, il lussuoso volume offre al lettore una ricostruzione analitica dell’attività di Saturnino sullo sfondo dell’ambito artistico dell’Aquila, dei suoi rapporti con la Toscana fiorentina e l’Umbria centro-settentrionale nonché un’illustrazione storico-critica di tutte le sue opere conosciute, indagando nel dettaglio, tra raffronti mai svelati prima, somiglianze di linee, forme e colori.

Ferdinando Bologna Saturnino Gatti. Pittore e scultore nel Rinascimento aquilano Textus edizioni, 300 pagine, € 75,00

SATURNINO GATTI

FERDINANDO BOLOGNA

Saturnino Gatti (San Vittorino 1463 circa - L’Aquila 1519), attivo fra gli ultimi tre decenni del secolo XV e i primi due del XVI, è il più importante pittore aquilano del Rinascimento maturo. Contemporaneo di Silvestro dall’Aquila, che fu principalmente scultore, prese come questi le mosse dall’importantissimo nodo culturale rappresentato a Firenze dalla bottega dell’orafo, scultore e pittore Andrea Verrocchio, frequentata a partire dal 1470 dal giovane Leonardo da Vinci, da Lorenzo di Credi, dal Ghirlandaio, da Pietro Vannucci detto il Perugino e dai maestri umbri della sua cerchia. Attivo tra Abruzzo, Umbria e Calabria, realizzò affreschi di eccezionale valore, come quelli della chiesa di San Panfilo a Tornimparte o quelli del ciclo di Santa Caterina a Terranova di Sibari; sue opere sono conservate a Baltimora (San Girolamo in penitenza, Walters Art Gallery), Montreal (Il Cristo e la Vergine intercedono per l’umanità, Museum of fine arts), nel Castello di Windsor (Sibilla Cimmeria, Royal Library) e in numerose chiese e musei aquilani: la Madonna col bambino in grembo, terracotta policromata, L’Aquila, S.Maria di Collemaggio; Il beato Vincenzo dall’Aquila, chiesa del convento di San Giuliano; la Madonna del Rosario e la Regina Celorum, L’Aquila, Museo Nazionale d’Abruzzo; Madonna col bambino, collezione Cassa di Risparmio dell’Aquila; Il beato Pietro dall’Aquila, San Biagio vescovo e Sant’Antonio abate, con la Madonna e il Bambino nella lunetta, Assergi, Santa Maria Assunta; Natività, chiesa di San Pietro a Coppito.

Ferdinando Bologna, aquilano, è considerato uno dei massimi storici dell’arte viventi. Ha scritto testi fondamentali su Caravaggio e su molti altri protagonisti dell’arte medievale e del Rinascimento italiano. Così lo descrive la Treccani: “Laureatosi a Roma con P. Toesca, ha fatto parte della redazione originaria della rivista Paragone. Professore di storia dell’arte medievale e moderna, ha insegnato nelle università di Salerno, Messina, Siena, Napoli (dal 1965), dove è stato direttore dell’Istituto di storia dell’arte, e infine alla Terza università di Roma. Ha pubblicato contributi che testimoniano una precoce attenzione a cruciali eventi artistici (Fontainebleau e la maniera italiana, in collab. con R. Causa, 1952; il fondamentale La pittura italiana delle origini, 1962; Il soffitto della Sala Magna allo Steri di Palermo e la cultura feudale siciliana nell’autunno del Medioevo, 1975, 4a ed. 2002; I metodi di studio dell’arte italiana e il problema metodologico oggi, 1979, per la Storia dell’arte italiana Einaudi). Ha diretto la collana Storia dell’arte in Italia, per la quale ha scritto il volume La coscienza storica dell’arte d’Italia (1982). I suoi interessi vertono soprattutto sull’arte meridionale e napoletana (Francesco Solimena, 1958; Gaspare Traversi nell’Illuminismo europeo, 1980; Battistello Caracciolo e il primo naturalismo a Napoli, 1991; la raccolta di saggi L’incredulità del Caravaggio e l’esperienza delle “cose naturali”, 1992, 2a ed. 2006; contributi anche in Storia e civiltà della Campania, voll. 2º-3º, 1992-93). Nel 1995 gli è stato dedicato il volume di studi Napoli, l’Europa.”

Nelle pagine precedenti: Il beato Vincenzo dall’Aquila, L’Aquila, chiesa del convento di S. Giuliano (Ph. Luca Del Monaco); Regina Celorum, L’Aquila, Museo Nazionale d’Abruzzo (Ph. Archivio Bologna). Nella pagina accanto: Madonna col Bambino in grembo, terracotta policromata, L’Aquila, Basilica di S.Maria di Collemaggio (Ph. Archivio Bologna)

22


«Ho ricevuto lo quatro di Saturnino che non porria essere più bello che è; multo mi a piaciuto, e non tanto a mme, ma ad tutti questi cittadini; però vi prego sforzativi fari venire onninamente mastro Saturnino, perché Ioanicola me disse che mastro Saturnino vene de bona voglia et cum quello precio che fo fatta la Badia verrà, che oltre domanda le spise de venire e tornare: io su’ contento de dareli le spisi et dudeci carlini per canna, che è uno carlino più per canna de quella della Batia» (lettera del 6 giugno 1490 del priore del Convento celestiniano di Santa Caterina di Terranova di Calabria)

23


GERARDO DI COLA

LA VOCE DEI DOPPIATORI Un tomo pieno zeppo di notizie, curiosità e “dietro le quinte” sul mondo del cinema e i suoi protagonisti: personaggi che si riconoscono subito, appena aprono bocca

di Francesco Di Vincenzo

A

dieci anni dall’uscita di Le voci del tempo perduto Gerardo Di Cola, con Il teatro di Shakeaspeare e il doppiaggio, completa la sua opera di disvelamento del ruolo dei doppiatori nella storia del cinema. Questa seconda pubblicazione ha per tema il doppiaggio dei film e dei prodotti televisivi tratti dalle opere teatrali di Shakespeare. E dal corpus dei capolavori shakespeariani Di Cola trae anche il modello organizzativo del suo lavoro, mutuandone la canonica ripartizione in un prologo e cinque atti (li chiama proprio così i capitoli). A questi aggiunge una presentazione (annunciata nell’indice ma assente nel testo), una prefazione (del professor Leo Marchetti), una introduzione (del critico Alberto Castellano), un epilogo, un appendice didattica e una postfazione bipartita in un testo di Andrea Mosca e uno di Andrea Razza, direttore dell’Enciclopedia del doppiaggio. Questa “gabbia” organizzativa sembra non riuscire a contenere, a dare un assetto logico e una trattazione coerente all’enorme mole di dati, aneddoti, curiosità, interviste, quadri sinottici, schede di film, sinossi di opere teatrali, biografie e storie di doppiatori, direttori di doppiaggio e società di doppiaggio, avventure produttive, foto di scena, locandine, immagini di luoghi e di personaggi. I testi sono redatti in un linguaggio chiaro e scorrevole, sempre esatto nella terminologia tecnica e spesso arricchito, con molta misura, di coloriture vivaci e coinvolgenti. Ma l’ingordigia conoscitiva ha portato Di Cola, nel corso della ricerca, a raccogliere una quantità tale di materiale informativo sufficiente per

24

ricavarci non una ma quattro, cinque pubblicazioni. A questa bulimìa di informazioni in entrata, corrisponde nel libro una sorta di incontinenza comunicativa in uscita, per la serie: se una cosa la so la scrivo, per impercettibile che sia la sua pertinenza con il tema del libro. Un esempio. La produzione radiofonica di opere letterarie è un tema importante, sarebbe sicuramente interessante una pubblicazione in proposito. Ma che c’entra la radiofonia con il doppiaggio delle opere teatrali di Shakespeare? Niente. Ebbene, nel libro di Di Cola troviamo, da pagina 156 a 203 (quasi cinquanta pagine!), un “Quadro sinottico in ordine cronologico di alcune produzioni radiofoniche di opere letterarie dal 1933 al 1984”. La spiegazione di Di Cola è disarmante e illuminante: «Intanto ci sono anche molte opere shakespeariane, e poi io ho indicato solo gli attori che abitualmente lavoravano anche come doppiatori». Insomma: purché un dato, una notizia, un episodio avessero un pur labile e lontano legame con Shakespeare e il doppiaggio, Di Cola li ha inseriti. E così troviamo nello sterminato elenco dei film d’ispirazione shakespeariana finanche Liquirizia, pellicola di Salvatore Samperi che nel 1979 rifaceva il verso ad American graffiti. Motivo della citazione? Christian De Sica nel corso di una festa studentesca si esibisce in una strampalata esibizione teatrale recitando, tra i frizzi e i lazzi dei compagni, il monologo di Amleto. Sconcertante. Ma anche affascinante: una irresistibile propensione all’accumulo che rivela una passione per il cinema colma dello stupore ingenuo e disarmato che coglie lo


Nella pagina a fianco: Gerardo Di Cola premiato da Pino Insegno al Gran Premio internazionale del Doppiaggio 2014. Qui sopra: gli abruzzesi Roberto Pedicini (Kevin Spacey, Jim Carrey e molti altri), Pinella Dragani (Catherine Zeta-Jones, Jennifer Lopez), Christian Iansante (Colin Farrell, Ben Affleck, Matt Damon); Michele Kalamera, voce italiana di Clint Eastwood.

spettatore-bambino davanti alla magia delle immagini che si muovono e parlano sullo schermo. Si capisce, allora, perché mai Di Cola abbia pubblicato nelle prime pagine del libro una vecchia foto dello scomparso teatro Pomponi di Pescara, abbattuto nei primi anni ’60. Non c’entra nulla, quella foto, né se ne parla nel testo. Ma la totale gratuità della presenza di quell’immagine (in realtà un complicato fotomontaggio con personaggi pescaresi dell’epoca) è un gesto poetico, un atto d’amore incantevole per il cinema e per la propria città. Se si coglie e si accetta questa chiave “poetica” per addentrarsi in Il teatro di Shakespeare e il doppiaggio, libro totale, libromondo che sembra partorito dalla fantasia di Borges, allora sarà una vera goduria perdersi nel suo percorso labirintico dove i viali tematici si intersecano e si biforcano e proliferano viuzze e vicoli e slarghi dove addentrarsi e sostare per scoprire, che so, i rapporti tra Shakespeare e La lancia che uccide (western con Spencer Tracy) o per scorrere tutta la cinematografia di Filippo Ottoni o scoprire i legami di don

Camillo e l’onorevole Peppone con l’opera shakespeariana. Ma anche a scorrere il lavoro di Di Cola con l’attenzione critica dell’addetto ai lavori si scopriranno tesori di informazioni rare, analisi dettagliate e acute, dati inediti e preziosi per ricostruire la storia del doppiaggio in Italia. Infine, per sottolineare e suggellare degnamente l’aura “magica” di questo libro, ricordiamo che il suo autore si chiama Gerardo Di Cola, il nome della casa editrice è “èDicola”, il titolare della casa editrice è Gerardo Di Cola, cugino del Gerardo Di Cola autore. Ditemi voi se questo non è un libro magico.

Gerardo Di Cola Il teatro di Shakespeare e il doppiaggio èDicola editrice, 2014, pp.688, € 30 25


anche i doppiatori hanno le loro colpe

Gerardo Di Cola nel giardino della sua casa pescarese (foto Milva Perinetti)

intervista con Gerardo Di Cola

«I

o ho sempre avuto un assillo –dice Gerardo Di Cola–: ma come, nei titoli di coda dei film si trova perfino il nome dell’ultimo aiuto parrucchiere e non si citano tutti i doppiatori? E così ho voluto trarre fuori dall’anonimato e far conoscere i nomi, i volti e le storie di questi protagonisti dell’arte cinematografica tanto clamorosamente e ingiustamente ignorati per lunghi decenni». Nel suo libro lei fa i nomi di tutti i doppiatori dei film e opere televisive tratte da Shakespeare. Come ha fatto se nei crediti, cioè nei titoli di coda, c’erano solo i nomi di alcuni di loro? «Grazie a Clint Eastwood». Clint Eastwood? «Scherzo. Mi riferisco a Michele Kalamera, la voce italiana di Clint Eastwood. Il mio amico Kalamera ha avuto la pazienza di scorrere insieme a me tutto il materiale audiovisivo che ho accumulato ed ha riconosciuto le voci di tutti i doppiatori, nessuno escluso». Come è nata l’idea di questa pubblicazione? «Dall’uscita in dvd, ad opera di Repubblica e L’Espresso, delle opere di Shakespeare prodotte televisivamente dalla BBC. Dopo il mio primo libro sul doppiaggio, Le voci del tempo perduto, ho voluto approfondire il discorso attraverso un tema preciso». In Italia, a differenza di altri paesi europei, si doppiano da sempre tutti i film stranieri. Perché? «Chi conosceva l’inglese o il francese negli anni Trenta o negli anni Cinquanta? Una gran parte degli spettatori italiani era analfabeta e non riusciva nemmeno a leggere le didascalie. Perciò il doppiaggio in italiano fu una vera e propria necessità sociale». Non tutti sanno che anche moltissimi film italiani sono doppiati… «Già, moltissimi».

26

Perché? Quale la necessità di questa pratica? «Necessità artistiche e necessità economiche. Un attore può saper recitare bene con il corpo e con il volto ma ha una brutta voce o, comunque, una voce non adatta a un certo ruolo. Allora lo si doppia anche se è italiano». Faccia qualche esempio. «Beh, tra i più noti ricordo Terence Hill e Bud Spencer. Oppure il povero Giuliano Gemma. Ma anche Gina Lollobrigida e Sofia Loren, almeno in un certo periodo della loro carriera. Lo stesso Gassman fu doppiato all’inizio». Addirittura Gassman. «Certo. Non piacevano la sua recitazione troppo accademica e la sua voce impostata, teatralmente “educata”». Pochi lo sapevano. «Certo. Gli attori doppiati, così come i registi e i produttori, si guardavano bene dal farlo sapere. L’importante era che il prodotto finale, il film, venisse bene». Anche i doppiatori tacevano. Perché? «Perché il cinema li pagava bene». E comprava il loro silenzio. «Se vuole metterla così…». Insomma, anche i doppiatori hanno le loro colpe nella sottovalutazione del loro ruolo. «Sì, anche i doppiatori hanno le loro colpe. È innegabile». Chi è o è stato stato, a suo giudizio, il più grande doppiatore italiano? «Non ho dubbi: Giuseppe Rinaldi, scomparso nel 2007». La voce di James Dean, Rock Hudson, Paul Newman, Jack lemmon, Marlon Brando… Lei ha dedicato a Rinaldi anche un bel video: “La voce di Dio”. «Un titolo appropriato per lui, mi creda». E dei doppiatori abruzzesi che dice? «Bravissimi. Del resto, professionisti del calibro di Roberto Pedicini, Christian Iansante o Pinella Dragani non devo certo scoprirli io». F.D.V.


27


Germano SCURTI

FA + RE NOTE DI CULTURA di Cristina Legnini foto Andrea Buccella

I

tasti della cultura sono diversi e Germano Scurti ne usa molti. E tutti con successo, ma anche con la riservatezza che lo contraddistingue. Non ostenta i prestigiosi concerti alla Fenice di Venezia o a Parigi né l’apprezzamento ottenuto dal suo film “Elegia per la vita”; preferisce parlare di progetti e di iniziative da musicista raffinato e colto, considerato uno dei maggiori interpreti del Bayan, strumento di origine russa simile alla fisarmonica. «Ho cominciato a studiarlo a otto anni e non ho mai smesso di amarlo. Ho cercato di connotarlo come uno strumento ideale per la musica classica contemporanea e d’avanguardia, più che legarlo a un repertorio popolare e folcloristico. Il mio obiettivo è promuovere la conoscenza di questo strumento, stimolando anche i compositori a scrivere per Bayan, così da renderlo autonomo e consentirgli di affermarsi all’interno delle orchestre». Ma cos’è il Bayan? «È uno strumento nato in Russia nel 1907 e portato in Europa occidentale da un danese e da un pescarese, Alessandro Di Zio (un maestro di musica affascinato dal singolare strumento). Differisce dalla fisarmonica che tutti conosciamo essenzialmente per il timbro distinto che hanno i bassi, che presentano un suono più potente. Proprio per l’estensione e la pulizia del suono, i Bayan vengono spesso scelti dai virtuosi della fisarmonica che eseguono musica classica o contemporanea». Come l’altro abruzzese Domenico Ceccarossi rese famoso il Corno inglese, di cui fu il maggior interprete, calcando i palcoscenici di mezza Europa con le più importanti orchestre, oggi è Germano Scurti a portare il suo Bayan nei teatri e negli eventi più prestigiosi, come La Fenice di Venezia, i festival “Duophonie” Scène de musiques contemporaines di Parigi, “Printemps des Arts de Montecarlo”, Nuova Consonanza, il Neue Musik Konzerthaus di Klagenfurt, l’Accademia Filarmonica Romana, la Stockholm New Music e tanti altri. A febbraio 2010 ha eseguito con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI “Sirius”, concerto per Bayan e orchestra composto per lui da Alessandro Sbordoni. Germano Scurti presenta un’immagine varia e composita del Bayan, non solo nelle platee di tutto il mondo ma anche nel suo ultimo lavoro, il disco Am Horizont incentrato sulla “sacralità del suono”, obiettivo primario della sua ricerca espressiva. Nel disco, inciso per Stradivarious, brani della 28

compositrice russa Sofia Gubaidulina, Wolfang Rihm e Ivan Fedele. Lo accompagnano al clarinetto Gareth Davis, al violoncello Francesco Dillon, gli Ex Novo Ensemble, con la conduzione di Filippo Perocco. «La mia è una musica contemporanea che si inserisce negli standard della musica classica. Dai tempi della musica di John Cage è cambiato molto, soprattutto la casualità. Nella mia musica non c’è nulla di casuale, è tutto meticolosamente studiato. Importante è la profondità del suono. Questa musica è fuori dagli standard dell’intrattenimento e per questo penso che susciti un’emozione. All’ascoltatore si chiede molto, ma questa musica riesce anche a restituire qualcosa». Oggi Germano Scurti affianca all’attività di musicista anche quella di insegnante (rigorosamente di Bayan) al conservatorio Tito Schipa di Lecce. Ma per una personalità eclettica come la sua, la musica non basta: laureato in Sociologia e Dottore di Ricerca in Scienze della Comunicazione ha insegnato Sociologia dell’arte all’Accademia di Belle Arti dell’Aquila. E il suo studio è rivolto al ruolo che gli operatori culturali hanno nello sviluppo del tessuto sociale di un territorio. Uno dei casi più rappresentativi in questo senso è stata l’esperienza di Convergenze, a Pescara, luogo di incontro delle arti animato da Peppino D’Emilio. Sulla sua figura e sulla sua importanza per la crescita culturale della città è incentrato il documentario “Elegia per la vita”, che costituisce la prima esperienza cinematografica per Scurti e che ha ricevuto ottimi consensi al Bellaria Film Festival 2014 oltre a trionfare al Festival del documentario d’Abruzzo. «Non mi aspettavo tutto questo successo. Il documentario per me è stato uno strumento per aprirmi al mondo e toccare con mano quello che mi sta intorno. Rispetto alla musica, quello del documentario è un linguaggio più immediato: attraverso il racconto di esperienze vissute si possono progettare quelle future. Non ho potuto conoscere di persona Peppino D’Emilio, ma la sua personalità mi ha spinto ad aprirmi ad un nuovo modo di comunicare. Lui voleva cambiare il mondo attraverso l’arte e al giorno d’oggi, in mezzo al cinismo imperante, una personalità come la sua può sicuramente insegnarci molto e ridarci lo slancio per pensare al futuro».


Dalla sociologia all’arte, dalla musica al cinema: i molti interessi di un personaggio eclettico capace di indagare i linguaggi contemporanei sia fra le tracce di un disco che dietro la macchina da presa

Germano Scurti e il suo Bayan

29


30

SCULTURE?


NO, ALBERI

31


Grazie alle sue caratteristiche morfologiche l’Abruzzo conserva ancora boschi vetusti in cui si trovano alberi antichissimi, che meritano tutela. Caterina Artese, direttrice dell’orto botanico di Penne, li ha censiti e catalogati in un volume che arricchisce la conoscenza del territorio in cui viviamo di Fabrizio Gentile

«L’

Abruzzo è una regione dove la natura è stata rispettata meglio che in altre. La gente di questa terra ci ha saputo convivere quasi come in un vincolo di pari dignità». Così parlò Ermanno Olmi, l’acclamato regista de “L’albero degli zoccoli” che nel 1994 realizzò proprio in Abruzzo un bel documentario dal titolo “Mille anni”, in riferimento all’età di un Faggio situato all’interno del Bosco di S.Antonio, a Pescocostanzo. Quell’albero, nonostante le cure, non c’è più. Ma di alberi monumentali in Abruzzo ce ne sono parecchi. Anzi, sono 363 quelli che compaiono nel censimento realizzato da Caterina Artese, dottoressa in Scienze forestali e Direttrice dell’Orto botanico di Penne, che ha pubblicato recentemente il libro “Alberi monumentali in Abruzzo” per le edizioni Cogecstre. Un lavoro lungo e paziente (davvero “monumentale”) durato oltre dieci anni, che colma una annosa lacuna nel sistema di conoscenza dell’ambiente e del territorio in cui viviamo. Ma cosa rende un albero “monumentale”? «In primo luogo –risponde l’autrice– l’età: quando una pianta supera il limite di mortalità generalmente attribuito alla sua specie, può essere considerata “monumentale”. Perciò una betulla di 70 anni è “monumentale” quanto una quercia di 300, perché il suo ciclo vitale è decisamente più breve. Ma l’età di un albero non sempre è rilevabile dall’analisi degli anelli, perché spesso, quando una pianta invecchia, il suo tronco diventa cavo, quindi non si può ottenere alcun dato dal cosiddetto “carotaggio” (l’estrazione di un tassello dal tronco mediante uno strumento chiamato “succhiello di Presler”) e bisogna desumere l’età in laboratorio, analizzando il Dna e/o il Carbonio 14». In mancanza di queste analisi sono proprio le dimensioni il criterio per definire un albero “monumentale”: altezza, equilibrio dei rami, circonferenza del tronco. «E a volte queste dimensioni sono ingannevoli, perché variano

da specie a specie». Tant’è che il più vecchio albero d’Abruzzo, secondo il censimento, è il Pino nero della Camosciara, che oggi ha 560 anni ma un tronco di “soli” 70 cm di diametro. «Un altro elemento che concorre a stabilire l’età di un albero è la documentazione storica: mappe che attestano la presenza della pianta in un epoca precisa, ad esempio, o documenti fotografici d’epoca, finanche racconti dei proprietari dei terreni. Oppure si può ipotizzare una vetustà in base alle dimensioni del tronco, che si espande annualmente in larghezza; ma anche questo fattore è soggetto a variazioni, a seconda delle specie e della loro localizzazione». Se volessimo stilare la Top Tree dei “vegliardi d’Abruzzo”, quindi, al Pino nero della Camosciara, attualmente in testa, seguirebbero il Castagno di Valle Castellana, in località Morrice, sui Monti della Laga, con i suoi 12 metri di circonferenza; l’Olivo di Capestrano, sicuramente pluricentenario anch’esso e con la ragguardevole circonferenza di 10 metri, e il Faggio chiamato “Matusalemme” nel Comune di Barrea, con 8,66 metri di circonferenza, che porta lo stesso nome del suo “collega” californiano, l’albero più antico della terra: un pino di 4765 anni. «Ma sono ancora molti –spiega Artese– quelli da censire e tanti altri aspettano di essere “scoperti”. Se venissero effettuate le analisi di laboratorio sugli esemplari censiti, potremmo scoprire alberi anche più vecchi, magari millenari». Il lavoro di Caterina Artese ha due meriti principali. Il primo è senz’altro quello di aver fornito alla Regione Abruzzo un elenco di alberi da porre sotto tutela, da valorizzare e proteggere. Il secondo, ma non meno importante, è che scorrendo le schede e ammirando le fotografie di questi patriarchi vegetali, quelli che ogni giorno ci sembrano semplici elementi di paesaggio ci appaiono per ciò che in realtà sono: esseri viventi, maestosi e imponenti – monumentali, a volte– ma allo stesso tempo fragili e

In queste immagini alcuni degli alberi monumentali d’Abruzzo censiti nel libro di Caterina Artese. In apertura: la Quercia di Zi’ Isidoro, a Perano. Qui sopra: Olivo a Roseto degli Abruzzi. Nella pagina a fianco, sopra: la Roverella di Case Scarselli a Castelli; sotto, un Faggio del Bosco di Sant’Antonio a Pescocostanzo (ph. Roberto Monasterio)

32


bisognosi di cure. Il libro di Caterina Artese trascende così il suo valore scientifico per assumerne uno sociale. E ci rivela che, spesso, questi monumenti viventi si trovano anche nei centri più urbanizzati. Come a Pescara, dove troviamo un Pioppo bianco alto 14 metri che cresce lungo il centralissimo e trafficatissimo Viale Bovio o il Pioppo nero di 23 metri situato all’inizio della Strada Parco, il poderoso Pino d’Aleppo di Villa Sabucchi (20 metri ca.) o le antiche Tamerici sul litorale sud. A Chieti Scalo, nella zona dello stadio, si trova una Roverella di 26 metri d’altezza, e nella Villa Comunale del capoluogo è presente un notevole Pino d’Aleppo alto più di 24 metri; anche L’Aquila custodisce un Pioppo bianco in pieno centro storico, che con i suoi 30 metri d’altezza si erge nel giardino pubblico della Villa Comunale. Casi eccezionali, senz’altro, che meritano attenzione proprio perché più esposti all’azione distruttiva dell’uomo. «L’albero monumentale –spiega la dottoressa Artese– è, come scrive Spiciarelli, “un prodotto storico irripetibile, un programma genetico vincente che, una volta distrutto, non può più essere recuperato”. Per le piante monumentali l’unica vera minaccia è l’uomo. Si tratta di decidere se rassegnarsi alla loro scomparsa, alla degradazione e rarefazione silenziosa di questo patrimonio naturale limitandosi a salvare il salvabile, con l’applicazione della recente (2013) normativa forestale e ambientale, o se sia opportuno pensare alla loro valorizzazione e protezione».

Caterina Artese Alberi Monumentali d’Abruzzo Testi introduttivi di Antonio Sorgi, Annabella Pace, Fernando Di Fabrizio, Bruno Petriccione Cogecstre edizioni, 576 pagine 33


MARCO TORNAR

IL POETA IN CATTEDRALE Questo è l’ultimo articolo che Marco ha lasciato. Non doveva esserlo: avevamo già programmato servizi su altri luoghi e tanti argomenti, quanti ne sfornava la sua mente veloce e intransigente, profonda e cristallina. Non abbiamo le parole per dire altro.

P

uò sembrare incredibile ma c’è un affresco medioevale abruzzese il cui senso vertiginoso si rivela meglio in compagnia di un’attraente presenza femminile. Se per esempio avete avuto la fortuna di conoscere una ragazza di cui siete fortemente invaghiti, conducetela con voi ad Atri per una visita alla cattedrale. Se c’è la messa, aspettate che finisca, o comunque fate in modo che restiate soli nel momento in cui gli ampi spazi in penombra tra le navate verranno attraversati dai primi raggi del tramonto. Quindi avvicinatevi al fondo della chiesa, fino alla parete a destra dell’abside. Può darsi che mentre i vostri passi risuonano nel raccolto silenzio la disinvoltura di lei vi apparirà accentuata, la farà sembrare un’intrusa. È un’impressione. In alto, delle figure dipinte sulla pietra risaltano lentamente nella semioscurità. Sul momento forse comprenderete poco quei colori e quelle forme apparentemente rudimentali. Non scoraggiatevi. Non sarebbe stato assolutamente necessario che vi foste letti prima il saggio di Ferdinando Bologna I pittori alla corte angioina di Napoli o il medioevale Contrasto dei tre vivi e dei tre morti dell’Anonimo Abruzzese. Per quanto questi scritti –ammesso che foste riusciti a trovarli– avrebbero ampliato le vostre conoscenze, il significato di quelle figure, quasi oscurato dal più tardo e più celebre ciclo di affreschi di Andrea Delitio splendente al suo fianco, quasi questo volesse nasconderlo, impone che vi disponiate a guardare con la per così dire più assoluta purezza di mente e di cuore. E cosa c’è di più puro del desiderio? La penombra non vi impedisce di percepire lo stesso accanto a voi il vigore del corpo della ragazza. Siete lì fermi entrambi senza dire nulla, ma qualcosa di lei pare fremere. La corta veste le modella i fianchi, le lascia scoperte le gambe avvolte dalle calze a rete. La massa corvina dei suoi capelli riluce nell’oscurità. Vorreste toccarla, e state per dimenticare tutto il resto, ogni cosa, forse le stesse ragioni per cui siete arrivati lì. Lei è così irresistibile che di colpo vorreste essere soli in un luogo dove non c’è proprio nient’altro, nemmeno le pareti spoglie di una cattedrale deserta, tanto più che la sua bellezza adesso vi appare troppo provocante per un luogo simile. Però nessuno ha detto nulla quando siete arrivati, anche se per un istante vi siete resi conto del suo abbigliamento assai audace avete fatto finta di niente, non potevano certo impedirle di entrare. Cercate di far finta di

34

niente anche stavolta e tornate a guardare in alto sulla parete. Tre figure umane agitano i corpi e le braccia al cospetto di due scheletri. Indossano tonache lunghe, forse sono nobili o ricchi mercanti. I grandi palmi delle mani della figura in mezzo sono spalancati proprio come quando si è sopraffatti dallo stupore. Davanti a loro, per quanto rattrappiti, i due scheletri se la ridono atrocemente. Sanno di suscitare terrore, sono il nulla, sono il vuoto. Un terzo scheletro è solo apparentemente scomparso, in realtà aleggia più in basso, materializzandosi proprio nel punto in cui l’intonaco è scrostato. A nulla vale che il terzo mercante alluda per un momento al falcone che regge con la mano, sia i tre piccoli scudieri che i cavalli, poco più in là, verso un albero, sono in preda alla confusione, niente può opporsi all’abisso che si è spalancato. Per un istante avvertite una punta di angoscia, quasi la lama della spada che pende al fianco di uno di quegli uomini vi avesse davvero toccati. Istintivamente distogliete lo sguardo e vi sembra di incrociare nell’ombra quello della ragazza, ma lei si allontana, finché siede su una panca della navata centrale e si mette a osservare distrattamente le dimensioni della cattedrale. Rapidamente pensate che si stia annoiando, e che comunque, per intenderci, non ci sta. La delusione e il rammarico ve la fanno apparire irrimediabilmente più distante. Vedendola lì seduta la sua bellezza è tanto più conturbante quanto più irraggiungibile, intoccabile. Avete la certezza di aver perso, aver perso tutto, a nulla è valso averla portata a far un giro con voi sperando potesse accadere qualcosa. Forse non la rivedrete più. L’effetto di una piccola morte avvenuta in voi coincide con quello di una maggiore solidità della parete con l’affresco. Quella scena dipinta appare più ampia e più concreta. Il vuoto senza appello che rappresenta può forse comprendere fino ad assorbirla la sensazione di perdita che avete provato. Se poco fa foste sfiorati dal dubbio che sarebbe stato meglio uscire, condurre la ragazza a fare un giro per i portici della piazza, al caffè sotto l’antico teatro, passeggiare con lei tra i vicoli medioevali che si diramano festosi dal corso Elio Adriano, come i rondoni che a quell’ora ad Atri sfrecciano in cielo, adesso sentite che c’è ancora tempo. Per far poi cosa non lo sapete più. Ma qualcosa vi trattiene ancora lì, perché anzi sembra che il tempo si sia fermato, e non debba interessarvi altro. Non ha importanza cosa lei stia pensando, non ha più importanza


35


niente. È come se, uscito dal sogghigno degli scheletri, il vuoto lei? Il sopravvento della superstizione ha gioco facile. Vorreste abbia permeato lo spazio, l’interno della cattedrale, abbia far scomparire l’affresco, ogni ricordo, l’idea stessa di venire ad invaso la piazza. Simile ad una nebbia si è propagato su Atri, sul Atri per visitare la chiesa. Tutto dovrebbe cominciare solo dalla paesaggio, dappertutto, su ogni esterno. Dovunque voi possiate purezza che avete sentito in quel bacio, il cui antefatto vi appare andare o tornare le spire del vuoto sono già arrivate e hanno un segno premonitore particolarmente nefasto. Per scongiurare cancellato tutto perché non c’è nulla che possa resistere. questi pensieri tornate a stringerla appassionatamente, trovate È strano che non proviate paura, ma al contrario quasi un senso le sue labbra che vi aspettavano, il suo corpo vi fa sentire meglio di sollievo si faccia largo in voi, mentre guardandovi attorno il suo segreto. Nell’eccitazione state per annullarvi quando un considerate la penombra, il silenzio, gli archi alti tra le colonne rumore risuona improvvisamente dentro la cattedrale. come un’unica sostanza di una composizione essenziale. Provate Vi siete allontanati con un soprassalto e non vedete nulla, un senso di sollievo e insieme di libertà. Già, perché il fatto che l’interno è praticamente buio. La serie di piccole fiamme la morte sia ovunque, in ogni momento, ancora e sempre come ardenti probabilmente davanti a un altare laterale ha qualcosa nel medioevo, recide come il colpo di una grande falce ogni di lugubre. Sentite i lenti passi di qualcun altro che è dentro falsità, del passato o contemporanea. Sarà anche per questo che la chiesa, forse un prete o un sacrestano. Guizza nella vostra da affreschi simili a quello di Atri si sviluppò nel Quattrocento, mente il ricordo dei due scheletri sarcastici, il loro sogghigno dapprima in Francia quindi in Germania, in Italia, perfino riguarda anche voi. Poi effettivamente un prete si rivela in Estonia e Finlandia, il tema letterario e iconografico della dall’ombra, e cortesemente vi annuncia che fra poco la Danse Macabré, in cui uomini e donne ogni condizione sociale, cattedrale verrà chiusa. Nell’imbarazzo lei si riavvia in fretta i guidati da scheletri sarcastici e impietosi, danzavano? E in effetti capelli che si erano spettinati. Quando l’uomo sparisce vi sentite lo sconvolgimento che percorre i tre uomini al cospetto degli più tranquilli, prima non vi aveva né visto né spiato nessuno. E spettri di Atri non trasfonde ai loro corpi un movimento che in fondo comunque non facevate nulla di male, se c’è un dio sembra di danza? È tanto forte l’azzeramento di ogni ipocrisia che ha visto tutto sa che amate una ragazza. Vi vede preda della che immaginate di vedere la ragazza che avete portato voltata sua bellezza e dovrebbe esserne orgoglioso se quella bellezza sotto l’affresco, le mani poggiate alla l’ha creata lui. Lei vi stringe la mano, vi Adorare una forma che parete e la gonna alzata sopra la fa cenno di uscire. In quei pochi minuti schiena. Anche il movimento seducente che restano avete come un’esitazione. dia senso a ogni vuoto, che imprime alla sua nudità in fondo è In direzione dell’affresco c’è soltanto quello di una danza macabra, ed è privo un fitto buio. Vorreste capire. Vorreste questo avete pensato quando, di ogni connotazione volgare perché capire se anche la ragazza ha a che avvertite nell’aria un silenzio fatale. fare con quella pittura. La cosa vi fa un attimo prima di uscire Ricordate la scena di un celebre film in inorridire. Dovrebbe esserci un dio cui nella Wismar del Seicento uomini e talmente forte da sgominare la risata di dalla cattedrale di Atri, donne banchettano e danzano euforici quegli scheletri. Improvvisamente avete in una piazza mentre gli incappucciati l’impressione di comprendere cosa sia avete stretto su un fianco trasportano le vittime della peste. Vi la preghiera. Immaginate di sentire il scuotete come destandovi da un sogno fitto bisbigliare di persone inginocchiate la ragazza, sentendo la torsione ad occhi aperti. In uno stato quasi di lì accanto, tra la fiammelle, che si leva ebbrezza vi avviate verso la panca dove al cielo per preservare anche la bellezza dei muscoli mentre ancheggiava è rimasta la ragazza e vi sedete al suo di lei. Fantasticate la ragazza nuda fianco. in quello spazio a tratti baluginante. L’intimità che cogliete nell’espressione e nel tono di voce di lei Non sentite nulla di blasfemo, la sua bellezza dovrebbe essere vi giunge alla sprovvista. Vi dice che le fa piacere essere lì, non solo immortale. Di colpo considerate quante innumerevoli immaginava un posto tanto suggestivo. Mentre le rispondete bellissime donne siano passate sul mondo durante i secoli, delle qualcosa i suoi occhi sorridono. Tornate a guardare in avanti. quali non resta niente. È un fatto spaventosamente ingiusto. L’esplosione dei colori dell’abside sembra ritagliato nell’ombra. Per salvare la bellezza di lei sareste disposti a inginocchiarvi? Più a sinistra, in fondo, c’è l’affresco dei vivi e dei morti, come Evidentemente sì, visto che già il vostro amore non è che una un ammonimento nascosto. Per lunghi istanti non pensate a forma di adorazione. Adorare qualcosa che sia oltre il vuoto, niente. Poi vi baciate, quasi senza motivo, come spesso capita. adorare una forma che dia senso a ogni vuoto, questo avete Sentite invadervi dalla tenerezza di lei, un’onda di calore che pensato quando, un attimo prima di uscire dalla cattedrale di sembra infinita. Con le labbra incollate alle sue scrutate un Atri, avete stretto su un fianco la ragazza, sentendo poi sotto il istante lo spazio preoccupati che vi veda qualcuno. Poggiate palmo della mano la torsione dei muscoli mentre ancheggiava. una mano sulla sua gamba avvolta dalla calza a rete e siete Poi siete usciti, siete spariti nella nebbia. Una nebbia tanto presi da una sensazione di febbre o di fuoco. Lei si ritrae densa da sembrare ovatta ha occupato realmente la sera di Atri, dolcemente e riuscite a fermarvi. Restate entrambi a guardarvi a malapena nelle strade brillano le luci arancioni dei lampioni. e confusamente pensate solo a quel che accadrà dopo, quando È in questa opacità che vi siete persi, mescolandovi ad altre vite, uscirete di lì. Un po’ intontiti sembra non riusciate ad alzarvi, a chissà quali altre vicende, che sono state o accadranno. Non le passate un braccio sulle spalle e girate lo sguardo in avanti. si vede né sente più niente. Resta solo il fatto che l’affresco, nel E adesso? Adesso sapete solo di essere indicibilmente felici, ogni buio della cattedrale, è lì, resiste da oltre sette secoli. Qualche percezione del vuoto è letteralmente scomparsa. La realtà ha di spira della nebbia è forse davvero un’emanazione delle sue nuovo una completa evidenza. Per quanto abbiate voglia e forza figure? Che volete che dica. Non posso pronunciarrni oltre. Del di ragionare, perché tutto il vostro essere è per lei, avvertite però resto non so nemmeno se questo scritto sia un invito alla fede o che qualcosa non può essere cancellato. È il ricordo, sebbene un al libertinaggio. po’ appannato, di quell’affresco osservato prima di cadere tra le Marco Tornar (Marco Tornar è morto la mattina di domenica 8 febbraio a Pescara) braccia della ragazza. Una tappa casuale nel vostro itinerario a 36


37


RIBALTA LIBRI

CORREVA L’ANNO 1920 Un Abruzzo rurale dimenticato riaffiora dall’imponente archivio fotografico, e non solo, di Paul Scheuermeier e Gerhard Rohlfs, due studiosi svizzeri alla scoperta della regione. Una preziosa documentazione che oggi è disponibile a tutti grazie ad una mostra allestita al Museo delle Genti d’Abruzzo e ad un volume pubblicato dalla Textus di Edoardo Caroccia

di Fabrizio Gentile

I

l tempo qui non vale niente. Lo aveva intuito anche Paul Scheuermeier mentre lavorava nella campagna abruzzese. E ne avrebbe avuto una conferma dal fatto che solo un secolo dopo il suo lavoro è stato esposto in Abruzzo. Ma la sua opera non ha perso di interesse e di attualità, anzi: proprio ora che quel mondo è definitivamente scomparso, è importante e utile averne memoria e conoscenza. «Ken Griffiths, il fotografo britannico che nel 2007 stava lavorando con me per il mio libro sulla cucina abruzzese –racconta Edoardo Caroccia, editore di pregevoli testi sull’Abruzzo– mi chiese di poter vedere qualche fotografia d’epoca per capire meglio il territorio in cui era giunto. Mi recai quindi al Museo delle Genti d’Abruzzo, dove in mezzo alle varie fotografie che stavo visionando mi capitò di mettere le mani su un plico contenente delle foto interessanti. Esaminandolo mi resi conto che avevo tra le mani qualcosa di straordinario. Mi colpirono soprattutto le didascalie che accompagnavano ogni singola foto, ricche di appunti e che descrivevano minuziosamente gli oggetti, le tecniche agro-pastorali, e i nomi delle cose, spesso accompagnate da disegni». Si trattava, infatti, della documentazione prodotta da Gerhard Rohlfs (filologo e linguista berlinese) e Paul Scheuermeier (etnologo e linguista di Zurigo) durante le ricerche effettuate in Abruzzo per la stesura dell’Atlante linguistico ed etnografico dell’Italia e della Svizzera meridionale (in breve Ais, Atlante Italo-Svizzero), opera ideata da Karl Jaberg e Jakob Jud, che affidarono ai due studiosi il compito di raccogliere il materiale sul campo. Tra il 1920 e il 1925 Rohlfs e Scheuermeier percorrono l’Italia in lungo e in largo, integrando successivamente il lavoro con altri viaggi che si protrarranno fino al 1930, svolgendo ricerche di 38

carattere etnolinguistico e corredando il lavoro con fotografie e disegni (realizzati dal pittore svizzero Paul Boesch, che accompagnò Scheuermeier nel suo viaggio). «Allestire la mostra è stato un risultato di fondamentale importanza per il Museo delle Genti d’Abruzzo nel perseguimento delle proprie finalità di studio e valorizzazione della cultura materiale agro-pastorale della regione», afferma Ermanno De Pompeis, direttore del Museo pescarese. «Il panorama sociale delineato è ben diverso dal paesaggio descritto da altri viaggiatori romantici, condizionati dal mito lirico del primitivismo e dell’esotismo legato alla natura selvaggia ed al presunto isolamento atavico del territorio, come talvolta era stato interpretato l’Abruzzo». «Quando è stata allestita la mostra –racconta ancora Caroccia– ho lavorato alla realizzazione di questo libro che non è un semplice catalogo, ma la raccolta completa dei materiali prodotti da Rohlfs e Scheuermeier. Nelle oltre 460 pagine del volume abbiamo pubblicato tutta la produzione fotografica e testuale dei due ricercatori (212 foto, 173 delle quali inedite) incluse le didascalie, il “diario” di Scheuermeier, le legende fonetiche, perfino le lettere che Scheuermeier inviò a Jaberg e Jud. È un documento di inestimabile valore perché ci fornisce una “fotografia panoramica” di un popolo intero, una memoria che nessuno dei nostri contemporanei possiede. È rivolto a tutti coloro che desiderano sapere da dove veniamo; non è un’operazione nostalgia o l’elegia di un mondo idealizzato, scandito dai ritmi della natura, in contrapposizione alla velocità del presente; è un’opera che approfondisce la conoscenza del nostro passato e che ci permette di affrontare con maggiore consapevolezza i cambiamenti che ci attendono».


39


IL LIBRO Paul Scheuermeier e Gerhard Rohlfs. Gli Abruzzi dei contadini 1923-1930 A cura di Francesco Avolio e Anna Rita Severini Testi introduttivi di Francesco Avolio, Anna Rita Severini, Francesco Faeta, Glauco Sanga, Carla Gentili Textus edizioni, 464 pagine, € 65,00 LA MOSTRA Il tempo qui non vale niente. Paul Scheuermeier e Gerhard Rohlfs 1923-1930. 20/09/2014 - 20/03/2015 A cura di Mariano Cipollini Allestimento a cura di Alessandra Moscianese, Antonino Cigno, Francesco Perozzi Nelle pagine precedenti: Gerhard Rohlfs (a sinistra) e Paul Scheuermeier. Nella foto grande: Montesilvano, “l’informatore con due lattine moderne per portare l’acqua”. In questa pagina, dall’alto: Civitaquana, “a una vecchia fontana”; Civitaquana, “vecchio sonatore di ghitarra”. Tutte le fotografie sono di P. Scheuermeier.

40


PESCARA - Show room via Spaventa, 36 - angolo via Chiarini (zona stadio) Tel. 085 4517987 - 329 5359306 - 327 7453528 www.ciofani.it - info@ciofani.it

Mobili-Cucine-Complementi

Uffici-Negozi-Hotel 41


RIBALTA LIBRI

la memoria riscoperta In “Le radici ritrovate” Giampiero Nicoli rivisita l’ultimo secolo e mezzo della Marsica, ricostruendo un’identità stravolta dall’opera dell’uomo (prosciugamento del Fucino) e della natura (terremoto di Avezzano). di Francesco Di Vincenzo

L

o sapevate che negli anni ‘50 e ‘60 dell’800 migliaia di operai francesi arrivarono e misero radici nel Fucino per lavorare al prosciugamento dell’omonimo lago? E che nel primo ‘900 ad Avezzano si pubblicavano ben 16 giornali? Basterebbero le tante, sorprendenti notizie e curiosità disseminate nelle pagine di Le radici ritrovate. Racconto storico di Avezzano e della Marsica dal lago prosciugato al terremoto del 1915 (Carabba, pp.332, € 19,50) per consigliare la lettura di questo bel libro di Giampiero Nicoli. Ma l’autore, legale tra i più noti nonché uomo di solida cultura e operatore teatrale appassionato e competente, non ha inteso certo compilare uno zibaldone di folcloristica erudizione, di facile, divertente ma innocua lettura. Giampiero Nicoli Nicoli ha nutrito un’ambizione ben più alta: ricostruire la trama spezzata e dispersa della identità di un territorio stravolto alla radice, prima dalla grande impresa del prosciugamento del lago Fucino (1852-1877), poi dal catastrofico terremoto del 13 gennaio 1915. E ragiona, Nicoli, con finezza argomentativa sul concetto di identità, sui suoi rapporti con il tempo e lo spazio, ricorrendo con molta pertinenza a quanto detto in proposito da Kant e da Einstein. Infine, così formulando il cuore tematico del suo lavoro, il “guasto” terribile che Le radici ritrovate cercano di sanare: “Se, per le vite vissute da secoli in borghi rivieraschi, nello spazio-tempo del lago del Fucino, era cresciuto il solido tronco d’una identità; e se poi, per le vite rigermogliate nei pochi decenni dal prosciugamento del lago al terremoto del ‘15, nello spazio-tempo dei paesei contadini e di Avezzano –ormai piccola città, divenuta centrale nella Marsica a fine ‘800– era riemerso l’arbocello d’una identità; con la scomparsa del lago e, poco dopo, con la rovina sismica, quelle identità erano state frantumate e non ne restava che polvere”. E aggiunge: “Perché le nuove identità non solo rinascano ma radichino il loro valore culturale e sociale, si richiede un periodo più lungo di cento anni. E forse solo ora se ne sente il vagito”. Nicoli, questo ci pare l’ambizione alta del libro, a quel vagito vuole dare robustezza di voce che formula e articola una nuova identità. Ci è riuscito? Sì. Con il suo lavoro complesso eppure sempre spedito e chiaro nella esposizione, senza mai smarrire il filo tematico che man mano s’irrobustisce di riflessioni, collegamenti e integrazioni 42

multidisciplinari (Nicoli ricorre all’apporto di studiosi di varie discipline, collegando lucidamente le considerazioni specialistiche al tema della sua ricerca) l’autore ispessisce il vagito da lui acutamente colto nella nuova realtà della Marsica e mette a disposizione della sua comunità un’opera complessa e armonica, minuziosa e “totale”, capace davvero di farsi strumento ermeneutico di una nuova identità collettiva. Il libro è ricco anche di diversi registri stilistici, di modalità testuali, di organizzazione dei materiali, per non dire della ricchezza iconografica del volume. Ma dove Le radici ritrovate trova il suo timbro più vero, la sua cifra stilistica più originale è nella scrittura narrativa che l’autore adotta in lunghi passaggi di grande efficacia. “Era necessario –scrive Nicoli– integrare la storia con la narrazione, che contiene una parte soggettiva, ma può giungere ugualmente alla verità, forse più profonda, come è quella della poesia”. Ecco allora apparire in scena Vittorio, alter ego dell’autore, e altri personaggi con i quali Vittorio conversa e approfondisce i temi e le storie che gli stanno a cuore. Ma soprattutto entra in scena Martina, sua nipote, ancora una bambina, di sveglia intelligenza e grande curiosità per la storia del Fucino e della Marsica. In lei, l’autore vede le giovani generazioni ai quali si rivolge con un amore, una tensione e una preoccupazione che non teme di apparire retorica e paternalistica. Troppo alta è la posta in gioco per affettare un giovanilistico cinismo intellettuale. Ai giovani Nicoli parla con passione ed emozione, troppo consapevole che la smarrita identità non potrà mai veramente considerarsi ritrovata se non sarà un’identità giovane. Cioè nutrita, vivificata e sentita propria dai giovani.

Giampiero Nicoli Le radici ritrovate. Rocco Carabba, 2014, pp.332, € 19,50


NARRATIVA PREFECT

S

i chiama Ford Prefect, come l’alieno della Guida galattica per gli Autostoppisti di Douglas Adams. Dietro lo pseudonimo c’è un aquilano doc, autore di una rubrica di successo sul quotidiano digitale NewsTown dal titolo Praticamente Innocua. Viaggio semiserio nell’Aquila post-sisma. La rubrica, grazie all’ampio consenso raccolto, è oggi diventata un libro: Ford Prefect compie un viaggio epico quanto ironico nell’Aquila post-sisma, ricordando luoghi significativi e momenti importanti nella storia recente della città, e raccontando le bellezze e le storture di un territorio inesorabilmente cambiato, soprattutto negli ultimi anni. “Questa bolla di sopore che prima o poi esploderà ci riporterà una città diversa –scrive l’autore– ma, finché questo non avviene, andate a vedere L’Aquila, andatela a trovare. Perché la vostra memoria non avvizzisca. Perché questa città non diventi, veramente, praticamente innocua”.

Ford Prefect Praticamente innocua. UAO edizioni, 2015, 156p., € 18

SAGGI MARTOCCHIA Già narrata come un “sito incantato” sul finire dell’Ottocento, Silvi inizia il suo percorso evolutivo e sociale il 17 maggio 1863, giorno dell’inaugurazione del tratto locale della Ferrovia Adriatica. A partire da questo dato, il giornalista e scrittore Paolo Martocchia ripercorre in questo saggio i momenti storici salienti della città, gettando così le basi per la tanto auspicata ricostruzione del suo tessuto culturale. Un’operazione condotta “con la curiosità per l’individuazione consapevole della stessa identità di una terra e della sua gente attraverso le stratificazioni che tra Ottocento e Novecento fino all’attualità hanno delineato un clima sociale, una tipicità di sviluppo, una peculiarità storica che caratterizzano un ambiente e il suo popolo” (dalla prefazione di Ezio Sciarra).

Paolo Martocchia Le perle di Silvi Marte edizioni, 2014, 158p., € 10

FUMETTI TADDEI & ANGELINI Acclamati dalla critica, richiesti nelle maggiori fiere italiane, gli abruzzesi Marco Taddei (testi) e Simone Angelini (matite) collaborano dal 2012 e in un paio d’anni hanno dato alle stampe il loro primo lavoro, Storie Brevi e Senza Pietà, a cui è seguito nel 2013 Altre Storie Brevi e Senza Pietà (entrambi pubblicati da Bel-Ami), sbarcato anche negli States col titolo Short and Merciless Stories (Tinto Press, 2014). Una loro storia inedita è apparsa in B-Comics - Fucilate a strisce, sontuosa antologia a fumetti (Ifix, 2014) a cura di Maurizio Ceccato.

Marco Taddei e Simone Angelini Altre storie brevi e senza pietà Bel-Ami, 2013,116p., € 10

MUSICA CIMINIERA Musicista e appassionato di jazz, Fabio Ciminiera torna in libreria (dopo Le Rotte della musica, Ianieri, 2009) con una sorta di “autobiografia in musica”. Un volume composto di due “tracce”: la prima è, effettivamente, una cavalcata lungo i ricordi musicali dell’autore; la seconda una riflessione su quanto sia cambiato l’approccio alla conoscenza musicale con la sempre maggiore diffusione delle nuove tecnologie. Sebbene traspaia dalle pagine un po’ di nostalgia per il romantico rapporto col negozio di dischi (e con l’esercente, di solito prezioso consulente), Il tempo di un altro disco fa riflettere, e non poco, sulle modalità di fruizione della musica oggi, che con i mezzi del web apre le porte a una “democrazia totale”, in cui il protagonista assoluto, almeno in teoria, è l’ascoltatore.

Fabio Ciminiera Il tempo di un altro disco 188 p., € 12

ROMANZI ROMANO Sono passati dieci anni dall’esordio letterario di Alessio Romano, giovane pescarese che con il suo Paradise for all (Fazi, 2005, giudicato da molti critici come uno dei migliori debutti degli ultimi anni) portava i lettori all’interno della prestigiosa Scuola Holden di Torino a caccia di un assassino. Per il suo nuovo romanzo Solo sigari quando è festa, in libreria dal 19 marzo, Romano ha scelto l’Abruzzo post-terremoto come sfondo di una vicenda thriller che vede un mite ricercatore alle prese con una serie di delitti commessi sul filo del web: i social network, film snuff, aiutanti hacker e un finale di forte impatto per una storia originale e dal respiro internazionale. Un libro di grande intrattenimento che non rinuncia all’approfondimento psicologico e a una prosa di alta qualità.

Alessio Romano Solo sigari quando è festa Bompiani, pp. 280, € 17 43


RIBALTA TEATRO

SCANDALO NEL LAGER In Cannibali Claudio Di Scanno mostra, con grande efficacia teatrale, come l’orrore generi altro impensato orrore

Nelle foto: due momenti dello spettacolo Cannibali

di Francesco Di Vincenzo foto Claudio Carella

P

44

erché le scarpe sono rosse in Cannibali? Sono tutte ben lucidate d’un rosso liquido squillante le scarpe tolte ai prigionieri del lager e allineate ordinatamente, paio a paio, saranno una trentina, sul pavimento della baracca di Auschwitz. Stridono come un’insolenza cromatica quelle scarpe rosse sul grigio impiantito del vecchio

grigio/lager, annunciano, in un linguaggio di pura teatralità, un’incrinatura nella rappresentazione consueta dell’orrore dello sterminio. Di che cosa parla Cannibali? Di un episodio sconvolgente, e poco noto, accaduto ad Auschwitz. Abbrutiti e disumanizzati dalle torture e dagli stenti, sfiniti dalla fame, alcuni internati si resero protagonisti

fondaco scelto da Claudio Di Scanno quale spazio scenico della sua ultima regia, nel cuore del centro storico collinare di Popoli. Una provocazione, forse, per il senso comune e la pigrizia mentale degli spettatori che, cinquanta a sera, dal 21 al 27 gennaio, hanno assistito a Cannibali? Scarpe rosse ben lucidate in un campo di sterminio nazista: quando mai. Forse sì, una provocazione. O, forse e meglio, un avvertimento agli spettatori allineati a sedere su tre dei quattro lati oblunghi della cantina popolese: qui ad Auschwitz, come negli altri campi di sterminio, si è consumato il crimine infame della Shoah per mano della Germania nazista, ma queste scarpe rosse, vistoso e scandaloso segno scenico, rompendo l’uniformità dell’atteso

di un orribile caso di cannibalismo cibandosi del corpo di uno di loro. Un episodio sconvolgente che turba e ripugna non solo di per sé, violando uno dei massimi tabù della civiltà umana, ma perché incrina la convinzione, in fondo rassicurante, che l’orrore sia stato agito solo dai carnefici nazisti. Invece il Male assoluto dello sterminio produsse altro Male, certamente incomparabile al primo ma pur sempre Male. Le scarpe rosse sono dunque il segno teatrale della discontinuità: vi mostriamo l’orrore di Auschwitz ma rompendo la ritualità di una rappresentazione del Male ad una sola dimensione, così come il rosso rompe la rituale conformità del grigio. Ma non è il rosso delle scarpe l’unico scarto dalla “norma”: ci sono, nella

messinscena di Cannibali, momenti musicali e cantati, che richiamano la leggerezza del musical e addirittura dell’operetta e del melodramma, ma è sempre una leggerezza dolente, con clausole meste e rabbrividenti, come il prolungato brindisi di guardie e kapò il cui allegro tintinnìo, con un rallentamento di ritmo di pura genialità teatrale, diventa alla fine un agghiacciante rintocco funereo. E non mancano momenti di macabro umorismo yiddish, come quando uno dei cannibali, accingendosi a calare nella pentola il compagno grassoccio da sacrificare, difende la sua scelta citando dalla Bibbia l’elenco delle cose immonde e abominevoli che Dio ha vietato di mangiare. “Nella lista –ricorda- sono compresi gli animali che strisciano per terra e quelli con lo zoccolo fesso, ogni essere che si arrampichi e voli. Non è menzionato l’uomo grasso. Insomma il Dio della Bibbia non ha proibito di mangiare l’uomo grasso”. Ma se lo scandaloso pasto li salva per un po’ dalla fame, i cannibali non scamperanno alla morte orribile cui sono destinati. Nel finale di Cannibali sono ancora le scarpe rosse protagoniste, allineate e rivolte ora verso una vecchia, malconcia stufetta il cui piccolo sbuffo di fumo, così vistosamente, teatralmente inadeguato a rappresentare le micidiali esalazioni delle camere a gas, chiude la rappresentazione con perfetta coerenza di linguaggio scenico. Claudio Di Scanno, che oltre alla regia ha curato anche la drammaturgia ispirata al testo di George Tabori, con Cannibali ha regalato al pubblico un evento teatrale esemplare: esempio di come il teatro possa essere fino in fondo se stesso, cioè innanzitutto teatralità, e riuscire nello stesso tempo non solo a commuovere e indignare lo spettatore con una sacrosanta riproposizione dell’orrore della Shoah, ma stimolandolo, provocandolo a una riflessione inusuale e cruda sul male, sulla sua pervasività e inesorabilità. Susanna Costaglione e Mauro Marino hanno fornito l’ennesima prova della loro eccellenza interpretativa. Le musiche di Marco Di Blasio, eseguite dal vivo alla fisarmonica dallo stesso autore, si sono rivelate un perfetto complemento sonoro della messinscena di Di Scanno. Di sorprendente disinvoltura ed efficacia l’apporto degli allievi della scuola di teatro “Il posto delle fragole”.


IL TEATRO, ALL’IMPROVVISO

È

stata una serata speciale quella svoltasi il 14 dicembre scorso al Caffé Letterario di Pescara, quando sul palco (improvvisato) del locale di Via delle Caserme si sono sfidate le due squadre che hanno dato vita alla prima rappresentazione cittadina del Match d’improvvisazione teatrale, popolarissimo format nato in Canada nel 1977 e portato in Italia dall’attore Francesco Burroni. L’intenzione, secondo l’organizzatrice Mara Di Bartolomeo, era quella di «lanciare nuovi stimoli nel fertile terreno pescarese, ricco di esperienze teatrali a tutti i livelli, per la costituzione di una filiale a Pescara della federazione Match d’Improvvisazione, suddivisa su base provinciale». Un percorso difficile perché –burocrazia a parte– l’improvvisazione… non si improvvisa: «Contrariamente a quanto si potrebbe pensare –spiega Mara Di Bartolomeo, attrice e do-

cente– l’improvvisazione è una vera e propria tecnica, con regole precise e un metodo strutturato. Il Match è solo una delle manifestazioni visibili di quella che Dario Fo ha definito “l’arte più scientifica che esista”». E il seme gettato da Mara ha germogliato nella mente di Milo Vallone, attore e direttore del Cantiere Teatrale (una delle più vivaci realtà della scena pescarese) che ha colto la palla al balzo e ha inserito l’Improvvisazione tra i corsi del 2015. 20 lezioni in due mesi, tenute proprio dalla dottoressa Di Bartolomeo –esperta d’improvvisazione e di Teatro d’Impresa– che si concluderanno il 21 marzo con una lezione-spettacolo a chiusura del percorso formativo. Che, va specificato, è solo l’inizio di una serie di proposte legate a questa tecnica, che il Cantiere teatrale ha intenzione di implementare nelle sue attività. «L’arte dell’improvvisazione –chiarisce

Milo Vallone– oltre a rappresentare un efficace e imprescindibile strumento per affinare e completare la preparazione di un performer delle arti sceniche, è anche un invito a migliorare la personale capacità di problem solving, possibilità della quale possono beneficiare tutti e non solo gli artisti». In una città che da anni ha teatri improvvisati, non è cosa da poco.

A CENA CON L’ASSASSINO

N

iente “macchine” fantascientifiche, niente orpelli ipertecnologici, niente disgregazione molecolare. Per viaggiare nel tempo, secondo Lorenzo Giannotti e Vittorio Colarossi, basta la fantasia. Aiutata, sicuramente, da una messa in scena curata nei particolari, da una sceneggiatura solida e da un gruppo di attori capaci. «Quel che conta è l’atmosfera», dicono i due giovani che nel 2012, sulla spinta della crisi, hanno deciso di investire le proprie risorse in quello che fino a poco tempo prima era per loro poco più che un hobby, il gioco di ruolo dal vivo. E così nasce Cronosfera, “agenzia di viaggi nel tempo”, ovvero un affiatato team che organizza eventi di intrattenimento ludico generalmente ambientati in epoche diverse dal presente, destinati al pubblico più smaliziato, in grado di farsi coinvolgere e di viaggiare, almeno con la fantasia, sulle

ali del tempo. «Per avvicinare il pubblico alle emozioni del gioco di ruolo dal vivo abbiamo nel nostro carnet di eventi le Cronocene, ossia le “classiche” cene con delitto, in cui i commensali devono indagare insieme agli attori su una vicenda che si snoda tra una portata e l’altra. Il livello di coinvolgimento è relativamente basso: si interagisce solo in alcune fasi del gioco e le squadre (i tavoli) gareggiano tra loro per scoprire il mistero. Ma quel che ci preme di più è far compiere al pubblico il salto di qualità, ossia partecipare ad esperienze ludiche più immersive». Come i Cronoweekend, avventure che durano 36 ore, in cui i partecipanti (in numero limitato) possono anche assumere un ruolo e interpretare un personaggio, agendo di conseguenza. «È il principio alla base delle Cronoavventure, che durano più giorni, un’esperienza entusiasmante

che spesso viene utilizzata dalle aziende per i loro progetti di team building: le vicende hanno forti tratti cinematografici, con allestimenti scenici, costumi, effetti speciali. L’obiettivo è di offrire avventure finalizzate a lasciare un’impronta indelebile nei ricordi dei partecipanti». E come per un buon film, al successo di questi eventi concorrono tre cose: sceneggiatura, regia e interpretazione. «Sceneggiatori di professione vengono reclutati per

scrivere le storie, mentre il nostro regista Nicola Pitucci coordina il lavoro degli attori, tutti provenienti da vari laboratori teatrali abruzzesi. Noi troviamo la location, organizziamo l’evento, prepariamo i costumi e le scenografie. Il resto lo fa il pubblico». Per informazioni sui prossimi eventi l’associazione ha un sito web (www.cronosfera.it) e un’aggiornatissima pagina Facebook.

L’AQUILA-PALERMO, CHE SPETTACOLO

C

ontinua e si rafforza la collaborazione artistica tra L’Aquila e Palermo, grazie al lavoro degli “Artisti Aquilani” che hanno debuttato, con la prima nazionale della loro nuova produzione Zugzwang, al Piccolo Teatro Patafisico di Palermo. Zugzwang (termine scacchistico che indica il momento in cui un giocatore è obbligato a fare una mossa che lo porterà a perdere un pezzo importante o a subire lo scacco matto) è uno spettacolo che «parla di vita e porta in scena la morte» spiega il regista Simone Morosi. «In un teatro, dove si rinnova quotidianamente la sfida alla sopravvivenza, dove i ruoli non

sono mai ben definiti e nessuno può essere solo il custode o solo la prima attrice, si va avanti confrontandosi quotidianamente con la vita reale, quella forse banale fatta di conti da pagare e giornali da sfogliare. Il tempo scorre così, consumandosi tra una notizia di cronaca e un numero di magia». Palcoscenico del debutto aquilano sarà l’ex ospedale psichiatrico di via La Loggia, struttura che, grazie all’intervento di progetti come “Comunità Urbane Solidali”, è tornato ad avere una funzionalità sociale CP e cittadina.

45


RIBALTA CINEMA ITALIANO MEDIO

FASCISTELLI

CAPATONDA

MARINO

E

nnio Annio, Bruno Liegibastonliegi, Anna Pannocchia, e naturalmente Maccio Capatonda. Nomi (falsi) che tutti abbiamo imparato a conoscere, stregati dalle veloci e sempre divertenti incursioni televisive di quel team di comici creativi che risponde al nome di Shortcut Productions. Dagli esordi con la Gialappa’s band al travolgente successo di Mario su Mtv, gli abruzzesi Marcello Macchia ed Enrico Venti ne hanno fatta di strada, indovinando il filone su cui satireggiare –spot televisivi, finti trailer– e facendo crescere le loro ambizioni. Fino a sbarcare sul grande schermo, con la produzione (vera) di un film, Italiano Medio, che solo un anno fa era uno dei tanti fake trailer, viralmente diffusi dai fan sui social network insieme ad altri piccoli capolavori (L’uomo che non reggeva l’alcool, Ma anche no, Giammangiato, L’uomo che usciva la gente su tutti). E così, la finta storia di Giulio, ossessionato dall’economia (“Hai qualcosa sul Nasdaq”, “Mi fa uno Spread… volevo dire uno Spritz”) impegnato politicamente e dagli interessi culturali alti e diversificati, che su consiglio di un amico prende una pillola che gli abbassa la capacità cerebrale dal 20 al 2% con effetti benefici sulla qualità della vita (“Shcopaaareee!” “Amme-

L

a sede dell’Msi di Civitella Messer Raimondo, paesino della provincia abruzzese, sembra essere per il giovane Vittorio il luogo adatto per alimentare la sua alterità rispetto alla massa di coetanei conformisti. Ma la realtà è ben diversa, e la disillusione è dietro l’angolo. A raccontarcela è Stefano Angelucci Marino, attore e regista lancianese, fondatore del Teatro del Sangro, che ha diretto il film Fascistelli basato sul suo primo –e finora unico– romanzo omonimo.

chemmenefregaammè”) si allunga e diventa una divertente (e in realtà tristissima) fotografia dell’Italia odierna, la cui intelligenza è stata ridotta ai minimi termini da vent’anni e più di televisione commerciale. Malgrado qualche stiracchiamento, qualche caduta di ritmo e ingenuità, un esordio che lascia la speranza per una ventata d’aria fresca nella cinematografia comica italiana, che vede attualmente il solo Checco Zalone cercare di contrastare col politically incorrect la volgarità e l’autoreferenzialità di certi nuovi comici, che pur condividono con Maccio Capatonda/Marcello Macchia lo stesso percorso: web e tv.

IL SOGNO DI CABIRIA

VALLONE

D

al palco al set: per Milo Vallone, attore e direttore del Cantiere Teatrale di Pescara, non è la prima volta dietro la macchina da presa. Dopo AnnoZero e La vita è sogno, in occasione della ricorrenza della nascita di Gabriele D’Annunzio, il Cantiere Teatrale ha ospitato la proiezione del cine-spettacolo “Il Sogno di Cabiria”, che debuttò in Prima Nazionale allo Spoltore Ensemble nell’Agosto 2013. Lo spettacolo è sia un omaggio a Gabriele D’Annunzio, autore delle didascalie di “Cabiria”, primo kolossal cinematografico mondiale, nonché un omaggio alla stessa celebre pellicola del cinema muto, diretta da Giovanni Pastrone, a cento anni dalla sua distri-

buzione, e segue il percorso del progetto “CineProsa”, ideato dallo stesso Vallone, che coniuga i linguaggi del cinema e del teatro dando vita così ad un nuovo cine-spettacolo. Nel cast, oltre a Vallone, anche Ezio Budini, Serena Magazzeni e Marica Cotognini.

Nelle foto, da sinistra: la locandina del film Italiano Medio; la locandina promozionale di Fascistelli; Bruno Tarallo sul set con le attrici di Le donne invisibili; Milo Vallone sul set; un frame dal trailer di Esecuzione

46

“Fascistelli racconta dal di dentro in maniera impietosa –come mai è stato fatto finora– l’ultima generazione (quella dei primi anni ’90) dei ragazzi di provincia che hanno militato nel MSI, riuscendo a farci rivivere i pensieri, le scelte, gli scontri, le contraddizioni, le speranze e le disillusioni di quei tanti giovani che hanno provato a sfidare il mondo facendo politica nell’unico posto dove all’epoca era “proibito” stazionare, a destra” spiegano le note di regia. Una prova senz’altro imperfetta ma matura, in cui contano i personaggi: oltre allo stesso Stefano Angelucci Marino, fanno il loro dovere Carmine Marino, Matteo Gemma, Umberto Nasuti, Gemma Melchiorre, Pierluigi Di Lallo e il giovane e promettente Manuel Scinna nel ruolo di Vittorio, il fascistello protagonista. Info sul film e sulle proiezioni alla pagina www. CP jrstudio.it/fascistelli.

LE DONNE INVISIBILI

TARALLO

F

are un film a basso costo è già difficile. Farne uno a budget zero ha il sapore della sfida impossibile. Ma con la caparbietà che lo contraddistingue, il regista Bruno Tarallo (napoletano d’origine ma abruzzese d’adozione) ha tratto un film dalla sua omonima commedia, Le donne invisibili, girato interamente in Abruzzo e diretto da Giuseppe Pomponio. Nel nutrito cast (150 persone tra attori e tecnici), oltre a Tarallo, si mettono in mostra alcune procaci attrici abruz-

zesi: dalla ormai affermata Katarzyna Kloczynska (vista ne La Grande Bellezza di Sorrentino) a Giulia Di Bastiano, da Annalinda Barini a Patrizia Trisi. Loro, sicuramente, non resteranno “invisibili” a lungo.

ESECUZIONE

CAMPEA

A

l momento in cui scriviamo è solo un trailer. Anzi, un “teaser trailer”, un brevissimo filmato promozionale che ha lo scopo di incuriosire, far salire l’acquolina in bocca. E ci riesce benissimo: il film che Daniele Campea, abruzzese di Popoli, sta realizzando dal thriller Esecuzione di Angela Capobianchi promette di re-

stituire le inquietanti atmosfere che la scrittrice pescarese ha saputo creare sulla pagina scritta, raccontando una storia nerissima che ha tra i suoi protagonisti la città di Pescara come non l’avete mai vista.


RIBALTA MOSTRE A CURA DI LUCIA

GLI ANNI ‘50 DELL’ARTE ABRUZZESE

CORPO, CHE EVENTO

È

L

D

la miglior curatrice under 35. Il titolo le è stato assegnato al termine di Setup 2015, la mostra d’arte contemporanea bolognese dedicata agli artisti emergenti che per la sua seconda edizione ha ospitato il progetto Biophilia, a tasteful exhibition, curato per l’appunto da Lucia Zappa-

costa dell’Alviani Art Space di Pescara. Il progetto Biophilia, viaggio multisensoriale dentro il cibo, che è valso a Lucia il premio come miglior curatore, ha visto la partecipazione degli artisti Bruno Cerasi, Hernàn Chavar, Iolanda Di Bonaventura, Jukuki, Monica Maggi e Gloria Sulli.

LA CITTà è MOBILE

L

a fotografia ai tempi dell’iPhone. Se molti professionisti vedono nella grande diffusione della tecnologia digitale un problema (“ecco, ora sono tutti fotografi”), dall’altro lato c’è chi riesce a creare suggestioni originali proprio grazie al digitale. È così che nasce, un po’ per gioco, il progetto NovaPe, che Andrea Malandra (regista e artista visivo) ha realizzato

negli ultimi due anni e che ha trovato conclusione con una mostra al Museo Vittoria Colonna lo scorso febbraio. Circa trenta scatti che mostrano una città “mobile”, vista col telefonino, a metà tra realtà e sogno.

a mostra I mitici anni 50 e i fermenti aquilani, svoltasi a Pescara nel Museo Casa Natale di d’Annunzio ha fatto scoprire la vivacità italiana ma anche abruzzese nel campo dell’arte durante gli anni del dopoguerra. Lucia Arbace, Soprintendente per i beni storici, artistici ed etno-

antropologici d’Abruzzo, sta dando nuovo impulso alle iniziative culturali del Museo così da renderlo polo attrattivo per l’arte dell’Otto-Novecento. Nella presentazione della mostra ha fatto notare che L’Aquila, nel 1955, per iniziativa di Alessandro Clementi, organizzò una mostra panoramica di arte contemporanea. Vi si registrarono due schieramenti completamente opposti: artisti che continuavano ad essere ancorati alla tradizione e artisti a favore della modernità quindi sensibili ai richiami della Scuola Romana o dell’Espressionismo che si andava affermando. La tradizione in Abruzzo era soprattutto quella di Teofilo Patini che nel 1882 aveva assunto la direzione della Scuola di Arti e Mestieri dell’Aquila. La sua lezione era imperniata su un forte verismo basato sulla denuncia della miseria contadina. La modernità invece era rappresentata dalla Scuola Romana dominata da una figura carismatica come Giorgio De Chirico che auspicava un “ritorno al mestiere” e proclamava “pictor classicus sum”. Quindi mestiere e ritorno all’etica fabbrile. Due giovani studiose, Paola Marulli e Sibilla Panerai, hanno completato la presentazione. Nella prima sala della mostra attraeva, per la vivacità degli occhi, il dipinto con quattro donne che, per compostezza, imponenza e ieraticità evocano quelle di Mario Sironi. Au-

tore, Pompeo Borra: Donne (1949). E l’opera di Renato Guttuso, Foresta (1949), di grande suggestione per il contrasto di tinte. Può simboleggiare gli intrecci della vita umana dovuti alla forza della natura. Nella seconda sala, tra gli altri, si ammiravano tre dipinti di Remo Brindisi, artista di famiglia abruzzese, grande appassionato del mondo rurale che egli sognava patriarcale e antico. I dipinti di Brindisi sono realizzati espressionisticamente con linee decise e scabre. Nella terza sala diversi paesaggi e una Natura morta (1954) di Mario Mafai. Vicino alle verdure, i fiori ai quali ai quali egli dedica diverse opere per “trovare ancora da illudersi, da sognare”. E ancora opere di artisti altrettanto importanti come

Emanuele Cavalli, Beppe Guzzi, Domenico Cantore, Michele Cascella, Sante Manachesi, Enrico Paolucci, Orfeo Tamburi, Fausto Pirandello, Bruno Saetti… L’accresciuta attività espositiva della Casa d’Annunzio è sicuramente un regalo ai cittadini. Anna Cutilli Di Silvestre

al 2011 al 2014 il Museo di arte contemporanea di Nocciano, altrimenti noto come Maaac (Museo e Archivio degli Artisti Abruzzesi Contemporanei) è stato luogo privilegiato per la ricerca sull’arte performativa con le quattro edizioni di Corpo, il

festival dedicato alla performance curato da Ivan D’Alberto e Sibilla Panerai. Sono proprio loro gli autori di un bel volume (Corpo estraneo/ straniero. Storia delle arti performative in Abruzzo, Verdone editore) che ricostruisce in maniera analitica un secolo di performance in Abruzzo e raccoglie il materiale documentario riguardante il lavoro compiuto dal Museo di Nocciano dal 2008 al 2013 e da Cappa, Centro di Archiviazione e Promozione della Performing Art di Pescara. La presentazione del volume lo scorso 12 marzo, nella bella cornice dell’appartamento Lago di via Brera a Milano, è stata accompagnata dalla proiezione di alcuni video storici (di Fabio Mauri, Angelo Colangelo, Vanessa Beecroft e del Gruppo Aura) e dalla performance dell’artista Nicola Mette “A letto con l’artista”.

Nelle foto, da sinistra: Lucia Zappacosta (al centro) con alcuni degli artisti presenti all’edizione 2015 di SetUp; sotto una fotografia del progetto NovaPe di Andrea Malandra; le opere Donne di Pompeo Borra e Foresta di Renato Guttuso; la copertina del volume Corpo estraneo/straniero di Panerai e D’Alberto.

47


48


[VARIOGUSTO]

Baccalà in umido con l'uvetta e le prugne secche Baccalà, Pomodori pelati, Cipolla bianca, Aglio rosso, Timo, Prezzemolo, Uvettasultanina, Prugne secche, Olio extra vergine di Oliva, Sale, Pepe nero.

Dissalare il Baccalà in Acqua corrente quanto basta, spellarlo, ridurlo in bocconcini della grandezza desiderata e metterlo da parte a sgocciolare. In un ampio tegame di terracotta soffriggere nell’Olio uno spicchio di Aglio e una Cipolla tagliata a fettine molto sottili e appena risulterà appassita, unire il Baccalà leggermente infarinato e farlo scottare da tutti e due i lati. Versare abbondanti Pomodori pelati con un pugnetto di foglioline di Timo e un mazzetto di Prezzemolo sminuzzato, aggiustare se necessario con una presa di Sale, pepare, chiudere il tegame con un coperchio e lasciare sobbollire leggermente a fuoco moderato. Unire l’Uvetta sultanina insieme alle Prugne secche e seguitare la cottura fino a quando il Baccalà sarà tenero e il condimento ben ristretto. Sporzionare nei piatti da portata, guarnire ogni porzione con un paio di Prugne e servire in tavola.

49


VARIOGUSTO

MONTI FOODS IMPORT

IL BACCALà detto e fatto Un alimento tornato a ricoprire un ruolo di primo piano sulle nostre tavole e sui menu dei maggiori ristoranti stellati. Il “pesce veloce” dei mari del Nord arriva sulla costa adriatica da oltre cent’anni grazie a un’azienda abruzzese ma solo oggi grazie alle sue tecnologie è veloce anche da preparare

di Claudio Carella

P

50

arlare di invasioni barbariche è di moda, e la forza dei Vichinghi proveniva anche dalla loro cultura alimentare. Le lunghe traversate per mare erano infatti possibili grazie all’energia fornita dalle braccia dei rematori, alimentate a suon di pesce essiccato o salato, ovvero stoccafisso e baccalà. Due alimenti oggi imprescindibili nei menù dei più importanti ristoranti stellati. Certo, più che alle proprietà organolettiche e al contenuto di proteine, che fecero la fortuna del baccalà tra le classi sociali meno abbienti nell’immediato dopoguerra, il successo odierno del “pesce veloce del Baltico” è dovuto al gusto e alla fantasia degli chef, che gli hanno restituito la dignità di prodotto pregiato. Tra i maggiori importatori –ma, come vedremo, non sarebbe sbagliato dire produttori– di baccalà in Italia è la Monti Food Import di Corropoli, che da quest’angolo d’Abruzzo rifornisce gran parte del centro-sud della Penisola. con un prodotto che ha seguito non solo il gusto ma soprattutto le esigenze dei consumatori, sempre più vincolati ai ritmi veloci della modernità. «Di solito –spiega Massimo Monti, impegnato nell’azienda di famiglia insieme ai fratelli Marco e Antonella e al cugino Paolo– il baccalà va bagnato, “ammollato”, per circa tre giorni prima di poter essere consumato. Tempi oggi proibitivi. Quindi abbiamo confezionato un prodotto prelavorato, pronto per l’uso in soli 40 minuti. Tutto ciò è reso possibile grazie all’alta tecnologia, che abbiamo implementato in azienda, consentendoci di offrire un prodotto di altissima qualità e di facile consumo». Nata nel 1903 a Sant’Omero su iniziativa di Alceste Monti, successivamente affiancato dal figlio Giovanni, l’azienda è cresciuta con i figli di quest’ultimo, Alceste, Anselmo e Riccardo. «Ricordo che mio zio Anselmo partiva in macchina per relazionarsi direttamente con i produttori norvegesi, che suddividevano il baccalà in “seconda scelta”, “prima scelta”, e “scelta Monti”». La nuova generazione, quella attualmente alla guida, ha ulteriormente alzato l’asticella della tecnologia fino a dotarsi, nel 2010, di una grande sala di lavorazione da 1700 metri

quadrati a temperatura controllata, «con una grande cella frigorifera (2°) che contiene 64 vasche in acciaio inox controllate da un computer che carica e scarica automaticamente l’acqua al loro interno, preraffreddata a 1°. Il processo porta ad ottenere un prodotto fresco, dissalato, che ha però una shelf-life di tre-cinque giorni al massimo, senza l’uso di conservanti. Per prolungare i tempi di scadenza abbiamo scelto di utilizzare l’HPP (High Pressure Processing), procedimento che consiste nell’immissione dei prodotti alimentari, già confezionati in speciali buste di plastica flessibili, in apposite camere cilindriche in acciaio, ermeticamente chiuse, nelle quali viene immessa acqua, e quando la camera si riempie si continua a spingere acqua, aumentando la pressione all’interno del cilindro fino a 6mila atmosfere (6mila kg/cm2), cioè la pressione che si percepirebbe in un mare profondo 60km. Grazie alla fisica la busta di baccalà resta integra, ma i batteri imprigionati al suo interno vengono feriti e dopo 24 ore muoiono, prolungando la scadenza del prodotto in maniera naturale. Ciò che prima durava 3 giorni ora ne dura 30». Due le specie di merluzzo da cui si ottiene il baccalà, il Gadus Morhua e il Gadus Macrocefalo, che vengono eviscerate, aperte e messe sotto sale. «Dopo un mese di stagionatura possono essere chiamate baccalà. Lo stoccafisso si ottiene invece solo dal Gadus Morhua, trattato esclusivamente nelle isole Far Øer, dove il microclima particolare consente l’essiccazione all’aria aperta senza aggiunta di sale». Nel futuro dell’azienda ci sono ulteriori innovazioni: «Stiamo per immettere sul mercato dei “ready to eat”, i cosiddetti piatti pronti, ricette semplici, specialmente estive, ideali per il rapido consumo. Siamo passati dai vecchi “tre giorni di ammollo” ai 40 minuti per il consumo del baccalà fresco con le nostre lavorazioni, ora daremo al consumatore la possibilità di degustare il baccalà in 20 secondi dall’apertura della vaschetta. È un mondo che va veloce…». E il “pesce veloce” è il suo alimento.


Massimo Monti 51


VARIOGUSTO

LA PASTA FORCELLA

TUTTO IL SAPORE DEL GRANO Dopo essersi affermati a livello nazionale con il loro olio Dop Aprutino Pescarese, i fratelli Iannetti si cimentano con la produzione di pasta artigianale realizzata esclusivamente con grano San Carlo, coltivato sulle dolci colline della zona di Passo Cordone

S

e pane e olio è il cibo dei re, la pasta condita con olio a crudo è cibo da regine. Purché l’olio sia rigorosamente extravergine di oliva di alta qualità. L’azienda agricola Forcella da questo punto di vista non ha rivali, come testimoniano i numerosi premi ottenuti nel corso degli anni, ma Gianni e Paolo Iannetti, caparbiamente alla ricerca della genuinità e del rispetto delle tradizioni territoriali, si sono cimentati nella produzione dell’altro alimento che vede l’Abruzzo leader nella qualità: la pasta. «Il gusto della pasta lo associo a quello dei chicchi di grano che da bambino mangiavo di nascosto durante la trebbiatura, a fine giugno. Ed è quel gusto che abbiamo cercato di riproporre ai consumatori», spiega Gianni Iannetti. «La nostra idea di partenza –racconta Paolo– era quella di realizzare una pasta della quale potessimo controllare l’intera filiera: grano, semola e prodotto finito. Il primo anno ha interessato una superficie di circa 8 ettari, a Loreto, a Passo Cordone, dove abbiamo raccolto circa 20 quintali di grano San Carlo, ricco di proteine. Messi a riposo per circa tre mesi, abbiamo portato tutto in un mulino a pietra della Cogecstre, a Penne, in un’ottica di “km zero”. Abbiamo concordato col pastificio e col proprietario del mulino le caratteristiche che avrebbe dovuto avere la semola per ottenere il prodotto desiderato, e appena pronta la semola l’abbiamo portata al pastificio. Un procedimento che mi ha ricordato le difficoltà che ogni produttore di olio conosce bene, legate alla scelta del frantoio. Anche in questo caso è infatti necessario un tempo minimo tra la realizzazione della semola e la produzione di pasta, simile al tempo che deve intercorrere tra la raccolta delle olive e la produzione dell’olio. Abbiamo scelto un antico pastificio di Pratola Peligna, Masciarelli, che ha trafile in bronzo circolari risalenti agli anni ’30, e con loro

52

ci siamo consultati a lungo sui formati: la nostra intenzione era quella di utilizzare solo il grano da noi prodotto, quindi abbiamo dovuto puntare sull’unico formato possibile, le linguine, capaci di “reggere” la lavorazione senza spezzarsi. Ma il prossimo anno pensiamo di realizzare anche una pasta corta». Testate grazie all’aiuto di chef e amici, le linguine Forcella cuociono in 7/8 minuti. Le linguine, si sa, sono la pasta ideale per i sughi di pesce, «specialmente in bianco. Ma anche col pesto o con semplice olio a crudo. Con una certa soddisfazione abbiamo riscontrato anche il gradimento del prodotto da parte di amici che, pur negativi ai test sulla celiachia, riscontravano una ipersensibilità al glutine, e hanno trovato la nostra pasta perfettamente digeribile». Ma perché lanciarsi nella produzione di pasta? «Perché –prosegue Gianni– contrariamente ad altre coltivazioni, quella del grano comporta un impegno minimo rispetto alla nostra attività principale che resta quella olivicola. E per ottenere un buon prodotto finito è importante che la materia prima sia ottima, cosa che riusciamo ad ottenere grazie al controllo totale della filiera. E poi la pasta si sposa bene con l’olio…». Dai primi 20 quintali di grano quest’anno l’azienda Forcella ha realizzato 12 quintali di pasta. «Ma senz’altro per l’anno prossimo incrementeremo la produzione. Credo inoltre che la sempre maggiore presenza sul mercato di paste artigianali come la nostra possa portare, come già accaduto proprio per l’olio, al riconoscimento del prodotto abruzzese nel segno della qualità: e da questo punto di vista stiamo pensando di dedicarci alla produzione di Zafferano, un altro fiore (è proprio il caso di dirlo) all’occhiello del nostro territorio». Una strada che potrà portare presto l’Abruzzo, ad eguagliare maestri del marketing gastronomico territoriale come CP Toscana e Umbria».


53


VARIOGUSTO

L’OLIO POLLINARIA

L’ARTE CONTADINA Tra mare e montagna, tra arte e agricoltura. Il progetto di Gaetano Carboni si sviluppa sul doppio binario del recupero e conservazione di tradizioni agricole e dell’innovazione imprenditoriale

di Giorgio D’Orazio

P

54

otresti incontrare i potatori in risalita dagli uliveti che degradano a valle oppure il collettivo di artisti Futurefarmers che ritornano dal querceto in cui stanno portando avanti il progetto “Consortium instabile” finanziato dall’Unione Europea. In entrambi i casi ti renderesti conto che il denominatore comune tra natura e arte in questi luoghi è un concetto altissimo di ruralità, che spazia dal semplice gesto agricolo alla ponderata creatività estetica, e trova una sintesi di storia e contemporaneità anzitutto nella produzione olivicola. L’amore per l’olio e per quei “frutti incantatori” dai quali deriva questo prezioso alimento è infatti alle origini di Pollinaria, azienda agricola biologica e residenza per artisti attiva nella campagne pedemontane abruzzesi, ai confini col

grazie all’allestimento museale gestito dalla Fondazione dei Musei Civici di Loreto Aprutino. È stata anzi rilanciata da Gaetano Carboni, classe 1976, nipote per linea materna di quel talentuoso trisavolo, Raffaele Baldini Palladini, a cui oggi è dedicato uno dei prodotti di punta di Pollinaria, un extravergine biologico da monocultivar Dritta, ottenuto dagli stessi ulivi di allora. A Pollinaria, insomma, l’olio è una questione di famiglia ed anche questo spinge Gaetano a tutelare al meglio la qualità e la territorialità dell’olio di Pollinaria, prodotto da circa 5000 piante di varietà Dritta, Carpinetana e Leccino. Il ciclo di produzione è infatti certificato da ICEA, l’Istituto per la Certificazione Etica e Ambientale, e rispetta il disciplinare della Denominazione di Origine Protetta Aprutino Pescarese:

Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, tra i Comuni di Civitella Casanova, Loreto Aprutino e Penne, un panorama invidiabile tra la montagna e il mare, tanta aria buona, silenzio e attente pratiche agronomiche. Il progetto, nato nel 2007, affonda le sue radici nel contesto di un antico complesso rurale e nella storia di un’azienda agricola condotta di generazione in generazione a partire da metà Ottocento, quando Raffale Baldini Palladini, imprenditore agricolo e grande precursore della nuova olivicoltura, fondò un lungimirante oleificio all’interno della sua casa-laboratorio nel cuore di Loreto Aprutino, un “castelletto” progettato dall’amico artista Francesco Paolo Michetti e arricchito con inserti decorativi archeologici, recuperati nel corso del tempo nel contado. In quegli anni premiate bottiglie di extravergine partivano da questo luogo nel cuore del borgo lauretano verso destinazioni vicine e lontane, da Palermo a New York, da Parigi fino alla Corte dell’ultimo Zar di Russia. Oggi lo stesso frantoio ospita il Museo dell’Olio, testimonianza viva delle onorificenze ricevute dall’olio che lì si produceva con tecniche d’avanguardia tra l’ultimo quarto dell’Ottocento e i primi del Novecento. Questa bella storia oggi non è stata dimenticata, e non solo

le olive vengono raccolte nei mesi di ottobre e novembre con l’ausilio di abbacchiatori pneumatici e molite a ciclo continuo entro 12 ore dalla raccolta. Ma a Pollinaria sono state recuperate anche altre colture praticate dalle generazioni che hanno preceduto Gaetano, come quella del vino Montepulciano d’Abruzzo e Pecorino, delle diverse varietà di cereali antichi dai quali si ottiene una selezione di numerosi derivati, dei legumi autoctoni e della frutta appartenente alla locale biodiversità agraria. L’anima agricola del progetto Pollinaria si fonda così sulle proprie origini lontane nel tempo per sviluppare un’idea di coltivazione biologica basata sulla ricerca e sperimentazione nel campo delle specie autoctone, in molti casi destinate diversamente all’oblio. Se nella sede principale dell’azienda, una fattoria in località Torre delle Valli nel Comune di Civitella Casanova che ha visto avvicendarsi oltre due secoli di storie ed esperienze legate al mondo agricolo e pastorale, si può trovare oggi ospitalità in un bioagriturismo anche per pernottare, è nel Biospaccio in Contrada Remartello a Loreto Aprutino, appena inaugurato, che è possibile conoscere e acquistare l’olio e gli altri prodotti di Pollinaria (www.pollinaria.org).


Gli olivi intorno a Pollinaria. Nella pagina a fianco: l’interno dello storico edificio sede dell’azienda e l’opera This is not a Trojan Horse dei Futurfarmers 55


VARIOGUSTO

GENTILE VINI

UN GIOVANE VECCHIO Il legame profondo che unisce Ofena alla viticoltura è alla base della produzione di un’azienda giovane e dalle grandi potenzialità che unisce all’alta tecnologia il rispetto della tradizione

di Giorgio D’Orazio

Q

ui il vino è una questione di terra, di sangue, di storia. Dal tempo del signoraggio dei Medici ai giorni nostri, da Cataldi Madonna a Mario Soldati, il link tra Ofena e il Montepulciano d’Abruzzo è più che altro un cordone ombelicale impossibile da recidere che racconta passioni, impegno e qualità. Una storia condivisa dalla comunità locale che diventa non comune quando a farla e a narrarla dal vivo è un protagonista giovane come Riccardo Gentile, vignaiolo, titolare di un’azienda che è un gioiellino capace di spillare vini destinati a fare strada. Nel 1994 seguendo proprio quel destino di famiglia, che da tre generazioni si è sempre dedicata alla coltivazione delle vigne, Riccardo ha deciso di entrare definitivamente nel mondo del vino costruendo una cantina moderna nella parte bassa del paese di Ofena che domina la pianura dove sono adagiati i 10 ettari vitati di proprietà, coltivati a spalliera con grande dedizione. Un’azienda immersa nel verde di una vallata –l’Alto Tirino– ai piedi del Gran Sasso, un paesaggio unico quello di Ofena, l’antica Aufinium, da sempre considerata tra le zone più vocate per la viticoltura di tutto l’Abruzzo –nel 1930 è documentato che fosse la zona più vitata della regione– sia per le sue caratteristiche climatiche –clima asciutto con forte escursione termica, sotto al ghiacciaio del Calderone ma chiamata Forno d’Abruzzo– sia per l’impareggiabile struttura dei terreni. Insomma un luogo dalle peculiarità pedoclimatiche

56

uniche ed irripetibili per la produzione di grandi vini, sia da bacca rossa che da bacca bianca, con le punte d’eccellenza nelle espressioni di Montepulciano e Pecorino: proprio qui infatti venne etichettata –prima in regione a metà anni ‘90– una bottiglia di Pecorino da Luigi Cataldi Madonna, un vino il Pecorino che ormai è considerato un traino importante del mercato enologico di matrice abruzzese. Il progetto agronomico di Riccardo Gentile, concentrato su una ricerca di qualità prima in vigna e poi in cantina, si basa infatti esclusivamente sulla produzione di uve autoctone Montepulciano, Pecorino e Trebbiano, con densità degli impianti non elevatissima vista l’età piuttosto sostenuta delle vigne. «Questi vigneti» spiega Riccardo mentre ci accompagna tra gli appezzamenti incastonati in un contesto paesaggisticamente inimitabile «inseriti in una zona di particolare vocazione ambientale come la nostra, ci consentono di raggiungere ottimi livelli di maturazione delle uve. In cantina poi» continua a raccontare Riccardo facendo un cenno a Brighigna, anche lui Riccardo al battesimo, un riferimento per l’enologia abruzzese, che lo segue da tempo ormai «con un’elevata tecnologia di lavorazione riusciamo ad esaltare al massimo le caratteristiche di questi vini, che oggi commercializziamo sia in Italia che all’estero con un ottimo riscontro e davvero tanta soddisfazione». E la soddisfazione sincera di un piccolo produttore, trasmessa mentre i piedi si assestano nel terreno pesante d’inverno e la stagione lascia i filari spogli, fa sì che ci si incuriosisca


Nella foto grande: il Montepulciano “Vecchie vigne”. Qui sopra Riccardo Gentile

ancora di più della personalità dei vini che da queste vigne nascono. Specialmente dalla “vigna madre” dell’azienda Gentile, messa a dimora nel 1973, la cui età supera i 40 anni e rende le uve per la selezione da cui si ottiene “Vecchie vigne”: la riserva di Montepulciano d’Abruzzo prodotta in poche migliaia di bottiglie di cui Riccardo Gentile va molto fiero, «nata per celebrare il gusto della nostra terra e il lavoro della nostra famiglia» come racconta, che in particolare ha ottenuto, dalla vendemmia 2010, un’annata di grande carattere. La linea classica invece, chiamata “Pié

della Grotta”, declinata nelle etichette Doc Montepulciano e Trebbiano d’Abruzzo, nonché in quelle Igt “terre aquilane” di Cerasuolo e Pecorino, «dotate di struttura, eleganza e personalità» spiega Riccardo, prende il nome dalla località specifica in cui insistono i terreni. Un’altra scelta, assieme alla nuova ed essenziale grafica aziendale che dichiara con eleganza, sincerità e gusto il territorio e la cantina, per rendere un omaggio alla terra grazie alla quale nascono questi e non altri vini. Con modernità e tradizione. 57


VARIOGUSTO

CITRA

UN NOME, UNA STORIA Nove cantine unite per dare vita allla più grande realtà enologica regionale. I vini Citra si bevono ovunque nel mondo, dal Giappone all’Australia, dall’Europa agli Stati Uniti

I

l nome Citra è, di per sé, un manifesto: salda una realtà modernissima alla tradizione, alla storia, che in questa parte d’Abruzzo (la parte citra flumen Piscariae, appunto, per distinguerla da quella ultra) è soprattutto una storia di vino. L’antica sapienza vitivinicola di cui sono custodi le nove cooperative che costituiscono Citra si perde nella notte dei tempi. Citra Vini, fondata nel 1973, riunisce nove cantine di provata esperienza, tutte situate in un territorio dalle straordinarie potenzialità, storica culla del Montepulciano d’Abruzzo e Trebbiano d’Abruzzo. «Fin dalla sua fondazione, Citra ha la mission di raggruppare le più importanti realtà vitivinicole della provincia di Chieti per selezionarne, controllarne e valorizzarne la migliore produzione enologica da un unico punto di vista: la qualità» spiega il presidente Valentino Di Campli, riconfermato lo scorso anno alla guida dell’azienda che ha festeggiato i 40 anni di vita. «Tremila soci viticoltori, seimila ettari di terra: un terzo dei vigneti abruzzesi, in un’area che copre quasi tutta la provincia di Chieti, seconda provincia italiana per superficie vitata dopo Trapani. Le nostre viti crescono a varie altitudini e con una diversità di microclimi e di terroir che conferiscono originalità a tutti i nostri vini». Citra è dunque la massima espressione del connubio tra tradizione e modernità. Un concetto ben riassunto con “Vini, Volti, Valori”, il nuovo claim dell’azienda ortonese scelto nel 2013 in occasione del quarantennale. In tre parole si condensano i valori di riferimento aziendali: la produzione di vini di qualità, la realtà di una società cooperativa formata da 3.000 soci e il forte radicamento al territorio. Le innovazioni però non si fermano qui, perché nel corso delle celebrazioni dei suoi quarant’anni Citra ha lanciato anche il suo nuovo corporate naming, “Codice Citra”. La parola “Codice” arricchisce di significati, sottolinea e rafforza il legame intrinseco appartenente a tutti coloro che fanno parte della comunità di soci vignaioli, che di generazione in generazione si tramandano la coltura della vite. Successivamente, sono stati presentati i restyling di alcune etichette: dalla nuova linea “I Solchi”, gamma di vini presente in GDO a livello internazio-

58

nale, alle linee Sistina, Palio e del Caroso Montepulciano Doc, tra i vini al top della gamma Citra e destinati al canale Horeca. Classicità e territorialità si fondono nelle nuove etichette, facendo emergere tutta la raffinatezza dell’Italian Style dell’azienda e le radici con l’Abruzzo attraverso i più celebri simboli della regione. Infine, lo scorso luglio è stato inaugurato il nuovo showroom e la sala degustazione nella sede di Ortona. L’idea progettuale si è basata su un nuovo concetto di accoglienza in cui il vino, in qualità di protagonista indiscusso, racconta la storia e la tradizione del territorio in cui viene prodotto. Per realizzare lo showroom e il nuovo ingresso alla bottaia sono stati usati materiali tipici abruzzesi come la famose pietre “lisce” provenienti dalla cava di Giuliano Teatino, il rovere tipico delle botti e l’acciaio corten, che per la sua forma e colore ricorda i fili di ferro usurati dal tempo che sono utilizzati nelle caratteristiche pergole abruzzesi. Ad arricchire l’ambiente sono la “biblioteca del vino”, una bellissima parete dove sono alloggiati tutti i vini dell’azienda e la balconata in vetro affacciata direttamente sulla bottaia, la più grande del Centro-Sud Italia, vero cuore pulsante dell’azienda. Citra offre una vasta gamma di vini DOP e IGP. I vitigni sono soprattutto autoctoni come Montepulciano, Trebbiano, Pecorino, Passerina e Cococciola e Montonico, ma anche alloctoni come Chardonnay, Pinot, Merlot, Cabernet Sauvignon e Sangiovese. Dalla produzione globale di un milione di ettolitri conferiti dalle cantine associate, gli enologi ne selezionano solo una parte per l’imbottigliamento garantendo il monitoraggio costante della qualità a tutti i livelli della filiera produttiva. Infatti, oggi più che mai, Citra costituisce un esempio virtuoso di controllo e rappresentatività di tutta la filiera, dalla vigna alla tavola del consumatore finale. I tecnici seguono fin dalle prime fasi la maturazione delle uve destinate alla vinificazione, gli enologi lavorano fianco a fianco con le cantine associate, tutte le fasi produttive sono gestite internamente per un controllo totale sull’intero ciclo produttivo. Sulle due moderne linee di imbottigliamento tutti i passaggi avvengono in automatico: l’imbottigliamento è di tipo sterile a freddo, il potenziale produttivo

AGIRE • Polo di Innovazione Agroalimentare d'Abruzzo


è di 20.000 bottiglie ogni ora. Per massimizzare la sicurezza alimentare, tutti i componenti che entrano a contatto con il vino sono controllati attentamente. Infatti su entrambe le linee sono presenti degli “ispettori ottici” in grado di verificare in tempo reale l’integrità del vetro della bottiglia, il livello del vino e del tappo. Inoltre, i tappi vengono testati con severe procedure analitiche al fine di evitare alterazioni del vino. L’azienda ha ottenuto le certificazioni di prodotto ISO22000, BRC e IFS che garantiscono al consumatore la sicurezza e salubrità del prodotto finale e sono fondamentali nell’ottica dei rapporti con i partner di commercializzazione europea e internazionale. Inoltre, il sistema di gestione aziendale è certificato ISO9001:2008 e da quest’anno è stata ottenuta anche la certificazione SA8000, che garantisce la responsabilità sociale d’impresa ed etica. Del resto sono circa una cinquantina i Paesi raggiunti da un’organizzazione distributiva agile e tempestiva. Si brinda con vini Citra in alcuni dei più importanti ristoranti del mondo, dagli Stati Uniti al Canada, dal Giappone alla Cina, dalla Russia all’Australia e in tutta Europa, oltre che sui voli di linea di numerose compagnie aeree. «La qualità dei vini Citra è testimoniata dai prestigiosi premi internazionali ottenuti anche nel 2014, tra cui le due medaglie d’oro ai Montepulciano d’Abruzzo Laus Vitae 2006 e Palio 2012 ricevute al China Wine & Spirits Awards 2014 e la medaglia d’oro per il Montepulciano d’Abruzzo Caroso 2009 conquistata alla Selection Mondiales Canada 2014. Riconoscimenti che rendono onore al lavoro quotidiano, ai sacrifici di 3.000 viticoltori che spinti da passione ed orgoglio curano così amorevolmente i loro vigneti da garantirci in vendemmia le migliori uve». Aderire al Polo Agire, secondo Di Campli, «offre la possibilità di instaurare una rete di collaborazioni e sinergie sia con le aziende appartenenti e sia con altri Poli internazionali; inoltre, il Polo garantisce un valido contributo in termini di consulenza nell’ambito dei progetti di innovazione offrendo prodotti e servizi altamente professionali nonché l’opportunità di aderire a futuri progetti di ricerca beneficiando delle politiche di marketing territoriale, FG comunicazione e logistica».

In questa pagina, dall’alto: la bottaia, il Montepulciano Caroso e il presidente di Citra Valentino Di Campli

59


VARIOGUSTO

ALI D’ORO

CONI PER TUTTI I GUSTI Da 3 generazioni la migliore tradizione pasticcera si unisce ad una costante capacità di innovazione: l’azienda teramana si fa portavoce dei valori della propria tradizione e dei sapori genuini e naturali con prodotti che si gustano fino in fondo

A

rriva l’estate, e sale con la temperatura anche la voglia di gelato. Magari un bel gelato artigianale, con quei gusti ricchi e fantasiosi che solo la maestria dei gelatieri abruzzesi sa preparare; ma per gustare fino in fondo un buon gelato c’è bisogno di un cono che sia altrettanto eccellente. Questo dev’essere stato il pensiero di Giovanni Di Giosia, titolare del bar Aquila d’oro, sul corso principale di Teramo, quando qualche tempo dopo l’apertura (correva l’anno 1946) decise di “allargare” l’attività aprendo, accanto alla struttura già esistente, un laboratorio per realizzare prodotti di pasticceria fresca con la collaborazione di un maestro pasticcere. In quel periodo iniziò quindi la produzione dei coni per il gelato grazie all’acquisto di un piccolo forno. Il successo dell’iniziativa si concretizzò con l’ingresso in azienda del figlio di Giovanni, Carlo, che nel 1948 trasferì l’attività in locali più ampi e nel 1956 si spostò di nuovo, inaugurando la storica sede di via dei Mille e realizzando la prima vera fabbrica suddivisa in due aree: una per la pasticceria e i wafer, e l’altra per i coni. All’inizio del decennio successivo Carlo fondò, nel primo nucleo industriale di Teramo (Gammarana), il biscottificio Aquila d’Oro Spa Alimenti Dolci, lasciando al padre la produzione dei coni e dei wafer con un mercato di riferimento a carattere regionale. Compaiono i coni a forma di coppa, i coni tronchi e quelli lunghi, oltre ai cornetti quadrettati (utilizzati per la produzione artigianale dei Capricci), alle cialde e ai ventagli stampati per decorare le coppe gelato. Bisogna attendere il 1972 perché l’azienda cominci ad assumere un carattere semi-industriale, con l’acquisto di macchine automatiche per produrre i coni, aumentando la capacità produttiva per poter affrontare nuovi mercati ed opportunità. Nel giro di un paio d’anni gli storici locali di Via dei Mille si rivelarono troppo piccoli per l’attività e la sede fu trasferita nel 1975 in quella attuale, nella zona industriale di San Nicolò a Tordino, con

60

AGIRE •

il nome Ali d’Oro. La voglia di innovare, di migliorare sempre prodotti e tecnologie, rispettando la qualità della lavorazione artigianale, porta l’azienda all’anno della svolta: il 1986, durante il quale, con l’ingresso della terza generazione (i figli di Carlo, Giovanni e Antonella) fa la sua comparsa il Flou, il cono a forma di fiore servito su una foglia (un fazzoletto di carta bianco e verde) la cui particolarità era – ed è tutt’oggi – una ghiera interna, particolarmente ricca, tale da sostenere meglio il gelato. «Il Flou –spiega Vanni Di Giosia, attuale titolare dell’azienda– è da considerarsi sicuramente il primo cono da gelato frutto di uno studio combinato tra ricerca estetica (design) e volontà di differenziare l’offerta; identifica una svolta fondamentale per l’Ali d’Oro ed anche per l’intero segmento commerciale del consumo del gelato artigianale. Il cono da gelato acquista personalità: diventa elemento che caratterizza il consumo, distingue una gelateria dall’altra, giustifica un diverso livello di prezzo». E grazie al Flou per Ali d’Oro si aprono le porte dei mercati esteri: è la Carpigiani a volere l’innovativo cono made in Abruzzo per le proprie gelaterie in Giappone, mentre sul fronte interno si sviluppano rapporti commerciali con l’Ostificio Prealpino di Bergamo, con la Cono Farnese di Piacenza, la Coni Galasso di Napoli. L’ampliamento del mercato va di pari passo con l’innovazione di prodotto: nascono altre due tipologie di cono Flou, oltre al Conetto (un cono stampato quadrettato classico senza ghiera interna) e il Palì, un piccolo cono con il bordo a becco di clarino. Negli anni ‘90 Ali d’Oro dà vita a nuovi prodotti che suscitano l’interesse di altri grandi marchi italiani: inizia la collaborazione con la Colussi, nascono i coni Cleò Uno e Cleò Due, le Sigarette, il cono Lui, il minicono Petì, le Crépes per la decorazione dei gelati; l’azienda comincia anche ad entrare

Polo di Innovazione Agroalimentare d'Abruzzo


nella Gdo con la confezione in astuccio dei Conetti e con i Flauti (un astuccio contenente Sigarette colorate), seguiti dall’astuccio contenente i Ventagli (Millefoglie). Alla fine del secolo comincia anche la collaborazione con la Nannini di Siena. Nel nuovo millennio la gamma di prodotti si diversifica ulteriormente: tra il 2000 e il 2009 l’azienda teramana lancia sul mercato i Sigarelli (Sigarette in cialda ripiene di morbida crema alla nocciola e al latte), il Calice, un nuovo cono progettato per esaltare il gusto del gelato, le Millefoglie personalizzate (che danno la possibilità alla gelateria di inserire il proprio nome e logo sulla cialda), il Biki (un bicchiere in cialda in grado di accompagnare il gelato, ma anche la macedonia di frutta), e il primo cono componibile: il BisCono, un cono piccolo che “abbracciando” un suo simile diventa medio grande. Anche le collaborazioni si ampliano, coinvolgendo la Montebovi di Roma e la Sapori di Siena. Ma sono i prodotti che rendono Ali d’Oro un interlocutore unico, capace di soddisfare con un’ampia gamma di coni da gelato, decorazioni in cialda e prodotti originali come i miniconi, le più diverse esigenze: quelle della gelateria, dalla più classica alla più innovativa, e quelle della distribuzione più moderna. Dal 2012 l’azienda investe fortemente nel sociale e nella cultura realizzando tre antologie con racconti e storie sul cono e sul gelato donati dalla penna di giornalisti e scrittori locali e non. Il progetto cresce di anno in anno e, tutto il ricavato della vendita della pubblicazione, viene devoluto alla Fondazione Anffas Onlus di Teramo. La ricerca, l’innovazione e la valorizzazione delle risorse umane sono il motore dell’impegno quotidiano di Ali d’Oro, finalizzato ad offrire al mercato servizi e prodotti di eccellenza, per contribuire al successo del buon gelato artigianale FG rendendolo pregevole da cima a fondo.

Sopra i coni e le cialde prodotte da Ali d’oro; nelle foto: lo storico furgoncino del bar Aquila d’oro e lo staff dell’azienda al completo

61


VARIOGUSTO

GLOCAL FOODS

IL TESORO NASCOSTO Una giovane e dinamica società aquilana ha sposato un’idea imprenditoriale con la ricerca e l’innovazione. Il risultato è sulla tavola di tutti i buongustai

A

bruzzo, terra di tartufi. L’avreste mai detto? Eppure è così: i dati indicano che dall’Abruzzo arriva una quota rilevante del tartufo destinato ad un mercato che oggi vale svariate centinaia di milioni di euro. «Il Tuber melanosporum, comunemente chiamato Tartufo Nero Pregiato, è certamente il più ricercato insieme al Tartufo Bianco (Tuber Magnatum). Pochi sanno che la nostra regione è in assoluto, da un punto di vista morfologico, tra le più fiorenti zone per la raccolta e coltivazione di questi tesori straordinari». È Simone Fioravanti a spiegare le motivazioni che hanno portato, nel 2013, alla nascita di Glocal Foods, startup aquilana dell’agroalimentare, pensata per portare avanti lo sviluppo di una filiera produttivo-commerciale innovativa ed efficace legata al mondo del tartufo fresco e trasformato (Tuber Aestivum, Tuber Melanosporum Vittad, Tuber magnatum Pico) e alle principali eccellenze del territorio abruzzese. «La Glocal Foods srl –spiega Fioravanti– nasce dall’esigenza di valorizzare i prodotti alimentari di qualità, abruzzesi ed aquilani, e si propone, attraverso il loro riconoscimento, di promuovere le produzioni locali, con particolare riferimento al tartufo fresco, sul territorio italiano, europeo ed extra europeo. Il tartufo prodotto in Abruzzo viene raccolto, pulito, trattato, confezionato e trasportato direttamente al punto vendita. Filiera corta, materie prime di alta qualità e processi di trasformazione sostenibili sono le nostre caratteristiche». La valorizzazione del territorio, lo sviluppo del settore agroalimentare, la crescita delle imprese legate al mondo del tartufo, e in generale delle eccellenze regionali, insieme alla crescita di potenziali sviluppi commerciali sono gli elementi essenziali che compongono la mission di questa start-up.

62

AGIRE •

«Abbiamo creato un nuovo brand regionale –In Abruzzo– legato alla ricchezza qualitativa e quantitiva del tartufo, alle eccellenze e tradizioni gastronomiche di un territorio rimasto incontaminato nel tempo, ma soprattutto legato alle innovazioni tecnologiche di prodotto, di processo e di filiera che abbiamo sviluppato insieme ai nostri partner e stiamo portando avanti». La più importante di queste innovazioni è sicuramente quella che è scaturita dalla collaborazione tra la neonata startup e l’Università dell’Aquila: «È stato brevettato un film edibile, ideato nei laboratori della ex Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali dal professor Giovanni Pacioni, dal dottor Enrico Stagnini e dalla professoressa Anna Maria Ragnelli. È una pellicola commestibile in grado di aumentare i tempi di conservazione del prodotto (20 giorni dal trattamento), mantenendone la freschezza, le proprietà organolettiche e limitandone il calo peso. Una grande innovazione pensata per gli estimatori di questa prelibatezza e per tutti quei consumatori che vogliono essere certi del prodotto, della sua provenienza, della sua conservabilità e del mantenimento del suo valore al momento della scelta. Grazie all’innovazione scientifica del film edibile, tutti i clienti potranno in esclusiva ordinare, gustare, regalare o conservare direttamente a casa questo tesoro prodotto, raccolto, trasformato e confezionato in territorio abruzzese». Che Glocal Foods, peraltro, propone con un packaging innovativo chiamato Truffle box: una confezione di prestigio che ne valorizza il contenuto, facendone un perfetto oggetto da regalare. Glocal Foods ha ideato e promosso il brand In Abruzzo coinvolgendo anche altri importanti partner, ciascuno con un suo

Polo di Innovazione Agroalimentare d'Abruzzo


ruolo specifico all’interno della filiera: l’Associazione tartufai aquilani, il Polo Agire (essenziale nell’azione di connessione tra il tessuto imprenditoriale e quello degli enti di ricerca), la Regione Abruzzo e la Camera di commercio dell’Aquila e l’agenzia “Future brand” che cura lo sviluppo del marchio. La linea di prodotti “In Abruzzo” è stata pensata e creata «per commercializzare in Italia e nel mondo il Tartufo abruzzese unito a tutte le eccellenze gastronomiche della nostra terra. Il denominatore comune è il tartufo, ma si declina all’interno di diverse categorie merceologiche: salse, olii, spezie, miele e spalmabili, sughi, zafferano. Anche il claim pensato per accompagnare il brand (“In Abruzzo… l’eccellenza ci viene naturale”) ben sintetizza i valori che ci caratterizzano: prodotti preparati seguendo le ricette tradizionali con processi innovativi e partendo dagli ingredienti di un territorio FG naturalmente incontaminato».

Nella pagina a fianco una panoramica dei prodotti commercializzati da Glocal Foods. Qui sopra l’originale Truffle box col marchio InAbruzzo

63


[BREVIGUSTO ] CIN CIN CITRA

TUTTI ALL’ESTERO CON SACE

ETICHETTE SENZA FRONTIERE

I

B

F

n arrivo le bollicine made in Abruzzo. Nonostante la crisi, la più grande realtà vitivinicola abruzzese Codice Citra, insieme all’università di Teramo e al Centro di ricerca Viticola Enologica d’Abruzzo (Crivea), ha deciso di dare vita a un progetto di ricerca e sviluppo per valorizzare la neonata Dop Abruzzo che porterà alla produzione di vini spumanti ottenuti dai vitigni autoctoni e coltivati dai tremila soci vignaioli del Codice Citra: Montepulciano, Passerina, Pecorino, Coccocciola e Montonico. Prodotti con uve della vendemmia del 2014 dei 13 vigneti di circa seimila ettari dei soci Citra (che tra tutte le 9 cantine cooperative rappresentano un terzo circa della produzione regionale), i primi spumanti Abruzzo dop saranno

ond da 12,5 milioni di euro per la De Cecco a sostegno del piano di sviluppo all’estero. L’operazione è stata portata a termine con il Fondo sviluppo Export (Fse), il nuovo fondo di credito nato su iniziativa di Sace, gruppo assicurativo-finanziario al 100% di Cassa depositi e prestiti. La Fse in sostanza

ha approvato la sottoscrizione della corposa obbligazione che sarà emessa dal pastificio di Filippo Antonio De Cecco. La De Cecco, attiva già in 120 mercati, fatturato oltre i 400 milioni di euro, terzo produttore mondiale di pasta di semola, mira ora a consolidare la sua presenza nei mercati esteri come Usa, Giappone, Germania, Inghilterra, Francia e Sud est asiatico. Sace e Banca popolare dell’Emilia Romagna hanno deliberato, lo scorso dicembre, anche un finanziamento di circa 1,5 milioni di euro a favore dell’azienda agricola lanciati quest’anno sul mercato mondiale. Una scommessa sulle bollicine che servirà a difendere la tipicità delle uve autoctone. Gli spumanti Abruzzo dop saranno elaborati con entrambe le modalità di spumantizzazione: il metodo Charmat (detto anche Cuvée Close o Martinotti), che prevede la rifermentazione in autoclave, e il metodo classico, che contempla invece la rifermentazione in bottiglia. Nell’ambito del progetto, i due filoni sono strettamente complementari. Col metodo Charmat si produrranno vini dal consumo “easy to drink” con requisiti di qualità che sono indispensabili per competere sui mercati internazionali, mentre dal metodo classico si otterranno bottiglie di alto livello qualitativo.

64

ornire assistenza e consulenza alle imprese che hanno necessità di adeguarsi alla nuova normativa europea e offrire di riflesso un servizio di informazione ai consumatori. È questa la finalità del nuovo sportello per l’etichettatura dei prodotti agroalimentari, un progetto che il Polo Agire ha realizzato insieme al Confimi Impresa Abruzzo, confederazione che in regione rappresenta circa 250 imprese e circa 5.000 addetti, e all’IZS (Istituto Zooprofilattico Sperimentale) Abruzzo e Molise “G. Caporale”. Un’iniziativa tesa ad aiutare le aziende con il nuovo regolamento europeo che, a partire da dicembre 2014, unifica e armonizza le norme relative a etichettatura, presentazione e pubblicità dei prodotti alimentari per tutti i paesi dell’Unione Europea e prevede maggiori tutele per i consumatori. Sull’etichetta, infatti, dovranno comparire informazioni nutrizionali finora facoltative: valore energetico, grassi, acidi grassi saturi, carboidrati, zuccheri, proteine e sale. Una rivoluzione a tutela dei consumatori ma anche un impegno alla trasparenza per i produttori. Il progetto, grazie all’intervento del Polo Agire che copre la metà delle spese, ha il pregio di offrire il complesso servizio di etichettatura reperibile oggi sul mercato a costi dimezzati per tutte le aziende associate al Polo. «Lo sportello –ha dichiarato William Di Carlo, presidente di Agire– offre una consulenza che va dalla sicurezza alimentare all’etichettatura del prodotto e degli imballaggi, riducendo le spese di un servizio che il mercato obbliga ad acquistare a un prezzo superiore». «Abbiamo ideato questo servizio –ha sottolineato Mauro Di Cola del Confimi Impresa Abruzzo– per dare una risposta concreta alle esigenze quotidiane delle imprese. Il progetto dimostra quanto sia importante la sinergia tra Pmi e il mondo della ricerca e quanto sia fondamentale, per catalizzare e concretizzare lo sviluppo e l’innovazione in Abruzzo, una realtà come il Polo Agire».

BIODINAMICO NEL PARCO

O

Zaccagnini, specializzata nella produzione di uva e vini di qualità. Il finanziamento andrà a sostenere i piani di crescita dell’azienda rivolti soprattutto ai nuovi mercati del Sud est asiatico come Cina, Giappone, Corea, Taiwan e Vietnam ed è finalizzato a sostenere i costi per l’acquisto e il rinnovo di impianti e macchinari, partecipazione a fiere ed eventi di settore e organizzazione di iniziative promozionali riservate al rafforzamento dei brand nei mercati esteri per l’azienda abruzzese, una delle principali realtà produttive della regione.

rmai diffusa in tutta Italia, l’agricoltura biodinamica si sta rapidamente affermando anche in Abruzzo per le sue caratteristiche: promuove e mantiene la fertilità dei terreni e dell’ecosistema circostante,arriva a costare da metà a un terzo delle altre metodiche, arriva a consumare fino al 60% in meno delle energie fossili rispetto alle altre metodiche. Per questi motivi Il Bosso, cooperativa che svolge formazione nell’ottica di sviluppare la cultura della sostenibilità ambientale anche in ambito agricolo, ha ideato l’organizzazione di un corso con il patrocinio del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, con l’intenzione di dare le basi dell’agricoltura biodinamica a coltivatori professionisti, orticoltori, consulenti

agrari, interessati che vogliono avviare un’attività in proprio. Inoltre il corso è propedeutico alla frequenza dei corsi di livello superiore (Maestro d’orto e Ortoterapia), e ai corsi specialistici di frutticoltura, viticoltura, orticoltura. Requisiti richiesti: amore per madre terra e buon umore. Per informazioni: www.ilbossoformazione.com

Nelle foto, da sinistra: la presentazione degli spumanti Abruzzo Dop; in alto la pasta De Cecco e, sotto, le vigne di Zaccagnini; sopra, i vertici di Agire, Izsam e i rappresentanti di Confimi Abruzzo alla presentazione dello Sportello per l’etichettatura.


[ VARIO COLLEZIONE ]

FRANCESCO PAOLO MICHETTI Fotografo

F.P. Michetti > 05.03.2015.indd 1

14/03/15 08:30


F.P. Michetti > 05.03.2015.indd 2

14/03/15 08:30


F.P. Michetti > 05.03.2015.indd 3

14/03/15 08:30


Francesco Paolo Michetti, IL PITTORE CHE HA battezzato LA FOTOGRAFIA Volti, sagome, paesaggi: quello che il grande artista fissava su lastra prima che sulla tela di Daniela Garofalo

R

isale al 1966 il ritrovamento dell’archivio fotografico1 di Francesco Paolo Michetti, celebre pittore abruzzese; tale raccolta era conservata all’interno del suo studio presso il Convento di Santa Maria Maggiore, a Francavilla al Mare. Con un rinnovato interesse verso la figura e le opere dell’artista, in ambito critico dalla metà degli anni Settanta, si approfondiscono le indagini sulle modalità operative di Michetti, ponendo particolare attenzione alle interconnessioni tra il linguaggio pittorico ed il linguaggio fotografico. Tuttavia anche nelle fonti d’epoca, già dall’inizio del 1900, si rintracciano indicazioni seppur blande sull’abitudine michettiana di documentare, attraverso immagini fotografiche, le feste ed i rituali religiosi delle tradizioni popolari abruzzesi. Eppure solo in era contemporanea è stato possibile ufficializzare Michetti come pittore fotografo. Negare il ricorso alla pratica fotografica è un atteggiamento condiviso da parte degli artisti dell’Ottocento, probabilmente dettato dalla necessità di tutelare il proprio talento artistico. Che cosa ha comportato la scoperta della fotografia nel mondo delle arti figurative? L’annuncio della sua invenzione (Parigi, 1839) segna il punto di arrivo di una lunga e secolare ricerca. Quando compare il dagherrotipo, antesignano dell’immagine fotografica, gli viene attribuito l’appellativo di macchina meravigliosa. Un mezzo meccanico in grado di riprodurre fedelmente la realtà non poteva che suscitare, in ambito culturale, reazioni contraddittorie. Sebbene sin da subito gli artisti ne intuiscano l’importanza, nel corso del XIX secolo ha luogo un acceso dibattito finalizzato ad affermare la supremazia del linguaggio pittorico. Va detto tuttavia che anche i pittori più avversi a tale strumento utilizzano immagini fotografiche di supporto al proprio lavoro. Nomi illustri come Eugène Delacroix, Camille Corot, Gustave Courbet, Édouard Manet ed in particolare gli impressionisti ne sono affascinati e, pur attribuendo al nuovo medium un ruolo secondario, ne fanno un uso più o meno esplicito. Era infatti un’abitudine diffusa conservare all’interno del proprio atelier delle stampe inerenti paesaggi,

architetture, opere d’arte, nudi. Dunque, che siano contrari o favorevoli, nessun artista rinuncia all’apporto della fotografia. Alcuni si occupavano personalmente della pratica fotografica, altri acquistavano le immagini da fotografi professionisti; spesso nascevano delle lunghe e durature collaborazioni tra pittori e fotografi. Anche in Italia la fotografia è un’attività praticata da una folta schiera di pittori, tra questi ricordiamo Pellizza da Volpedo, Federico Faruffini, Domenico Morelli, Filippo Palizzi, Vincenzo Cabianca, Edoardo Dalbono, Giulio Aristide Sartorio. E nel contesto dei pittori fotografi di fine Ottocento, si inserisce Francesco Paolo Michetti cui va il merito di aver compreso che la fotografia, nel campo delle arti visive, può assurgere ad un ruolo primario. Le prime prove fotografiche di Michetti risalgono quasi certamente al 1869, e sono prevalententemente autoritratti. I primi soggiorni parigini (1871-76) segnano un momento di svolta nel suo percorso artistico; la ricerca sul nuovo medium ed i suoi possibili impieghi si concretizza e si interconnette, pur se in modo strumentale, all’attività pittorica. Nella prima fase di produzione, circoscritta al periodo 1871-1883, la fotografia ha principalmente valore documentale; ha lo scopo di registrare modelli, pose, ambientazioni. Per i ritratti realizzati in questo periodo adopera una macchina a più obiettivi del tipo carte de visite2. L’uso di questo formato è circoscritto ad un breve periodo. Al 1880-81 risalgono alcuni ritratti di Paolo De Cecco in posa per una delle prime versioni de La figlia di Jorio. Per ottenere l’illusione della tridimensionalità Michetti ricorre ad un altro formato, la stereoscopia. Sulla scia delle riflessioni indotte dall’attività fotografica, la pittura subisce rilevanti modifiche; il segno è più netto, le tonalità cromatiche sono decisamente più sobrie. Il taglio è orizzontale. Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento si avverte un ulteriore mutamento di tendenza; è il periodo delle escursioni nell’entroterra abruzzese testimoniate da varie fonti. In questa seconda fase (dal 1881-83 al 1895-96 circa) la fotografia assume notevole importanza soprattutto per due aspetti, uno antropologico e l’altro estetico: documentando le feste

1 È Raffaele Delogu a scoprire l’archivio fotografico di Francesco Paolo Michetti. Le sue indagini confluiscono nel testo Per un profilo di Michetti, in XX premio Michetti (catalogo dell’esposizione), D’Argento, Francavilla al Mare, Chieti, 1966. 2 La carte de visite è una fotografia il cui formato è pari ad un biglietto da visita; la stampa in carta albuminata è incollata su un cartoncino di 10x6 (cm) circa. L’apparecchio è munito di quattro obiettivi e da ciascun negativo si possono trarre fino a otto immagini, in pose diverse. 3 La stereoscopia è una tecnica fotografica e cinematografica che consente la percezione ottica della tridimensionalità degli oggetti nello spazio. Il meccanismo di base è analogo a quello generato dalla visione binoculare del sistema visivo umano. Infatti le macchine fotografiche stereoscopiche permettono di riprendere due immagini dello stesso soggetto inquadrato da due punti di vista leggermente diversi, in modo da rendere l’illusione della tridimensionalità quindi una simulazione della realtà.

F.P. Michetti > 05.03.2015.indd 4

14/03/15 08:30


F.P. Michetti > 05.03.2015.indd 5

14/03/15 08:30


religiose l’artista presenta una realtà fino ad allora inesplorata. I reportage a sfondo sociale compiuti in questi anni indubbiamente condizionano il modo di vedere del pittore; il soggetto prediletto è sempre la realtà agreste, ma è rappresentata in una veste inedita, più cruda. Lo studio del movimento, tema centrale nella ricerca michettiana, assume particolare rilevanza e, i cortei di fedeli in pellegrinaggio verso i santuari, gli forniscono l’occasione di osservare dal vero il flusso delle grandi scene di massa e di coglierlo nel suo naturale andamento. La fotografia istantanea (comparsa nel 1858, prevede un tempo di esposizione pari ad un cinquantesimo di secondo) è il supporto idoneo all’indagine della figura in cammino, è il mezzo adatto a fissare la spontaneità dei gesti. Le sagre e i riti religiosi, soggetti delle campagne reportagistiche, prendono vita in suggestivi cicli pittorici. Già dal 1877, con la Processione del Corpus Domini, Michetti inizia a strutturare i suoi lavori secondo lo schema compositivo “a fregio” in cui l’orchestrazione delle figure, piano per piano, dona fluidità al racconto. In seguito aproda all’elaborazione di un formato ancora più che fotografico, pre-cinematografico. L’artista lo propone ne la Processione del Venerdì Santo (1878), ne L’Ottava (1880); ne I Morticelli (1880) e ne Il Voto (1883) in modo più incisivo, con sottili varianti ne La figlia di Jorio (1895) ed infine, raggiungendo la sua massima espressione, ne Le serpi e ne Gli storpi (1900). Innumerevoli gli studi fotografici inerenti le ultime tele menzionate. Ai dipinti monumentali sottende una lunga gestazione; Michetti prepara minuziosamente le sue opere mediante un dialogo incessante tra lavoro grafico, pittorico e fotografico. Un atteggiamento che conferma ulteriormente la modernità di vedute dell’artista, per il quale è significativa la sinergia dei linguaggi estetici. Rientra di fatto nella prassi operativa il ricorso a modelli scultorei in terracotta, gli assemblage, supporto essenziale soprattutto per l’elaborazione dei lavori pittorici corali, quelli per cui, l’organizzazione compositiva richiede una riflessione più accurata. Riguardo l’ultima fase di produzione (1900-1929) è necessaria qualche precisazione. È senz’altro vero che in questo periodo Michetti si dedica con un rinnovato slancio alla fotografia, ma è altrettanto vero che non si registra una reale interruzione dell’attività pittorica. Ed è una stagione particolarmente proficua: nel 1905 le Poste Italiane affidano all’artista l’incarico per la realizzazione dei francobolli con l’effige di Vittorio Emanuele III. Sul finire del primo decennio del Novecento lavora alla realizzazione di una mostra di quadri stereoscopici e ad una particolare tipologia di allestimento il cui elemento principe è la ripartizione della luce: un argomento, a suo dire, trascurato nelle pinacoteche e nei musei. Nel 1920-23 circa, si dedica alla progettazione del Captovitam, un apparecchio per le riprese filmiche e, tra il 1923 ed il 1925, realizza il documentario Volti d’Abruzzo. Degna di attenzione è la serie delle opere attribuite all’ultimo Michetti una raccolta, a nostro parere, estremamente suggestiva. Sulla produzione tarda esiste una ricca bibliografia tuttavia, ad oggi, resta inesplorato un importante ciclo pittorico cui sembrerebbero ascrivibili i lavori realizzati nell’ultimo periodo e che risulta essere sensibilmente significativo proprio in virtù del rapporto pittura-fotografia. Sull’argomento sarebbe pertanto auspicabile una ulteriore indagine storiografica che possa finalmente restituire un profilo coerente di Michetti, uno degli artisti più completi del secondo Ottocento italiano.

F.P. Michetti > 05.03.2015.indd 6

14/03/15 08:30


F.P. Michetti > 05.03.2015.indd 7

14/03/15 08:30


F.P. Michetti > 05.03.2015.indd 8

14/03/15 08:30


F.P. Michetti > 05.03.2015.indd 9

14/03/15 08:30


Cenni biografici

Bibliografia

Nato nell’ottobre del 1851 a Tocco da Casauria da Crispino, compositore di musica sacra e Aurelia Terzini, in seguito alla precoce scomparsa del padre e delle seconde nozze della madre, Francesco Paolo Michetti nel 1865 si trasferisce a Chieti. Dal 1868 comincia a frequentare le lezioni del Reale Istituto di Belle Arti. Dal 1872 al 1876 partecipa ai Salon parigini, esposizioni tra le più prestigiose d’Europa. Nel 1877 realizza La processione del Corpus Domini a Chieti; l’opera ne decreta il successo di pubblico e di critica. Michetti, già dal 1870, inizia a frequentare la cittadina di Francavilla al Mare; qui i suoi soggiorni divengono sempre più assidui ed intorno al 1878 vi si stabilisce definitivamente. L’anno successivo ottiene la nomina di Maestro di Pittura presso l’Accademia di Tokio, incarico cui rinuncia per restare in Italia. Del 1883 è Il Voto, uno tra i primi dipinti acquistati dalla Galleria d’Arte Moderna di Roma. Due anni dopo Michetti, a Francavilla, acquista il Convento di Santa Maria di Gesù, oggi ricordato come Conventino Michetti. Nel 1888 convola a nozze con Annunziata Cirmignani e, nello stesso anno, nasce Giorgio, loro primogenito a cui seguiranno Aurelia nel 1889 e Alessandro nel 1891. Con La figlia di Jorio del 1895, trionfa alla prima Esposizione d’Arte veneziana. Nel 1900 è a Parigi e, in occasione della Grande Esposizione, presenta le due tele Le Serpi e Gli Storpi, oggi conservate presso il Museo Michetti di Francavilla. Nel 1909 viene nominato Senatore del Regno e Socio Ordinario della Regia Accademia di Napoli. Diventa inoltre membro della Commissione Ordinatrice della Galleria Nazionale di Arte Moderna (1913) e della Commissione Acquisti dello stesso museo (1921). Il 5 marzo del 1929, nel suo Convento, muore a causa delle conseguenze di una polmonite.

Su Michetti fotografo • Marina Miraglia, Francesco Paolo Michetti fotografo, Einaudi, Torino, 1975. • Renato Barilli, L’ ultimo Michetti, pittura e fotografia, Alinari, Firenze, 1993. • Fabio Benzi (a cura di), Francesco Paolo Michetti. Dipinti, pastelli, disegni, Electa Napoli, Napoli, 1999. • Fabio Benzi (a cura di), Francesco Paolo Michetti. il Cenacolo delle arti: tra fotografia e decorazione, Electa Napoli, Napoli, 1999. • Franco Di Tizio, Francesco Paolo Michetti nella vita e nell’arte, Ianieri editore, Pescara, 2007. • Marina Miraglia, Fotografi e pittori alla prova della modernità, Mondadori, Milano, 2012. Su Arte e fotografia • Aaron Scharf, Arte e fotografia, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1976. • Giselle Freund, Fotografia e società, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1976. • Gabriele D’Autilia, Storia della fotografia in Italia dal 1839 a oggi, Einaudi, Torino, 2012.

Nelle foto: in copertina un autoritratto giovanile di Francesco Paolo Michetti; pag. 2-3: durante la festa di S.Antonio un contadino con il suo bue addobbato per la benedizione davanti al Conventino Michetti a Francavilla; pag. 5: donna incinta con bambino; pag. 6-7: donna scalza in campagna (nella foto compare il numero apposto dall’artista per l’archiviazione dell’ immagine); pag. 8-9: ritratto di Annunziata Cirmignani, moglie del pittore (1885-1890 ca.); pag. 10: Serparo a Cocullo, immagine realizzata su lastra stereoscopica per una visione tridimensionale, post 1890; pag. 11: modello in posa per Gli storpi, figura centrale, 1898-99; pag. 12: modella in posa, post 1885; pag. 13: nudo di schiena, post 1885; pag. 14: Rapino, processione delle bambine con ghirlande di fiori, 1885-95; pag. 15: Rapino, pellegrini in cammino, 1880-85; pag. 16: studio di neonati, post 1891.

F.P. Michetti > 05.03.2015.indd 10

14/03/15 08:30


F.P. Michetti > 05.03.2015.indd 11

14/03/15 08:30


F.P. Michetti > 05.03.2015.indd 12

14/03/15 08:30


F.P. Michetti > 05.03.2015.indd 13

14/03/15 08:30


F.P. Michetti > 05.03.2015.indd 14

14/03/15 08:30


F.P. Michetti > 05.03.2015.indd 15

14/03/15 08:30


Š VARIO COLLEZIONE

allegato a Vario 86 marzo-aprile 2015

Testi di Daniela Garofalo - Foto Archivio Michetti

F.P. Michetti > 05.03.2015.indd 16

14/03/15 08:30


[ VARIO COLLEZIONE ]

SAN CLEMENTE A CASAURIA

S. Clemente > 05.03.2015.indd 1

14/03/15 08:31


S. Clemente > 05.03.2015.indd 2

14/03/15 08:31


S. Clemente > 05.03.2015.indd 3

14/03/15 08:31


L’

Abbazia di San Clemente a Casauria è uno dei più importanti e significativi monumenti del romanico italiano. Pesantemente danneggiata dal terremoto del 2009, l’Abbazia è stata sottoposta a un efficace intervento di restauro, sostenuto economicamente dall’azione congiunta della Fondazione Pescarabruzzo e del World Monuments Fund Europe. Riaperta al pubblico con una solenne cerimonia di inaugurazione a conclusione dei lavori, dall’estate 2011, dal 2013 ha potenziato l’offerta culturale con l’apertura dell’Antiquarium “P. Calore”, realizzato con fondi MIBACT dalla Direzione Regionale. Affidata alla Soprintendenza BAP per le manutenzioni e le concessioni, da oltre tre anni è regolarmente visitabile grazie al personale della Soprintendenza BSAE dell’Abruzzo che promuove eventi culturali e a richiesta effettua visite guide e aperture straordinarie (info www.sbsae-aq.beniculturali.it). Abbiamo rivolto alcune domande alla soprintendente Lucia Arbace, la quale sta curando una nuova pubblicazione sulla storia dell’Abbazia, a latere di un volume dedicato ai restauri a cura di Gianmarco de Felice. Dottoressa Arbace, qual è l’importanza di San Clemente nel panorama del patrimonio storico artistico dell’Abruzzo e dell’Italia centrale? Affascinante e suggestiva nella sua particolare architettura di pietra ricamata come un merletto, riconducibile al tempo dell’Abate Leonate (1155-1182) e ancora in grado di perpetuare i fasti della lunga stagione medioevale, l’Abbazia di San Clemente a Casauria vanta una storia millenaria di eccezionale importanza e di levatura almeno europea. Occorre riflettere innanzitutto sulla strategia politica ed economica attuata oltre dodici secoli fa, nell’871, da Ludovico II che, sulle orme del suo avo Carlo Magno, volle sottolineare la potenza imperiale ai confini di una Italia meridionale in mano ai Longobardi, mediante la fondazione di una ricca Abbazia benedettina, resa prestigiosa innanzitutto dalla presenza del corpo di San Clemente, che gli era stato consegnato a Roma dal Papa Adriano II in persona. La vicenda è narrata nel Chronicon Casauriense, un codice manoscritto e illustrato entro il 1182, custodito presso la Biblioteca Nazionale di Parigi, e anche nei rilievi coevi, scolpiti nell’architrave del portale maggiore. Questi narrano, come in un fumetto, la consegna della teca contenente la preziosissima reliquia, trasportata a dorso di mulo fino al luogo prescelto per la fondazione, un’area bagnata dal Pescara che rappresentava un’importante via di comunicazione come fiume navigabile in continuità con l’Aterno, in grado di collegare i centri abbarbicati sulle montagne dell’Appennino con l’Adriatico, autentica autostrada del mare per raggiungere la Terrasanta ai tempi delle Crociate. Questa importante rete fluviale era connessa sia con tracciati viari d’età romana che raggiungevano il Nord Europa grazie alla via Francigena, sia con il sistema dei tratturi che permettendo il transito stagionale di milioni di pecore verso le Puglie garantiva una via sicura anche a mercanti e pellegrini.

Dal punto di vista turistico che consigli darebbe a chi volesse visitarla? Ancora oggi San Clemente è un luogo privilegiato, sia per l’incanto del sito, un pianoro da cui si intravedono le montagne più alte d’Abruzzo, sia per la vicinanza dell’autostrada, con il casello a brevissima distanza. Grazie ad accurati restauri è oggi possibile visitare la chiesa monumentale con l’antichissima cripta e i superbi manufatti scolpiti con mano felicissima da ignoti maestri: l’ambone, il candelabro e l’altare, con un baldacchino che sormonta un sarcofago paleocristiano del IV-V secolo. Ogni dettaglio è in grado di restituire il senso del prestigio dell’Abbazia nei primi secoli della sua storia, eretta e ricostruita più volte, più importante di prima. La visita all’Antiquarium, dedicato a Pierluigi Calore, permette di apprezzare reperti archeologici e sculture medioevali selezionati tra quelli che “l’uomo dell’Abbazia”, amico di Francesco Paolo Michetti e Gabriele d’Annunzio, amorevolmente raccoglieva nella zona e classificava con l’obiettivo di salvaguardare la memoria storica di un territorio ricco e nel contempo fragile, perché soggetto a periodiche scosse telluriche. L’Abbazia non è solo un’opera d’arte, ma anche un luogo che ha ispirato e continua a ispirare artisti di ogni genere. Il complesso di San Clemente a Casauria si può visitare in un’ora per apprezzare le singole testimonianze storico artistiche e architettoniche calate in un’atmosfera avvolgente, ma si potrebbe passare qui un’intera piacevolissima giornata, trascorrendo parte del tempo nel giardino ben curato e attrezzato per una gradevole sosta. In effetti sarebbe magnifico riascoltare qui i canti tradizionali rielaborati dai DisCanto o le Canzoni popolari abruzzesi, pubblicate da Cesare De Titta per i tipi della Carabba e fatte conoscere a livello internazionale da Francesco Paolo Tosti, oppure rileggere alcuni brani di D’Annunzio, che di questo Monumento è stato un testimonial d’eccellenza, definendolo “il più bello e il più importante monumento dell’arte romanica in Italia”, per strapparlo all’incuria e al degrado dei suoi tempi. L’ articolo L’Abbazia abbandonata, pubblicato sul quotidiano Il Mattino di Napoli il 30 e 31 marzo 1892, e il più celebre cammeo inserito nel Trionfo della morte, rappresentano pagine della letteratura italiana di non comune rilievo e di sublime bellezza, e nello stesso esternano un messaggio ancora di indiscutibile attualità, per la sensibile attenzione alla tutela e alla conservazione del patrimonio artistico il quale necessita di cure e attenzioni costanti non solo da parte delle Soprintendenze competenti. Senza dimenticare la modernità del progetto nato in seno al Cenacolo di Francavilla che auspicava la fusione delle Arti, rivelando una non comune preveggenza, nell’ambito di un sodalizio antesignano delle più sofisticate tecniche di comunicazione. San Clemente è un luogo antico ma ancora in grado di stimolare la creatività contemporanea, nel suscitare forti emozioni, appagando i sensi che s’alimentano della bellezza. Lucia Arbace

Soprintendente per i beni storici, artistici ed etnoantropologici dell’Abruzzo

In copertina: architrave del portale maggiore dell’Abbazia. Nella doppia pagina precedente, la facciata dell’Abbazia immersa nel verde. In questa pagina, un particolare del portale bronzeo. Nella foto grande, il portale d’ingresso sormontato dall’architrave e dalla lunetta, suddivisa in cinque episodi.

S. Clemente > 05.03.2015.indd 4

14/03/15 08:31


S. Clemente > 05.03.2015.indd 5

14/03/15 08:31


S. Clemente > 05.03.2015.indd 6

14/03/15 08:31


S. Clemente > 05.03.2015.indd 7

14/03/15 08:31


S. Clemente > 05.03.2015.indd 8

14/03/15 08:31


S. Clemente > 05.03.2015.indd 9

14/03/15 08:31


Q

uando si arriva dà una fugace vista di sé l’abbazia casauriense di San Clemente, fondata nel secolo IX dall’imperatore Ludovico II (825-Brescia 875). Stranamente dislocata, mimetizzata nella vegetazione, quasi la sua immagine continuasse a pulsare dall’epoca in cui la Casauria era un’isola, l’isola della Pescara. Nel medioevo il fiume lì si diramava fino ad abbracciarla. Tra i fumi della Storia e quelli che esalano dalle campagne attorno, nelle prime ore di un mattino di novembre, svanisce il desiderio di capire se il santo eponimo riposi effettivamente in Casauria o nell’omonima basilica romana. È certo che l’imperatore franco fosse nipote di Ludovico il Pio, a sua volta figlio di Carlo Magno – e che venisse chiamato Imperator Italiae, tanto il suo zelo per le sorti della penisola. Riuscì egregiamente Ludovico ad aver la meglio sulle infestazioni saracene nel nostro meridione, ma dovette vedersela coi sopravviventi longobardi, e più ancora con quelli che posson definirsi i primi poteri forti italiani, i feudi. Imprigionato a Benevento, giurò di non vendicarsi se liberato, fece voto a Dio. Come la sua preghiera venne esaudita, alla Trinità inizialmente dedicata l’abbazia. Ma col ritrovamento delle ossa di San Clemente, terzo papa dopo San Pietro, l’ultimo, è scritto, ad aver ancora negli orecchi il suono della voce degli apostoli, negli occhi il ricordo dei loro gesti, si mutò intitolazione. All’intersecarsi tra la spiritualità imperiale e quella papale presiedette una mula. Il 27 maggio dell’872 le reliquie del santo vennero poste dinnanzi all’altare della novella chiesa. Per volontà imperiale alla mula che le trasportava era stato negato l’accesso al ponte: senza bagnarsi essa guadò a pelo d’acqua la Pescara circondante il monastero. Così Ludovico ricevette una seconda prova ultraterrena. L’ottocentesco storico sulmontino Pansa mise in dubbio lo sbalorditivo fenomeno, già allora l’Italia piena di intellettuali illuministicamente addestrati. Ma è questo il punto: ha ancora senso avvicinare lo spirituale col proposito di razionalizzarlo? Oggi l’isola della Pescara completamente occultata, pare che fino al Duecento il fiume non si fosse ancora gettato in uno solo dei due alvei. Occorre considerare l’antica Insula Piscariae un “Centro del Mondo”, un mistico bethel, e più ancora un omphalos, un ombelico del mondo secondo la tradizione dapprima ellenistica poi cristiana? Reticente l’abbazia, nonostante la storia fin qui raccontata appaia scolpita nell’architrave e nella lunetta del magnifico portale mediano. Ludovico risalta in ciascuno degli

episodi in pietra, né è da meno l’arcangelo Michele, sulla sinistra, principe dei luoghi di cui si può dire vere terribilis est locus iste, come a Chartres, a Monte Sant’Angelo, a San Galgano in Toscana... O come lo stesso Castel del Monte nelle Puglie, dove come a San Clemente, nessun visitatore saprebbe più dire quale sia il nord o l’ovest... e tuttavia entra. La modernità persegue il suo progetto di impossessamento generale, perfino in spazi sacri cerca di spargere il suo linguaggio del vuoto, con le armi della comunicazione, della politica. Essi allora si sottraggono, si ritirano, potenziando il tempo, che nella quotidianità permette uno scampo verticale dalla materia: ogni attimo di tempo un incremento, spesso mancato, contro tutto ciò che muore… Si percepisce questo tra le mura abbaziali casauriensi. Quando si è soli lì dentro, non si resta solo incantati dalla teoria di monofore della navata centrale, dalla grandiosa triangolazione tra pergamo, ciborio, candelabro pasquale. È smarrito l’orientamento, ma si acuiscono la vista, l’ascolto. Certo, ciò che ci accoglie non è più l’abbazia di Ludovico, distrutta da saraceni e normanni. È quel che riedificò Leonate, l’abate che portò il complesso monastico alla massima prosperità. Ma è l’abbazia fantasma, criptica, ludovicana a renderci sfasati dal presente. Il nostro punto interrogativo lo ha generato il bisnonno di Ludovico, il grande carolingio, con l’invenzione, diffusasi subito, della minuscola carolina: una scrittura armonica, di comprensione immediata, antesignana degli attuali caratteri tipografici. Rammentando che il pronipote di Carlo Magno canonizzò la minuscola carolina, dovremmo imparare a soppesare il valore di tante domande, l’avidità di risposte dal passato, secondo lo stile contemporaneo, basato su un sempre più maiuscolo io… Semmai affidarsi al principio kenotico, a San Clemente a Casauria: svuotarsi di sé. Per meditare sulla kenosi suprema, quella di Colui che da Dio si svuotò di sè per farsi uomo. Naturalmente per noi non è solo pericoloso, è terribile. Si perdono tutte le certezze, ogni tentativo fallisce… Nell’Italia odierna dei poteri forti, che nessun imperatore ha mai estirpato –i nuovi feudi– però si può immaginare un forte temporale attorno all’abbazia, nel IX secolo. L’isola della Pescara sconvolta dalla pioggia e dal vento, il fragore esterno del vortice d’acqua sferzante il silenzio presso l’altare, e poiché è la notte di Pasqua, il cero, sul grande candelabro precedente a quello visibile, finalmente acceso. Il dorato riverbero sulle pareti di pietra sconfiggente il buio. Marco Tornar

Nelle due doppie pagine precedenti, la navata centrale dell’abbazia vista dall’ingresso e dall’altare. In questa pagina: un particolare dell’ambone. Nella pagina accanto: a sinistra il ciborio, sotto il quale è collocato un sarcofago paleocristiano; a destra il candelabro e l’ambone.

S. Clemente > 05.03.2015.indd 10

14/03/15 08:31


“Quando si è soli dentro l’abbazia di Casauria, non si resta solo incantati […]. Si smarrisce l’orientamento ma si acuiscono la vista, l’ascolto”.

S. Clemente > 05.03.2015.indd 11

14/03/15 08:31


Il crocifisso ligneo, databile alla metà del ‘400, recentemente restaurato e restituito all’abbazia. Presenta suggestioni dell’ultimo Donatello e una contiguità con la produzione del maestro Giovanni Teutonico.

Qui sopra: la cripta presbiteriale con l’altare centrale. Nella pagina a fianco: il crocifisso ligneo del XV Secolo.

S. Clemente > 05.03.2015.indd 12

14/03/15 08:31


S. Clemente > 05.03.2015.indd 13

14/03/15 08:31


Una veduta aerea del complesso di San Clemente a Casauria, realizzata con un drone dello studio Azurmuvi (ph. Enrico Di Nenno). Nell’ultima pagina: veduta esterna dell’abside con il vigneto

S. Clemente > 05.03.2015.indd 14

14/03/15 08:31


Un restauro a tempo di record

Quattordici mesi e quattordici giorni: è il “miracolo di San Clemente”, ovvero il record stabilito dai lavori di restauro dell’Abbazia di San Clemente a Casauria, che (altro primato) a tre mesi dal terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009 godeva già di un progetto esecutivo, presentato il 1 luglio durante una conferenza stampa da Nicola Mattoscio, presidente della Fondazione Pescarabruzzo, e Bertrand Du Vignaud, presidente del World Monuments Fund Europe. Le due Fondazioni hanno impegnato rispettivamente 750mila € e 970mila $ per raggiungere la ragguardevole cifra di 1milione 400mila € necessari per il restauro; il cantiere ha aperto i battenti il 25 gennaio del 2010 e San Clemente è stata restituita al suo pubblico con una solenne cerimonia l’8 aprile 2011. A questi record se ne aggiunge un altro: a tutt’oggi il complesso casauriense, dichiarato monumento nazionale dal 1894, è l’unico monumento tornato a splendere tra tutti i 43 beni architettonici sottoposti all’attenzione dei grandi della Terra, intervenuti all’Aquila per il G8. Gli interventi di restauro –alla cui progettazione hanno contribuito i tecnici della Sovrintendenza ai beni storici, artistici ed etnoantropologici dell’Abruzzo e una équipe dell’Università di Roma Tre, oltre al personale di grandissima esperienza del World Monuments Fund– hanno interessato sia i profili di generale stabilità dell’abbazia (parete di timpano, abside, archi che presentavano fessurazioni e sbilanciamenti della muratura, colonne e pilastri), sia gli elementi decorativi contenuti nel suo interno (ambone e candelabro). Nella foto, Nicola Mattoscio, presidente della Fondazione Pescarabruzzo, con Bertrand Du Vignaud, presidente del World Monuments Fund Europe

Bibliografia essenziale

• L’Abbazia di San Clemente a Casauria, di M. Latini, A.Varrasso, Pescara, 1997 • San Clemente a Casauria, di A. Ghisetti Giavarina, Carsa, Pescara, 2001 • Dalla Valle del Fino alla Valle del Medio e alto Pescara, DAT VI,1- DAT VI,2, Fondazione Tercas, 2003 • Scultura medievale in Abruzzo: l’età normanno-sveva, di F. Gandolfo, Carsa, Pescara, 2004, pp.116-138. • Il Chronicon Casauriense come fonte storica, di A. Pratesi, in “Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria”, 2010, pp. 5-18. • L’Abbazia di San Clemente a Casauria. La storia e il restauro, 2 voll., Ianieri Editore Pescara (in corso di pubblicazione) • I volume, a cura di L. Arbace, testi di A. Ghisetti Giavarina, A. A.Varrasso, S. Caranfa, A. Staffa, M. Vittorini e altri • II volume, a cura di G. De Felice, testi di M. A. Vittorini, M. Latini, F. De Sanctis, D. Di Marco e altri

S. Clemente > 05.03.2015.indd 15

14/03/15 08:31


© VARIO COLLEZIONE

allegato a Vario 86 marzo-aprile 2015

Testi di Lucia Arbace e Marco Tornar - Foto Claudio Carella

S. Clemente > 05.03.2015.indd 16

14/03/15 08:31


HO14_059_Pagina_Tollo_Autenticita_10nov.indd 1

V 86 - COPERTINA - IN LAVORAZIONE>05.03.2015 2

10/11/14 12.12

23/03/15 10:43


www.dececco.it

ABRUZZO IN RIVISTA 86

Anche le opere d’arte

Noi di De Cecco difendiamo da sempre il valore di una pasta fatta a regola d’arte. Solo semola di grana grossa impastata a freddo con acqua purissima, essiccata lentamente e trafilata al bronzo, così come vuole la tradizione. Un saper fare che siamo orgogliosi di aver mantenuto vivo nel tempo e che altrimenti sarebbe andato perduto. Un metodo antico e sapiente che potete ritrovare ogni giorno nel sapore unico della pasta De Cecco.

V 86 - COPERTINA - IN LAVORAZIONE>05.03.2015 1

aprile /maggio 2015

richiedono un metodo.

[ VARIOZOOM ]

FRANCESCOPAOLO MICHETTI Fotografo

Vario 86 €4,50

aprile/maggio 2015 Spedizione A.P. Art.1 comma 1353/03 Aut. n°12/87 25/11/87 Pescara CMP

[ VARIO COLLEZIONE ] 23/03/15 10:43


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.