Vario Collezione - Arte monumentale - San Giovanni in Venere a Fossacesia

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SAN GIOVANNI IN VENERE Fossacesia

Testo di Plinio Perilli Foto Roberto De Liberato e Gianni Colangelo

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Una sentinella sulla costa dei trabocchi

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uardando e ammirando la stazza insieme elegante e poderosa d’una abbazia come quella di San Giovanni in Venere (in prossimità del borgo di Fossacesia, fra verdi colline ricche di olivi, viti e aranci), altolocata su un poggio di un centinaio di metri sopra il mare, e ad esso prospiciente, contemplante… vengono davvero in mente i celebri versi di Cardarelli sulle “Sere di Liguria”: “Sepolto nella bruma il mare odora. / Le chiese sulla riva paion navi / che stanno per salpare”… Qui la regione cambia, è l’Abruzzo forte e gentile, ma l’idea comunque di questa grande basilica cistercense come vascello arenato lassù in collina –l’operosa collina dei monaci, degli uomini di Dio– resta e si staglia anch’essa come la sagoma di questo splendido monumento della Cristianità tardomedioevale, quando il monachesimo fece le sue prime prove di rinascita, in un periodo in cui anche l’architettura (oltreché la Fede) provava la sua renovatio, non più solo “romanica”, ma non ancora “gotica”… E il nome, poi, che lega San Giovanni a una Venere improbabile che è solo quella –forse– di un tempio preesistente, sopra i cui resti, come usava, si costruì un nuovo sguardo, un nuovo credo, concreto e insieme in excelsis.

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Grigia e bianca, la nave (arenata o sul punto di salpare?); grigia e ocra, terrigna di marrone (la facciata è di pietra grigia e mattoni) ma bianca per virtù marmorea (due splendidi pilastri decorati), come l’arte che ne imbianca e immortala i simboli, le sculture simboliche, le tracce intagliate o levigate della candida fede. Interno d’impronta cistercense, a tre navate divise da pilastri che sostengono archi ogivali. Poi la cripta, cui si accede tramite due scale che scendono dalle navate laterali, divisa in due navatelle – e conserva affreschi importanti di Luca di Pollutri da Lanciano (circa 1190). Nave arenata: il monachesimo che salvò la Fede. Nave salpante: per le virtù ascetiche dei suoi antichi monaci vissuti già in odore di santità, più sovrani dei loro re regnanti, più guerrieri, templari di Pace, dei condottieri bellicosi e improvvidi che scorrazzavano per quelle terre e quei feudi. Oggi, restaurata e pronta –come una nave, moderna arca per il nuovo millennio– se ne sta lì attraccata, tra le colline e la Storia, a guardare il mare, l’Adriatico amarissimo (ancora D’Annunzio), perché più sconfitte che vittorie ci assegnò, l’Adriatico sempre pronto a recapitarci lutti, jatture, migranti disperati. Pure, luogo d’antichi riti venusti, luogo dove forse s’ergeva un tempio

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Nella foto l’abbazia cistercense di San Giovanni in Venere a Fossacesia. Nelle pagine precedenti: in copertina particolare dei bassorilievi che adornano il portale anteriore. Nelle pagine seguenti: una veduta absidale esterna dell’abbazia circondata dagli uliveti (pag. 2-3) e l’interno della cripta (pag. 4-5)

a Venere “conciliatrice” (lì dove il fiume Sangro sfocia in mare, foce dolcesalata come eterna vicenda dell’amore). E non è casuale –forse– nella strategia inconscia o superna della Storia, quell’essere quasi in un centro e fulcro ideale dopo Ortona e San Vito Chietino. Lì vicino, sorge infatti un cimitero di guerra canadese di struggente valenza. Mi colpì molto già in una visita di tanti anni fa, quando realmente lo percorsi turbato e incredulo: tutti nomi, soldati morti giovanissimi, ventenni e anche meno –volontari, credo– per la “nostra” causa: liberarci, insomma, dal giogo nazifascista. Chi non ricorda che a Ortona e dintorni, tra il 5 e il 28 dicembre 1943, si accese e deflagrò, tra l’8ª armata alleata e i tedeschi, una delle più aspre battaglie della Guerra Mondiale, combattuta casa per casa, come a Stalingrado? Ma San Vito Chietino –la letteratura ha i suoi diritti!– è anche luogo (vorremmo dire: rito) dannunziano per eccellenza: dove insomma il Vate pescarese consacrato a Roma fra nobildonne ed elegie mondane, ma sempre ritornante alla sua terra per coglierne suggestioni antiche, sublimità veridiche (su tutti un romanzo come Il trionfo della morte, col famoso capitolo del pellegrinaggio al Santuario di Casalbordino, ma anche Le novelle della Pescara, o il fortore teatrale e arcano de La figlia di Jorio o

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La fiaccola sotto il moggio). Eccola, la costa dei trabocchi, sovrastanti il mare ma arrampicati selvatici anch’essi alla costa selvatica: “una strana macchina da pesca, tutta composta di tavole e di travi, simile a un ragno colossale”, così il divino Gabriele dipinge un Trabocco… Lì, a San Vito Chietino, “nel paese delle ginestre”, l’Eremo munifico –e di fronte, balconata sul mare, un teatro costruito pochi anni fa per alcune efficaci messinscene dannunziane– e presto caduto in disuso, abbandonato –ricordo– alla vegetazione che era già diventata unica selvatica protagonista, come una Mila di Codra sensuale e selvaggia… D’Annunzio, certo. Ma non solo! Ecco che lì vicino, a Orsogna (Chieti) nacque uno dei più grandi scrittori del secondo ’900, quel Mario Pomilio (1921-1990) che, autore del Quinto Evangelio (1975), resta davvero uno dei pochi romanzieri “etici”, etico-religiosi, della nostra smottante contemporaneità. Ma torniamo a quella gran nave arenata e approdata sulla sponda di Cristo. San Giovanni in Venere – anche nei materiali, ripeto, retaggio e simbolo della vera fede. E nella continua, inesausta costruzione o restauro. La chiesa e il convento, infatti, risalgono all’VIII secolo ma furono ricostruiti e ampliati nei secoli XI e XII (nel 1015 ad opera di Trasmondo II, conte di Chieti; e

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successivamente in forme cistercensi). Rifulge, nella facciata della chiesa, lo splendido portale della Luna, con arco a ferro di cavallo e due pilastri laterali di marmo, scolpito con vivide scene del Vecchio e Nuovo Testamento. Poi, giù nella cripta, gli affreschi fra il ’200 e il ’300 col Cristo benedicente tra Santi e la Madonna in trono col Bambino. E nel vicino monastero, lo splendido chiostro con trifore. I monasteri, nella (post)modernità, ahinoi, sono perfino andati di moda. Intendiamo in àmbito letterario: Il nome della rosa di Umberto Eco, è un romanzo (con relativo film) fin troppo noto. Ma torniamo a una location autentica, veridica, commossa e commovente di fede o cultura non recitata. Dunque, San Giovanni in Venere. Che perfetta sintesi, storica e architettonica, di quei grandi, ma ancora oscuri secoli dell’uscita dal buio, dal lungo medioevo delle invasioni e dominazioni, lungo esilio tra fede e cultura – salvati entrambi dal monachesimo! Ora et labora… Ma qui la regola benedettina è innovata da culto e vestigia “cistercensi” (stile sorto oltralpe, in Borgogna). Una grande fascinazione sia intima che morale pervade il luogo, s’infibra e s’impetra nelle forme stesse del luogo sacro, come del resto era nei dettami della regola cistercense. Allora, ecco i nomi, le gesta: Trasmondo II, conte di Chieti; Oderisio I, abate, che temendo l’avanzata dei Normanni fece fortificare il monastero, e fondò il castrum di Rocca San Giovanni; Oderisio II, abate

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anch’egli (che fu cardinale, e resse il monastero per 49 anni, ingrandendolo e impreziosendolo!). E Berardo da Pagliara, poi vescovo di Teramo a furor di popolo, già dopo la sua morte (1122) proclamato Santo. Per non parlare dei ritrovamenti archeologici risalenti al 2007, in occasione della ricostruzione della piazza antistante l’abbazia: addirittura una necropoli italica del V secolo a.C. L’Arte e la Storia e il percorso della Fede annidano infatti in un tempo senza tempo che li comprende tutti, i secoli da cui veniamo, ogni anno un mattone come d’un’immensa abbazia, o fascione di nave – nave incagliata nel porto immenso dell’Anima Mundi. Dove appunto si mischiano contributi pagani e vestigia cristiane, l’Arcangelo Gabriele e due grifi, Zaccaria preannunciato della nascita di Giovanni ed un fregio romano con cupidi saettanti tra girali d’acanto. Intonava Francesco nel suo cantico creaturale: Laudato sii, mi Signore, per sora Luna e le Stelle:/ in cielo l’hai formate clarite e preziose e belle… E quella luna scolpita, invocata, suffragata e archetipica, chiede, chiederebbe parole ai poeti (l’Ungaretti di Sentimento del Tempo l’intonerebbe “magica”, “allusiva”: “Luna allusiva, vai turbando incauta / Nel bel sonno, la terra, / Che all’assente s’è volta con delirio / Sotto la tua carezza malinconica, / E piange, essendo madre” – l’assente è il Sole –cioè Dio– che però mai ci lascia, e anche la notte intiepidisce, rischiata almeno di Luna). Ma la Luna è anche e sempre vestigia mariana, il simbolo, si sa, della Madonna; poi c’è la luna alchemica evocata

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da Tommaso d’Aquino, ma troppo lontano ci porterebbero quelle sacre e magiche cabale filosofali “Dell’amalgama al bianco”: “cioè alla Luna, che è fermento di albedine”. Assai più bello ricordare –ecco il miglior memento del toponimo– che sotto l’Abbazia è ubicata la cosiddetta fonte di Venere, fontana romana dove secondo la tradizione paganeggiante (viva fino alla metà del ’900), le donne che desideravano concepire un figlio si recavano ad attingere l’acqua sgorgante. Ma oggi quella fonte versa in estremo degrado – e forse tutto questo va letto, insieme, come triste bilancio e nuovo auspicio dei nostri tempi sterili, aspri e malvagi, che avrebbero proprio bisogno, insieme, d’una Venere Conciliatrice e d’una Maria Vergine Benedicente. Il che, a far la media, ci porterebbe all’iconografia d’una bella madonna procace di Raffaello, trasfigurata e poetata dall’estro magari di un D’Annunzio/Giorgio Aurispa, in una sua eroina abruzzese, più bella se più semplice, e pura, appunto, come una madonnina contadina, una piccola venere d’acqua dolce spuntata dai balzi degradanti della Maiella; la “Favetta” appunto del Trionfo della morte: “Veniva infatti, ora sì ora no, un canto femminile dal poggio. Giorgio si mise all’erta, in cerca delle maggiaiuole”… Plinio Perilli

«Come vascello arenato lassù in collina –l’operosa collina dei monaci, degli uomini di Dio– resta e si staglia la sagoma di questo splendido monumento della Cristianità tardomedioevale, quando il monachesimo fece le sue prime prove di rinascita, in un periodo in cui anche l’architettura (oltreché la Fede) provava la sua renovatio, non più solo “romanica”, ma non ancora “gotica”»

In questa pagina il chiostro dell’abbazia. Nelle pagine seguenti: il portale anteriore, detto della Luna, con bassorilievi che raffigurano scene dal Vecchio Testamento (a sinistra), e il portale laterale (a destra).

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Bibliografia essenziale - L’abbazia del silenzio e della bellezza... di Armando Marciani. Lanciano, Editrice Quadrivio, 1959 - L’Abbazia di San Giovanni in Venere di Angelora Brunella Di Risio. Chieti, Cassa di risparmio della provincia di Chieti, 1987 - L’Abbazia di San Giovanni in Venere di Michela Trippetta. Pescara, Carsa, 2000

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- Castel S. Flaviano presso i romani Castrum Novum e di alcuni monumenti di arte negli Abruzzi e segnatamente nel Teramano: studi storici archeologici ed artistici di Vincenzo Bindi. Napoli, F. Mormile, 1882 - San Giovanni in Venere - eam aedificare fecit Martinus - ode di Berengario G. Amorosa, Cesare De Titta. Note storiche di L. Renzetti. Lanciano, Masciangelo, 1916

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Veduta aerea del complesso monastico realizzata con un drone dello studio Azurmuvi (ph. Enrico Di Nenno). Nelle pagine precedenti: uno dei corridoi coperti che circondano il chiostro; a fianco: l’interno dell’abbazia con l’altare maggiore. Nel retrocopertina: trifora con affaccio sul chiostro

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© VARIO COLLEZIONE

allegato a Vario 88 novembre-dicembre 2015

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