Vario n°93

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ABRUZZO IN RIVISTA 93

anni Vario 93 €4,50 luglio 2018

SPEDIZIONE A.P. ART.1 COMMA 1353/03 AUT. N°12/87 25/11/87 PESCARA CMP

[VARIO MUSICA] CD Contaminazioni

[VARIO COLLEZIONE ] THOMAS ASHBY Fotografo



ABRUZZO IN RIVISTA 93

LUGLIO 2018

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EDITORIALE

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LA NOSTRA STORIA

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VARIOIDEE IL SESSANTOTTO IN ABRUZZO Fabrizio Masciangioli, Nadia Tarantini, , Francesco Di Vincenzo, Nicola Mattoscio

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NATURA IL “LATO B” DEL PRCO DEI TRABOCCHI

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IL CD IN OMAGGIO CONTAMINAZIONI MUSICA MADE IN ABRUZZO

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PERSONAGGIO ANTONELLO PERSICO

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PERSONAGGIO GREGORIO ANGELUCCI

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ARTE I CHIERICI REGOLARI TEATINI

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STORIA GENNARO SPINELLI UN ROM DEPORTATO NEL 1934

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LETTERATURA GIOVANNI DI IACOVO E GIAMPIERO MARGIOVANNI

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UNIVERSIVARIO CHIETI-PESCARA

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UNIVERSIVARIO TERAMO

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UNIVERSIVARIO L’AQUILA

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IMPRESE LA FONDAZIONE HUBRUZZO

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RIBALTA CINEMA

Copertina Giorgio De Angelis

DIRETTORE RESPONSABILE Claudio Carella HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO Andrea Carella, Giampiero Consoli, Fabio Ciminiera, Anna Cutilli Di Silvestre, Giovanni D’Alessandro, Giorgio De Angelis, Francesco Di Salvatore, Luciano Di Tizio, Francesco Di Vincenzo, Giuseppe La Spada, Fabrizio Masciangioli, Nicola Mattoscio, Clori Petrosemolo, Marco Tabellione, Nadia Tarantini, Sandro Visca, Roberta Zimei STAMPA, FOTOLITO E ALLESTIMENTO AGP - Arti Grafiche Picene Via della Bonifica, 26 Maltignano (AP) CLAUDIO CARELLA EDITORE Aut. Trib. di Pescara n.12/87 del 25/11/87 Rivista associata all’Unione Stampa Periodica Italiana REDAZIONE: Via Puccini, 85/2 Pescara Tel. 085 8428528 - redazione@vario.it

MANCANZA PURGATORIO - MACBETH NEO FILM OPERA 60

RIBALTA LIBRI

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RIBALTA IMPRESE

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LA RICETTA DI SANDRO VISCA

[ VARIO MUSICA] CD Contaminazioni Abruzzo

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VARIOCOLLEZIONE

THOMAS ASHBY Fotografo


ABRUZZO IN RIVISTA

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on amo le ricorrenze, le celebrazioni e tanto meno la retorica. Ma per i miei trent’anni di vita non potevo far finta di niente anche perché è un traguardo che accende l’orgoglio e la voglia di andare avanti. Ricordo ancora quei caldi giorni del giugno 1988 quando debuttai in edicola con la mia copertina patinata e con la determinazione di non sfigurare nella forma e nei contenuti rispetto alle grandi riviste nazionali. E ricordo lo sguardo sorpreso e incuriosito dei primi lettori soffermarsi sul mio nome: Vario, semplice e diretto per esprimere la volontà di rappresentare l’universo abruzzese a trecentosessanta gradi, fuori da schemi, stereotipi e luoghi comuni dell’abruzzesità. Diversa era anche la strategia comunicativa che asciugava le parole superflue per lasciare spazio al linguaggio delle immagini con le sue verità e le sue suggestioni. Non a caso ad idearmi era stato un piccolo gruppo di amici, con la voglia di essere protagonisti e testimoni di un periodo storico e di una regione che ci promettevano tante cose. Certo avevano degli occhiali speciali, quelli con le lenti graduate dell’entusiasmo, della passione giornalistica e della forza giovanile. Sapevano di non essere a Milano e di non avere alle spalle rassicuranti forze imprenditoriali ma scommettevano sulla capacità di intercettare il bisogno di una nuova narrazione dell’Abruzzo. Un racconto che mettesse l’accento sul positivo, sull’impegno, sulla creatività in ogni campo della nostra società portando in primo piano personaggi ed esperienze a loro modo esemplari. Non necessariamente un Abruzzo vincente, ma comunque una realtà regionale in evoluzione che voleva superare ritardi e squilibri misurandosi con le sfide della contemporaneità. Cercando di mantenermi coerente con questa “filosofia” ho affrontato le stagioni dell’ultimo trentennio: la primavera di un promettente benessere e di una rinnovata coscienza ambientalista, l’autunno con i segnali di crisi economica e con la politica falcidiata dalle inchieste giudiziarie, l’inverno col dolore e lo smarrimento per i terribili traumi dei terremoti e della tragedia di Rigopiano. Eppure anche nei momenti più bui e nei passaggi più tormentati sulle mie pagine si potevano scoprire volontà ed intelligenze sempre vitali, progetti e realizzazioni capaci di proiettarsi verso il futuro. Poi nel corso degli anni ho cercato di rinnovarmi nella veste grafica, nell’offerta di inserti ed edizioni speciali ma soprattutto tenendo d’occhio l’impatto dell’innovazione tecnologica. Nell’88, infatti, le tecnologie di stampa erano, praticamente, ancora quelle inventate da Gutenberg; fuori casa si poteva telefonare ma solo con il gettone dalla cabina telefonica, Internet era un termine conosciuto solo dagli addetti ai lavori. Oggi la partita della comunicazione si gioca nella “rete” e così ho deciso di giocarla col mio sito on-line che non si limita a riproporre i contenuti della carta stampata ma offre anche una rubrica di anticipazioni culturali, l’archivio storico della rivista e una sezione dedicata ai video delle interviste più recenti ed interessanti. Ma a questo punto rischio davvero di scivolare nell’autocelebrazione, allora meglio fermare le parole e proporre a voi lettori una sintesi per immagini di questi trent’anni. Una corsa sul filo del tempo e delle emozioni fra i personaggi più significativi, i mutamenti del costume, le eccellenze culturali, i gioielli e le battaglie ambientali, i traguardi raggiunti dalla ricerca e dalle imprese, i profili dei protagonisti dello spettacolo e dello sport. Insomma l’Abruzzo dai mille volti. L’Abruzzo che ho amato, raccontato e rappresentato. Vario


CLAUDIO CARELLA

VARIO, I PRIMI TRENT’ANNI V

ario, ha compiuto 30 anni e, nella pagina precedente, ha voluto esprimersi in prima persona raccontando la sua storia. Ma l’emozione fa brutti scherzi e si è dimenticato di ringraziare i suoi unici proprietari: i suoi lettori. Io, che ho avuto il privilegio di accompagnarlo ogni giorno in questa avventura, conoscendolo bene aggiungo questa postilla. «Grazie a tutti quelli che mi hanno letto ed apprezzato e grazie a quelli che hanno lavorato per realizzarmi, sono tanti e per evitare di dimenticare qualcuno meglio non fare l’elenco». Ok. Ora andiamo avanti, su questo numero, come sempre troverete delle novità, spero gradite. La prima è l’omaggio del Cd Contaminazioni Abruzzo in Musica realizzato da Santino Spinelli, Piero Mazzocchetti, Alexian Group, Maurizio Di Fulvio, I Fiati Italiani, Fairy Consort, Walter Gaeta, Marco Colacioppo, Antonio Cericola e la partecipazione di Silvio Orlando e la collaborazione di Carla Cerbaso. Un bellissimo prodotto che oltre il valore musicale contiene un’ idea: lavorare assieme scegliendo la parola “contaminazione” per rappresentare la volontà di esprimersi con stili, strumenti e mezzi diversi. Il modo giusto per pensare al futuro di ciascuno in ogni ambito. Prezioso l’altro allegato con le foto di Thomas Ashby grande studioso inglese innamorato dell’Abruzzo. Ci siamo poi misurati con un altro anniversario 2018 fa rima con 68, e quella scintilla di 50 anni fa ha cambiato la nostra vita. Bisogna fare la tara con gli elementi negativi nati da lì ma credo che non possiamo non dirci tutti, anche Vario, figli del ‘68. A me piace pensarlo. I personaggi di questo numero sono Antonello Persico che canta e “vive” Fabrizio De Andrè, Gregorio Angelucci, simpatico inventore e Gennaro Spinelli che racconta la sua vita da Rom deportato nel 1934. I teatini dove meno te li aspetti nelle grandi città italiane ed europee dove hanno realizzato magnifiche cattedrali. La letteratura abruzzese sempre in primo piano con premi letterari vinti da giovani autori come Annacarla Valeriano, Emanuele Felice, Peppe Millanta e scrittori come Giovanni Di Iacovo e Giampiero Margiovanni, Paolo Mastri e tanti altri. L’Abruzzo delle conoscenze con gli studi di docenti delle tre università abruzzesi come quelli del prof. Fabio Redi sulla cattedrale di Collemaggio e poi la voglia di illuminati imprenditori per far decollare la nostra regione per esempeio con la fondazione Hubruzzo. Anche il cinema si è segnalato agli onori nazionali con la pellicola Macbeth neo film opera del regista Daniele Campea e attori del calibro di Susanna Costaglione e di Mancaza Purgatorio del regista Stefano Odoardi. Ed alla fine buon appetito con la squisita ricetta di Sandro Visca.

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VARIO COPERTINE

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VARIO COPERTINE

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VARIO COSTUME

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VARIO CULTURA

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VARIO IMPRESE & RICERCA

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VARIO SPORT & SPETTACOLO

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FABRIZIO MASCIANGIOLI

QUEL SESSANTOTTO BELLO E IMPOSSIBILE «Se la società non sarà cambiata gli studenti saranno presto relegati nella disoccupazione o comunque in posizioni abbastanza miserabili. Non credo di essere pessimista, ma guardate che cosa sta già accadendo nella società francese. Qualche giorno fa, ho trovato in un giornale francese l’inserzione di un albergo di lusso di Antibes o di Nizza,non ricordo più, il quale richiedeva un portiere di notte: il candidato al posto doveva avere almeno la licenza liceale. Ecco a cosa serve la licenza e a cosa servirà sempre di più nel futuro. Ce n’è abbastanza per creare una seria situazione di conflitto» (Jean Paul Sartre, I comunisti hanno paura della rivoluzione? dialogo con gli studenti dell’Università di Bologna pubblicato su L’Espresso, agosto 1968).

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iene attribuita ad Ernesto Che Guevara la frase “ siamo realisti, esigiamo l’impossibile”, che poi è diventata con qualche variante uno degli slogan simbolici del 1968. La sua forza evocativa e comunicativa sta proprio nell’unione degli opposti, il realismo e l’impossibile, che hanno quotidianamente convissuto dentro l’impetuoso processo di trasformazione sociale, politica e culturale iniziato nelle aule scolastiche e universitarie per proseguire, nel caldo autunno del 1969, dentro le fabbriche. Una potente scossa tellurica che ha impiegato circa dieci anni per scaricare gran parte della sua energia producendo una sequenza di fenomeni sismici che hanno lasciato tracce profonde e anche drammatiche. Quel mix di concretezza ed utopismo, pur con proporzioni e modalità assai diverse, ha determinato un copione comune per tutte le vicende della stagione sessantottesca. E così anche il tranquillo Abruzzo, egemonizzato dal moderatismo democristiano, è stato contagiato dal virus della contestazione e scosso dai brividi delle assemblee, delle occupazioni e dei cortei. Anche un semplice bacio poteva diventare la scintilla che innescava la protesta studentesca. E’ quello che successe al liceo classico aquilano dove la casta effusione amorosa, scambiata fra due fidanzati sotto i portici dell’istituto, fu punita con la sospensione della ragazza, provocando però la reazione degli studenti contro l’atteggiamento autoritario e repressivo degli insegnanti. Allora la lotta politica per la libertà conteneva in sé, allo stesso tempo, il rifiuto del dominio imperialista e l’insofferenza verso i condizionamenti della famiglia e della scuola; così come il desiderio d’infrangere le tradizionali convenzioni nei rapporti affettivi, amorosi e sessuali. Non a caso, qualche anno dopo il divorzio sarà legge e successivamente arriverà anche il diritto ad abortire. A Pescara ci fu grande mobilitazione fra gli studenti medi che denunciavano il sovraffollamento scolastico e, dopo

lo sgombero del liceo artistico, seimila giovani sfilarono per le vie della città. Intanto i “compagni” più grandi all’università occupavano le facoltà e nelle estenuanti assemblee parlavano di cultura alternativa e condannavano la guerra americana in Vietnam. A Chieti si protestava contro le tariffe troppo alte dei mezzi pubblici che penalizzavano soprattutto gli studenti pendolari mentre a L’Aquila la contestazione si propagava dagli istituti tecnici ai licei più elitari per approdare anche all’Istituto superiore di educazione fisica. Gli allievi dell’Isef, scesi in sciopero per ottenere il riconoscimento ministeriale del loro istituto, decisero di andare in delegazione davanti al monumento ai caduti per rendere omaggio al sacrificio di Jan Palach, lo studente cecoslovacco che si dette fuoco per protestare contro la repressione sovietica della “Primavera di Praga”. Sempre a L’Aquila si realizzò, proprio nel maggio ’68, l’ alleanza fra studenti e operai alla Sacci di Cagnano Amiterno dove si lottava per un contratto di lavoro che spezzasse le cosiddette “gabbie salariali”, ovvero quel meccanismo per cui un lavoratore di un’industria del nord guadagnava il 30% in più di uno della stessa azienda al sud. Sui cancelli della fabbrica in quei giorni sventolò una bandiera nord-vietnamita e qualche mese dopo in Abruzzo ci fu il primo sciopero regionale di studenti e operai per l’occupazione e contro le discriminazioni salariali. Il frutto di queste battaglie, diffuse in tutto il paese, fu lo Statuto dei lavoratori che dagli anni settanta tutela i diritti fondamentali nei rapporti di lavoro. Insomma in quella convulsa stagione sono stati tanti i passi compiuti nella direzione di una maggiore libertà e democrazia ma non si è realizzato il sogno rivoluzionario di una radicale palingenesi egualitaria della società. Anzi, quel sogno è diventato un incubo quando qualcuno ha pensato di trasformare la lotta politico - sociale in lotta armata. Ecco perché a distanza di mezzo secolo resta difficile tracciare un bilancio del “mitico” sessantotto, resta difficile schierarsi con quelli che ripetono “formidabili quegli anni” oppure con gli altri che sentenziano “una generazione di sconfitti”. Ogni giudizio che pretenda di essere univoco su un passaggio storico così complesso, rischia di essere inadeguato. Si pensi ad esempio alla trasformazione del sistema scolastico che, non più autoritario e selettivo, è diventato aperto e di massa ma anche produttore di disoccupazione intellettuale, come aveva lucidamente profetizzato Jean Paul Sartre. Forse l’eredità lasciata dal ’68-‘69 è troppo sfaccettata e contraddittoria per essere ingabbiata in una lineare griglia interpretativa, forse intorno a quella eredità è necessario riflettere ancora prima di dare risposte definitive.

Giornalista del TgrAbruzzo è stato per molti anni consigliere della Federazione nazionale della stampa italiana (FNSI ). Ha diretto il Master di giornalismo dell’Università di Teramo e nello stesso ateneo ha insegnato Comunicazione Politica e Storia del Linguaggio Politico.



NADIA TARANTINI

QUANDO NACQUE IL MIO FEMMINISMO

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ro una giovane sposa con un figlio piccolo, e passai una brutta notte, quella notte del 1968. Il mio giovane marito non tornò a dormire a casa, suscitando in me i peggiori pensieri: tradimento? abbandono? Ma no. Insieme ad un gruppetto di altri iscritti alla Facoltà di Economia e Commercio di Pescara e a poche ragazze di Lingue, proprio quella notte aveva occupato la sede della sua università, ora museo Vittoria Colonna. E, da comunista integerrimo, si era astenuto dall’usare un qualsiasi telefono per avvertire casa. La sera prima, avevo occupato da sola e senza marito e amici – come invece era previsto – un palchetto del cinema-teatro Massimo, dove Franca Rame e Dario Fo avevano rappresentato “La signora è da buttare”, un’aspra satira sull’America del nord, che aveva raccolto in platea sparuti gruppi di pubblico. Non riuscii a goderne neanche una battuta, già presa dall’angoscia per quelle inspiegabili assenze. Da tempo la mia comitiva politica aveva prenotato lo spettacolo, una rara occasione per sentirsi parte di un universo più vasto, che aveva come icone e immagini della testa e del cuore Che Guevara, i giovani americani che combattevano in patria contro la guerra nel Vietnam, gli studenti francesi che avevano cominciato a fare barricate a Parigi. Erano passati solo sette anni, da quando i giovani fascisti dominavano a Pescara le battaglie studentesche, con un servizio d’ordine che impediva fisicamente a chiunque di andare a scuola. Al Liceo D’Annunzio, il giorno di un grande corteo, eravamo riuscite ad entrare soltanto in due in quinta ginnasio sezione C; ubbidienti ai nostri padri che ci avevano proibito di manifestare: lei era figlia del questore, io del segretario della federazione del Pci. I giovani del Pci e della Fgci, che quella notte del 1968 occuparono la facoltà di Economia e commercio di Pescara, si riportarono il guadagno dentro il loro partito. Si cominciarono a rompere rigidità organizzative e pre-giudizi politici nei confronti di chiunque non fosse dentro l’organizzazione; e si aprì la strada ad un dibattito interno più aperto, con meno ipocrisie e diplomatismi. E, l’anno dopo, alla “scissione” del gruppo del Manifesto. Noi sessantottini, pur senza schierarci apertamente, facevamo il tifo per Lucio Magri e Rossana Rossanda, di cui leggevamo in segreto gli articoli sulla neonata rivista. E nello stesso anno, stringemmo imperitura alleanza con quelli che, dentro il sindacato della Cgil, erano i più aperti per le forme di lotta e le rivendicazioni del cosiddetto “autunno caldo”. Pure io ebbi il mio guadagno. Dopo la notte delle angosce coniugali, riconquistai il diritto alla politica e in una notte successiva occupai la facoltà di Lettere di Chieti. Fra eccitazione e paura violammo una porticina sul retro della facoltà, eravamo forse neanche dieci… Improvvisamente, si poteva dire e pensare ciò che non si era mai osato. Di contraccezione, per esempio. Di libertà, anche individuale e non solo collettiva. Mi iscrissi alla LID (Lega italiana

per il divorzio), tra lo scandalo di molti compagni del Pci. Solo una decina di anni prima, Palmiro Togliatti era uso a chiamare a rapporto le coppie in crisi – per chiedere a nome del partito che restassero insieme! I banchetti per firmare e iscriversi alla LID, in Corso Umberto, li aveva installati Luigi Del Gatto, unico radicale conosciuto a Pescara, medico, che faceva politica insieme alla moglie americana, una donna che ricordo altissima e dalla voce potente. Ci riunivamo nelle case dei pochi giovani sposati, per “guidare” da comunisti – un difetto che non perdemmo – il movimento che cominciava ad estendersi e a radicarsi in alcune realtà scolastiche e operaie. Ci sembrava finalmente di essere connessi a qualcosa di più grande e diffuso, di cui percepivamo gli echi quando, affrontando viaggi in macchina di parecchie ore, sbarcavamo per una sera a Roma: per un dibattito all’Istituto Gramsci di via delle Zoccolette oppure per un concerto al Folkstudio di via Garibaldi a Trastevere. Accanto ai primi tre LP (Beethoven, Bach, Luigi Tenco) a casa nostra comparvero Paolo Pietrangeli e gli Inti Illimani. Gli effetti più importanti per me – e, credo, anche per altre donne – vennero dall’irrompere degli echi del femminismo che sarebbe seguito, e che prese spirito dai venti di libertà del ’68. Ero stata una “femminista inconsapevole” fin dal 1964, quando a diciotto anni mi ero iscritta all’Udi di Bologna prima ancora di diventare militante del Pci: inconsapevole restai a lungo, attratta e impaurita da quel movimento, che veniva mal giudicato nelle “commissioni femminili” di cui facevo parte (la rivoluzione si doveva fare insieme ai compagni!). Ma un seme venne gettato dal primo gruppo di poche donne di Pescara delle quali gli uomini parlavano a cena, che si riunivano da sole tra loro e di cui gli uomini sembravano avere paura. Gli anni Settanta avrebbero legato quelle notti avventurose nelle università al fronte largo che costruimmo in Abruzzo per il referendum sul divorzio (1974), andando per le campagne a scoprire che c’era una coscienza di quelli che ora si chiamano “diritti civili”, ignota a molte sezioni del Pci, dove militavano quasi soltanto uomini. Le loro mogli, sorelle e persino madri erano più avanti: mi risuona ancora in testa la frase che sentivo ripetere in ogni casa in cui andavo a fare propaganda per il “No” (all’abrogazione della legge sul divorzio): “A me non mi serve, ma se ci stanno famiglie che cianno bisogno, perché glielo devo levare?”. L’Abruzzo fu l’unica regione meridionale in cui vinse il “No”. Come sarebbe poi stata la prima regione meridionale ad applicare la legge 194 in tutti gli ospedali, in seguito ad una choccante iniziativa di un ampio comitato di donne con i primari che non volevano aprire i reparti (dalle radicali alle femministe alle liberali alle comuniste e socialiste). Ma questa è un’altra storia, che sarebbe bello poter raccontare fra una decina d’anni.

Giornalista per vent’anni all’Unità, poi docente di scrittura nelle università di Teramo e Roma3, autrice di numerosi libri di inchiesta, saggistica e romanzi

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FRANCESCO DI VINCENZO

PESCARA, IL ‘68 DEI BRAVI RAGAZZI

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l professore di tedesco era alto, biondo, bello e fumava con una Butz Choquin che un precoce fumatore di pipa come me gli invidiava più del suo successo con le ragazze che affollavano il suo corso monografico su Georg Heym, grande e sfortunato poeta espressionista morto a soli 25 anni. Il professore di tedesco era comunista. Un giorno m’incontra e mi fa: «Ma perché nelle assemblee vi chiamate ancora “colleghi”? Compagni, dovete chiamarvi». Era il febbraio del ’68 e anche a Pescara, nella ex Azienda di Soggiorno in piazza Primo Maggio, oggi Museo Colonna, allora sede della facoltà di Economia e Commercio e dell’annesso Corso di Laurea in Lingue e Letterature Straniere, gli studenti avevano cominciato a riunirsi in assemblea. Erano incontri affollatissimi, l’aula magna della bianca palazzina sul lungomare era sempre strapiena. Le discussioni erano vivaci e ingenue, appassionate e generiche. Tutti contro l’autoritarismo, naturalmente, e non mancava chi coglieva l’occasione per additare alla sdegnata riprovazione dell’assemblea questo o quel docente che con lui s’era mostrato odiosamente rigido; un po’ à la Baudelaire che sulle barricate del ‘48 aizzava i rivoluzionari parigini contro il colonnello Aupick, suo odiatisimo patrigno. Ma il tema che andava per la maggiore, in quelle prime settimane di agitazione, era il rapporto scuola-società. Un’élite di studenti trenta e lode si riuniva a parte, discuteva e redigeva lunghi e articolati documenti sull’argomento che poi, letti in assemblea, venivano immancabilmente approvati per acclamazione. Tranne in un caso, quando Cesare di Marcianise, simpatico studente di economia, dopo la lettura di un documento infiorettato in clausola da un aforisma di Adorno, intervenne per chiedere che cavolo c’entrasse il famoso ciclista con il tema in questione, riscuotendo il plaudente consenso di mezz’assemblea. Per molte settimane continuammo a chiamarci “colleghi” e a ignorare la politica e il linguaggio ideologizzato che già da mesi prevaleva negli atenei italiani, e che s’affacciava anche a Pescara nella facoltà di architettura di Palazzo Perencih, in Viale D’Annunzio, molto più politicizzata della nostra. Poi venne il giorno in cui cominciammo a chiamarci “compagni”. Accadde dopo una scaramuccia con uno sparuto gruppetto di “fascisti”, che in realtà erano studenti figli di papà incazzati neri perché le nostre assemblee disturbavano, emarginavano e, indirettamente, ridicolizzavano e condannavano all’irrilevanza le loro amatissime attività goliardiche che si svolgevano, per lo più, in uno scantinato sottostante l’aula magna. E così, si presentavano puntuali a ogni assemblea cercando di svillaneggiare i nostri serissimi discorsi con lazzi, sberleffi e minacce da bulli. Noi decidemmo di ignorarli, di non accettare le loro provocazioni.

Un giorno, qualcuno di noi ritenne colma la misura e li affrontò a brutto muso. Dopo una breve e goffa scazzottata, i fasciogoliardi se ne andarono e non si fecero più vedere alle nostre assemblee. Da allora, ci chiamammo “compagni”, cominciammo a parlare di politica e organizzammo l’occupazione “aperta” della facoltà, consentendo il regolare svolgimento delle lezioni e degli esami. Di notte, comunque, una cinquantina di noi, ragazze comprese, a turno rimanevamo dentro la facoltà. A fare vigilanza, come si diceva allora, essendosi sparsa la voce che un certo Mimmo, mai visto ma descritto come un gigantesco ex parà tornato da poco in Abruzzo, stava organizzando un gruppo per controccupare di notte la facoltà e impedirci di rientrare. Non accadde mai nulla, e così, grazie al fantomatico Mimmo, molti ragazzi e ragazze poterono tranquillamente conoscersi meglio nelle aule buie della facoltà. Di giorno, alcuni di noi avevano il compito di andare a contestare le lezioni dei docenti più reazionari, pochi per la verità, almeno tra quelli del Corso di lingue, quasi tutti di sinistra. Il sottoscritto non mancò l’occasione di rimediare una figuraccia. Mi presentai a una lezione di latino tenuta da un docente a me sconosciuto ma, appunto, in fama di reazionario. Stava trattando il De bello civili di Giulio Cesare. Io lo interruppi con tono sarcastico: «Mi raccomando, professore, quando parlerà del De bello gallico spieghi bene la missione civilizzatrice degli imperialisti romani...». Il professore non rispose, si accostò alla lavagna e la capovolse, mostrando una scritta che evidentemente era stata il tema di una precedente lezione: “De bello gallico, diario di un genocidio”. Insomma, i professori ci scavalcavano a sinistra. Come il barone Arcangelo Leone De Castris, docente di letteratura italiana, che al termine di un esame mi salutò sussurrandomi con aria complice: «Spero che ci rivedremo su una barricata». Io feci lo spiritoso: «Lei porti il vino. Serviranno molte bottiglie per le molotov». Il professore non sembrò apprezzare la mia allusione alla prospera attività vitivinicola della sua azienda di famiglia: rimase serio e si girò a parlare con il suo assistente, ignorandomi. Intanto, in Italia e in Europa, succedeva di tutto. Occupazioni di università e scuole, grandi manifestazioni, scontri con la polizia, dibattiti infuocati, utopie declinate tra deliri dadaisti e cupi irrigidimenti ideologici sscandivano una stagione di speranza e di rivolta. Il “Ce n’est qu’un début” del Maggio parigino divenne la parola d’ordine di un’intera generazione. E noi? Noi a Pescara facemmo grandi assemblee ad aprile, dopo l’assassinio di Martin Luther King, e a giugno, quando uccisero Bob Kennedy. Poi gli esami e le vacanze al mare. In fondo eravamo solo bravi ragazzi.

Giornalista

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NICOLA MATTOSCIO

DA “VALLE GIULIA” ALLA VAL DI SANGRO

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cinquant’anni di distanza, il Sessantotto è ormai consegnato alla ricostruzione oggettiva della storiografia ufficiale. Ma è anche riletto con gli occhi di oggi, per aiutarci a capire il presente e a immaginare il futuro. Dal primo punto di vista, non c’è dubbio che i tumultuosi eventi che gli diedero voce appaiono così significativi da doversi esprimere in un prima e un dopo. Nell’altra prospettiva, i paradigmi di riferimento possono essere tanti, almeno quanti i numerosi Sessantotto realmente accaduti o vissuti. In una breve nota riferibile a cosa andò in scena nel palcoscenico abruzzese, è solo possibile riproporre qualche ricordo a testimonianza degli effettivi cambiamenti e assumere insieme il paradigma “Centro-Periferia” che meglio autorizza a poter parlare dell’esistenza stessa di un Sessantotto abruzzese. I ricordi dicono che in Abruzzo non ci fu una scintilla che accese la fiamma della nuova stagione. Non vi fu una contestazione emblematica rimasta uno spartiacque, come avvenne nei “centri di gravità” del movimento nel mondo (assassinio di M. Luther King il 4 aprile 1968 a Memphis, maggio parigino di Cohn-Bendit, o in alcune città italiane come la “battaglia di Valle Giulia” il 1° marzo ‘68 a Roma). Più che con gli episodi clamorosi, il Sessantotto in Abruzzo si percepisce meglio con la trama di un “decennio lungo” nel suo “secolo breve”. La narrazione del decennio può ben iniziare con la nomina di Loris Capovilla ad Arcivescovo di Chieti-Vasto, avvenuto il 26 giugno del 1967. Da subito e per tutti i suoi quattro anni di presenza in Abruzzo, il “prete di sinistra” segretario particolare di Giovanni XXIII e testimone del Concilio Vaticano II, distinguendo fede e politica, marca la distanza dai potenti locali, non condividendo l’idea del partito unico dei cattolici, e si schiera apertamente a favore dei ceti sociali più deboli. Il famoso documento dei Vescovi abruzzesi e molisani, da lui ispirato, in cui si denunciano le condizioni di povertà e sottosviluppo insieme alla tragedia sociale dell’emigrazione forzata per la mancanza di lavoro, diventa la bandiera di numerosi gruppi di animazione politica di base che si integrano frequentemente con gruppi avveduti di socialisti e comunisti, con personalità e intellettuali di spicco (fratelli Cianci, Nicola Fiorentino, Walter Tortoreto, ecc.), e con alcune prime esperienze del movimento studentesco. Il periodico “Il Dibattito” di Enzo Ciammaichella ne registra i maggiori fermenti. Nel Sessantotto le libere università abruzzesi erano nate solo da qualche anno. Gli studenti che le frequentavano erano pochi e a maggioranza fuori sede. Non avevano un vero corpo docente strutturato. Così nell’anno utopico della richiesta dell’impossibile, furono i licei e gli istituti tecnici i veri protagonisti della declinazione abruzzese del movimento studentesco, con realistiche vertenze su trasporti, liberalizzazione dell’accesso all’università, contenuti degli insegnamenti e rivendicazione dell’occupazione come un diritto. Solo a partire dall’autunno del ’69 alla “d’Annunzio” nacquero collettivi politici autonomi che cercarono subito collegamenti con i nascenti consigli di fabbrica, alcuni dei quali si battevano per non far chiudere i loro stabilimenti (Monti, Marvin Gelber, ecc.). Nacque anche l’idea di un libro bianco sull’esempio di quello della Sapienza di Roma (di Oreste Scalzone e Massimo Barone). Tra gli altri fummo incaricati di redigerlo Michele Di Vito (del Movimento Socialisti Autonomi), Pino Mauro ed io. Ma, dopo qualche infruttuosa riunione nella mitica sede pescarese della CGIL di Via Sardegna, non se ne fece più niente. Ormai gli eventi portavano in altre direzioni. Andare verso il popolo e “servire il popolo”. Personalmente mi impegnai a condividere la nascita del movimento della Nuova Sinistra “Sangro proletario”, che assumeva a riferimento organizzazioni di base come la Fucina di Roccascalegna, i Centri di

Iniziativa Politica di Villa S. Maria e di Gessopalena, il Circolo Nuova Resistenza di Torricella Peligna (poi avallato anche da Ettore Troilo), ecc. Il semplice fatto di manifestare pubblicamente le proprie idee non solo politiche nelle piccole comunità di periferia dove tutti si conoscevano, rompeva uno dopo l’altro tanti muri dell’imperante conformismo. Se ne videro subito i primi risultati. Alle elezioni amministrative, a cominciare da quelle del 1970, per la prima volta molti municipi furono conquistati dalle sinistre. E in quelle remote contrade dell’Abruzzo, che già 25 anni prima avevano visto nascere l’esperienza d’avanguardia della Brigata Maiella nella lotta di liberazione, tutti i fermenti confluiscono forse per la prima volta nel Mezzogiorno d’Italia in un’inedita e unitaria battaglia per l’occupazione sì, ma solo in una visione sostenibile dello sviluppo. Era successo che il 21 marzo del 1971 presso lo studio del Presidente della Provincia di Chieti, Notaio De Cinque, fu fondata la Società Sangro Chimica, con lo scopo di attrarre finanziamenti per la realizzazione di impianti di raffinazione da localizzare a Fossacesia. Apparve curioso che numerosi soci erano amministratori dello stesso ente Provincia. Il contrasto fu subito politico. Da una parte si assumeva una visione meridionalista meramente rivendicativa che rinviava alla metafora della “valle della morte”, coniata da Amedeo Di Bari del Nucleo Industriale Val di Sangro. Dall’altra, si affermava la crescente consapevolezza che solo un modello di sviluppo equilibrato che, nel valorizzare l’agricoltura e l’ambiente, auspicava anche l’introduzione di una manifattura pulita e integrabile nel contesto. La vittoria del movimento di contadini, operai, studenti e intellettuali, sostenuta dai partiti di sinistra e dalla nuova sinistra, creò le premesse per favorire la fondazione della Sevel nel 1978, con il resto della storia a tutti nota. Ma la lezione di quel movimento vincente fu di insegnamento e, in parte, anche di ispirazione alla nascita del più consapevole e maturo movimento di disoccupati nella storia di quegli anni. Nacque la Lega abruzzese dei disoccupati. Si occuparono terre incolte, si proposero lavori socialmente utili, si individuarono carenze nei servizi amministrativi che penalizzavano il pieno esercizio anche della vita democratica delle istituzioni. Personalmente contribuii a scrivere documenti, saggi ed articoli di divulgazione a supporto del nuovo movimento, mentre gli ancora ragazzi Giovanni Lolli e Gianni Melilla ne divennero i leader. Il 20 dicembre 1976 si tenne a Pescara una delle più partecipate manifestazioni di sempre nella regione, con oltre 10 mila giovani a sfilare, e si arrivò nei mesi successivi ad un convegno unitario dei sindacati confederali all’EUR. Dalla piattaforma che uscì da quella iniziativa nacque la legge per il sostegno all’occupazione giovanile. Beneficiari delle risorse furono imprese di giovani (singoli, associati, cooperative), programmi regionali di lavoro produttivo per opere e servizi socialmente utili, giovani che volevano accedere alla coltivazione della terra, ecc. In breve, il movimento dei disoccupati abruzzesi aveva dettato le linee per il sistema paese per una politica attiva a favore dei giovani. In conclusione, il decennio sessantottino che sconvolse la storia dell’Abruzzo riecheggiò i grandi temi generali dei diritti, gli ideali di uguaglianza anche di genere, la gioia per la libertà e la pace, le ansie e le paure della guerra fredda e del rischio della guerra nucleare. Ma nell’assumere come filo conduttore il lavoro, essi diedero vita ad un Sessantotto non minore, sia pure con tutti i limiti delle esperienze delle periferie. Nell’insieme, furono anni formidabili di emancipazione economica, culturale e nei costumi, con il mito anche del figlio laureato alla portata per tanti genitori contadini, operai, artigiani, emigranti e non solo dei “signori”. La loro eredità inciderà moltissimo nei decenni successivi, e continua ad essere non proprio insignificante per il presente e per il futuro non solo della regione.

Professore ordinario e direttore del dipartimento di scienze filosofiche, pedagogiche ed economico-quantitative all’Ateneo G. d’Annunzio. Segretaio generale della Fondazione Pescarabruzzo

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NATURA

IL “LATO B” DEL PARCO DEI TRABOCCHI Nei vecchi dischi a 45 giri la canzone ritenuta di minor pregio, quella confinata sul retro, il “lato B” appunto, diventava a volte inaspettatamente il vero successo. Potrebbe accadere anche nell’area protetta solo terrestre della Costa Teatina, sempre che si riesca finalmente a istituirla

di Luciano Di Tizio foto dal cielo Giuseppe Sigismondi foto subacquee Roberto Brenda

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dischi in vinile sono tornati in voga, e non solo tra i nostalgici: per suono e fedeltà di riproduzione rimangono tuttora insuperabili, a dispetto delle evoluzioni elettroniche: la gran parte dei musicisti oggi pubblica di nuovo anche su Long Playing, in sigla LP, e in tanti continuiamo a collezionarli. Non hanno avuto analoga fortuna i dischi 45 giri, supporti in vinile di formato 7 pollici (18 cm) stampati generalmente su entrambi i lati. Il brano più significativo, quello sul quale il cantante o la casa discografica contavano per il lancio radiofonico o televisivo, era inciso sulla facciata denominata lato A, quella principale. Il lato B ospitava invece quasi sempre un riempitivo. I Beatles, rivoluzionari anche in questo, pubblicarono costantemente 45 giri con doppio “side A”, ma per la gran parte degli autori quella relegata sul retro era la canzone che dava meno speranze di successo. Manco a dirlo non sono mancati i lati B che, a sorpresa, hanno scalato le classifiche sino al punto da diventare quasi un brano simbolo per il loro autore. Se vi parlo dei Pooh probabilmente sarà Piccola Katy la canzone che vi risuonerà nella mente: difficile credere che è stata pubblicata nel 1968 sul retro di In silenzio, un testo che, diciamo così, non è passato alla storia. Applichiamo il concetto di “lato B” anche a un’area protetta? Qualche volta può essere possibile. Può esserlo, ad esempio, per il Parco Nazionale della Costa Teatina. Si tratta di un Parco terrestre che tutela la meravigliosa area costiera che 30

va da Ortona sino a San Salvo, una fascia costellata da Siti di Interesse Comunitario e Riserve Naturali Regionali, a testimoniarne l’incredibile valore naturalistico. Un Parco che potrebbe, se il governo deciderà finalmente di cancellare la vergognosa inedia su questo argomento mostrata dagli ultimi due esecutivi, trasformarsi anche in un formidabile volano per lo sviluppo economico di un territorio da troppi anni in crisi. Area protetta terrestre, dicevamo, della quale la foto scattata dal paramotore da Giuseppe Sigismondi ci offre in queste pagine un inconsueto scorcio, il cui confine a est coincide con la linea di costa. Se andiamo oltre la battigia e scendiamo in acqua ci troviamo dunque non più nel Parco ma in quello che potremmo tranquillamente considerare il suo lato B. Una discesa graduale, con l’aiuto delle fotografie subacquee di Roberto Brenda, che ci aiuterà a orientarci in un mondo ai più sconosciuto ma certamente ricco di fascino. A pochi centimetri di profondità, tra gli scogli delle barriere frangiflutto, artificiali ma lì da decenni e ormai in qualche modo naturalizzati, abbiamo le prime sorprese. Un granchio battagliero mostra minaccioso le chele a chi osa disturbare la sua quiete mentre un diafano gamberetto si concede ai raggi del sole che disegnano tracce di arcobaleno sul fondale. Poco più in là una rara bavosa a guance gialle si affaccia sospettosa dalla sua tana, pronta a sparire al minimo cenno di pericolo. È più audace la bavosa pavone


che si fa vedere mentre nuota cauta tra le alghe ma anche lei scomparirà in un attimo se solo provate a ridurre la distanza di sicurezza. Che dire invece del sarago fasciato che si intravede tra gli scogli, nuotatore prudente ma curioso, pronto a offrirsi all’obiettivo che lo spaventa e lo affascina allo stesso tempo? Mostra una totale indifferenza, invece, il ghiozzo che scivola tranquillo sulla sabbia confidando nella sua livrea mimetica… Un mondo favoloso, del quale vi abbiamo qui offerto solo un piccolo assaggio: lo spazio a disposizione non ci consente di andare oltre. Un assaggio che sta a dimostrare quanto abbia da offrire il… lato B del Parco. Una gestione intelligente regalerebbe al territorio un’area protetta capace insieme di tutelare e di promuovere. E il lato B, il fondo di un mare che sulla costa teatina è in gran parte preservato, ha molto da offrire a chi sa apprezzarlo. Del resto persino La canzone di Marinella, il testo che tra il 1967 (prima incisione di Mina) e il 1968 ha lanciato un impareggiabile e indimenticabile poeta della canzone come Fabrizio De André, era stata relegata qualche anno prima, nel 1964, sul retro di Valzer per un amore. Un esordio in sordina per una canzone tra le più belle di sempre del repertorio italiano. Chissà se anche il Parco, quando prevarrà il buonsenso e sarà finalmente attivato, riuscirà a dare il meglio di sé proprio con il suo sottovalutato lato B?

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CONTAMINAZIONI MUSICA MADE IN ABRUZZO

MUSICA VARIOPINTA Il CD che trovi in allegato a Vario è stato realizzato con 17 brani di generi differenti, eseguiti da cantanti, musicisti e gruppi di artisti di fama internazionale. Il loro obiettivo? Essere ambasciatori dell’Abruzzo e della sua cultura di Fabio Ciminiera

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ontaminazioni, un termine bello, significante, importante ancora oggi, anzi oggi più che mai. Contaminazioni è il titolo di un CD pensato e realizzato in Abruzzo da abruzzesi. Contaminazioni è un prodotto musicale variegato, aperto al confronto tra esperienze diverse, trasversale. Il disco nasce dall’unione di musicisti locali che si sono fatti conoscere in giro per il mondo e raccoglie le registrazioni che questi hanno prodotto negli anni. Il prossimo 13 agosto tutti gli artisti che hanno partecipato al disco si troveranno al Porto Turistico di Pescara per presentare dal vivo, in concerto, i brani e le atmosfere presenti nel CD. In quella occasione, verrà anche promossa la raccolta fondi organizzata per la costruzione del secondo monumento in Europa, il primo in Italia, dedicato al Samudaripen, vale a dire lo sterminio da parte dei Nazisti dei popoli Sinti e Rom, un genocidio totalmente dimenticato. Ideatore del progetto e promotore del sodalizio di artisti è Santino Spinelli, in arte Alexian, musicista, poeta, saggista, musicologo e docente di cultura Rom. «Circa un anno fa, ci siamo trovati a cena, come buoni amici quali siamo, viste le numerose collaborazioni che uniscono molti di noi. L’idea di realizzare un disco è nata così. All’interno di Contaminazioni, gli ascoltatori potranno trovare otto artisti di fama internazionale, abruzzesi, con la partecipazione straordinaria di uno degli attori più apprezzati: Silvio Orlando, che ha duettato con me recitando alcune mie poesie, lui in lingua italiana, io in lingua Rom, accompagnati dall’Orchestra Europea per la Pace. In copertina abbiamo, inoltre, un’opera della pittrice abruzzese Carla Cerbaso. Si passa dalla musica classica al pop, dalla musica etnica al jazz: tante dimensioni artistiche di musicisti che hanno avuto successo girano il mondo. Il prodotto musicale è variegato e di grande spessore artistico. Abbiamo voluto creare un 32

lavoro sobrio, asciutto, puntando su qualità ed eleganza. Oggi è necessario fare squadra, mettersi insieme, invece che essere in competizione l’uno contro l’altro. Credo che sia davvero un bel segnale vedere questo gruppo di artisti di fama internazionale, “ambasciatori” del nostro Abruzzo nel mondo. Nessuno di noi fa musica abruzzese ma tutti siamo contaminati nella nostra espressione artistica dall’essere abruzzesi. Ad esempio, io faccio musica rom, la mia però è una musica rom dal carattere tipicamente locale. E i miei tre brani presenti nel disco lo confermano. “Alba Balcanica” è nata in occasione di un concerto a Belgrado. Un brano molto pregnante, forte, reso ancora più coinvolgente dall’apporto di Dino Tonelli alla tromba e Andrea Castelfranato al bouzouki e alla chitarra: altri due artisti abruzzesi di fama internazionale. Poi ho interpretato l’inno dei Rom, “Djelem, Djelem”, che nella lingua dei Rom abruzzesi diventa “Gijem Gijem”: un’esecuzione particolare di un brano famoso in tutto il mondo. E, infine, le mie poesie, con il grande Silvio Orlando, in italiano e in lingua rom: una di queste poesie si trova incisa al Memoriale delle Vittime Sinti e Rom del Nazismo di Berlino, monumento che ho avuto l’onore di inaugurare insieme ad Angela Merkel nel 2012. Ma ogni musicista ha portato il suo mondo espressivo. Si passa, così, dalla musica rinascimentale e barocca dei Fairy Consort, guidati da Luca Dragani, al jazz di Walter Gaeta, dalla musica classica di Antonio Cericola alle splendide interpretazioni di Piero Mazzocchetti, dalla grande esperienza dei Fiati Italiani alle composizioni di Maurizio Di Fulvio per arrivare infine alla rilettura di un brano di Piazzolla eseguito da Marco Colacioppo con il violinista dello stesso Piazzolla. Siamo tutti legati alla nostra terra ma siamo andati in giro per il mondo: ci tiene insieme la coscienza di sapere da dove siamo partiti e l’amore per


Piero Mazzocchetti, Gennaro Spinelli e Alexian Santino Spinelli. In alto la copertina del CD

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Walter Gaeta, Gennaro Spinelli, Antonello Pellegrini, Piero Mazzocchetti, Alexian Santino Spinelli e Luca Dragani

queste radici, oltre naturalmente a una grande amicizia. Ognuno ha saputo mettere a disposizione dell’altro la propria professionalità.» L’unico personaggio che non ha le stesse radici territoriali è Silvio Orlando il grande attore protagonista di molti film di Nanni Moretti. «Ho conosciuto Silvio Orlando - dice Santino - qualche tempo fa: aveva letto un mio libro pubblicato per Baldini & Castoldi, con la prefazione di Moni Ovadia, e mi ha contattato quando stava girando un film con la Comencini. Da quel momento è nata un’amicizia sincera e l’ho invitato al Teatro Fenaroli di Lanciano, in occasione di un concerto che avrei tenuto con l’Orchesstra Europea della Pace. Abbiamo registrato le poesie che ha declamato sul Samudaripen e, con il suo permesso, le abbiamo inserite in Contaminazioni. Un momento assolutamente originale, l’unica opera presente nel cd del tutto inedita dal punto di vista discografico». L’Abruzzo nel mondo «Sembra brutto dirlo, ma spesso è difficile far uscire l’Abruzzo da un certo provincialismo. Le ragioni sono tante... E la conferma viene dal fatto che la maggior parte degli artisti presenti nel disco si è affermata fuori dall’Abruzzo. Da noi mancano molte delle strutture necessarie per uscire fuori a un certo livello, l’arte non è sostenuta a dovere. In senso inverso, lo stesso discorso vale per la mia musica: sono pochi a conoscere, qui in regione, la particolarità del mio linguaggio musicale, che riprende e espande quello dei Rom d’Abruzzo, e la novità che questo rappresenta nel panorama romanì internazionale a fianco delle musiche balcaniche e dell’Est Europa, del jazz manouche e del Flamenco spagnolo. Un percorso difficile che mi sta aprendo molte strade: la contaminazione mi ha aiutato. Nella mia anima ho trovato tutte le risposte per la mia musica: in me trovano posto sia le radici orientali sia quelle mediterranee e occidentali, la variante abruzzese offre quell’accento inatteso, per certi versi. La mia identità è plurima, prismatica. Sono rom, sono 34

abruzzese, sono italiano, sono mediterraneo, sono europeo. Allo stesso tempo, però, mi viene un’eco lontano dall’India, il luogo di origine della mia gente. E questo viaggio dall’India all’Europa - passando per Armenia, Persia e Impero Bizantino - ha avuto un’influenza sul modo di pronunciare i singoli suoni e le parole. E nella mia lingua, nel mio modo di cantare i brani romanì, si aggiunge anche la tipica maniera abruzzese di porgere gli accenti, di troncare le parole: la mia musica è in modo naturale la contaminazione di tante culture». Piero Mazzocchetti è sicuramente l’artista più noto del gruppo, partecipazioni al Festival di Sanremo e a molti programmi televisivi nazionali, ma con grande esperienza internazionale. «Ogni traccia presente all’interno del disco è diversa dalle altre. Quindi, offre la possibilità all’ascoltatore di assaporare la musica colta, la musica popolare, il crossover e via dicendo. Le singole tracce sono diverse tra loro per arrangiamento, sonorità, esecuzione, dinamiche, vocalità e registrazione. Va fatto un ascolto più importante e meticoloso per cercare l’identità ubicata nella nostra regione. Siamo artisti con esigenze, passioni e studi musicali differenti ma che hanno accresciuto e coltivato le proprie passioni in questa terra. Sta a chi ascolta scoprire cosa accomuna le tracce all’interno del disco... noi lo sappiamo, ma l’ascoltatore deve scoprirlo passo passo: non possiamo dirglielo noi. È come risolvere un rebus o trovare la chiave per decifrare un codice: in questo caso, il codice è sottilissimo. Sono sicuro, però, che i palati più fini sapranno cogliere il filo del nostro lavoro: d’altronde, Contaminazioni non è un progetto per tutti, è un progetto per dimostrare che l’Abruzzo ha una sua cultura musicale davvero molto importante. Con Santino ci si conosceva di nome: avevamo una stima reciproca, legata alle rispettive carriere, ma non avevamo mai avuto il piacere di incontrarci di persona. Qualche giorno dopo il nostro primo incontro, mi ha telefonato per dirmi che stava facendo un cd in cui avrebbe raccolto alcune


Maurizio Di Fulvio, Antonio Cericola, Santino Spinelli, Luca Dragani e Gennaro Spinelli

“contaminazioni” musicali, attraverso i brani di alcuni artisti abruzzesi e mi ha chiesto se mi faceva piacere partecipare. Ho aderito subito con enorme piacere perché era appena uscito il mio disco “Istante”, con Peppe Vessicchio. Essendo l’editore del lavoro, ho potuto scegliere di estrapolare le tracce “La via del Cuore” e “L’attimo fuggente” da unire al progetto di Santino. Tra l’altro, per dire di come l’Abruzzo sia presente in questo percorso, il secondo brano è stato composto da Maurizio Fabrizio, un autore fondamentale per la canzone italiana e di origine abruzzese. Contaminazioni è un disco del tutto diverso da quelli che ho realizzato in questi anni: il crossover, però, è una forma musicale ricca di tante contaminazioni, appunto. Nella musica di Santino, ad esempio, ritrovo tante fragranze che mi hanno sempre interessato: i miei primi produttori in Germania erano, in realtà, ungheresi e ho suonato con artisti che, a loro volta, avevano suonato con Santino, personaggi che hanno fatto la storia della musica rom. E, quando ci siamo ritrovati insieme a cena, abbiamo tracciato una storia comune di collaborazioni musicali ed extramusicali: eravamo vicini ma le nostre anime artistiche non si erano mai incontrate». Credere nei talenti dell’Abruzzo «Tante regioni italiane hanno fior fiore di artisti, conosciuti e acclamati nel mondo. Siamo pochi, invece, ad aver avuto un grande risalto partendo dall’Abruzzo, sostiene ancora Mazzocchetti. La nostra è una regione che non riesce ancora a produrre artisti al suo interno. forse per una carenza di strutture, per una carenza culturale, per un gap generazionale, per la mancanza degli interventi della politica. Ad esempio, stiamo facendo l’intervista nella mia accademia, una scuola privata a tutti gli effetti, senza sovvenzioni pubbliche: mi sono autofinanziato per creare una struttura che desse ai talenti locali la possibilità di non dover per forza emigrare come è successo a me venti anni fa. Se l’Abruzzo crede nei suoi talenti, deve anche creare strutture e infrastrutture per non farli emigrare. E la difficoltà più grande dell’Abruzzo, a mio avviso, è proprio

quella di non riuscire a mettere i suoi talenti in condizione di crescere». Una tavola imbandita di musica ed emozioni «Il concerto che faremo quest’estate sarà come una bellissima tavola imbandita dove ci sono tanti ospiti e ogni ospite porta qualcosa da casa. Ogni musicista porta la sua conoscenza, le sue specialità, la consapevolezza di quello che riesce a creare con la sua cultura e con la sua storia. Ogni piatto avrà la sua prelibatezza: noi cercheremo di realizzare un salotto musicale per accogliere le persone che verranno ad ascoltarci e per appassionarle a questo progetto, cercando di superare pregiudizi. Cercheremo di dimostrare a noi stessi - ma anche agli altri - che l’Abruzzo è una terra che non è solamente brava a strillare quando c’è una difficoltà ma è brava anche quando si parla di cultura e tradizioni». Contaminazioni e crossover «Nella mia vita ho avuto sempre la fortuna di essere sempre disponibile e piacevolmente permeabile a nuovi ascolti. Il crossover è uno stile che ha bisogno di conoscenze musicali a 360°: un artista ha bisogno di ascoltare tutto con attenzione e di raccogliere tutto per proporlo in una nuova musica. Cerco di essere assetato di conoscenza per cantare e comporre sempre qualcosa di nuovo, perché non è solo nel modo in cui scrivi ma anche nel modo in cui interpreti le canzoni che puoi aggiungere la tua personalità. Credo che un musicista non debba mai fossilizzarsi su quello che fa e solo su quello che fa. La collaborazione, a mio avviso, è frutto di sicurezza, della consapevolezza di essere un artista che sa parlare con la sua musica, che sa utilizzare un linguaggio universale eccellente e che può incontrare altre maniere di declinare quel linguaggio. La musica non ha pregiudizi: non esistono colori, barriere, razze nella musica. E, quindi, penso che sia arrivato finalmente il momento in cui amici musicisti si incontrino per dare vita insieme a un progetto come questo».

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I PROMOTORI DELL’IMPRESA PIERO MAZZOCCHETTI Dopo aver inciso il suo primo album “L’eternità”, disco d’oro in Germania, nel 2007 partecipa, classificandosi terzo, al Festival di Sanremo con il brano “Schiavo d’amore”. Il suo più recente lavoro discografico, “Istanti”, vede la collaborazione del Maestro Peppe Vessicchio, che ha arrangiato e diretto l’orchestra. Partecipa a numerose trasmissioni televisive, tra le quali, nell’autunno 2017, “Tale e quale Show” su RaiUno. Dal 2013 è “Testimonial UNICEF” e, per il biennio 2017/19, “Testimonial UNITALSI”. ALEXIAN SANTINO SPINELLI Santino Spinelli, in arte Alexian, è musicista, poeta, saggista, musicologo e docente. È fondatore e presidente dell’associazione culturale Thèm Romanò (mondo romanò) e, nel 2001, è stato eletto, unico rappresentante per l’Italia, al parlamento dell’Unione Internazionale Romaní (IRU). Spinelli ha cantato il Murdevele (Padre Nostro in lingua romanì) per Papa Benedetto XVI a Bresso in occasione della Giornata Mondiale della Famiglia e ha eseguito tre sue composizioni per Papa Francesco sul sagrato di San Pietro. La sua poesia “Auschwitz” è incisa sul monumento dedicato alla memoria del Samudaripen, il genocidio di Sinti e Rom durante il nazismo, a Berlino. ANTONIO CERICOLA Compositore e direttore d’orchestra, Antonio Cericola è stato in cartellone, tra gli altri, con i Berliner Philharmoniker, Luciano Pavarotti, Filarmonica di Vienna, London Symphony. La sua musica è eseguita in tutto il mondo nei più importanti festival, rassegne e concerti. Nel 2018 viene istituito il premio internazionale Antonio Cericola Award dedicato alle arti della musica del teatro, della danza e del cinema. MARCO COLACIOPPO Pianista, ha tenuto concerti in Italia (Gran Teatro “La Fenice” di Venezia in diretta su RaiUno, Teatro Arcimboldi di Milano) e in tutto il mondo. Hanno detto di lui: «La sua performance è stata molto emozionante come solo raramente si vive». «Il suo magico mondo di suoni è pieno di luce e pianisticamente raffinato» (Rainer Köhl - Rhein-Neckar Zeitung Heidelberg). Insieme a Fernando Suarez Paz, il violinista al fianco di Astor Piazzolla, ha suonato in diretta a Lugano negli studi della Rete2 della RSI, Radiotelevisione Svizzera Italiana. WALTER GAETA Musicista dinamico e originale capace di esprimersi in un pianismo melodico, ritmico e autentico. Nelle sue composizioni unisce colori e linguaggi diversi creando spazi inesplorati in continua evoluzione e dando vita ad una imprevedibile e personale ricerca musicale dove si uniscono la pratica del jazz e il senso della scrittura musicale. FAIRY CONSORT Fondato e diretto da Luca Dragani nel 1982, il Fairy Consort ricerca ed esegue musica dal Medio Evo al Barocco con criteri filologici ed adottando copie fedeli di strumenti storici. Ha effettuato concerti in Italia, Svizzera, Slovenia, Polonia. Ha registrato per la RAI e per Polskie Radio Zachod. Ha inciso per Panidea. L’ensemble è formato da Paola Incani, Nara Montefusco (mezzosoprani), Luca Dragani, (flauto dolce tenore, viola da gamba, cornamuto diritto basso), Roberto Torto, (flauto dolce tenore), Paolo Novelli, (cimbali, clavicembalo), Luca Matani, (viella), Maurizio Garofalo, (tenore), Mariusz Szymanski, (baritono). I FIATI ITALIANI I Fiati Italiani nascono nel 1992 su iniziativa della Società Italiana della Musica e del Teatro - SIMT. Antonello Pellegrini da subito ne ricopre il ruolo di Primo Clarinetto Solista. I Fiati Italiani hanno tenuto concerti nelle più prestigiose sale del mondo, come la Carnegie Hall di New York, la Kaiser Sala di Vienna e la Melba Hall di Melbourne. Hanno inciso numerosi CD con collaborazioni prestigiose, come quella con I Solisti del Teatro alla Scala di Milano, e prime incisioni mondiali, tra le quali quella delle musiche di Georg Druschetzky. MAURIZIO DI FULVIO TRIO Tra le formazioni italiane più attive della scena internazionale, il Maurizio Di Fulvio Trio suona da oltre vent’anni nei maggiori festival a fianco dei più autorevoli musicisti, con lodevoli testimonianze di pubblico e di critica. Nell’itinerario artistico del trio confluiscono jazz, musica latina, rock, tinte classiche e la sensibilità del chitarrista Maurizio Di Fulvio. CARLA CERBASO Carla Cerbaso sin dagli anni novanta espone in mostre collettive e partecipa a concorsi e premi di pittura estemporanea, ricevendo premi e segnalazioni da parte delle giurie. A partire dall’agosto 2011, quando espone a Francavilla al Mare la sua collezione dal titolo “Immagini dai sogni”, sono numerose e qualificate le mostre personali. Nel luglio 2016, pubblica il libro di poesie, “L’attesa di sempre”. 36


Strada Comunale Piana n. 24/6 Telefono+39 3470741954 - Cellulare+39 08527666 info@italolupo.it

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ANTONELLO PERSICO

NEL SEGNO DI FABER Quando scienza, arte e impegno sono il mix perfetto per una medicina formidabile Testo e foto di Claudio Carella

«È

stato il mio riferimento culturale e musicale da sempre. Avevo 14 anni quando mio fratello Mario mi regalò il vinile la buona novella che cambiò e segnò la mia vita. A molti capita di segnalare la lettura di un libro come esperienza che ti apre gli occhi, che ti fa guardare il mondo e te stesso in modo diverso. A me è capitato ascoltando delle canzoni, ma mai come per De Andrè la parola canzoni appare inadeguata e riduttiva: sono piuttosto letteratura, poesia, melodia, atmosfere, storie ed etica condensate e racchiuse nel solco del disco». Antonello Persico è chirurgo pediatra all’ospedale civile di Pescara ed è riuscito a far convire la sua professione di medico e le sue passioni: cantare De Andrè, e l’impegno sociale. Molti sono stati i suoi concerti delle cover di De Andrè serviti per raccogliere fondi per l’acquisto di attrezzature mediche o per migliorare la degenza dei piccoli pazienti. Due ecografi, la cucina per i famigliari dei ricoverati la sala giochi accanto alla sala operatoria, la climatizzazione del reparto, solo per per citarne alcuni degli obiettivi raggiunti». Insomma una vita vissuta con passione e professionalità. «Esattamente. Ma sempre ispirandosi a Faber, basta ascoltarlo e lui suggerisce obiettivi e modalità: nell’ LP tratto dall’antologia di spoon river dice: da chimico un giorno avevo il potere di sposare gli elementi e di farli reagire... Ho realizzato quindi un’altra mia passione, ma sarebbe meglio chiamarla ricerca professionale: la clownterapia. Quella pratica inventata dal medico statunitense Patch Adams che ha scritto il libro La buona salute è una questione di risate, e diventato famoso anche grazie al film del 1998 interpretato da Robin Williams. 38

Nelle foto, Antonello Persico con la sua Band in concerto e con il gruppo di clown terapia

Abbiamo fondato, assieme ad altri colleghi, un’associazione che si chiama appunto Clowndoc, della quale fanno parte dottori che ogni giorno entrano nei reparti di chirurgia pediatrica, pediatria ed ematologia dove purtroppo esistono realtà molto tristi. Con la clownterapia cerchiamo di alleviare le sofferenze di chi è costretto alla degenza in questi reparti. Per me è diventata una risorsa importante soprattutto quando si praticano manovre molto invasive e dolorose sui piccoli pazienti. Questa terapia si è affermata anche in Italia e dal 2017 la Puglia ha emanato una legge regionale che disciplina sia la “terapia del sorriso” che la figura professionale chiamata “clown di corsia”. Ma l’Abruzzo non è da meno e da 16 anni nell’ospedale civile di Pescara si organizzano corsi di formazione per operatori socio-sanitari, ma non solo: anche per chiunque sia interessato a svolgere attività di volontariato o a chi voglia utilizzare la terapia del sorriso come elemento di sollievo nel proprio ambito sociale di intervento, ma anche nella propria vita di tutti i giorni. «La clownterapia - precisa Persico - non ha bisogno di nasi rossi o giochi di prestigio. A volte basta prendere la mano di un bambino per ottenere già un sollievo. Attualmente sono circa 80 Clown Dottori che prestano attività in maniera volontaria e gratuita. Qualche anno fa abbiamo ospitato a Pescara Patch Adams, l’inventore della clown terapia. Ha apprezzato molto il nostro impegno professionale e anche le performance musicali. “Bellissime queste tue canzoni“, mi disse, accettai il complimento. Con imbarazzo». La video intervista a Antonello Persico è pubblicata sul nostro sito www.vario.it



GREGORIO ANGELUCCI

RUSTICO PER GIOCO E PER PASSIONE Alla conquista dell’Abruzzo con dadi e trattori. La proposta di un laureato in Filosofia a Chieti, batterista rock in Germania, innamorato della sua regione e del suo look stravagante

Testo e foto di Andrea Carella

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embra proprio un guerriero, più vikingo che abruzzese per via del suo look: capelli lunghi e barba ancora più folta raccolta in treccia. Ha inventato un war game dove si combatte non con i carrarmati ma con i trattori, dove l’obiettivo è quello di conquistare territori: non la Camciatca dagli Urali, ma Tagliacozzo da Scurcola Marsicana. Gregorio Angelucci, classe 1980, è nato a Chieti e vive tra Stoccarda e Ripa Teatina. Dall’età di 13 anni ha smesso di tagliarsi i capelli e da vent’anni si fa crescere la barba. «Ma dopo sette anni sia i capelli che la barba non crescono più», dice. La sua immagine rispecchia immediatamente la sua anima rustica, un dna di contadino abruzzese del quale è consapevole e orgoglioso delle sue tradizioni culturali e non solo. «Qualcuno sostiene che il mio gioco è copiato dal famosissimo Risiko ma io penso che ci sia solo una base in comune per il resto il mio Rustiko ironizza sulla guerra, è un gioco in cui ci si sfida a colpi di arrosticini, pecore e ulivi, che vuole far conoscere la regione verde d’Europa , il suo territorio, la sua bellezza e la sua cultura. Insomma quanti letterati si sono ispirati alla Divina Commedia non essendo Dante e quante riviste pubblicano cruciverba pur non avendo come testata La Settimana enigmistica?». Gregorio Angelucci ha frequentato il liceo classico a Chieti e si è poi laureato alla d’Annunzio in Filosofia, ha quindi cominciato a viaggiare per fare esperienze fuori dall’Italia, apprendere le lingue straniere e arricchire il suo bagaglio culturale. «Sono stato in Germania, a Stoccarda, dove ero già stato per sei mesi con l’Erasmus. Il proprietario di un locale che conoscevo mi propose di lavorare con lui. 40

Ma parallelamente ho continuato a fare musica, la mia passione che coltivo dall’età di 13 anni: suono la batteria, ho studiato con Denny Manzo, e mi sono esibito con diversi gruppi blues/rock, in Italia e in Germania. Ho comprato un furgone per portare gli strumenti e girare l’Europa in lungo e in largo. Ci ero talmente affezionato che gli ho dato anche un nome: Pasquale, come la ditta che ho aperto da poco, Pasquale productions. “Pasquale” è un toponimo da contadino: c’era un mio vicino (che si chiama Pasquale, ovviamente) che vedevo uscire da casa sua alle sette, in sella al trattore, con la moglie al suo fianco, e mi salutava quando andavo a scuola; spesso lo incrociavo anche al ritorno. Ma Pasquale (il furgone) serviva anche per portare olio e vino dall’Abruzzo in Germania. Oggi non c’è più, mi ha abbandonato l’anno scorso mentre tornavo a casa, a 300 km da Chieti. Vivere all’estero non ha reciso il legame con le mie origini contadine, con lo spirito che anima la gente di campagna e con l’ironia che caratterizza la quotidianità del nostro vivere semplice. E a un certo punto mi è venuta l’idea di questo gioco, un wargame all’abruzzese, che mi è venuto naturale chiamare Rustiko. E’ fatto tutto artigianalmente e con materiale ecologico: i sacchetti per contenere i trattori dei diversi giocatori sono di iuta (cuciti da mia mamma), il cartellone in cartone riciclato è una piantina dell’Abruzzo, il logo è un mio ritratto a bordo del trattore. In futuro penso anche di farne un gioco da piazza tipo le partite di scacchi a Marostica. Il Rustiko invade il centro dei paesi e coinvolge tutti». Nelle foto, Gregorio Angelucci e il suo gioco

La video intervista a Gregorio Angelucci è pubblicata sul nostro sito www.vario.it



ARTE E STORIA

TEATINI NOMEN OMEN I Romani credevano che il destino delle cose del mondo e degli uomini fosse indicato dal nome. È dal XVI secolo che l’ordine religioso dei Chierici Regolari Teatini edificano, nelle più importanti città europee, chiese di grande valore architettonico e artistico

di Marco Giannini foto Roberto De Liberato

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utto comincia da Gian Pietro Caraffa che ricoprì la cattedra di episcopus theatinus, cioè Vescovo di Chieti (l’antica Teate) nel 1505 che fondò un nuovo ordine religioso. Mentre negli anni venti del XVI secolo oltralpe furoreggia e dilaga la Riforma Protestante, Gaetano da Thiene e Gian Pietro Carafa - il futuro Paolo IV - unitamente a Bonifacio de’ Colli e Paolo Consiglieri (tutti membri dell’Oratorio del Divino Amore in Roma), danno vita alla compagnia dei “Chierici Regolari Teatini” (Ordo Clericorum Regularium vulgo Theatinorum), le cui origini si innestano «nel clima di rinnovamento che già da tempo si andava affermando nella Chiesa, dal Concilio di Costanza al Lateranense V, in profonda dipendenza, indubbiamente, dal movimento della Riforma cattolica»(1). Gli intenti primari di Gaetano erano quelli volti all’attuazione di un’incisiva riforma clericale e alla restaurazione della regola primitiva di vita apostolica; è al raggiungimento di questi precetti che egli improntò il suo apostolato, concependo l’idea di fondare una congregazione i cui aderenti abbracciassero l’idea di condurre vita in comune, legati da vincoli di povertà, castità e obbedienza. A questi scopi primordiali, si affiancherà, in un secondo tempo (e precisamente dopo il sacco di Roma del 1527), una vocazione più propriamente inquisitoria a proporsi quale garante dell’ortodossia romana(2). Il 3 maggio 1524 veniva presentata al Pontefice Clemente VII, per il necessario placet, la regola, semplice e lineare, a fondamento del costituendo Ordine, basata sull’osservazione

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dei sacri canoni e dei tre voti religiosi. La formale approvazione avvenne il 24 giugno successivo attraverso il breve Exponi nobis mediante il quale il Papa poneva i capisaldi della novella compagnia: riconoscimento dei voti religiosi, denominazione di “Chierici Regolari”, facoltà di vivere in comunità in qualunque posto avessero scelto (per questo motivo le loro dimore prenderanno il nome di «case» e non di monasteri), elezione annuale del superiore con il nome di Preposito(3). Successivamente, il 14 settembre 1524, i quattro promotori emisero la loro solenne professione dei voti nella basilica di S. Pietro in Vaticano dinanzi al vescovo di Caserta Giovan Battista Boncianni, delegato del Pontefice. La prima «casa» della comunità fu istituita presso la chiesa di S. Nicola dei Prefetti in Campo Marzio (successivamente, nel 1555, Gian Pietro Carafa, in veste di Sommo Pontefice con il nome di Paolo IV, concesse ai Chierici della sua congrega la chiesa di San Silvestro al Quirinale quale sede generalizia). Nonostante l’appellativo “Teatino” fosse stato dato sin dall’inizio al nuovo Ordine, quest’ultimo non fu mai presente nella città di Chieti; la denominazione, in verità, deriva dal già citato Gian Pietro Carafa, il quale, succedendo a Bernardino Carafa (e precedentemente allo zio Oliviero Carafa), ricoprì la cattedra di episcopus theatinus, cioè Vescovo di Chieti (l’antica Teate) dapprima dal luglio 1505 all’agosto 1524 e in seguito, in qualità di Arcivescovo, dal giugno 1537 al febbraio 1549 (Chieti nel 1526 era stata elevata a Chiesa metropolitana avendo come suffraganee Lanciano, Penne e


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Atri): da qui l’epiteto di Vescovo Teatino che mantenne fino all’elezione al soglio pontificio del 22 maggio 1555. Ebbene, essendo il Carafa il primo Preposito della nascente congregazione e rappresentando «la principal figura, e pel carattere episcopale, che riteneva, e per la dignità di superiore» (…) [tutto ciò] diede motivo al popolo di chiamar Teatini tutti que’ nuovi religiosi, che avevano per loro superiore il vescovo Teatino»(4). In ogni caso, l’appellativo ufficiale della comunità religiosa fu e rimase sempre quello di Chierici Regolari senza alcuna aggiunta esplicativa. Il termine teatino, presente ancora oggi nei dizionari, è sovente utilizzato in senso denigratorio quale sinonimo di bigotto, non in riferimento agli incolpevoli cittadini di Chieti, ma per la severità e il rigore degli appartenenti al pio Ordine o nei riguardi di coloro «ch’erano nemici di ogni elevatezza spirituale»(5). Durante il XVI secolo tale denominazione venne adoperata per definire qualsiasi sacerdote di austeri costumi; in tal modo, ad esempio, furono chiamati in Italia e Spagna gli appartenenti alla Compagnia di Gesù. Fortunatamente il titolo in questione non portò con sé solo significati disdegnosi: ad esempio, in Germania, intorno alla metà del cinquecento, era apostrofato teatino quell’ecclesiastico che, attraverso gli esercizi e le opere di fede, acquisiva grandi e proficui benefici spirituali, mentre il domenicano Abramo Bzovio nello specificare che «Secondo il senso dell’Idioma Greco, questo cognome Teatino significa illustre, spettabile, e contemplativo delle celesti bellezze», con riferimento ai 44

religiosi di S. Gaetano asseriva che «(…) esser Eglino cognominati Teatini in quanto che nell’abito, nel portamento, nelle gesta, e nella morigeratezza de’ costumi dimonstransi e Teatro, e spettacolo così al mondo, come agli Angeli (…) chiari, e celebri per Santità, e Dottrina»(6). Negli anni immediatamente successivi alla fondazione, i Chierici Regolari diedero vita a numerose comunità in varie città italiane con l’erezione di proprie «case»: nel 1528 a Verona, dove vennero chiamati dal vescovo Gian Matteo Giberti (amico di Gaetano e, soprattutto, del Carafa che aveva conosciuto durante il periodo di attività nell’ufficio curiale della Dataria); nella città scaligera restaurarono, nel 1627, la chiesa di S. Nicolò, sede della compagnia; nel 1533, grazie all’arcivescovo Oliviero Carafa (zio di Gian Pietro), fondarono una «casa» a Napoli e nel 1538 ottennero come sede la basilica di San Paolo Maggiore. Nella città partenopea, dove era stata forte l’influenza del riformatore Juan de Valdés, i Chierici vennero impiegati per la prima volta in funzione antiereticale. Sempre a Napoli, sotto la loro direzione, ebbe inizio il Monte di Pietà, da cui originò il Banco di Napoli. Su invito del Senato e della nobiltà palermitana giunsero nella città sicula agli inizi del XVII secolo, ove eressero, su un edificio preesistente, l’imponente complesso di S. Giuseppe dei Teatini. A Vicenza - città d’origine di Gaetano da Thiene - arrivarono nel 1595, richiesti dal vescovo Michele Priuli per collaborare all’attuazione della riforma tridentina; qui costruirono una chiesa intitolata proprio al fondatore Gaetano e vi rimasero


fino al momento della soppressione napoleonica del 1810. Le «case», soggette al governo centrale dell’Ordine, di regola presentavano al loro interno un noviziato e uno Studio con il relativo corpo docente. Fu necessario attendere fino a circa metà del ‘600 per giungere all’espansione della compagnia anche in Europa: in Spagna le prime sedi videro la luce grazie all’opera di Placido Mirto Frangipane (a Madrid e poi a Saragozza e Barcellona); nel 1644 venne fondata una comunità a Parigi, dove venne realizzata, su progetto del celebre architetto Guarino Guarini (peraltro membro dell’Ordine), la chiesa, ora demolita, di Sainte Anne la Royale presso il palazzo del Louvre. Nel 1648 i Teatini giunsero a Lisbona e più tardi, grazie alla protezione dell’elettore Ferdinando Maria di Baviera e a sua moglie Enrichetta Adelaide di Savoia, anche a Monaco dove eressero la chiesa di S. Gaetano (conosciuta anche come Theatinerkirche). L’edificio, con pianta a croce latina, venne progettato dall’architetto bolognese Agostino Barelli sul modello della chiesa di Sant’Andrea della Valle in Roma. I lavori iniziarono il 29 aprile 1663 e terminarono nel 1690 con la costruzione di due imponenti campanili di circa 70 metri di altezza su disegno dell’arch. Enrico Zuccalli. A quest’ultimo si deve anche l’ultimazione della cupola. La facciata, in stile tardo barocco, fu completata successivamente fra il 1765 e il 1768 da François de Cuvilliés il Vecchio. A Praga, fu eretta una chiesa intitolata a sv. Kajetán o Panna Maria u Kajetánů (Nostra Signora dei Teatini), per la quale il Guarini avanzò nel 1679 un progetto

che, però, non venne mai eseguito. La costruzione effettiva (forse sul modello proposto dallo stesso Guarini) è attribuita a Jean-Baptiste Mathey, mentre la facciata barocca (1707 circa) è opera dell’architetto praghese Jan Blažej Santini Aichel, conosciuto anche come Giovanni Santini. Altre «case» (e relativi edifici religiosi) vennero fondate anche a Varsavia e Vienna. Nelle foto, un indicazione stradale a Monaco in Germania; l’interno della chiesa di San Giuseppe dei Teatini a Palermo; la facciata esterna della chiesa di san Gaetano edificata dall’Ordine dei Teatini a Monaco di Baviera

Note: (1) M. Campanelli (a cura di), I Teatini, introduzione di G. Galasso, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1987, p. 3. (2) A. Vanni, “Fare diligente inquisizione”. Gian Pietro Carafa e le origini dei chierici regolari teatini, Viella, Roma 2010, p. 50. (3) Campanelli (a cura di), I Teatini, cit. p. 5. (4) G.M. Magenis, Vita di S. Gaetano Thiene fondatore de’ Chierici Regolari, Napoli, Festa 1845, p. 81. (5) P. Paschini, S. Gaetano Thiene, Gian Pietro Carafa e le origini dei chierici regolari teatini, in «“Lateranum”», Scuola Tipografica Pio X, Roma 1926, p. 150. (6) Magenis, Vita di S. Gaetano, cit. p. 81. 45


GENNARO SPINELLI

MI RICORDO LA DEPORTAZIONE «Avevo otto anni nel 1934 e vivevo in Abruzzo con la mia famiglia Rom, vennero i soldati tedeschi , ci presero tutti, bambini e anziani e ci misero su un treno. Non capivo perché e dove ci avrebbero portati» Lanciano ha dedicato un monumento per ricordare la Porrajmos di Fabrizio Gentile foto Claudio Carella

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uando i tedeschi lo prelevarono insieme alla sua famiglia dalla loro casa a Paglieta, in Via del Sole, Gennaro Spinelli era solo un bambino. Uno, tra i tanti, che sperimentò su di sé il disprezzo, l’odio razziale e la violenza perpetrati ai danni del suo popolo da altri uomini, sedicenti alfieri della razza ariana. Una vicenda dai contorni vaghi, sfumati, sottaciuta dai libri di storia, difficoltosa per la scarsità e la frammentarietà delle fonti e colpevolmente rimossa dalla memoria collettiva in merito agli stermini nazisti. Ma oggi, grazie alla pazienza e all’incessante lavoro di studiosi di tutta Europa, il fenomeno che va sotto il nome di Porrajmos (“devastazione”, “grande divoramento” in lingua Romanì) viene finalmente riconosciuto come la Shoah (il 14 maggio 1942 il ministro degli Affari esteri italiano inviò all’ambasciata di Berlino un comunicato riservato dove gli “zingari” venivano parificati agli ebrei e quindi anche nei loro confronti varranno le leggi antisemite in vigore). Si calcola che nell’Europa del Terzo Reich siano stati circa 1 milione e mezzo i Rom e i Sinti colpiti da deportazioni e internamento, e che in Italia le leggi razziali abbiano portato alla decimazione della popolazione “zingara” residente, prima attraverso provvedimenti di espulsione e di incarcerazione, e poi con l’internamento nei campi di circa mille persone (il 50% dei quali in età minorile) tra il 1940 e il 1943. Fu appunto nell’autunno del 1942 che Gennaro Spinelli fu deportato, assieme alla madre Rosa Bevilacqua detta Rosìnë, il padre Rocco Spinelli detto Pilòtsë, la sorella Antonia Spinelli detta Nèlla, il fratello Santino Spinelli e la sorella Emila detta Palatsònë che oggi vivono a Fossacesia. Insieme ad altre tre famiglie, per un totale di ventisei persone tra bambini, adulti e anziani, Gennaro fu caricato a forza con brutale violenza tra urla, pianti e schiamazzi, su camionette militari, e i prigionieri furono trasferiti sulla costa. Ai bambini furono tagliati i capelli. 46

Dopo aver trascorso qualche notte all’addiaccio in un campo recintato dal filo spinato nei pressi della stazione di Torino di Sangro. Dalla stazione furono deportati a Bari con un treno per bestiame e successivamente trasferiti nell’entroterra lucano in un edificio del comune di Rapolla, a 18 chilometri da Melfi, in provincia di Potenza. Lo stabile era un vecchio edificio scolastico riservato solo ai Rom e non prevedeva altri internati. Gennaro, oggi ottantunenne, ricorda che nell’internamento di Rapolla soffrirono fame e freddo ed erano costretti a dormire per terra. Contrariamente a quanto avveniva in altri campi, agli internati di Rapolla non venne concesso alcun sussidio, previsto per quei prigionieri civili che non avevano mezzi di sussistenza. Il cibo scarseggiava e mangiavano ciò che riuscivano a procurarsi attraverso il mangel (questua), tollerato dalle autorità locali: spesso racimolavano fave, scorze di patata, qualche volta mozzarelle. Denutrizione e malattie erano i nemici da combattere quotidianamente. I bambini venivano riscaldati dalle donne che avevano la premura di avvolgerli nelle loro gonne lunghe. L’internamento terminò dopo l’8 settembre 1943, quando il governo Badoglio autorizzò la dismissione dei campi e la liberazione dei prigionieri; liberazione che, per quanto riguardava i prigionieri civili italiani, era già stata autorizzata dal luglio dello stesso anno. Con l’avanzare delle truppe alleate che risalivano la penisola i campi collassarono, con i prigionieri spesso lasciati al loro destino dagli stessi che li governavano. Fu così che i 26 internati di Rapolla intrapresero il faticoso viaggio di ritorno verso l’Abruzzo, a piedi, attraverso le campagne e le strade secondarie. Suo figlio Santino, che oggi è uno dei principali ambasciatori della cultura Romanì in Italia, ha voluto riportare alla memoria la storia di suo padre e con essa quella del popolo riuscendo a realizzare un monumento ricordo che sarà inaugurato a Lanciano.



GIOVANNI DI IACOVO - GIAMPIERO MARGIOVANNI

IL PULP ADRIATICO di Marco Tabellione

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crittore dalla verve e dalla battuta pronta, di grande intelligenza e capace di catturare il lettore con scene mozzafiato, costruite partendo da una immaginazione notevole e di forza cinematografica, a suo tempo Giovanni Di Iacovo, oggi tra l’altro assessore alla cultura del comune di Pescara, apparve come una delle figure più promettenti della narrativa abruzzese. Oggi è una realtà fondamentale del panorama regionale e nazionale, inventore del pescarese festival delle letterature e protagonista indiscusso della vita culturale abruzzese. Orme e meriti che il giovane scrittore di Atri, Giampiero Margiovanni, si avvia forse a ripercorrere, almeno dal punto di vista delle sfumature letterarie e narrative. Entrambi infatti prendono in prestito a piene mani dalle tecniche di suspense del thriller, pur rifiutandosi di scendere troppo a patti con un genere ripetitivo e, artisticamente ed esteticamente parlando, forse limitato. «Non sono un amante del thriller in genere - confessa Di Iacovo - ma ne utilizzo gli elementi perché per me il ritmo, la struttura della trama, l’intrigo, il mistero e la costruzione di un piacevole interesse nel lettore sono il cuore del mio lavoro. Di romanzo in romanzo, però, cerco di evolvere e migliorare la mia capacità di utilizzare gli strumenti artigianali (e alchemici) della scrittura studiando e ricercando ma sempre mantenendo lo stesso Dna, per non tradire né me stesso né i miei lettori». Più devoto nei confronti del giallo e del noir, anche Margiovanni però riconosce di mutuare gli aspetti tecnici del genere, piuttosto che l’orizzonte culturale ed estetico. «Più che thriller, sostiene infatti quest’ultimo, mi piace vedere il mio romanzo come una sorta di favola moderna: con la fatina buona, gli orchi cattivi e i bambini da salvare; anche perché la trama, nel suo scheletro, prende spunto da un sogno fatto da mia nonna diverso tempo fa che poi ho riadattato in base ad esigenze di narrazione. 48


Il romanzo per descrivere la realtà locale dove gli autori vivono assieme ai loro personaggi

Nelle foto: a sinistra, Giovanni Di Iacovo; a destra Giampiero Margiovanni

Il prof. Vito Moretti, autore della prefazione, ha voluto inserirlo sotto questa categoria, e per questo non posso che ringraziarlo. Quando ho iniziato a scrivere I sogni nelle lacrime la mia intenzione era di far conoscere la storia e basta, non avrei mai pensato che potesse essere definita tale. Ad ogni modo il thriller è un genere che leggo volentieri, Jeffery Deaver su tutti, perché ho una vera passione per i colpi di scena. Non so se definirlo un genere di nicchia, ma credo che comunque sia in espansione grazie ad autori importanti come il sopracitato Deaver, ma anche a Donato Carrisi che con l’opera La ragazza della nebbia, sia libro che film, credo si sia superato». Ma come i due scrittori considerano le loro rispettive opere, in special modo gli ultimi romanzi, nel caso di Di Iacovo, ad esempio, fresco di stampa? Si tratta infatti di Confessioni di uno zero di cui l’autore parla sintetizzando la trama. «La protagonista - spiega Di Iacovo - una ragazza di nome Vianna, perde la memoria in seguito ad un incidente e la recupererà negli anni grazie a una terapia ipnotica. Quando è a un passo dallo sposarsi con il ragazzo che ritiene abbia sempre amato, scopre che molti dei ricordi che le hanno indotto non sono veri e che lei è molto diversa da quella che hanno cercato di farle credere. Inizia così a svelare la scacchiera di interessi in cui è incastrata la sua vicenda. E il suo incidente. La storia si articola tra una provincia degli anni ’80 e il presente. E’ un romanzo che ha elementi sia molto ironici che tragici, e il tema centrale è quello delle diversità». Meno dipanato nel tempo, e più concentrato su un unico episodio appare invece il lavoro narrativo di Margiovanni. «I sogni nelle lacrime - confessa Margiovanni - è il mio primo romanzo, edito da Tabula Fati di Marco Solfanelli. È la storia di nonna Angelica e dei due fratelli, Max e Leo, che vengono rapiti da una coppia 49


di malavitosi affiliati a una banda dell’est Europa che tratta il mercato nero degli organi. I tre protagonisti vengono portati in un vecchio casale abbandonato dove attendono la loro inesorabile fine. Tutto finirebbe qui, se non fosse per nonna Angelica che, nonostante la sua non più giovane età, riesce a mettere i bastoni tra le ruote ai loro aguzzini. Infatti è proprio grazie alla sua tenacia e alla sua forza che i due bambini riescono ad affrontare non solo il momento sconfortante del sequestro, ma anche il loro diretto antagonista. Il coraggio che la nonna infonde ai propri nipoti fa sì che entrambi riescano a riemergere dal buio del loro “carcere” rafforzati e pronti a sconfiggere il male che li aspetta al di fuori di esso». L’estro e le capacità ritmiche di entrambi i narratori abruzzesi, sorgono da una grande attenzione data al panorama italiano contemporaneo, dalla capacità di cogliere il nuovo, l’inedito, il percorso originale e poco battuto. «Credo - commenta a questo proposito Margiovanni - che il panorama narrativo di oggi sia ricco di autori davvero interessanti, personalmente sono sempre alla ricerca di scrittori il più possibile vicini a me. Da lettore, devo dire che preferisco i romanzi contemporanei ai grandi classici, senza sminuire l’importanza che questi ultimi hanno nel background culturale di tutti noi. Scegliere di leggere un autore contemporaneo è una scommessa che va fatta, che poi però deve essere vinta, ma questo è un rischio che spetta agli addetti ai lavori e a chi sceglie le opere da portare avanti, come ad esempio le case editrici». Dalla sua Di Iacovo si mostra tuttavia scettico sul panorama narrativo nazionale, denunciando una generale mancanza di coraggio. «La narrativa contemporanea in Italia? - sbotta denunciando una visione pessimistica - Una letteratura fifona. Una narrativa senza sangue nelle vene, cauta, autocensurata, ripiegata su se stessa, che non si apre alla grande letteratura del mondo, alle evoluzioni della realtà, che teme di andare fuori dal seminato. E che per questo 50

fallisce - e qui rivolgendo lo sguardo all’orizzonte interno regionale - “ in Abruzzo conosco grandi scrittori che sono anche ottime persone, in una regione isolata dai contesti e dai circuiti culturali come l’Abruzzo, si deve faticare il triplo per emergere ed essere conosciuti da tutto il Paese, quindi onore agli scrittori abruzzesi». Un punto in difesa della narrativa abruzzese che Margiovanni appare condividere totalmente. «Credo che la narrativa contemporanea abruzzese stia emergendo sempre di più negli ultimi tempi - conferma infatti - molto probabilmente ha raggiunto l’apice con la vittoria del Premio Campiello da parte della Di Pietrantonio. Quindi possiamo parlare di corrente narrativa abruzzese grazie all’autrice de L’Arminuta, ma anche grazie a personaggi del posto come Alessio Romano, ad esempio, che con la loro narrativa sono riusciti a portare una fetta di Abruzzo sul piano nazionale facendo conoscere attraverso le loro opere la nostra regione, tra le luci e le crepe che la contraddistinguono». Sulla possibilità di individuare una corrente regionale che si contraddistingua, tuttavia, Di Iacovo mette le mani davanti. «I tanti bravi autori della nostra regione - sottolinea hanno a mio avviso talenti non omologabili tra loro. Prendi ad esempio me, Giovanni D’Alessandro e Donatella Di Pietrantonio, siamo grandi amici, ci stimiamo e ci leggiamo reciprocamente ma i nostri lavori sono davvero molto diversi. L’unica cosa che ci accomuna è forse il “gap” della provenienza dalla “Provincia dell’Impero” che abbiamo dovuto superare. Va detto poi che la provincia è un gap da un lato, ma uno straordinario serbatoio creativo dall’altro». E subito dopo conferma l’ottimo rapporto con i colleghi abruzzesi, almeno dal punto di vista della stima, se non proprio dell’influenza reciproca. «I miei rapporti con l’ambiente letterario abruzzese sono davvero ottimi, lo dico con piena sincerità. Organizzando da quindici anni il Fla e pubblicando romanzi da più di vent’anni, ho conosciuto e fatto amicizia con tutti gli amanti


della penna del nostro territorio. Meno snob e spocchiosi di altre realtà dove scrivi per poter dire alla signorina del pub “ehi ciao sono uno scrittore!” e dove con un mezzo libro pubblicato a pagamento già ti senti di scriverti su facebook “scrittore” alla voce “occupazione”. Qui da noi la scrittura è fisica e sudata come fossimo “cafoni narrativi” di siloniana memoria». Su questo punto invece è piuttosto Margiovanni, il quale è anche poeta, a indicare punti di criticità. «Ho partecipato alla giornata mondiale della poesia per diversi anni - ricorda a proposito - e attraverso le presentazioni e altri eventi ho avuto la possibilità di conoscere tanti autori abruzzesi come me. Ho notato che c’è tanto rispetto per il lavoro dell’altro, ma forse allo stesso tempo c’è anche poco interesse. Quando mi confronto con altri scrittori, nella maggior parte dei casi ho l’impressione che ognuno abbia voglia di parlare della propria opera, mentre invece sono davvero in pochi quelli che vogliono ascoltare la tua. C’è una specie di “egocentrismo” presente in molti autori. Questa cosa divide, invece credo che in un mondo complicato come quello dell’editoria, soprattutto tra i meno conosciuti, dovremmo aiutarci a vicenda mettendo noi stessi da parte per un momento». E l’idea di una collaborazione reciproca da scrittori regionali si sposa alla perfezione in Margiovanni con l’affermata necessità di un maggiore controllo critico soprattutto da parte delle case editrici. «In questo ambito ci servirebbe un po’ più di meritocrazia, chi è bravo deve essere portato avanti e la casa editrice deve saper riconoscere chi vale e chi no, cercando anche di valorizzare a livello nazionale chi ha le giuste qualità. Questo discorso credo che valga sia per l’Abruzzo che per l’Italia in generale. Si dovrebbero dire più “NO” a chi propone manoscritti e vede la scrittura come un hobby, perché scrivere è una cosa seria e non è vero che tutti possono fare tutto. I libri sono il cibo della mente e credo che nessuno voglia rimanere intossicato». Del resto tra le righe lo stesso Di Iacovo si pronuncia contro

la facilità di spacciarsi scrittore su facebook o per far colpo sugli altri, reclamando la necessità di un maggiore impegno e maggiore serietà da parte di tutti, scrittori ed editori. D’altra parte le predilezioni letterarie dell’attuale assessore alla cultura pescarese appaiono di tutto rispetto e collocate in una prospettiva medio alta, fortemente intellettuale. «Personalmente adoro la letteratura americana - commenta svelando i propri gusti - quella di Wallace, Palahniuk, Ellis ma anche quella sudamericana (specie il realismo magico) di Cortazar, Allende e Gutierrez. Nei miei romanzi c’è anche molto fumetto, musica, cinema e anche molti serial: Lost, Twin Peaks, True Detective, Preacher, Fargo, Dexter e i loro eredi sono il nuovo “feuilleton” di qualità». Più legato invece al panorama nazionale contemporaneo appare Margiovanni il quale confessa: «Mi piace Baricco, D’Avenia, Deaver, Zafòn, Lansdale, ma sarò felice di essere ripetitivo: Niccolò Ammanniti è il mio autore preferito ed il mio punto di riferimento. Adoro il suo stile e i temi che tratta. Non amo i troppi perbenismi né le frasi infiocchettate e le smancerie, mi piace sentire l’intensità delle scene che vengono descritte, mi piace leggere (e scrivere) della vita nuda e cruda che ti si palesa davanti e, in questo genere “pulp”, Ammanniti è un vero maestro. Ho letto tutti i suoi racconti e sento che quello che mi trasmette è uguale a ciò che vorrei trasmettere io quando scrivo. Mi ispiro molto a lui, e spero un giorno di potermi avvicinare al suo livello». Su un punto dunque i due scrittori sembrano molto vicini: la lettura intensa di autori che possano influenzarli per la loro carica emotiva e sanguigna, perché nella parola che racconta cercano tratti salienti della realtà che li circonda.

Le video interviste agli scrittori sono pubblicate sul nostro sito www.vario.it 51


UNIVERSIVARIO

FARE I CONTI SULLA FELICITÀ Emanuele Felice, docente di economia all’Ateneo Gabriele d’Annunzio, in un suo volume, sostiene come i due termini siano strettamente collegati e influiscano sulla nostra esistenza

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viluppo economico e felicità. Ricchezza e piacere. Benessere e sorrisi. Esiste una relazione? Com’è cambiato nei secoli il rapporto tra l’uomo e i suoi stati d’animo attraverso l’evoluzione dell’economia? In che modo il progresso tecnologico ha influito sulla felicità? Le risposte vengono fornite da un giovane e brillante docente abruzzese, Emanuele Felice, professore di Economia applicata e storia economica presso il Dipartimento di Scienze filosofiche, pedagogiche ed economiche quantitative dell’Università “Gabriele d’Annunzio” Chieti-Pescara. Nomen omen, il destino nel nome, dicevano gli antichi romani: il prof. Felice parla di felicità nel suo libro di recente pubblicazione “Storia economica della felicità” e sostiene con rigore scientifico che lo sviluppo economico è strettamente legato alla felicità. Uno studio complesso ma di grande attualità e notevole interesse che ha attirato l’attenzione e la curiosità di appassionati ed esperti. Qual è il nesso? Su cosa si fonda la sua convinzione? «Io penso che il progresso tecnologico ci possa far vivere meglio. Ritengo che abbia la potenzialità di liberarci dalle necessità materiali e così facendo di darci la possibilità di coltivare rapporti umani liberi dal bisogno. E legato a questo c’è anche un miglioramento etico della condizione umana. Tutto ciò può portare a una felicità intesa come libera ricerca del senso della vita. Senza sviluppo economico non è possibile. Obiettivo dell’economia è accrescere la ricchezza, quindi il benessere, con l’intenzione sempre rivolta alla felicità collettiva». Il meccanismo scatta automaticamente? «No. Non avviene automaticamente. Anzi. Però crea le condizioni perché ciò si possa realizzare a livello collettivo, non soltanto individuale. Nel mondo, prima del progresso scientifico c’erano, ad esempio, la schiavitù, la subordinazione delle donne agli uomini, non c’era la democrazia, non c’erano libertà fondamentali come quella di viaggiare, 52

di curarsi, di istruirsi per capire il mondo. In quel contesto, senza sviluppo economico, non c’erano le condizioni per una felicità collettiva intesa come libera ricerca del senso della vita. C’erano condizioni per illusioni imposte dall’alto o per chi era in grado di fare una ricerca individuale o di ottenere una felicità come dato fortuito e soggettivo, ma non collettivo». Dall’atarassia, dall’isolamento dal mondo, dalla gratificazione ultraterrena del passato alle due condizioni di felicità del mondo odierno: quella edonistica, fondata sul piacere, e quella etica, entrambe legate alla crescita socio-economica e alle conquiste scientifiche. Sembrano contrapposte ma sono conciliabili? «Possono essere conciliabili grazie al progresso tecnologico. Faccio un esempio. Se non c’è progresso tecnologico noi per mangiare dobbiamo uccidere altri animali sensibili come noi, maiali, pecore, agnelli, cani, mucche, ecc.. Grazie al progresso tecnologico possiamo mangiare bene senza uccidere animali sensibili come noi. Si sta infatti sviluppando una cultura di rispetto verso queste forme di vita. Questo è un modo di conciliare la felicità fondata sul piacere con quella etica. Senza progresso tecnologico noi per stare comodi dovremmo utilizzare la servitù, la schiavitù e altre forme di sfruttamento. Senza progresso tecnologico una persona che non riesce a leggere deve trovare qualcuno che legga per lui. Con i risultati del progresso tecnologico non c’è più bisogno di sfruttare altre persone. E tutto ciò ci consente anche di relazionarci liberamente con queste persone. Il mio libro affronta la relazione tra sviluppo economico e felicità dalla preistoria a oggi prendendo in considerazione la felicità ultraterrena, l’atarassia, l’isolamento dal mondo, visioni che appartengono ai secoli scorsi. Nel mondo di oggi si parla invece di felicità edonistica, fondata sul piacere, e di quella etica».


ATENEO G.D’ANNUNZIO DI CHIETI - PESCARA

Emanuele Felice

Queste teorie sono legate a dei princìpi? Lei parte da un’analisi e arriva a suggerire un percorso? «Suggerisco un percorso che si fonda sull’allargamento dei diritti umani, su quello che di importante si è fatto in questo settore nel mondo occidentale soprattutto negli anni ’50, ’60 e ’70». Qual è il ruolo delle istituzioni in questo contesto? «Le istituzioni sono il tramite tra l’economia e il benessere. La crescita economica si può tradurre o meno in benessere collettivo, in minore disuguaglianza, in maggiore uguaglianza, in più spesa sanitaria o meno a seconda delle istituzioni che abbiamo e quindi delle politiche che si attuano». E’ una teoria attuale in grado di dare risposte alla società e alle degenerazioni che abbiamo avuto nel mondo della finanza? «Penso che non ci sia nulla di più attuale da questo punto di vista. L’arricchimento personale sfrenato, ad esempio, non ci conduce alla felicità. La ricchezza va ridistribuita con attenzione particolare alle relazioni umane. Negli anni ’70 fu formulato il paradosso di Richard Easterlin, professore di Economia all’Università della California, che notava come la felicità aumenti fino a una certa soglia di benessere, di reddito individuale. Superata quella soglia di reddito la felicità non aumenta più. In relazione a questi aspetti viene messo in discussione il postulato fondamentale alla base della degenerazione della finanza: l’idea dell’arricchimento personale illimitato, che pure è stato utile all’inizio per lo sviluppo economico». “Perché il Sud è rimasto indietro” è il titolo di un altro suo libro. Qual è in sintesi la risposta? «Il Sud è rimasto indietro per la sua classe dirigente che è il risultato di un affetto sociale e istituzionale che aveva storicamente il Mezzogiorno rispetto al Centro-nord. E da quell’affetto, fondato su una disuguaglianza molto forte, è

venuta fuori tra l’800 e il ‘900 una classe dirigente che ha condotto politiche non inclusive». Al Sud occorre forse spezzare le catene socioistituzionali che lo condannano all’arretratezza. E’ ottimista o pessimista per il Sud e per il futuro dell’umanità? «Sul Sud d’Italia sono pessimista. Penso che le grandi occasioni di sviluppo ormai siano state perse. Per quando riguarda l’umanità, stando al rapporto tra sviluppo economico e felicità, sono più ottimista che pessimista. Come si inserisce la rivoluzione telemati»ca nei suoi studi? «Ha un impatto sulle nostre relazioni e quindi anche sul nostro benessere. Noi siamo all’inizio di questa rivoluzione. Si impara sempre più a usare i social. Mi riferisco all’uso che le persone fanno di facebook e di altri social per proiettare il proprio ego. Quando una persona si rinchiude in se stessa diventa ossessionata dalla felicità, dal piacere e non li ottiene. La felicità si ottiene proiettandosi verso l’esterno sulle relazioni umane». La rivoluzione telematica ha avuto meno contrasti rispetto alle altre, ad esempio quella industriale che ebbe molti oppositori. «Questa telematica è più piccola come impatto rispetto alla rivoluzione industriale. E’ una manifestazione tecnologica di un processo che comincia con la rivoluzione industriale la quale ha avuto varie ondate tecnologiche. Può essere considerata l’ultima ondata tecnologica». Proseguimento di un’evoluzione quindi e non trasformazione epocale. «La trasformazione epocale c’è stata con la rivoluzione industriale. Qui siamo in presenza di cambiamenti importanti che non produrranno gli stessi effetti». F.D.S.

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UNIVERSIVARIO

QUANDO LA MISERIA SI CURAVA COL MANICOMIO L’archivio della memoria dell’Ateneo teramano custodisce la storia degli abruzzesi nell’ultimo secolo tramandata da documenti e filmati su feste popolari e vita vissuta. Da questi studi è scaturito il volume Malacarne che la ricercatrice Annacarla Valeriano ha realizzato sulle donne rinchiuse nella struttura psichiatrica durante il fascismo

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enza memoria non c’è futuro. La storia è maestra di vita. Un popolo che ignora le sue tradizioni sarà sempre imperfetto. Per capire il presente devi conoscere il passato. Abbondano le citazioni sugli eventi che hanno caratterizzato i secoli fino ai giorni nostri. Come conservare le memorie, come scongiurare il rischio di cancellare la storia, come trasmettere ai posteri valori, abitudini, modi di vivere, emozioni e sentimenti degli antenati? Un’idea è venuta alla dottoressa Annacarla Valeriano, giovane e brillante ricercatrice dell’Università di Teramo, che ha svolto un interessante studio sulle memorie dell’Abruzzo e degli abruzzesi. Professoressa Valeriano, in cosa consiste il suo studio? Qual è la finalità? «La finalità è recuperare, studiare e valorizzare le memorie del territorio abruzzese. Sono responsabile dell’archivio della memoria dell’Ateneo di Teramo che nasce nel 2004 come realtà universitaria e dal 2008 viene gestita dalla fondazione della stessa Università. E’ un archivio che ha raccolto dal 2004 a oggi circa 130 ore di filmini amatoriali familiari realizzati con cineprese super8. Dal 2010 la ricerca si è concentrata anche sull’ex manicomio di Teramo, una delle strutture più importanti del centro-sud dell’Italia. Il manicomio è stato attivo dal 1881 al 1998. Nel suo archivio storico si contano oltre ventiduemila cartelle cliniche. Nel nostro archivio della memoria, invece, troviamo tutta la storia sociale e culturale filtrata attraverso lo sguardo delle famiglie. Accanto ai classici filmini delle feste di compleanno, matrimoni, battesimi, ecc. ci sono filmati che hanno un valore storico e antropologico rilevante. Abbiamo le feste di paese, le processioni, i riti più diffusi e diversi che riguardano la cultura dell’Abruzzo soprattutto delle aree interne. La ricerca sul manicomio di Teramo si è distinta su due filoni: da una parte lo studio delle cartelle cliniche e dall’altra il recupero delle memorie più recenti, le testimonianze di coloro che dagli anni ’50 fino alla chiusura hanno lavorato nella struttura. Con le loro memorie siamo riusciti a recuperare un tassello ulteriore della storia dell’istituzione». A quale facoltà è collegata la nascita dell’archivio della memoria? «L’archivio nasce nella facoltà di Scienze della comunicazione su im54

pulso del prof. Guido Crainz e dal 2008 viene trasferito nella fondazione dell’Università degli Studi di Teramo. Io attualmente lavoro per la fondazione». Ha lavorato dall’inizio al progetto? «Sì, dal 2004. Insieme con Andrea Sangiovanni, attualmente professore associato all’Università di Teramo, e con Guido Crainz ho fondato l’archivio della memoria. La mia tesi di dottorato di ricerca è stata incentrata, sotto la guida del prof. Crainz, sull’archivio della memoria familiare. L’ho costruito materialmente andando a recuperare i filmati. Tutto è partito da un semplice e banalissimo porta a porta, un passaparola. Abbiamo cominciato a chiedere a conoscenti chi poteva avere questi materiali e piano piano ne abbiamo acquisiti diversi. Prendiamo in carico queste pellicole analogiche, le digitalizziamo e restituiamo una copia alle famiglie assieme all’originale poiché non abbiamo spazi adeguati per conservare tutto il materiale. Si tratta in effetti di un mutuo servizio. Abbiamo però una convenzione con la biblioteca Melchiorre Delfico che può interessare chi voglia donare gli originali». Qual è stata la molla che ha fatto scattare questo interesse? «E’ stata in realtà un’urgenza. Discutendo col prof. Crainz ci siamo accorti che c’era un patrimonio di memorie che rischiava la dispersione. Mi riferisco alle memorie delle famiglie conservate per tanto tempo su supporti analogici, come le pellicole. Tante famiglie, non per sciatteria, ma perché non hanno più la possibilità di rivederli con i proiettori mandano questi filmati in soffitta o in cantina all’interno di vecchie scatole di scarpe. Si tratta di materiale soggetto alla dispersione e all’usura e di fatto alla cancellazione». All’epoca, nel 2004, anche la Rai fece qualcosa di simile. «Abbiamo realizzato nove puntate per Rai Storia tutte dedicate all’Abruzzo intrecciando immagini di repertorio con quelle del nostro archivio. Ne è venuto fuori “Viaggio in Italia”, un resoconto in nove puntate tematiche andate in onda per molto tempo. Filmati importanti che ci consentono di affacciarci con uno sguardo privilegiato sulla vita intima degli abruzzesi e comprendere modelli sociali e culturali che si sono persi nel tempo come gli antichi mestieri spariti dei quali però rimane traccia in questi filmati».


Il prof. Crainz ha seguito sempre da vicino il progetto. «Il progetto nasce da una sua idea. Lui in passato si è occupato di cinema e storia, ha avuto la cattedra di Storia dei media e di Storia contemporanea all’Università di Teramo. E’ una persona che ha spiccata sensibilità nei confronti di nuovi materiali documentali che per lo storico possono aprire prospettive di ricerca e di studio. Nei suoi libri ha sempre dato grande spazio alle fonti che possono raccontare la storia, non solo fonti tradizionali ma anche altre come cinema, filmini familiari, canzoni e tutti quegli strumenti di cui lo storico oggi si avvale». Come si è sviluppato il suo lavoro? «Nel costruire l’archivio. All’epoca svolgevo il dottorato di ricerca durato tre anni e terminato con una tesi dedicata proprio all’Abruzzo tra storia, memorie e film di famiglia. Quando si è sparsa la voce che all’Università di Teramo c’era una realtà che raccoglieva questi filmati le famiglie hanno cominciato a contattarci. Abbiamo svolto una serie di iniziative pubbliche sul nostro lavoro e costruito dei piccoli videodocumentari per restituire le memorie al territorio e far vedere in che modo questi materiali venivano valorizzati all’interno di prodotti didattici e divulgativi. Le famiglie si sono fidate di noi e hanno deciso di donarci i materiali e così nel tempo l’archivio si è allargato. Abbiamo ad esempio collaborato con l’associazione culturale di Loreto Aprutino che ci ha dato numerosi filmati più amatoriali che familiari sugli antichi mestieri di Loreto, sulle processioni del bue di San Zopito. E’ un patrimonio antropologico, storico e di memorie davvero straordinario». Solo filmati o anche fotografie? «Al momento soltanto filmati proprio perché si tratta di archivio audio-visivo. Ci potrebbe essere anche una parte fotografica che non escludiamo di sviluppare nei prossimi anni». Questi studi hanno portato alla realizzazione del suo volume Malacarne sul manicomio di Teramo. «Malacarne si occupa prevalentemente del manicomio di Teramo. La documentazione che fa da base al libro proviene dall’archivio storico e dalle cartelle cliniche dell’ex manicomio. Queste fonti sono intrecciate con tante altre per consentire un dialogo più ampio. Si è deciso di allargare la visuale dell’archivio, non restringerlo ai filmati familiari ma di occuparci anche di altre memorie come quelle dell’ex manicomio. Ho visionato le cartelle cliniche, ne ho lette settemila, le ho trascritte e catalogate. Tutto materiale studiato ma soprattutto raccontato. La memoria ha bisogno di essere tramandata se no no è come se non esistesse. Così ci siamo presi la briga di raccontare la documentazione custodita nell’archivio. Ne sono usciti fuori due libri: il primo è “Ammalò di testa”, storia del manicomio di Teramo pubblicato nel 2014 per Donzelli e poi “Malacarne”, uscito recentemente e dedicato alle donne ricoverate in manicomio durante gli anni del Fascismo e che si è aggiudicato il Premio nazionale “Benedetto Croce”. A livello nazionale il libro sta andando molto bene: siamo alla seconda ristampa nel giro di pochi mesi. I frutti del lavoro alla fine si raccolgono». Cosa ha scoperto sulla situazione femminile in quegli anni? Gli effetti arrivano anche ai giorni nostri? «Innanzitutto le cartelle cliniche sono uno strumento molto utile per capire non soltanto la condizione della donna nei manicomi ma anche tutta la società che si agita all’esterno. Le cartelle cliniche ci consentono di ricostruire in controluce i modelli culturali alla base della devianza femminile, che hanno contribuito a costruire l’immagine della donna folle, della donna che a un certo punto rompe gli schemi, travalica i confini di una normalità socialmente costruita e diventa anomala. Nel

ATENEO DI TERAMO

manicomio c’erano persone affette da malattie mentali o da disagio psichico ma non tutti erano malati mentali. C’era una buona parte di disagio sociale che veniva medicalizzato e finiva in manicomio. Il 90% della popolazione manicomiale sia femminile che maschile proveniva da campagne poverissime, investita da processi sociali che destrutturavano gli equilibri quotidiani delle persone. Si prenda in considerazione la condizione di una donna che magari lavorava per dodici ore nei campi, aveva alle spalle dieci gravidanze e viveva in regime di sottonutrizione. Ho preso in considerazione tutte le cartelle cliniche delle donne dal 1881 al 1950. E si vede che è una situazione sostanzialmente invariata di miseria materiale, morale e culturale. Una donna che sviluppava un esaurimento nervoso veniva inviata in manicomio. Prima c’erano passaggi intermedi: si interpellavano maghi e fattucchiere per interpretare l’anomalia del comportamento magari come frutto di un maleficio, di un sortilegio operato all’interno della cerchia parentale. Quando non si riusciva nemmeno con l’intervento del mago o dello stregone a porre rimedio la donna veniva inviata in manicomio. Poi si apre tutto un capitolo sulla moralità femminile. La devianza femminile si caratterizza durante il regime fascista in maniera stringente per u n’ e s u b e r a n z a sessuale. Ad essere Annacarla Valeriano condannata è la sessualità eccessivamente manifesta non orientata a scopo riproduttivo. Tutte quelle donne con una condotta fuori dagli schemi venivano sottoposte a un giudizio morale prima ancora che medico e trattenute in manicomio, che svolgeva funzione di moralizzazione sociale, un luogo dove temperare quegli istinti deviati dettati da malattia mentale o da esuberanze del comportamento. Teramo è un osservatorio privilegiato per allargare il discorso all’Italia intera». Questi studi avranno un’evoluzione? «Certamente sì grazie anche a un progetto nazionale avviato dal Ministero dei Beni culturali che si chiama “Carte da legare”. Vengono tutelati gli archivi degli ex ospedali psichiatrici in modo che possano essere resi accessibili ai ricercatori per scoprirne le ricchezze. Questi studi si inseriscono in un filone molto fecondo che avrà sviluppi importanti nei prossimi anni». F.D.S.

La video intervista a Annacarla Valeriano è pubblicata sul nostro sito www.vario.it 55


UNIVERSIVARIO

COLLEMAGGIO TESTIMONE DEI TERREMOTI La Basilica aquilana gravemente danneggiata nel 2009 è stata restaurata e riconsegnata alla città. Gli scavi hanno consentito a Fabio Redi, Ordinario di Archeologia, di ricostruire la sua storia secolare di Francesco Di Salvatore

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’Aquila e la basilica di Collemaggio: binomio indissolubile che affonda le radici nei secoli. La storia delle origini della città è legata a quella del monumento sacro, simbolo del capoluogo abruzzese, che ha offerto a ricercatori e studiosi spunti di enorme importanza per ricostruire fasi ed eventi e scoprire particolari scientifici nuovi e sorprendenti. La competenza, l’esperienza, la tenacia e la passione del prof. Fabio Redi, ordinario di Archeologia Medievale nel Dipartimento Scienze Umane dell’Università dell’Aquila, hanno creato le condizioni per consegnare alla storia un autentico tesoro, un patrimonio internazionale di straordinaria rilevanza culturale. E proprio con il prof. Redi, che guida da anni con brillanti risultati le ricerche archeologiche a Collemaggio (e in altre aree della regione), parliamo del lungo e affascinante percorso che nei secoli ha accompagnato progetti, interruzione dei lavori, costruzione e modifiche della basilica di Collemaggio. «La basilica di Celestino V e di Carlo II d’Angiò - spiega il prof. Fabio Redi - non era quella attuale, bensì molto simile a quella di Santa Maria della Vittoria, a Scurcola Marsicana, perché Carlo, a vent’anni dalla costruzione di essa da parte del padre per celebrare la vittoria su Corradino di Svevia nel 1268, intese enfatizzarne la memoria nella erigenda basilica celestiniana. Questa come quella, come hanno rivelato le ricerche archeologiche da me compiute fra il 2007 e il 2009, aveva impianto a tre navate spartite da pilastri ottagonali e crociera equilatera, a testate lineari anziché curve o poligonali. In facciata, come altre abbazie benedettine, Collemaggio era fornita di portico bipartito, con ambiente superiore a loggia, definito “thalamus” dal Cardinale Stefaneschi, cronista dell’incoronazione papale di Celestino V, che sarebbe avvenuta nella stessa loggia, della quale rimangono nell’attuale controfacciata le imposte di due archi ogivali consecutivi, in asse con la pilastrata della navata settentrionale. Rappresentante di Cristo in terra, il 56

Fabio Redi; a destra gli scavi a Collemaggio

“Pastor Angelicus”, Celestino, secondo la narrazione dello Stefaneschi sarebbe entrato trionfalmente nella città ancora in costruzione, spingendosi forse fino all’ingresso della basilica, a dorso di asinello, come si trattasse di Gerusalemme la Domenica delle Palme, e sulla loggia ancora incompiuta, significativamente definita “Galilea” in tutte le abbazie benedettine, avrebbe ricevuto l’incoronazione papale, coram populo, e un mese dopo avrebbe emanato la bolla della Perdonanza, primo Giubileo della storia. Collemaggio cela sotto terra, dietro l’altar maggiore attuale e all’esterno del braccio settentrionale, le strutture della prima basilica cancellate dalle trasformazioni trecentesche, anch’esse rinvenute con gli scavi archeologici in quanto obliterate da interventi successivi, a loro volta confluiti nell’edificio attuale, che si data dopo il terremoto del 1349». A proposito di terremoti, in che modo hanno inciso quelli devastanti del ‘300? «In effetti la nostra basilica ha dovuto fare i conti con la rinuncia di Celestino V, a breve distanza dalla sua incoronazione, e con i terremoti del 1315 e del 1349. Il cantiere di Collemaggio è infatti un esempio significativo di work in progress in quanto eventi esterni hanno interrotto bruscamente la costruzione della chiesa modificandone ogni volta il progetto originale con strutture diverse, via via incompiute perché di breve durata. Così, dopo la rinuncia di Celestino e la conseguente interruzione dei lavori, l’impianto a crociera equilatera, disassato a nord rispetto a quello attuale, fu sostituito da altro a cinque absidi semiottagone e probabilmente a cinque navate, con prolungamento del transetto meridionale fino ad addossarsi al campanile ottagonale della fase precedente. Ma anche questo progetto rimase incompiuto, perché bruscamente interrotto dal terremoto del 1315 e forse perché troppo ambizioso e insostenibile finanziariamente». Quando cominciarono i lavori per realizzare la ba-


ATENEO DELL’ AQUILA

silica attuale? «Si dette inizio in questa fase alla costruzione della basilica attuale, a sole tre navate anziché cinque, con uno spostamento dell’asse di simmetria verso sud e impostando la nuova abside maggiore con un poderoso semicerchio che in parte si addossava alla tribuna rettangolare della fase originale, una decina di metri verso est rispetto alle absidi semiottagone della seconda fase edilizia. Ma qualcosa interruppe anche questa volta i lavori, forse il terremoto del 1349, e s’iniziò la costruzione di una piccola abside semicircolare inscritta in quella precedente, in quanto di raggio minore. Con essa s’intendeva modificare il progetto della terza fase edilizia riducendo soltanto l’ampiezza della tribuna centrale o riallineando verso nord l’asse mediano della chiesa, che sarebbe stata fornita di tre absidi semicircolari, almeno nelle fondamenta, delle quali quella superstite sarebbe stata la più meridionale. Ma ancora una volta il progetto naufragò, e nella seconda metà del secolo XIV o agli inizi di quello successivo si realizzò l’abside rettangolare attuale. Il sogno angioino di presentare, con la complicità di Celestino, L’Aquila “civitas nova” come seconda Gerusalemme, la città escatologica della Terza Età gioachimita, quella dello Spirito, era ormai tramontato. Ottenuta dal fratello Luigi IX, che l’aveva acquistata a caro prezzo da Baldovino II, parte della Corona di Spine di Cristo per conservarla a Collemaggio, Carlo I, che aveva rilevato nel 1277 da Maria di Antiochia il diritto al trono di Gerusalemme, avrebbe potuto manifestare pretese in Terra Santa evocando suggestioni gerosolimitane, che il figlio e Celestino contribuirono a rafforzare realizzando la “Galilea” di Collemaggio, a doppio fornice come l’ingresso del Santo Sepolcro». Si è parlato della presenza nella basilica del Santo Graal e della Sacra Sindone. Cosa c’è di vero? «Da qui alle ipotesi della presenza del Santo Graal, custodito dai Templari in luogo segreto della basilica, e del tran-

sito della Sacra Sindone e della Santa Casa di Loreto da Collemaggio il passo può sembrare troppo lungo in quanto non supportato da dati storici o archeologici, nonostante alcune coincidenze iconografiche e cronologiche. Nel primo caso la miniatura del codice Pray di Budapest, che raffigura la deposizione di Cristo, presenta un involucro tessile con motivo a croci identico a quello del pavimento policromo che precede nella navata settentrionale della basilica la tardo-trecentesca Porta Santa attuale e a quello della quattrocentesca facciata della chiesa. Nel secondo caso, meritano una riflessione l’invocazione di Maria quale “federis arca”, Arca dell’Alleanza, e l’arrivo delle mura della Santa Casa a Loreto nel dicembre 1294, cioè poco più di tre mesi dopo l’incoronazione di Celestino nel “thalamus” di Collemaggio e a tre anni dalla sconfitta crociata di San Giovanni d’Acri, con la quale veniva ribadita la perdita del Santo Sepolcro nel 1244. Ripercorrere le vicende costruttive e simboliche di Collemaggio, come abbiamo visto, significa aprire una finestra sulla storia aquilana delle origini, dal monastero celestiniano ipogeo della falesia naturale sottostante la basilica alla forma conseguita a più riprese dalla chiesa attuale». Anche i terremoti del 2009 e quelli dell’anno scorso hanno condizionato la storia della basilica. Gli scavi riprenderanno? E’ ragionevole attendersi altre significative scoperte? «Spero che il lavoro non si fermi qui. Sarebbe un peccato. Le ricerche archeologiche dovranno andare avanti. Nell’interesse di tutti, in particolare delle generazioni future». Le istituzioni vi sostengono finanziariamente e logisticamente? «Le risorse sono esigue. Con i finanziamenti che riceviamo possiamo fare ben poco. Per fortuna sopperiamo con il valido contributo di studenti, docenti e altro personale dell’Università». 57


LA FONDAZIONE HUBRUZZO

LA VOGLIA DI SPICCARE IL VOLO La mission dei magnifici sette imprenditori (Sergio Galbiati, Ottorino La Rocca, Umberto Sgambati, Enrico Marramiero, Marcello Vinciguerra, Giuseppe Ranalli e Gennaro Zecca) è quella di rinnovare il volto dell’Abruzzo per competere con il mondo e il futuro

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na fondazione rigorosamente made in Abruzzo, all’avanguardia, tecniche e sistemi innovativi e con un obiettivo preciso e ambizioso: valorizzare le nostre eccellenze mettendo al centro del progetto l’uomo, il rispetto per l’ambiente e la qualità del lavoro. Si chiama Hubruzzo ed è nata a Rosciano, provincia di Pescara, nella cantina Marramiero per volontà di sette grandi imprenditori che cavalcano uniti verso obiettivi precisi: crescita economica, sviluppo armonico del territorio, ricerca e valorizzazione di talenti che esportano con successo nel mondo il brand Abruzzo. Un lavoro impegnativo - qualcuno la chiama missione attende Sergio Galbiati (L-foundry), Ottorino La Rocca (Valagro), Umberto Sgambati (Proger), Enrico Marramiero (Almacis), Marcello Vinciguerra (Honda Italia), Giuseppe Ranalli (Tecnomatic), Gennaro Zecca (Zecca Energia), i magnifici sette fondatori di Hubruzzo che sono riusciti a dare concretezza al loro sogno grazie anche a Roberto Di Vincenzo, società Carsa, segretario generale della fondazione, che ha innescato la rete virtuosa di imprenditori. «Un percorso avviato circa un anno fa e ora diventato realtà - rivelano gli ideatori del progetto - che nasce dall’incontro di imprenditori accomunati dall’amore per l’Abruzzo e dalla convinzione che insieme si può costruire qualcosa di importante per la nostra regione e per il Paese. Le priorità della fondazione sono quelle di valorizzare il sistema imprenditoriale di eccellenza ispirato dai principi di responsabilità, sostenibilità e umanesimo, parole chiave dell’impresa del futuro. Un’industria responsabile che intende promuovere le eccellenze del nostro territorio, unica realtà, probabilmente, nel suo genere in Italia. All’incontro costitutivo abbiamo invitato anche giornalisti arrivati un po’ da tutte le province d’Abruzzo. Il ruolo dell’informazione sarà fondamentale per far conoscere e per sensibilizzare verso i temi della fondazione, alimen58

tando un positivo “think-thank” che coinvolga, prima di tutto, i cittadini». Come intendete raggiungere questi obiettivi? «Creando una rete di rapporti culturali, scientifici, istituzionali, territoriali ed economici. E poi, ancora, sviluppando alleanze a livello nazionale e internazionale per alimentare una rete di scambio di conoscenze, competenze e buone pratiche con l’obiettivo di mettere al centro l’individuo e il contesto in cui vive e opera, attirando talenti ed eccellenze per sviluppare e accompagnare la nascita di nuove imprese. Una squadra eterogenea, ma che ha dato la sensazione di essere già molto coesa: c’è chi si occupa di elettronica, di biotecnologia, di automotive o di agroalimentare e di energia. L’interlocuzione con la politica, intesa come istituzione, sarà continua per contribuire a creare sviluppo». Tra le finalità c’è anche la creazione di posti di lavoro. In quali settori e con quali presupposti? «L’ambizione è attrarre talenti da immettere in un nuovo circuito virtuoso. Coinvolgere gente di valore che possa fare impresa sul territorio e finanziare o facilitare un contesto in cui possano nascere nuove aziende. Dobbiamo anticipare eventi e scenari. Nei prossimi anni emergeranno lavori che oggi non esistono: occorre essere in grado di intercettare questo cambiamento». Il primo input arrivò un anno fa: un sogno che cominciò a diventare realtà sulla strada del pensiero più squisitamente olivettiano. «Proprio così - sottolinea Sergio Galbiati di L-foundry che ricorda la fondazione Mirror creata quindici anni fa con l’obiettivo di provare a colloquiare con il territorio e decidere insieme quali erano gli ingredienti per attrarre investimenti e talenti - Il miglior equilibrio si ottiene quando ognuno ricerca ciò che è meglio per sé e per il gruppo. E’ necessario rifondare una industria responsabile, sostenibile e umana per non dire umanistica. Il primo obiettivo è fare un censimento degli imprendito-


Nella foto da sinistra: Marcello Vinciguerra (Honda Italia), Roberto Di Vincenzo (Carsa), Sergio Galbiati (L-foundry), Umberto Sgambati (Proger), Gennaro Zecca (Zecca Energia), Ottorino La Rocca (Valagro), Enrico Marramiero (Almacis)

ri che si riconoscono nei valori della Fondazione. Non necessariamente la parola d’ordine deve essere profitto. Ci tassiamo con una quota di 25mila euro a testa per avviare le attività. L’obiettivo è riuscire ad organizzare due o tre attività importanti ogni anno». Marcello Vinciguerra fa invece riferimento a Honda Italia, un’azienda che ha profondo rispetto per il territorio. «Con questo progetto - sostiene - abbiamo subito sentito una forte vicinanza. Mi stimola stare nel contesto assieme a persone diverse, una diversità che può creare valori nuovi». Per Ottorino La Rocca di Valagro l’aspettativa è riuscire ad abbattere il pregiudizio della “anti-impresa”, quell’idea aziendale intesa come inquinatrice e approfittatrice. «L’impresa italiana invece - aggiunge - è anche di eccellenza. Realizzeremo progetti in favore del territorio». Umberto Sgambati guida la Proger, il cui 80% del fatturato è fuori Italia ma le radici sono profondamente abruzzesi. «Noi abbiamo tante realtà di qualità ed eccellenza - asserisce - che non hanno però la capacità di vendere le loro idee al mercato internazionale. Fare rete è importante, nessuno di noi da solo avrebbe successo. Con la Fondazione scoveremo le eccellenze del territorio, aiuteremo talenti e studenti con borse di studio e azioni di tutoraggio della nuova imprenditoria. Investire qui vuol dire investire anche per le nostre aziende: questa non è una fondazione che nasce per essere autoreferenziale o per fare un’azione meramente culturale, ma si prefigge lo scopo di tirare fuori dal territorio delle capacità, metterle a sistema e servirsene in modo corretto». Secondo Enrico Marramiero sostenibilità, umanesimo e responsabilità generano valore e attrattività. «Come posso realizzare - si chiede - un’azienda alimentare in un territorio inquinato? Facendo bene al territorio faccio bene anche alla mia azienda. La sostenibilità va intesa come un valore e non come un costo. Mettere al centro la persona,

il lavoratore, è una piccola rivoluzione culturale. Questa è la sfida». Giuseppe Ranalli di Tecnomatic guarda al futuro. «Per essere un’azienda sul mercato di domani non bisogna più soltanto concentrarsi sulla qualità del prodotto di oggi osserva - ma avere una visione di qualità del futuro. Non bisogna essere egoisti, occorre essere generativi, generare impresa». Gennaro Zecca fa leva sulle realtà inesplorate e sulle qualità dell’Abruzzo: «Dove sono le nostre eccellenze? Dove dobbiamo cercarle? Mi piace questa squadra che lancia la sfida di realizzare progetti in grado di riportare i talenti in regione con progetti e idee concreti. L’Abruzzo ha tanti vantaggi rispetto ad altre aree. Sicurezza, ambiente salubre, bellezze naturali, qualità della vita: su tutto questo dobbiamo investire. Abbiamo tante potenzialità inesplorate. Collaborare per competere: se ognuno fa quello che è meglio per sé, incurante degli interessi altrui, nel lungo periodo perde anche i vantaggi che crede di aver ottenuto nel breve. La sfida è trasformare la prima persona singolare in prima persona plurale: l’Io in Noi, il personalismo in comunità integrata». Il primo progetto concreto che Hubruzzo sostiene è la realizzazione di uno studio, commissionato alla fondazione Symbola, sulle qualità abruzzesi. Si tratta della “banca delle qualità abruzzesi”, uno dei principali filoni di analisi per raccogliere, valutare e dare un volto a tutti coloro che lavorano alla trasformazione qualitativa del sistema produttivo. Tra le ulteriori attività possibili, prevedendo l’adesione di altri soci, che da sette dovrebbero diventare undici, figurano un premio internazionale, un forum delle imprese eccellenti selezionate in maniera rigorosa, un dottorato di ricerca, borse di studio, il sostegno alla nuova imprenditoria (start up) e altre attività che saranno valutate in corso d’opera. A.C.

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RIBALTA CINEMA

MANCANZA-PURGATORIO Il secondo capitolo della trilogia. Dopo Mancanza-inferno ambientato a L’Aquila terremotata, il regista si sposta a Cagliari

di Gian Piero Consoli

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inema e arti visive sono spesso stati, soprattutto in Italia, dei vasi incomunicanti. I film d’artista degli anni ’60, le pellicole super 8 o 16 mm dei vari Mario Schifano, Tano Festa o Ugo Nespolo, giravano esclusivamente nelle gallerie d’arte o nelle case degli amici. Così il miglior cinema sperimentale del decennio successivo, quello per esempio di Alberto Grifi, girava nei cineclub o nelle “cantine” teatrali come il beat 72 di Roma, ma non nelle gallerie d’arte. Al contrario, Stefano Odoardi, abruzzese di Lanciano “emigrato” in Olanda, con i suoi film ha avuto il coraggio di dialogare senza complessi di inferiorità con le forme più avanzate d’installazione e videoarte, operando con leggerezza documentaria fra linguaggi apparentemente in opposizione fra loro. Se il cinema è necessariamente collettivo, Stefano “obbliga” i suoi collaboratori ad improvvisare musiche o ipotesi di montaggio sulla unica base di una serie di acquarelli astratti da lui disegnati che fungono da canovaccio, da tema sul quale inventare, quasi una moderna forma di commedia/cinema dell’arte. Questo è esattamente il caso di Mancanza-Purgatorio, secondo capitolo di una trilogia dedicata a un’ideale rappresentazione, materialistica e filosofica della storia contemporanea del nostro paese. Realizzato con la complicità di un gruppo di abitanti del quartiere Sant’Elia di Cagliari, uno dei più disagiati del capoluogo isolano, il film è il risultato di un lungo processo di interazione e socializzazione, così come il precedente, ambientato a L’Aquila, era il tentativo di aiutare gli aquilani ad elaborare il lutto del terremoto del 2009. Il cinema dunque, diventa (ritorna) anche strumento di riscatto sociale: come in altre situazioni l’arte interviene sul disagio, lo ha fatto recentemente per esempio il mecenate siciliano Antonio Presti a Librino, famoso quartiere a rischio di Catania. Odoardi crea uno spazio vuoto fatto di erranze e spostamenti, ma non astratto, ancorato nel contesto di una realtà post-operaia e calato in un bianco e nero nel quale il regista riesce ad articolare un ricco spettro di tonalità grigie, come di un canale televisivo morto che tenti di continuare a trasmettere. Come nel precedente Mancanza-Inferno, protagonista è Angélique Cavallari, musa del regista: il corpo della Cavallari si muove come un angelus novus fra luoghi e oggetti, interrogando il senso di una storia come ferma nella percezione della propria fine. Il passo ipnotico del film e la sospensione notturna, quasi un blues ambient, fanno di Mancanza-Purgatorio uno degli oggetti più singolari della stagione; un oggetto misterioso, un lavoro da vedere e da scoprire, che si concede ad una seconda o a una terza visione rivelando sempre altre cose di sé. Quello di Odoardi è un Purgatorio nutrito di lacerti poetici e letterari eterogenei: da Omero a Paul Eluard, spesso mischiati fra loro, e interpretati dalla calda voce narrante di Sebasiano Filocamo, alla bellissima Song (Allen Ginsberg) recitata per intero dalla Cavallari di fronte ad un container della nave cargo in uno dei momenti più riusciti del film. Tutto l’ambiente sonoro è peraltro ricostruito in studio con grande efficacia e si fonde perfettamente sia con la parola poetica che con il violoncello della partitura musicale (del bravissimo Andrea Manzoli) che sembra a volta quasi provenire dalla nave stessa. Mancanza-Purgatorio è un film sull’errare inteso nel suo doppio valore semantico di sbagliare e vagare: in questo ipotetico purgatorio contemporaneo un angelo naviga su un cargo che trasporta container in un viaggio verso l’ignoto mentre un gruppo di esseri umani si trova in un non luogo, un albergo deserto sulla costa sarda, in attesa della possibile salvezza. Accanto all’angelo ci sono gli abitanti della Terra, 17 attori non professionisti, quelli scelti fra la comunità del quartiere Sant’Elia, nella quale parole come errare, possibilità di salvezza e riscatto hanno una risonanza concreta. Divinità della notte e del giorno, l’Angelo non può non avere caratteri androgini. Sembra una delle donne virilizzate di James Cameron (regista acquatico per eccellenza). Vagamente cyberpunk, con giubbino e pantaloni in pelle anni ’80-’90, Mater materica dai capelli bicolori, monili al polso destro e alla testa (cingono azione e pensiero), con un graffio disegnato in viso, cicatrice amorosa per eccellenza, sempre in costante ascesa e discesa (proprio da eroina di Aliens o Titanic). Poi, eccola scoprire il proprio corpo scritto, body painted, per avvolgerlo in un abito hindi, prima della già paradisiaca musica di No Place Nowhere di David Darling, che segna la parte finale sulla prua, preludio alla Liberazione. Il narratore/voce la pedina, la interroga e lei finisce per rivolgerglisi come fosse quell’Animus da cui si era separata e da cui sta ritornando. Un momento importante dove è il linguaggio cinematografico a farsi narrazione, forma-contenuto. Concretizza stilisticamente l’unione-taglio che sancisce il riconoscimento dell’Altro e la consapevolezza della propria finitudine («la giovinezza è un tesoro, / la vecchiezza un tesoro…»); il concludersi del proprio errare e, finalmente, l’anamnesi: gli abitanti della Terra abbandonano i loro salvagenti egotici, per poi andarsene ad uno ad uno, e la loro sparizione combacia con l’Angelo che finalmente dissolve in donna. Seguono lunghi titoli di coda. Aspettiamo adesso che dopo la terra ridotta in briciole di Inferno, dopo l’acqua ipnotica/amniotica del Purgatorio, Stefano ci porti a spasso nell’aria, tra le nuvole del Paradiso… Nelle foto dall’alto, la protagonista del film Angelique Cavallari; sotto il regista Stefano Odoardi

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MACBETH NEO FILM OPERA Ci vuole coraggio per cimentarsi con una storia che dal 1606 è stata interpretata dai più grandi attori e registi. Daniele Campea, Susanna Costaglione, Claudio Di Scanno, Franco Mannella, Irida Gjiergji e tanti altri giovani abruzzesi lo hanno avuto ed hanno realizzato un film affascinante di Roberta Zimei

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n quanto a ricerca, carica innovativa e sperimentazione, il Macbeth di Daniele Campea ha fatto e continuerà a far parlare di sé. Dal debutto al 63° festival di Taormina nell’estate del 2017, alla presentazione pescarese del 7 marzo scorso, l’accoglienza calorosa e più che favorevole di critica e pubblico lo conferma. E ora si aspetta l’uscita nelle sale italiane il 14 giugno e la distribuizione in home video curata da Cecchi Gori Entertainment, in ottobre. La tragedia più rappresentata di Shakespeare, a cinema e a teatro, trova un nuovo lingaggio espressivo con la formula campeiana del Neo Film Opera dove opera lirica, cinema e teatro si fondono in una comistione dinamica, coinvolgente e innovativa. E il ruolo del protagonista maschile, Macbeth, prototipo di violenza, ambizione e follia senza ritorno, interpretato da una donna, l’attrice Susanna Costaglione, fa riflettere su quanto la natura umana e la capacità di interpretarla, travalichino ogni confine di appartenenza di genere. Nel lungometraggio del regista abruzzese (Campea, classe 1982, nativo di Popoli, vive a Sulmona) la parte storica e la vicenda nota raccontata da Shakespeare (il neo film opera parte dalla profezia delle tre streghe che annunciano a Machbeth l’imminente conquista del trono di Scozia) si sgretolano via via per lasciare spazio alle reazioni più intime di chi, accecato dall’ambizione smodata, si abbandona a quella pulsione distruttrice che, ben nascosta, alberga in ognuno di noi. “Ogni condizione umana è un universo da esplorare, dalle mille potenzialità congelate o malamente utilizzate, quante censure e autocensure inibiscono pensieri e sentimenti”, conferma Susanna Costaglione. L’arte è un mezzo di espressione. “Se è stato difficile interpretare un ruolo maschile? Non è la prima volta, sia per le mie caratteristiche vocali che per un deciso temperamento fisico. Mi sono misurata con Buchner, Mephisto, Prometeo, Jago, tutti personaggi irruenti, dissacranti, pieni di contraddizioni . Ma non si è mai posta la questione come faccio a fare un uomo” - continua l’attrice. “Le intuizioni, le osservazioni, lo studio, le prove, la messa in forma, tutto l’atteggiamento sul lavoro sono sempre state al servizio dell’opera teatrale, il mio personaggio non è che una funzione, si realizza nell’opera. Ogni forma d’arte - conclude - dovrebbe riportare alla luce quello che della realtà viene escluso: quello che c’è è in continuo divenire, proprio come nella vita che è una metamorfosi peprpetua. Io cerco di restituire questa parte nascosta attraverso i testi e i personaggi che affronto con un lavoro impegnativo, senza improvvisazioni”. Per il regista, Susanna Costaglione “è una attrice straordinaria con una grande forza scenica e spiccate capacità androgine. L’ho conosciuta diversi anni fa e la sua interpretazione della versione teatrale di Macbeth, mi ha definitivamente convinto”. Il lungometraggio diretto da Campea ha preso spunto da Immagini da Macbeth, lo spettacolo teatrale di Claudio Di Scanno, andato in scena tre estati fa nel capannone dell’ex Heineken di Popoli, ma si è sviluppato in maniera completamente autonoma. “Nel mio Macbeth tutto è portato all’eccesso in una dimensione onirica e visionaria e di profonda introspezione. Le ambientazioni scelte, i colori e i paesaggi, assecondati o messi in risalto per contrasto dall’occhio della telelcamera, dalla colonna sonora e dalle inquadrature implacabili dei volti e delle espressioni, la potenza evocativa dei paesaggi abruzzesi, hanno fatto il resto. Usare quelle immagini a servizio di una storia cupa, ha portato a un ulteriore potenziamento delle atmosfere del Macbeth”. Gran parte delle scene è stata girata all’interno dell’ex Heineken di Popoli, che richiama scenari quasi apocalittici, post industriali. Oltre alle ambientazioni e alle atmosfere evocate, c’è mlto altro di Abruzzo nel lungometraggio di Campea. A cominciare dagli attori e dagli altri professionisti coinvolti. Prodotto da Fondazione Pescarabruzzo e Creatives, nel cast anche l’attore e doppiatore Franco Mannella (direttore dell’accademia Arotron di Pianella) nel ruolo di Macduff, Irida Gjergji Mero in quello di Lady Macbeth e il regista teatrale Claudio Di Scanno in quello di Banquo. Le scenografie, i costumi e gli oggetti di scena sono opera dell’artista Gianni Colangelo Mad e di Antonella Pal. Il resto del cast è formato da attori dell’accademia Arotron e dell’associazione teatrale Il Posto delle Fragole. “E’ stato un lavoro molto complesso - racconta Campea - realizzato con un budget ristretto e con la grande disponibilità e spirito collaborativo di tutti. Abbiamo inziato nell’estate del 2015 e finito ad agosto del 2016: 8 giorni di riprese a gennaio e sei mesi di clausura totale per il montaggio. Il Neo Film Opera” si ispira alla tradizione del film opera, genere ormai quasi del tutto abbandonato, in cui la musica non si limita a fare da colonna sonora alle immagini, ma le immagini stesse creano una “colonna visiva” per le musiche, in cui la recitazione si basa su precise scansioni ritmiche e ogni elemento sonoro si amalgama completamente con la sua controparte visiva. Come nell’antica tragedia greca, nella quale parola, musica e danza raggiungono la massima simbiosi. In Macbeth la musica ha aiutato a creare una omogenità di fondo. Ci sono musiche di Verdi e, nelle parti più sperimentali, musiche composte da me”. Per tirare le somme. Una prima attrice che si misura con in un ruolo particolarmente impegnativoma che riesce a essere così naturale nelle sue trasformazioni proprio perché non si appoggia a nessuna legge se non a quella del cambiamento, che la porta a incarnare i personaggi più diversi senza che questi stridano con la sua personalità. E un regista che si dice, a ragione, “contento del lavoro” per essere riuscito, fra l’altro, ad esplorare un terriotrio poco sfruttato che lo rende orgoglioso. “ E’ una libertà che mi sono concesso: nessun vincolo, nessuna forzatura esterna. Ho raschiato la superficie amalgamando i linguaggi di cinema,teatro e opera”. Nelle foto dall’alto, Susanna Costaglione nel ruolo di Macbeth e il regista Daniele Campea

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RIBALTA LIBRI

RIBALTA ARTE

PAOLO MASTRI

IL SARTO DI PESCARA Dalla tumultuosa crescita del centro adriatico al caso Moro. In Tutto così in fretta, esordio narrativo del giornalista abruzzese, tragedia e vitalità di una città e di un Paese di Francesco Di Vincenzo

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el 1978 a Pescara si registrarono due eventi eccezionali: a giugno un maremoto, a ottobre un’apparizione di UFO. Le due notizie sono rintracciabili su Google e sui giornali dell’epoca. Non si troverà traccia, invece, di un terzo evento eccezionale di quell’anno a Pescara: la sorprendente, abbondante nevicata nella notte fra il 15 e il 16 marzo che apre il romanzo di Paolo Mastri Tutto così in fretta (Ianieri Edizioni 2017, pagine 190, € 14,00). «Era arrivata all’improvviso, silenziosa e inaspettata.» (p.7) «Il manto candido sarà stato alto mezzo metro.» (p. 12). Quella notte a Pescara non ci fu alcuna nevicata. Il 16 marzo 1978, data tragicamente indimenticabile, faceva caldo, almeno 20 gradi; stessa temperatura il giorno prima. Molto improbabile una nevicata nella notte intermedia. Un’invenzione, dunque, come se l’autore volesse ribadire che Tutto così in fretta è un romanzo, e che della finzione narrativa, dei suoi meccanismi, dei suoi “trucchi”, della sua libertà d’invenzione, s’è avvalso pienamente. È proprio la letterarietà che fa di questo romanzo un’opera non di genere, anche se densa di elementi tipici del noir, del thriller, della spy story, della storia romanzata. C’è il caso Pescara, la città della crescita tumultuosa, dell’improvviso benessere, dell’arricchimento a tutti i costi («una religione civile che non ammetteva apostasie», p.8), con i suoi imprenditori rampanti e spregiudicati, animal spirits protagonisti della caotica e redditizia espansione edilizia e commerciale di Pescara. C’è la vicenda tragica di Aldo Moro. Ci sono personaggi storici e personaggi fittizi, terroristi e agenti segreti, omicidi, rapine e belle donne, esistenze dorate e vite segnate dalla miseria materiale e morale. Tante storie sullo sfondo della grande storia, due dimensioni che Mastri amalgama e distingue, dando vita a un romanzo complesso che ha la sua modalità primaria nell’ibridazione, nella mescolanza dei registri linguistici e stilistici. L’autore cita nella sua narrazione brani di D’Annunzio, Piovene, Pirandello, Pomilio, Flaiano, comunicati delle Br, lettere di Moro, dispacci dell’Ansa, ricostruzioni cronachistiche. La tecnica della citazione s’intravede anche nella costruzione di alcuni dei personaggi maggiori del romanzo. Il capitano Luise, disincantato ma leale agente del Sisde, richiama per talune affinità il capitano dei carabinieri Bellodi di Il giorno della civetta di Sciascia. Il personaggio di Roberto Tintori, tormentato sarto di successo della Pescara bene, ha un illustre ascendente in Harry Pendel, il protagonista de Il sarto di Panama di John Le Carré (che a sua volta discende da Jim Wormold, la spia pasticciona de Il nostro agente all’Avana di Graham Green). Anche il sarto di Pescara, come il sarto di Panama, è costretto con un ricatto a lavorare per un servizio segreto: il capitano Luise, dimostrandogli di sapere della sua omosessualità, lo convince a collaborare con lui. Il risultato è un romanzo intenso, incalzante, coinvolgente, grazie alla facilità di scrittura, serrata e ariosa nello stesso tempo, del bravo giornalista (Mastri è un affermato professionista), alla padronanza del dispositivo narrativo, all’attitudine creativa, alla perizia nel coniugare invenzione e documenti. A queste abilità si aggiunge una qualità letteraria, una fisionomia stilistica che agisce come humus e collante della narrazione, le conferisce un senso complessivo che si coglie non solo nella totalità del romanzo ma anche nei singoli passaggi che sempre richiamano quel senso e quella totalità. Un esempio persuasivo è la sequenza iniziale del romanzo, quella della eccezionale nevicata marzolina.

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Roberto Tintori, esce dal cinema-teatro Massimo e trova la neve. Decide di tornare a casa a piedi, pur se elegantemente ma insufficientemente calzato dalle sue belle scarpe inglesi. Chi è Roberto Tintori? Sarto pescarese di grande talento, ha raggiunto il successo e il benessere come tanti altri suoi concittadini. Giunto alla mezz’età, è un uomo solo che abita la sua solitudine come una tana ferina, sfinito ma ancora vitale, cinico e pavido, tormentato dalle sue propensioni sessuali ancora condannate, all’epoca, dalla morale corrente. Lo scopo ultimo della sua esistenza è la difesa del «guscio di rispettabilità borghese così faticosamente costruito, nel quale aveva riposto anche la parte oscura di sé e che mai, mai e per nessuna ragione avrebbe messo in discussione.» (p.24) Le pagine che descrivono il suo lento ritorno a casa per le strade innevate del centro sono tra le più belle del romanzo; quantomeno le mie preferite. La sua passeggiata nella neve diventa una rivisitazione della sua vita e della storia di Pescara, una celebrazione critica della sua vitalità, del prodigio di reattività dei pescaresi di fronte alle distruzioni della guerra: «Come se nulla, dopo quel bagno di morte, potesse più essere impossibile. Nemmeno la ricchezza, nemmeno la trasformazione di un borgo di cinquemila anime nel polmone economico di un’intera regione” (p. 15). E lui, Tintori, “apparteneva a questo luogo” (p. 18). La sequenza si avvale di un’efficace griglia letteraria. Essa ha un doppio ritmo: la cornice della sequenza è lenta (cosa c’è di più lenta di una lunga passeggiata nella neve?), il quadro descritto e raccontato durante la passeggiata è intenso, vivace, frenetico alla fine, tanto che il quadro frantuma la cornice (Tintori fugge terrorizzato dalla scena di un delitto cui gli accade di assistere). Poi c’è il tema della passeggiata, che da Rousseau a Benjamin, da Stendhal a Walser, è un ricorrente archetipo letterario. Poi la neve: la passeggiata nella Pescara eccezionalmente innevata evoca, correla la eccezionalità di Pescara, «unica in Italia» come scrive Guido Piovene nel brano riportato da Mastri: «Una città ribollente, confusa, in cui uomini e gruppi affluiscono, si addizionano, si accavallano come onde»(p.12). Roberto Tintori è un personaggio tutto sommato periferico nella vasta architettura di Tutto così in fretta. Più ampio e centrale è il ruolo del capitano Luise, l’uomo del Sisde giunto a Pescara per creare una cellula locale del servizio. Uomo intelligente e preparato, energico e leale servitore dello stato, pur tra dubbi e scoramenti, Luise dimostra piena consapevolezza del rischio mortale che corre l’assetto democratico del Paese precipitato in una crisi che culmina nella tragedia epocale del sequestro e assassinio di Aldo Moro. Tuttavia, nel personaggio Tintori si addensa molta parte del senso totale del romanzo. Egli è solo uno dei tanti pescaresi che hanno tratto vantaggio dallo sviluppo tumultuoso della propria città. Eppure, con il fragile equilibrio della sua condizione sociale e umana, con il suo “guscio” di rispettabilità disperatamente difeso, egli incarna un presagio, anticipa la tragedia d’una nazione, cogliendone l’imminenza su di sé, sulla propria città. Non a caso il suo lento, trasognato ritorno a casa nella città innevata si conclude con una traumatica accelerazione, con una scena di morte: l’assassinio di un magistrato di cui egli è unico testimone, poche ore prima di via Fani. Non a caso anch’egli, Tintori, morirà di morte innaturale: “suicidio da stress”, diranno le carte ufficiali.


GINO DI TIZIO

VITO MORETTI

I RACCONTI DI UN TESTIMONE

I MIEI PRIMI CINQUANT’ANNI

Il rogo di Praga Raccolta di storie brevi di un giornalista-narratore

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opo La toga nera, Gino Di Tizio, noto giornalista abruzzese, nonché mitico ex coach di basket femminile, torna alla narrativa con questa raccolta di storie brevi: Il rogo di Praga e altri racconti (Tabula Fati 2018, pagine 114, € 10,00). Sono una trentina di racconti, tre-quattro pagine al massimo, piccole storie su grandi temi: la miseria, l’ingiustizia, l’amore, le passioni politiche, spesso dalla parte sbagliata. Tutti i racconti, tranne un paio, hanno in comune, oltre al linguaggio sempre asciutto e scorrevole, la presenza costante dell’autore nelle storie narrate anche quando non è lui il protagonista. Quella del testimone, del resto, è una funzione sempre rivendicata dal Di Tizio giornalista, non stupisce, perciò, che questa sua attitudine trascorra naturaliter nei suoi testi narrativi. Tra i racconti in cui non appare l’autore c’è “Il sogno di Antonio”, secondo me il più bello della raccolta. Vale la pena riportarne il bellissimo incipit (ma tutti i racconti hanno incipit di grande qualità ed efficacia) e il finale. «Certo non se l’aspettava, ma quando la vide Antonio non stette a fare storie. La Morte gli disse solo: “È l’ora.” “Sta bene,” lui rispose, e rimase in attesa.» La Morte è talmente sconcertata dall’atteggiamento remissivo di Antonio, stanco e deluso dalla vita, che alla fine rinuncia a fare il suo “dovere”. Infine, quando Antonio si sveglia e capisce d’aver sognato «pianse fino ad essere stanco...e poi tornò di nuovo a dormire». F.D.V.

FRANCO PASQUALE

QUANT’È STRANO IL FIGLIO DI DIO

Quei primi passi sulle acque del lago, gli ultimi anni di Gesù rivisitati con gli occhi (e le perplessità) di Pietro

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iscrivere la storia di Gesù, dare forma di romanzo alla più conosciuta e universale delle storie, è un azzardo che Franco Pasquale ha affrontato e risolto con abilità nel suo primo romanzo: Quei primi passi sulle acque del lago (Tabula Fati 2017, pagine 143, € 13,00). La scelta della tormentata soggettività di Simone-Pietro come punto di vista narrativo ha ridato freschezza e movimento al racconto degli ultimi tre anni di Gesù di Nazareth, inevitabilmente canonizzato e irrigidito dall’autorevolezza dei Vangeli. Per meglio mettere a fuoco la figura di Simone il pescatore, che Gesù rinomina Pietro, l’autore ha taciuto o ha accennato solo di scorcio, per cenni, alcuni degli episodi evangelici più conosciuti e clamorosi: la trasformazione dell’acqua in vino nelle nozze di Cana, la resurrezione di Lazzaro, la figura di Pilato e il suo dilemma su Gesù e Barabba; addirittura l’intera “sequenza” del Calvario è ignorata. Una scelta coraggiosa e narrativamente efficace. Pasquale analizza fin nei dettagli e nei più minuti risvolti il rapporto di Pietro con Gesù: gli stupori, le incertezze, la fascinazione, l’esaltazione, l’amore, la devozione, i ripensamenti, il tradimento, la sua afflizione di povero mortale sconcertato e tormentato dalle parole spesso oscure, dalle profezie visionarie e dai comportamenti incomprensibili di un uomo che pur avendo dimostrato poteri sovrumani nulla fece per evitare la propria morte. Ha così creato un personaggio non solo credibilmente storicizzato, ma anche moderno, attuale, con la sua complessità psicologica, i suoi dubbi, le sue paure, il suo complesso rapporto con il divino. Franco Pasquale s’era fin qui fatto conoscere e apprezzare come poeta dalla forte e ricca propensione lirica, è perciò ancor più apprezzabile la misura da lui usata nel tenere le briglie della sua vena poetica, che lascia comunque libera di tanto in tanto, e sempre nei momenti giusti, per dar vita a belle, a volte splendide descrizioni della natura palestinese. Infine, una critica. Quei primi passi sulle acque del lago avrebbe tratto giovamento, secondo me, dal taglio di alcuni passi francamente ripetitivi sulle perplessità e lo sconcerto di Simone di fronte ai comportamenti di Gesù. F.D.V.

In Gli anni venuti il poeta e narratore abruzzese racconta la sua vita. Con stile

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he cos’è questo volume di Vito Moretti: Gli anni venuti (Tabula Fati 2018, pagine 200, € 15,00)? Un’autobiografia? Italo Svevo avrebbe risposto di no. «Quando un artista ricorda subito crea», sosteneva il grande triestino, negando la possibilità che un artista scriva una vera autobiografia, cioè una nuda e semplice cronaca della propria vita. È, allora, un’ autofiction, per usare un termine alla moda? Un testo nel quale l’autore, (come, fanno ad esempio, Houllebecq in Francia e Siti in Italia) racconta di sé con programmata ambiguità, ibridando il vero con il verosimile e con l’inventato? Non sembra che nel racconto di Moretti ci sia qualcosa di diverso dal vero, dal realmente accaduto. E allora? Allora aveva ragione Svevo: quando un artista ricorda subito crea. Perché l’artista (il poeta, il narratore) è tale se ha uno stile; e se ha uno stile crea sempre, quale che sia l’oggetto della sua scrittura. Vito Moretti ha uno stile forte, cioè fortemente identitario: riconoscibile, inconfondibile, personalissimo, con quel periodare ampio e compatto da passista ciceroniano, quel suo lessico talvolta sconcertante prima di capirne mansuetudini e desuetudini come scansioni di un incoercibile ritmo poetico. Insomma, Vito Moretti è un artista, e Gli anni venuti è l’autobiografia di un artista scritta con stile. I fatti narrati abbracciano i primi cinquant’anni dell’autore, fermandosi alla vigilia del terzo millennio. Il racconto di Moretti trascorre dal privato al pubblico: dall’intimo ricordo del padre che scuote taciturno la cenere della sigaretta nel palmo della mano, agli incontri con molti dei protagonisti della letteratura italiana del secondo Novecento (Valentino Zeichen, Dario Bellezza, Andrea Zanzotto, Piero Bigonciari, Vincenzo Consolo, Goffredo Fofi, Alberto Bevilacqua , Elio Filippo Accrocca, Giorgio Bassani, Alberto Moravia, Mario Pomilio, Elio Bartolini, Giovanni Raboni, Maria Luisa Spaziani e altri ancora). Racconta, Moretti, dei suoi viaggi e incontri culturali negli Usa, nell’Unione Sovietica, in Cecoslovacchia, in Inghilterra, in Spagna, in visita a importanti università (Yale, Cambridge, Oxford) e istituzioni culturali. Racconta dei suoi amori giovanili, dell’incontro e del matrimonio con la sua amata Lida, senza trascurare un’appassionata e partecipata rivisitazione della vita pubblica italiana e mondiale di quei decenni esaltanti e tormentati, fino al crollo del Muro di Berlino e alla fine della Prima Repubblica con l’uragano giudiziario di Mani Pulite. Se dovessi indicare un passaggio “esemplare” di questa autobiografia di Moretti, citerei il suo racconto di un incontro con Giorgio Bassani, nel corso del quale lo scrittore ferrarese, che ambiva ad essere considerato poeta prima che narratore, gli disse che secondo lui la poesia era «l’arte dell’andare a capo». Sul momento Moretti pensò a una battuta di spirito «ma nei giorni successivi quel concetto dell’ “andare a capo” continuò a ronzarmi in testa e a sembrarmi via via un pensiero fin troppo serio (...). Ne feci argomenti di vari seminari all’Università, prendendo in esame anche altre ipotesi, ma l’opinione di Bassani risultava una verità dalla quale non riuscii più a liberarmi.» (p.83) Francesco Di Vincenzo 63


RIBALTA LIBRI / MOSTRA

ANDREA SALONIA

IN ATTESA DI GIUDIZIO Domani, chiameranno domani una lettura per chi ama andare “oltre”. In questa opera prima l’autore rivela una mirabile capacità di indagare e penetrare l’animo umano, rivelandone fragilità, limiti e sorprendenti risorse. di Licia Caprara

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bagliato immaginare che sia un libro sulla giustizia perché racconta la vicenda di un uomo agli arresti domiciliari che aspetta, per un anno intero, che gli inquirenti vadano ad ascoltarlo. Rimarrà deluso se si aspetta analisi o invettive sullo strumento della custodia cautelare, ma se abbandona posizioni preconcette e si lascia coinvolgere dalla lettura, lo aspetta un viaggio nell’animo umano sorprendente. “Domani, chiameranno domani”, scritto da Andrea Salonia per Mondadori, è la storia di Augusto, direttore della più grande acciaieria d’Italia, arrestato con l’accusa di aver commesso gravi reati ambientali. Diciotto giorni in carcere, e poi una lunga permanenza agli arresti domiciliari, scanditi dall’attesa di poter dare la propria versione dei fatti. Ma la vicenda giudiziaria è solo la cornice dentro la quale si sviluppa la storia, che è tutta umana, intimistica, introspettiva, densa di ricordi ma anche di riflessioni esistenziali sulla sua vita precedente, sulle persone che gli sono accanto, sul Salento che sente addosso come una seconda pelle. Al centro della scena, sempre, e a conclusione di ogni capitolo, c’è l’attesa, che se vogliamo è la vera protagonista. L’attesa che si presentino a casa per acquisire il suo punto di vista, le sue ragioni, per consentirgli di giocare le sue carte e non fargli perdere la partita a tavolino. L’attesa che si annoda intorno alla vita “altra” che vive dentro i 137 metri quadrati di casa, dove ai rituali di ogni giorno, ai passi lenti e misurati si intrecciano ricordi fantasie, riflessioni esistenziali, e Augusto, da metodico ingegnere che è stato, tutt’uno con l’azienda e l’acciaio, scopre il mondo delle emozioni. E da lì parte un viaggio che non ti aspetti, che fa i conti con due vite che camminano parallele: mentre rivede quella precedente, sempre a mille e sempre fuori casa, vive quella ai domiciliari, fatta di passi contati, di spazi ristretti. Scandita da un tempo che sembra non passare mai e consumato dall’attesa, tema centrale del libro. L’attesa , come dice Masud Khan, raffinato psicanalista, “è l’esperienza cruciale di chiunque cerchi di costruirsi i propri strumenti per sperimentare se stesso e gli altri. L’attesa, la lunga attesa può essere salute o può essere malattia. Colui che attende trova. La non attesa garantisce la non-scoperta...” Ecco, in

queste poche righe si concentra l’essenza dell’attesa, che è una sorta di gestazione psichica in cui si da tempo ai semi di un progetto, di un’emozione di svilupparsi, prendere forma, esprimere l’essenza della nostra individualità ed umanità. Il grande viaggio della vita, con tutte le sue fermate ed ostacoli, deve apprendere la grande lezione della creatività dell’attesa. Ed è proprio così per Augusto, che la vive con sofferenza, tanta, al punto da scoprirsi quasi incorporeo, con i sensi che lo abbandonano, uno dopo l’altro, ma mai senza un pensiero fertile. Riavvolge i fotogrammi del film della sua esistenza cogliendone limiti e traguardi, rivede i personaggi che l’hanno popolata, e cerca nel passato la forza per attraversare un presente difficile perché inedito, dentro il quale stenta a ritrovarsi. E in questo vagare, in questo tempo sospeso un punto fermo c’è, Graziella, sua moglie. E’ lei il suo Est, è nei suoi occhi che Augusto cerca conferme quando il timore di perdersi lo assale, ed è in quei momenti che l’attesa prende forma nello sguardo e nel volto di chi quell’attesa condivide. Aspettare rimanda al latino “ex-spectare”, rafforzativo di “specere”, che significa “guardare”. L’attesa del protagonista, dunque, si fa “corpo” anche negli occhi, che esprimono il timore, l’angoscia, la speranza e talvolta il silenzio, perchè lo sguardo che attende chiede di rintracciare nello sguardo dell’altro a cui si rivolge, una risposta alla sua attesa. E Graziella si fa sempre trovare quando Augusto barcolla, pronta, solida, indomita: “Vorrei tentare di provare quanto stai provando, anche se non sono una moglie addolorata. Io non porto mai il vestito nero del lutto, non canto dietro al carro del morto”. Esempio di donna monumentale, questa moglie, così come la mamma del protagonista, con la sua faccia come “una radice con rughe come tagli di lame”, non avvezza a manifestare sentimenti, né a far rumore mai, nemmeno per chiamare qualcuno. Silente ma presente, anche nella distanza fisica imposta dagli arresti domiciliari. Andrea Salonia, medico, rivela in questa sua opera prima una mirabile capacità di indagare e penetrare l’animo umano, rivelandone fragilità, limiti e sorprendenti risorse. Lettura per chi ama andare “oltre”.


Recensioni a cura di Giovanni D’Alessandro

PEPPE MILLANTA

IMMAGINARE L’IMMAGINARIO Vinpeel degli orizzonti - Vincitore del prestigioso premio letterario intitolato ad Alda Merini e premiato dai lettori in libreria. Scommessa vinta dal giovane autore e dai giovani editori della Neo di Giovanni D’Alessandro

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siste un Altrove, al di là del mare che circonda l’immaginario paese di Dinterbild, dove possano approdare tutti coloro che la vita ha costretto a rifugiarsi in se stessi? Sì, deve esistere. Un Altrove in cui la vita reale venga affrontata, pur nelle sue dure prove. Un Altrove che rappresenti per il nuovo orizzonte per dinterbildiani così ripiegati su se stessi. Un Altrove che dilati spazi e prospettive in ogni senso, ossigenando mente e polmoni. E un giorno, con l’aiuto di una mongolfiera, il piccolo Vinpeel (protagonista dell’appena edito romanzo Vinpeel degli orizzonti, 2018, Neo, p. 246, € 15), riunito attorno a sé un drappello di amici, si leverà in volo verso di esso. Perché? Perché solo l’infanzia, quella dei verdi anni dell’indomito protagonista, possiede ancora la capacità di volare. Gli altri - gli adulti – l’hanno persa per atrofia della mente, che li ha resi oramai preda di se stessi. E’ questa fuga a ispirare il racconto tenero e appassionato, indomito e sognante, che Peppe Millanta (nome d’arte di un trentenne avvocato/ scrittore/ musicista/ docente di scrittura pescarese, con studi di sceneggiatura e drammaturgia, oltre che di diritto, alle spalle) ha da poco dato alle stampe. Il suo piccolo protagonista ha l’indifesa innocenza del Piccolo Principe di Antoine de Saint Exupéry, ma è meno lunare di lui. Combattivo, tenace, assolutamente intenzionato a non arrendersi - per non diventare come l’arteriosclerotico padre Ned, col quale dialoga solo per… echi del mare, quali si odono accostando all’orecchio una conchiglia Vinpeel è piuttosto parente del Back Crack Boy Liam di Joseph McKeowan (vent’anni fa portato sugli schermi da Stephen Frears) cui lo accomuna tra l’altro una compulsiva, tragicomica pratica religiosa, tale da mettere in difficoltà l’attempato prete di Dinterbild, costretto a dare come penitenza a Vinpeel di… peccare un po’ di più! cinque volte almeno, prima di ripresentarsi a lui, che se lo ritrova in confessionale mattina e sera. Presa in giro delle pratiche cattoliche? Mistiche ossessioni infantili sull’Aldilà, parente stretta dell’Altrove dove Vinpeel vuole scappare? Non esattamente. Vinpeel è uno che i comandamenti vuol comandarli, non subirli. E che col sonnacchioso e sfibrato confessore intavola una disputa teologica sul numero e la qualità di peccati da commettere per esserne assolto, usando argomentazioni dialettiche - quali, certo, i suoi anni gli consentono, ma - ferree nella loro logica. C’è poi intorno a Vinpeel tutto il mondo dei matti dinterbildiani, il collerico padrone della Locanba (scritta con la “b”, non la “d” per mancanza di lettere nell’insegna); l’emarginato e recuperato krisheb; l’amico Doan; la compagnuccia Mune; l’aristocratica e bellissima lady che non esce quasi mai di casa e nessuno capisce cosa abbia fatto rifugiare e Dinterbild. Bastano queste coordinate per dar conto della piccola, scatenata saga di fantasia di Peppe Millanta di cui è facile cogliere la qualità di scrittura (lieve e giocosa, soprattutto nei continui dialoghi - eterno punto di caduta su pagina dei narratori e che qui hanno invece una strampalata coerenza), mentre misteriosa resta l’origine del racconto: non si capisce cioè cosa l’abbia ispirato. Mma questo è un merito, non un demerito di qualsiasi storia e di questo libro in particolare. Perché? Perché se di una qualunque creazione artistica la individuazione della fonte - emotiva e logica – accompagnasse con pesantezza il lettore a ogni passo, vorrebbe dire che il racconto non si è sollevato da essa. Mentre qui c’è una storia aerea, leggera, divertita. Sulla mongolfiera che forse Vinpeel prenderà per l’Altrove, indubbiamente il bravo Peppe Millanta riesce a far imbarcare ogni lettore.

GIGINO FALCONI

DELLA BELLEZZA Importante mostra dell’affermato pittore al Museo Vittoria Colonna di Pescara di Anna Cutilli Di Silvestre

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a quando l’artista non lavora più su ordinazione, spesso diventa un osservatore della società in cui vive, rilevandone i comportamenti. E’ il caso di Gigino Falconi, affermato pittore, che nella mostra a Pescara, 1301 4-03- 2018, nel Museo Vittoria Colonna, espone quadri raffiguranti due donne in teneri atteggiamenti sensuali, a volte con sensualità melanconica, comunque donne che preferiscono la tenerezza di un’altra donna. E in questo ciclo di opere si nota spesso la presenza del serpente tentatore che si allunga per suscitare il desiderio della trasgressione. Le donne raffigurate da Gigino Falconi sono sempre belle signore – corpi scultorei, folti capelli neri, sopracciglia arcuate, grandi occhi e labbra sensuali - ma afflitte, spossate e di solito sdraiate. Domina quindi la tristezza esistenziale della donna di oggi, ma nelle opere di Gigino Falcone non mancano alcune donne, in realtà poche, serene sensuali e volitive. Ad esempio “Eva” 2017, una bellissima giovane quasi del tutto svestita, con una mela in mano, in atteggiamento di sfida. E’ diversa dalla Eva dell’opera del Masaccio in “Cacciata dei progenitori dall’Eden” 1425, in cui Eva è afflitta: si vergogna di aver trasgredito all’ordine divino e cerca di coprire con le mani la sua nudità. Sono le situazioni al limite delle convenzioni sociali che adesso stimolano l’arte di Gigino Falconi. Oltre l’amore fra due donne, anche la sessualità precoce che ricorda le scelte artistiche di Balthus, come in “Luce padana sulla bambina” 1983. Nell’opera “ Il bacio ultimo atto “ 1977, si nota il mobile per la toeletta delle signore: sul tavolinetto due ali di specchio girevoli a permettere la visione del retro della pettinatura. E’ caratteristico dello stile Liberty che esaltava la ricerca della bellezza e del raffinato nell’architettura, nell’arredamento e nell’abbigliamento. Era anche il tempo di d’Annunzio! Oltre alla “corrispondenza / d’amorosi sensi” fra due donne, è anche il mare che stimola l’attività pittorica di Gigino Falconi. Spesso fa da sfondo alle sue opere, agitato, con ondate e spruzzi che si sollevano come ne “L’onda” 2011. Quanto alla tecnica d’esecuzione delle opere del nostro Autore, la si può ritenere ottima. Egli è rimasto indifferente alle Sirene ammaliatrici che dall’Impressionismo in poi hanno cantato nuove modalità di espressione artistica. E’ stato sempre fedele alla maniera classica, quella dei Grandi del Cinquecento che resero sublime la pittura italiana.


RIBALTA IMPRESE

GIUSEPPE PAOLONE /PASTIFICIO DE CECCO

I PRIMI QUARANT’ANNI PER UN SODALIZIO DI SUCCESSI Una festa per celebrare la collaborazione fra il docente universitario e la principale azienda abruzzese, che nasce da lontano e guarda al futuro. Al ristorante Les Paillotes erano presenti i vertici del pastificio con il presidente, Cav. Filippo Antonio De Cecco, l’amministratore delegato Giuseppe Aristide, il presidente della Molino, Giuseppe Adolfo e il figlio Adolfo ma anche molti dirigenti e simbolicamente, tutti i lavoratori De Cecco

Nelle foto la famiglia De Cecco: da sinistra, Giuseppe Aristide, Giuseppe Paolone, Filippo Antonio, Giuseppe Adolfo e il figlio Adolfo. In alto il Prof. Paolone

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uarant’anni tondi tondi. Tanti ne sono trascorsi dall’incontro, sotto i portici di piazza Salotto, tra Giuseppe Paolone e Filippo Antonio De Cecco. Professore di Economia aziendale il primo, capitano d’industria il secondo. Un incontro tra cugini nonché amici, dettato dall’esigenza di un repentino confronto su un tema legato alla riorganizzazione dell’industria De Cecco, allora come adesso alle prese con la crescita e il futuro. Il professore individuò il miglior percorso possibile per l’azienda e, da quel momento, all’amicizia e alla parentela si aggiunse la qualificata consulenza professionale. La ricorrenza è stata festeggiata nei giorni scorsi con una cena nel ristorante Les Paillotes. Presenti il presidente della F.lli De Cecco, il Cav. Filippo Antonio, l’amministratore delegato Giuseppe Aristide, il presidente della Molino Giuseppe Adolfo e il figlio Adolfo. C’erano anche i dirigenti dell’azienda perché Paolone, ora Rettore vicario dell’Università telematica Pegaso di Napoli, ci ha tenuto ad abbracciare simbolicamente l’intera azienda. «Camminiamo

fianco a fianco da quattro decenni e lo dico con orgoglio», sono state le prime parole pronunciate da Paolone. «I ricordi sono tantissimi e includono anche chi adesso non c’è più, come Mario Piacentino, storico direttore amministrativo, una persona davvero speciale. Questa è un’azienda che ha saputo raccogliere e vincere tutte le sfide e, ne sono certo, continuerà a farlo. Ringrazio la proprietà, in particolare il Cav. Filippo Antonio, ringrazio voi dirigenti e tutti i dipendenti della De Cecco. La nostra avventura continua e ci darà tante altre soddisfazioni». Rettore, professore straordinario di Economia aziendale, dottore commercialista, revisore contabile, ex Prorettore vicario dell’Università d’Annunzio, Presidente di vari Corsi di laurea, Preside della Facoltà di Scienze manageriali, Giuseppe Paolone vanta una carriera come poche altre, impreziosita da circa 150 pubblicazioni e numerose partecipazioni a Convegni e Seminari, dalla Targa d’argento del Presidente della Repubblica italiana e dalla direzione di diverse Collane di studi.


VARIOGUSTO - LA RICETTA

Risotto al nero di seppie Riso classico per risotti, Seppie, Fumetto di Pesce, Cipolla bianca, Aglio rosso, Prezzemolo, Carota, Sedano, Pomodori maturi, Peperoncino rosso piccante, Olio extra vergine di Oliva, Sale

Preparare un Fumetto di Pesce e tenerlo da parte in caldo. Aprire la sacca delle Seppie, estrarre le vescichette del nero facendo attenzione a non romperle e tenerle da parte in una ciotolina. Eliminare dalle Seppie l’osso, gli occhi e il becco e dopo averle spellate, lavarle in abbondante Acqua corrente, tagliarle a pezzettini e metterle a sgocciolare. In una casseruola a fondo pesante, soffriggere nell’Olio uno spicchio di Aglio insieme ad un trito sottile di Cipolla, Sedano, Carota e Prezzemolo e appena sarà appassito, unire le Seppie e farle cuocere lentamente nella loro Acqua. Versare nella casseruola i Pomodori spellati e tagliati a pezzetti, la punta di un Peperoncino piccante e il nero di due vescichette. Salare chiudere la casseruola con un coperchio e lasciare cuocere a fuoco moderato per dieci minuti. Aggiungere il Riso, farlo insaporire per qualche minuto e girando continuamente con un cucchiaio di legno, portare avanti la cottura aggiungendo un mestolo di Fumetto di Pesce ogni volta che il Riso asciuga. A cottura avvenuta, ritirare la casseruola dal fuoco, sporzionare nei piatti da portata e servire in tavola ben caldo Il nero di Seppia è un fantastico ingrediente che in cucina riesce a dare consistenza omogenea ai fondi di cottura e a infondere ai cibi, con il suo colore nero lucido, un aspetto straniante e misterioso.



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