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73 dicembre 2010-gennaio 2011 n. 73 • € 4.50
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Simona Molinari La voce aquilana nel mondo 11/12/12 12:41
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dicembre/gennaio 2010-2011 Direttore responsabile VARIO Claudio Carella Redazione Antonella Da Fermo (grafica e foto), Fabrizio Gentile (testi), Mimmo Lusito (grafica) Hanno collaborato a questo numero Andrea Carella, Stefano Campetta, Massimo Casacchia, Annamaria Cirillo, Galliano Cocco, Sergio D’Agostino, Carla D’Alessio, Antonio De Leonardis, Francesco Di Miero, Francesco Di Vincenzo, Giorgio D’Orazio, Monica Giuliato, Laura Grignoli, Andrea Mancini, Francesco Paolucci, Giovanna Romeo, Ivano Villani, Sandro Visca. Editing AB Puzzle Pescara Progetto grafico Ad. Venture - Compagnia di comunicazione Stampa, fotolito e allestimento AGP - Arti Grafiche Picene Via della Bonifica, 26 Maltignano (AP) Claudio Carella Editore Autorizzazione Trib. di Pescara n.12/87 del 25/11/87 Copia singola Euro 4,50 Abbonamento annuo (sei numeri) Euro 24, estero Euro 40 Vers. C/C Post. 13549654 Rivista associata all’Unione Stampa Periodica Italiana Redazione Via Puccini, 85/2 Pescara Tel. e Fax 085 27132 www.vario.it redazione@vario.it
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Sommario BreVario L’Aquila 2010 Prove tecniche di ricostruzione
La nuova piazza
Ricominciamo dal rugby
Volontari senza barriere
Ritorno al futuro
Purché si voli Dimenticare per rivivere
Economia Tandem metropolitano Economia Ok, la fusione è giusta Sangritana Una montagna per tutti Waltertosto Spa L’industria del talento Simona Molinari La voce aquilana nel mondo Eriberto Pescaradamare Eventi Un mare di solidarietà Italo Lupo Gioielli di famiglia Simona Iannini A scuola di tombolo Ribalta Libri Luciano D’Alfonso Letteratura Cinema Musica Arte Eventi Tabù Volontariato VARIOGUSTO
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BREVario TOTO E LA TALPA MARTINA Si chiama Martina, è lunga 130 metri, pesa 4 tonnellate e mezza e sta bene. Benché porti il nome dell’ultima nata della famiglia Toto, non è di un essere umano che stiamo parlando, ma della più grande TBM (Tunnel Boring Machine) al mondo, costruita dalla tedesca Herrenknecht in collaborazione con Toto spa e Autostrade, destinata a scavare la galleria Sparso sulla variante di valico dell’Autostrada del Sole –tra Bologna e Firenze– per conto di Autostrade per l’Italia, committente dell’opera. La mega talpa è costata 53 milioni di euro, «il più grande deal per una macchina singola», dice Alfonso Toto, «ma le straordinarie dimensioni della TBM e la complessità tecnologica dell’opera che realizzeremo sulla variante di valico conferiscono un valore altamente strategico a quest’investimento e confermano le capacità tecniche della nostra società che, attraverso la realizzazione di grandi opere pubbliche, contribuisce concretamente allo sviluppo infrastrutturale del nostro Paese».
TOCCO, VENTO IN POPPA
REGALO DI NATALE MONUMENTALE
“L’antico paese col vento in poppa”, titola il New York Times, che lo scorso 28 settembre ha dedicato un corposo articolo a firma di Elisabeth Rosenthal al fenomeno Tocco da Casauria. Fenomeno, perché in un Paese, l’Italia “noto più per la spazzatura che per l’ambientalismo dei suoi cittadini” –scrive la giornalista statunitense– la cittadina abruzzese è una mosca bianca. Almeno stando al rapporto annuale di Legambiente, che la include tra le 800 comunità (un nutrito gruppo di mosche bianche, viene da dire) che oggi producono più energia di quanta ne riescano a consumare grazie all’utilizzo delle energie rinnovabili. “L’energia verde –prosegue l’articolo– è stata un dono enorme per Tocco, che ora guadagna grazie alla produzione di elettricità e non paga tributi come quello per i rifiuti”. All’origine di questa ricchezza ci sono le grandi pale eoliche che svettano alle spalle del paese, un “antico borgo perlopiù fermo al passato, dove gli uomini discutono di politica al bar e anziane signore girano per il mercato”, e dove “la raccolta delle olive è l’evento più importante del calendario”. Ma, dal punto di vista dell’approvvigionamento energetico, Tocco “è molto vicino al futuro: in aggiunta all’impianto eolico, pannelli fotovoltaici forniscono energia elettrica al vecchio cimitero e ai campi sportivi, oltre a un crescente numero di abitazioni”. Con le sue quattro turbine, scrive ancora il NYT, “Tocco è praticamente indipendente sul fronte energetico, avendo generato lo scorso anno il 30% di elettricità in più rispetto ai consumi, con un guadagno di circa 170mila euro”. Con quei soldi “il paese sta ristrutturando la scuola in modo antisismico e ha triplicato gli stanziamenti per la pulizia delle strade”.
La Fondazione Pescarabruzzo fa un regalo di Natale a tutti: San Clemente a Casauria, l’abbazia gravemente danneggiata dal terremoto del 6 aprile, potrebbe riaprire i battenti prima del 25 dicembre. Lo ha detto il professor Nicola Mattoscio, presidente della Fondazione, che ha finanziato i restauri insieme al World Monuments Fund Europe con due milioni di euro, dopo il sopralluogo effettuato il mese scorso dalla commissione di collaudo presieduta da Paola Grifoni, accompagnata per l’occasione dal vice commissario delegato alla tutela dei beni culturali Luciano Marchetti e dal sindaco di Castiglione Giammarco Marsili. «Il progetto di recupero –ha dichiarato Mattoscio– «è stato rispettato sia nelle specifiche tecniche che nei tempi di lavorazione, e questo ci permetterà probabilmente di riaprire la chiesa al pubblico prima di Natale». L’abbazia di San Clemente potrebbe essere così il primo monumento in assoluto tra quelli danneggiati dal terremoto dell’Aquila a essere restaurato, anche prima della chiesa delle Anime Sante dell’Aquila.
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BREVario PREMIO NORD-SUD Un premio a chi, con la sua opera, abbia favorito il dialogo tra il Nord e il Sud del mondo. Lo ha bandito la Fondazione Pescarabruzzo, e lo scorso 23 ottobre la giuria –composta da Nicola Mattoscio (presidente), Stevka Smitran (segretario), Franco Cardini, Francesco Marroni, Walter Mauro, Gian Gabriele Ori, Elio Pecora e Benito Sablone– ha attribuito i premi a Lars Gustafsson, poeta, narratore e drammaturgo svedese per la Poesia, con l’ opera Sulla ricchezza dei mondi abitati (Crocetti Editore, 2010); Kamila Shamsie, scrittrice pakistana per la Narrativa, con l’opera Ombre bruciate (Ponte alle Grazie, 2010); Jayati Gosh, economista e professore alla Jawaharlal Nehru University di Nuova Dehli e consulente del Governo indiano, con la pubblicazione Global crisis and beyond: Sustainable growth trajectories for the developing world (International Labour Review, 149/2, 2010). Presenti, oltre ai premiati, ai membri della giuria e al presidente Mattoscio, il Presidente del Consiglio Regionale Nazario Pagano, il Sindaco di Pescara Luigi Albore Mascia e il Presidente della Provincia di Pescara Guerino Testa.
LA “BEFANA DI ERIBERTO SUB” ANCHE QUEST’ANNO SBARCA A PIAZZA SALOTTO Per il secondo anno consecutivo Il Circolo sommozzatori Eriberto Sub di Pescara guidato da Domenico Giorgini (istruttore capo e socio fondatore) ha deciso di riorganizzare la tradizionale manifestazione della “Befana che viene dal mare”, inventata dal compianto Eriberto Mastromattei, dedicata ai bambini ed alle autorità marittime. La Befana sbarcherà la mattina del 6 Gennaio alle ore 10,30 nel tratto di battigia antistante la Nave di Cascella. Da lì, la vecchina verra scortata dai subacquei dell’associazione e raggiungerà il palco a Piazza Salotto, dove distribuirà numerose calze ricche di dolciumi e giocattoli. Nell’occasione si consegneranno delle targhe ricordo alle autorità civili e militari che si preoccupano della salvaguardia delle vite umane in mare. Un gesto doveroso e simpatico che anche quest’anno cerca di sensibilizzare l’attenzione sui bambini dell’Ail Pescara: l’equipe della Befana di Eriberto il pomeriggio del 6 Gennaio si trasferirà presso l’ospedale civile, nel reparto di Ematologia diretto dal professor Giuseppe Fioritoni, dove anche lì consegnerà i doni ai bambini. «Un ringraziamento va alla Regione, alla Provincia e al Comune di Pescara che hanno patrocinato e contribuito economicamente alla realizzazione dell’evento» spiega Luca Mastromattei, che con grande tenacia e passione cerca di far rivivere lo stesso clima di gioia in quel giorno del 6 Gennaio, come se ci fosse il suo papà. «È impensabile –dice– provare a copiare il carisma, l’estro, la personalità, la tenacia e l’istrionismo di papà. Io mi sento in dovere di farlo per la nostra città, che merita questa iniziativa ormai storica. Finchè le istituzioni me lo permetteranno sarò sempre a disposizione per qualsiasi evento possa dar fermento, lustro e sviluppo alla nostra città, con la speranza di poter far rivivere la sua “Pescara bella”, così come la definiva lui».
IL MUSEO RIPARTE COL COMITATO È nato il comitato scientifico del Museo delle genti d’Abruzzo, che si propone di rilanciare le attività del Museo e di creare sinergie con gli altri enti e istituzioni museali del territorio. Ne fanno parte grandi nomi, alcuni molto noti come Francesco Sabatini, ex presidente dell’Accademia della Crusca, o Luigi Capasso, docente dell’Università G. D’Annunzio di Chieti, o Walter Capezzali, docente di bibliografia e biblioteconomia all’Università dell’Aquila e presidente della Deputazione di Storia Patria negli Abruzzi, insieme ad altri meno conosciuti ma di grande prestigio per la loro attività e per il ruolo svolto all’interno del sistema culturale nazionale e regionale. In tutto tredici componenti che il presidente Giulio De Collibus, durante la conferenza stampa tenutasi nei locali del Caffè Letterario “Barberini” –di recente tornato sotto la gestione diretta del museo– ha così presentato: «Un’equipe di esperti di alto livello con cui intendiamo lavorare in sinergia sia a livello propositivo che consultivo. Ad esempio, con il professor Centorame, presidente del Mumi di Francavilla, porteremo avanti discorsi relativi alle mostre d’arte da tenere nel nostro museo». Ma i progetti sono tanti: realizzare il Museo del Risorgimento o ancora ricostruire il Centro Studi Ceramici, «al fine di mantenere un alto livello culturale delle nostre attività, in riferimento a tutti i territori della Regione». È intervenuto anche il direttore del Museo, Ermanno De Pompeis, che ha sottolineato le difficoltà di un progetto così ambizioso a causa di tagli che la cultura continua a subire. «D’Altra parte –ha aggiunto– intendiamo proseguire con il supporto di chi, come noi, crede nella cultura».
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BREVario ABRUZZESI CHE CONTANO (E CANTANO) La scena musicale abruzzese potrebbe essere suddivisa in due categorie. Ci sono i gruppi che nascono e muoiono in provincia, vuoi per pigrizia o per dna; e ci sono quelli che invece riescono a uscire dalla regione, valicare le montagne, magari prendere un aereo e farsi onore addirittura all’estero. A questa seconda categoria –che annovera, manco a dirlo, ben pochi rappresentanti– appartengono i Clap Rules, trio pescarese geneticamente predisposto ad una dimensione internazionale: saliti alla ribalta sulle pagine di riviste musicali (e non) a grande tiratura grazie alla loro collaborazione con la newyorchese DFA, l’etichetta di James Murphy degli LCD Soundsystem, i tre brillanti musicisti –reduci da un live moscovita– hanno appena rilasciato un nuovo remix. Dopo Michoacan, Etienne De Crecy, In Flagranti e Cocosuma, stavolta le sapienti mani di Fabrizio Mammarella, Max Leggieri e Andrea Gabriele hanno rielaborato Take a chance (on love) dei Supermen Lovers, noti al grande pubblico per la loro Starlight del 2002. Con risultati, a dir poco, eccellenti. E a questo punto è molto atteso il loro primo album ufficiale, previsto per i primi mesi del 2011, che conterrà i brani già pubblicati in strea ming sul sito della band (myspace.com/claprules) e molti inediti. Altro discorso quello dei Matinée, gruppo “transgender”: nati nella prima categoria, sono poi riusciti con grande impegno a passare alla seconda. Formatisi come tribute band dei Franz Ferdinand (tenuti a battesimo e incoronati dalla band medesima come miglior tribute band italiana del gruppo inglese), emancipatisi dalla scomoda paternità, si sono da tempo avviati sulla strada della produzione originale. Da qualche mese è uscito il loro primo CD ufficiale (omonimo) e la band è partita per un tour promozionale in UK. Apice della sortita britannica la loro esibizione, il 28 ottobre, al prestigioso 100th Club londinese, uno dei locali di fascia alta nel giro della musica live, molto selettivo, il che testimonia un apprezzamento sia da parte del pubblico che della critica. Le giornate dei Matinée da oggi sono meno oscure.
TRIBUTO ABRUZZESE A MIKE FRANCIS, POP STAR ANNI ‘80
UN RITROVO DI CLASSE “Eravamo trentaquattro, quelli della terza E”, cantava Venditti nella sua famosa “Giulio Cesare”. Quelli della terza E, anno 1970, del liceo classico “D’Annunzio” di Pescara, erano però 46, e trenta di loro si sono ritrovati a distanza di quarant’anni per un revival all’Overlook di Pescara lo scorso 18 luglio. Gli ingredienti della serata, che tra l’altro celebrava anche gli 80 anni del lice o D’Annunzio, sono stati ovviamente i ricordi, un pizzico di nostalgia, musica dal vivo “a tema”, qualche sorpresa (un 8mm girato da uno degli ex studenti nel 1968, nel cortile della scuola) e un invitato speciale in collegamento da Città del Capo. «Ma non solo ricordi –racconta Mario Del Zoppo, medico pescarese tra gli organizzatori dell’evento– gli ex-studenti, per una sorta di ringramento alle opportunità che gli studi classici hanno loro offerto, hanno pensato e programmato di aiutare negli studi materialmente qualche ragazzo di oggi, meno fortunato di loro». Davvero un bel modo di festeggiare.
Tributo made in Abruzzo a Mike Francis, indimenticabile icona della pop dance elettronica anni ‘80 (il 30 gennaio 2011 decorrono due anni dalla sua prematura scomparsa) grazie al videoclip Francesco, girato al Castello di Semivicoli, dell’azienda vinicola Masciarelli in provincia di Chieti. Francesco Puccioni, in arte Mike Francis, ha spopolato con la hit Survivor nelle discoteche di tutta Europa e scalato le classifiche negli anni ’80 con brani come Together e Friends, duetto con Amii Stewart. Francesco è appunto il nome del brano scritto ed interpretato da Grazia Di Michele su musiche di Paolo Di Sabatino, protagonisti del videoclip girato nella suggestiva atmosfera del Castello di Semivicoli. Grazia Di Michele, di origini abruzzesi, insegnante stabile della trasmissione Amici di Maria De Filippi, da sempre vicina ai temi sociali mondiali come i diritti delle donne, dei bambini, dei disabili e oggi, grazie al suo ultimo album Passaggi segreti, anche a quelli dell’immigrazione clandestina, ha voluto omaggiare la memoria di Mike Francis, suo cugino, molto amato dal pubblico, che nutre i ricordi di un’intera generazione che “ha ballato ad occhi chiusi” grazie alla sua musica, alla sua voce “unica” e a “quel sorriso che resta dentro l’anima” (dal testo).
STAR FELICI Io Donna, il settimanale femminile del Corriere della sera, dedica la copertina del 9 ottobre alla regista abruzzese Giada Colagrande e a suo marito Willem Dafoe, coppia di star felicemente sposati da cinque anni. Fotografati e intervistati nella loro casa romana, i due parlano del loro rapporto dentro e fuori dal set, del loro recente viaggio a Buenos Aires, di cambiamenti, dell’importanza della sessualità. E della cicoria ripassata in padella con aglio, olio e peperoncino: una delle cose con cui Giada ha “contagiato” Willem. 55 anni lui, 35 lei, i due inseparabili stanno per lanciare il terzo film della Colagrande, A woman, protagonista Dafoe (come nel precedente Before it had a name) presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Colagrande, originaria di Cappelle sul Tavo, spiega anche il suo rapporto col paese natìo e con una figura che per lei è stata “quasi un padre putativo”: Ettore Spalletti.
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L’Aquila 2010
Prove tecniche di ricostruzione La voglia di vivere è tanta. La voglia di vivere all’Aquila è ancora di più. Fuggiti dalla città terremotata e tenuti fuori dalle transenne, gli orfani del centro storico non si rassegnano a un’esistenza da sfollati. I giovani si inventano una nuova vita
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LA COMUN ITÀ XXIV LU GLIO
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CASE MAT TE
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LE DONNE DEL RUGBY
di Francesco Paolucci foto Andrea Mancini
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otografare la realtà odierna dell’Aquila non è facile, tanta è la confusione seguita al sisma. Il tessuto sociale è sfilacciato, disgregato, gli schemi tradizionali sono crollati insieme ai luoghi di incontro. Ma la vita trova sempre una strada: e “vita” significa “giovani”, i ragazzi, i protagonisti dell’Aquila che verrà. In questo reportage è di loro che si parla: di cosa fanno, come trascorrono le loro serate, quali sono le loro attività in un momento tanto difficile. I luoghi presi in considerazione sono diversi, nuovi rispetto ai luoghi in cui i giovani si ritrovavano. Sono luoghi emblematici di tanti altri in cui i giovani si incontrano. Lo spirito, le intenzioni, gli stati d’animo sono più densi, più profondi e l’incontrarsi esprime motivazioni diverse e tutte rispettabili. Mentre prima ci si incontrava per passare il tempo in compagnia, oggi ci si incontra perché si vuole discutere, si vuole proporre, si vuole sognare. Anche chi frequenta la Via della Croce rossa e il centro commerciale L’Aquilone, è spinto comunque da una forte esigenza di stare insieme uniti tutti da un senso sottile di nostalgia. Nessuna valutazione morale, né atteggiamento paternalistico ma solo la nostra consapevolezza che ciascuno di noi, come persona singola, sta vivendo la sua vita cercando di vivere il tempo che passa nel modo migliore che può. Una ricerca, coordinata dal Servizio Ascolto e Consultazione (SACS), condotta sui nostri studenti, ha evidenziato con strumenti ineccepibili la notevole capacità di resilienza (la capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, ndr) dei ragazzi che hanno messo in campo stili di coping, cioè di fronteggiamento delle avversità di diverso tipo ma improntati all’ottimismo, alla speranza, alla consapevolezza dell’importanza del senso della vita ed un sorprendente coinvolgimento della dimensione spirituale. Penso di poter dire che gli studenti –e i giovani in generale– sono un esempio di capacità di resistenza, di progettualità che può coesistere anche nei momenti in cui è forte la spinta ad “alzare il gomito” e farsi un bicchiere di troppo.
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DIMENTICA RE PER VIV ERE
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I L NUOVO C ENTRO
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VITA IN ZON A
ROSSA
*Prof. Università degli Studi dell’Aquila Facoltà di Medicina e ChirurgiaDipartimento di Scienze della Salute
JÙ BOSS L A
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di Massimo Casacchia*
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L’Aquila 2010/ Casematte a Collemaggio
La nuova piazza
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asematte è uno spazio autogestito che ha sede nella zona dell’ ex ospedale psichiatrico di Collemaggio. Nasce da un’idea del Comitato 3.32 ed è una continuazione dello spazio occupato pochi giorni dopo il terremoto, il 25 aprile 2009, nel Parco Unicef di Via Strinella, dove per mesi sono state organizzate svariate attività: concerti, intrattenimento per bambini, assemblee e incontri con le istituzioni. A settembre 2009, con l’arrivo del freddo, i ragazzi del 3.32 hanno sentito la necessità di trovare un’ alternativa alle tende per continuare il loro progetto di “nuova piazza” per la riflessione e l’intrattenimento. «Abbiamo passato l’estate a cercare spazi per non far morire, nel periodo invernale, il lavoro fatto» dice Sara Vegni del Comitato 3.32 «Le richieste di spazi sono state fatte anche alle istituzioni, ma non c’è stata data nessuna risposta e così abbiamo deciso di occupare questi spazi nel parco dell’ ex manicomio. Abbiamo recuperato e ristrutturato un piccolissimo edificio, un baretto.
In seguito abbiamo portato dei container e costruito case di legno». A Casematte c’è un internet point, l’unico in città, c’è un medialab con postazioni per montaggio video, c’è un bar per concerti, cineforum e assemblee ed un tendone per gli eventi più grandi: ospiti di Casematte sono stati il cantante Simone Cristicchi e il regista teatrale Pippo Del Bono. È uno spazio aperto a tutti e chiunque può partecipare e portare le proprie idee. Ogni lunedì c’è l’assemblea di gestione di tutta la settimana. Gli appuntamenti fissi sono la cena vegana del lunedì e la cena jazz del giovedì. Nella piccola sala prove si alternano ogni giorno numerosi gruppi musicali di ragazzi e il mercoledì mattina un laboratorio teatrale accoglie gli utenti del centro psichiatrico e i ragazzi delle scuole. Da poco Casematte, questa piccola ed importante realtà autogestita che Sara ama chiamare “scelta di autonoma sistemazione” ha compiuto un anno.
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L’Aquila 2010/I campi di Centicolella
Ricominciamo dal rugby
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l pallone ovale color rosa all’Aquila è una realtà giovanile in continua crescita. Le ragazze dell’Aquila Rugby non hanno niente da invidiare ai più conosciuti giocatori della prima squadra. «Per me e per noi tutte è semplicemente un’attività sportiva al di là di come si potrebbe pensare» racconta il capitano Stefania Mannucci. «L’anno scorso dopo il terremoto ci siamo allenate su un pezzo di terra perché volevamo finire lo stesso il campionato, quest’ anno ci alleniamo nei campi di Centicolella dove si allena anche la prima squadra, le giovanili e i bambini. Gli spazi sono pochi e siamo in tanti». Sono 17 atlete, dai 16 ai 32 anni, portano avanti il campionato di coppa Italia di rugby a 7 e hanno in progetto di fare un calendario in divisa per promuovere la squadra ed invitare altre ragazze ad avvicinarsi a questo sport. «Non è facile che una ragazza si avvicini al mondo del rugby. Si ha sempre un po’ di diffidenza e un po’ di timore e una volta conosciuto o lo si ama o lo si odia, ma lascia il segno. Per divulgare il rugby femminile –continua Stefania– vorremmo iniziare dei progetti con le scuole per far conoscere il gioco e far crescere la passione per lo sport». Le ragazze si allenano la sera, dopo le 19, due volte a settimana per prepararsi alle partite della domenica. «È una passione forte quella che abbiamo per il rugby –prosegue il capitano– una passione che forse viene dalla tradizione della nostra città; continuare a giocare dopo il terremoto è stato importante e ci ha aiutato tanto. È stato un modo per rimanere all’Aquila con l’obiettivo di portare avanti il movimento del rugby femminile».
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L’Aquila 2010/ La comunità XXIV Luglio
Volontari senza barriere
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a Comunità XXIV luglio è un’associazione di volontariato che da trenta anni si occupa della promozione e della tutela dei diritti delle persone “disabili e non”. Nonostante il terremoto abbia distrutto la sede storica della Comunità, l’associazione ha continuato a svolgere le sue attività –servizio trasporto disabili, vacanze e centro diurno– operando anche durante la fase di emergenza da una tenda situata in un campo di accoglienza. A breve sarà inaugurata la nuova sede dove continueranno a tempo pieno tutte le attività. «Una sede provvisoria –spiega Anna, una delle volontarie–costruita con gli aiuti economici di tante associazioni di vario tipo da tutta Italia». Sono una decina i ragazzi volontari che ogni giorno offrono il loro servizio alle attività della Comunità XXIV luglio. «Si comincia la mattina –spiega Annalisa– con il trasporto disabili, poi c’è il pranzo e il centro diurno, e ancora i laboratori
teatrali, le vacanze al mare e in montagna e tanti altri corsi, tra cui quello di decoupage. Siamo un po’ pochi come volontari –continua Annalisa– speriamo che altre persone si avvicinino a questa realtà». La nuova sede della Comunità è inserita nella Piazza delle Arti, un insieme di strutture di diversa fattura (container, case in legno) che ospiteranno 17 associazioni come Arci, Legambiente, Associazione italiana sclerosi multipla, un “Bibliobus”, il Museo di Arte Contemporanea, gli scout, gli Artisti Aquilani e molte altre. «L’idea di Piazza delle Arti è quella di creare uno spazio aperto –spiega Anna– dove far circolare le idee». «Mettere in rete conoscenze, stimoli ed esperienza –precisa Sabina– per creare uno spazio ricreativo, ma anche di riflessione per i giovani e non solo».
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L’Aquila 2010/Ju Boss
Ritorno al futuro
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i confini della zona rossa, in pieno centro, dove si sente l’odore del legno dei puntellamenti e della polvere delle macerie, la cantina “Il Boss” resiste come ultimo baluardo di una “normalità” e di una continuità con il passato. Molti giovani, ma anche adulti frequentano “Il Boss” durante le serate aquilane, chi per un aperitivo, chi per la cena, chi semplicemente per stare in compagnia e scambiare quattro chiacchiere dopo il lavoro. «Sei sicura che se vai al Boss qualcuno c’è, qualcuno che conosci» dice Germana, studentessa e lavoratrice. «Questo è l’unico posto che non è cambiato dopo il terremoto. In tutta questa insicurezza, è un posto sicuro». «Se non guardi le transenne e il buio di quella via là giù, sembra che non sia successo niente» aggiunge Marilia, studentessa, 28 anni. Per Alessandro, 29 anni freelance aquilano «il Boss è l’unico posto in centro storico che tiene i cittadini ancora legati al passato. A ridosso della zona rossa, un posto alla buona, semplice, una cantina». Agnese, 26 anni, studentessa: «Stare qui, nonostante le impalcature, non rappresenta la rinascita, la ricostruzione, ma semplicemente la vita, diversa da prima. Ora questa è L’Aquila». «Spero che sia una seconda casa per i giovani dell’Aquila» aggiunge Massimo, 28 anni, studente «È diverso dai nuovi locali aperti nell’immediata periferia perché qui c’è la storia. Il Boss c’era e c’è».
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L’Aquila 2010/L’Aquilone
Purché si voli
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Aquilone, il centro commerciale più grande dell’Aquila, è diventato dopo il terremoto un punto di riferimento per i ragazzi dai quattordici ai diciotto anni. Prima del terremoto passavano il sabato pomeriggio passeggiando per le vie del centro storico ed ora, assiepati sui loro motorini o su un muretto, trascorrono il loro tempo in periferia, fuori e dentro il centro commerciale. «Prima in centro era meglio –dice Mario– si stava bene. Io abito al progetto C.A.S.E. di Bazzano, dall’altro lato della città, e per venire qui ci metto quaranta minuti». Alcune scatole di Campari e le bottigliette vuote per terra fanno da scenografia alle loro giornate «Beviamo, che dobbiamo fare» dice Giuseppe, aggiungendo «Oh, non me la fare la foto che mamma si incazza». Se si fa un giro dentro il centro commerciale, si possono ve-
dere schiere di ragazzi seduti ai tavoli del bar o sulle panchine degli ampi corridoi illuminati da freddi neon. «Giochiamo con il cellulare, ascoltiamo musica con l’iPod, chiacchieriamo o facciamo un giro per i negozi» dice Sabrina annoiata. «Qui è meglio del centro, sta tutto più vicino. Prima si camminava di più per raggiungere un posto». «Ma che dici –risponde Giorgia– vuoi mettere il centro con il centro commerciale? In centro non ti sentivi mai da solo, qua sì». Molti di questi ragazzi da un giorno all’altro si sono ritrovati a passare da un “non luogo”, il progetto C.A.S.E., ad un altro “non luogo”, il centro commerciale; la loro vita associativa, ricreativa e culturale si è trasformata in un giro, sui mezzi pubblici, intorno alla periferia della città, magari con uno sguardo, sempre più debole, al “centro di questa ciambella” che è ora L’Aquila.
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L’Aquila 2010/Via della Croce Rossa
Dimenticare per rivivere
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ia della Croce Rossa, prima del 6 aprile 2009, era una via normale, una di quelle vie d’accesso alla città, che scorre proprio sotto le mura e dove si passava solo in macchina e raramente a piedi. Ora, a distanza di quasi due anni dal terremoto, Via della Croce Rossa è diventata la via della movida aquilana: bar, pub, rosticcerie, gelaterie, tabaccherie, ristoranti, negozi e attività commerciali hanno delocalizzato il loro lavoro dal centro all’immediata periferia. L’insediamento di queste attività commerciali, però, non è stato pianificato ed ora iniziano ad esserci i primi problemi di parcheggio, traffico e sicurezza stradale, soprattutto la notte e soprattutto nei giorni “universitari”. Il venerdì è uno di quei giorni e la diaspora in macchina dei giovani aquilani da un locale all’altro è lunga e soprattutto rischiosa per la guida in stato d’ebbrezza. «Sono stato prima a ballare
in un locale a dieci chilometri da qua e lì mi hanno offerto da bere» dice Ernesto «poi mi sono andato a mangiare un supplì qua sotto e mi sono bevuto una birretta. Ora qui al pub altre due birrette me le sono fatte e il fine serata al night al paese di Pizzoli, quello dall’altra parte della città e poi torno a casa». È l’una di notte è c’è chi ha ancora voglia di spostarsi e rischiare sia di fare un incidente stradale, sia di farsi ritirare la patente. «Questo posto è la voglia di non pensare a quello che è successo» dice Katia. «Qua è tutto come prima, la gente, la musica. Qui si torna alla normalità e ci si dimentica del terremoto». Katia è una studentessa aquilana, ha 26 anni e si diverte a ballare fuori dal pub, su un piccolo cubo. «Da quando hanno riaperto questi locali io ci passo quasi tutte le serate che sono libera. Ti puoi rivestire, ti fai due “tazze”, due chiacchiere. Stare all’Aquila ora è dura e questo è un modo di reagire».
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Enrico Marramiero/Paolo Primavera
Tandem M
Quarantenni al comando: i due presidenti di Confindustria Chieti e Pescara illustrano le loro strategie per lo sviluppo del territorio. Superando le logiche di campanile e proiettando i due organismi verso un futuro comune
Enrico Marramiero e Paolo Primavera, presidenti di Confindustria rispettivamente
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a Pescara e a Chieti, con lo sfondo della Val Pescara
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Metropolitano
di Claudio Carella
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ENRICO MARRAMIERO, già presidente del Comitato Piccola Industria e in passato Vice Presidente del Gruppo Giovani Imprenditori e del Terziario Avanzato, è nato nel 1966. Vanta pluriennale e variegata esperienza nell’associazionismo e nelle attività imprenditoriali di famiglia. Laureato in Economia e commercio alla Luiss di Roma, è amministratore unico dell’ALMA C.I.S. S.r.l. (costruzione impianti speciali), della MD Costruzioni srl (costruzione civili ed industriali), dell’Azienda Marramiero S.r.l. (produzioni vini), nonché presidente del Cda dell’Eurobic Abruzzo Molise spa (società di servizi).
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egni particolari: quarant’anni a testa, forte determinazione, senso di appartenenza, piglio da classe dirigente, desiderio di superare vecchi e logori schemi di campanile, voglia di confrontarsi con il mondo della politica senza complessi di inferiorità, perché il sistema Abruzzo, così come lo vediamo, non va. Soprattutto quando si parla di ritardo nella gestione delle infrastrutture e di sistema sanitario. Vento di cambiamenti lungo l’asse Chieti-Pescara in casa degli industriali. Il ricambio dei gruppi dirigenti, completato nelle scorse settimane con il rinnovo dei vertici delle associazioni provinciali, ha portato al vertice gli esponenti di una nouvelle vague imprenditoriale che aveva già dato buona prova di sé al timone degli industriali jr. Enrico Marramiero a Pescara e Paolo Primavera a Chieti sono già al lavoro per dare corpo e sostanza al progetto che li ha portati nella cabina di comando dei rispettivi organismi: procedere a passo spedito lungo la strada di una crescente unificazione delle due strutture, per dar vita a una rete di servizi che in poco tempo dovrebbe mettere a disposizione degli associati, pescaresi o chietini che siano, un ventaglio di strumenti condivisi. A sentirli, la novità vera del rispettivo mandato è questa, quella anagrafica –che pure all’esterno rappresenta un argomento ghiotto– può passare in secondo piano. E pazienza se altrove il cursus honorum si scali magari un po’ prima. Così fiorisce qualche aneddoto, come quello che ricorda Enrico Marramiero: «Quando varcai per la prima volta la soglia dell’Unione degli industriali, a Pescara, avevo 23 anni, ma era un’epoca in cui ai 50enni si dava dei “ragazzi”… Credo che il dato anagrafico in sé e per sé non sia determinante, contano squadra e progetti. Per questo sono contento di aver trovato Paolo (Primavera, ndr) alla presidenza di Chieti: in questo caso la coincidenza anagrafica aiuta». L’anagrafe, tuttavia, a Chieti è stata anche ragione di scontro di linee, come spiega il neo presidente: «Da noi forse era più radicato il peso di una vecchia generazione di imprenditori. Modi diversi di pensare la nostra missione, a prescindere dall’età: il problema era innovare o continuare, è prevalsa la prima tesi». Il rinnovamento, insomma, non è solo questione da ufficio anagrafe. Perché il problema vero è innovare. Così, la struttura organizzativa delle due Confindustrie provinciali diventa il
primo terreno su cui sperimentare nuove formule, in quella che si annuncia come una vera rivoluzione anche a livello regionale: superare i confini geografici, arrivare a una fusione dei due nuclei, pur mantenendo distinti organismi e sedi. Dice Marramiero: «L’integrazione Chieti-Pescara è evidente, con appena 15 chilometri che dividono due sedi, problemi condivisi per la gestione di infrastrutture come i porti di Ortona e Pescara, l’aeroporto, l’interporto. E problemi da affrontare a livello territoriale, come i consorzi industriali». Il superamento delle logiche di campanile può trasformarsi in un modello. Gli industriali sono pronti a farsene scudo anche nel confronto con la politica che, al contrario, pare sempre più rissosa e campanilista: un tema, quest’ultimo, che Paolo Primavera declina senza incertezze, pure a costo di usare parole forti. «Qui prosperano i campanili. Crescono “cricche” politiche. Ci sono assessori regionali che fanno politica in base a un principio di spartizione del territorio. Si tratta di visioni che non condividiamo: la nostra politica muove verso strategie regionali e non localistiche. Purtroppo i vertici della politica regionale danno questa sensazione» accusa. Il caso della sanità diventa esemplare dei nuovi messaggi che lungo l’asse Chieti-Pescara arriveranno alla politica regionale, di centrodestra o centrosinistra che sia: «La spesa sanitaria assorbe il 90% della spesa regionale. Il discorso sanità ci sta a cuore perché questo è un territorio che non investe più su nulla. Se non si torna a investire una parte delle proprie entrate, questa è una regione che andrà a morire. Sin qui è stato argomento sottovalutato, ma ora non si può più perché le aziende pagano addizionali sulle tasse, che le mettono fuori mercato rispetto ai concorrenti di altre regioni. Vogliamo sapere dove finiscono i nostri soldi, se i sacrifici sono finalizzati al risanamento, se davvero occorrono, se sono usati per ripianare il deficit. Se è vero che parte dei fondi Fas finisce per tappare il buco della sanità, si tratta dell’errore peggiore che la politica regionale possa fare, ovvero dirottare soldi dello sviluppo per coprire buchi» mette in chiaro il presidente degli industriali teatini. Sprechi e sperperi si possono ridurre, nella gestione del sistema sanitario, a condizione che si cambi registro: «Il timore è che i
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PAOLO PRIMAVERA ingegnere, 38 anni, nato a Guardiagrele, è stato presidente provinciale Ance Chieti. Ha iniziato fin da giovane il suo impegno nell’azienda CO.GE.PRI. Srl, operante nelle costruzioni di opere pubbliche, in veste di amministratore. Prima di essere eletto al vertice dell’associazione di Chieti è stato presidente dei Giovani di Confindustria Abruzzo..
nuovi indirizzi servano a tutelare alcune caste, anziché capire dove sono gli sprechi. Se due Confindustrie possono stare a 15 chilometri di distanza ponendosi un problema di semplificare ed eliminare sprechi, perché non ci possono stare anche due ospedali clinicizzati, che invece hanno spesso doppioni e “triploni”? Magari creando una sola Asl Chieti-Pescara in grado di offrire poli di qualità sul territorio in ambito metropolitano». Dalla sanità alle infrastrutture –altro capitolo caro ai nuovi vertici confindustriali pescaresi e chietini– per una critica alla politica altrettanto serrata: «Mancano strategie a medio e lungo termine. Occorre una progettualità che metta in relazione l’Abruzzo con il Centro Italia, che si faccia carico del rapporto con Roma Capitale, con i Paesi dell’est. Se mancano strategie, difficile risolvere anche i nostri piccoli problemi di tutti i giorni. Prendiamo il caso dell’aeroporto: poteva diventare il terzo scalo romano, un po’ sul modello di Parigi o Barcellona, dove gli scali minori sono anche a centinaia di chilometri. Si parla di Viterbo, ma sarebbero soldi gettati: Pescara è già pronta per i voli low cost, a Ciampino Ryan Air ha seri problemi ambientali. Oltretutto, un nuovo asse trasversale tra Roma e Pescara con milioni di persone da traghettare, giustificherebbe interventi importanti. Però il nostro deficit di progetto ha fatto sì che l’asse si spostasse verso nord, tra Roma e Ancona, con costi decisamente maggiori». La rilettura di questo Abruzzo che non piace alla nuova generazione che ha conquistato il vertice confindustriale, non risparmia nessuno: così, anche l’università finisce sotto esame: «Nella moltiplicazione degli sprechi nella sanità ha avuto un ruolo non sempre chiaro, sono stati creati reparti per favorire la Facoltà di Medicina. Assurdo che in una regione come questa vi siano ben due Facoltà di Medicina, senza che questo impedisca ai malati di emigrare altrove per curarsi, ma così l’ateneo diventa un peso. E se la politica non viene in soccorso, vorrà dire che ci occuperemo anche di ricerca e innovazione nella sanità». Politica avvisata, dunque. Perché l’ambizione è quella di svolgere il ruolo di classe dirigente senza complessi, visto che –afferma Marramiero– «l’impresa è il cuore pulsante di un territorio, il cui sviluppo passa da questo protagonismo. Con la politica non vogliamo una contrapposizione, non ci appartiene l’arte dell’osta-
colare o del contrapporre; vogliamo invece costruire alleanze strategiche, ma per vedere quel che si deve fare, perché è sotto gli occhi di tutti il momento di stallo. Prevale la politica del non fare, che investe maggioranza e opposizione, la volontà di concentrarsi su aspetti marginali e di secondo piano. Non si possono risolvere problemini se restano davanti i macigni». Ovvio che tanta determinazione, nata nel cuore più vitale della regione, ovvero la sua area metropolitana più sviluppata e ricca, finisca per mettere qualche pulce nell’orecchio al resto d’Abruzzo, e soprattutto nelle aree tradizionalmente a maggior ritardo di sviluppo come quelle interne. Insomma, che si riproponga il dualismo eterno tra costa e aree interne, tra area metropolitana e zone più marginali. Timore che Marramiero ci tiene a fugare subito: «Lo sviluppo deve essere omogeneo, non si può intervenire su uno a danno dell’altro, fermando uno per aiutare l’altro. A Pescara stiamo lavorando sull’area vestina che ha eccellenze importanti, come la Brioni, ma nodi irrisolti sul piano viario. E lo stesso vale per il polo chimico di Bussi. Il territorio va letto nella sua interezza». Linea che fa il paio con quella annunciata a Chieti: «Il campus dell’automotive che sorgerà in Val di Sangro ingloba 120 imprese, atenei, porta innovazione sul territorio e alle aziende grandi opportunità. Poi, il progetto della costa dei trabocchi per lo sviluppo del turismo nel territorio: metalmeccanica e turismo possono convivere, non è detto debbano contrapporsi…». Idee tanto chiare fanno pensare che la lezione di icone del mondo imprenditoriale, primo fra tutti l’abruzzese Sergio Marchionne, stiano facendosi strada. Il super manager Fiat resta un modello, ma inutile vivere di culto della personalità, come spiega Marramiero: «È finito il tempo di aspettare qualcuno che venga da fuori a cavarci le castagne dal fuoco, ben venga chi come lui mette in evidenza dei problemi. La sfida esiste, si è flessibili in entrata e non in uscita, qui non sono tutelati né i lavoratori né le imprese, da noi anche le più piccole autorizzazioni fanno paura, è una gara ad ostacoli. Perché alla fine non succeda quel che ci dice il giornalista Ferruccio De Bortoli: ci si rende conto dell’importanza di una impresa solo quando chiude, per i danni che produce la sua chiusura. Ecco, vorremmo che questo modello non ci appartenesse più».
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Tercas/Caripe
Ok,la fusione è giusta Il giudizio di un columnist prestigioso: «Riportare sul territorio la proprietà di Caripe è un segnale di ottimismo, un fatto importante, un’apertura di fiducia. Brava Tercas, ben fatto, ma ora si tratta di passare alle verifiche» di Sergio D’Agostino
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inanziariamente parlando, per l’Abruzzo è il matrimonio dell’anno, ed è maturato al termine di una trattativa lunga e discreta. Tercas e Caripe, ovvero le Casse di risparmio di Teramo e Pescara adesso sono una sola famiglia: a metterla assieme –sarà un caso: l’unione è stata sancita nella città di Romeo e Giulietta, Verona– la cessione della partecipazione, pari al 95% detenuta fino al 1° ottobre scorso dal Banco Popolare, che ha sede nella città scaligera e la Cassa di Risparmio della Provincia di Teramo, la Tercas appunto. Controvalore dell’operazione, 228 milioni di euro: è stata questa la “dote” che ha riportato in terra d’Abruzzo la cassa del capoluogo adriatico, ridotta negli anni passati a semplice tassello di un risiko bancario giocato su scenari lontani. Vista dagli analisti che quotidianamente si occupano di banche comprate e vendute, di scalate e passaggi azionari, la fusione potrebbe essere rubricata al capitolo “operazioni minori”. Prospettiva che cambia se a parlarne è un giornalista economico del calibro di Marco Panara, eminenza grigia di “Affari & Finanza”, l’inserto settimanale che il quotidiano La Repubblica dedica all’economia, ma che soprattutto è un abruzzese doc. Dice: «Il modello pre-crisi aveva portato ad accorpare gran parte del sistema bancario italiano attorno ad alcuni poli principali. La storia di Caripe è la stessa: una banca che attraverso una serie di passaggi è finita al Banco Popolare. Dal canto suo, Tercas è uno dei non tantissimi istituti che aveva mantenuto la sua autonomia. Immagino sia stata spesso corteggiata, ma si è mantenuta illibata per tutto questo periodo, in cui andava di moda far parte di grandi reti, aumentando la sua dimensione, i suoi sportelli, il volume di affari. Credo che in qualche modo la sua autonomia, la sua territorialità siano state elementi di forza, ed è possibile che abbia rosicchiato quote di mercato anche a banche nazionali. Quindi è da ritenere che Tercas si sia avvantaggiata per effetto
della sua indipendenza da una parte e della sua territorialità dall’altra». Insomma, a detta del giornalista economico abruzzese, «il fatto che oggi Tercas acquisisca Caripe è un segnale interessante, perchè cinque anni fa Caripe sarebbe comunque passata a una banca della dimensione del Banco Popolare, oppure a un’altra dello stesso tipo, come ad esempio la Popolare di Milano o il Monte dei Paschi. Oggi c’è una banca indipendente, solida, con un management vitale, presente sul territorio, perfetta per la sua dimensione. Con un vantaggio per Tercas e i suoi azionisti, ma più in generale per l’economia dell’Abruzzo: se una banca rimane sul territorio, ha una presa più forte e una dimensione maggiore, e probabilmente una capacità di incidere sul territorio in maniera più efficace». Una scelta innovativa, lungimirante? «Direi in controtendenza. Capita nel nostro mestiere di cronisti di incontrare casi in cui c’è qualcuno che riesce a condurre la barca su una rotta che non è battuta dagli altri, magari considerata obsoleta. E questo qualcuno talvolta ha ragione. Nel caso di Tercas sono stati bravi a fare il loro mestiere di banchieri, perchè è una banca sana, solida, cresciuta. Lo hanno fatto preservando ciò che oggi si rivela vincente: il valore dell’indipendenza». Matrimonio importante per i contraenti, e su questo nessuno ha dubbi. Ma l’Abruzzo ne guadagnerà? «Avere banche sane, solide e vitali è fondamentale per l’economia e lo sviluppo di un territorio. Il fatto che si tratti di banche nazionali o locali fa differenza, nel senso che la banca grande o collegata a una rete è in grado di fornire servizi più complessi, che un istituto di credito strettamente territoriale non è in grado di erogare. È importante che ci sia la miscela di due sistemi: uno fatto di grandi banche, con un modello organizzativo interno raffinato e tecnologico ma che però spersonalizza il rapporto tra banca e cliente. Modello che è
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TUTTI I NUMERI DELLA FUSIONE La Cassa di Risparmio di Pescara –spiega una nota presente sul sito della Tercas– conta su 384
dipendenti e 51 sportelli, di cui 45 in Abruzzo, oltre a cinque servizi di tesoreria. Al 30 giugno scorso esponeva attività totali per 1.694,7 milioni di euro di cui crediti netti verso clientela per 1.534,9 milioni, una raccolta diretta ordinaria pari a 1.232,4 milioni, una raccolta indiretta di 908,7 milioni e un patrimonio netto di 117,5 milioni di euro. Ha chiuso il primo semestre 2010 con un utile netto di 5,6 milioni di euro. L’acquisizione permette a Banca Tercas di diventare il primo gruppo bancario abruzzese con 163
sportelli presenti non solo in Abruzzo, ma anche in Molise, Lazio, Emilia
Romagna e Marche e attivi creditizi consolidati di
5 miliardi di euro.
•Marco Panara, giornalista di Affari & Finanza, settimanale economico del quotidiano La Repubblica
Fusione tra Tercas e Caripe: un sogno di mezzo autunno Meglio tardi che mai, anche se il sogno si avvera a metà. Erano gli anni tra il ’95 e il 2000 quando si cominciò seriamente a parlare della possibilità di unire le quattro Casse di risparmio abruzzesi, una per ogni provincia, in modo da creare un’unica banca regionale, più forte e competitiva, in grado di intervenire più concretamente a sostegno dell’economia abruzzese, specie lungo la fascia costiera. A distanza di oltre dieci anni, si celebra il matrimonio tra Tercas e Caripe dopo oltre un anno di serrate trattative. Indubbiamente un primo passo, anche se difficilmente si potrà proseguire lungo questa strada, dal momento che le altre due Casse sono entrate nell’orbita di istituti di credito nazionali. Però, mai dire mai, anche in considerazione del fatto che la Caripe si fonde o, meglio, viene acquisita da Tercas ma non direttamente in quanto la banca pescarese era sotto il controllo del Banco Popolare (un colosso formatosi con l’unione di varie banche del nord) che l’aveva acquisita dopo vari passaggi. Infatti il primo cambio di proprietà era stato con la Banca Popolare di Lodi (Bipielle). Peraltro una vendita forzata, dopo che Caripe era incappata in operazioni avventate che avevano causato sofferenze di rilievo. Basterà ricordare la vicenda dei derivati che avevano salassato banca e clienti. Era stata la stessa Banca d’Italia, dopo
una serie di ispezioni che avevano portato al cambio della guardia di diversi direttori generali, a “consigliare” la vendita a un partner affidabile. Con la Bipielle c’è stata subito una inversione di tendenza con l’avvento di nuovi manager, ma con la permanenza dello storico presidente del consiglio di amministrazione, Tonino Di Berardino. Dunque Caripe (51 sportelli, 382 dipendenti, un miliardo e 345 milioni di raccolta diretta e un utile netto di 3,5 milioni) passa sotto il controllo di Tercas (110 sportelli, 838 dipendenti, due miliardi 991 milioni di euro di raccolta e un utile di 24,05 milioni). Entrambi gli istituti di credito sono ben radicati nei due territori con reciproche “pacifiche” invasioni. Le sinergie sicuramente porteranno vantaggi gestionali e maggiore capacità di intervento a sostegno dell’economia abruzzese. Il prezzo di vendita che Tercas corrisponde al Banco Popolare per l’intero controllo della banca pescarese si aggira sui 230 milioni di euro, ma la prima tranche, relativa al 51 per cento del capitale, ammonta a cento milioni. La fusione si sarebbe potuta raggiungere già qualche mese fa, ma recentemente erano emersi diversi punti di vista circa alcune presunte sofferenze nel patrimonio di Caripe. Divergenze che nelle ultima settima sono state superate. Il sogno di mezzo autunno si è avverato. F.D.M.
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Lino Nisii
servito in una certa fase per omogeneizzare gli istituti di credito, ma che oggi rivela una certa separatezza tra la banca e il tessuto economico del territorio: perchè la banca non lo conosceva questo territorio, non conosceva –per usare un’espressione forse imprecisa, ma efficace– il suo lato umano. Non conosceva la storia di ciascun imprenditore, come invece avviene con la banca locale. Avere invece una banca nel territorio solida e vitale, non esaurisce i bisogni di quell’area, ma aiuta: perché conosce anche l’umanità che c’è dietro i numeri, soprattutto in una fase come questa». Il fattore “U”, ecco il segreto. «Sono anni durissimi. Ed è difficile per una banca che guarda solo ai numeri dare, o addirittura mantenere, il credito. Una banca che conosce bene il suo cliente, guarda sì ai numeri, ma ne conosce la storia imprenditoriale e personale e può avere perciò la capacità di cogliere la realtà che i numeri non rivelano. Dunque, che anche l’Abruzzo abbia una buona banca territoriale, che si allarga e aumenta di dimensione con maggiore capacità di operare, può essere un vantaggio. Riportare sul territorio la proprietà di una banca, come Caripe, che aveva preso un altro percorso, è un buon segnale di ottimismo, un fatto importante, un’apertura di fiducia, ma bisognerà vedere gli esiti. In ogni caso, bravi, bella operazione, ma ora si tratta di passare alle verifiche». Ma, come diceva Giulio Andreotti, «a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca». Qualcosa vorrà pur dire che la politica,
La Tercas e la sua storia Risale al 1939 la nascita della Cassa di risparmio della provincia di Teramo a seguito della fusione di due piccole banche, quelle di Nereto e di Atri. Nel 1940 la massa fiduciaria di Tercas era di 13 milioni e 596mila lire con 11 sportelli e 29 dipendenti. Nell’arco dei successivi trent’anni i depositi avevano superato i 43 miliardi di lire con un patrimonio di un miliardo e 254 milioni. Nel 1973 la banca raggiunge il prestigioso traguardo dei 100 miliardi di lire di depositi. Nel successivo ventennio la Tercas attiva un progetto di espansione territoriale aprendo nuove filiali nelle province di Chieti, Pescara, L’Aquila, Ascoli Piceno e nel Molise (Termoli e Campomarino). Nel 1992, con l’istituzione della Fondazione Tercas, la Cassa diventa società per azioni. Caratteristica della Tercas è l’autonomia e l’indipendenza dai grandi gruppi bancari e sempre con una spiccata vocazione locale e con una consolidata vicinanza al mondo delle famiglie. Questo ha condotto la Tercas a un nuovo rapporto con l’utenza basato su una fidelizzazione crescente che si realizza fornendo un livello di servizio sempre più elevato e personalizzato.
Antonio Di Matteo
almeno ufficialmente, sia rimasta fuori dalla porta nella trattativa durata mesi: verità o finzione? «Mi auguro sia rimasta fuori davvero. Sarebbe un fatto positivo, la conferma che si tratti davvero di un’operazione tutta e solo di carattere economico. Non è che la politica non si debba occupare di economia: non si deve occupare di affari, ma avere una visione e la capacità di trasferire ai meccanismi dell’economia le prospettive di quella visione. La politica può rimuovere gli ostacoli, può metterli, può facilitare lo sviluppo di alcuni settori o non farlo. Di situazioni del genere ne vediamo tante: se stavolta la politica non ha partecipato né frapposto ostacoli, questo mi rassicura». Come detto, arriverà presto il tempo delle verifiche: «Con il bilancio, nella primavera 2011: ci vorrà un anno per valutare questa omogeneizzazione». Ultimi capitoli. I protagonisti, primo fra tutti il direttore generale della Tercas, Antonio Di Matteo: «Lo conosco bene, non ha bisogno dei miei consigli». Poi, lo scenario: e non è un bel vedere. «La crisi –conclude Panara– ha colpito tutto il Paese, l’Abruzzo ancor di più. Di solito dopo tragici eventi, come il terremoto, l’economia riparte, c’è la crescita, come in Umbria e in Campania, magari non in maniera virtuosa. Ma per ora in Abruzzo non c’è l’impatto. Perché la ricostruzione non è avvenuta, anche perché attorno all’Aquila operano aziende non abruzzesi e persino i materiali non provengono dall’Abruzzo. Insomma, non c’è stato finora alcun effetto dinamico».
La Caripe e la sua storia Nel 1871, in un centro rurale caratterizzato da notevole dinamismo economico e sociale, l’ingegnere Francesco Valentini fonda la Cassa di risparmio e del credito agrario di Loreto Aprutino. Con l’unità d’Italia il centro abruzzese si distingue per la sua intraprendente borghesia agraria. Con la creazione della quarta provincia abruzzese, quella di Pescara nel 1927, il baricentro della banca si sposta nella città adriatica che negli anni Cinquanta diventa sede della Cassa. L’8 agosto 1992 nasce la Fondazione Caripe (oggi Pescarabruzzo), ma le funzioni creditizie rimangono in capo alla Cassa di risparmio. Nel 2001, l’istituto con la nuova denominazione di Banca Caripe, entra nell’allora gruppo Bipielle (Banca popolare di Lodi). Fino a ieri, prima della fusione con Tercas, la Caripe, all’interno del gruppo Banco Popolare era ed è un istituto locale che, senza smarrire la vocazione originaria, è proiettato su aree sempre più vaste. Assieme a Tercas il cammino sarà certamente più agevole.
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Sangritana
Una montagna per tutti Il Gran Sasso alla portata di chiunque: questo l’obiettivo della Sangritana, che ha preso in gestione gli impianti di Prati di Tivo, con lo scopo di rilanciare il comprensorio e rendere la prestigiosa località una meta turistica vitale per tutto l’anno di Mimmo Lusito
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dagiata ai piedi del Gran Sasso, sul versante teramano, Prati di Tivo è uno dei luoghi più suggestivi di tutto l’Appennino centrale, paradiso d’inverno di sciatori che si lanciano giù lungo piste sempre innevate, regno di trekkers e rocciatori (famosissimi gli Aquilotti di Pietracamela, uno dei primi gruppi di alpinisti nati per puro spirito d’avventura) che si inerpicano per le splendide pareti del Corno Piccolo. Questo, almeno, era il panorama fino al dicembre scorso, perché anche in Abruzzo le cose cambiano. In meglio, va detto: e il cambiamento si chiama Ferrovia
Adriatico Sangritana, l’azienda di trasporti che ha allungato il suo raggio d’azione (che comprende già treno, ferrovia turistica, autobus, agenzia viaggi) prendendo in gestione, dal 20 dicembre 2009, proprio il modernissimo impianto di risalita della splendida stazione sciistica teramana. Un gioiello tecnologico di ultima generazione, dotato di cabine a 8 posti fruibili anche dai diversamente abili, capace di portare in soli sei minuti i turisti dai 1450 metri di Prati di Tivo fino a quota 2007 metri, coprendo un dislivello di circa 600 metri e depositando i passeggeri proprio ai piedi della celebre statua
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Prati di Tivo, il Parco dello sport Non di solo sci vive il turista. E con l’utilizzo a pieno regime degli impianti di collegamento tra la stazione di Prati di Tivo e il rifugio della Madonnina grazie alla gestione innovativa della Sangritana, la località turistica diventa un grande parco sportivo nel Parco del Gran Sasso e Monti della Laga. Lo sci resta comunque l’attività principale a disposizione dei visitatori: gli impianti di risalita sono cinque, e coprono 15 chilometri di piste (1 km di piste nere, 3 di piste rosse, 11 di piste blu, di cui 8 km di piste da sci alpino con innevamento artificiale, più un anello di fondo da 4 km). Percorsi di trekking sono segnati, a partire dal rifugio, lungo le valli ai piedi dei due Corni, e raggiungono gli altri due rifugi del massiccio, il Garibaldi e il Franchetti; le mountain bike sono
della Madonnina. Dal punto di arrivo della seggio/cabinovia il Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga si estende sotto di voi in tutta la sua grandezza, sorvegliato dalla vetta più alta dell’Appennino che si staglia maestosa contro il cielo. Da lì, è tutto un altro Abruzzo. Perché ora, grazie alla nuova gestione da parte della storica (quasi centenaria) compagnia, Prati di Tivo può tornare ad essere un luogo fruibile da tutti, non solo da sciatori e rocciatori; non solo d’inverno, quindi, ma durante tutto l’arco dell’anno. L’operazione rientra nella mission della Spa regionale che da sempre persegue gli obiettivi di sviluppare la mobilità regionale in tutte le sue forme e valorizzare così il territorio. «La Sangritana –spiega il presidente Pasquale Di Nardo– svolge un ruolo cardine nello sviluppo economico, che va di pari passo con l’implementazione dei servizi di mobilità. La ferrovia che collega la costa all’hinterland attraverso la Val di Sangro è un servizio enorme allo sviluppo di quello che è uno dei comprensori più importanti dal punto di vista produttivo di tutta la regione. Lungo la costa provvediamo a rendere l’Abruzzo uno snodo importante per gli scambi com-
utilizzatissime per percorrere divertendosi tutti i sentieri più scoscesi e si possono anche noleggiare in loco. Gli amanti delle passeggiate hanno di che sbizzarrirsi: si può praticare il nordic walking, la tecnica di passeggiata che si avvale dell’aiuto di bastoncini simili a quelli da sci, o l’orienteering, divertente sport individuale o di squadra che mette in gioco le capacità di orientamento, allena i muscoli e il ragionamento. E naturalmente in questi luoghi si mantiene viva la tradizione dell’alpinismo, con pareti di roccia per tutti i livelli di difficoltà, da sperimentare sia d’inverno che d’estate. E per tenersi in allenamento si pratica il Boulder, ovvero l’arrampicata libera su massi di varia dimensione, allo scopo di provare movimenti e tecniche di scalata.
merciali; grazie alla rete di trasporto su gomma e a una flotta di circa 80 mezzi siamo capillarmente su tutto il territorio regionale. Il nostro obiettivo, ampliando le attività, è quello di far convergere mobilità e turismo, rendendo l’Abruzzo un luogo accessibile a tutti. Così, luoghi interni come Prati di Tivo, prima fruibili solo dagli appassionati di sci, ora diventano mete turistiche ben collegate, capaci di attrarre un più ampio bacino di utenti, patrimonio di tutti gli abruzzesi e di ogni categoria di turisti». Le scelte, infatti, sono molteplici: in inverno si possono affrontare le piste (15 km a disposizione tra blu, nere e rosse, più un anello di fondo da 4 km, il tutto servito oltre che dalla seggio/ cabinovia anche da altri quattro impianti di risalita completamente rinnovati), in primavera è possibile dedicarsi all’antica pratica dello sci-alpinismo, che conduce alle vette ed ai valichi più alti, attraverso innumerevoli itinerari di ogni grado di difficoltà; in autunno tra i lussureggianti colori del bosco i sentieri promettono ricche raccolte di saporitissimi funghi; si possono fare escursioni, godendo di panorami incantevoli e consentendo inoltre di vivere l’autentica atmosfera della
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• In queste pagine alcune immagini degli impianti di Prati di Tivo e del comprensorio. Qui sotto, Pasquale Di Nardo, presidente dell’azienda di trasporti La Sangritana
montagna. Con poche ore di cammino attraverso le valli, si raggiungono i rifugi Garibaldi e Franchetti, quest’ultimo situato alle porte del Ghiacciaio del Calderone, il più meridionale d’Europa; d’estate il trekking, il boulder (un’arrampicata sportiva su blocchi di pietra utilizzati per allenarsi e per provare nuove tecniche in sicurezza e senza troppo impegno), la mountain bike sono gli sport più praticati. E per chi vuole semplicemente rilassarsi in montagna godendo dell’aria fresca e incontaminata ci sono attività più semplici, come il nordic walking (la passeggiata con l’aiuto dei bastoncini) e l’orienteering, una disciplina che mantiene in forma il fisico e sviluppa il senso d’orientamento. E una volta tornati a valle, il divertimento è assicurato dal Parco Avventura, ideale per trascorrere momenti di puro divertimento con tutta la famiglia o con gli amici, sospesi tra ponti tibetani e teleferiche mozzafiato. Insomma, un ventaglio di possibilità che fino a poco tempo fa restavano chiuse al grande pubblico insieme agli impianti e che ora, invece, fanno della stazione di Prati di Tivo una ambita meta turistica che non conosce il significato della parola
“stagionale”. E non basta, perché dal punto di vista dell’offerta turistica la Sangritana si pone come vettore a disposizione dell’Abruzzo per iniziare un importante percorso di incoming: Prati di Tivo verrà inserita in una serie di pacchetti turistici che faranno parte dei listini della sua agenzia Viaggi e Vacanze, come già recentemente annunciato alla BIT di Milano dal presidente Di Nardo: «Il Gran Sasso –ha detto– deve essere un patrimonio fruibile da tutti, non solo da chi pratica gli sport invernali. La seggio-cabinovia serve una delle più incantevoli ed apprezzate località sciistiche dell’Abruzzo, nel cuore del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga. Qui si aprono nuovi ed interessanti scenari nella stagione invernale così come in primavera ed in estate. Per questo abbiamo intenzione di sfruttare gli impianti di Prati di Tivo durante tutto l’arco dell’anno e di formulare solide proposte turistiche che comprendano mare, montagna, enogastronomia e turismo religioso. Abbiamo già individuato sette pacchetti turistici che sfruttano tutta la nostra rete di trasporti, dagli autobus al treno, per finire naturalmente con questa modernissima perla tecnologica che è la stazione di Prati di Tivo».
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Waltertosto Spa
L’industria del talento Un master per crescere nel mercato: la Waltertosto Spa, in collaborazione con la Facoltà di Ingegneria dell’Aquila, investe nella formazione di nuovo personale altamente specializzato. E tutto abruzzese
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di Andrea Carella
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altertosto e Università dell’Aquila insieme per affrontare le nuove sfide della globalizzazione. Un argomento che suscita sempre nuove problematiche e al quale la formazione accademica tradizionale non sempre riesce a dare soluzione. Ecco quindi un progetto innovativo che unisce la grande tradizione universitaria abruzzese (l’università dell’Aquila) e il prestigio di una delle aziende più avvezze della regione a trattare sui mercati internazionali con colossi dell’industria quali le grandi compagnie siderurgiche e petrolchimiche (la Waltertosto Spa). Il progetto si chiama “Pressure process equipment: Design aformare figure altamente specializzate da inserire in quella che è di certo una delle aziende più grandi della nostra regione, e che da molto tempo si confronta col mondo intero riscuotendo sempre maggiori
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successi. Successi senz’altro determinati anche dalla capacità di dotarsi di personale qualificato in grado di rapportarsi con un mercato globale in maniera altamente competitiva. Partner della Waltertosto in quest’avventura è la Facoltà di Ingegneria dell’Università dell’Aquila diretta dal professor Pier Ugo Foscolo, insieme all’Istituto italiano di saldatura di Genova, il più importante del mondo. Ideatore del Master, insieme all’Ad Luca Tosto, è l’ingegner Giacomo Fossataro, direttore tecnico operativo della Waltertosto Spa. Com’è nata l’idea del Master e da quale esigenza prende il via quest’iniziativa? Il master nasce dall’esigenza di creare professionalità altamente specializzate che possano garantire la crescita dell’azienda, che sta incrementando parecchio e molto velocemente le sue relazioni internazionali. La nostra attività richiede competenze professionali che non sono esattamente quelle dei neolaureati in ingegneria o in materie tecnico scientifiche, ma richiedono un approfondimento che se svolto a livello esclusivamente accademico costerebbe molto tempo. Il nostro progetto è invece quello di bruciare le tappe e dare una formazione molto specialistica ai neolaureati in diversi indirizzi: ingegneria meccanica, chimica, gestionale. Nell’arco di un anno i nostri allievi saranno già pronti per le sfide del nostro business. Quali sono le caratteristiche del corso? Il nostro Master dura un anno ed è altamente selettivo: ci sono dure prove da superare per l’ammissione, poi esami di
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sbarramento ogni due mesi, che hanno ulteriormente ridotto il numero dei partecipanti dai 20 iniziali a 15. Qualcuno non ce l’ha fatta, altri hanno rinunciato e preso altre strade. Ma i ragazzi non hanno nessun vincolo, sono assolutamente liberi di scegliere. E per chi ci sceglie, il corso è professionalizzante ai massimi livelli: i docenti sono quelli della Facoltà di Ingegneria dell’Aquila e due corsi sono tenuti da docenti dell’Istituto italiano di saldatura di Genova, mentre noi come Waltertosto Spa abbiamo allestito un’aula per le lezioni e naturalmente mettiamo a disposizione i laboratori, le attrezzature e il personale specializzato per le esercitazioni pratiche e il tirocinio. Spesso poi i master sono molto costosi, per cui abbiamo studiato un sistema di retribuzione basato sul merito: chi supera gli esami ha diritto a un contributo mensile che varia da 500 a 700 euro, a seconda che lo studente provenga dalle province di ChietiPescara o da altre. È, si può dire, un’eccezione nel panorama nazionale. Ed europeo… Non so se esistano corsi analoghi, al momento, ma non posso escluderlo. Certo è che il nostro è un percorso formativo in cui l’azienda ha investito moltissimo, il che ne fa una novità assoluta: non solo abbiamo completamente finanziato il progetto, ma ci assumiamo anche il costo delle borse di studio. E naturalmente abbiamo il massimo interesse, in senso aziendale, al buon esito del master, dal quale speriamo di poter ottenere figure professionali che diano maggior valore alla nostra attività. • Nelle foto in alto e nella pagina precedente studenti del master a lezione nello stabilimento della Waltertosto di Chieti Scalo
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Università dell’Aquila e Waltertosto: collaborazione virtuosa «Un incontro futtuoso tra due realtà di altissimo profilo: la facoltà di Ingegneria e la Waltertosto, due espressioni dell’eccellenza accademica e industriale di questa regione». Così il Rettore Ferdinando Di Orio ha salutato l’avvio del master in Pressure process equipment: Design & Manufacturing promosso dalla Waltertosto Spa e coordinato dalla Facoltà di Ingegneria dell’ateneo aquilano. «Il Master –spiega Pier Ugo Foscolo, preside della Facoltà e presidente del comitato ordinatore– costituisce una novità assoluta: fornisce infatti una preparazione specifica per un’azienda, formando i laureati con competenze specifiche ma anche con solide basi teoriche e garantendogli un’esperienza ineguagliabile che li prepara
ad entrare direttamente nel mondo del lavoro. La presenza poi di docenti dell’Istituto italiano di Saldatura di Genova ha permesso ai partecipanti di conseguire anche il titolo di Welding Engineer, che è riconosciuto a livello nazionale sulle tecnologie della saldatura, incrementando ulteriormente il loro valore di mercato». Un’esperienza che, prosegue Foscolo «indica senz’altro la strada da percorrere per sviluppare sinergie a livello territoriale e allarga il raggio d’azione della Facoltà di Ingegneria a tutto il bacino regionale. Un’iniziativa simile costituisce un precedente che speriamo di replicare anche con altre industrie operanti in Abruzzo, e non solo».
Quali garanzie ci sono per gli studenti al termine del corso? Nessuna, formalmente. Ma è chiaro che il nostro non è un investimento “a perdere”: desideriamo davvero poter inquadrare gli allievi nella nostra struttura, tra l’altro tra i partecipanti ci sono davvero degli elementi eccellenti. E le alternative sono tutte valide e interessanti per un giovane neolaureato. Gli esami ogni due mesi e le borse di studio sono incentivi a mostrare il meglio di sé, a convincere l’azienda delle proprie capacità. Il titolo acquisito, comunque, è spendibile in qualunque azienda di questo settore a livello mondiale. Inoltre il corso, aperto a chiunque abbia già conseguito la laurea triennale in ingegneria chimica, meccanica o gestionale, frutta 60 crediti formativi, corrispondenti a un anno di laurea specialistica. I partecipanti al corso sono tutti abruzzesi? Al 90% sì, o comunque provengono perlopiù dalla Facoltà d’Ingegneria dell’Aquila, che è stato da subito il nostro partner prescelto per via del nostro radicamento sul territorio. E da parte dell’Università abbiamo trovato oltre a una grandissima professionalità, anche la massima disponibilità del Preside Foscolo, che ha sposato da subito il progetto e ci è stato accanto fin dal primo minuto. Tutto si svolge secondo le regole dell’università, che qui da noi è praticamente padrona di casa. Il master si completa con due mesi di tirocinio in cui ogni ragazzo seguirà un percorso individuale in varie aree: progettazione, saldatura, produzione… l’interesse aziendale è, ripeto, l’inserimento del massimo numero di professionalità nell’azienda.
• Nella foto in alto, da sinistra Pier Ugo Foscolo preside della facoltà di Ingegneria dell’Aquila, il Rettore Ferdinando Di Orio e Luca Tosto. Sotto una lezione del master
Cosa si studia? Il corso è improntato a fornire le competenze adeguate per confrontarsi sul mercato globale, quindi non solo si studiano materie inerenti la figura professionale strettamente intesa, ma si forniscono gli strumenti idonei a capire il tipo di ambiente in cui ci muoviamo. Per questo sono previste ad esempio trasferte internazionali per assistere a trattative commerciali, o presentazioni di aziende che vengono trovarci in sede, allo scopo di preparare i ragazzi al mondo che troveranno alla fine del corso. Ricerchiamo persone in grado di saper nuotare nell’Oceano, non di sguazzare in una pozzanghera: quindi, dobbiamo mostrar loro l’Oceano. Il corso è cominciato il 16 gennaio e terminerà poco prima di Natale. Un anno duro per i partecipanti e per l’azienda che ha impiegato tante risorse. Pensate che sarà possibile ripetere l’esperienza? Il gruppo di ragazzi è molto portato, sono tutti molto in gamba; il primo bilancio è assolutamente positivo. Ma abbiamo bisogno di valutare, oltre al risultato del corso, anche l’impatto che le nuove leve avranno sulla crescita aziendale, dato che il nostro investimento è stato e sarà parecchio oneroso. Abbiamo la disponibilità dell’Università e dell’Istituto italiano di saldatura, credo che ci siano tutti i presupposti; ma dovremo valutare i vantaggi reali in base ai singoli risultati di ogni singola figura professionale inserita in organico.
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Simona Molinari
La voce aquilana nel mondo La sua voce ha incantato il pubblico in Cina, presto andrà in Giappone, poi tornerà in USA e Canada. La “bella del bel canto” porta L’Aquila in giro per il mondo di Fabrizio Gentile
“B
el canto bella”, è l’appellativo con cui un giornale cinese ha annunciato l’arrivo di Simona Molinari, astro nascente della musica italiana, recentemente applaudita sui palchi di Pechino, Shangai, Macao e Hong Kong. La definizione calza quanto mai a pennello: la bella abruzzese (napoletana solo per l’anagrafe) ha una voce da usignolo, un’estensione chilometrica delle corde vocali, allenate fin da giovanissima sulle note del soul, del jazz e di tutto ciò che è black nella musica, tanto da portare qualche critico a fare paragoni con una certa tigre di Cremona. In pratica, un fenomeno, come si deduce anche dalle cifre: dopo l’esordio del 2008 con l’album Egocentrica (per cui ha vinto il “premio Lunezia Jazz d’autore 2010” e titolo anche del brano portato a Sanremo), ha conquistato il Disco d’oro per le oltre 35mila copie vendute di Amore a prima vista, primo singolo tratto dal suo nuovo album Croce e delizia –uscito lo scorso giugno– in cui duetta nientepopodimenoché con Ornella Vanoni (mica una da niente) e che le è valso il titolo di “miglior giovane artista” ai Wind Music Awards. Ventisette anni, aquilana d’adozione, brillante, simpatica e spigliata, Simona Molinari ha anche partecipato al concertoevento “Amiche per l’Abruzzo” organizzato da Laura Pausini per raccogliere fondi destinati alla ricostruzione dell’Aquila, il 21 giugno del 2009, esibendosi insieme a Nicky Nicolai e Karima in una reinterpretazione di Un’avventura, il classico di Lucio Battisti. Dopo il tour asiatico la attendono altre importanti performances: una su tutte, quella al Blue Note di Tokyo, il prossimo 25 gennaio, il che è un po’ come dire la Scala del jazz. «Dopo il Blue Note di
ABRUZZO E CINA, SEMPRE PIÙ VICINI È stata la manifestazione più importante del mondo, e anche l’Abruzzo ha avuto il suo momento: dal 16 al 23 settembre scorso all’Expo di Shanghai la nostra regione è andata in mostra nel padiglione Italia, alla presenza dell’assessore regionale Mauro Febbo, del presidente della Camera di Commercio di Pescara Daniele Becci e del preside della Facoltà di Architettura dell’Università “G. d’Annunzio” Alberto Clementi, oltre a molte altre personalità della politica e dell’imprenditoria regionale. Un rapporto, quello tra l’Abruzzo e la Cina, che si fa sempre più stretto non solo dal punto di vista delle relazioni commerciali: pochi mesi infatti hanno separato il sisma aquilano da quelli che hanno colpito nel 2008 la Provincia di Sichuan (magnitudo 8.0 e 69.000 morti) e nel 2010 la provincia di Qinghai (magnitudo 7.1 e 617 morti). Un drammatico confronto illustrato da Alberto Clementi, che nel suo intervento ha illustrato, con un filmato, i temi potenzialmente strategici per una realtà come quella cinese: dalla tradizione storica ambientale all’innovazione, con una particolare attenzione al modello di collaborazione istituzionale, sperimentato dal basso, per la gestione
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• Simona Molinari in una pausa del suo tour in Cina. A sinistra, nella foto di Michele Camiscia, la sua esibizione al Caffé Concerto 2010 all’Università d’Annunzio di Chieti.
del terremoto e della fase della ricostruzione dell’Aquila. Proprio all’Aquila, in seguito al terremoto, il colosso cinese delle telecomunicazioni Zte ha collaborato con Telecom Italia per lo sviluppo della banda larga nell’ambito del progetto C.A.S.E., un’iniziativa cui ha contribuito non poco l’interessamento dell’assessore regionale alle attività produttive Alfredo Castiglione. Per fortuna non sono solo eventi catastrofici a legare questi due mondi apparentemente distanti: è da diverso tempo che alcune importanti realtà produttive abruzzesi hanno messo piede oltre la Grande Muraglia. Basti pensare alla Tecnomatic, azienda leader nella realizzazione di sistemi produttivi “chiavi in mano” nel settore dell’automazione, o alla Fameccanica, che produce in Cina macchinari e impianti per la produzione di assorbenti igienici femminili, pannolini per bambini e pannoloni per adulti. O alla Tri-World, (società italiana con una sede operativa a Shanghai) specializzata in import-export che sta aiutando la cinese FAW a commercializzare le sue automobili in Italia tramite uno showroom alle porte di Pescara. E non finisce qui: cresce rapidamente l’interesse del Celeste Impero per i nostri prodotti agro-
alimentari (vino in testa), come dimostrato anche dall’apprezzamento riservato alla cena conclusiva della settimana abruzzese all’Expo, durante la quale lo Chef Luca Mastromattei e la sua collaboratrice Piera Lanotte hanno deliziato il palato di un centinaio di invitati: vini rigorosamente abruzzesi (Montepulciano DOCG Zanna riserva 2005 di Illuminati e Montepulciano DOC 2008 di Zaccagnini per quanto riguarda i rossi; Trebbiano Masciarelli per i bianchi) e menu a base di baccalà, spezzatino di agnello e la tradizionale chitarrina con pallottine alla teramana come portata principale. E si fa strada anche l’arte, con l’abruzzese Sandro Biondo che ha conquistato la Cina con alcune sue mostre antologiche e ha ottenuto un premio per i suoi 40 anni di attività pittorica lo scorso 10 ottobre, presso la China Central Academy of Fine Arts di Pechino. Nelle foto da sinistra: Alfredo Castiglione con la delegazione della cinese ZTE; il padiglione Italia all’Expò di Shanghai e lo chef Luca Mastromattei che ha preparato la cena conclusiva della settimana abruzzese
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• Un momento del concerto al Teatro Massimo di Pescara. Sotto, Simona sul palco del Caffé Concerto 2010 con Renzo Arbore e Piero Mazzocchetti; a destra è con Michele Di Toro
Milano e quello di Tokyo, chissà che un giorno non arrivi anche quello di New York», dice speranzosa Simona. E chissà che quel giorno non sia vicino: dopo essersi esibita in Giappone infatti “la bella del bel canto” volerà a febbraio negli Stati Uniti e in Canada per un nuovo tour. Simona, sei sempre in viaggio. Com’è andato il tour asiatico? È stato un gran bel viaggio. È stato stupendo, una crescita, come ogni viaggio che si rispetti. Quella cinese poi è una cultura completamente diversa dalla nostra, diversa anche da come spesso ci viene presentata: è piena di storia, di “civiltà”. Assolutamente da vedere. Anzi, adesso che sono tornata posso dire che soffro anche di una sorta di saudade, cosa che è capitata anche ad altre persone che conosco. È un posto magico. Come sei stata accolta? Benissimo, sono venuti in tanti a sentirmi e hanno partecipato con emozione. Certo, se sei italiano parti già avvantaggiato: la nostra musica è molto apprezzata da quelle parti. Loro conoscono molto bene il repertorio classico, la lirica, e le colonne sonore di Ennio Morricone. Il mio genere forse è meno conosciuto, ma vista l’affluenza di pubblico, senza falsa modestia, direi che è stato un successo. Spesso la terra trema, in Cina. Il fatto di essere aquilana ti ha avvicinato al pubblico? Ogni volta che ho potuto ho cantato la mia canzone, Nell’aria, dedicata all’Aquila, e ho ricordato la mia città in ogni serata. Ogni volta c’è stato uno scroscio di applausi, e credo che l’emozione sia stata recepita, con dolore. È evidente che conoscono bene cosa vuol dire vivere una tragedia come quella. Da “ambasciatrice” musicale dell’Abruzzo, come vedi l’immagine della regione in Cina? Fondamentalmente dell’Italia i cinesi conoscono Roma, Venezia, Milano. Ma il terremoto ha avuto un’eco vastissima e ha contribuito a far conoscere anche l’Aquila e l’Abruzzo. Però credo che lì si conosca soprattutto lo spirito delle persone, la loro
professionalità: sono tanti gli abruzzesi in giro per il mondo, ne incontro dovunque. Nell’ultima serata, alla Camera di commercio di Pechino, c’era anche l’ambasciatore italiano, e ho incontrato diversi connazionali, tra cui alcuni abruzzesi, addirittura aquilani. Anche in Cina abbiamo saputo portare il nostro know-how, la nostra forte identità culturale. Parafrasando il titolo del tuo ultimo disco… Abruzzo: croce o delizia? Entrambe. Croce, in questo momento: un po’ per quel che è accaduto, che ancora mi fa venire i brividi; un po’ per il periodo particolare che sto vivendo, che mi fa stare sempre lontana; e perché all’inizio specialmente è stato difficile gestire la cosa, L’Aquila è una piccola città ed era difficile parlarne senza rischiare che qualcuno pensasse che io volessi speculare sulla faccenda. Ma anche delizia: perché è tutto ciò che riguarda la mia infanzia, l’adolescenza, la formazione artistica, le amicizie, i primi amori. È la mia terra. Nella quale sei tornata per cantare al Fenaroli di Lanciano il 12 dicembre. È stato un graditissimo ritorno: a Lanciano ho cantato spesso in passato, prima ancora della mia partecipazione a Sanremo. C’è un pubblico caldo, meraviglioso, che mi riserva sempre la stessa accoglienza. A proposito di Sanremo… … non so ancora cosa succederà: ho presentato un brano, è al vaglio della commissione. Staremo a vedere, per ora non posso anticipare niente. Abruzzesi famosi: hai già duettato con Giò Di Tonno in Jekyll & Hyde. Qualche altro corregionale con cui vorresti lavorare? In realtà ho duettato anche con Piero Mazzocchetti, e prima di Sanremo ho avuto modo anche di lavorare con Davide Cavuti, un grandissimo fisarmonicista. Non mi pare ce ne siano altri… Ci sarebbe Ruggero, che ha partecipato all’ultima edizione di X Factor, ma ha sedici anni. Forse è un po’ presto. Ma non si sa mai, diamogli tempo di crescere professionalmente. Un saluto ai lettori? Grazie di cuore a tutti gli abruzzesi che mi sono vicini e che mi sostengono, che mi fanno i complimenti. Ogni tanto riesco anche ad andare sulla mia pagina Facebook, tra un viaggio e l’altro, e mi scuso se non riesco a rispondere a tutti…
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Eriberto Mastromattei
Pescaradamare Il personaggio simbolo della città vetrina raccontato da Giovanni Galeone che di quel periodo è stato protagonista e icona Eriberto in “versione befana” con Giovanni Galeone. A sinistra Eriberto sulla spiaggia di Pescara (foto Silvia Jammarrone).
di Antonio De Leonardis
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rovi a raccontare Eriberto e scopri una Pescara che non c’è più. Estroverso e burlone, furbo e geniale, spensierato e vivace, una gran voglia di fare, alla ricerca di nuovi stimoli e nuove emozioni. Lui come la città, appunto, una bella storia che ha attraversato gli anni Ottanta e Novanta, lasciando un segno che sarà difficile cancellare. A guidarci in questo viaggio tra i ricordi è Giovanni Galeone, il “profeta”, l’allenatore delle due promozioni in serie A del Pescara, del sogno che, come d’incanto, diventava realtà facendo esplodere di gioia un’intera città. «Eriberto? Che fenomeno! È una delle prime persone che ho conosciuto a Pescara. Era luglio, prima della partenza per il ritiro Vincenzo Marinelli mi disse che saremmo andati a mangiare in un ristorante sul lungomare. C’era Michele, un mago della cucina come scoprii in fretta e lui, Eriberto, ovviamente in costume da bagno, che correva da una parte all’altra della spiaggia, parlava con tutti, spontaneo e diretto pure con il sottoscritto che pure non aveva mai visto prima. Un personaggio unico, un pazzo scatenato, un personaggio con il quale era difficile non legare. Lui forse ci marciava pure un po’ recitando questo ruolo naif e sopra le righe, certo è che lì sul mare era il padrone della situazione. Cominciava alle sei
del mattino, andava a ritirare le retine e poi il pesce pescato lo regalava alle vecchine che lo aspettavano sulla spiaggia, la sua giornata andava avanti sempre di corsa, tra cento iniziative e tante idee. Era un fenomeno, ne faceva di tutti i colori: la pesca, lo sci d’acqua, il paracadute, il leoncino sotto la palma, il tennis, e la Befana e tante di quelle iniziative che fai anche fatica a ricordare. Generoso, mai che lo abbia visto nervoso o arrabbiato, sempre pronto piuttosto alla sceneggiata. Quando si dice Pescara è ‘nu film, beh, lui era il vero attore protagonista. E po i il suo amore per il mare era veramente infinito. Io con lui andavo dovunque, eravamo gli unici a uscire in barca col garbino e non era inconscienza, quanto la gioia, il piacere che ci accomunava di stare in mezzo alle onde. Credo, tra l’altro, che proprio lui, a Pescara, abbia segnato una svolta nel modo di fare turismo balneare. Sì, un rivoluzionario, era davanti a tutti e non di poco, col suo dinamismo, la sua genialità che gli altri magari imparavano ad apprezzare solo a distanza di tempo. Io mi trovai subito a mio agio e non tardai a capire che proprio quello era anche lo spirito della città». Pescara anni ‘80, appunto. Che cosa ti colpì e ti conquistò? «Giravi per il centro e vedevi sempre gente, i negozi affollati e non perchè ci fossero i saldi. Magari non compravano ma
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• In questa pagina il sindaco di Pescara Luigi Albore Mascia, l’assessore regionale allo sport Carlo Masci e il capitano di fregata Renato Mazzolani della Capitaneria di porto, con Luca e Anita Mastromattei inaugurano la “passeggiata Eriberto” sul lungomare cittadino. Nella pagina a fianco Eriberto è con Giovanni Galeone (a sinistra) e tra Ubaldo Righetti e Massimiliano Allegri, ex centrocampista del Pescara e attuale allenatore del Milan.
li vedevi presenti, un gran caos tutto intorno, con le auto parcheggiate in doppia fila all’ora del caffè o dell’aperitivo, lo stress che scivolava via tra una chiacchiera e una risata. Certo che mi colpì, di bacchettone non c’era proprio niente, men che meno il conformismo. Era la stessa cosa da Eriberto. Dall’esterno poteva sembrare un ambiente un po’ snob, ci entravi dentro e capivi subito che era solo un’impressione sbagliata. Allo stesso tavolo o sotto la stessa palma trovavi Marinelli, Gianni Santomo, personaggi del mondo dello sport, imprenditori facoltosi, il rettore dell’università e il primario d’ospedale ma anche il vigile del fuoco, il cazzaro, perfino lo spazzino. Gli stessi che poi si prendevano a pallate sul campo da tennis in sfide infinite, senza esclusione di colpi e di sfottò. Nella mischia si buttava anche Eriberto che a tennis ci sapeva fare poco, eppure spesso riusciva a vincere. Era furbo, era gatto, ne sapeva una più del diavolo, una palla contestata era sempre l’occasione per una sceneggiata che più di una volta finiva in accenno di rissa. Ho visto non solo lui ma anche altri del gruppo tirarsi dietro delle racchettate e poi rincorrersi minacciosi sulla spiaggia per poi tornare sul campo e riprendere la partita come se niente fosse, senza cattiveria nè rancori. E questa per me era una cosa bellissima, in perfetta sintonia con quel che accadeva in città. Io me la ricordo bene Pescara. Effettivamente non c’era nessun pericolo, niente di niente. Sapevi che c’erano quelle tre o quattro famiglie che magari potevano controllare il gioco d’azzardo, ma finiva
lì. Di droga nemmeno a parlarne, nel periodo in cui ci sono stato io proprio non esisteva. La città mi affascinava per quel modo semplice e diretto di viverla. Ricordo episodi che oggi potrebbero sembrare incredibili, arrivavano inviati da tutte le parti d’Italia e pure loro restavano affascinati: arrivò una giornalista e mi disse che il suo fotografo voleva fare un servizio su di me sulla spiaggia, possibilmente di notte e magari con un cavallo bianco. Detto e fatto. La banda di Eriberto –Fefè, Mancini, Valerio Santilli, il genovese– si mobilitò, arrivarono le fotoelettriche e ovviamente pure il cavallo bianco. Ci divertimmo da matti. E poi quella volta che, dopo una cena, il sindaco Piscione mi prese sotto braccio e mi disse: “Domani arriva il ministro per inaugurare la nuova stazione di Pescara. Ci terrei a fartela vedere in anteprima. Se ti va ci vediamo lì dopo mezzanotte”. Ovviamente ci andai, assieme a me c’erano un giornalista, un fotografo e alcuni amici, giro completo, in pratica la nuova stazione la inaugurammo noi. Oggi una cosa del genere nemmeno a pensarla. Sì, quella era una Pescara diversa, fatta di gente schietta, generosa, di personaggi straordinari. Quando tornavo a Udine, la mia città, mi sembrava di vivere in un altro mondo, lontano anni luce dalla realtà che avevo scoperto in riva all’Adriatico. Niente di preordinato o estremamente razionale, la filosofia invece del “tutto si può fare”. E anche lo sport era l’espressione di questo modo di vivere sempre all’attacco, senza troppi calcoli nè eccessivi timori. Furono anni straordinari anche per lo sport:
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la serie A col Pescara con l’Adriatico sempre pieno e felice, anche quando perdevi, la squadra di pallanuoto che vinceva tutto anche in Europa, basket e pallavolo a livelli che non c’erano mai stati in passato. Uno spettacolo, una festa infinita alla quale partecipava tutta la città che scopriva orizzonti fino ad allora sconosciuti. Andavi a casa di Gino Pilota, un altro personaggio incredibile dell’epoca, e ci trovavi Ayrton Senna, il più grande pilota del mondo, che girava in giardino con la macchinetta elettrica, passavi da Michele, il ristorante di Eriberto, e scoprivi che a uno dei tavoli c’erano Gianni Brera o i Benetton. Sì, quello era un punto di ritrovo, si passava da lì e ci si tornava, era l’espressione più diretta del fascino che emanava la città e che conquistava in fretta chi la scopriva. A me almeno ha fatto questo effetto. Sarà pure per il mio carattere, il mio modo di pensare ma certo è che ci misi poco ad entrare in sintonia con tutto quello che mi girava intorno. Una città aperta, che offriva un approccio diretto, naturale e che proprio per questo poteva affascinare anche gente con un carattere diverso dal mio». Una Pescara che non c’è più, un cambiamento in linea anche con quello che è successo nel resto del Paese? «Che non ci sia stato un ricambio generazionale è fuor di dubbio. Quei personaggi non li trovi più, questo è certo, la città, nel suo modo di essere, è totalmente cambiata, probabilmente anche più di quanto sia capitato altrove. Vi faccio l’esempio di Udine che resta tranquilla, ordinata più o meno
come lo era 25 anni fa. E la differenza allora era abissale, lo spirito diverso di Pescara e dei pescaresi, tra l’altro, lo vedevi anche nello sport. Io ho vinto campionati anche a Udine e a Perugia, ma qui era sul serio tutta un’altra storia. Vi faccio un esempio. Alla vigilia della gara col Parma, quella che ci avrebbe dato la promozione in serie A, in città era già festa, nessuno che pensasse che quella partita avremmo anche potuto perderla. A Perugia, qualche anno dopo, stessa situazione e atmosfera del tutto diversa. “Domani? Speramo mister, speramo…” era questa la frase che sentivo di più. Ma come, “speramo”? A Pescara non c’era storia: avevamo, non solo noi della squadra ma tutta la città, una convinzione di vincere che era senz’altro superiore alle difficoltà della sfida». La stessa sicurezza che mostrava proprio Eriberto quando tirava fuori dal suo magico cilindro iniziative impensabili in quegli anni e che lui, puntualmente, rendeva concrete. L’ultimo colpo non gli è riuscito ma forse solo perchè non ne ha avuto il tempo: l’isola dei sogni, proprio lì davanti al suo mare... «Un’idea bellissima pure questa. E se devo fargli un rimprovero è proprio quello di non averla pensata prima. Venti anni fa, in quella Pescara del si può fare avremmo ribaltato il mondo, sono convinto che sarebbe nata anche la sua isola. Sì, formidabili quegli anni. E credo che proprio per questo Eriberto e la città mi resteranno sempre nel cuore».
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Grandi progetti nel Mediterraneo
Un mare di solidarietà Un Meeting internazionale mette in comunicazione privato e pubblico per favorire progetti di cooperazione sociale nei Paesi in via di sviluppo. Oltre sessanta espositori e un premio speciale ad Angela Merkel di Stefano Campetta
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l Mediterraneo è stata la culla della civiltà. Una civiltà che si è sviluppata e ha influenzato tutto il mondo, ma che nell’ultimo periodo vede la concorrenza di altre aree emergenti del globo, come i Paesi asiatici. Necessario, quindi, per i Paesi che si affacciano su questo mare, trovare delle opportunità di crescita e di sviluppo comune. È con quest’obiettivo che nasce “Grandi Progetti nel Mediterraneo”, il Meeting internazionale di tipo congressuale-espositivo che si è svolto dal 2 al 4 dicembre presso il centro espositivo della Camera di Commercio di Chieti. Organizzato dalla Onlus Aurora in collaborazione con Forumed, Istituto per il commercio con l’estero della Camera di Commercio di Chieti, Comune di Chieti e Abruzzo fiere, il Meeting ha visto la partecipazione di oltre sessanta espositori selezionati –fra imprenditori privati ed enti pubblici– che si sono incontrati per analizzare tematiche relative all’area mediterranea e presentare, negli spazi espositivi, proposte e progetti della propria azienda che fanno emergere interessanti opportunità di business e di mercato. Responsabile della Onlus Aurora, organizzazione che si impegna nel sostenere la cooperazione sociale a favore di quelle comunità che a causa di condizioni sfavorevoli vivono situazioni difficili, è l’ingegner Domenico Merlino. «Il Mediterraneo oggi non ha più frontiere –spiega Merlino– e deve essere pensato come un grande spazio, una risorsa strategica, un luogo di cooperazione privilegiato. Il Mediterraneo quindi come posto dove nasce “il mercato” che si apre a grandi distanze e con ponti che avvicinano le persone: un abbraccio ideale per dare a tutti la possibilità di vivere dignitosamente». Il Meeting è giunto alla quinta edizione in un crescendo di qualità sia per le aziende partecipanti che per gli argomenti trattati nei diversi e numerosi seminari. Quale principio è alla base del Meeting?
«Il nostro slogan è “Presenta un progetto - realizza un’opera”. Il principio fondamentale della manifestazione è di aprire nuove prospettive e consolidare con progetti mirati il proprio presente. Si tratta di una manifestazione che, partendo dall’Abruzzo, vuole rivolgersi ad un mercato nazionale ed internazionale in continua evoluzione. Sono anni che ci muoviamo per promuovere le aziende italiane in un contesto internazionale quale il mercato dei paesi del Mediterraneo. Coerentemente con detto principio il Meeting è caratterizzato dalla presenza di aziende abruzzesi, nazionali ed internazionali che hanno presentato anche quest’anno i loro profili aziendali e i loro progetti di sviluppo. La partecipazione è stata studiata per mettere insieme diversi soggetti portatori di esigenze plurime e di aggregazione per facilitarne la realizzazione». Quali sono stati i settori e i Paesi interessati? «In questa edizione abbiamo avuto nazioni dell’Est Europa, del Nord Africa e dell’Asia. Gli spazi hanno ospitato delegazioni governative ed istituzionali e imprenditori esteri che cercano forme di collaborazione con il nostro tessuto produttivo e soprattutto con i settori dell’innovazione tecnologica e dell’impiantistica italiani, che costituiscono i settori di interesse insieme a quelli dell’energia, dell’immobiliare, della finanza, dei servizi, della pubblica amministrazione, infrastrutture e formazione». Quali temi sono stati trattati nei seminari? «Si è parlato dell’internazionalizzazione e del processo di avvicinamento all’unione del Mediterraneo, coerentemente con il principio ispiratore del Meeting. Gli altri temi sono stati la ricostruzione dell’Aquila e l’analisi infrastrutturale sia in Abruzzo che in Italia, utile affinché si possa concorrere ad essere parte fondamentale di un processo di sviluppo quale quello del Mediterraneo. Abbiamo necessità di far conoscere anche gli aspetti
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positivi dell’Italia, stiamo lavorando per permettere la trasformazione di un’azienda di Stato da “vecchio carrozzone” a grande azienda capace di produrre utili per il nostro paese». Com’è stato strutturato il Meeting? «I tre giorni sono stati articolati in diversi momenti: quello espositivo, quello congressuale, più un momento culturale (la consegna del premio “I due mondi”) e uno ricreativo, con la serata di gala studiata per intrattenere rapporti e alimentare conoscenze. Un momento di relax senza perdere di vista l’operatività e gli equilibri di carattere sociale. I progetti presentati durante il Meeting realizzano l’obiettivo di dare un aiuto concreto ai Paesi in via di sviluppo: il ricavato del Meeting, poi, sarà utilizzato per realizzare iniziative di cooperazione in collaborazione con la Onlus Aurora». Il Meeting si caratterizza da anni per la consegna del premio “I due Mondi”.Ci può spiegare in cosa consiste? «Il premio I due Mondi è stato coniato prendendo ad immagine la figura di Giuseppe Garibaldi: non come figura di soldato, ma come persona che con il proprio impegno e coraggio si è adoperato per avvicinare popoli diversi tra di loro. Nel rispetto di questa logica non vengono selezionate e premiate personalità che hanno notorietà e successo, ma personaggi che si sono distinti nei diversi settori di appartenenza con iniziative particolari attraverso le quali si individua un processo di distensione e di avvicinamento di diversi popoli. Quest’anno abbiamo premiato Angela Merkel, scelta sia per i propri trascorsi sia per aver contribuito al finanziamento di Onna distrutta dal terremoto: conosciuta per la strage nazista nell’ultima guerra, oggi ricostruita dalla stessa Germania, è apparso un messaggio di riconciliazione importante da meritare un premio».
GLI EVENTI Durante il Meeting diverse sono state le occasioni di approfondimento culturale, economico e sociale. Tra tutti è stato di grande impatto quello dedicato alla delicata questione della ricostruzione dell’Aquila, con la presenza del Provveditorato alle Opere Pubbliche per la Ricostruzione, che nei suoi quattro stand ha presentato ben sei progetti in proposito, coincisi con il Seminario sulla ricostruzione cui hanno preso parte il Provveditore aggiunto Giancarlo Santariga e il Commissario alla ricostruzione Gianni Chiodi. Due stand per le Poste italiane che hanno effettuato un annullo filatelico speciale gratuito del logo dei Grandi Progetti e organizzato un seminario sulla loro esperienza: da amministrazione pubblica a sistema di impresa. Altro appuntamento importante è stato quello con il seminario “Le istituzioni incontrano i giovani” al quale hanno partecipato l’assessore allo Sviluppo economico della Regione Alfredo Castiglione, il vice sindaco del Comune di Chieti Bruno Di Paolo e Silvio Tavoletta, assessore allo Sviluppo delle risorse umane della Provincia di Chieti. La giornata di sabato è stata dedicata alle infrastrutture in Abruzzo, con due seminari: il primo con Alfredo Castiglione, Augusto Di Stanislao, il senatore Giovanni Legnini e Pasquale Di Nardo, presidente della Sangritana; al secondo è intervenuto Franco Karrer, presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici. Gran finale con la consegna del premio I Due Mondi, quest’anno attribuito alla Cancelliera tedesca Angela Merkel per la ricostruzione di Onna. • Dall’alto: l’area del Foro Boario della Camera di Commercio di Chieti, sede del Meeting; l’ingegner Domenico Merlino taglia il nastro con Alfredo Castiglione e Enrico Di Giuseppantonio; il premio “I due mondi”; un momento congressuale.
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Italo Lupo
Gioielli di famiglia Il celebre orafo pescarese si appresta a varcare la soglia dei trent’anni di attività: un’esperienza preziosa come le sue creazioni
C’
è chi nasce sotto una buona stella. Italo Lupo, o meglio la sua attività, è nata invece sotto una buona… sterlina. «Dopo il diploma alla Scuola Politecnica di Design di Milano e diversi arredamenti lì progettati e realizzati –racconta– sentii il bisogno di ritornare alla mia Pescara. Un amico orafo mi chiese di disegnare dei gioielli per lui e, per disegnare qualcosa di realizzabile, iniziai ad imparare le varie tecniche orafe; diventai quasi un apprendista e di conseguenza con risorse economiche quasi zero. Decisi di aprire un laboratorio per conto mio ma per cominciare avevo solo un portachiavi con una sterlina, un regalo di mio padre; fusi quell’oggetto per il primo lavoro della nuova attività e da lì iniziò la mia storia». È l’aprile del 1981 quando Italo Lupo si iscrive alla camera di commercio come orafo e designer, grafico e progettista d’interni. Da quell’aprile sono passati quasi trent’anni, che Lupo festeggerà nel 2011 (“ma non so ancora come”, dice), durante i quali la cura dei particolari, un meticoloso studio delle tradizioni e un’indiscutibile capacità creativa –insieme a una manualità eccezionale– hanno fatto sì che Italo Lupo diventasse uno dei simboli stessi dell’artigianato abruzzese, insieme ai suoi gioielli, tanto da meritare la carica di presidente regionale della Cna, un traguardo raggiunto lo scorso anno. «Ho studiato da designer industriale; anche se poi ho cambiato strada –spiega– i miei studi mi hanno conferito la forma mentis adatta per mantenere rigore nel mio lavoro. Sono stato educato alla progettazione, alla creatività, alla sperimentazione, alla ricerca. Sono cose che ogni artigiano
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dovrebbe coltivare, il valore aggiunto di ogni mestiere». Oggi insieme a Italo Lupo lavorano otto dipendenti nel suo laboratorio, mentre sua moglie Patrizia cura la commercializzazione e i rapporti con i clienti e la figlia Isabella si occupa dell’immagine e dell’organizzazione del laboratorio; l’altro figlio Francesco si sta specializzando all’Accademia delle Belle Arti di Urbino: «Mia moglie e mia figlia sono il 50 per cento dell’azienda. È fondamentale, soprattutto ora che con la presidenza della Cna ho molti più impegni di prima. Ma trovo comunque il tempo di rifugiarmi nel mio pensatoio», dice, riferendosi alla piccola bottega di Bolognano dove «tra un pomodoro e un peperoncino mi dedico alla parte creativa del mestiere» e dove prendono vita le creazioni in argento, mentre quelle in oro nascono nel laboratorio di Pescara, lo stesso che trent’anni fa era un locale vuoto e che oggi è un negozio luminoso e accogliente nel quale sono esposti tutti i gioielli che lo hanno reso celebre: dalla Presentosa al Cuore d’Abruzzo, dalle Virtù alla Pescarina (la “Presentosa di mare”, gioiello creato appositamente per Pescara, la sua città). Trent’anni, durante i quali «ci sono stati momenti esaltanti e altri in cui ho pensato di mollare tutto. Ma è proprio nei momenti di crisi che spesso nascono le idee migliori, che ti permettono di risalire la china quando poi le cose ricominciano a girare». I suoi gioielli fanno ormai parte della tradizione pescarese, tanto che molti clienti li conservano come “gioielli di famiglia”, creati per essere goduti, ammirati e conservati nel tempo. «E ciò mi riempie di orgoglio», conclude Italo Lupo.
• Italo Lupo tra la moglie Patrizia (a sinistra) e la figlia Isabella (a destra) nell’atelier di via Roma a Pescara
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Simona Iannini
A scuola di tombolo Tradizione e arte si intrecciano nelle creazioni di una giovane aquilana che ha un obiettivo ambizioso: creare un’Accademia per la diffusione del merletto artistico a livello internazionale di Monica Giuliato
È
dai tempi di Henri Cartier-Bresson che alla parola “Tombolo” la nostra mente associa, quasi in automatico, l’immagine di una vecchia signora in costume tradizionale abruzzese intenta a ricamare su un piccolo telaio. Ma il merletto, oltre che essere un prodotto tipico (nella sua più straordinaria tecnica di lavorazione, il tombolo, appunto) è anche, e soprattutto, una forma d’arte. E di quest’arte, Simona Iannini (piuttosto lontana dall’essere una vecchia signora) è un portabandiera: medaglia d’argento per il tombolo aquilano, insignita dell’onorificenza nientepopodimenoché dal Presidente della Repubblica, è presidente e fondatrice di RIMA (Rinascimento Italiano del Merletto d’Arte), un’associazione che vuole fare dei saperi “locali” del merletto d’arte un sapere europeo. Inoltre, in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione, fonderà nel 2011 all’Aquila la prima Accademia internazionale del Merletto d’Arte, riconosciuta a livello europeo, con docenti e metodi di insegnamento certificati, capaci di rapportarsi con le strutture didattiche tradizionali degli istituti d’arte e degli istituti professionali. Reduce dalla 26° mostra internazionale del pizzo di Novedrate, e dall’Hobby Show di Roma, che l’ha vista anche protagonista di un servizio esclusivo del TG1, l’aquilana Iannini ha abbandonato nel tempo la strada che stava percorrendo (è laureata cum laude all’Università degli studi di Teramo in Scienze Politiche) e ha frequentato corsi nazionali e internazionali di tecnica del merletto d’arte, fino a far diventare ciò che inizialmente era una passione praticata nel tempo libero una vera e propria professione, o meglio, una forma raffinatissima di arte concreta. Così, nelle forme armoniche delle sue creazioni, realizzate con fili sottilissimi, con milioni di intrecci e centinaia di fuselli, in altrettante ore mentre il mondo intorno corre affannoso alla ricerca di un presente da difendere, Simona ha costruito il suo mondo, fatto di tecniche e gesti multisecolari ma capaci di scoprire nuovi percorsi, nuove figure, nuovi e diversi orizzonti di senso. Così, rapportandoci alle creazioni innovative di Simona –gioielli, borse, calzature e altri accessori– completamente reinterpretati con l’arte del tombolo, non possiamo fare altro che definirle veramente moderne. Oggetti che normalmente “consumiamo”,perdiamo, gettiamo insieme al nostro tempo impaziente, con Simona divengono particolarmente preziosi, possiedono una tonalità affettiva che ci parla di realtà e verità di altri tempi, ci raccontano “sentimentalmente” un mondo perduto, ma soprattutto sono una sorta di risalita, di macchina del tempo in cui il passato e il futuro sembrano assolutamente equidistanti dal presente, dandoci la sensazione di “essere a casa” tra le cose.
Poi si scopre la persona Simona Iannini. La sua comunicatività, la passione per il suo lavoro, i suoi progetti non ti portano a pensare che è un’aquilana “colpita” dal terremoto. Un anno e mezzo fa le è crollato tutto: la sua Accademia, la sua casa, i suoi materiali, i suoi “pezzi” lavorati in una vita e lei stessa, tutto sotto le macerie. Poi l’ospedale e la lunga riabilitazione, vissuta “impazientemente”,con la voglia di ricostruire ciò che il sisma aveva distrutto. «Il terremoto e le sue conseguenze sono state e sono tuttora durissime da affrontare per me e la mia famiglia. In un attimo abbiamo perso tutto il nostro mondo. Ma è stata anche un’esperienza di vita fondamentale, che mi ha portata a scoprire e capire il valore degli altri. Prima del 6 aprile correvo da sola, dopo è cambiato tutto. Ho scoperto che nel campo del merletto d’arte esiste una comunità internazionale fortissima, soprattutto all’estero, fatta di esperti, di appassionati, di persone che “lottano” tutti i giorni per tramandare, promuovere, divulgare, reinventare un sapere sempre e solo europeo che rischia di andare perduto. Queste persone non solo mi hanno dato una mano a ripartire, ma mi hanno anche fatto capire che ciò che avevo coltivato per tutta la vita non era una passione “individuale”, ma corale, collettiva, tutta da condividere e da confrontare con gli altri». Nei prossimi mesi, Simona sarà impegnata in Abruzzo nell’organizzazione della mostra didattica itinerante Fili femminili, finanziata dal Ministero dell’Istruzione. «È una mostra particolare, dove tutti avranno la possibilità di “capire”,o forse anche soltanto “ricordare” l’antica arte del tombolo aquilano, ma non solo. Fili Femminili vuole sensibilizzare il suo pubblico, e soprattutto i giovani studenti delle scuole medie e superiori all’attualità e alla modernità estetica del merletto d’arte, vivibile ancora oggi come raffinata forma di sapere e di espressione creativa che ben si adatta ai prodotti del migliore made in Italy». Fili femminili, dopo l’acclamato esordio al Golf San Donato dell’Aquila in ottobre, è passata al Museo delle Genti d’Abruzzo nel novembre scorso. All’interno delle sedi della mostra sono stati organizzati diversi stages per l’approfondimento della tecnica del tombolo aquilano tenuti da Simona Iannini e uno stage nazionale sulla riconoscibilità dei pizzi antichi tenuto dall’insegnante austriaca Christa Mack. L’esposizione è stata organizzata in tre tipi di percorso –storico, della memoria e visionario/artistico– e ha trovato un curioso momento ludico in cui i visitatori stessi hanno prodotto una grande opera collettiva in tombolo: sono stati loro, infatti, i fuselli che ruotando su se stessi e intrecciando i loro fili hanno ricreato quell’arte unica e particolare di vestire il tempo, che è il tombolo aquilano di Simona Iannini.
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• Simona Iannini al lavoro sul caratteristico “tombolo” aquilano
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LIBRI
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ARTE
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eresita Olivares Medina, violoncellista, e Alfredo Paglione, all’epoca ricercatore per la DeAgostini, si conoscono in Colombia nel 1960. Sette anni dopo si sposano nella chiesa di S.Andrea a Pescara. Da allora hanno condiviso tutto: la vita tra Milano e Maiorca, dove avevano una residenza estiva frequentata da numerosi artisti; l’attività lavorativa tra Lugano, Milano e la Spagna dove si trovavano le gallerie d’arte di Alfredo; la casa di Giulianova, dove i due coniugi si trasferirono nel 2002 per dar vita, nella cittadina teramana, al Museo d’Arte dello Splendore, il primo dei numerosi musei costituiti grazie alle donazioni della coppia, infaticabili collezionisti d’arte. Teresita e Alfredo hanno vissuto insieme ogni loro esperienza fino all’inizio del 2008, quando una grave malattia l’ha portata via al suo adorato marito all’età di 71 anni. Il cd “Per Teresita”, pubblicato dalla Fondazione Crocevia, è un omaggio che Alfredo Paglione, grazie al pianista Daniele Ranieri, porge alla sua compagna di vita. Daniele Ranieri, Per Teresita, Ed. Crocevia, Milano 2010
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Sinfonia d’amore
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A metà d
Libri
Luciano D’Alfonso torna ad affacciarsi sulla scena dopo un periodo di forzato silenzio. In un libro-intervista con Umberto Dante parla del passato, del presente e del futuro. Suo e dell’Abruzzo
È
un Luciano D’Alfonso sereno quello che sulla copertina del libro “Le ragioni dell’Abruzzo” passeggia lungo il Ponte del mare, simbolo della Pescara pensata, desiderata e costruita dalla sua amministrazione. Una città proiettata verso il futuro, che intreccia rapporti, stabilisce connessioni, interagisce in autonomia con le realtà che la circondano; non più chiusa, non più passiva, bensì, come scrive lo stesso D’Alfonso nella sua dedica finale “capace di farsi poesia tra poteri e bisogni, tra uguaglianze e differenze, tra libertà e responsabilità e, soprattutto, tra emozioni, sentimenti e legami personali”. È in quell’avverbio ripetuto,“tra”, che si legge il ruolo –simbolico e materiale– costituito dal Ponte,“un monumento pedagogico –come lo definisce lo stesso D’Alfonso– e un adempimento della politica, perché rappresenta la trasformazione del lavoro in ricchezza per la città, che può offrire
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così ai cittadini una vita più comoda e ricca di speranza, di stimoli”. Umberto Dante, docente di Storia moderna all’Università dell’Aquila, ha intervistato l’ex sindaco del capoluogo costiero in questa delicata fase della sua vita e della sua carriera, tracciandone una biografia che spazia dalla riflessione storica all’analisi politica, dall’approfondimento filosofico alle valutazioni sull’economia, sempre con il cuore in Abruzzo e la testa in Europa. Professore, come nasce questo libro? «Le circostanze in cui nasce sono piuttosto banali: due anni fa leggevamo delle disavventure di D’Alfonso, e averlo “fermo”, in questa pausa forzata della sua carriera, era un’occasione, dato l’interesse che suscita questo personaggio. E una sfida, poiché nessuno ci incoraggiava: era un momento difficile per la sua vita. Poi, mentre lavoravamo al libro, c’è stato il terremoto e la vita è diventata difficile
per tutti. La ragazza con cui lavoravo per la redazione del testo morì la notte del 6 aprile, quindi è un lavoro al quale sono molto legato. Quanto al contenuto direi che si inquadra nel mio lavoro, che è quello di storico che si basa molto sull’oralità, ma allo stesso tempo non è il “solito” libro di storia, perché parla anche molto del futuro di questa regione». Quali sono gli aspetti inediti del personaggio? «C’è, nella prima parte, tutta la storia della sua famiglia, che è una storia segnata dal dolore; e poi la città di Pescara vista da un ragazzo: le abitudini, i luoghi, le persone. E poi i ponti: il ponte è un po’ il sottotraccia di tutto il libro, inteso come metafora, come approccio dell’uomo verso l’esistenza. Frequentare D’Alfonso per un po’ di tempo ti fa capire come la fede, in lui, sia un elemento strutturale, non accessorio. Una cosa che mi ha colpito è la laicità delle letture: legge e s’informa su tutto. Come molti politici italiani D’Alfonso è uno che cerca di capire i fenomeni, anche quelli di cui è certamente avversario: ad esempio il leghismo, il più importante fenomeno politico degli ultimi vent’anni. Lo studia, lo comprende, lo smonta e solo allora se ne dichiara avversario». • Nella foto grande, Luciano D’Alfonso. Qui a fianco Umberto Dante (a sinistra) e Edoardo Caroccia.
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à del ponte
Umberto Dante LE RAGIONI DELL’ ABRUZZO Intervista a Luciano D’Alfonso Textus 2010, pp 158, Euro 13,50
Il titolo,“Le ragioni dell’Abruzzo”, fa pensare a un discorso che superi l’esperienza vissuta dal protagonista e prefiguri un’idea di regione futura. «Credo sia il primo libro in cui si affronta organicamente, come fatto centrale, il tema dell’autonomia abruzzese: l’Abruzzo come entità politica autonoma, che fa scelte, alleanze autonome, come forte soggettività che ancora deve esprimersi. Era dai tempi di Raffaele Laporta, negli anni ’40, che il tema del regionalismo, dell’autonomia abruzzese non veniva sviluppato all’interno della politica. Questa è la prima volta che un uomo politico abruzzese si pone nel punto di vista di un regionalismo compiuto. Naturalmente ci sono alcuni aspetti inediti: il rapporto col Molise, la necessità di interagire con le Marche, il ruolo delle città intermedie. Ecco, questa per esempio è una cosa che mi ha colpito molto: secondo D’Alfonso il futuro si giocherà su centri come Lanciano, Vasto, Sulmona, Montesilvano, Avezzano. Insomma, non esclusivamente sui quattro capoluoghi. Da questo si capisce anche il suo modo di intendere la regione come qualcosa di fluido e di compattabile, e non come la giustapposizione di quattro pezzi in antagonismo tra loro».
D’ALFONSEIDE La famiglia
Io vengo da una famiglia assolutamente umile. Soprattutto dalla parte di mio padre. Erano cinque fratelli. Quattro sono stati richiamati dal Signore. Si erano tutti misurati col lavoro delle miniere. Mio padre è stato l’unico dei cinque che ha potuto studiare. […] Mia nonna è stata una straordinaria persona. […] Io la considero una specie di albero maestro. […] È stata per me un decoder. Tosta, assolutamente realizzativa, mi ha fatto capire che tutti i risultati sono possibili, se uno se ne fa carico e se si mette in sintonia con la collettività.
Formazione
Ha avuto un ruolo importante la mia professoressa di Filosofia [Naide Fracassi, ndr] quando sono diventato studente del Liceo scientifico di Pescara. Una professo¬ressa che mi ha fatto innamorare di questa formidabile disciplina, secondo me materna rispetto a tutte le altre. Perché filosofia significa fare in modo che si capisca sempre, fino in fondo. […] Mi ha incoraggiato nel mio impegno politico, ha voluto che mi candidassi come rappresentante degli studenti. E io sono stato il primo studente proveniente dalla periferia ad essere eletto negli organi collegiali; il primo studente proveniente da un paese; uno studente che si alzava alle cinque e tre quarti di mattina e tornava a casa alle tre del pomeriggio e si doveva pure cucinare.
Giochi proibiti
Io non ho mai giocato con quelli della mia età. Pur essendo apprezzato, stimato dai coetanei, non andavo a giocare a pallone, andavo dal ciabattino, oppure […] dallo spaccapietre di Lettomanoppello, testimone di Geova, che mi spiegava che le pietre hanno una vita. Io finivo di studiare, non vedevo la televisione perché non mi interessava, andavo con coloro i quali realizzavano uno sforzo manuale. […] Non ho mai prestato attenzione ai giochi dei miei coetanei, e forse oggi questa diversa esperienza mi pesa.
Iniziazione
L’imprinting lo collego a due momenti: la vita liceale a Pescara e la mia vita religiosa con gli amici sacerdoti con i quali ho condiviso i primi passi di impegno sociale. Ad un certo punto ho capito che la testimonianza sociale di tipo evangelico non era sufficiente per rimuovere le cause dei problemi per i quali io mi occupavo della vicenda collettiva: c’era bisogno di un impegno che mobilitasse i poteri attivi della società per fare in modo che venissero cambiate le condizioni di contesto […] occorreva la mobilitazione di un potere della politica. […] Presto ho compreso che il bisogno delle persone nei confronti della norma e della legge incontrava un grande vuoto […] che va riempito di politica, di potere, del modo in cui il potere viene utilizzato. Per me la politica deve riempire questo vuoto terribile.
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Letteratura
Tornar romantico
Claire Clairmont Solfanelli 2010, pp 224, € 16,00
Con Claire Clairmont lo scrittore pescarese Marco Tornar porta alle estreme conseguenze letterarie il suo “risentimento” verso la modernità. Un romanzo “contro” che si oppone al mainstream non tanto per i suoi contenuti quanto per l a radicalità delle sue scelte stilistiche. di Francesco Di Vincenzo
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arco Tornar non ama la modernità. Tutta la sua opera poetica ed ancor più le sue prove narrative (la sorprendente prosa giovanile di Rituali marginali, il romanzo Niente più che l’amore di alcuni anni fa e, soprattutto, questo recente Claire Clairmont edito da Solfanelli), testimoniano la sua avversione per il mondo quale, almeno in occidente, si è configurato (Tornar direbbe sfigurato) dopo la rivoluzione industriale. “Prima”, sembra convinto lo scrittore pescarese, imperavano Bellezza, Grazia e Poesia, “dopo”, travolta l’eroica, ultima resistenza dei romantici, sono arrivati Bruttezza, Squallore e Volgarità. Dei nostri giorni, meglio non parlare: una irredimibile fetenzìa. Credo che il romantico Tornar si riconoscerebbe senza troppi distinguo in questo schema, ancorché grossolano. Del resto, l’idea forte, costitutiva, della sua poetica e del suo mondo narrativo è proprio il suo profondo risentimento nei confronti di tutto ciò che è venuto “dopo”. Claire Clairmont è una riuscitissima trasposizione letteraria di questo risentimento. Tornar ha ricostruito la vicenda umana di Claire Clairmont, cognata del poeta Percy Bysshe Shelley, in quanto sorellastra di Mary Wollestonecraft Godwin, moglie del poeta e scrittrice in proprio (Frankestein). Claire da giovanissima, quando la bufera romantica
scuoteva l’Europa, ebbe una relazione con lord Byron, da cui ebbe una figlia, Allegra, morta bambina. Di Claire, dopo la morte di Shelley e di Byron si persero ogni traccia e memoria. Marco Tornar, immaginando che Edward Silsbee, un colto, virtuoso e ricco americano, arrivi nella ottocentesca Firenze post unitaria per conoscere Claire, ormai vecchia, ricostruisce la trama delicata e tragica di un’esistenza segnata prima dall’indifferenza dell’aristocratico seduttore e dalla perdita della figlia (da lei disperatamente creduta ancora viva), poi dalla dolente convivenza con l’oblìo altrui e la propria memoria, troppo densa e tronca. Le vicende, i personaggi, la struttura narrativa e, soprattutto, il linguaggio praticato da Tornar fanno di questo conturbante romanzo un’opera radicalmente controcorrente, inattuale, spavaldamente avversa a tutte le mode e al mainstream letterario contemporaneo. Un romanzo lento, che si dipana senza alcuna preoccupazione di “far procedere l’azione”, che pure procede e avvince con la sua fittissima trama di passioni, trasgressioni, intrighi, ribellioni, tragedie: un tempo narrativo dilatato che sembra voler mimare la rimpianta lentezza di “prima”. A tratti sembra quasi provocatorio, nei confronti del frettoloso lettore moderno, il pur fascinoso len-
to di questo passo narrativo. Nessuna concessione al romanesque, dunque (e ce ne sarebbe stato materiale a iosa con tipi come il tragico Shelley e il sulfureo Byron), ma una quasi maniacale concentrazione sulla scrittura che Tornar tesse in una trama linguistica ad altissima densità letteraria, costantemente impreziosita da dorature lessicali, ampie volute sintattiche, minuziose descrizioni di grande effetto coloristico. L’effetto complessivo è un languore stilistico che ricorda (degnamente) il d’Annunzio del Piacere. Qualche eccesso di “coloritura” non manca, come in questo passo: “Il viso di Georgina trasmetteva la voglia di vivere pienamente il presente, attimo per attimo, di suggere con me, dall’ebbra coppa dell’amore, tutto il prelibato nettare”. Ebbra coppa dell’amore, prelibato nettare… Eccessi, certo, come è eccessivo tutto questo romanzo: ma non era forse l’eccedere l’orizzonte estetico ed esistenziale dei romantici? Coerente, Tornar.
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Intellettuali estranei Flaiano e d’Annunzio nel nuovo libro di Giacomo D’Angelo Flaiano e d’Annunzio L’Antitaliano e l’Arcitaliano Solfanelli 2010, pp 120, € 10,00
di Giorgio D’Orazio
È
un rapporto risalente quello con i libri di Giacomo D’Angelo, volontà di lettore che piano piano tenta di sfogliarli e poi leggerli da uno scaffale dedicato della libreria domestica, dove, nessuno escluso, restano affilati. I “libri di Giacomino”, quel buon amico di papà con cui tiravano a far mattina nella storica osteria “la Lumaca” di Pescara Vecchia, a parlare di tutto ciò che diceva lui, “il capo”, quantomeno della discussione. Giacomo, capello lungo barba ascetica e occhiali, chi è? È un intellettuale “puro”, classe 1939, abruzzese doc non solo per anagrafe ma per la conoscenza, scrupolosa costante puntuale, di tutto ciò che c’è di bello in e sull’Abruzzo, a partire dalla letteratura. Lontano dai tromboneschi circuiti della cultura “ufficiale” e rintanato nel suo appartamento pescarese, oramai reso impraticabile da mucchi di libri che spala nella testa come il carbone nella caldaia per salpare il mare dell’indagine letteraria, inghiotte sezionando meticolosamente innumerevoli “cartolarizzazioni” d’informazione, neanche il più distratto trafiletto di settimanale o la più sommessa intervista, se affini al suo campo d’azione, sono esenti dalla ricerca. E così i libri. Quelli letti non è tempo di contarli, quelli scritti? Sono in aumento. Per l’editore Samizdat, Mi dichiaro estraneo (1998) e Un passeggero in transito (2000), più recente invece la fortunata collaborazione con Solfanelli, che ha visto sfornare Cantastorie della Rivoluzione. Nâzim Hikmet - Joyce Lussu - Velso Mucci prima, e, dopo due anni ovvero da poche settimane, un interessante libro su Flaiano e d’Annunzio (Chieti, 2010, p.
119 euro10), dall’esaustivo sottotitolo l’Antitaliano e l’Arcitaliano. Apprezzate sono anche le “introduzioni” a Un volo e una canzone di Luciano Bianciardi e a Quando Gabriele s’innamorò di quella comica di Orio Vergani, proposti rispettivamente da ExCogita e Textus nel 2002 e 2005; nonché i saggi su Raffaele Mattioli, sull’editoria in Abruzzo, sul rapporto tra emigrazione abruzzese e letteratura del secolo scorso, e altro ancora. Ma torniamo all’ultima “fatica”,sul Satiro e sul Vate, che a ben leggere pare invece uno spassoso divertimento per l’autore. Un libro che si legge agevolmente, nonostante il taglio critico e la mano di D’Angelo, raffinato tornitore di periodi e vocaboli. Capitoli che si sorpassano alternando l’analisi sui due scrittori nostrani così poco, e così tanto si vedrà poi, presenti e radicati nella nostra storia regionale.Vengono giù i luoghi comuni certissimi, smontati con precisione quasi antipatica, e ne escono due figure nuove e più autentiche per l’immaginario comune: specie grazie al lavorio sulle fonti e sulle vicende pro e contro i due uomini di penna del corso Gabriele Manthonè. Rapporti incrociati e concatenazioni di notizie, scritti e “rescritti” su “quei due”, a firma di panegiristi e delatori, di filo proto e anti questo o quello, vengono selezionati e sciorinati dall’autore con attenzione e con l’intento di far emergere, infine, il lato più interessante dei due personaggi, quello che dovrebbe restare alla Storia in maniera ragionata e consapevole, quello che evidenzia un possibile collegamento delle due figure, tutto giocato sui concetti di abruzzesità e pescaresità. D’Angelo non ri-
sparmia nessuno mentre redige il suo “indice”, i miti letterari dell’estemporaneo lettore, per una pagina fallata nascosta dimenticata (e scovata da Giacomo) s’incrinano o crollano, passo dopo passo ci ritroviamo disposti a cambiare idea su molti letterati e critici, su molte cose, orecchiate o conosciute che siano, bollate sempre come certezze. È questo il senso migliore del lavoro interpretativo dell’autore, un “battere in levare” sulle testimonianze scritte e orali del nostro tempo per tentare di ristabilire ulteriori coordinate di verità su Flaiano e d’Annunzio, consegnando al pubblico la possibilità di leggerli e rileggerli altrimenti. Per concludere: non leggete i libri di Giacomo. Non leggete questo libro. A meno che non vogliate correre il rischio, se siete un po’ curiosi e avveduti, di ritrovarvi a leggere altri cento libri che subdolamente l’autore v’invita a strasfogliare. Giacomo D’Angelo è così, compila dizionari con rimandi “interletterari” per anime sensibili e intellettualmente vive e accorte. E questo libro, Flaiano e d’Annunzio, l’Antitaliano e l’Arcitaliano, è un dizionario da consultare non per salvarsi da certi strafalcioni o per imparare a discorrere meglio, no. È un dizionario che può servire, semplicemente, a vivere un po’ meglio, dal momento che stimoli come questi, a prescindere dalla letteratura (sua storia e controstoria), sono le spezie che spesso mancano al nostro piatto quotidiano. E come le spezie più ricercate non li trovi ovunque, ma sbucano senza timore dalla penna di Giacomo.
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Letteratura
Ragazzi di scrittura Trenta giovani scrittori si sono misurati con se stessi e col giudizio del pubblico nella due giorni di “Montesilvano Scrive” l’originale evento curato e ideato da Alessio Romano (già autore per Fazi del romanzo Paradise for All), talent show letterario per esordienti. Giunta al suo secondo capitolo, l’edizione 2010 si è caratterizzata per la presenza di una madrina d’eccezione, Silvia Ballestra, e per l’attivazione di un corso gratuito di scrittura creativa che ha avuto come insegnanti Barbara Di Gregorio (pescarese, il suo romanzo d’esordio uscirà per Rizzoli a gennaio) e Carla D’Alessio (casertana, in procinto di pubblicare con Mondadori). Quest’ultima è l’autrice del racconto/resoconto che segue. di Carla D’Alessio
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er me, Montesilvano Scrive è cominciato quattro giorni prima dell’effettivo inizio del festival. Di lunedì 27 settembre. Nel momento in cui il direttore artistico Alessio Romano ha prelevato me e il mio trolley per condurci alla volta del lungomare prima e, insieme a Barbara Di Gregorio, della sede del Comune di Montesilvano poi. A voler essere proprio precisi, però, Montesilvano aveva già cominciato a scrivere. In viaggio per Pescara infatti, avevo leggiucchiato qualche racconto dei partecipanti al workshop. E ci avevo trovato dentro i mondi più svariati. Da un delicato ritratto di una donna affetta da Alzheimer nello sballottato Autobus di Mirella Marini a una ironica e battagliera Guerra dei Dj di Claudia Mancosu. Ma c’erano anche spietate donne killer
(Il dodicesimo di Fabio D’Agostino) e spigliate adolescenti mangiauomini (Occhi di Silvia Surricchio); ma pure uomini che collezionavano donne come cappelli da chef di guide gastronomiche (neI pungente Il Collezionista di Lorenza Destro) e amori così forti da non finire di essere terreni nemmeno nell’aldilà (nel poetico Senza stelle cadenti di Valentina D’Egidio). C’era persino una piéce teatrale (Chiamarsi di Damiano Russo) che i futuristi sarebbero saltati dalle sedie per reclamarne la paternità. Cosicché, mentre Alessio guidava sul lungomare e io ero stranita dagli stabilimenti chiusi –chi viene da una provincia senza mare, non è abituato a vederla spiattellata così a crudo la fine dell’estate– gli chiedevo notizie circa gli autori. Se come diceva Achille Campanile: “I lettori sono personaggi immaginari
creati dalla fantasia degli scrittori”, io stavo vivendo l’impasse al contrario: non riuscivo ad immaginare le facce che c’erano dietro quelle storie. A ritrovarmele materialmente davanti, comunque non ho potuto soddisfare subito la mia curiosità: il primo giorno di corso, la sala consiliare del Comune era zeppa di persone. Ce n’erano molti di più di quelli che avevano già inviato un racconto. Alcuni erano lì solo perché interessati alla scrittura, altri avevano portato delle idee. Le avevano nella testa e volevano consigli per metterle su carta. E questa è stata la parte più viva del workshop, quella del confronto. Tra tutti. Da qui sono nati il sofisticato affresco di un trio machista narrato dalla modella di un calendario in Per soli uomini di Andrea di Nisio; il cinematografico Il Milionario di Ambra Iacuone.
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• Nella foto in alto: Pasquale Di Blasio, vincitore del festival, con il direttore Alessio Romano e i giurati Angela Nanetti e Gaetano Cappelli; qui sopra, a destra, Romano con Carla D’Alessio, Barbara Di Gregorio e Silvia Ballestra; a fianco Romano con Kevin Hochs (al centro) e Paolo Nori; in basso Pasquale Di Blasio posa col premio insieme a Carla D’Alessio.
E, da pagine di quaderno, sono venuti fuori l’emozionante Lividi di Ilaria De Angelis e la spiritosa gag Buonanotte, amore mio di Mariangela Gaspari. Se i giorni del corso sono, in pratica, volati tra letture, risate e revisioni, quelli del festival vero e proprio si sono successi ancora più vorticosi. Tra degustazioni tipiche e momenti unici. A cominciare dall’incontro con i piccoli-grandi protagonisti dei libri di Angela Nanetti e con la bravura della penna e della voce di Gaetano Cappelli. Per proseguire poi con la conoscenza di Silvia Ballestra che proprio da Montesilvano cominciò. C’erano le sorelle Treves, le gemelle cozze tanto odiate dagli Antò, in carne e ossa, a leggere stralci dell’omonima guerra. Nell’ultima giornata infine, il pubblico ha assistito a una godibilissima lezione di spionaggio tenuta da
Kevin Hochs, grazie alla quale abbiamo ricostruito l’identikit di un sagace scrittore che si chiama Enzo Verrengia, metà campano e metà pugliese, una miscela esplosiva. Il tutto si è concluso coi botti: il reading finale dei Malcontenti di Paolo Nori ha emozionato e rapito la sala strapiena. I ragazzi del corso sono stati premiati durante le tre serate dagli autori presenti, dal pubblico e da Francesco Coscioni, in rappresentanza dell’abruzzese Neo Edizioni, giovane casa editrice con sede a Castel di Sangro. Ogni sera cinque gioielli delle collane Neo sono finiti nelle mani non di una sola persona, ma di cinque diverse, perché i libri non si ammonticchiano nei portagioie, si vivono, ops, volevo dire leggono. Solo un’ultima indiscrezione. Pasquale di Blasio, il vincitore finale del match
d’autore, colui che si è portato a casa l’ambito gufetto sui libri per intenderci, ha scritto tre racconti in quattro giorni. È stato lì a dare testate al computer finché non è riuscito a metterci qualcosa di veramente suo nel bel ritmo che già possiede la sua scrittura. Un po’ come Alessio Romano. Che se non avesse investito tutto se stesso nella riuscita del festival, insieme ai ragazzi dell’associazione Montesilvano Scrive, Montesilvano appunto non avrebbe scritto. E allora sì che i lettori sarebbero rimasti davvero immaginari.
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Libri
Romanzi/Di Iacovo Narrativa/Catenaro
Astrologia/La Rovere
Alla sua seconda uscita “ufficiale” in libreria, dopo l’acclamato Sushi Bar Sarajevo (Palomar, 2006) Giovanni Di Iacovo torna e fa precedere il suo secondo romanzo da una ormai consueta campagna di viral marketing (performances inogni città dove viene presentato il libro, adesivi nei locali che annunciano una prossima riunione di serial killer). Provocatorio, grottesco, splatter, questo Tutti i poveri devono morire è un thriller che come il precedente lavoro spiazza di continuo il lettore e lo trascina in un vortice di perversione “folle dall’inizio al colpo di scena finale e all’epilogo che fa presagire un seguito” (D. Barbieri).
Correva l’anno 1990 quando Vario intervistò l’allora –si perdoni il gioco di parole– astro nascente dell’astrologia Rita La Rovere, che fin dagli esordi (Astra, mensile del Corriere della sera) ha sempre distinto la sua disciplina dalla palude delle cialtronerie. “L’astrologia è una cosa seria”, affermava; una materia dalle solide basi scientifiche, lontana anni luce dai consigli di maghi e magare che dispensano filtri e ammanniscono casalinghe inquiete. E dell’astrologia oggi Rita La Rovere è una sacerdotessa, pardon, una professoressa. Che si è concessa, con il suo libro Lettere d’amore dallo zodiaco, una digressione letteraria in una carriera costellata di saggi e pubblicazioni di ben altro tenore, perlopiù accademico. Un piacevole collage di immaginarie lettere d’amore basate sulla corrispondenza dei segni: “La passione dell’Arietessa, il desiderio trasgressivo della Vergine. L’ultima è stata quella Gemelli: desideravo esprimere la gaiezza, il flirtare, così ho immaginato la lettera del compagno di scuola il giorno della prova di maturità». Il testo è impreziosito dai disegni, a colori, del maestro Francesco Musante.
Sogni, parole, canzoni e poesie: il mondo letterario di Nicola Catenaro è fatto di queste semplici cose, che spesso si presentano senza preavviso, chiudendo gli occhi, “in modo quasi automatico”, spiega l’autore. “Non sempre però è così. A volte è difficile persino chiudere gli occhi. La chiamano assenza di ispirazione, ma forse è soltanto il timore di guardarsi dentro”. E Catenaro, classe 1971, giornalista, scrittore e musicista/cantante (ha suonato con due band teramane in giro per l’Abruzzo) dentro di sé, guarda e trova versi, che gli ispirano una serie di poesie e canzoni (Grandangolo, 2007) e nei sogni contaminati dal folclore e dalle leggende dei luoghi dove è cresciuto trova racconti dominati dall’angoscia degli incubi (La porta di ferro e altri racconti, 2009). Finalista al premio Teramo nel 2006. Un giovane da tenere d’occhio.
Nicola Catenaro Grandangolo.Poesie e canzoni 1988-2004 Ricerche&Redazioni, 2007, pp 83, € 10 La porta di ferro e altri racconti,
Giovanni Di Iacovo Tutti i poveri devono morire Castelvecchi, 2010, pp. 156, € 12,60 Ricerche&Redazioni, 2009, pp 80, € 10
Narrativa/Rapacchiale
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Rita La Rovere, Lettere d’amore dallo Zodiaco, Armando Siciliano Editore 2010, pp. 162, € 15.
Romanzi/Martini
Biografie/Dell’Osa
Enzo Rossi, artista, è l’alter ego di Graziano Martini, medico, pittore e scrittore. La prima apparizione di Enzo risale al 1998, e per lui è un brutto periodo. Ma il motto dannunziano “memento audere semper” e una serie di incontri fortuiti gli permetteranno di preparare uno speciale manuale di istruzioni: come essere felice e perseguire una esistenza entusiasmante. Nella seconda apparizione, datata 2010, Enzo ha messo a frutto i consigli del suo “manuale di istruzioni della mente”, ma l’avventura con una splendida modella rischia di mandare all’aria tutto ciò che ha costruito. Divertenti e intriganti, i libri di Martini cercano di “suggerire ai lettori delle strategie di pensiero per rendere accettabile quel mistero che è la vita”.
Del Duca degli Abruzzi Luigi Amedeo di Savoia non si sa molto, e se non fosse per qualche riferimento toponomastico i suoi ex sudditi abruzzesi non ne avrebbero neanche memoria. Ci ha pensato Pablo Dell’Osa, 34enne giornalista pescarese, a ripercorrerne le gesta ricostruendo la figura di questo “principe esploratore” con una passione smodata per i viaggi e l’alpinismo, che lo portò a vivere una vita tutta sua, lontana dalle mollezze della corte reale. Una biografia avvincente come un romanzo che con rigore storico racconta delle missioni in Africa, sul K2, al Polo Nord, in Alaska che il giovane principe volle compiere dando ascolto alla propria indole molto più che alla ragion di Stato.
Ci sono canzoni che per ognuno di noi rappresentano un momento ben preciso della nostra esistenza, un episodio particolare. Tutti, insomma, abbiamo una “colonna sonora della vita”. Quella di Paolo Rapacchiale, ventottenne scrittore di Pineto qui al suo esordio editoriale, scandisce una collezione di racconti “scritti soprattutto quando l’università o il lavoro mi rendevano la vita particolarmente difficile”, spiega. “Non ricordo quando ebbi l’idea di unirli tutti in una raccolta che avrebbe presentato come trait d’union una scala maggiore, ma successivamente sono sempre rimasto fedele a questo proposito. Ogni racconto rappresenta un tono o un semitono sulla scala e ha un legame imprescindibile con il mondo della musica, a volte evidente, a volte meno. Spero che chi deciderà di leggere queste pagine non Graziano Martini Trova il tuo Buddha dentro il cofano di rimpiangerà la fiducia accordatami”. un Porsche nero, Tracce 1998, pp. 245, € 15 Paolo Rapacchiale, La vita, una scala (in Do+) Pubblicato dall’autore, pp. 192, € 14,50 Yoga metropolitano Opera editrice 2010, pp. 108, € 12 www.paolorapacchiale.it
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Pablo Dell’Osa ll principe esploratore. Luigi Amedeo di Savoia, duca degli Abruzzi. Mursia, pp.528, € 29.
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Libri Attualità/Borrelli Da New York, dove ricopre il ruolo di inviato speciale del Tg1, a Pescara, in terra natìa. Giulio Borrelli, giornalista di Atessa fiero delle sue origini, non ha voluto trascurare la città costiera tra quelle scelte per presentare il suo libro Le mani sul Tg1 - da Vespa a Minzolini: l’ammiraglia Rai in guerra. Uno scottante resoconto di ciò che avviene nelle stanze e nei corridoi dell’ammiraglia Rai e di ciò che non avviene più, dal 1989 fino ai giorni nostri. Un racconto dettagliato coraggiosamente scritto da chi il giornalismo al Tg1 (e non solo) l’ha vissuto veramente, e continua a praticarlo con orgoglio, determinazione e mettendo in gioco se stesso costantemente, senza piegarsi alle logiche politiche. L’incontro è avvenuto lo scorso 17 giugno nella sala della libreria Edison di via Carducci, di fronte a un pubblico accorso in massa per ascoltare la testimonianza di uno dei giornalisti più noti e amati del piccolo schermo. Insieme a Borrelli erano presenti anche l’editore del libro Francesco Coniglio, Mario Ciampi, direttore di “Fare futuro”, Gianni Cuperlo, presidente del forum nazionale Centro studi del Pd, e Pina Fasciani, dell’associazione Riformando, in veste di moderatrice. «Non sono io che sono scomodo», ha detto Borrelli, «è il mestiere di giornalista che lo è. Io sono un professionista che ha sempre lavorato, che spesso ha rischiato anche in proprio, e ciò corrisponde a quello che ho fatto sempre. Ma affermare le proprie idee vuol dire anche pagare qualche rischio. A Bologna –ha proseguito– mi hanno chiesto se mi sentivo un giornalista coraggioso. No, mi sento un giornalista normale anche se la condizione dell’informazione in Italia non è affatto normale. E poi ho spiegato che non è normale che ci voglia una testimonianza di un professionista interno alla Rai per svelare trame, retroscena e meccanismi di funzionamento».
Giulio Borrelli Le mani sul Tg1. Da Vespa a Minzolini: l’ammiraglia Rai in guerra Coniglio Editore, 2010, pp. 208, € 14,50
Storia/Patricelli Un’esistenza votata al sacrificio, a ideali che non lasciano scampo, che richiedono un tributo di sangue che solo un uomo coraggioso può accettare. La storia di Witold Pilecki, ufficiale di cavalleria polacco che raccontò dall’interno quanto avveniva nei lager nazisti è diventata un libro, scritto con la consueta dovizia di particolari e lo stile narrativo avvincente che lo contraddistingue, dallo storico Marco Patricelli, che proprio per questa sua nuova indagine storiografica ha ricevuto dalle mani del chargè d’affaires della Repubblica di Polonia a Roma, Wojciech Unolt, l’onorificenza “Bene Merito” per l’impegno e i risultati nella conoscenza della storia e della cultura della Polonia. L’onorificenza, firmata dal ministro degli esteri, Radoslaw Sikorski, è stata consegnata lunedì 20 settembre, all’Istituto di Cultura polacco a Roma, nel corso della presentazione del libro. Il volontario (Laterza 2010) racconta la storia di Witold Pilecki, tra i pochi a essersi fatto rinchiudere volontariamente ad Auschwitz e tra i pochi a essere riuscito ad evadere. Il 19 settembre 1940 Pilecki, sotto falso nome, si lascia volutamente catturare dai tedeschi per le strade della Varsavia occupata; torturato per due giorni, viene poi inviato ad Auschwitz. Sul braccio ha tatuato, indelebile, il numero 4859. Nel campo lavora duro, contrae malattie, le sconfigge come già aveva fatto con nazisti e comunisti, e sfida la sorte. Crea infatti l’Unione di Organizzazioni Militari, ovviamente clandestina, per aiutare gli internati e preparare la sperata liberazione del campo. Intanto raccoglie notizie sulla vita di dentro; fuori, grazie a lui, si comincerà dunque a sapere di quali efferatezze è capace la macchina sterminatrice dei tedeschi. Evaso nel 1943, Pilecki combatte contro i nazisti durante l’insurrezione di Varsavia del 1944 e cade prigioniero fino alla fine della guerra. Tenta invano di lottare contro il regime comunista che lo bolla come traditore e lo condanna a morte. Nel 1948 viene giustiziato e il silenzio cala sul suo operato; tuttora i familiari ignorano dove sia sepolto. Il volontario, disponibile in tutte le librerie italiane, è in fase di traduzione per una prestigiosa casa editrice polacca.
Marco Patricelli Il volontario, Editori Laterza 2010, pp. 303, € 20,00
L’AUTORE - Marco Patricelli insegna Storia dell’Europa contemporanea all’Università G. d’Annunzio di Chieti ed è consulente del TG1 Storia. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Liberate il duce. Gran Sasso 1943: la vera storia dell’Operazione Quercia (Milano 2001, Premio Polidoro); La Stalingrado d’Italia. Ortona 1943: una battaglia dimenticata (Torino 2002); Le lance di cartone. Come la Polonia portò l’Europa alla guerra (Torino 2004); I banditi della libertà. La straordinaria storia della Brigata Maiella, partigiani senza partito e soldati senza stellette (Torino 2005).
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Cinema
La mia Storia Ha raccontato la vita dell’uomo a contatto con la natura, il naufragio dell’Andrea Doria, e poi anche la battaglia di Ortona e la liberazione del Duce basandosi sui libri di Marco Patricelli e rivelando verità scomode. Profilo di Fabio Toncelli, un regista che non ha paura di dire le cose come stanno di Fabrizio Gentile
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alla storia del cinema al cinema della storia. Possiamo sintetizzare così il percorso artistico di Fabio Toncelli, 48enne regista romano tenuto a battesimo nientepopodimeno che da Sergio Leone –la storia del cinema, e non solo di quello italiano– e direttosi poi lungo la strada del documentario, che gli ha fruttato un posto di assoluto rilievo nel settore. «I pochi mesi trascorsi con Sergio –ricorda Toncelli– sono stati certamente memorabili. Mi piaceva molto il suo modo di lavorare, il suo carattere tipicamente romano, burbero ma tenero. È stato un grande onore poter lavorare con lui, anche se per un periodo relativamente breve». Con Leone l’allora venticinquenne Toncelli lavorava alla sceneggiatura del suo ultimo film, purtroppo mai realizzato, Un posto che solo Mary conosce: la storia di due loser sullo sfondo della guerra civile americana, una storia che ha molti punti di contatto con tutti i suoi film precedenti «nei quali i destini di piccoli uomini si incrociano con le grandi vicende della Storia». E questo stile costituisce l’eredità che il grande regista ha lasciato a Fabio, che dopo la scomparsa di Leone si tuffa nel documentario. I suoi esordi, per la verità, sono nel settore naturalistico: Sfida nella foresta sulla caccia dei pigmei, Il mistero del lupo sul lupo italiano nel Parco nazionale del Pollino e soprattutto Flying over Everest, sul fantastico volo di Angelo D’Arrigo in deltaplano sul tetto del mondo (uno dei documentari italiani più premiati di sempre) lo lanciano in campo internazionale. I suoi lavori vengono trasmessi dai maggiori canali satellitari, dalla tv pubblica statunitense e dalla ZDF tedesca, e naturalmente anche da Mediaset e dalla Rai (La grande storia, Ulisse). Ma il grande successo arriva con quella che Toncelli chiama “trilogia della guerra”: una serie di documentari incentrati su alcuni episodi della II guerra mondiale, due dei quali sono legati a doppio filo all’Abruzzo. Ortona 1943 – Natale di sangue e Liberate Mussolini!, incentrati sulle vicende che ebbero per scenario Ortona e il Gran Sasso, sono infatti stati realizzati con la consulenza storica di Marco Patricelli, giornalista e scrittore di casa nostra, oggi un’autentica autorità in materia di storia della Seconda Guerra Mondiale. I lavori di Toncelli sposano infatti le tesi che Patricelli enuncia nei suoi libri Liberate il duce. Gran Sasso 1943: la
vera storia dell’Operazione Quercia (Milano 2001, Premio Polidoro) e La Stalingrado d’Italia. Ortona 1943: una battaglia dimenticata. «La storia offre già vicende drammatiche e avvincenti, non c’è bisogno di inventarsi nulla. C’è solo da raccontarle nel modo giusto», dice Toncelli. «A volte basta mettere in bell’ordine gli avvenimenti o cambiare il punto di osservazione e il risultato finale è qualcosa di nuovo, che apre la strada a nuove interpretazioni degli eventi». Di documentari su quel periodo, in effetti, ce ne sono a bizzeffe: ciò che rende diversi quelli di Toncelli è il loro essere “filmici”,cioè il loro stile narrativo –teso e avvincente come un’opera di fiction– e naturalmente gli scoop presenti nei contenuti. «Il documentario su Ortona –racconta il regista– è scaturito da una domanda fondamentale: perché una battaglia così sanguinosa per una città che non rivestiva nessuna importanza dal punto di vista strategico e militare? E perché è un episodio praticamente dimenticato da tutti i libri di storia nonostante i morti siano stati più di tremila? Mi capitò per le mani il libro di Marco nel quale trovai molte risposte. Il resto è stato frutto di un lungo lavoro di ricerca» che ha portato alla scoperta di particolari inquietanti. Come il filmato inedito nel quale si vedono alcuni ufficiali russi durante un bombardamento nei pressi di Ortona. «La presenza di osservatori sovietici ha un solo significato: provare a Stalin che le accuse di fiacchezza sul fronte italiano e la richiesta di affrettare lo sbarco in Normandia sono immotivate. Il sacrificio dei soldati e una piccola Stalingrado italiana sono una prova sanguinosa ma inconfutabile per tacitare l’alleato russo», spiega Toncelli nel suo film, un’avvincente miscela di filmati storici, fotografie esaminate al computer, testimonianze dei protagonisti e ricostruzioni sceniche. «Queste sono le caratteristiche di quasi tutti i miei lavori sulla Seconda Guerra Mondiale –spiega il regista– tranne di Liberate Mussolini! in cui non ho utilizzato il re-enactment (la ricostruzione scenica tramite attori) perché lì non serviva: era talmente tanto il materiale video e fotografico… L’unica drammatizzazione è stata far leggere da attori le trascrizioni delle telefonate tra Mussolini e gli altri protagonisti della vicenda, intercettate dai servizi speciali (e quindi, ironia della sorte, autorizzate dal Duce stesso): una tecnica che vediamo spessissimo
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• Nella foto a fianco, Fabio Toncelli. Sotto, una scena da Il naufragio dell’Andrea Doria; in questa foto una ricostruzione da Ortona 1943: Natale di sangue.
I FILM DI FABIO TONCELLI
nei programmi d’informazione televisiva, e che io ho utilizzato prima che diventasse uno standard. E poi ci sono le vere voci dei protagonisti, per esempio Mussolini che racconta la sua liberazione, l’incontro del 25 luglio con il re… In ogni documentario, insomma, aggiungo un tassello alla mia ricerca, che è quella di utilizzare fonti di qualità storica in maniera narrativamente efficace». Una ricerca scrupolosissima, che porta Toncelli a rintracciare nomi, luoghi esatti e cose presenti nei documenti fotografici. I risultati di questa ricerca si vedono tanto nella ricostruzione della battaglia di Ortona quanto in quella di Monte Cassino (La battaglia di Monte Cassino: una verità scioccante, il terzo film della trilogia) e soprattutto in Liberate Mussolini! che presenta fra i testimoni una delle guardie che sorvegliavano il Duce durante la prigionia a Campo Imperatore: «L’ho cercato per mesi, aveva spedito a Marco una lettera senza mittente. Alla fine ho scoperto il suo nome e con mia grande sorpresa, ho visto che abitava a 500 metri da casa mia. Perché non ha mai detto niente al riguardo? Semplice: nessuno l’ha mai cercato. Una testimonianza straordinaria, che non solo getta nuove luci sui retroscena di quella vicenda, ma che dimostra come sia forte negli Italiani la tendenza alla rimozione di certi episodi che sono davvero poco onorevoli. C’è ancora chi crede che noi la guerra l’abbiamo pareggiata, mentre l’armistizio è una resa a tutti gli effetti». Il lavoro dell’onesto documentarista, del resto, si basa su questo: dire le cose come stanno. E Toncelli lo fa, senza preoccuparsi di essere accusato di “voler riaprire vecchie ferite” o di essere revisionista. Dimostrando, in sostanza, che non c’è bavaglio sufficiente per frenare chi l’informazione vuole farla davvero.
I lavori di Fabio Toncelli sono stati trasmessi dalle maggiori reti internazionali e, in Italia, dalla Rai, da Mediaset e da La7, rete con cui collabora tuttora (Missione natura). Prodotti dalla SD Cinematografica di Roberto Dall’Angelo, i documentari sono reperibili tramite il sito www.sdcinematografica.it. Tra i più importanti segnaliamo: Flying over Everest, la straordinaria impresa di Angelo D’Arrigo che ha sorvolato il tetto del mondo con un deltaplano portando con sé due splendide Aquile delle Steppe, una specie ormai estinta in quest’area, come parte di un progetto di reintroduzione. Un documentario sulla preparazione, la tensione e il rischio estremo, con immagini esclusive dell’Everest visto dall’alto; Ortona 1943: Natale di sangue, sulla battaglia dimenticata che costò la vita a oltre tremila fra soldati tedeschi, canadesi e neozelandesi, basato sul libro di Marco Patricelli La Stalingrado d’Italia. Ortona 1943: una battaglia dimenticata; Il naufragio dell’Andrea Doria - la verità tradita, un documentario dal ritmo narrativo appassionante che a cinquanta anni dal disastro svela il mistero sulle ragioni di uno dei più gravi incidenti della marineria e ridistribuisce colpe e meriti in modo più equilibrato attraverso vecchie e nuove eccezionali immagini, alcune in esclusiva mondiale. Grazie al boom di ascolti ottenuti dalla PBS, la tv pubblica americana, è stato ufficialmente selezionato per gli Emmy Awards; La battaglia di Monte Cassino: una verità scioccante, che tramite una narrazione avvicente ricostruisce tutti i retroscena politico-militari nascosti dietro il clamoroso stallo della campagna militare anglo-americana in Italia nell’inverno del 1944, i drammatici errori dei comandi e le reciproche diffidenze nello schieramento alleato; Liberate Mussolini! in cui per la prima volta documenti e foto inedite aiutano a svelare il segreto sulla più audace impresa di tutti i tempi compiuta da forze speciali: l’operazione Quercia, la liberazione del duce Benito Mussolini.
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Musica
L’uomo in jazz Vacanze abruzzesi per un gigante del pianoforte: Walter Norris parla dell’Abruzzo, della musica e del suo rapporto con il buon cibo
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e qualcuno conosce Walter Norris, sa che trovarcisi davanti è un privilegio. A quasi settantanove anni di età e oltre quaranta dischi all’attivo,Walter Norris è un gigante del pianoforte: americano di Little Rock, Arkansas, classe 1931, ha attraversato l’età d’oro del jazz suonando con talenti del calibro di Ornette Coleman, Charlie Mingus, Don Cherry, la big band di Thad Jones e Mel Lewis, e comparendo nei credits di numerosi indimenticabili dischi come il primo della Coleman o l’ultimo di Chet Baker. Quello che è stato e resta un pianista di smisurata grandezza (un improvvisatore straordinario) è oggi anche un simpatico anziano signore, che conduce –a Berlino, dove ha trovato l’equilibrio necessario per dedicarsi alla sua musica, lontano dalle mille luci dello show business– una vita piuttosto ritirata, dedito allo studio e al perfezionamento del suo metodo pianistico. Che è, essenzialmente, una devozione quasi assoluta allo strumento e alla musica. Una di quelle passioni che coinvolgono i cinque sensi, che travolgono l’esistenza e la segnano per sempre.Tanto da costringerlo, oggi, anche se la sua vitalità è rimasta inalterata, a stare lontano dal palcoscenico a causa dell’eccessivo stress che affrontare un concerto potrebbe procurargli. E forse proprio per riposarsi tra una registrazione e l’altra (continua naturalmente la sua attività in
studio; l’ultimo suo lavoro, Drifting, è del 2007) ha deciso di trascorrere due settimane in Italia, anzi in Abruzzo, ospite del suo amico e collega Tony Pancella. Era il 2006 quando il jazzista chietino lo invitò a partecipare al Chieti Festival: una tre giorni di musica che ha lasciato un’impronta indelebile nella memoria di quanti assistettero alla straordinaria esibizione del talentuoso pianista americano accompagnato dall’orchestra sinfonica del Marrucino. «Wonderful», ricorda Norris. «Una delle serate più entusiasmanti della mia carriera. Fu fantastico, i musicisti hanno eseguito tutto alla perfezione. Un ensemble di straordinaria qualità e una cornice indimenticabile». L’Europa, per un pianista americano, rappresenta qualcosa di estremamente interessante: «La cultura pianistica del Vecchio Continente è decisamente superiore a quella americana. Se Mozart fosse vissuto ai nostri giorni, sarebbe un grande improvvisatore jazz». E l’Italia? «Per me è un posto speciale. Adoro la cucina italiana e quella abruzzese mi soddisfa moltissimo. Il cibo è fondamentale per un musicista: la musica tocca il cuore, ma un buon piatto lubrifica il cervello», scherza. Norris però apprezza davvero il buon cibo, perché fa parte di quella schiera di musicisti che la fame l’hanno sofferta, tra gli anni ‘40 e i primi ‘60. Era il periodo in cui avere un
ingaggio significava mangiare, e a lui capitò la fortuna di lavorare con quei grandi nomi del jazz –Don Cherry, appunto, Coleman, Stan Getz, Dexter Gordon– che gli garantirono la sopravvivenza. Come vede l’Abruzzo del Jazz? «Questa terra, oltre ad essere bellissima, emana una vitalità eccezionale. Anche i recenti avvenimenti non hanno fiaccato la grande energia degli abruzzesi, tecnici e musicisti di grandissima qualità. Ho conosciuto Angelo Fabbrini, una persona fantastica;Tony, che conobbi dopo una sua esibizione in un club a Berlino, è un musicista di altissimo livello. Ho trovato l’orchestra del Marrucino un gruppo straordinario. Il mio unico rammarico è quello di non aver potuto all’epoca registrare qualcosa con loro».Tuttora Walter Norris continua a scrivere pagine del suo libro, un metodo molto innovativo e originale basato sulla sua esperienza musicale: oltre 250 pagine che ha messo gratuitamente in download dal suo sito. Cosa direbbe a un giovane che volesse intraprendere una carriera nella musica? «Ci sono sicuramente molti improvvisatori nel jazz, e se qualcuno vuole davvero riuscire in questo campo deve allenarsi con disciplina e impegno, ma soprattutto deve trovare un buon insegnante. Non si fa strada da soli, in questo come in tutti i settori». (F.G.)
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Sounds like BBC!
A Tocco da Casauria ha sede la Twelve Records, nata grazie all’intraprendenza di due musicisti abruzzesi e alle attrezzature del network britannico
• Francesco Di Florio e Andrea Di Giambattista nella cabina di regia. Qui sopra i primi due CD marcati Twelve: quello di Jester at work e il nuovo dei Fiftyniners
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micizia e passione musicale: sono gli accordi su cui si basa l’armonia di una nuova e intelligente etichetta indipendente nata a Tocco da Casauria dall’iniziativa di Francesco Di Florio e Andrea Di Giambattista. Da tempo sulla scena musicale –Francesco come batterista dei toccolani Sunflower e Andrea come guitarist dei sanvalentinesi Malaerba (e non solo) e poi come tecnico del suono– i due si sono avvicinati spinti dalla necessità di registrare il disco d’esordio dei Sunflower “con tutta la calma del mondo, in casa, senza che l’omino di turno stesse lì a contare i minuti della permanenza in studio”, racconta Francesco. È il 2003 e i Sunflower hanno appena ricevuto una proposta seria da un’importante etichetta milanese. «Decidemmo di “metterci a rate” per acquistare uno scintillante mixer digitale, una fantastica scheda audio a 12 canali ed un buon microfono per le voci.Tutto il resto lo chiedemmo in prestito ad alcuni amici. Allestimmo dunque il primo studio, nella casa per le vacanze di lontani parenti di un amico comune. Regia in cucina, voci in camera da letto e batteria nella taverna al piano sottostante». Dopo sei mesi di lavoro esce Invisible, primo disco ufficiale dei Sunflower (Midfinger Records/ Warner Chappell): un ottimo prodotto che presto diventa il vessillo della neonata Twel-
ve Records. «Molto timidamente iniziarono ad arrivare le prime richieste da altri musicisti e così iniziammo a registrare qualcosa per alcuni amici. Ma le richieste diventavano sempre più frequenti e allora ci siamo detti che era il momento di provare a fare qualcosa di più serio». La serietà si chiama BBC: già, proprio il famoso network che in Scozia sta smantellando i suoi studi e mette all’asta le apparecchiature. «Comprammo un banco analogico dei primi anni ‘80 comprensivo di tutto l’arredamento in legno customizzato, tre registratori a bobine Studer del ‘78, due coppie di casse, compressori, microfoni, riverberi e diverse altre cosette di ottima qualità». Tornati in Italia i due trovano un posto molto più grande, isolato, nel verde, alto 5 mt (“e per una sala di ripresa è un vantaggio enorme”), praticamente perfetto; acquistano software e hardware Pro-tools per convertire al meglio il caldo suono analogico in digitale, e si dedicano ai lavori: progetto acustico, pavimento flottante, vetro enorme, box separato, aria condizionata, legno dappertutto. In un paio di mesi lo studio è pronto per accogliere «la prima band seria con un progetto serio in uno studio serio, gli Zippo». Era l’8 Marzo del 2008, e da quel giorno la Twelve è diventato un piccolo “laboratorio musicale” che svolge due attività, quella di
studio di registrazione e quella di etichetta discografica indipendente. Il disco degli Zippo viene addirittura recensito da “The Sun” con voto 4 su 5. Questo, unitamente all’intraprendenza dei due neodiscografici e al passaparola degli amici, fa sì che siano tanti i gruppi che si rivolgono alla TR per i loro lavori: Jester At Work, The Fiftyniners, Negative Trip, Unaware, Ramera, Wolfgang Shock, Buen Retiro, Malevic Square, Agua Calientes. Quello dell’etichetta, prosegue Francesco, «era per noi un mondo sconosciuto, tutto da esplorare. Ed ecco che siamo entrati in contatto con uffici stampa, booking, distribuzioni, grafici, fotografi… Al momento il cd di Jester at work è l’unico album all’attivo della TR, e devo dire che le vendite stanno andando abbastanza bene, soprattutto nei canali digitali quali iTunes. Abbiamo pubblicato anche il nuovo album dei Fiftyniners e presto daremo alle stampe anche il nuovo lavoro di Jester at work. Stiamo inoltre valutando ed ascoltando numerosi demo per cercare nuove ed interessanti produzioni. E vorremmo creare una struttura più grande e completa che comprenderà anche un ufficio stampa, un booking, un ufficio che si occuperà di organizzare eventi e festival ed una scuola di musica per ragazzi». (S.C.)
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Arte
Senza titolo L’arte di Learda Ferretti parte da una presa di coscienza consapevole e pessimistica della realtà di massa nella società contemporanea, arrivando a porsi come bisturi in una profonda, forse incurabile, ferita. di Anna Maria Cirillo
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n dettato esistenziale e sociale motiva tutta la ricerca pittorica dell’artista che si sviluppa nella lettura di una replicante realtà di massa, resa da una figurazione in sequenza di fortissimo impatto impaginativo. Le sue stilizzate figure posseggono, se pur strettamente accorpate, una propria specifica e singola identità grafica, ma paiono voler costituire, nella loro affiancata ripetitività, quasi uno schieramento da “Quarto stato” (Pellizza da Volpedo 1868-1907), posto a denuncia di una realtà di massa alienante che ingoba l’uomo contemporaneo, annullandolo quale essere pensante, dotato di ratio e di autodeterminazione. Tale stretta compagine è solo apparentemente statica; ricca invece di dinamismi interni che un segno grafico di incisiva sintesi sottolinea nelle diverse esteriorizzazioni. La singola emersione delle figure conserva sempre una propria fisionomia, una connotazione corporea accennata,
ma ben più che allusa, quasi sospesa sul discrimine di una genesi votata al riscatto senza trovarne la forza. Un’arte introspettiva la sua, che nell’ambito di una funzione gnoseologica si identifica con il concetto stesso che ne costituisce ideazione. Ne consegue che anche la partecipazione di contenuti socio-politici da parte dell’opera stessa appare concepita già in partenza in funzione di tali contenuti. In riferimento ad essi è da evidenziare che proprio il vuoto dell’attuale realtà sociale, quale assenza di “realtà umana”, suggerisce da sempre all’artista una scelta di non specifica individuazione della sua arte, da cui la denominazione “Senza titolo” usata per ogni opera e mostra. D’altronde le svariate valenze connesse alla sua arte confermano la secondarietà di un titolo (se non il solo anno di riferimento), anche considerato il fatto che già dal primo, immediato impatto
visivo segnico-iconografico con l’opera, si viene attratti e coinvolti all’interno più identitario ed essenziale della composizione, guidati da un segno grafico di così raffinata sintesi che è immediato veicolo di transfert ad una forte e diretta interferenza comunicativa. Anche nella leggera alternanza di certi contrappesi tonali in cui si misura la densità effettiva dell’impianto, pare esistere l’occasione di un riverbero concettuale in cui esprimere l’umana esigenza di trovare un’uscita dai cupi labirinti del sistema indotto: l’apatia, la rassegnazione e l’annichilimento a fronte di solitari, rarissimi tentativi autonomi di reazione, come in una sua opera del 2010 che rappresenta un singolo individuo in fuga, teso ed affannato nello sforzo di una arrampicata mani e piedi verso il limite della tela, quasi a volerne fuoriuscire e sprofondare in un precipizio della coscienza. In queste recenti opere, nel supporto dei colori, bianco,
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• Sopra due opere di Learda Ferretti fotografate da Loris Speziale
giallo e verde, la figura è sola, perde la sua connotazione di fisionomia in sequenza per assumere quella individuale di una propria esauriente corporeità e riconoscibilità fisionomica. Questa è spesso colta in una posizione di inerte raggomitolamento su sè stessa, o, come già detto, in un improvviso tentativo di fuga, dinamico effetto in diretta di un evento visivo in fieri. Tale valenza cinetica risulta caratterizzare anche alcune episodiche sculture a tutto tondo di Learda Ferretti che in plastici e classicheggianti intrecci corporei, paiono voler riafferrare il senso di un’armonia ariosa, captabile da tutti i punti di visualità prospettica dell’opera. All’avanguardia la sua attuale ricerca scultorea sulla luce, ove protagonisti sono i tagli, il metallo e le grandi dimensioni. Tali doti creative di esplicitazione artistica ed intellettuale, sono doti naturali che Learda Ferretti ha da sempre nutrito con studi costanti, ricerche e profonde con-
geniali ispirazioni che hanno contribuito a costituire humus e profonde radici nel proprio tessuto creativo e culturale. Ricco questo, in primis, della guida conduttrice di un sentito legame di vicinanza, intellettuale e morale, al pensiero, ed ai tantissimi insegnamenti di storia dell’arte, del grande storico e critico d’arte Gillo Dorfles, autore di innumerevoli saggi e libri, che sono pietre miliari incontestabili della storia dell’arte contemporanea internazionale, ed in specie del dopoguerra in Italia. A seguire poi i tanti studi ed approfondimenti sulla essenzialità della linea e della forma primordiale riferibili all’arte di Costantin Brancusi (1876-1957), e la sua costante ricerca sull’eclettica operatività del futurista Bruno Munari (1907-1999). A tali assunti si aggiunge la sua attrazione, fin dai tempi scolastici, proprio per questo artista argentino, legato alle varie declinazioni dell’arte cinetica e delle sequenze, infine e non ultimo il fascino, su lei esercitato, dal
contemporaneo modernismo delle opere in lastre di metallo dello scultore XHIXHA. L’essenza dell’arte di Learda Ferretti, così ecletticamente e seriamente forgiata, appare una presa di coscienza consapevole e pessimistica della realtà di massa nella società contemporanea, arrivando a porsi come bisturi in una profonda, forse incurabile, ferita. Le sue risoluzioni espressive sono oggettivamente condivisibili, alcune soggettivamente diverse. Ma l’artista non si pone la soluzione dell’impossibile. La sua intensità comunicativa coglie la metafora dell’esistenza e la trasmette come spazio della coscienza, territorio (forse) riconquistabile. Tale sua stimolante operatività suggerisce un incontro ravvicinato con la sua arte, specie in occasione delle sue prossime mostre “Senza Titolo” in programma nel 2011 nella regione, come pure a Firenze e a Milano.
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Arte
Vita d’artista Una vita movimentata, un’esistenza nomade, segnata da un unico filo multicolore: quello della sua arte. Andrea Mancini, protagonista di una mostra all’ex Aurum di Pescara, si racconta
di Fabrizio Gentile
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li esseri umani sono in uno stato di creatività ventiquattr’ore al giorno”,scrive il filosofo belga Raoul Vaneigem nel Trattato sul saper vivere. Ad uso delle giovani generazioni. “Le persone tendono ad associare la creatività alle opere d’arte, ma cos’è un’opera d’arte in confronto alla creatività di cui diamo prova mille volte al giorno?”.Andrea Mancini rispecchia in pieno questo pensiero. Lui, pittore per scelta, ha messo la creatività al centro della propria vita, dedicandosi alla pittura con lo stesso approccio con cui si è dedicato ad altre attività. «Artista è colui che lo è sempre, nel pubblico e nel privato; nell’intimità e nel lavoro, dentro e fuori dal suo laboratorio», dice. E a Mancini si adatta bene anche l’antico detto latino “nemo propheta in patria”: perché il pittore, o meglio l’artista Andrea Mancini, nel suo Abruzzo è praticamente sconosciuto, salvo che per una serie di suoi dipinti del 1969 che resistono ai rinnovamenti nell’hotel Regent a Pescara; e solo oggi la sua città natale, forse a parziale risarcimento di tanti anni di oblio, per tutto il mese di giugno 2010 ha ospitato una sua personale nelle belle sale dell’ex Aurum, la mostra “Codice e forma” curata da Aldo Serafinelli. Singolare coincidenza, la sala espositiva è la stessa dove risiede l’opera permanente di Giulio Turcato, che Mancini conobbe a Roma e col quale lavorò per un periodo della sua vita. Periodo cui risale anche l’ultima esposizione pescarese di Mancini, agli inizi della sua carriera (1965) quando il ventenne Andrea frequentava l’ambiente romano dell’arte che allora si ritrovava intorno a via
Margutta. Ma andiamo con ordine. Nato nel 1945, Andrea da ragazzino viene –come si dice in gergo– “mandato a bottega” dal maestro Tommaso Cascella, vicino di casa, da suo padre che ravvisa nel giovane virgulto un certo talento nella pittura e nel disegno. Talento che Andrea non tarda a sviluppare, incoraggiato dal Maestro, e che al compimento della maggiore età lo porta lontano dalla sua Pescara per abbracciare la stimolante dolce vita romana. «In quegli anni –racconta Mancini– vivevo solo della mia pittura. Frequentavo i luoghi dove si incontravano artisti e critici, e tra questi conobbi Schifano e Turcato, con i quali iniziai a lavorare. Ero inserito abbastanza bene, mi seguivano alcuni critici come Arturo Bovi, Maria Torrente, Italo Mussa, e Giorgio de Marghis, critico aquilano che promosse l’arte povera; ma non legavo molto con gli altri, ero un ribelle. Frequentavo le gallerie storiche: la Tartaruga, la Medusa». Nello stesso periodo frequentava anche l’ambiente milanese, tramite la galleria Montenapoleone. «Lì conobbi Enrico Baj, Crippa, Tancredi, Dova, Scanavino. E conobbi un critico che mi fece partecipare ad una mostra-scambio con la Yugoslavia, per cui esposi alcune mie opere al museo Milena Pavlovic Barilli di Pozarevac e alla Grafik Galeria di Belgrado. Due anni dopo esposi ad Helsinki, galleria Backsbacka. E poi tornai a Roma, dove ritrovai i miei maestri Schifano e Turcato, con i quali lavorai fino al 1971». In quell’anno Andrea abbandonò la pittura, in seguito ad una furiosa litigata con Schifano, colpevole –secondo Mancini– di aver
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reso industriale il processo creativo: «Mario era ossessionato dal denaro. Aveva tanti soldi e li spendeva tutti per acquistare grandi case, automobili, dare feste di continuo e circondarsi di gente della Roma bene. Non veniva quasi più allo studio, ci dava delle indicazioni e noi realizzavamo le opere in maniera seriale, come se fossimo in fabbrica. Ero contrario a tutta quella mercificazione, e così me ne andai». Ciononostante, Mancini parla sempre con grande rispetto di Schifano,“l’unico della sua generazione che si sia potuto dire artista vero”,secondo la sua definizione. Seguono a questo punto venti anni movimentati, durante i quali Andrea si reinventa disegnando mobili in Brianza, acquistando una nave (nessun errore: una nave) messa in servizio di collegamento estivo tra Pescara e le Tremiti e acquistando il marchio delle Terme di Ischia, con cui produce fanghi, sali marini da bagno e una linea di prodotti cosmetici. Complice anche una relazione sentimentale con una canadese sfociata in un matrimonio qualche anno più tardi, si trasferisce a Toronto, dove si dedica ad altre attività commerciali e torna a dipingere. «In quegli anni non ho mai veramente abbandonato la pittura; mi ero solo allontanato dalla scena artistica. Ma per me lavorare significa creare qualcosa, elaborare un processo creativo per me è fondamentale. Che si tratti poi di quadri, mobili o prodotti cosmetici poco cambia. Avevo un piccolo studio dove dipingevo, e quando la vita a Toronto e soprattutto il freddo intenso di quei luoghi mi stancarono, tornai in Italia e ripresi i contatti con alcuni critici che riuscirono a orga-
nizzare il mio ritorno sulla piazza». E lo fecero con una originale mostra allestita nel 1995 in un chiostro del Bramante, nell’oratorio di S.M. del Suffragio in Via Giulia a Roma: un’esposizione in cui gli antichi dipinti barocchi presenti nella chiesa stridevano con le opere di Mancini, dai colori brillanti, luminosi: «Per me il colore è l’essenza della pittura. La vita non è in bianco e nero, è e deve essere rappresentata a colori. Non c’è niente di più bello», spiega Mancini. I suoi anni più recenti lo vedono protagonista, in Italia, di alcune piccole mostre, per poi giungere a quella che lui considera la sua personale più importante, quella dell’Ex Aurum. «Ho sempre seguito la pittura informale, non mi ha mai interessato altro. Sono felice di poter dire oggi di essere un pittore, per me è un privilegio, conquistato in tanti anni di lavoro. Spero che questa mostra serva a darmi un po’ di visibilità nella mia terra, dalla quale non mi sono mai voluto allontanare troppo: dovunque fossi c’era sempre un treno o un aereo pronto a riportarmi qui per qualche giorno, appena ne avessi avuto l’occasione».
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Follia quotidiana Un personaggio fuori dagli schemi,
un artista vitale, curioso e incapace di star fermo. Ecco Vincent Giannico, da Atessa con furore di Fabrizio Gentile
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l primo indizio è già in quel nome, Vincent, che ha scelto per farne “un tutt’uno col cognome” (che in italiano, Vincenzo Giannico, suona come due entità separate, “e poi non voglio identificarmi con una provenienza, io vivo e risiedo sulla Terra”). Il secondo è nel suo aspetto decisamente anticonvenzionale, lontano anni luce dal prototipo dell’artista, e anche dagli atteggiamenti che molti assumono quando intraprendono la difficile strada dell’arte. Insomma, Vincent Giannico (Atessa, 1961) è un artista fuori dagli schemi. Non gli piacciono proprio. «Detesto rinchiudermi in un bozzolo composto da opere uniformate da un unico stile», dice di sé. «Il mio stile sta probabilmente nel fare in modo di non possederne Holy guns 2005
alcuno, per essere pronto ogni volta a rimettermi in gioco sperimentandone sempre di nuovi». In queste poche parole è rinchiusa l’essenza dell’uomo e dell’artista Giannico: insofferente, vitale ed energico, sempre pronto a cimentarsi in qualcosa di nuovo, curioso fino al midollo e capace di stupirsi davanti alle cose più semplici. «Ho vissuto per quasi un anno negli Stati Uniti, ho girato 41 stati e ho trascorso diversi mesi a New York, dove tutti mi chiamavano Vincent. Mi piacque e me lo sono tenuto». Non ha nulla a che vedere con Van Gogh, anche perché la pittura, per Giannico, è stata poco più che un hobby giovanile. «Ritraevo paesaggi, era più che altro un esercizio manuale. Poi è nata l’esigenza di raccontare delle storie attraverso l’ar-
te, e tutto è diventato più concettuale». Il mondo è un grande scatolone pieno di giocattoli in cui Giannico rovista, e su ogni cosa che estrae posa il suo sguardo critico: questo lo diverte, questo lo indigna, questo lo fa riflettere, questo lo intenerisce. «I miei occhi ora di fanciullo, ora di vecchio saggio, possono trovare un insetto, o una condizione disumana che coinvolge milioni di persone, ed ecco che attraverso i più diversi media –video arte, pittura, scultura, performances o installazioni– quelle scoperte personali mi permettono di comunicare col mondo. Il mio modo di intendere l’arte nasce dalla necessità di rielaborare senza condizionamenti tutto ciò che colpisce la mia curiosità». Salvo poi fermarsi dinanzi alla maestosità e alla bellezza
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della natura, che lo sovrasta e lo annienta; lui ne diventa paladino e confidente, la difende dai comportamenti irrispettosi (come nel caso di The End, 1999) e si concede anche il lusso di scherzare con lei, come quando addobba un girasole con occhiali e cappellino (Sunflowerman, 2003), o quando “antropomorfizza” un’aragosta (Joe, 2008). «Sfrutto qualunque media. Mi piace l’osservazione della natura. I miei lavori sono molto ironici, provocatori; spesso si tratta di semplici “interventi” sulla natura, sulle cose, che diventano altro e si elevano ad opera d’arte, significativa di ciò che voglio dire». Critica sociale, consumismo, religione, moda, disabilità, sono tantissimi i temi affrontati. Si definisce un “reporter dell’arte”: racconta la nostra quotidianità Holy guns Made in China 19552008
attraverso le immagini. Pag (2000) è una riflessione sulla capacità dell’uomo di vendere (e di comprare) anche le cose più inutili; Future (2002) una critica alle sofisticazioni alimentari; Made in China (2008) denuncia la propensione alla mercificazione dell’effimero; così come Water fashion (2008) ride dell’abitudine a “vestire” di un marchio ogni oggetto quotidiano. Holy guns (2005) parla di fondamentalismi religiosi; Debora con l’acca (2007) di disabilità, Occidentalizzazione (1999) grida l’orrore per ogni tipo di guerra. Scrive di lui Maria Cristina Ricciardi nell’introduzione al catalogo: “Le suggestioni prodotte dalla memoria personale, dalla cronaca quotidiana, dai parossismi tecnocratici, dalle manipolazioni della scienza e dagli imperativi
di un ottuso consumismo confluiscono nelle sue ricognizioni oggettuali che partecipano delle confusioni dei nostri tempi. Tempi di ibridazione, quindi, più che di verità; e di qui l’ambiguità incarnata dai suoi oggetti, laddove l’artista diviene egli stesso manipolatore di un nuovo necessario umanesimo che si appunta sulla speranza del riscatto”. Una sua opera, My Dreams (2006) è una scatola di legno, chiusa da un lucchetto sproporzionato, su cui campeggia la scritta “My dreams” realizzata con delicatissimi petali di fiori. Quali sono i sogni di Vincent Giannico? «Mi piacerebbe che le mie opere girassero il mondo, raccontando le loro storie, come e quando sono state create, e parlassero anche un po’ di me».
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Gizzi, 30 e lode La Fondazione Casa di Dante in Abruzzo compie trent’anni: una festa di cultura, ricerca e iniziative aperte ai giovani di Anna Maria Cirillo
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l 2010 segna l’importante ricorrenza del trentennale della Fondazione Casa di Dante in Abruzzo. Il ricco programma di manifestazioni che celebrano l’evento, molte aperte ai giovani e improntate alla maggior conoscenza, all’analisi e a nuovi approfondimenti delle rime dantesche, è forse il più coinvolgente e significativo tra quelli che quest’anno, dentro e fuori regione, hanno lasciato tracce di un certo spessore. La consueta prestigiosa pubblicazione annuale a cura del professor Corrado Gizzi, edita da Ianieri, commenta quest’anno i primi otto canti del Purgatorio, dedicati dal sommo poeta all’Antipurgatorio. Numerosi i saggi, testi e commenti che corredano il volume, a firma di notissimi critici e storici dell’arte, sugli episodi e i personaggi dei canti in esame che tuttora sono fonte di nuove e varie argomentazioni e riflessioni. Ai testi introduttivi seguono le numerose ed interessanti illustrazioni a colori dei sei artisti figurativi, selezionati a livello nazionale, che si sono misurati col tema di questa edizione: Tonino Caputo,
Franco Cilia, Danilo Fusi, Impero Nigiani, Romano Notari e Gabrie Pittarello. Le loro opere sono state esposte, in ottobre e novembre, nella mostra “Dante e l’Antipurgatorio” organizzata dalla Casa di Dante in Abruzzo in collaborazione con la Casa di Dante a Toronto, allestita nella Sala d’Annunzio dell’ex Aurum di Pescara. Le altre manifestazioni realizzate per la ricorrenza si sono diversificate in un validissimo corollario di eventi a partire dall’importantissimo convegno “D’Annunzio e Dante”, originato da una lectura Dantis che il Vate tenne a Firenze, nel 1900, dalla quale conseguì la pubblicazione, a cura dell’editore Alinari ed illustrata da Amos Nattini, di una nuova edizione della Divina Commedia. Un importante carteggio testimonia il legame d’amicizia che poi legò Nattini con d’Annunzio. Questo convegno apre le porte a grandi sviluppi, considerata l’attinenza al nuovo Festival Dannunziano che si ripeterà annualmente a Pescara a cura di Giordano Bruno Guerri. A seguire, il quinto Concorso “Leggere Dante oggi” riservato alle scuole medie
superiori della regione, con primo premio di 1500 euro, vinto dal Liceo Classico Torlonia di Avezzano. Di grande attualità poi il primo Concorso Internazionale di composizione “Dante in musica” che per la prima volta, nel tema della musica e della composizione sviluppa e focalizza l’attenzione internazionale sul poeta fiorentino in maniera innovativa (con un primo premio di 3000 euro, che sarà consegnato in una prossima cerimonia). Si giunge infine alle iniziative del futuro, prossimo e non, a cominciare dalla realizzazione di un auspicabile gemellaggio tra le quattro Case di Dante in Italia (Roma, Firenze, Ravenna e Pescara). A cominciare da Firenze, paiono augurarsi i coniugi Gizzi, il professor Corrado e sua moglie Lina De Lutiis, validissima ed appassionata studiosa (nonchè promoter) di Dante e della sua Divina Commedia. È stata proprio la Casa fiorentina a nomina quest’anno Corrado Gizzi socio onorario: un importante segno di vicinanza culturale da rendere ancora più stretto con un gemellaggio a breve termine.
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...la Spase
(la distesa)
Zafferano dell’Aquila in stimmi Da Seicento anni alle pendici del Gran Sasso, nella Piana di Navelli (AQ), si coltiva lo Zafferano. Per due mesi l’anno, le famiglie dei produttori locali raggruppate in cooperativa, si dedicano alla coltura di questo prodotto. La produzione ormai da secoli, è realizzata tutta manualmente. I fiori vengono raccolti a mano all’alba, quando sono ancora chiusi. Da essi vengono estratti i tre stimmi, che sono messi ad essiccare al calore della brace, in un setaccio posto sul camino. Servono 200 mila fiori per ottenere un chilo di Zafferano. Lo Zafferano d’Abruzzo, per l’aroma delicatamente amarognolo è considerato tra i più pregiati del mondo.
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Sapori e Tradizioni da Scoprire
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Arte
Installazioni/Zaccagnini per Albanese Se ci fosse un Oscar per la miglior vetrina natalizia quest’anno lo vincerebbe senz’altro Paride Albanese: con la complicità della galleria White Project di Pescara, infatti, il vulcanico imprenditore ha concesso all’artista Simone Zaccagnini di “impossessarsi” letteralmente della facciata del suo palazzo in via Nicola Fabrizi.
Impossibile non restare colpiti dalle dimensioni dell’intervento artistico, certamente il più grande mai realizzato a Pescara. La singolare installazione resterà visibile per tutto il periodo delle feste natalizie, fino al 7 gennaio 2011.
Libri/Summa Una porta che in realtà è una scala-arcobaleno, un percorso per gradi verso l’alto proposto come “segno” di apertura all’infinito. E’ questa l’opera, una pittura su tela tra le più recenti di questo grande artista, che ha dato anche titolo al catalogo ed alla sua mostra personale presso la Galleria VARART di Firenze, in Via Dell’Oriuolo (29 ottobre-22 gennaio), progetto e realizzazione di Vanna Razzolini Vichi, testo di presentazione in catalogo di Giorgio Bonomi, edizione Varart Firenze, 2010. Una mostra ricca di colori pieni di vita, riproduzioni di opere d’arte ambientale (“Un arcobaleno in fondo alla via”, ”Mattinate Fiorentine”..), opere pittoriche e manufatti di gran pregio che sottolineano nel segno la realtà più vivibile dell’arte e dell’ambiente, fino alla captazione di una realtà interiore che è umanità ed identità, quella espressa tra anima e storia nelle figure delle sue stupende “Fanciulle d’Abruzzo”, retaggio immaginifico e nello stesso tempo contemporaneo della nostra terra. A detta del critico d’arte Bonomi, “un contesto espositivo che avvolge le opere in una atmosfera metafisica..come sospese nel e dal tempo, ma non dalla vita concreta, sogno o realtà che sia”. Possiamo solo aggiungere che sfogliando anche velocemente le pagine del suo catalogo, ci arricchisce il desiderio di tornare a rileggere i titoli delle sue opere, pensieri da trattenere come doni. LA VITA E’ SOGNO. LA VITA E’SEGNO. non potrà essere dimenticato. A.M.C.
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Arte Fotografia/Susi-D’Orta Gli “Astrattismi Paralleli” di Carlo D’Orta e Danilo Susi approdano all’Ex-Aurum di Pescara: dal prossimo 5 gennaio il progetto fotografico congiunto dei due artisti, già passato per sedi istituzionali e private ad Ancona, Parigi e Bologna sarà in mostra nel magnifico spazio delle sale “Tosti” e “d’Annunzio” all’interno del complesso, per un’esposizione che durerà fino al 30 gennaio. Astrattismi paralleli è il frutto dei percorsi, distinti ma convergenti, dei due artisti, entrambi impegnati nella ricerca, basata sui riflessi, dell’elemento astratto, quale passaggio tra realtà e fantasia. Attraverso la tecnica della fotografia digitale la ricerca degli autori diventa un viaggio nei recessi dell’anima, attraverso la porta dell’astrazione, secondo la lezione di Wassily Kandisky, rendendo misteriosamente visibile l’invisibile. Gli autori corrono separatamente, ma parallelamente nella loro pura astrazione, per ri-congiungersi nella provocante ricerca del colore come corto-circuito emozionale; inconsciamente e paradossalmente la fotografia stessa si trasforma e da mezzo tecnico, il più realistico, diventa pura fantasia pittorica. Le immagini in mostra sono arricchite da un intervento site specific di Albano Paolinelli, La città parallela. Al vernissage interverranno l’assessore alla cultura del Comune di Pescara, Elena Seller, i critici d’arte Antonio Zimarino e Giovanni Benedicenti, il direttore di Menabò, Gaetano Basti, che ha edito il catalogo. Il 30 gennaio, finissage di beneficenza con presentazione del progetto “Cliniche mobili in Angola” della onlus “Marco Di Martino”. GLI AUTORI Il processo creativo di Carlo D’Orta nasce all’interno della città metropolitana, usando come medium riflettente i cristalli di grattacieli e vetrine. Le “vibrazioni” sono realizzate in base allo schema: assoluta fedeltà alle forme riflesse reperite nella realtà, manipolazione digitale dei colori per raggiungere risultati di fotografia “pittorica”. Danilo Susi lega il proprio processo creativo alla natura, all’acqua, elemento primordiale tutt’uno col sacro femminino generatore di vita; nasce così “Acquastratta”, immagini fedeli alla realtà tanto nelle forme che nei colori, senza alcun intervento post-produzione.
Fotografia/L’abruzzo che trema Un libro fotografico che racconta, in maniera inequivocabile, la devastazione prodotta dal terribile sisma dell’aprile 2009 all’Aquila; ma in maniera altrettanto chiara racconta anche “la volontà di rinascita che ha caratterizzato fin da subito” la popolazione colpita dal terremoto; e “la generosità di coloro che finora hanno dedicato tante energie e tanta parte del proprio tempo per far rinascere dalle macerie una nuova vita”. Sono le parole di Nazario Pagano, presidente del Consiglio Regionale, che aprono “Abruzzo 3:32. I segni del terremoto”, un pregevole volume di grande formato, curato da Bruno Colalongo e dalla sua associazione Aternum Fotoamatori Abruzzesi, che illustra le conseguenze del sisma su tutti i Comuni colpiti all’interno del cosiddetto “cratere”. Oltre a Pagano introducono il libro i testi di Guido Bertolaso, di Sergio Basti, direttore dei Vigili del fuoco Abruzzo, Luciano Marchetti, Vice commissario per la tutela dei Beni culturali, e Giustino Parisse, il giornalista del Centro i cui familiari sono deceduti sotto le macerie di Onna.
Abruzzo 3:32. I segni del terremoto A cura di Bruno Colalongo, Aternum fotoamatori abruzzesi 2010, pp. 296
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Eventi
Un presepe in fondo al lago V
illalago è un paesino affacciato sulle sponde del piccolo Lago di S.Domenico, all’interno delle Gole del Sagittario, uno specchio d’acqua cristallina a poca distanza dal più grande e rinomato lago di Scanno. L’incantevole paesino merita una visita sia in estate, quando l’aria di montagna rende la temperatura più sopportabile, che d’inverno, quando spesso un manto di neve ricopre le strade e le case, conferendo al paesaggio un’atmosfera indimenticabile. È in questo periodo che Villalago e il lago di San Domenico vengono scelti dall’associazione Eriberto Sub di Pescara per un’originalissima manifestazione: il posizionamento di un presepe sul fondo del lago. Ogni anno, il 26 dicembre, i subacquei di Eriberto Sub, diretti dal capo istruttore Domenico Giorgini, e circa cento sub
provenienti dalle regioni limitrofe si recano in processione sul piccolo lago, trasportando con apposite zattere le statue in terracotta di Gesù bambino, della Madonna e di San Giuseppe che dopo essere state benedette in chiesa vengono successivamente depositate sul fondo del lago, a comporre un suggestivo presepe subacqueo che sempre più richiama numerosi spettatori, incantati dall’atmosfera magica dell’evento, in uno scenario di fiaccole, ceri accesi intorno alle statue e fuochi d’artificio. Alla fine dell’evento una cena a base di piatti tipici e vin brulé conclude la giornata. Anche quest’anno l’originale manifestazione si è svolta come di consueto, con la partecipazione di tutto il paese e il supporto di Croce Rossa Italiana, dei Vigili del Fuoco e dell’Ail, l’associazione italiana contro la leucemia che da tempo collabora con
Eriberto Sub nell’organizzazione di altri eventi. «Un ringraziamento speciale – dice Luca Mastromattei, socio fondatore dell’associazione Eriberto Sub– va all’amministrazione comunale di Villalago che da diversi anni collabora attivamente con noi mettendo a disposizione i fondi necessari per poter realizzare questa manifestazione». L’Associazione Eriberto Sub, nata nel gennaio 2009 in memoria di Eriberto Mastromattei, decano dei balneatori pescaresi, grande personaggio che ha fatto del mare una ragione di vita, è stata costituita a Pescara con lo scopo di ottimizzare i costi della subacquea; senza fini di lucro e con una forte inclinazione verso il sociale, mette in primo piano le principali attività natatorie ed è l’unico centro in Abruzzo per la formazione di istruttori Cmas-Acuc. M. L.
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Tabù Elogio (ma non troppo) della pattumiera So che, mentre lo state leggendo, questo articolo è già pronto per essere cestinato… Ma, se la carta sappiamo dove gettarla (è un sacchetto bianco con su scritto “carta, cartone, imballaggi…), le idee che si imprimono dentro di noi mentre leggiamo dove le gettiamo? Eppure ci sarà anche nel nostro cervello un “cestino” dove gettare i file obsoleti… La compulsione a disfarci delle cose è l’allenamento a cui sempre meno ci si sottrae. Tra le arti del vivere “liquidomoderno” sbarazzarsi delle cose –a volte anche delle persone– è più importante che acquisirle. Gli oggetti di consumo hanno un’aspettativa di vita sempre più breve. E più servono ad essere consumati e più aumenta la loro funzionalità. Come Alice nel Paese delle meraviglie corriamo più che possiamo per restare nello stesso posto. Se vogliamo andare da qualche parte dobbiamo correre almeno il doppio! Il consumismo fa sì che restiamo sempre insoddisfatti così l’insoddisfazione nutrirà i desideri… e noi cercheremo di soddisfarli comprando
Le parole per dirlo di Giovanna Romeo*
di Laura Grignoli*
sempre di più. Comprando di più avremo altri desideri che cercheremo di soddisfare. Eccetera eccetera. Guai se non desiderassimo più, la domanda si esaurirebbe rapidamente e addio consumi! Ma che dico? Addio immondizia! L’industria di smaltimento dei rifiuti non avrebbe più il ruolo dominante che sta avendo ora nell’ambito della vita “liquida”, dove tutto scorre prima ancora di prendere una qualsiasi forma. La nostra sopravvivenza, nonché il nostro benessere quotidiano, dipende da quanto siamo bravi a smaltire gli scarti. La pattumiera, arredo sempre più sofisticato che fa pendant con i mobili della cucina, è l’oggetto dove tutto va a finire e, se non stiamo attenti e un po’ distanti, potremmo andarci a finire dentro noi stessi anche se la data di scadenza del prodotto non è segnata. Al di là di ogni ironia, penso davvero che gettiamo nel cestino molte cose di noi. Ci spogliamo di attributi “usa e getta” e di identità di volta in volta acquisite, tenendo d’occhio la data di obsolescenza. Abbiamo un abito per
ogni circostanza e per ogni “clima”. Quello attuale è quello della mobilità planetaria e per questo, forse, non ci attacchiamo più a niente e a nessuno? Veloci come l’acqua che scorre, facciamo scorrere gli affetti e li lasciamo scomparire con indolenza (non-doleo), senza dolore. Da bravi “sottoproletari dello spirito” – direbbe Zygmunt Bauman– abbiamo l’unica preoccupazione di degustare tutto e subito. Spargendo qua e là gli scarti dell’usa e getta. Altro che “cogli l’attimo”… lo estendiamo come un elastico per ricavare quante più gratificazioni possibili, sfruttando e arraffando quello che è a portata di mano nell’illusione di un eterno presente. Il vantaggio è che, grazie all’infinito numero di esperienze fatte o virtualmente possibili da fare in questa vita, non avvertiamo più la necessità dell’eternità. Non ne avvertiamo la mancanza. Quello che conta è la velocità, la vitesse dicono i francesi, non certo la durata. Coraggio: se siamo abbastanza veloci possiamo consumare tutta l’eternità nello spazio esiguo di una vita.
Sono anni che viviamo a contatto
rimane disastrosa. Oggi sono affian-
con badanti straniere: c’è quella che
cate da sindacalisti che “prendono
ricatta la vecchietta e si fa pagare
sotto la loro protezione” un nutrito
ogni lavaggio intimo extra; c’è quella
numero di badanti, le istruiscono e
che porta l’amante italiano malato di
poi denunciano il malcapitato che
cuore in casa mentre l’anziana è da-
non può che impegnarsi anche le
vanti alla tv. Insomma le esperienze
mutande per regolarizzare ciò che
con queste donne coraggiose che la-
regolare non era. Il sistema è questo:
sciano il loro Paese e il loro coniuge,
non si fanno mettere in regola con
la maggior parte delle volte alcolista,
scuse varie, allacciano rapporti con i
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È intelligente prendersi cura di sé e della natura
di Galliano Cocco
Siamo arrivati, cari lettori, anche per l’ampio capitolo dedicato alle intelligenze, alla fine del nostro viaggio esplorativo in quella che è la più grande dote dell’uomo. La dote che ci differenzia da tutti gli esseri viventi presenti nell’universo conosciuto. Abbiamo affrontato le varie tipologie dell’intelligenza nella convinzione – come ci ha insegnato Howard Gardner– che il funzionamento della mente dell’uomo non può essere osservato, valutato e “misurato” solamente attraverso la dimensione dell’intelligenza logica e cognitiva. In realtà l’essere umano è un insieme di facoltà che si esprime anche nell’emozionalità del corpo, della relazione, dell’introspezione etc. Per questo abbiamo richiamato le varie forme di intelligenza (linguistica/ verbale, logico/matematica, musicale, cinestesica, spaziale, intrapersonale e interpersonale), sottolineandone le varie caratteristiche. Concludiamo la serie di articoli considerando il fatto che Gardner –ed altri studiosi– nel corso degli ultimi anni alle sei forme descritte ritiene utile aggiungerne altre due: l’intelligenza naturalistica e l’intelligenza esistenziale. Come si intuisce, la prima di queste ultime abbraccia quell’attenzione e sensibilità richieste per pre-occuparsi dell’am-
biente così minacciata dal degrado, dall’abbandono e dal depauperamento fino a minare l’esistenza stessa dell’uomo. Mentre l’intelligenza esistenziale concerne la capacità di saper riflettere su tutti quegli elementi che caratterizzano, quotidianamente, la nostra vita. Per certi aspetti potrebbe essere assimilata all’intelligenza intrapersonale, in realtà è da leggere come una forma di disciplina molto profonda soprattutto se si considera l’estrema velocità (e superficialità!) del nostro agire quotidiano. A nostro avviso, alla luce della notevole complessità del mondo contemporaneo che presuppone risposte sempre più dinamiche, a tutte queste forme di intelligenza bisogna aggiungerne un’altra: l’intelligenza creativa. Essa va intesa come capacità di svincolarsi dal pensiero “piatto” e dal groupthink e che permette di pensare in modo creativo per trovare soluzioni innovative nella vita personale e lavorativa. È un’intelligenza che va posta sullo stesso piano delle altre perché l’essere creativi significa saper sfruttare al meglio il nostro potenziale intellettivo, in modo da tener conto della molteplicità dei punti di vista da cui si può considerare un problema, per risolverlo in maniera “laterale” e non semplicemente lineare.
vicini, portano amiche a casa come
comportarsi con superficialità siamo
quindi, sprovveduti italiani: infor-
testimoni, scattano foto con il cellu-
noi italiani. Credo sia molto facile per
miamoci sulle leggi (ognuna di loro
lare e il gioco è fatto. La famiglia è
le straniere incastrarci poiché non si
ha un consulente del lavoro a sua
incastrata. Ci sono leggi severissime
riconoscono né nella nostra cultura
disposizione) e mettiamole subito
in proposito e questo se la badante
né nella nostra affettività.
in regola, perché è giusto e perché
non si fa male in casa! I conculenti
Quello che noi italiani chiamiamo
pagheremmo molto cara un’inadem-
del lavoro spiegano che non baste-
“adattamento” per loro è “fingere a
pienza del genere.
rebbero tre generazioni per ripagare
pagamento”, e quando sbadatamen-
la lavoratrice non in regola. Insomma,
te sono sé stesse risulta subito chiara
gli unici a non conoscere le leggi, a
la diversità di vedute. In guardia
Il trucco, però, è di saper “zippare”, di saper comprimere in una sola cartella. Se ci si muove in fretta, senza fermarsi a contare gli spiccioli, forse si riesce a comprimere nell’arco di una vita mortale un numero sempre maggiore di esistenze. E in più: così come facciamo per la spazzatura, anche la nostra vita si può rigenerare, riciclare, revisionare, ricostruire, ristrutturare, abbellire… Ecco allora che l’identità non è più “idem”, sempre la stessa, ma ha a che fare con la possibilità di rinascere, di smettere di essere ciò che si è per diventare ciò che non si è ancora. Liberati dalle ansie dell’eternità, immersi nel riciclaggio come fossimo anche noi oggetti o alimenti con data di scadenza, andiamo alla ricerca di strumenti “fai da te” per riavere una nuova immagine e una nuova vita: lifting, diete, protesi per ogni parte del corpo usurata… Al vivere per la morte oggi si sostituisce il vivere per la raccolta differenziata. Non disperate: sotto altra forma… ma tutto ritorna! *Psicologa e Psicoterapeuta
*Psicologa e Psicoterapeuta
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Volontariato
L’abruzzese col cuore africano
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all’Abruzzo a Padova, passando per l’Africa. Il cuore di Paolo Mené, ex imprenditore abruzzese, vive in questi tre luoghi: l’Abruzzo, dove torna ogni estate; Padova, città dove ha lavorato per tutta una vita o quasi, e il Mali, dove si è recato più volte e per cui ha costituito un’associazione di volontari –Progetto Dogon– con lo scopo di “fornire mezzi e strutture idonee ad avviare uno sviluppo autonomo delle comunità basato su risorse sanitarie e materiali locali”. Insomma, un progetto umanitario nel quale Mené ha coinvolto grandi personalità e comuni cittadini, artisti e musicisti, commercianti e politici padovani. Ora sta cercando di costituire una “filiale” pescarese della sua associazione, che ha già realizzato in Dogon, nel villaggio di Weré, un centro sanitario, costruito in soli undici
mesi da maestranze tutte locali, già attivo dal febbraio 2009. Oltre ad essere un servizio essenziale per la sopravvivenza della comunità locale (le strade sono inesistenti e raggiungere altre strutture sanitarie è difficilissimo), il centro sanitario risponde anche a caratteristiche di eco compatibilità: è stato realizzato seguendo lo stile dell’architettura locale, ed è autoalimentato da pannelli solari fotovoltaici. L’associazione di Mené ha inoltre contribuito all’alfabetizzazione della popolazione, soprattutto quella femminile, costruito alcuni pozzi a scopo agricolo, e attualmente sta cercando fondi per l’acquisto e il trasporto di una macchina per la trivellazione che potrebbe, nell’arco di tre anni, scavare circa 100 altri pozzi, fondamentali per la sopravvivenza. A questo scopo ha organizzato una mostra fotografica sul
Mali a Padova (12-27 ottobre) e spera di portarla anche a Pescara per sensibilizzare la popolazione e coinvolgere altri nel progetto. Per informazioni si può visitare il sito www.progettodogon.org o telefonare al numero 0498723437.
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Il Re dei pasticceri Fabrizio Camplone
Marramiero - Primavera TANDEM METROPOLITANO L’Aquila 2010 PROVE TECNICHE DI RICOSTRUZIONE Tercas - Caripe OK LA FUSIONE È GIUSTA dicembre 2010 - gennaio 2011
Simona Molinari La voce aquilana nel mondo
Spazio Albanese
Campagna amica U
n mercato a “chilometro zero”, ovvero con prodotti freschi che arrivano sul bancone direttamente dal produttore. L’agroalimentare abruzzese, genuino e di qualità, ha trovato finalmente casa nei locali del mercato ittico di Via Paolucci a Pescara, dove lo scorso 11 novembre è stato inaugurato il primo mercato coperto di “Campagna amica”, la Fondazione che favorisce la filiera corta e promuove qualità e salubrità dell’agricoltura. Oltre 35 produttori regionali hanno portato nei locali del mercato –resi disponibili dall’assessorato comunale alle attività produttive– prodotti freschi, convenienti e garantiti, sui quali viene praticato il controllo dei prezzi massimi secondo l’accordo stipulato da Coldiretti con le principali associazioni di consumatori: spazio dunque a ortaggi rigorosamente di giornata, alla carne ovina e bovina, al pane, ai cereali, legumi, formaggi e salumi abruzzesi al cento per cento. Il paniere è arricchito da prodotti più ricercati come confettura di uva, salsiccie al tartufo, caciotte allo zafferano o stracchinate, pasta di saragolla e latte d’asina (per citarne alcuni) simboli di un Abruzzo genuino e tradizionale che vuole sopravvivere alla globalizzazione esprimendo le proprie deliziose peculiarità. «Questo tipo di mercato –ha detto Simone Ciampoli, direttore regionale di Coldiretti– viene incontro alle esigenze della stragrande maggioranza dei cittadini, sempre più attenti, e alle produzioni agroalimentari garantite e di qualità». L’assessore comunale Stefano Cardelli ha affermato che «il mercato di Via Paolucci –aperto tutti i giovedì, venerdì e sabato dalle 8 alle 20–sarà senz’altro un esempio da imitare» per altri Comuni.
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“Vino che è un’ ambrosia, olio che è una dolcezza, son cose che bisogna andare a Tocco per gustarle.” Da Il bel paese di Antonio Stoppani (1867).
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Caprice di Fabrizio Camplone
Dolce e gentile Cinquant’anni di prelibatezze: Fabrizio Camplone, il re dei pasticceri abruzzesi, si racconta attraverso la storia familiare, i suoi successi e le sue invenzioni passate e future. Una storia che ha il colore del caffé, il profumo del cioccolato e i sapori dei suoi eccezionali gelati di Giorgio D’Orazio
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on sale più nell’aria della Pescara Vecchia l’odore del forno di Flaiano a risvegliare certi umori, come vorrebbe d’Annunzio, ma oggi sulla piazza Garibaldi si affacciano le vetrine di Caprice e intuire sapori invitanti non è difficile. Ritrovo ormai storico della città, inaugurato nel 1982, è il quartier generale del pasticcere, anzi Maestro Pasticcere, Fabrizio Camplone. È con lui che siedo ad un tavolino, con la sua ospitalità abruzzese, discreta e sincera, con la sua riservatezza composta che accenna appena ad un curriculum di tutto rispetto. Siamo comodi e partiamo da lontano. Da quando papà Tullio, l’inventore del dolce “Presentosa”, della torta “Florita” (dedicata alla moglie Margherita) e soprattutto del gelato a tre punte “Capriccio”, apre la sua prima pasticceria. Era il 1957, la piazza “della Pescara” senza il ponte d’Annunzio era un salotto accogliente, e le vie del “tridente” si coloravano di mestieri e passeggio: più bottegaia via delle Caserme, più elegante corso Manthonè. È lì che i Camplone si fanno le spalle. Sì, ho usato il plurale, perché anche il piccolo Fabrizio, classe 1961, comincia allora a respirare l’atmosfera del laboratorio. Poi è venuto il “bar Camplone”, all’angolo tra corso Umberto
e via Firenze: nel 1975, con una città in pieno sviluppo, Tullio passa il fiume con fiuto imprenditoriale e s’impone come referente per i golosi di tutta Pescara. E Fabrizio? Lui è costretto a svegliarsi di notte, e sotto con la preparazione dei cornetti: vuoi fare il pasticcere? Lavora. Hai voluto la bicicletta? Pedala. È questo che gli dice il papà, che non tiene troppo a passargli il testimone, e Fabrizio pedala pedala, vuole continuare la tradizione, quel mestiere è una passione, non un’attività da rilevare per convenienza. Ragioniere, rifiuta il famigerato impiego in banca, roba da matti in quegli anni, poi parte per Milano e Torino, oltre le Alpi, è in Europa, soprattutto in Francia, ed impara l’arte del panettone e del cioccolato, affina la gavetta di casa propria, screma da ogni esperienza per conservare quel che serve ad un pasticcere creativo così legato alla sua terra d’Abruzzo. Siamo tornati al principio degli anni Ottanta. E da “Centrale” ritorniamo a Portanuova, ancora piazza Garibaldi, quasi un capriccio, meglio: Caprice. Antonella entra nella vita di Fabrizio come moglie ma anche come alter ego nella gestione dei negozi (per i quali si occupa soprattutto delle pregevoli confezioni, insomma dell’immagine dell’azienda); Caprice cresce, una succursale apre nel centro
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• Fabrizio Camplone con alcune sue creazioni
commerciale “Auchan” sulla Tiburtina, e crescono anche i loro figli, Gianluca e Fabrizia. Ma è controtendenza. Perché la zona storica della città è in decadenza, cominciano a chiudersi gli usci delle attività commerciali nei dintorni e Caprice diventa spesso l’unica ragione per soffermarsi in piazza. Con gli anni Novanta arriva la ripresa. Si riaccende il borgo di Flaiano e del Vate. Per Fabrizio Camplone si accendono le lampadine dell’inventiva e qualche riflettore di celebrità dalla rassegna stampa invidiabile. Compila, rigorosamente a mano, i suoi ricettari, sottochiave in luogo segreto (ma ammette di averne pubblicato uno di recente), cerca e ricerca materie prime particolari e genuine; con un’attenzione pignola ai prodotti tipici del territorio impasta, monta e presenta le sue novità. Per esempio il “DolceMila” (pensate alla Figlia di Jorio), dalla forma ispirata ai nostri canestri contadini, con mandorle e “scrucchijata”, una tipica marmellata di uva Montepulciano; oppure il dolce al farro di Caprafico; o ancora i cioccolatini “Immagini” con impressi i simboli del patrimonio storico-culturale pescarese. E poi i gelati; bandendo i semilavorati tutto è ancora genuino e autentico: un connubio fra tradizione regionale e gusti classici, come per il gelato alla liquirizia di Atri, o quello ai lamponi
e vino Pecorino o prosecco, al latte e menta, alla Centerba, e ancora all’Aurum, al confetto di Sulmona, alla Genziana e via così. Con gli stessi gusti poi si preparano le mousse, “passione dei turisti” come dice Fabrizio, mentre sposando liquirizia e zafferano verrà fuori un panettone giudicato nel 2008 il migliore dall’esigente cattedra milanese di “Re panettone”, scusate se è poco. Nel frattempo fuori dal laboratorio Fabrizio viene esaminato a Verona, teoria e pratica. È il febbraio del 1996 e una mousse alla Presentosa, dedicata a papà Tullio, appena scomparso, apre al pescarese le porte dell’Accademia Maestri Pasticceri Italiani, ambitissimo cenacolo per i big del mestiere. E uno come Fabrizio, primo classificato al Gran Prix Cioccolateria di Perugia (1994), alle Olimpiadi Culinarie tedesche (2000) e al romano “Award del Pasticcere” (2009), nonché finalista o “piazzato” in altri concorsi, competizioni e simposi di taglio internazionale, sa starci perfettamente a suo agio. Anche quando nel 2007, per amore professionale e, ancor più, della sua città e di tutta la regione, prova (ma non riesce per la mancata collaborazione del Comune) ad organizzare il “XV Simposio Pubblico” dell’Accademia all’ex Aurum, da poco rimesso a nuovo, un’occasione perfetta per riscaldare i mac-
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chinari della “fabbrica delle idee”. Un’altra occasione persa per la città e uno spiacevole ricordo per Fabrizio, che lascia però subito il posto alla sua generosità tipicamente abruzzese: «Ti riporti un po’ di gelato?» Come faccio a dire di no a quei sapori, splendida sintesi tra tipicità nostrane ed esperienze estere, la linea guida fondamentale del lavoro di Camplone? Penso di raggiungerlo al bancone per prendere un vetrino “La Dolce Vita”, omaggio al satiro Ennio, ma torna subito al tavolo e approfitto per scucirgli qualche altra parola. Sulle novità, magari sulla assodata linea “gluten free” e sul nuovo reparto dedicato ai celiaci, o ancora sulle prospettive future. «La novità impacchettata è il “Panedolce”, un impasto tradizionale con le patate del Fucino, e poi voglio lavorare alle “Sise di monaca” di Guardiagrele…» dice con entusiasmo. È questo Fabrizio Camplone, sempre pronto a rimettersi in gioco, questa la filosofia Caprice (dal 2005 tra i 15 migliori bar italiani). A parte tutto, quel che resta è il lavoro ben fatto e col lavoro quel che viene è il riscontro soddisfatto della clientela, la quale, se alza un po’ lo sguardo entrando, può leggere l’ora sullo stesso orologio che da cinquant’anni scandisce il tempo dei pasticceri Camplone. “Cinquant’anni di dolcezze!” ripetono loro. Ed ecco che il meglio è salvato.
• In queste foto Fabrizio Camplone col suo staff e
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al lavoro. Qui a fianco, un interno di Caprice.
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Rustichella d’Abruzzo
Lo zafferano D.O.P.
Rustichella d’Abruzzo si lancia nella produzione diretta della spezia più pregiata del mondo
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Abruzzo, famosa per essere la regione verde d’Europa e la regione dei Parchi, è vanta anche la più antica produzione di Zafferano in Italia. Una produzione limitata ma di grande pregio di questa spezia, la cui declinazione abruzzese viene considerata per le sue qualità la migliore del mondo ed è stata insignita dell’Atomo d’Oro, premio internazionale per il progresso scientifico in agricoltura. Rustichella d’Abruzzo, impegnata nell’opera continua di valorizzare i prodotti di qualità del territorio, ha iniziato da quest’anno la produzione diretta della zafferano, in collaborazione con un esperto coltivatore della zona di produzione dello Zafferano dell’Aquila, a San Pio delle Camere.
• Alcune fasi della raccolta e della lavorazione dello Zafferano di Navelli. Nella foto in alto, il fiore di Crocus Sativus dai cui stimmi si ricava la preziosa spezia
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LA STORIA Lo zafferano è conosciuto da millenni: Virgilio, Plinio ne parlano spesso nelle loro opere; Omero lo cita nel IX e XII libro dell’Iliade, come anche Ovidio nelle Metamorfosi. Se ne parla nei papiri Egiziani del II secolo a.C. e nella Bibbia. Isocrate si faceva profumare di zafferano i guanciali prima di andare a dormire e le donne greche lo usavano per profumare i pavimenti dei loro templi. Inizialmente lo zafferano si coltivava in Asia e successivamente la coltivazione si estese in varie parti del mondo arrivando
anche in Tunisia e da lì in Spagna. Da queste zone arrivò in Italia per mano di un monaco domenicano di Navelli, durante il 1230. Lo zafferano trovò nella zona dell’Aquila un habitat molto favorevole il prodotto si mostrò di gran lunga superiore a quello coltivato in altre nazioni. Rapidamente la coltura si estese nei dintorni e le famiglie nobili aquilane dettero vita, in breve tempo, a grandi mercati con le città di Milano e Venezia. Il nome scientifico Crocus deriva dal greco Krokòs (filamento) mentre il nome zafferano deriva dall’arabo zaafran.
LA LAVORAZIONE I BULBI Una volta preparato il terreno con il solo concime organico i bulbi di zafferano, selezionati in base alle dimensioni, vengono trapiantati nel mese di Agosto. LA RACCOLTA La raccolta dello zafferano si ripete ogni mattina all’alba, prima che la luce del sole faccia aprire i fiori, per tutto il periodo della fioritura tra la seconda metà di Ottobre e la prima di Novembre. Il lavoro viene eseguito a mano ed i fiori raccolti vengono riposti in cestini di vimini.
LA SFIORATURA E L’ESSICCAZIONE La sfioritura consiste nella separazione a mano degli stimmi dal fiore. Gli stimmi si pongono su di un setaccio e vengono essiccati su di una brace di legna di mandorlo e quercia. Questa fase della tostatura è la più delicata in quanto se gli stimmi restano troppo a lungo rischiano di bruciare e se non si asciugano bene possono marcire. Queste fasi vengono effettuate lo stesso giorno della raccolta.
Passata è l’uggiosa invernata, Passata, passata! Di fuor dalla nuvola nera, Di fuor dalla nuvola bigia Che in cielo si pigia,
É Primavera Guernita di gemme e di gale, Di lucido sole, Di fresche viole, Di primule rosse, di battiti d’ale, Di nidi,Di gridi, Di rondini ed anche di... VARIO 73 GUSTO (M)chilometrico.indd 7
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Crustacea Italia
Aragosta a colazione Da Pescara una proposta commerciale esclusiva: crostacei pregiati alla portata di tutti
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hi non ha avuto, almeno una volta, la tentazione di ordinare un astice al ristorante? A meno che non siate tipi che pasteggiano a ostriche e champagne, la vostra scelta sarà poi ricaduta su qualcosa di meno costoso, visti i prezzi spesso proibitivi con i quali aragoste, astici e altri crostacei pregiati vengono serviti sulle tavole dei ristoranti. Da oggi, però, avete la possibilità di gustare una di queste squisitezze direttamente a casa vostra, grazie a Crustacea Italia, la nuova ditta che porta –come recita lo slogan di lancio– “tutto il vivo a casa tua”. Nata dall’esperienza pluriennale nella commercializzazione di prodotti ittici all’ingrosso di sei pescaresi, la società guidata da Matteo Cipriani si propone sul mercato con tre eccellenti punti di forza: accorciamento della filiera, proposta commerciale esclusiva e –cosa più importante di tutte– qualità del prodotto, che viene commercializzato vivo. «Siamo il secondo anello della catena commerciale – spiega Matteo– cioè acquistiamo il prodotto da chi lo pesca. Finora ci siamo dedicati alla vendita all’ingrosso, ossia vendevamo i crostacei ai fornitori dei ristoranti e della grande distribuzione; ora abbiamo spostato il nostro orizzonte verso la vendita al dettaglio, per dare a tutti la possibilità di mangiare un’aragosta senza spendere una fortuna». Cosa che è resa possibile dall’accorciamento della filiera, appunto: «I nostri
crostacei vengono pescati in varie parti del mondo, “stabulati” in vasca, imballati e trasportati per via aerea. Al loro arrivo in Italia (dopo circa sei o sette ore, quindi) vengono sottoposti a rigidi controlli da parte del Ministero della Sanità per verificarne la provenienza e lo stato di salute, e successivamente giungono nel negozio, dove trovano ad accoglierli le nostre vasche speciali. Il prodotto che vendiamo non potrebbe essere più fresco di così». Crustacea tratta esclusivamente astici, aragoste e King Crab, ossia il meglio del meglio dei crostacei. «Oltre ad avere un sapore eccezionale, sono un alimento con apporto calorico ridotto, per cui sono particolarmente adatti ai regimi dietetici. I nostri astici provengono dal Nordamerica, le aragoste dal Cile, dal Sudafrica, dal Portogallo e dal Mediterraneo; il King Crab (un enorme granchio del peso di circa tre chili) invece dall’Alaska. Nel nostro negozio vendiamo anche il pregiato astice blu, che ha una qualità superiore». Il negozio di Via Tiburtina a Pescara è solo il primo tassello di un’operazione di ampio respiro che porterà Crustacea Italia ad aprire punti vendita in tutta Italia: «Stiamo già pensando alla prossima tappa –spiega Matteo– che potrebbe essere Roma o Milano». Buon appetito, quindi. A tutti. Crustacea Italia, Pescara Via Tiburtina Valeria, 427 Tel 085 4311929 www.crustaceaitalia.com
VALORI NUTRIZIONALI DEI CROSTACEI
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La carne dei crostacei è simile a quella del pesce magro. In 100 grammi di prodotto pulito si trovano 80-82 grammi di acqua, 1-2 grammi di grassi e 14-17 grammi di proteine. Una caratteristica dei crostacei è il contenuto di colesterolo più alto rispetto ai pesci e ai molluschi; nei crostacei inoltre sono presenti molti sali minerali, ad esempio sodio, potassio e calcio ed alcune vitamine (soprattutto B1 e B2).
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Soste
Il Vate
Locanda del Pompa
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mmersi in una delle faggete più belle della regione, all’interno di un modernissimo resort ideale per un soggiorno sia in estate che in inverno, il ristorante dell’Hotel Rigopiano propone piatti tradizionali abruzzesi, rivisitati da un team di giovani chef. Prima e dopo i pasti consigliamo una visita alla splendida Spa dell’Hotel, per rilassarsi nella magnifica piscina riscaldata.
soli dieci minuti dal centro di Teramo, affacciato sui Monti Gemelli, immerso nel verde del Parco Nazionale del Gran Sasso-Laga, questo piccolo risatorante con camere propone piatti ispirati alla nobile tradizione culinaria teramana con cucina stagionale; le materie prime sono tutte di produzione locale. Campli (TE)S.S. 81 Loc. la traversa tel. 0861 569011 /335 5651112 fax 0861250881 www.lalocandadelpompa.it pa.pompa@tiscali.it
Località Rigopiano, Farindola (PE) Tel. 0858236401 www.hotelrigopiano.it
Fez R
Via Nicola Fabrizi 186, Pescara tel. 0854294000
iapre il locale di tendenza più “in” nel centro di Pescara: in una cornice di alta classe, all’interno del palazzetto Albanese in via Nicola Fabrizi, propone aperitivi sfiziosi, cucina moderna e inventiva, il tutto accompagnato dalle performances del dj di turno. Adatto soprattutto a chi dopo cena ama restare al tavolo ad ascoltare buona musica e chiacchierare con gli amici. Aperto solo nei weekend.
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Flamengo N
icola D’Alonzo, figlio d’arte con esperienza internazionale, gestisce il ristorante che fu di suo padre, insieme al fratello Verino e a sua nuora Lara. Una destinazione che vale il viaggio: la cucina –tipica abruzzese– benchè in quota, vi sorprenderà con ottimi piatti di tradizione marinara. Località Guarenna - Casoli (CH) Tel. 0872985212
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Sandro Visca • IV STAZIONE Gesù è rinnegato da Pietro
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Ofena
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di Sandro Visca
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Itineris: una Via Crucis realizzata da 14 artisti europei e composta da opere in ceramica incastonate in edicole di pietra
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edicole, eseguite in pietra per una maggiore assonanza con il luogo, sono state disegnate in forma elementare con la quale ho voluto trascurare i mezzi più eruditi, puntando solo all’evidenza rappresentativa che le rende però vistose e riferendomi solo ai pacati temi stilistici della tradizione. Al contrario delle edicole in pietra, che rimandano inequivocabilmente a una arcaicità del territorio sia per la loro forma che per la materia che le compone, le icone raffiguranti le quattordici
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stazioni, affidate a un gruppo di artisti di diverse generazioni e nazionalità, selezionati dal critico Antonello Rubini, sono state realizzate con avanzata tecnologia in fotoceramica, quasi a voler indicare non l’enfatizzazione di una modernità, ma un’emblematica indicazione di una traccia che, pur nel nostro linguaggio corrente, riesce a trasformarsi in storia iconografica. Le opere hanno raggiunto un notevole risultato esecutivo, sia di qualità cromatica che icastica, sicuramente
Gino Marotta • I STAZIONE Gesù nell’orto degli ulivi
Valerio Trubbiani • II STAZIONE Gesù tradito da Giuda, è arrestato
Joe Tilson • III STAZIONE Gesù è condannato dal Sinedrio
Sandro Visca • IV STAZIONE Gesù è rinnegato da Pietro
Fausto Cheng • V STAZIONE Gesù è giudicato da Pilato
Mauro Andrea • VI STAZIONE Gesù è flagellato e coronato di spine
Sergio Vacchi • VII STAZIONE Gesù è Caricato della croce
Hermann Albert • VIII STAZIONE Gesù è aiutato dal Cireneo a portare la croce
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Paolo Baratella • IX STAZIONE Gesù consola le donne di Gerusalemme 16/12/10 14:42
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estraneo a qualsiasi sollecitazione formale da parte dei progettisti, e sono stati abili gli artisti, pur nella loro istintività poetica, nel richiamarsi a un tema unitario seguendo solo un proprio immaginario individuale. Nella progettazione di Itineris è stato inevitabile che il mio pensiero andasse al compianto baritono Paolo Silveri, artista che è riuscito a scatenare forti emozioni nei teatri di tutto il mondo, dalla Scala di Milano al Metropolitan di New York. Silveri, nato a Ofena nel 1913, negli ultimi nostri incontri mi raccontava spesso, con voce rotta dall’emozione, della sua infanzia vissuta a Ofena e per metafora mi descriveva le sue “vere” Vie Crucis, come diceva lui, fatte a piedi
Louis Cane • X STAZIONE Gesù è crocifisso
nudi per non consumare le scarpe sulla carrareccia, dal suo paesino di Ofena fino a Capestrano. Percorso estivo caldo e afoso, per andare a prendere ancora bambino, e solo per passione, le prime lezioni di canto al Convento di San Giovanni da Capestrano. Senza dubbio Itineris rappresenta per Ofena non solo un’occasione per una visita culturale o religiosa, ma anche particolari possibilità di scoperta di un tratto d’Abruzzo al quale appartengono una moltitudine di piccole ma importanti realtà della vita collettiva di un paese, porta di accesso allo straordinario Parco Nazionale del Gran Sasso, comunque da scoprire e certamente da conoscere.
Mikhail Koulakov • XI STAZIONE Gesù promette il suo regno al buon ladrone
Giannetto Fieschi • XII STAZIONE Gesù sulla croce, la madre e il discepolo
Itineris è statal’opportunità per restaurare un collegamento tra il patrimonio naturalistico e quello religioso di Ofena Claudio D’Angelo • XIII STAZIONE Gesù muore sulla croce
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Mauro Berrettini • XIV STAZIONE Gesù è deposto nel sepolcro
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Ofena Alle porte del Parco Nazionale del Gran Sasso, è un piccolo e grazioso paesino poco distante dal Comune di Calascio e da Castel del Monte. Si sviluppò nel medioevo in funzione difensiva contro le invasioni barbariche. Il centro storico del paese ha mantenuto la sua struttura medioevale, con un borgo all’interno delle mura e un palazzo baronale. La chiesa principale è quella di San Nicola, ma meritano una visita anche la chiesa di San Francesco e la chiesina di San Pietro con il suo bellissimo portale romanico. Detta anche “la fornace d’Abruzzo” per le elevate temperature che raggiunge in estate, malgrado l’altitudine, è un luogo particolarmente vocato alla coltivazione della vite e dell’ulivo.
Dove mangiare Agriturismo Sapori di Campagna Antico casale rurale accuratamente ristrutturato dove si gusta la cucina tradizionale del luogo, a base di prodotti locali come le famose lenticchie di Santo Stefano. All’interno, un piccolo angolino del gusto rende possibile acquistare numerosi prodotti tipici di propria produzione come appunto le lenticchie, lo zafferano, il tartufo nero, le creme di peperoncino e le marmellate. Strada Prov.le delle Vigne - 67025 Ofena (AQ) Tel. 0862/954253
ALTRI RISTORANTI Ristorante Commestibili e Vini Piazza San Carlo, tel. 0862 956450 Ristorante Pizzeria Le Due Querce Corso Italia, tel. 0863 889231 Ristorante Bar Aufinium Via San Rocco 4, tel. 0862 956022
Cataldi Madonna Ofena, a 380 metri d’altitudine, è forse uno dei più antichi insediamenti del vitigno Montepulciano e un’area dalla forte vocazione vitivinicola. I vigneti dell’azienda Luigi Cataldi Madonna si trovano tutti in un altopiano alluvionale a ridosso del Gran Sasso; i nomi delle località in cui si trovano le colture talvolta danno anche il nome al vino, come nel caso del Cerasuolo Doc Pié delle Vigne. Tra i prodotti aziendali, quelli che soddisfano pienamente la filosofia di Cataldi Madonna sono il già citato Pié delle Vigne, il Montepulciano d’Abruzzo Tonì, il bianco Pecorino IGT Alto Tirino. La linea di produzione si completa poi con il Montepulciano d’Abruzzo DOC, il Montepulciano d’Abruzzo Cerasuolo DOC e il Trebbiano d’Abruzzo DOC. A questi prodotti sono affiancati due rossi particolari e interessanti, l’Occhiorosso e il Malandrino.
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