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Sommario
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aprile/maggio 2011
VARIO Direttore responsabile Claudio Carella Redazione Antonella Da Fermo (grafica e foto), Fabrizio Gentile (testi), Mimmo Lusito (grafica) Alessio Di Brigida Hanno collaborato a questo numero Andrea Carella, Simone Ciglia, Galliano Cocco, Alessio Di Brigida, Giorgio D’Orazio, Laura Grignoli, Andrea Mancini, Francesco Paolucci. Alessio Romano Stampa, fotolito e allestimento AGP - Arti Grafiche Picene Via della Bonifica, 26 Maltignano (AP) Claudio Carella Editore Autorizzazione Trib. di Pescara n.12/87 del 25/11/87 Copia singola Euro 4,50 Abbonamento annuo (sei numeri) Euro 24, estero Euro 40 Vers. C/C Post. 13549654 Rivista associata all’Unione Stampa Periodica Italiana Redazione Via Puccini, 85/2 Pescara Tel. e Fax 085 27132 www.vario.it redazione@vario.it
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BreVario Inchiesta La meglio gioventù Scuola Generazione post Facebook L’Aquila Questi fantasmi So.Ha Giovani in difesa dei giovani Marco Grifone Il circolo vizioso della nostra economia Andrea Pomilio Emigrata araba Ada Di Vincenzo La mia prima sfilata a Londra Giampiero Di Lorito Così lontano, così vicino Barbara Di Gregorio Primo giro di giostra Flavio Melchiorre Premiato sugli Champs Elysées Cappelle sul Tavo Paese d’artista Il guerriero di Capestrano Al di là del tempo Sangritana Un treno di opportunità Polo dell’alta moda La rinascita dell’impresa EcoPower L’era di un’energia pulita Fidimpresa Credito amico VarioART 2011 Sei da collezione Enzo De Leonibus Gino Sabatini Odoarsi Lucio Rosato Ribalta Letteratura Libri Arte Musica Cinema Tabù Personaggi VARIOGUSTO Luciano Passeri Pizza mondiale Ekk l’Abruzzo Enoteca don Gennaro Una storia di vino Crustacea Italia Il profumo dell’aragosta
Locali
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BREVario SIMONE, SETTE E PIÙ Il ritratto dell’Italia in un’edizione speciale di Sette, il magazine del Corriere della sera, pubblicato lo scorso febbraio: sessantotto fotografi per altrettanti scatti che catturano l’anima del Pese, attraverso immagini di un’Italia poco nota –un cantiere di notte, una classe elementare, la Guardia di Finanza che cammina in cordata sull’Etna– o attraverso i ritratti di personaggi famosi. Tra questi, quello della scienziata Lucia Votano, fisica nucleare, direttrice dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare che si trova nei laboratori del Gran Sasso. L’immagine è stata scattata dal giovane Simone Cerio, ventottenne pescarese: studente in veterinaria, da sei anni si dedica con passione alla fotografia e in particolare al reportage. Con Stefano Schirato, suo amico e mentore, ha firmato un servizio sui 150 anni dell’Unità d’Italia (foto pubblicate dal settimanale Gioia) e un reportage dall’Albania.
PESCARA E LA GRANDE MELA La mela è quella dell’Apple Store della Quinta Strada a Manhattan, e che sia grande non c’è dubbio. Ma il negozio tutto vetri e trasparenze dell’azienda informatica, osserva Giorgio Morelli, pescarese trapiantato negli States e affermato redattore de Il Giornale, è straordinariamente simile a quello di Paride Albanese a Pescara, con tanto di scala “a vista”, con la differenza che l’Albanese store è stato costruito quattro anni prima. Il parallelo tra Manhattan e Pescara, tra l’East Village degli anni ’70 o il Meatpacking intellettual-chic di oggi e il palazzo Albanese, che lo stesso autore ammette artificioso e impari, è alla base dell’articolo comparso su Style, magazine del quotidiano diretto da Vittorio Feltri e in edicola ad Aprile. Nell’articolo si menziona anche la grande opera di “Street Art” realizzata da Simone Zaccagnini durante il periodo natalizio sulla facciata di Palazzo Albanese. Simone adesso andrà proprio nella Grande Mela, cioè a New York, per realizzare un’installazione simile su un antico edificio nel Meatpacking, quartiere alla moda di giovani e stravaganti artisti.
CENTO ANNI DI SOLIDARIETÀ Ha spento cento candeline lo scorso 27 marzo Suor Olga, suora comboniana che ha dedicato fin da giovanissima la sua vita agli altri, ai bisognosi e ai poveri di tutto il mondo. Soprattutto alle popolazioni africane, di cui condivide le aspirazioni libertarie e democratiche che animano in questi giorni le pagine dei giornali: «Prego per la pace nel Nordafrica, per la libertà di tutti i popoli» ha detto con voce forte e piena. Suor Olga Pignatelli ha fondato scuole e compiuto missioni in Uganda, Kenya, Eritrea, Etiopia,
è scampata a guerre e uccisioni prima di tornare in Abruzzo 20 anni fa, nel suo convento di via Bardet a Pescara, quando il peso degli anni ha cominciato a farsi sentire. Alla festa di compleanno non è voluto mancare Luciano D’Alfonso, che già aveva premiato l’energica suora con il Ciatté d’oro, insieme a Paola Marchegiani e Enzo Del Vecchio: «È una persona di straordinario impegno sociale –ha detto l’ex sindaco– capace di abbracciare il mondo».
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BREVario RACCONTI CONTRO LA GUERRA Il caso ha voluto che l’iniziativa dell’associazione “Montesilvano Scrive” diventasse di stretta attualità. L’associazione, insieme al gruppo Emergency di Pescara, ha indetto il concorso di scrittura creativa “Racconti contro la guerra”. Per partecipare bisogna inviare un racconto di massimo 4.500 battute all’indirizzo mail montesilvanoscrive@gmail.com entro la mezzanotte del 25 aprile 2010, che abbia come tema l’articolo 11 della costituzione italiana: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.” I migliori 8 racconti, nella tradizione del Festival, si sfideranno in un “Match d’autore”, una lettura pubblica che si terrà l’8 maggio presso il Groove di Pescara. Il racconto vincitore sarà pubblicato sulle pagine di Vario. Per altre informazioni e per visionare il bando: www.montesilvanoscrive.it, tel. 3200433655.
GENIALE MARCELLO L’amore per il territorio aguzza l’ingegno, per rendere bello anche il paesaggio in cui l’uomo ha disseminato elementi che belli non sono. Se a Cappelle un artista ha ispirato il progetto per ridisegnare l’arredo urbano del paese, a Tocco da Casauria Marcello Zaccagnini –che artista non è ma di arte ne capisce– ha deciso di rendere bello un palo dell’alta tensione posizionato proprio davanti alla sua cantina e vicino ad opere di artisti contemporanei: un palo che diventa supporto per Franco Summa che lo ha rivestito con i suoi tradizionali e inconfondibili colori brillanti. Un’oggetto che non può essere spostato è stato tramutato così in un’opera d’arte. Certo, nell’affacciarsi dalla splendida balconata della tenuta Zaccagnini si ha una vista sulla vallata con i vigneti e gli oliveti che si distendono fino alle rocce delle gole di Bussi da un lato e della Maiella ; ma fra le vigne ci sono altre brutture, monumenti all’industrializzazione non sempre riuscita e produttiva per la collettività. Chissà che Marcello non stia pensando anche di coinvolgere Christo, l’artista statunitense che ha “impacchettato” le mura Aureliane a Roma, il Pont-Neuf di Parigi e il Reichstag di Berlino?
QUANDO LA BANDA PASSÒ (A CHIETI) Chiamarla “banda” è riduttivo: con i suoi centodue elementi quella dei Carabinieri è praticamente un’orchestra. Che ha reso Chieti, nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia, una città privilegiata, visto che nei giorni successivi le tappe del prestigioso ensemble sono state il teatro alla Scala e il Quirinale. L’evento, svoltosi nella sala del Foro Boario del capoluogo teatino, sede della Camera di Commercio locale, è stato il clou del calendario di festeggiamenti previsto per onorare la festa nazionale, e ha avuto il suo momento ufficiale nella consegna di una speciale pergamena artistica, consegnata al generale Longobardi, comandante dei Carabinieri di Chieti. Nella sala gremita da quasi 500 invitati e alla presenza delle massime autorità civili, militari e religiose –dal Prefetto Vincenzo Greco, all’Arcivescovo di Chieti-Vasto Bruno Forte, dal sindaco di Chieti Umberto Di Primio, al presidente della Provincia di Chieti Enrico Di Giuseppantonio, dal presidente della Camera di Commercio di Chieti Silvio Di Lorenzo al presidente dell’Azienda Speciale della Cciaa Dino Di Vincenzo– è stata anche allestita una mostra a cura di Raffaele Fraticelli con alcune tavole d’arte che ripercorrono la tradizione bi-millenaria di Chieti, la Teate Marrucinorum della “terra italica”.
LA RESURREZIONE DI SAN ROCCO Una gran folla, radunata all’aperto nel cantiere del nuovo sito parrocchiale malgrado una giornata non proprio primaverile, ha partecipato lo scorso 13 marzo alla cerimonia di posa della prima pietra della nuova chiesa di San Rocco, a San Giovanni Teatino. Migliaia di persone, decine di giornalisti e tante ed importanti autorità hanno assistito alla funzione religiosa presieduta da Monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti, nell’area dove sorgerà il ma-
estoso complesso ideato dal celebre architetto Mario Botta. L’arcivescovo ha sottolineato come l’opera che si andrà a realizzare abbia una celebre firma, quella di Mario Botta (insignito insieme a monsignor Forte, per l’occasione, della cittadinanza onoraria dal sindaco Verino Cardarelli), ma soprattutto come la stessa sarà “un’importante dono e punto di riferimento non solo per la Comunità di San Giovanni Teatino, ma anche per l’intero Abruzzo”.
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BREVario L’AQUILA FA GRANDE MILANO C’è un po’ di Abruzzo in Lombardia, anzi: c’è un po’ dell’Aquila a Linate (Milano), dove la ditta Taddei, azienda del gruppo Edimo dell’Aquila, ha realizzato il più grande parcheggio del capoluogo lombardo e che si inserisce in un sistema che è tra i maggiori d’Europa. Attraverso due ponti, il nuovo parcheggio P2 Executive con sei piani e 3 mila posti è connesso direttamente all’area check-in dello scalo milanese. La struttura costata 26 milioni garantisce un numero di parcheggi adeguati alla richiesta dei passeggeri, con standard qualitativi elevati e con sistemi di sicurezza e di videosorveglianza di ultima generazione. Particolare attenzione è stata data dall’impresa aquilana alla progettazione per la circolazione su ciascun piano e tra i piani: da qui la realizzazione delle rampe elicoidali che, con la loro forma, caratterizzano l’opera. «Con questa commessa di prestigio –ha commentato il patron del Gruppo Edimo, Carlo Taddei– continuiamo nel nostro lavoro di consolidamento e sviluppo per dare sempre più prospettive, anche a livello occupazionale». Il Gruppo Edimo, che attualmente dà lavoro a 600 dipendenti, si è aggiudicato recentemente anche un appalto prestigioso all’interno della base militare della Nato “Dal Molin” di Vicenza: un’azienda del gruppo, la Em969, realizzerà gli infissi antiesplosione della base, assumendo un ruolo delicato per garantire la sicurezza dell’insediamento militare. Non è la prima volta che il Gruppo Edimo viene scelto dall’Alleanza Atlantica per lavorare all’interno delle sue basi militari: infatti, Capodichino, Aviano, Gricignano, Ederle, Sigonella Nas 1 e Nas 2 e Lago Patria montano tutte i serramenti antiesplosione costruiti nel capoluogo d’Abruzzo.
FEDELTÀ AL LAVORO
LA SCUOLA FA TIC
Un premio per chi ha lavorato con passione e dedizione, sia che si tratti di un pizzaiolo, di un contadino, di un medico o di un grande imprenditore. Il senso del premio “Fedeltà al lavoro”, istituito dalla Camera di Commercio di Pescara e giunto alla sua trentesima edizione, è quello di riconoscere il valore dell’impegno nel proprio mestiere, qualunque esso sia. E così tra i 58 premiati dell’edizione 2010, imprenditori e lavoratori della provincia di Pescara, troviamo grandi nomi come Gilberto Ferri, scomparso poco tempo dopo aver ricevuto il premio, e Glauco Torlontano, accanto a quelli di personaggi meno noti al grande pubblico. Come Luigi de Vitis, alto dirigente della Carichieti e responsabile del grande successo conseguito dalla banca nel pescarese, che in 34 anni di lavoro non si è mai assentato un giorno: «Sono onorato di ricevere questo premio –ha detto alla consegna–. Ho sempre lavorato secondo i valori che mi sono stati trasmessi da mio padre, e oggi sono soddisfatto». E due contadini, Clelia Luciani e Giovannino Valeriani, hanno festeggiato cinquant’anni di matrimonio ed altrettanti di lavoro in campagna. I premi sono stati consegnati da Daniele Becci, presidente dell’ente camerale, e dal sindaco di Pescara Luigi Albore Mascia. Alla premiazione, lo scorso 19 dicembre, erano presenti anche molte autorità cittadine. Tra queste, il procuratore della Repubblica di Pescara Nicola Trifuoggi, il vice presidente della Regione Alfredo Castiglione, il presidente della Provincia Guerino Testa.
Avere il 30 per cento di territorio protetto, per l’Abruzzo, è un bene di cui anche i bambini capiscono il valore. Lo hanno dimostrato i ragazzi di dieci scuole abruzzesi partecipando al progetto di Innovascuola “Un TIC di Natura”, che finanziava con 10mila euro e tre lavagne interattive la produzione di contenuti didattici digitali aventi per oggetto la natura protetta. Vincitori, tra le scuole abruzzesi, i 67 alunni di quattro classi della ex Scuola Media “P. Ovidio” di Sulmona, che hanno presentato le attività svolte attorno al tema della Natura protetta in Abruzzo e nel territorio di appartenenza. «I ragazzi –ha spiegato Paolo D’Amato, insegnante e coordinatore del progetto– hanno “fatto scuola” non solo leggendo e apprendendo da ciò che altri avevano scritto, ma hanno elaborato un proprio prodotto culturale che tenesse insieme la Natura protetta come tipicità del territorio con la Tecnologia dell’Innovazione e della Comunicazione (TIC)». Il lavoro sarà presto messo in rete sul sito di Innovascuola, a cura del Dipartimento dell’Innovazione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
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Gli abruzzesi della nuova generazione
La meglio gioventù A
vete presente la cenere che copre e nasconde il tizzone ardente? Spesso basta un soffio, un filo di vento che toglie quella patina
grigia e scopre quel bel rosso vivo e scoppiettante. Sta succeden-
do nel Mediterraneo e forse accadrà, facendo le dovute differenze, anche da noi. La prima soffiatina l’ha data il nostro presidente, che non fa finta di essere giovane ma che parla da giovane, dei giovani e ai giovani, quando ha ribadito l’importanza di offrire un futuro alle nuove generazioni, pena il fallimento della democrazia. Noi nel nostro piccolo questa necessità l’abbiamo percepita, la sentiamo da un po’ di tempo, e cerchiamo quindi di parlarne. Sentiamoli, quindi: ascoltiamoli, raccontiamoli, o meglio chiediamo loro di raccontare i loro interessi, le loro aspettative, il loro mondo. C’è una classe di liceo che ha voluto parlare del rapporto tra giovani e mass media (e altre, nei prossimi numeri, si confronteranno su altri argomenti). C’è chi ha scelto di mettersi alla prova fuori dai confini regionali senza alcun complesso d’inferiorità, chi ha scelto invece di restare e di occuparsi della propria città; chi ha trovato il mondo con un clic e chi ha scoperto la sua forza grazie alla sua terra. In ogni caso l’Abruzzo è bello se è vario (nel senso dell’aggettivo); l’Abruzzo è bello se è giovane.
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L’11 settembre del 2001 avevano solo otto anni; sono già stufi dei social network; per informarsi usano i siti internet delle testate straniere; scaricano musica e film ma agli ebook preferiscono la carta stampata. La Quarta A del liceo linguistico Marconi di Pescara ci svela il rapporto problematico tra i mass media e i giovani di oggi. Con una prima sorpresa: il Grande Fratello? Ormai se lo guarda la nonna di Alessio Romano
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oi siamo i “giovani di oggi”.Stando alle chiacchiere degli adulti nei bar o alle fermate degli autobus siamo quelli che pensano solo alla tecnologia, abusano di alcol il sabato sera, non hanno più valori e ideali e soprattutto non sanno quello che vogliono dal futuro. Forse il loro metro di giudizio si basa un po’ troppo sul mondo dei reality show e dei suoi campioni di una generazione che vuole solo apparire. Ma, ormai, in famiglia chi si appassiona di più al Grande Fratello o all’Isola dei Famosi, sono per lo più i nostri nonni. Per quanto ci riguarda, non siamo malati di social network. Molti di noi, dopo una prima “sbornia” con anni in cui si sono passate ore davanti a Facebook, hanno già cancellato il proprio profilo stanchi di una tecnologia ormai votata quasi esclusivamente al pettegolezzo. Come al solito il problema non è il mezzo, ma l’uso che se ne fa. È stupido usare Facebook come una vetrina per mettersi in mostra e farsi pubblicità con bravate e idiozie, ma diventa pratico ed economico per tenersi in contatto con amici che abitano all’estero o in altre regioni italiane in maniera semplice e veloce. Se i link che si condividono sono di contenuti seri e importanti può diventare un mezzo per scambiarsi notizie, idee, riflessioni piuttosto che canzoni e filmati (soprattutto i rimandi ai siti YouTube e Megavideo). Ma anche consigli su un buon libro, al di là di quelli che già dobbiamo leggere per lo studio scolastico. Ma parliamo di libri veri, di carta, che nonostante il prezzo di copertina che è troppo alto per i giovani non lavoratori, rimane un mezzo insostituibile e mille volte meglio di freddi caratteri digitali sui monitor di smartphone o tablet. Sui social network tutto il resto è solo gossip che può portare anche a perdere amicizie o far finire storie d’amore per futili motivi. E non bivacchiamo perennemente a poltrire davanti a una televisione dove tutto sembra essere il frutto di un copione prestabilito. Persino quando i telegiornali raccontano le notizie di cronaca lo fanno in base al loro colore politico, palesemente influenzati da
chi li “governa”.I telegiornali della TV a pagamento (come SkyTG24 che, per esempio, permette anche l’interattività, attraverso il “tasto verde”), presentano i loro notiziari in maniera più chiara e spesso sono più fruibili e comprensibili. Il problema è che hanno un costo e non tutte le famiglie della nostra classe ne hanno accesso. Ci piacerebbe un’informazione obiettiva e senza influenze. Che magari provasse a liberarsi di un linguaggio giornalistico che appiattisce tutto e non cercasse sempre di drammatizzare e aggravare le situazioni in nome dell’audience. Ci piacerebbe un’informazione che guardasse anche fuori dall’Italia e dal nostro perpetuo teatrino di polemiche ridicole. Proviamo fastidio davanti a un palinsesto che con disinvoltura passa dalla tragedia dello Tsunami Giapponese alle storie di corna della famiglia Clerici. La cronaca nera ci può appassionare, quando stringe tutto il paese di fronte a un dramma. Ma ripudiamo il triste spettacolo della televisione sulle disgrazie altrui. Rimaniamo disgustati dall’esagerazione e dall’insistenza che i mezzi di informazione hanno nell’intromettersi nella vita di famiglie sconvolte da un dolore che viene strasformato in spettacolo fino ad arrivare alla aberrazioni di visite guidate nei luoghi delle stragi o addirittura nel mettere in commercio costumi di carnevale ispirati ai protagonisti della nera come è capitato per il delitto di Avetrana. Per questo preferiamo usare internet (il sito dell’ANSA, per esempio, o i portali di Google News o Virgilio) e informarci sui siti delle testate straniere. È più utile e interessante guardare l’Italia da fuori visitando siti spagnoli, inglesi o francesi per tenerci aggiornati sulla situazione politica e socio-economica mondiale, osservando gli avvenimenti da diversi punti di vista e soprattutto migliorando la conoscenza delle lingue straniere. E ci dispiace constatare quanto ridicola e inadeguata sia la nostra classe politica vista da fuori. I nostri mass media tendono a uniformare le masse e non danno la possibilità alle persone, ma soprattutto ai giovani, di distinguersi. Questo appiattimento limita la nostra creatività, il modo di vestirsi,
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di comportarsi e sfruttare il tempo libero. C’è una pensante influenza della TV anche per quanto riguarda il nostro modo di sognare e realizzare i nostri sogni. Ai reality dove sostanzialmente c’è gente che rimane mesi senza fare assolutamente nulla preferiamo i talent show (come Amici o X Factor) che dimostrano l’esistenza di ragazzi della nostra età che hanno talento e voglia di realizzarsi. È triste che la nostra generazione per farsi strada sia costretta a sottoporsi a meccanismi malati come quello del televoto e delle telefonate da casa. Ma per chi
sogna di fare la ballerina e non riesce a entrare alla Scala (magari perché sprovvista di raccomandazioni) la sirena della televisione è davvero molto allettante. Ma al massimo può portare solo un briciolo di successo effimero. Tutta la mole di informazioni, canali, mezzi tecnologici, il cosiddetto “pluralismo” avrebbe dovuto portarci maggiore libertà e, quindi, serenità. Invece, per noi, si è trasformata in un nuovo problema da affrontare e decifrare. È una contraddizione con cui noi, i “giovani di oggi”,dobbiamo imparare a fare i conti.
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Questi fantasmi Riappropriarsi degli spazi vitali della città: una nuova iniziativa che parte, come sempre, dai giovani dell’Aquila
di Francesco Paolucci foto Andrea Mancini
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i sente spesso parlare dell’Aquila come di una “città fantasma”,vuota e silenziosa, così com’è rimasta dopo il terribile sisma del 6 aprile 2009. Di notte, la zona rossa appare sinistra e buia, rischiarata qua e là da poche luci, alcune delle quali illuminano tristemente gli interni di qualche abitazione frettolosamente abbandonata alle 3,32 di quella indimenticabile notte. La parola “fantasma” acquista di questi tempi una connotazione sociale molto forte: il “fantasma” è il senza casa, il clandestino, l’abusivo. Nel cinema come nella letteratura si parla spesso di “case infestate dai fantasmi” e anche le leggende popolari sono piene di storie di castelli, manieri ed edifici abbandonati abitati dai fantasmi. Uno di questi si trova ai margini della zona rossa, dove un gruppo di ragazzi, perlopiù studenti delle scuole superiori e delle università, ha occupato un ex-asilo di proprietà del Comune dell’Aquila, classificato parzialmente agibile, ma inutilizzato a due anni dal terremoto del 6 aprile 2009. «Sono due anni che chiediamo al Comune spazi dove studiare –ha detto “Fantasma Claudio”,15 anni, studente al liceo classico– ma non ci hanno mai dato niente. Con l’occupazione dell’asilo ci siamo presi un posto dove stare».
Nell’asilo abbandonato il riscaldamento è spento e in questi mesi invernali la temperatura ha raggiunto anche meno cinque gradi. I funghi caloriferi e le stufe elettriche danno un minimo di conforto, ma resistere è davvero difficile. “Fantasma Katia” ha 22 anni, è di Foggia e studia fisioterapia: «Qui fa freddo. Ci stiamo ammalando tutti, ma preferisco venire qui a studiare che rimanere a casa. Qui studio di più». Non c’è solo la sala studio nell’asilo abbandonato. Nella sala assemblee i ragazzi hanno costruito un bancone da bar e organizzano aperitivi vegetariani ad offerta libera; nella “Sala Monicelli” ogni mercoledì c’è il cineforum e poi reading di poesie, concerti e mercatini artigianali animano e riscaldano le fredde giornate in quello che è l’unico spazio ricreativo in centro storico. «Abbiamo montato ieri lo scaldabagno –dice “Fantasma Lisa” mostrando la cucina– così abbiamo l’acqua calda. Qui si prepara da mangiare quasi tutti i giorni. La domenica c’è la pasta al forno. Molte cose da mangiare le hanno donate i primi giorni, altre le compriamo con la cassa comune. Le prime due settimane, tutte le mattine una signora anziana ci portava il caffé caldo. Ogni tanto qualcuno ci porta i dolci».
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• In queste pagine, alcuni dei “fantasmi” che “infestano” l’asilo, fotografati col volto coperto da una maschera. Nella foto in alto, una veduta dell’asilo occupato
Non solo giovani, ma anche persone adulte ed anziani frequentano quotidianamente l’asilo. «Sono venuta a passare qualche ora del pomeriggio» dice “Fantasma Giulia”,48 anni, infermiera, mentre si scalda le mani davanti ad una stufa elettrica. «Sono venuta ad accompagnare un mio amico all’assemblea e ne approfitto per stare un po’ qui. Dove andiamo altrimenti? All’Aquila non c’è più niente. Qui almeno c’è una biblioteca, seppur piccola, ma c’è. Sarebbe bello se ci fossero degli alloggi. Lo spazio è grande e per gli universitari potrebbe essere una buona possibilità abitativa». Qualcuno dorme, comunque, nell’asilo. Le temperature velocemente arrivano sotto lo zero nelle ampie stanze che prima erano delle aule. Materassi gettati per terra, montagne di coperte e quasi un termosifone elettrico a testa per provare a riscaldarsi. Per provare a resistere. Poi c’è il medialab in costruzione: «Per ora non c’è la connessione internet –dice “Fantasma Alessandro” mangiando cous cous con verdure– ma stiamo lavorando per avere la connessione wireless. Adesso abbiamo una chiavetta e un router, ma è molto lenta. Ci sono sei computer e l’ambizione di creare un internet point in centro, l’unico in questo momento, c’è».
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Giovani in difesa dei g La So.Ha. è un’associazione costituita da ragazzi pescaresi che hanno creato una “scuola popolare” che impartisce ripetizioni gratuite, un Festival di Culture giovani e una piccola biblioteca sociale. Intitolata ad Andrea Pazienza di Alessio Romano foto Andrea Carella
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ndrea Pazienza è stato uno dei più innovativi artisti del fumetto italiano. Grazie a creazioni originali come Zanardi, il presidente Pertini o rivisitazioni sballate di personaggi disneyani è entrato nell’immaginario collettivo. In gioventù ha frequentato il liceo artistico di Pescara in viale Kennedy, che però, inspiegabilmente, a lui non è mai stato intitolato. A rendergli giustizia, poche centinaia di metri più avanti, c’è una piccola biblioteca che porta il suo nome. Si tratta della sede della So.Ha (nome che deriva dalle parole persiane SOhl, pace e HAmbastegi, solidarietà) un’associazione non politica che si batte per i diritti dei giovani e per promuovere attività culturali e artistiche proprio ai giovani destinate. È un piccolo appartamento dove sono conservati i libri, con due stanze piene di ragazzi intenti a lavorare davanti a monitor di computer e portatili. Il coordinatore di questa associazione, Roberto Ettorre, ha solo 24 anni. Roberto, ci puoi raccontare come è nata la So.Ha? «La nostra associazione è nata tre anni fa dal desiderio comune di una decina di ragazzi di costruire un luogo dove discutere proposte da presentare all’amministrazione comunale per rendere più agevole la vita ai giovani della città di Pescara». Quali sono i principali problemi dei giovani di oggi? «Non esistono autobus notturni. Non ci sono sale studio aperte la sera. Non esiste un sussidio per i giovani che prendono in affitto la loro prima casa. Assolutamente nulla di nulla. La quasi totalità dei centri sociali di Pescara è riservata alle persone anziane. Certo, noi non vogliamo mettere in atto una guerra generazionale, ma è la riprova che questa è una città che non pensa ai giovani. In più l’assenza di un welfare dedicato al mondo giovanile che, per esempio, eroghi un sussidio dal momento in cui si finiscono gli studi a quando si trova una prima
occupazione è un problema drammatico per chi vuole costruire una famiglia o entrare nella società italiana. Ormai la realtà lavorativa è totalmente precarizzata in ogni ambito e la disoccupazione giovanile ha raggiunto livelli record, quasi del 30%. Tenere un terzo della popolazione giovanile fuori dal sistema produttivo del paese vuol dire non essere competitivi. Perché i giovani sono più acculturati dei loro genitori, sono più tendenti all’utilizzo delle nuove tecnologie e porterebbero un grosso beneficio in termini di produttività». Voi in concreto cosa organizzate? «Insieme al coordinamento dei lavoratori della scuola di Pescara e provincia e all’UDS (unione degli studenti) abbiamo realizzato la “scuola popolare”. Ci sono venti docenti circa che danno ripetizioni gratuite a ragazzi in condizioni economiche svantaggiate. L’abbiamo fatto in netta opposizione alla riforma Gelmini, che per noi sottrae risorse al sistema scolastico senza riformare un bel nulla». Un’altra vostra iniziativa è quella di un Festival con concerti e incontri. «Uno degli obiettivi della So.Ha è promuovere la cultura giovanile. Per questo organizziamo il Festival delle Culture Giovani, giunto alla quarta edizione, che quest’anno vedrà la partecipazione di Caparezza e altri artisti. L’evento è
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• Alcune immagini dei locali della So.Ha. Nella foto grande, a sinistra, Roberto Ettorre.
ei giovani
accompagnato dall’attivazione di corsi gratuiti per ragazzi che avranno anche la possibilità di partecipare attivamente all’organizzazione del Festival stesso». Un luogo comune vuole i giovani poco propensi all’impegno diretto. Voi sembrate un’eccezione. Quanti siete? «Siamo centotrenta tesserati. Una parte si impegna direttamente, altri usufruiscono dei servizi messi a disposizione gratuitamente. Però che i ragazzi siano poco impegnati è un mito da sfatare. Secondo le statistiche un giovane su tre è attivo nel campo dell’associazionismo, ma non in politica. I giovani non si occupano di politica perché la politica non si occupa di loro. Torneremo ad appassionarci di politica quando la politica inizierà ad appassionarsi a noi». Dove reperite le risorse per le vostre iniziative? Come raccogliete i fondi? «Principalmente paghiamo le nostre spese autofinanziandoci e mettendo una quota mensile per affitto e bollette della
sede. Purtroppo la gestione dei contributi a livello regionale, provinciale e comunale non è molto trasparente. I contributi vengono elargiti a pioggia per favorire clientele. Un metodo assolutamente non meritocratico, ma noi non possiamo fare altro che provare a chiedere fondi a queste realtà. Qualche volta ce ne hanno dati, più spesso non siamo stati sostenuti. Ora per fortuna abbiamo vinto un importante bando regionale e speriamo di realizzare un grande edizione del nostro Festival». Com’è nata la biblioteca dedicata ad Andrea Pazienza? «Dalla voglia di riunire i nostri piccoli patrimoni librari personali (oltre milleduecento titoli) per metterli a disposizione di tutta la comunità che gira intorno all’associazione. L’abbiamo intitolata ad Andrea Pazienza anche in maniera provocatoria perché lui per realizzarsi se ne è dovuto andare da Pescara. La nostra associazione vuole invece che tutti i giovani Andrea Pazienza restino qui a produrre cultura».
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Marco Grifone
Il circolo vizioso della nostra economia Il punto di vista di un giovane pescarese che studia i fenomeni finanziari dalla Manchester Business School, una delle più prestigiose scuole d’Oltremanica di Giorgio D’Orazio
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conomia o amministrazione della casa; etica o costume, norma di vita. Nella semantica di questi termini viaggiano le idee di Marco Grifone, ventiquattrenne pescarese, che per un paio d’anni proverà a capire dall’Inghilterra come gira il mondo. Non bastava la laurea in Economia Aziendale all’Università “d’Annunzio”,non bastavano Pescara e l’azienda di famiglia, c’era bisogno di un Master in Business Administration presso la Manchester Business School, appendice della Manchester University che ogni mattina raggiunge con una datata Jaguar bordeaux partendo dalla dimora di un gentleman britannico dove ha trovato alloggio. Sei un viaggiatore cronico, trasferirti non ti ha spaesato. Ma perché conviene battere molto l’Europa per un giovane italiano con la voglia di apprendere e imprendere? «Per uscire dal torpore dell’abitudine. Formarsi all’estero richiede molti sacrifici, ma vengono tutti ripagati da fantastiche opportunità, sul piano personale e lavorativo. Il mondo e l’economia cambiano rapidamente, mentre l’Italia rimane sempre più distante dai mercati internazionali, che tendono ad un unico mercato globalizzato, e noi con l’Italia. Se vivi la quotidianità di altri Paesi ti accorgi invece di come si corregge la visuale sul mondo a cui fai il callo, e capisci che le cose si possono cambiare in meglio». Perché dici che il nostro Paese sonnecchia e rischia di non integrarsi con gli altri? «Ti spiego. Credo che la situazione non sia imputabile a singole cause ma a un grande circolo vizioso in cui siamo entrati senza più riuscire ad uscirne. È vero che l’economia tossisce ovunque, ma l’Italia è entrata in recessione già da tempo, l’ultima crisi ha solo aggravato la situazione. La recessione è stata la conseguenza della progressiva perdita di competitività dovuta a diversi fattori, come il calo della spesa pubblica, che a partire dagli anni ’90 ha contribuito specie al sud a rallentare la crescita, oppure un crescente immobilismo della politica nel concretizzare le riforme. Il nostro Diritto del Lavoro per esempio risulta ancora inflessibile e talvolta inapplicabile: quando lo incontrai per la prima volta mi sembrava
di leggere un libro di fiabe, leggi obsolete che risentivano dei propri anni e che difficilmente avrei potuto accostare all’immagine di un’azienda contemporanea. Il risultato sono le migliaia di precari che non possono essere assunti con dei contratti regolari, perché gli imprenditori sono terrorizzati al solo pensiero di applicare quelle norme. Ci vorrebbe un intervento aggiornato del legislatore eppure il principale obiettivo delle riforme rimane il federalismo; il quale non solo non risolverebbe la precarizzazione, ma incentiverebbe gravemente il flusso migratorio dal sud Italia sia verso il nord sia verso l’estero». Niente di buono sul fronte nazionale, insomma. E l’Abruzzo? «Attualmente la nostra è una delle realtà più svantaggiate. La Regione è fortemente indebitata e se passasse il federalismo fiscale la disponibilità finanziaria degli enti locali diminuirebbe ulteriormente. Inoltre la politica nostrana mostra una certa miopia amministrando senza opportune strategie a lungo termine. Pensa solo che l’Abruzzo e il Molise sono le uniche regioni meridionali a non essere state riconosciute come aree Obiettivo 1 per i fondi europei: dopo il colpo basso del sisma aquilano mi sarei aspettato almeno un tentativo politico per questo riconoscimento. Per di più non si lavora adeguatamente per potenziare le risorse più importanti, come turismo e Made in Italy: bisognerebbe offrire sovvenzioni e contributi alle aziende che si occupano o vogliono occuparsi di ciò; fondi per l’imprenditoria giovanile e sgravi fiscali per ricerca e nuove assunzioni aiuterebbero poi a rafforzare il tessuto economico». Soffermiamoci sui giovani abruzzesi in rapporto a quanto detto. «La situazione di cui parlo rende la vita difficile alle imprese esistenti e strangola le nuove iniziative, riducendo quindi drasticamente le opportunità per i giovani, lavoratori o aspiranti imprenditori che siano. I laureati, spesso costretti ad occupazioni lontane dalla propria esperienza accademica, possono cercar fortuna altrove oppure restare disoccupati fino a tarda età, garantiti dal cantuccio dei genitori. Un po’ di responsabilità è anche dell’univer-
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sità italiana, incapace di generare piani di studio professionalizzanti: i nostri corsi puntano di regola a conoscenze di tipo generico, riescono sì a fornire un valido quadro generale, ma poi manca quel processo di professionalizzazione degli studenti che, finito il percorso, devono continuare a studiare per ottenere titoli più alti che facilitino le assunzioni». Veniamo a te: in Abruzzo avresti un posto nell’azienda di famiglia. Meglio altrove mi dici: per adesso o anche per il futuro? «Dopo la laurea per me è stata quasi una mossa obbligata questa partenza. Non voglio sminuire la mia ex facoltà che anzi considero efficiente, ma il confronto con la Manchester Business School risulta davvero difficile: il Master che frequento è valutato dal “Financial Times” come l’11° in Europa e il 29° nel mondo. In Italia gli unici due corsi tra i primi cento nella classifica mondiale sono della Bocconi e del Politecnico, a Milano. Per mirare ad una qualifica professionale di rilievo dovevo mettere il naso fuori di casa. Qui i corsi sono molto formativi ed il contatto con le aziende è continuo attraverso progetti reali che fanno concretamente confrontare lo studente con aspetti dell’economia contemporanea, come ad esempio la consulenza strategica o le fusioni e acquisizioni. La nostra azienda rimane una risorsa per me, nonostante le difficoltà del momento, ma per chi vuole vivere l’economia c’è bisogno di saliscendi d’aeroporti. In Europa respiri l’aria del business internazionale, non c’è nulla da fare». Annusata così l’aria d’oltralpe e d’oltreoceano che ricette
senti di riportare a casa, cosa si potrebbe fare per migliorare la situazione italiana e di riflesso abruzzese? «Occorrerebbe uscire dal circolo vizioso di cui parlavo, stimolando su più livelli la nostra economia a partire dal mercato del lavoro. Osare sui nostri “piatti forti” e sulle tipicità, e riconvertirsi per stare al passo dei tempi, ma dei tempi del mercato globale. Punterei molto sull’università e sulla qualità dei corsi proposti. Manchester è stata la città da cui la rivoluzione industriale è partita ed oggi non vi è traccia di fabbriche ma solo di studenti. Questa è una grande capacità di reinventarsi: offrono corsi internazionali riconosciuti come affidabili dalle imprese. Anche da noi bisogna costruire serbatoi da cui le aziende attingano risorse umane, e garantire un sistema normativo che permetta poi all’impresa di mantenere e incrementare l’occupazione. E poi c’è un problema di fondo». Quale? «Il problema della “responsabilità democratica” come la chiamerei. La forza degli altri Paesi che tanto ci sorprende sta proprio nel senso alto di democrazia che in Italia stenta a decollare. Bisogna votare “bene”,ovvero informandosi, partecipando alla vita politica con coscienza, pensando sempre a quello che il voto rappresenta anche individualmente, e non è una banalità. Credo sia ancora l’unica possibilità effettiva per cambiare le cose. Se poi non si vuole cambiare non si gridi, come sempre accade da noi, alla fuga di cervelli: i cervelli che scappano sono quelli che rimangono comodamente indifferenti alla fuga del tempo».
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Andrea Pomilio
Emigrata araba Il suo progetto si chiama “The bridge” e si propone come ponte per le aziende italiane all’estero
Testo e foto Andrea Carella
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a partenza nelle vene ma il ritorno nelle ossa. Andrea Pomilio, pescarese da generazioni, ama andare via quanto tornare, ma per il momento di rimanere in Italia non se ne parla. La prima esperienza all’estero a 16 anni, poi l’università a Londra ed ancora il lavoro negli Emirati arabi per conto della prestigiosa Pomilio Blumm, l’azienda di famiglia, una delle più importanti realtà della comunicazione in Italia. Andrea rappresenta la nuova generazione di una famiglia che ha costruito la sua fortuna in Italia, ma è ben consapevole dell’importanza di muoversi al di là dei confini nazionali per ottenere delle soddisfazioni lavorative. A sedici anni hai svolto un anno di liceo alla Bethel high school in Ohio negli Stati Uniti, per poi tornare e diplomarti al liceo classico di Pescara; poi sei andata a Londra e ti sei laureata in Business e Creative writing alla Kingston university. Cosa ti ha spinto a partire così giovane e poi a proseguire nelle esperienze all’estero? «Varie vicissitudini, motivate dalla classica irrequietezza adolescenziale. Ero insoddisfatta e volevo dimostrare a me stessa di essere migliore. Come posso fare? Mi devo arricchire, devo fare esperienze! Come? Me ne devo andare dall’Italia! E così ho cercato, attraverso l’azienda di famiglia, di trovare progetti che mi portassero fuori dal mio Paese». Come ti sei trovata nei vari Stati in cui sei andata a studiare o lavorare? «Alcune esperienze sono state traumatiche, ma tutte mi hanno arricchito di qualcosa. L’esperienza in America è stata
il mio primo grande approccio a un Paese nuovo. Avevo sedici anni e il grande confronto che ho potuto fare con l’Italia è stato sulla scuola. Il sistema scolastico americano, per quello che ho vissuto io, è molto più pratico di quello italiano, infatti tra le sei ore di scuole c’èra quella di economia domestica ma non si studiavano le lingue straniere, mentre c’era l’ora di power-point, ma nell’ora di geografia si studiava solo l’America e non il resto del mondo. Sarà per questo che mi è sembrato tutto più semplice, ma anche meno approfondito rispetto all’Italia. Mi ricordo che io ero considerata un genio, prendevo tutte “A+” (il massimo voto scolastico negli Usa, ndr), anche in matematica, quando avevo scelto il liceo classico proprio per il mio scarso interesse per quella materia. Poi sono stata a Londra a studiare ed anche lì ho potuto notare molte differenze nel sistema universitario. Mi sono laureata in business e scrittura creativa, ed è come se avessi preso due lauree allo stesso tempo, ma non è come pensare di fare due lauree in medicina ed in legge in Italia, che sarebbe impossibilie. Lì il sistema è meno pesante a livello di impegno ma molto più pratico e mirato al mondo del lavoro. Sono stati i tre anni più belli della mia vita, infatti è stato quasi un rammarico aver finito l’università in tempo nei tre anni previsti». Perché hai deciso di tornare e come ti sei mossa per poter ripartire? «Finita l’università in Inghilterra ho lavorato in uno studio di “P.R.” ma non ho mai pensato di intraprendere una carriera
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• Andrea Pomilio sul Ponte del mare a Pescara.
nel mondo della comunicazione lì. Per me ogni esperienza all’estero è uno scomparto stagno, poi torno sempre in Italia. Così sono tornata a Pescara per qualche mese e ho cominciato a lavorare, ma rimaneva la voglia di ripartire e mi sono inventata “The bridge”, un progetto a supporto delle aziende italiane all’estero sempre dal punto di vista comunicativo. Trovato un partner a Dubai, negli Emirati Arabi, mi sono trasferita ed ho iniziato a lavorare con le aziende Italiane in Medio Oriente». Dopo lo studio all’estero, come hai affrontato l’esperienza lavorativa in un paese così differente dal nostro? «È stato molto difficile ambientarmi, visto il clima, il mio essere donna (chiamavo per ottenere un permesso municipale per un evento ma mi abbassavano il telefono in faccia perche gli arabi non possono parlare ad una donna soprattutto se parla in inglese), e uno stile di vita decisamente frenetico. Comunque le soddisfazioni lavorative non sono mancate: la difficoltà stava proprio nel confrontarsi con un popolo molto diverso da quello occidentale, di cui bisogna imparare a conoscere usi e costumi. Sembra paradossale dirlo, ma è più
facile lavorare all’estero da stranieri, con stranieri, che lavorare tra concittadini. Quindi andare fuori era la via più stimolante e conveniente: buona la qualità della vita, buona l’esperienza, ottimi i risultati economici ed il prezzo da pagare è relativamente basso. Adesso sto cercando di attuare lo stesso progetto in Australia e a Singapore, mi piacerebbe girare ancora… avendo sempre la possibilità di rientrare». Cosa pensi di Pescara, cosa vorresti cambiare e cosa invece ti attrae, dopo le esperienze che hai vissuto? «Pescara è la mia final destination, perche non potrei pensare di farmi una famiglia in un luogo che non sia qui, con il mare a due passi. Però a tutto c’è un limite, il mio è l’età adulta; prima di quel momento ho ancora diversi anni davanti e per ora non penso di fermarmi. Questa città ha una qualità della vita molto alta che non trovi da nessun altra parte: la montagna, il mare, poco traffico, prezzi decenti, ti puoi spostare comodamente in tutta la penisola. Ha comunque i problemi di tutte le città di provincia: poco aperta agli altri e poco capace di farsi conoscere. Se avesse queste capacità potrebbe diventare una città invidiata da tutti ».
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Ada Di Vincenzo
La mia prima sfilata a Londra Inseguire il sogno della moda: più facile sulle rive del Tamigi? Sì, secondo la giovane stilista pescarese Testo e foto Andrea Carella
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talia e moda: un binomio che nel mondo è indissolubile. Non per Ada Di Vincenzo, giovane stilista abruzzese laureata al Polimoda di Firenze (indirizzo fashion design e specializzata in maglieria) che per trovare soddisfazioni lavorative ha deciso di investire su se stessa e fare un’esperienza all’estero. Per la precisione a Londra, dove ha potuto far valere la sua collezione di abiti ispirati alle conchiglie e a Kandinsky, realizzata come tesi di laurea e passata praticamente inosservata in patria. «Il Polimoda –racconta Ada– è una delle scuole, nel settore, più rinomate e all’avanguardia in Italia, ma nonostante questo non ha soddisfatto le mie aspettative. Alla fine del corso era prevista una sfilata con tutti gli allievi, ma lo spazio e la visibilità per ognuno era molto limitata; non ho neanche avuto nessun tipo di opportunità lavorativa o commerciale nonostante fosse una delle finalità della scuola. Quindi ho deciso di partire alla ricerca delle gratificazioni lavorative di cui sento il bisogno e per investire su me stessa, prima di tutto imparando l’inglese senza il quale non si possono raggiungere dei risultati soddisfacenti, perlomeno nel mio settore». Raccontaci l’esperienza londinese. «Mi sono dovuta adattare allo stile di vita frenetico e stressante della città, ma mi sono trovata benissimo. Per mantenermi ho iniziato a lavorare in un pub, cosa molto utile anche per imparare bene la lingua che era tra i miei obiettivi primari; nel frattempo cercavo opportunità lavorative nel mio settore. Il fermento culturale è fondamentale per questo mestiere, e nella capitale inglese ho trovato agganci e possibilità per mettermi in gioco. Ho lavorato per una stilista canadese che mi ha scelto per preparare la nuova collezione del suo marchio, ma non è stata un’esperienza economicamente gratificante. Mi sono potuta permettere, però, di lasciare questa sfida per un’altra: ad uno dei tanti eventi di moda organizzati nei locali e negli atelier ho conosciuto l’organizzatrice
della Brighton Fashion week che ha apprezzato proprio quella collezione che in Italia non aveva riscosso successo. È nata una collaborazione che mi ha portato a far sfilare i miei vestiti a Londra e così ho potuto mostrare il mio lavoro dandogli lo spazio che merita». Qual è il rapporto tra Londra e gli Italiani? «A Londra è pieno di Italiani, quindi non mi sento un’estranea. Credo che qui mi abbiano comunque valorizzato più che in patria. Gli stranieri sono considerati linfa vitale per il Paese, ma in particolare noi siamo conosciuti e stimati per la moda, ed io ho usufruito di questo sentimento comune». Credi davvero che l’Inghilterra offra più opportunità dell’Italia a un giovane che voglia affermarsi in questo campo? «Londra è una città che offre tantissime possibilità in proporzione a quanto e a cosa si vuole vedere o fare. Ho avuto molti contatti con persone che mi stanno dando l’opportunità di emergere in un settore che non si limita alla vendita di vestiti, ma piuttosto si spinge alla ricerca di nuove soluzioni e nuovi concetti per reinterpretare e capire dove e come evolve l’abbigliamento ed il look, e con esso le tendenze culturali ed i costumi delle persone. Proprio per questo è importante l’ambiente in cui si vive, il mio look è cambiato molto da quando sono qui e questo ha influenzato anche il mio lavoro. Avevo l’opportunità di partecipare a uno stage in una grande azienda come Brioni, ma avevo anche bisogno di poter esprimere la mia creatività; quindi ho preferito venire qui piuttosto che trasferirmi a Penne per due o tre anni e poi provare a muovermi. E sono contenta della mia scelta. Credo che le possibilità che ho trovato qui non siano solo frutto del mio impegno ma anche di un fermento culturale di gran lunga superiore a quello che ho vissuto a casa».
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Giampiero Di Lorito
Così lontano così vicino Da grafico a pittore, da Pescara a Berlino: per vivere da artista, senza compromessi. Ritornare in Italia? Non ci pensa proprio Testo e foto Andrea Carella
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Pescara, da piccolo, dipingeva sui muri e gli davano del vandalo. Oggi, a trent’anni, Giampiero di Lorito in arte Crin è un pittore che sta emergendo nel panorama artistico berlinese con la sua determinazione e la sua creatività. Nato a Pescara nel 1979, nel 2009 Giampiero si è trasferito a Berlino dove attualmente risiede e lavora come freelance. Oltre ad una personale al Foscaf di Berlino, ha partecipato ad uno dei più importanti festival di arte urbana in Europa, organizzato da ARTAQ lo scorso novembre allo Stattbad, la struttura che ospita atelier d’arte, mostre ed eventi di carattere culturale e informativo, sempre nella capitale tedesca. «Sono sempre stato interessato all’arte. Dopo il diploma al liceo artistico di Pescara, ho subito iniziato a lavorare nel mondo della computer grafica e della stampa digitale. Sono riuscito a sfruttare la situazione per accumulare qualche soldo, lavorando otto ore al giorno. Era un mestiere a tratti appagante, lavoravo tra colori, disegni e grafiche, la mia passione, ma molto impegnativo: avevo grosse responsabilità e spesso mi dovevo occupare di cose che non mi competevano senza però avere un riconoscimento effettivo del lavoro svolto». Perchè hai deciso di lasciare tutto e partire? La tua creatività non era appagata al di là del lavoro? «No, anche per quanto riguarda il lavoro non ero soddisfatto visto il periodo di crisi che ha portato a modalità di lavoro instabili e precarie. Sentivo che 30 anni era il limite per cambiare la mia vita e sono partito subito. Non volevo rimanere un operaio del digitale, la mia creatività era comunque limitata dal commercio e dai committenti. Sono andato fuori spinto dal desiderio di fare l’esatto contrario: avere la possibilità di proporre direttamente i miei lavori al pubblico, cosa che in Italia non è possibile senza “aiuti” esterni e comunque non riuscivo a trovare gli spazi per dare visibilità alla mia arte. La possibilità era, quindi, fare un
lavoro che non mi piaceva per potermi mantenere e non avere tempo da dedicare a quello che volevo fare veramente, dato che dopo otto ore di lavoro al computer tornavo a casa a pezzi e riuscivo a dedicarmi ben poco ai miei progetti». Perché Berlino? «L’esigenza era staccare completamente da Pescara e trovare un posto che andasse bene sia economicamente, sia dal punto di vista artistico e culturale. Ho girato altre città europee e Berlino concentrava queste caratteristiche: gli affitti delle case sono molto bassi, anche considerando la qualità abitativa che è buona, ed il clima artistico è di grande fermento. Sono venuto qui senza conoscere niente e nessuno, mi ha entusiasmato lo spirito della città e dopo neanche un mese mi ci sono trasferito. Certo, la lingua inizialmente è stato un problema, ma a distanza di un anno già ho imparato molto: ho acquisito le conoscenze base del tedesco che mi permettono di soddisfare le necessità
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primarie per lavorare, per il resto parlo inglese. Qui ho anche scoperto un nuovo modo di intendere l’arte che in Italia non potevo nemmeno immaginare. Gran parte del settore è in mano a giovani e gli spazi espositivi non sono solamente quelli “istituzionalizzati“ come nel Belpaese, ma chiunque ha la possibilità, con poche risorse, di aprire una galleria in uno spazio abitativo. L’idea di trasportare la cultura in luoghi accessibili anche a chi non ha l’interesse necessario per spendere dei soldi in un museo è molto moderna e mi ha entusiasmato subito, comunque è un tipo di mentalità che rende l’arte “a misura di giovane”.Tutto questo mi stimola e mi apre la mente, ma soprattutto mi dà la percezione di avere degli spazi dove posso farmi conoscere per chi sono veramente senza bisogno di avere raccomandazioni o di svendermi. Qui sto imparando il rispetto per le persone e per le cose, anche perché gli italiani non sono ben visti e per farsi accettare serve un’estrema attenzione anche a quei comportamenti che sul territorio nazionale non si considerano negativamente». Oggettivamente credi che il tuo lavoro abbia avuto degli sviluppi positivi che in Italia non hai raggiunto? «Certo, mi sento rinato, pieno di gioia ed energia, la mia arte è cambiata in prospettiva alle possibilità offertemi, mi sono lasciato influenzare dalla città tanto da creare cose nuove, che prima non potevo neanche pensare, ho capito solo ora quanto
l’ambiente circostante ci può influenzare». Il mio obiettivo era allontanare tutto quello che avevo fatto in Italia, ripartire da zero, mantenendo le capacità creative, e ricreare uno stile nuovo che non fosse condizionato né dalle esigenze economiche né dalle elitarie costrizioni artistiche locali. Se i miei lavori non vengono apprezzati me ne assumo le piene responsabilità, ma perlomeno mi posso mettere in gioco ed avere una possibilità oggettiva di riuscire a vivere con il ricavato della mia arte. Ti sei dato dei tempi per quanto riguarda la tua vita li, pensi a tornare in Italia? Non ci penso minimamente! Rimarrò qui per un altro buon periodo, sarebbe sprecato andarsene prima, visto il tempo di adattamento, piuttosto vorrei continuare a girare altri paesi europei con il miei lavori, visto l’interesse dimostrato da molti paesi che hanno incentivato gli artisti aumentando fondi destinati al mondo dell’arte. Mi sono, comunque, dato due anni per essere un minimo introdotto nel tessuto artistico. Credo di essere riuscito a rispettare i primi piani. Il primo anno è stato di adattamento alla vita in Germania, dal cibo alle abitudini, adesso mi sto mettendo in gioco dal punto di vista lavorativo esponendo in diverse gallerie. Comunque ho investito su me stesso e sul mio futuro, credo che questo richieda tempo e dedizione.
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Barbara Di Gregorio
Primo giro di giostra È un caso editoriale uno dei migliori debutti dell’anno, uscito per la prestigiosa collana La scala di Rizzoli: il romanzo di una ragazza pescarese che ha trasformato Barbara Di Gregorio Le giostre sono per gli scemi Rizzoli, 2011pp. 278, € 18,00
la sua passione per la scrittura in un successo
di Alessio Romano
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arbara Di Gregorio, neanche trent’anni e una laurea in Cinema, è una cameriera pescarese con tanta stoffa e talento letterario. Nel suo Le giostre sono per gli scemi racconta la storia, ambientata a Pescara e dintorni, di due “quasi fratelli” e della loro madre con la passione per le giostre. Un romanzo che commuove e diverte al tempo stesso fino a una svolta narrativa che mette in scena un mondo epico e fantastico. Il tuo era un esordio molto atteso nell’editoria italiana, soprattutto grazie al credito raccolto dalle tue ottime prove su antologie importanti (Best off di Minimum Fax) e riviste prestigiose (Nuovi Argomenti di Mondadori). Che differenza c’è nel gestire la narrazione in un racconto piuttosto che in un romanzo? «Per come la vedo io, quella del racconto è una struttura chiusa tutta tesa alla risoluzione finale. Nella forma breve sono i personaggi ad adattarsi alla storia: i protagonisti di un romanzo, invece, crescono al suo interno finché l’autore è costretto a tenere conto di loro come entità intelligenti. Questo complica il suo lavoro, ma naturalmente lo rende anche molto più affascinante». Il primo capitolo del tuo libro potrebbe essere un racconto perfetto, con una forza narrativa autonoma, ma al tempo
stesso riesce ad anticipare tutte le tematiche del libro. Questo soprattutto grazie alla figura della “nonna zingara”, che una volta passata a vivere in una casa, attua una sorta di nomadismo domestico, dando vita a tante case dentro un’unica abitazione fino a ricostruire una sorta di roulette in veranda. È così difficile sfuggire al proprio destino? «È difficile sfuggire solo al destino che si è scelto». La tua opera mi è parsa la somma di più romanzi di formazione che si incrociano tra di loro, con personaggi che si cercano e amano molto spesso senza essere ricambiati. È stato faticoso trattare questo materiale usando uno stile divertente e appassionante? «Per me è stato necessario. Credo che mantenere qualche nota di leggerezza sia una buona strategia, per trattare temi come la solitudine e l’abbandono senza rischiare continuamente di scivolare nel patetico. Anche nei momenti più bui della vita capita di lasciarsi sorprendere da una risata: è il bello dell’essere umano, una delle risorse che lo aiutano a sopravvivere». Protagonisti assoluti del tuo libro sono gli uomini, mentre le donne sono personaggi minori. Nel complimentarmi con te per la capacità di creare psicologie maschili davvero credibili, mi viene da chiederti il motivo di questa scelta. «Credo che quello d’immedesimarsi troppo nei personaggi,
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fino a scivolare nell’autobiografia, sia un rischio con cui uno scrittore alle prime armi debba cercare di sottrarsi con tutte le proprie forze. È facile annoiare quando si parla di sé: utilizzare personaggi maschili, per una scrittrice, è uno stratagemma buono come un altro per prenderne le distanze e guardarli in maniera obiettiva». Uno dei protagonisti del tuo libro è Pescara con le sue immediate vicinanze (penso al Colle della Vecchia o alla zona dello Stadio Adriatico) che non è stata mai descritta in una maniera così realistica, disperata e poetica al tempo stesso. Che rapporto hai con la tua città? «Certamente un rapporto molto forte, considerando che dopo otto anni passati a Bologna ho deciso di tornare a vivere qui stabilmente. Il romanzo stesso, che pure nella prima stesura era ambientato appunto a Bologna, non è riuscito a prendere davvero forma finché non mi sono decisa a riportare tutte le vicende a Pescara. Quando scrivo della mia città è tutto più vivido: forse perchè l’ho vissuta negli anni dell’infanzia, quella in cui i ricordi si fissano nell’anima come pietre miliari». Spulciando tra le recensioni che sono uscite in giro per i principali giornali italiani è evidente come tutti siano rimasti colpiti dalla forza e dalla qualità della tua scrittura. Qui e là si notano critiche all’ultima parte del tuo libro, che vira
verso una sorta di “realismo magico”, che per me, invece, è una delle parti più emozionanti, con scene che ricordano la penna di Dino Buzzati. Secondo te in Italia c’è ancora una forma di pregiudizio per quanto riguarda il fantastico? «È difficile parlare di fantastico senza sconfinare nel fantasy, nella fantascienza o nella ghost story: generi appunto che sul mercato italiano sembrano non funzionare. Qualcosa tuttavia sta cambiando: non penso tanto al mio libro quanto, per esempio, al recente xy di Sandro Veronesi. Il fatto che racconti, tra le altre cose, di un uomo divorato da uno squalo in mezzo alle montagne, non gli ha impedito di diventare un best seller». Tu nella tua vita hai fatto un po’ di tutto, soprattutto lavori a contatto diretto con i clienti, passando da un Punto Snai di Bologna all’impiego in alcuni dei più noti locali della “movida” pescarese. Nelle tue storie hai mai “riutilizzato” personaggi o situazioni che ti è capitato di osservare lavorando? «Mi capita di prendere in prestito spunti, facce e qualche volta nomi, ma solo molto di rado riporto in quello che scrivo intere situazioni tratte dalla mia vita lavorativa.» Cosa c’è nel futuro artistico di Barbara Di Gregorio? «Per il momento una grande incertezza. Scrivere è la mia passione, e sto cercando di capire come farne un lavoro. »
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ACTION
Gener
Flavio Melchiorre
Premiato sugli Champs Elysées
Da Città Sant’Angelo a Parigi: il giovane designer abruzzese ha vinto un concorso bandito dalla Citroen per la personalizzazione di una delle sue vetture di punta di Mimmo Lusito Foto Andrea Carella elaborazione grafica di Flavio Melchiorre
H
a stregato la Francia battendo settecento concorrenti provenienti da 50 Paesi. Il successo è arrivato lo scorso ottobre, quando i vertici della Citroen insieme ai massimi rappresentanti della Fondazione Cartier per l’arte contemporanea, della Louis Vuitton e della rivista GQ France hanno incoronato Flavio Melchiorre, trentatreenne designer di Città Sant’Angelo, vincitore del concorso bandito dalla casa automobilistica d’oltralpe per la personalizzazione del tettuccio e del cruscotto della DS3. La cerimonia di premiazione si è svolta all’interno del palazzo di vetro C42, sugli Champs Elysées a Parigi, la prestigiosa sede della Citroen, e uno scroscio di applausi ha salutato l’ingresso sulla passerella della dea a quattro ruote firmata Melchiorre (in francese DS si legge “deésse”, cioè dea). Un risultato che premia l’impegno e la creatività del giovane angolano e che fa il paio con un altro prestigioso riconoscimento: l’inserimento di Melchiorre nella pubblicazione “Illustration Now 3” edita da Taschen, nella quale figura come unico italiano. È stata una bella avventura. Come ci sei riuscito? «Quasi per caso: navigando su Internet mi sono imbattuto in un sito che pubblicizzava questo concorso, a poco più di dieci giorni dalla scadenza della presentazione dei progetti. Ma ha catturato la mia attenzione e ho deciso di lanciarmi. Ho dise-
gnato il tettuccio partendo dal logo della casa, e sviluppando la grafica di conseguenza, scegliendo alla fine una tinta dorata su fondo nero, molto impattante a livello visivo». Una combinazione molto chic, che i francesi hanno apprezzato. «Ero abbastanza sicuro che incontrasse il loro gusto. Anche altri concorrenti avevano presentato progetti accattivanti, ma forse risentivano di un certo dejà-vu. Il mio e pochi altri avevano, a mio parere, un tocco di originalità in più». E ora quindi vedremo sulle strade la DS3 Melchiorre… «È già stata messa in produzione per il 2011, anche se in un numero limitato di esemplari, e lo scorso gennaio è stata anche presentata al Motorshow di Bologna. È stata una bella soddisfazione».
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La tua vita come sta cambiando dopo questa importante vittoria? «Certamente sto vivendo il mio momento di gloria: mi chiamano molte riviste, soprattutto di grafica e automobilistiche, e sto allargando il mio giro di conoscenze. Comunque l’ambito in cui mi muovo è fin dall’inizio quello internazionale: in Italia la “professione” di illustratore non è proprio considerata. Ho due agenti, uno in Germania e uno in Olanda, che procacciano lavori, seguono la contrattazione, gestiscono le royalties. Tramite loro, ad esempio, ho realizzato progetti per un’azienda spagnola che produce cover per l’iPhone, e ho fatto lo stesso con un’azienda americana, progettando una cover tutta in legno incisa a laser». E tra un lavoro e l’altro partecipi ai concorsi?
«Sono un’ottimo mezzo per raggiungere una visibilità, un prestigio, per farsi conoscere insomma. Nel 2009 sono stato tra i 15 finalisti del concorso “Celebrate Originality” indetto dalla Adidas, e l’anno prima ne ho vinto un altro bandito da una casa di moda olandese, la Oilly. Certo, questo della Citroen è finora il mio maggior successo. Ma quando trovo qualcosa che mi interessa o che offre opportunità di crescita –il confronto con gli altri è importantissimo in questo mestiere– partecipo sempre». Le tue ambizioni? «Creare una mia linea di oggettistica per l’abbigliamento, curandone la progettazione e il design. È un sogno per ora, ma ci sto lavorando».
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Cappelle sul Tavo
Paese d’Artista Un progetto di Ettore Spalletti e Patrizia Leonelli propone
di riqualificare il paese integrandolo col paesaggio: un sogno realizzabile attraverso una serie di piccoli interventi a costo (quasi) zero
Testo e foto Mimmo Lusito
U
na bellezza semplice e antica, quella descritta da D’Annunzio e da Michetti, dalle curve mozzafiato. Cappelle è il paese disteso sulle colline del Pescarese, che di giorno si affaccia sul blu dell’Adriatico e di sera sul rosso tramonto che infiamma la Bella Addormentata. Un paese che, come altri piccoli centri della regione, si è sviluppato lungo un asse viario che lo attraversa, e ne preserva così la sua struttura originaria che oggi, purtroppo, versa in uno stato di quasi abbandono. Se molti dei cittadini di Cappelle hanno subìto questo stato di cose, qualcuno, dotato di sensibilità fuori dal comune, sta cercando di reagire. Ettore Spalletti, abruzzese e amorevole figlio di Cappelle sul Tavo, sta cercando di mettere la sua sensibilità al servizio della comunità restituendo al suo paese il valore che la natura gli ha conferito, e aprendo una strada che potrebbe essere valida anche per gli altri piccoli centri urbani della regione. Il suo amore per il paese natìo l’ha sempre manifestato: sulle sue tele il segno del profilo della Bella Addormentata, nei suoi colori i riflessi della natura in cui è cresciuto, nel raccontare la curva del tracciato della Coppa Acerbo che attraversa il paese, anche nel film che Pappi Corsicato ha girato su di lui. Spalletti, insieme alla sua compagna, Patrizia Leonelli, ha ideato un progetto: interventi minimi, che non comportano investimenti enormi, con una rivisitazione delle facciate dei palazzi e delle case, eliminando brutture e cambiando i colori, rendendo le strade più fruibili, aggiungendo panchine, alberi e zone verdi. Un restyling completo, insomma, basato su un’idea forte –far tornare il paesaggio nel paese– e progettato da un team di sole donne, composto da Patrizia Leonelli e da tre studentesse della Facoltà di Architettura di Pescara, tutte originarie di Cappelle: Martina Berardinucci, Ida Blasioli e Maria Elena D’Ettorre, e sostenuto fortemente dal sindaco di Cappelle Maria Felicia Maiorano Picone. «Spesso –racconta il sindaco– mi
lamentavo con Ettore dello stato quasi vegetativo in cui versava Cappelle, e della costante flessione delle attività commerciali e turistiche. La sua proverbiale sensibilità e l’amore che da sempre nutre per il suo paese natale lo hanno spinto a proporre insieme alla sua compagna questo progetto. Il Comune ha a disposizione un fondo di 300mila euro per le opere pubbliche, cui si aggiungeranno i sostegni della Banca di Credito Cooperativo e degli enti locali». Ma la spesa sarà minima, spiega l’autrice: «In fondo si tratta di interventi poco invasivi, una sorta di abbellimento, di “messa in ordine” di ciò che non lo è. Lavoreremo sui colori oltre che sul verde naturale, sull’arredo urbano e sull’interramento di cavi elettrici e telefonici: una pulizia generale che consenta di aprire “finestre” su un paesaggio meraviglioso che deve “rientrare” nel paese, rendendolo fruibile dai visitatori e integrandolo con l’ambiente. Anche la toponomastica verrà rivista in base agli interventi». Al termine dei lavori –già iniziati, annuncia il sindaco, con la ripavimentazione della piazza del Comune – sarà possibile dunque ammirare di nuovo il mare e la montagna da tutto il perimetro del paese, coniugando l’aspetto estetico a quello sociale della comunità: il “sogno” è quello di migliorare infatti la qualità della vita dei residenti. «Il progetto che abbiamo studiato per Cappelle –suggerisce Patrizia Leonelli– dovrebbe funzionare, nelle sue linee concettuali, anche per altri borghi lasciati all’incuria delle amministrazioni, cui è demandata la capacità di conservare il paesaggio, di recuperare il rapporto dei luoghi abitati con la natura che li circonda pensando all’esterno come a un salotto di vita comune da potere abitare e vivere quotidianamente, riuscendo a conquistare una libera e straordinaria offerta di ospitalità». Lottando contro l’indifferenza, la trasandatezza e la mancanza di partecipazione alla vita pubblica, mali da cui sono affetti i nostri tempi.
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• Nelle foto in alto il progetto di restyling di Cappelle sul Tavo. In questa pagina: in alto il sindaco di Cappelle sul Tavo Maria Felicia Maiorano Picone; a sinistra Ettore Spalletti. Qui sopra lo staff dei progettisti: Patrizia Leonelli (seduta), Maria Elena D’Ettorre, Ida Blasioli, Martina Berardinucci, Salvatore Matera, Azzurra Ricci
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Il guerriero di Capestrano
Al di là del tempo L’artista Mimmo Paladino ha curato il nuovo allestimento della sala con la scultura simbolo dell’Abruzzo nel Museo Archeologico Nazionale di Chieti e una mostra a Palazzo De Mayo, sede della Fondazione Carichieti di Simone Ciglia foto Alessio Di Brigida
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utta l’arte è contemporanea: questo aforisma - ormai assurto a dogma critico - è perfettamente illustrato nel doppio evento che ha aperto il nuovo anno culturale a Chieti. Nella città teatina infatti archeologia ed arte contemporanea si incontrano sotto il segno di un’opera diventata un emblema dell’arte italica: il Guerriero di Capestrano. L’artista contemporaneo Mimmo Paladino ha curato il nuovo allestimento della sala del Museo Archeologico Nazionale – Villa Frigerj che custodisce la scultura risalente al VI secolo a. C., e per l’occasione ha presentato una propria mostra personale a Palazzo De Mayo, sede della Fondazione Carichieti oggetto di un recente restauro. «Ho voluto quasi depurare il Guerriero dal significato che lo determina storicamente e che lo data. Chi lo guarda ne deve trarre suggestioni che vanno al di là della sua collocazione cronologica. Secondo me l’opera d’arte deve educare il gusto al guardare. In tal senso condivido quel che diceva Berenson:
“bisogna agevolare la formazione del gusto, che si sviluppa naturalmente, come i muscoli e il cervello, attraverso l’esercizio e l’esperienza”. E così ho tentato di aggiungere un altro valore al valore stesso dell’opera, per darle modo di esprimere tutte le sue qualità. Un po’ come se avessi fatto un pezzo di teatro» . Con queste parole Paladino ha suggellato l’intervento di riallestimento, primo nel suo genere da parte di un artista contemporaneo. Il dialogo tra antichità e contemporaneità è particolarmente congeniale nel caso di questo autore: la sua opera è costellata fin dall’inizio di riferimenti iconografici desunti da un passato arcaico che - nelle sue matrici preistoriche, greco-romane, etrusche - risulta quasi senza tempo. La scultura del Guerriero viene collocata isolata all’interno di una sala le cui pareti sono state modellate in maniera avvolgente, a suggerire l’idea di una grotta. Lo spazio di forma ellissoidale è generato per mezzo della sezione aurea, un rapporto matematico impiegato nell’arte antica e rinascimentale e
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• In apertura, Mimmo Paladino davanti al Guerriero di Capestrano. Qui a fianco e sotto, ancora Paladino, con Gianfranco Gorgoni (a sinistra), fotografo statunitense di origini italiane, il sovrintendente ai beni archeologici di Chieti dottor Andrea Pessina, il curatore della mostra Gabriele Simongini. Sopra: Tre figure stanti, senza titolo (2005), esposte a Palazzo De Mayo. FIGURE RE STANTI FIGURE RE SENZA STANTI FIGURE TITOLO SENZA STANTI TITOLO SENZA TITOLO
T
T,
,
(2005) ,
(2005)
(2005)
ELMO (1
bronzo, cm
Figura con putrella Figura con - bronzo putrella Figurae con ferro - bronzo putrella dipinto, e ferro - bronzo cm.205 dipinto, exferro 80cm.205 x dipinto, 60 x 80cm.205 x 60 x 80 x 60 Figura con stella Figura- con alluminio stella Figura-econ alluminio ferro stella dipinto, -ealluminio ferro cm.202 dipinto, exferro 98cm.202 x dipinto, 65 x 98cm.202 x 65 x 98 x 65 Figura con sfera Figura- alluminio con sfera Figura-dipinto, alluminio con sfera cm.199 -dipinto, alluminio x 77cm.199 x dipinto, 48 x 77cm.199 x 48 x 77 x 48
essere al di là del tempo, avere un senso della misura. Non può ritenuto espressione di bellezza ed armonia: la sua misura essere una passerella per fare spettacolo ed esaltare il proprio viene determinata a partire dalle dimensioni del copricapo narcisismo. Ma è tutta l’arte che deve tornare ad essere un della statua, assunte come modulo (l’asse principale è lungo lavoro severo ed etico, fatto nel silenzio. L’arte rappresenta 13 volte il modulo, quello minore circa sette volte e mezzo). Le sempre uno spiraglio di positività perché spinge alla riflessione pareti sono costruite in pietra calcarea locale, la cui tonalità è armonica a quella del reperto custodito. Sulle superfici murarie e alla critica. Ma deve andare in profondità e rifiutare il gusto dell’intrattenimento effimero». Paladino ha iscritto graffiti che recano il suo consueto alfabeto Nella mostra personale allestita parallelamente a Palazzo de segnico, composto di teste umane, frecce, rami, utensili vari. Il Mayo, Paladino e il nuovo Guerriero. La scultura come cosmograffito viene scelto nel suo valore di gesto primario, ipotetica gonia (a cura di Gabriele Simongini), l’artista presenta una scrittura sconosciuta secondo l’autore, e nella sua tenuità non selezione di opere recenti. Tra queste assume particolare genera alcuna interferenza visiva alla contemplazione della preminenza una rilettura dello stesso Guerriero di Capestrano statua. Quest’ultima è collocata all’interno della sala in posi(Guerriero, 2010-2011, sude base di acciaio, cmCarichieti 236 x zione decentrata sul lato sinistro, e si offre allo sguardo ancoraPalazzo de Mayo Palazzo - Museo de terracotta Mayo Fondazione Palazzo - Museo Mayo Carichieti Fondazione - Museo Fondazione Carichieti 100 xCorso 100). Dichiara l’autore: «Il -Guerriero miMarrucino, ha- attratto prima di varcare la soglia della stanza-caverna. La lettura che Marrucino, Corso121 Marrucino, Chieti Corso121 Chieti non 121 - Chieti tanto per il suo potere evocativo quanto piuttosto per la sua l’artista vuole istradare è senza dubbio tesa a decontestualizforza geometrica, evidente soprattutto nello straordinario zare l’opera, esponendola isolata, e favorire un’esperienza di tipo contemplativo. Non mancano in questo senso suggestioni copricapo che idealmente genera una sorta di cilindro in di matrice teatrale (evidenti in particolare dall’utilizzo delle luci), un territorio che Paladino ha frequentato occasionalmenAL DI LÀ DEL TEMPO te come scenografo. Il nuovo allestimento riesce appieno a Mimmo Paladino e il Guerriero di Capestrano: la nuova sala fornire una lettura dell’opera che è allo stesso tempo reverente Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo, Villa Frigerj Villa Comunale 1,Chieti Tel.(info e prenotazioni): 0871 331668 – Fax: 0871 403295 e nuova. «In realtà ho sempre pensato alla mia opera come E-mail: sba-abr.villafrigerj@beniculturali.it un fatto architettonico e non come una narrazione letteraria web: www.archeoabruzzo.beniculturali.it/manda1.html perché ho uno spiccato interesse personale per il concetto di Orario di apertura: 9.00-20.00; ultimo ingresso 19.30 spazio come geometria, architettura. E l’architettura dovrebbe Giorno di chiusura: lunedì Ingresso: Intero € 2; Ridotto € 1,00 da 18 a 25 anni; Gratuito da 0 a 18 anni e da 65 anni in poi.
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Mimmo Paladino (Paduli, Benevento, 1948) è uno dei maggiori esponenti della Transavanguardia, movimento artistico teorizzato da Achille Bonito Oliva alla fine degli anni settanta, e che ha incontrato una grande affermazione – critica e mercantile – soprattutto nel corso del decennio successivo. Tra i • Qui sopra: Elmo (1999); sotto, Architettura (2007). A destra: il sovrintendente Andrea Pessina con l’architetto Mario Di Nisio, presidente della Fondazione; una veduta del restaurato Palazzo De Mayo, sede della Fondazione Carichieti, che ospita la mostra dedicata a ELMO (1999) Paladino. bronzo, cm.130 x 190 x 190
caratteri essenziali di questo sono il ritor-
no alla pratica della pittura e l’appropria-
zione di stilemi dell’arte del passato (da
cui il nome, da intendere come attraver-
samento della avanguardie). Paladino
ha partecipato alle maggiori esposizioni
internazionali (come le Biennali di Vene-
zia e San Paolo, Documenta a Kassel). Ha
esposto nei maggiori musei del mondo
tra cui il Museum of Modern Art e il
la Royal Academy e la Tate Gallery di Lon-
dra, il Kunstmuseum di Basilea. Oltre che
della sua vasta opera si è dedicato anche
alla pittura, scultura e grafica, nel corso
alla scenografia teatrale.
Metropolitan Museum of Art di New York,
cui si iscrive tutta la scultura. Il Guerriero è la matrice di una linea della ricerca plastica italiana che arriva fino ad Arturo Martini. Ed è un’opera particolare anche per la stravaganza Palazzo de Mayo - Museomeno Fondazione Carichieti della sua forma, è la scultura raccontata di tutte, meno Corso Marrucino, 121 - Chieti degli etruschi. Anche in questo sta il suo mistero». Paladino si appropria dell’opera preromana fino a farne una propria opera, senza tuttavia tradirne l’essenza più profonda. La figura è tradotta con l’impiego della terracotta e animata tramite l’inserimento di tegole della stessa materia, a suggerire l’idea di edificazione invece che quella di distruzione solitamente associata alla guerra. «Nella mia nuova opera c’è una netta impostazione geometrica che si concretizza chiaramente nel copricapo. Nel complesso la scultura è quasi una struttura architettonica, una casa, richiamata dall’uso ripetuto delle tegole e dal cappello che diventa anche una sorta di tetto. La tegola in alto, che si incrocia con la mano, traccia una diagonale che dal corpo arriva idealmente fino al copricapo.
MIMMO PALADINO E IL NUOVO GUERRIERO. La scultura come cosmogonia Palazzo De Mayo, Fondazione Carichieti Corso Marrucino, 121 Tel. 0871-568206 E-mail: info@fondazionecarichieti.it web: http://www.fondazionecarichieti.it/ Orario di apertura: 9.00 -12.00 / 17.00-19.00 dal martedì alla domenica, chiuso il lunedì Su appuntamento: altri orari per gruppi con e senza guida Ingresso: gratuito
In definitiva il mio Guerriero è disarmato». Le stanze di Palazzo Mayo mostrano un’idea rappresentativa della produzione scultorea di Paladino, che si fonda su archetipi come la figura umana (nelle tre figure stanti Senza titolo, 2005: figura con putrella, bronzo e ferro dipinto, cm, 205 x 80 x 60; figura con stella, alluminio e ferro dipinto, cm, 202 x 98 x 65; figura con sfera, alluminio dipinto, cm, 199 x 77 x 48), il cavallo (Architettura, 2007, bronzo, cm 215 x 210 x 40), l’elmo (Elmo, 1999, bronzo, cm 130 x 190 x 190), il carro (Carro, 1999 – 2000, acciaio corten, cm 200 x 218 x 100). Un vero e proprio campionario di oggetti da guerra –quasi l’ipotetico corredo da battaglia del Guerriero– è compendiato in quella che sem bra una stanza dei trofei: su basamenti accostati uno all’altro sono collocate settantacinque piccole sculture in bronzo (la cui realizzazione si scala dal 1984 al 2010) che ripropongono presenze costanti nell’iconografia dell’autore: elmi, spade, scudi, cavalli, teste umane. Un’opera insolita infineè quella che nasce dalla collaborazione con Ettore Spalletti, artista abruzzese dal linguaggio minimale e rarefatto, per molti versi opposto a quello di Paladino. Dal loro dialogo si genera un risultato di grande equilibrio: un cubo di colore giallo chiaro che ospita sul lato superiore una figura umana seduta (Mim mo Paladino ed Ettore Spalletti, Senza titolo, 2004, terracotta, impasto di colore su legno e ottone, cm 90 x 45 x 45).
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FerroviaAdriatico Sangritana
Un treno di opportunità Ci sono le idee e i mezzi. I numeri e i conti sono in ordine: ecco come la Sangritana può diventare il veicolo per trasportare l’Abruzzo sul binario dello sviluppo
di Claudio Carella
L’
economia regionale ed il suo doppio binario: quello della sanità, dove le spese (e il debito) sono enormi ed il ritardo rispetto ad altre regioni è purtroppo una triste realtà, e quello dei trasporti (seconda voce di spesa per importo nel bilancio della regione Abruzzo) che, invece, è il più produttivo, grazie anche ad un azienda virtuosa, ancorché pubblica, come la Sangritana, o per meglio dire, la Ferrovia Adriatico Sangritana. È stato il presidente della Regione Gianni Chiodi, a conclusione di una giornata trascorsa tra Ortona e Lanciano lungo le strade –ferrate e asfaltate– che ogni giorno percorrono i mezzi della Sangritana, ad affermare che «È quasi commovente visitare una società di capitale pubblico, come la Ferrovia Adriatico Sangritana, che presenta un bilancio sano, senza un centesimo di debito e che, peraltro, ha messo in cantiere importanti opere, mostrando lungimiranza progettuale. Una qualità, questa, che dovrebbe contraddistinguere ogni buon politico e amministratore». L amministratore in questione è Pasquale Di Nardo, presidente della Sangritana, che, nel corso dell’open day organizzato lo scorso 19 marzo, ha illustrato a Chiodi, oltre alle strutture aziendali, anche le strategie e i progetti per il prossimo futuro. Un futuro che potrebbe vedere l Abruzzo viaggiare ad alta velocità, almeno in termini di ripresa economica, proprio sulle rotaie della Fas, che nel 2012 festeggerà i cento anni di vita. Due le linee, non solo ideali, sulle quali si basano i progetti
della Sangritana: la prima parte dal porto di Ortona e raggiunge Castel di Sangro. «Da Ortona spiega Di Nardo che ospita il porto regionale d Abruzzo si attraversa la Val di Sangro, principale zona industriale della provincia di Chieti dove lavorano stabilimenti come Honda e Sevel, con i relativi indotti. E da quest area, che fino a prima della crisi produceva il PIL più importante della regione, si va verso l interno e, quindi, a Castel di Sangro, da dove il passo verso il Tirreno è breve. In questo modo i costi della logistica, che vengono ad incidere pesantemente sul prodotto finito, sarebbero dimezzati. L efficienza dei trasporti, infatti, rende anche il made in Italy più competitivo». La seconda linea comincia da Termoli, alle porte della regione, e si inoltra a Nord fino a Bologna e da lì in Europa: «Tutto questo è possibile grazie al possesso del certificato di sicurezza che permette alla Fas di percorrere la ferrovia della Rete Ferroviaria Italiana». Sulla linea ferroviaria della val di Sangro attualmente l’azienda frentana ha investito qualcosa come 25 milioni di euro, finalizzati al potenziamento del trasporto merci soprattutto a supporto dei colossi automobilistici Honda e Sevel. Un esempio? Basti pensare alla Sevel che produce in Abruzzo furgoni Ducato, che soddisfano le esigenze dei mercati interni e internazionali. Investimenti, inoltre, che comprendono una nuova linea passeggeri da Torino di Sangro ad Archi, da realizzarsi entro il 2013. Incluso nei progetti anche il ripristino del glorioso Treno della Valle che,
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• Qui sopra uno dei treni Lupetto in dotazione alla Sangritana. Sotto il presidente della società Pasquale Di Nardo nella cabina di guida di uno dei convogli
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• Il presidente della Regione Gianni Chiodi riceve un modellino di treno dal Cda della Sangritana. Da sinistra il presidente Pasquale Di Nardo, Maurizio Zaccardi e Gabriele D’Angelo
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dopo alcuni anni di forzata assenza dai binari, dovrebbe tornare in attività. Il trenino , come viene affettuosamente chiamato, riveste un ruolo fondamentale sotto l aspetto culturale (le scuole lo hanno spesso utilizzato per scopi didattici) e turistico, consentendo ai visitatori dell’Abruzzo di scoprire con un mezzo diverso una parte del territorio regionale poco nota al grande pubblico, benché ricca di fascino, di storia e di bellezze paesaggistiche, in cui insistono aziende legate all’industria turistica come quelle che ruotano intorno al Lago di Bomba. Senza contare che il turismo è una delle tante attività della Sangritana, che si propone anche come tour operator tramite l’agenzia di Lanciano “Sangritana Viaggi e vacanze” (con filiali a Pineto e all’Aquila) e che ha messo a punto una serie di pacchetti turistici che coinvolgono l intero territorio regionale, ancor più oggi che la stessa azienda ha preso in gestione la bella e rinnovata cabinovia di Prati di Tivo (vedi servizio su Vario 73). E in più il Cda della Sangritana «ha avviato lo studio –anticipa Di Nardo– del progetto di trasformazione del tracciato che collega Lanciano a San Vito Marina da regime ferroviario a tramviario: un innovazione, questa, che doterebbe il territorio di uno strumento di trasporto comodo, duttile e, non da ultimo, non inquinante. Un collegamento con la costa capace di decongestionare anche il traffico stradale che paralizza la circolazione in prossimità dell uscita dell autostrada A14». Ma la linea che collega l’interno alla costa è fondamentale anche per l importanza che ha acquisito il porto di Ortona che, per potenzialità (dimostrate ampiamente anche in tempi recenti, tanto dal punto di vista turistico quanto da quello commerciale) e per infrastrutture, oltre che sotto l aspetto logistico, è davvero centrale per il futuro sviluppo della Sangritana e non solo: «Il porto di Ortona spiega Pasquale Di Nardo è l unico ad avere i binari lungo la banchina del molo nord. Noi vorremmo realizzare una variante ferroviaria porto di Ortona-zona industria-
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le di Caldari, trasformandola in piastra logistica», il che presuppone, però, che lo scalo diventi effettivamente il “porto d’Abruzzo”,un progetto «che potrebbe essere sostenuto ha annunciato Chiodi durante la visita da un finanziamento di 90 milioni di euro». L altra linea sulla quale si muove la Sangritana è quella che da Termoli (dove si prevede di prolungare la linea gestita dall’azienda entro il 2013) percorre la costa in direzione Nord: «Siamo partner di importanti realtà ferroviarie nazionali prosegue Di Nardo– come la Nordcargo di Milano, con cui ci colleghiamo nello scalo di Faenza, e la Ferrotramviaria di Bari. Copriamo sul territorio nazionale, e quindi su rete Rfi, la linea adriatica a Nord fino a Bologna e a Sud fino a Taranto, mentre a Ovest arriviamo fino a Roma e Napoli. Inoltre, unica azienda in Italia, operiamo all’interno dell’Interporto di Jesi, nelle Marche, con mezzi e personale alle nostre dipendenze. Trasportiamo prodotti agricoli da Jesi a Guglionesi-Portocannone (Termoli) e acciaio dalla Germania a Chieti, per un fatturato totale che, nel 2010, ha superato i due milioni e mezzo di euro». Il discorso non si limita però al solo trasporto merci: con la soppressione, da parte di Trenitalia, di alcune fermate importanti lungo la costa abruzzese, la Sangritana diventa il vettore principale per il trasporto pubblico su rotaia da e per l’Abruzzo, raggiungendo lo snodo bolognese da cui si può intercettare l alta velocità. Nell ottica dello sviluppo turistico abruzzese va anche il potenziamento dei collegamenti su gomma (altro grande ramo dell’azienda) tra Teramo e la costa adriatica: «Abbiamo accordi, per ora ancora da ratificare, con il Parco marino di Pineto - Terre del Cerrano per promuovere il territorio con servizi di bus navetta tra il mare e il capoluogo e tra Teramo e il Parco nazionale del Gran Sasso –continua Di Nardo– oltre all’introduzione di mezzi ferroviari promiscui, vale a dire vagoni per il trasporto pubblico e di biciclette, visto il notevole sviluppo del cicloturismo».
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• In questa pagina dall’alto e da sinistra: un pullman della Sangritana nel porto di Ortona; il presidente Chiodi con Alfonso D’Alfonso, vicedirettore generale di Sangritana, Di Nardo e il dirigente amministrativo Paolo Marino; il gruppo in visita al reparto manutenzione; ancora Chiodi e Di Nardo con
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il comandante in seconda della Capitaneria di porto di Ortona Angelo Capuzzimato; un convoglio merci della Sangritana trasporta furgoni Ducato; Chiodi e Di Nardo con Enrico Di Giuseppantonio, presidente della Provincia di Chieti, e Nicola Fratino, sindaco di Ortona.
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Ciondolo in oro e brillanti La pescarina
ITALIA 150 ANNI di cultura e tradizioni
ITALO LUPO L’oro nella tradizione ATELIER -Pescara Via Roma, 31/35 Tel. e Fax 085 27666 • DESAURUM Bolognano (PE) Via dei Colli, 53
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Polo dell’Alta Moda
La rinascita IL taLento dell’impresa deLL’Impresa L’Impronta Rinascimentale in dieci aziende italiane
Nel cuore del Polo per l’Alta Moda
Rinascimento nell’imprenditoria odierna
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• Nella foto in alto un momento della presentazione. Al centro Enrico Marramiero e Lucio Marcotullio.
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info: Confindustria Pescara, area marketing ed Eventi Laura Federicis tel. 085.4325543 l.federicis@confindustria.pescara.it
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Luigi Grazie a
n’associazione, un progetto, dieci aziende e un libro: tutto questo nella presentazione de “Il talento dell’impresa”, un saggio di Francesco Morace e Giovanni Lanzone, evento tenutosi lo scorso 8 marzo presso la sala consiliare del Comune di Penne. Il volume, edito dalla Nomos –che unisce e completa il percorso “teorico” aperto dai precedenti saggi Il senso dell’Italia di Francesco Morace e Verità e Bellezza, di Morace e Lanzoni– si basa sull’analisi di dieci imprese che incarnano l’idea di italianità, indagate con uno studio multidisciplinare e usando tecniche diverse e integrate: il reportage fotografico (le fotografie sono di Martino Lombezzi), l’analisi antropologica, la riflessione sulle tendenze evolutive e sull’eredità impegnativa che ci giunge dalla storia del nostro paese, e i dialoghi con gli imprenditori. Il tutto rientra nel progetto “The Renaissance Link”, l’associazione –fondata dai due autori del libro– che accoglie professionisti e ricercatori di varie discipline, uniti dalla stessa visione del mondo e del modo di fare impresa, per il rilancio delle imprese italiane e la difesa e la diffusione del made in Italy nei mercati globali. L’evento, introdotto da Monica Giuliato, Board Manager Ad.Venture srl, ha visto la partecipazione al dibattito di Enrico Marramiero, presidente di Confindustria Pescara, Donato Di Marcoberardino, sindaco di Penne, Lucio Marcotullio, presidente Fondazione Formoda, Gianfranco De Matteis, direttore di stabilimento Brioni Roman Style, Marco Belisario, vicepresidente Esecutivo Polo Alta Moda dell’Area Vestina, Isabella Orefice, presidente Archivi della Moda del ‘900, e Luigi Di Giosaffatte, direttore generale di Confindustria Pescara, in veste di moderatore. La scelta della città di Penne come location per presentare il
p
Saran
a cura di Francesco morace, Giovanni Lanzone e Linda Gobbi Fotografie di martino Lombezzi
dell’area Vestina un convegno per riscoprire i valori fondanti del
con la co
libro non è casuale: proprio qui, attorno alla prestigiosa Brioni, la storica sartoria di fama mondiale, si è costituito infatti il Polo DI PENNE dell’Alta moda dell’area vestina,CITTÀ un modello di rete d’impresa unico nel suo settore in Europa, «progetto promosso da Confindustria Pescara –ha detto Enrico Marramiero durante la presentazione– che coinvolge grandi e piccole imprese del territorio in un nuovo modello di sviluppo. Oggi diventa una preziosa occasione di dibattito e confronto a 360° sui temi dell’eccellenza imprenditoriale e di ricerca di nuovi modelli di successo per il futuro di un territorio, della sua economia, della sua cultura». Obiettivo del progetto, spiega il sociologo Francesco Morace, giornalista e autore di numerose pubblicazioni tradotte in diverse lingue sul tema delle tendenze di consumo e del cambiamento sociale, «è di porre l’Italia e la sua tradizione rinascimentale al centro di una nuova visione strategica che concilia la qualità dei prodotti, del management e della vita quotidiana, secondo una pratica interdisciplinare, innovativa e umanistica, capace di allontanare il fantasma della visione economicocentrica anglosassone che si sta ormai ridimensionando in tutto il mondo». Ma il progetto è soprattutto un osservatorio permanente sulle qualità produttive italiane e si pone, quindi, come aggregatore di molte altre aziende. «Ci rivolgeremo anche a realtà più grandi, a campioni universalmente riconosciuti del Made in Italy. Punteremo poi su etno-territori, come quelli del Sud Italia o sul settore agroalimentare», afferma Morace. L’Italia ha uno strordinario patrimonio –artistico, culturale e paesaggistico– da difendere e «le nostre aziende potranno imporsi sui mercati globali soprattutto se sapranno valorizzarne e comprenderne le potenzialità di business». M.L.
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Ecopower
L’era di un’energia pulita
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ola s i l l ne
pan e c odu nte: r p e mbie e ica s g e a o ’ z l l co ruz inare e b a % u È inq a 100 a z sen l’aziend o ecc
di Mimmo Lusito
N
o al petrolio, basta con la benzina, stop alle emissioni inquinanti. Il grido, in tutte le lingue del mondo, è uno solo: cambiare rotta. Le fonti energetiche tradizionali hanno i giorni contati –carbone e petrolio sono in via di esaurimento– e il ruolo che le energie rinnovabili (solare, eolica, geotermica) stanno assumendo nella nostra quotidianità diventa sempre più importante. La sfida in Abruzzo l’ha raccolta EcoPower, giovane azienda guidata da Vincenzo Marinelli e Roberto Del Castello, che sta cercando di imporsi sul mercato con un prodotto innovativo: pannelli fotovoltaici ad alto tasso tecnologico completamente made • Nella foto grande lo stabilimento Ecopower. Qui sopra Vincenzo Marinelli e Roberto Del Castello
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QUALITÀ ED EFFICIENZA ITALIANA I moduli fotovoltaici prodotti da EcoPower sono realizzati in silicio multicristallino, con potenze che vanno da 230 a 240 Wp; vengono montati su un frame di alluminio estruso anodizzato di sezione tale da garantire un’alta resistenza alle torsioni ed alle sollecitazioni meccaniche. I moduli, sottoposti a test di tipo elettrico, termico e meccanico, sono risultati conformi alle norme europee e hanno guadagnato la certificazione TÜV. Inoltre EcoPower utilizza per i propri moduli vetri prismatici che permettono di avere un elevato rendimento del modulo anche in condizioni non ottimali di irraggiamento. Il rendimento garantito non è inferiore al 90% dopo 12 anni e all’80% dopo 25 anni; inoltre sono garantiti per 5 anni contro i difetti di fabbricazione, con estensione su richiesta ad ulteriori 5 anni.
in Italy. «L’idea è un po’ folle –ammette Marinelli, presidente della società– ma almeno a giudicare dai risultati si è rivelata vincente: dall’inizio delle attività, a settembre 2009, abbiamo realizzato circa 10 MW di impianti, con un fatturato che si aggira intorno ai 18 milioni di euro. E per il 2011 il nostro obiettivo è di raddoppiarlo». Obiettivo che, considerando l’escalation di richieste, è perfettamente raggiungibile: la potenza complessiva degli impianti fotovoltaici installati in Italia è passata dai 1.142 MW del 2009 ai 4mila MW di fine 2010. Una crescita record che rende il settore delle energie rinnovabili –e quello del fotovoltaico nello specifico– uno dei migliori banchi d’investimento in un mondo profondamente lacerato dalla crisi economica globale. Sembra che ci sia tutto da guadagnare, quindi? «Da un punto di vista strettamente speculativo sì –spiega Marinelli– ma EcoPower non è solo un buon affare, è un’impresa fortemente connotata sotto il profilo etico. Abbiamo scelto di armonizzare l’iniziativa privata con l’esigenza sociale dell’ecocompatibilità e del risparmio: forniamo un prodotto non inquinante, cercando di ottimizzare l’azienda in tutti i suoi aspetti, da quello produttivo (in un
ottica di “filiera corta” per ridurre le emissioni di CO2) a quello dell’integrazione ambientale, tanto nello stabilimento quanto nell’installazione dei pannelli, fino al loro smaltimento. E benché il settore prometta bene dal punto di vista del guadagno, la nostra –prosegue Marinelli– è una sfida che comporta anche notevoli rischi, dato che i nostri prodotti hanno caratteristiche di qualità e di performance che li rendono più costosi degli altri in commercio. Dobbiamo perciò cercare di inserirci in una nicchia di mercato composta da clienti che sappiano apprezzare il valore del nostro prodotto, del quale possiamo garantire l’efficienza in tutto e per tutto». I prodotti della EcoPower sono in effetti un concentrato di qualità: «A parte dalla cella di silicio prodotta dalla numero uno al mondo, la coreana Millinet, il resto della componentistica, la realizzazione e la manodopera sono Made in Italy al cento per cento». Made in Molise, per l’esattezza, in uno stabilimento a pochi chilometri dall’Abruzzo e da San Giovanni Teatino, dove Ecopower ha i suoi uffici amministrativi. «Una scelta che dimostra il nostro attaccamento alla regione, alla gente di questi luoghi e alla loro altissima professionalità». A fornire il
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know-how specifico, poi, ci pensa sempre l’azienda: «Il nostro personale di fabbrica, composto da circa 45 operai, viene formato in azienda, così da incrementare una professionalità che è già alta di base. E i risultati si vedono: allo startup aziendale eravamo in grado di produrre circa seicento pannelli al mese, oggi ne produciamo 240 al giorno, con le stesse macchine. Segno che l’investimento sulla formazione è stato efficace così come l’ottimizzazione della linea di produzione». E non solo: Ecopower investe tantissimo anche nel settore ricerca e sviluppo, sia internamente che in ambito internazionale: «Il nostro obiettivo è di migliorare costantemente in tutti i settori. Siamo l’unica azienda ad avere un laboratorio test di taratura interno, in grado di certificare la qualità dei pannelli al millesimo. Insomma, il nostro cliente paga esattamente quello che compra». Un’efficienza e una precisione che fanno seguito all’obiettivo di top-quality prefissato dall’azienda. «Innovazione è la parola chiave. Per questo abbiamo partecipato in prima linea insieme ad altre 40 aziende leader del settore alla costituzione di un Polo d’innovazione dell’energia in Abruzzo e partecipiamo a progetti di ricerca e sviluppo in
ambito internazionale, con lo scopo di migliorare la qualità di un prodotto che si è già imposto su un mercato dominato da grandi industrie». Uno di questi è il progetto Marie Curie 2011, condotto in collaborazione con tre università straniere (Birkbeck College London University, Università del Pireo di Atene, VU University di Amsterdam) e una italiana (l’Università La Sapienza di Roma) e un’azienda inglese, la RWE npower, per l’innovazione tecnologica e finanziato dall’Unione europea: «Ricercatori, scienziati e ingegneri che partecipano con noi al progetto verranno a lavorare nei nostri stabilimenti e porteranno avanti progetti di innovazione. I risultati di tali ricerche dovranno poi essere condivisi tanto con le università che con l’azienda britannica. Oggi l’UE finanzia soltanto progetti che prevedano aggregazioni d’imprese, quindi siamo in cerca di mercati non ancora “inquinati” da politiche speculative per poter costituire reti d’impresa e affermarci con il nostro prodotto». Che è disponibile in tre versioni, quella da 230 W, da 235W, «e da poco abbiamo lanciato sul mercato un terzo pannello policristallino da 240W. Tutti ovviamente certificati».
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Fidimpresa Abruzzo
Il credito amico • Enio Straccia, presidente regionale di Fidimpresa. Nella pagina a fianco Adriano Lunelli, direttore regionale di Fidimpresa Abruzzo
Cresce il confidi del sistema associativo Cna: per le piccole aziende, in tempo e sicuro per aprire i cordoni del sistema bancario regionale
S
bagliato coltivare illusioni. Giusto sostenere la ripresa delle attività produttive facendo leva sul credito. È il messaggio forte e chiaro che Fidimpresa Abruzzo, il confidi del sistema Cna abruzzese, lancia al mondo della piccola impresa regionale, forte dei suoi numeri (erogati nel 2010 finanziamenti per 65,6 milioni di euro a favore di 1.317 imprese; con circa 8mila soci a comporre la piccola holding del sistema di garanzie; un patrimonio di oltre 17 milioni di euro) che ne fanno una delle realtà più importanti dell’intero scenario regionale. Perché, oltre il tunnel della crisi, qualche segnale confortante pure si intuisce, come spiega il presidente regionale di Fidimpresa, Enio Straccia, ma la strada da percorrere è ancora tanta: «In effetti, dopo mesi di crisi, in Abruzzo il credito è tornato a salire, anche se a beneficiarne sono state più le famiglie che le imprese. Ci sono poi alcuni territori, penso a Chieti –pure considerati come punti saldi di riferimento del sistema produttivo regionale– che manifestano segnali allarmanti» dice. Tra gennaio e settembre del 2010 –ha analizzato il centro studi regionale della Cna– in Abruzzo il credito erogato complessivamente è cresciuto più della media nazionale: 7,39% contro
Numero soci
di crisi, un partner affidabile
8000 7800 7600 7400 7200 7000 6800 6600 6400
TOTALE SOCI FIDIMPRESA ABRUZZO 7852 7219 6886
2008
2009
2010
6,79%, per un valore assoluto di un miliardo e 675mila euro. Solo che a beneficiare della riapertura dei cordoni della borsa sono state soprattutto le famiglie (con 1502 milioni di euro in più rispetto all’anno precedente) e in misura più ridotta le imprese, con 250 milioni in più. Un segno, il “+”, che si è distribuito in modo difforme tra le province abruzzesi: con forza nel Teramano (+230 milioni), più modestamente a Pescara (+134), discretamente all’Aquila (+96). Mentre, all’opposto, Chieti ha subito un decremento pauroso, pari a -211 milioni di euro: un brutto segno, anche perché “doppiato”, come si direbbe in gergo pugilistico, dai dati sulle sofferenze: ovvero quei crediti che le banche riescono a esigere con sempre maggiori difficoltà dalla loro clientela indebitata. «Nel Chietino –illustra il direttore regionale di Fidimpresa Abruzzo, Adriano Lunelli– le“sofferenze” delle imprese hanno toccato quota 155 milioni, ovvero il 50% del totale regionale, mentre più discreto è stato il risultato raggiunto all’Aquila (+70 milioni), Teramo (+42) e Pescara (+45). Un quadro negativo, che porta la soglia media regionale dell’aumento delle “sofferenze” bancarie, per quel che riguarda le imprese, al 32% in più dell’anno passato, contro un valore medio nazionale del
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FIDIMPRESA : ANDAMENTO STORICO OPERATIVITÀ Anno
Pratiche deliberate
Importo deliberato
Pratiche erogate
Importo erogato
%
2008
1514
€ 60. 000 000
1388
€ 54.980.106
91,63
2009
1464
€ 74. 887 192
986
€ 43.475.492
58,05
2010
2033
€ 118. 865 583
1317
€ 65. 635 840
55,22
22%». Meno male, allora, che in un quadro così complesso sia arrivata una boccata d’ossigeno dall’accordo nazionale che fa slittare al 31 luglio prossimo la scadenza per la richiesta di ulteriore dilazione del pagamento delle rate sui prestiti contratti dalle piccole imprese. «L’accordo raggiunto da Governo, da Rete Imprese Italia, che è la sigla che raggruppa i rappresentanti di Cna, Confartigianato, Casartigiani, Confcommercio e Confesercenti, da altre associazioni d’impresa e dall’Abi –dice ancora Lunelli– ha fissato una moratoria che prevede l’estensione all’estate 2011 dell’accordo siglato nel 2009. L’obiettivo è favorire la fuoriuscita delle imprese dalla crisi, soprattutto in un periodo segnato da una forte crisi di liquidità: in ballo ci sono almeno 190mila piccole imprese, per un controvalore finanziario di circa 56 miliardi di euro. E l’accordo abbraccerà anche i mutui contratti da imprese “virtuose”. Alle aziende in regola con il pagamento delle rate, l’accordo riserva la possibilità di allungamento della durata del finanziamento a seconda dei mutui contratti: due anni per i mutui chirografari, tre per quelli ipotecari. Ancora, a fronte dell’aumento del capitale sociale da parte delle imprese, le banche aumenteranno i finanziamenti concessi». Ora, grazie a questa decisione, prosegue
Lunelli, «potremo svolgere una funzione attiva ed efficace di garanzia e di copertura del rischio nei confronti delle imprese interessate, accrescendo la loro possibilità di accesso al credito e rafforzando il loro rapporto di fiducia con il sistema bancario regionale». Proprio al rafforzamento di questo rapporto di fiducia tra sistema delle imprese e istituti di credito punta con forza la mission di Fidimpresa, che ha messo a punto un nutrito pacchetto di convenzioni con le banche presenti in Abruzzo: «Con la riforma regionale del sistema dei confidi approvata qualche mese fa dal consiglio regionale –conclude Straccia– la funzione esercitata dal sistema di garanzie si è accresciuta notevolmente, perché è loro richiesto un ruolo più importante nella gestione di molteplici e delicate partite finanziarie, come quelle riguardanti la gestione dei fondi di garanzia, dei fondi rischi, dei fondi anti-usura. La verità è che i confidi sono diventati il partner di riferimento delle piccole imprese: un ruolo, il loro, che lo scenario della crisi ha reso più attuale, perché adesso in ballo non c’è solo il destino di aziende, ma quello di comunità locali, la coesione sociale di territori, la vita di tante famiglie». A.C.
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Vario ART 2011
Sei da collezione L’arte abruzzese contemporanea selezionata e raccolta dalla Fondazione Pescarabruzzo si arricchisce dei lavori di Connie Strizzi, Gino Sabatini Odoardi, Enzo De Leonibus, Emanuela Barbi, Learda Ferretti e Lucio Rosato
Testi Fabrizio Gentile foto Andrea Carella
A
ncora una volta la Fondazione Pescarabruzzo si dimostra attenta al patrimonio artistico abruzzese. Anche se non è di monumenti che stiamo parlando, ma di persone: i sei giovani artisti che l’istituto presieduto dal professor Nicola Mattoscio ha voluto inserire nella seconda serie di monografie, realizzate in collaborazione con la nostra rivista, dal titolo VarioART 2011. I sei protagonisti di questo nuovo appuntamento con l’arte contemporanea – Emanuela Barbi, Enzo De Leonibus, Learda Ferretti, Lucio Rosato, Gino Sabatini Odoardi e Connie Strizzi– sono stati presentati alla stampa durante una cerimonia tenutasi lo scorso 19 dicembre nei locali della Fondazione in Corso Umberto I a Pescara, e hanno consegnato al presidente Mattoscio un’opera ciascuno;
la collezione permanente della Fondazione Pescarabruzzo si arricchisce così di altre sei opere che vanno ad aggiungersi a quelle della scorsa edizione, realizzate da Lorenzo Aceto, Daniela d’Arielli, Matteo Fato, Paride Petrei, Sergio Sarra e Simone Zaccagnini. «Abbiamo voluto dare seguito –ha commentato il professor Mattoscio– all’iniziativa editoriale condotta in collaborazione con Vario, visto il successo riscontrato lo scorso anno. È del resto negli obiettivi della Fondazione promuovere e valorizzare l’arte abruzzese in tutte le sue espressioni, senza limitazioni. Siamo certi che queste giovani promesse saranno un giorno i rappresentanti della nostra regione nei massimi circuiti artistici internazionali». Mattoscio ha poi espresso il desiderio di realizzare, con il patrimonio artistico in possesso
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L’EDIZIONE 2011 La nuova edizione del cofanetto pubblicato dalla Fondazione Pescarabruzzo contiene sei monografie con testi critici in italiano e inglese e sei poster d’autore, riprodotti in questa pagina: dall’alto, in senso orario, le opere di Lucio Rosato, Gino Sabatini Odoardi, Learda Ferretti, Emanuela Barbi, Connie Strizzi e Enzo De Leonibus. Nella foto di apertura, da sinistra: Connie Strizzi, Learda Ferretti, Guerino Testa, Nicola Mattoscio, Claudio Carella, Emanuela Barbi, Enzo De Leonibus e Gino Sabatini Odoardi
della Fondazione, un museo per promuovere l’arte contemporanea abruzzese in ambito internazionale; gli ha subito fatto eco uno degli artisti presenti, Enzo De Leonibus, proponendo le sale del museo da lui diretto (l’ex manifattura tabacchi di Città Sant’Angelo) per ospitare la collezione. Presente alla cerimonia anche il presidente della Provincia di Pescara Guerino Testa, che si è pronunciato sulla drammatica situazione in cui versano le iniziative culturali: «la cultura, come voce di bilancio degli enti, è già di per sé, purtroppo, una specie di “Cenerentola”, ma quest’anno ancora di più a causa dei tagli imposti dal governo nazionale. Comunque come Provincia abbiamo cercato di dare qualche segnale di ribellione a questa drammatica situazione, insistendo soprattutto sul fatto che indiscutibil-
mente la provincia di Pescara e tutto l’Abruzzo sono miniere di cultura, cui spesso manca la giusta valorizzazione». A questo proposito Testa ha lodato l’iniziativa e proposto le sale della Provincia per eventuali future esposizioni. Come di consueto dopo la conferenza stampa gli artisti –tranne Rosato, assente per indisposizione– si sono trattenuti con giornalisti e pubblico e hanno autografato i poster/monografia realizzati da Vario, racchiusi in un elegante cofanetto e distribuiti gratuitamente ai presenti. Nelle pagine che seguono (e nel prossimo numero) potrete leggere le interviste ai protagonisti della nuova collezione VarioART 2011: sei giovani araldi dell’arte contemporanea abruzzese che meritano di essere conosciuti.
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Vario ART 2011
ENZO
DE LEONIBUS L’arte come vocazione: una chiamata alla quale Enzo, direttore del Museo Laboratorio Ex Manifattura tabacchi di Città S.Angelo non si è sottratto
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l nome di Enzo De Leonibus è strettamente legato a quello del Museo laboratorio di Città S.Angelo – ex manifattura tabacchi, di cui l’artista abruzzese è il direttore e che ha festeggiato proprio lo scorso febbraio i dieci anni di attività. Un luogo per l’arte e per gli artisti, dove proporre, esporre e lavorare. «Forse –spiega Enzo– è proprio perché è un posto dove “si lavora” che la cittadinanza nutre per il museo un rispetto che con gli anni si è arricchito anche di affetto». Essere il direttore di un museo ed essere artista è un po’ come stare dai due lati di una barricata? «All’inizio era così, oggi invece non distinguo più il confine tra le due cose. Anzi, credo che faccia completamente parte della mia vita, così come l’urgenza artistica. Non ci vedo nessuna contraddizione». Essere artista cosa significa? «Significa non poter fare altro, vuol dire che ti svegli la mattina e il tuo modo di vedere le cose è quello di un artista. E significa che ti esprimi attraverso un linguaggio, dei mezzi, che possono essere ricondotti a una dimensione “artistica”.Io per l’arte ho sempre avuto un rispetto supremo, tanto che ho preso la decisione di “fare l’artista” in tarda età. Mi ritenevo troppo fragile, forse. Ma alla fine posso dire di aver risposto a una chiamata». Ma il “sistema” dell’arte continua a chiamarti. E tu vivi ai suoi margini… «È una scelta: amo la semplicità, vivo in campagna, conduco una vita fatta di piccolissime cose. Non mi piace l’aspetto mondano, stare sotto i riflettori, preferisco il lavoro dietro le quinte. E mi piace tantissimo il processo creativo, la realizzazione di un’opera è quasi una rottura di scatole. Mi piace quel che avviene “prima”, ed è qualcosa che può durare dei mesi». In effetti hai una produzione abbastanza limitata. «Quattro, cinque cose all’anno. Il che anche di necessità mi colloca un po’ fuori dal giro, non sono uno che può permettersi una personale nuova ogni due anni. Ma mi dà la possibilità di elabo-
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rare bene le cose, che è un privilegio. A volte le mie opere hanno un senso di freschezza, di immediatezza, che sembrano fatte lì sul momento; in realtà dietro c’è un ragionamento lunghissimo, e so che sono finite solo quando non c’è più niente da aggiungere o togliere». Ma per un giovane artista quanto è importante invece stare dentro al giro? «Almeno l’80 per cento. Naturalmente ponendo come base una qualità elevata del proprio lavoro. Voglio dire che se hai qualcosa da dire devi solo decidere cosa vuoi fare: essere il numero uno? Allora datti da fare per diventarlo. Se vuoi restare ai margini devi semplicemente guardare altrove. Lo dico anche ai miei studenti: cercate di capire in fretta cosa volete e trovate i mezzi per raggiungere i vostri obiettivi». Sembra un discorso da “attimo fuggente”: che rapporto hai con i tuoi ragazzi? «Gli concedo molto spazio, tendo a dare fiducia ai giovani e a farli agire secondo il loro modo di vedere le cose. Io mi chiamo fuori, a un certo punto, perché è il loro lavoro che deve interessarmi, non il mio». Hai qualche rimpianto? «No, direi di no, a parte che avrei voluto studiare di più la matematica. Ci sono opportunità che non ho avuto, rispetto alle nuove generazioni, ma ne ho avute altre che oggi non esistono. E la mia vita è piena, sono soddisfatto. Posso dire di essere felice». La felicità è un ostacolo per un artista? «No, perché non esclude le emozioni negative: è pienezza, nel senso che vivi tutto intensamente. Anche il dolore, attraverso il quale spesso, negli ultimi anni, sono passato. Quando dicevo che il più grande dono di mia madre è stata la sua malattia non scherzavo: vivere quell’esperienza è stato come svegliarsi da un lungo sonno, è stata una delle cose più intense della mia vita. E non finirò mai di ringraziarla, per questo». • Enzo De Leonibus
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GINO
SABATINI ODOARDI È
l’uomo che plastifica gli oggetti. È il congelatore dell’esistente, colui che iberna in un momento eterno la quotidianità, astraendola dal contesto in cui siamo abituati a vederla. Gino Sabatini Odoardi è, a detta di molti esperti, una delle grandi rivelazioni della giovane arte contemporanea italiana. I suoi lavori che hanno entusiasmato la critica (e il pubblico, che lo segue fin dalla prima personale datata 1988) sono soprattutto quelli realizzati con la termoformatura in polistirene, una tecnica molto usata nel packaging commerciale, che consiste nel mettere un oggetto sottovuoto attraverso una copertura di plastica che aderisce alla forma dell’oggetto stesso. «Ho impiegato anni per ottenere ciò che volevo, spendendo di tasca mia un sacco di denaro. Mi sono rivolto alle fabbriche, è questo ha comportato un atteggiamento nuovo, proprio perché mi relazionavo con delle produzioni “diversamente” industriali. Anche per fare delle semplici prove, ottenere due o tre pezzi, qualsiasi fabbrica deve fermare la produzione ordinaria, e per fare questo, bisogna garantire economicamente l’intera giornata di lavoro. Fare l’artista è una necessità dispendiosa, in ogni ambito». Ma può essere redditizia, a volte: dei “giovani-artisti-abruzzesi” tu sei uno dei più introdotti nel giro grosso, quello dei nomi importanti, delle gallerie, dei critici e dei collezionisti. Com’è il tuo rapporto col mercato? «Incerto e sismografico. Immerso e distante allo stesso tempo. Purtuttavia sono obbligato a rapportarmi con esso. Come giustamente sostiene Kounellis, l’economia come fattore reale diventa espansione del proprio lavoro e dunque permette una forma di circolarità. E senza circolarità si creano solo opinioni ottuse. Lavoro dal 2004 nella scuderia di Oredaria, una delle più prestigiose gallerie romane con artisti come: Pistoletto, Zorio, Mochetti, Merz, Spalletti, Uncini, solo per citarne alcuni. Questa condizione sicuramente mi garantisce una certa forma di circolarità, ma ho anche capito che non è tutto e soprattutto non basta. Paradossalmente trovo molto più gratificante sapere che in questi giorni una studentessa dell’Università della Sapienza sta facendo una tesi sul mio lavoro». Un lavoro che da anni ormai ruota attorno a un oggetto-feticcio, un simbolo ricorrente: il bicchiere. «Non “il bicchiere”,ma “un” bicchiere: quello specifico “da cantina”,per delle ragioni che riflettono un sociale più vicino al mio modo di sen-
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L’arte di fermare il mondo: le suggestive termoformature tra critica sociale e provocazione
tire la vita. È un oggetto che da sempre mi affascina, che costituisce per me fonte di intuizione, per la sua capacità di delimitare uno spazio e allo stesso tempo di ospitarne un altro: il vuoto. Questo volume apparentemente svuotato ha la proprietà di custodire sempre nuove condizioni con i materiali più disparati: vino, inchiostro, gesso, latte, grafite, cartine oceanografiche, materiali organici…» Già, il video con i cervelli. «Quello (si riferisce a una sua videoinstallazione del 2010 che mostra l’autore lanciare contro un muro bianco cervelli di suino contenuti nei suddetti bicchieri, ndr) è stato un momento molto forte: desideravo scuotere e scuotermi, avevo bisogno di una performance provocatoria, disturbante». Quanto è importante il gesto eclatante rispetto a una critica sociale più sottile? «È la differenza che passa tra un tizio che entra in una scuola con un fucile e uccide dieci persone e la firma del politico corrotto sulla autorizzazione alla sperimentazione di un farmaco che in Africa uccide centomila disperati e di cui nessuno saprà mai niente. Il video è stato un episodio, non amo le provocazioni fini a se stesse, in genere il mio registro è più tenue: almeno dal punto di vista dell’impatto visivo, non certo da quello emotivo/concettuale. Trovo, per esempio, che la discrezione dell’opera Senza titolo con ciotola (2007) sia un grido molto più forte della performance del 2010. In fin dei conti è blasfemia pura». Accade anche in altre tue opere, per esempio quelle termoformature che accoppiano un crocifisso con un ferro di cavallo, o l’acquasantiera con la scritta della Coca cola, o la statuetta della Madonna con i joypad della Playstation. Che rapporto hai con la fede? «Sono radicalmente agnostico. Ho ricevuto un’educazione cattolica, della quale mi sono dovuto spogliare, e non senza fatica. Le associazioni degli oggetti non sono certo casuali, ma hanno il duplice scopo di desacralizzare il simbolo e di far scaturire una riflessione, un interrogativo in chi guarda l’opera. Prendiamo il crocifisso col ferro di cavallo: due simboli, fede e superstizione. Apparentemente, due cose lontane; nella realtà, non solo sono “cugine” (nel senso che spesso i loro confini si confondono) ma convivono nella quotidianità: quanti, per esempio, portano al collo una catenina col crocifisso e magari al polso hanno un braccialetto con un cornetto portafortuna?» • Gino Sabatini Odoardi
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LUCIO
ROSATO L’architetto artista che non si occupa dei palazzi ma delle relazioni tra gli oggetti urbani
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a sua casa è in quel luogo al confine tra l’arte e l’architettura. I suoi interessi si concentrano proprio negli spazi vuoti tra un manufatto e l’altro, ovvero sulle relazioni tra gli edifici, sull’ambiente, sul contesto in cui vivono. Lucio Rosato vive oltre le etichette, aldilà delle convenzioni, fuori dagli schemi, come è lecito aspettarsi dal figlio di due nomi illustri della poesia italiana (Giuseppe Rosato e Tonia Giansante). Qual è la tua formazione artistica? «Uno dei miei maestri è Ettore Spalletti, ma non mi definirei artista.Tanto più perché non credo nell’arte». Cioè? «L’arte, forse come l’identità, è un’invenzione della mente: una costruzione preromantica, che continuiamo ad idolatrare nella nostra condizione post-romantica.“Prima”non esisteva. Parliamo di arte greca, arte romana, ma allora non c’erano valori attribuiti; siamo noi a darli ad alcune cose oggi. La bellezza di un’opera di Leonardo, ad esempio, sta nel fatto che quell’opera aveva un significato, nel senso di funzione e ragione, in quel dato momento storico, e siccome era vera in quel momento continua ad esserlo anche oggi. Ma non esisteva la figura dell’artista, e anche nel mio caso è un termine che non uso mai. Io mi occupo di “altre architetture”». In che senso? «Nel senso che quella che noi definiamo “arte” si occupa comunque di spazio e tempo, di rapporto uomo-natura, uomo e altra natura (artificio), di contesto, ed è per tanto riconducibile alle ricerche del fare architettura. È, insomma, un problema di ambiti e di relazioni, che sono le cose che da sempre mi interessano. E l’altra architettura non è necessariamente prontamente funzionale». Spiegati meglio. «Un architetto è colui che in genere costruisce una casa, rispettando lo scopo per cui viene costruita, cioè la sua ragione. Ma questa ragione viene ogni giorno di più tradita prestando sempre maggiore attenzione agli aspetti speculativi del mercato e del formalismo tecnologico; “altra architettura” significa provare ad occuparsi di altre funzionalità necessarie allo spirito nel rapporto, che è della vera architettura, tra etica ed estetica. Andando ancora oltre, mi piacerebbe occuparmi degli intervalli, ovvero dei vuoti che intercorrono tra un manufatto e un altro, delle relazioni tra le case come tra le cose, tra gli uomini. E se ci pensi è proprio quel vuoto che definisce gli ambiti, che costruisce un nuovo equilibrio, dandoti la possibilità di modificare la tua condizione di uomo e il rapporto con la società. In un certo senso, è il compito affidato all’arte, quell’arte
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che io definisco“altra architettura”; e la sua funzione è di cambiare la concezione delle cose, se stessi e il mondo». Cosa pensi di quegli architetti che oggi sono considerati “artisti”? «Che spesso cadono nel formalismo autoreferenziale. L’architettura si costruisce attraverso il rapporto tra forma e contenuto, definendo nuovi e provvisori equilibri che offrono la possibilità alla gente di vivere meglio. È invece sempre più la forma a prendere il sopravvento, col risultato che, come nella stazione dei pompieri di Weil am Rhein in Germania progettata da Zaha Hadid, non riesci a chiudere la porta del bagno senza farti male; ma è l’intera costruzione in questo caso a non rispondere alla ragione del suo costruirsi, tanto che è stata subito trasformata in un discutibile padiglione espositivo. Questa esaltazione della forma fa perdere significato all’architettura. Oggi non abbiamo veramente bisogno di costruire il nuovo, se fatto in questi termini. Semmai ci sarebbe bisogno di demolizioni». Cosa che a Pescara sta già avvenendo: sono numerosi gli edifici abbattuti, anche sollevando contestazioni da parte della cittadinanza. Quanto è importante, per una città come Pescara, conservare una memoria? «Credo che il caso più eclatante sia quello dell’ex centrale del latte, un edificio che da molti veniva considerato di importanza storica. Ma come ho già detto non credo nei valori attribuiti, e in più quello era un edificio davvero senza valore. Oggi si tende a conservare, ma la città si è sempre modificata su se stessa, costruendo di volta in volta ciò che serviva in quel preciso momento. La mancanza, a Pescara, di edifici storici, avrebbe potuto rappresentare un vantaggio, e far vivere la città di espressioni del contemporaneo. Se la città si fosse costruita come una città moderna, oggi nessuno si porrebbe il problema della mancanza di memoria storica. Il dramma è che Pescara è stata costruita male, aveva un piano che non è stato rispettato, e oggi si continuano a riempire gli interstizi costruendo palazzi anche all’interno degli isolati esistenti. È avvilente pensare che qualcuno si preoccupa di salvaguardare l’ex centrale del latte mentre intorno a noi accade dell’incredibile: penso alle torri Camuzzi, concepite come silos parcheggio alle porte del centro città, che grazie ad un accordo di programma (pericoloso strumento urbanistico quasi sempre a servizio della speculazione) hanno subito un cambio di destinazione d’uso in uffici e appartamenti di prestigio. Sarei ben lieto di vedere a Pescara abbattere un palazzo per lasciare, al suo posto, uno spazio vuoto». • Lucio Rosato in una foto di Matteo Veleno
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“È
giusto riaffermare che le imprese eroiche della Brigata Maiella, che risalì l’Italia dall’Abruzzo fino ai confini settentrionali, non costituiscono soltanto una delle pagine più belle della lotta partigiana, ma offrirono una limpida conferma dell’unità della nostra Patria: di un’Italia unita nella lotta contro il fascismo e contro le truppe d’occupazione naziste, di un’Italia che, finalmente libera, scelse di darsi una Costituzione repubblicana ancora oggi necessario e valido punto di riferimento per tutti noi”. Sono le parole che Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica, ha scritto in una lettera che il presidente della Fondazione Pescarabruzzo (e presidente anche della Fondazione Brigata Maiella) Nicola Mattoscio ha letto durante la presentazione del libro di Nicola Troilo Storia della Brigata Maiella 1943-1945, tenutasi nei locali della Fondazione Pescarabruzzo lo scorso 5 marzo. Nicola Troilo è figlio di Ettore, comandante della più nota tra le formazioni partigiane, quella Brigata Maiella che –caso unico– operò al di fuori del territorio nel quale si era costituita, proseguendo l’avanzata nelle Marche e in Romagna, entrando per prima a Bologna. Il volume, già pubblicato nel 1967 e ora riproposto con aggiornamenti e materiale inedito, raccoglie le testimonianze di molti patrioti, primo tra tutti l’autore stesso che, giovanissimo, assistì alla fondazione della Brigata su iniziativa del padre Ettore, che ne divenne comandante e che contribuì a scrivere una delle pagine più eroiche della guerra di liberazione dal nazifascismo, in Italia e in Europa. All’evento hanno partecipato il senatore Franco Marini, presidente emerito del Senato della Repubblica, il presidente del Consiglio Regionale d’Abruzzo Nazario Pagano, Marco Patricelli, storico e giornalista autore tra l’altro del libro I banditi della libertà (la storia della Brigata Maiella), il professor Costantino Felice, storico presso l’Università G. d’Annunzio e il professor Stefano Trinchese, preside della Facoltà di Lettere dell’Ateneo di Chieti-Pescara. Ettore Troilo, nato a Torricella Peligna nel 1898 e morto a Roma nel 1974, è stato recentemente inserito nell’elenco dei migliori 150 servitori della Stato, stilato in occasione delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia. M.L.
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L’ eroe della libertà
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Michele Pezone
Il noir dell’avvocato degli animali Una Pescara torbida e un Brasile magico fanno da sfondo all’esordio di un avvocato pescarese noto per le sue battaglie a favore dell’ambiente. Ma che riesce a mettere in scena una trama degna delle migliori puntate di CSI. di Alessio Romano
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ichele Pezone è un giovane avvocato penalista che si occupa dei temi relativi alla tutela dell’ambiente e dei diritti degli animali. Ma è anche un promettente autore di gialli. Il suo primo romanzo, Vingança (“vendetta” in portoghese), edito dai tipi della Besa, è un legal thriller abruzzese ambientato in una Pescara popolata da prostituire rumene, studenti universitari fuori sede e fuori di testa, famiglie benestanti che nascondono segreti e antichi rancori. E potrebbe essere anche la prima di possibili future indagini di un personaggio, l’avvocato Antonio Pace (che nel detective Gregorio Frezza trova la sua spalla fidata) nato, a partire dalla scelta del cognome, come possibile risposta a Gianfranco Carofiglio e al suo Guido Guerrieri. È stato difficile trasformare Pescara in luogo narrativo adatto a un genere, quello del noir, che siamo
abituati ad associare a grandi città americane? Pescara ha tutto per essere una location dove ambientare un romanzo giallo. Io, che sono di Francavilla, sono cresciuto con il mito di Pescara. Da ragazzi si cercava di ostentare la propria pescaresità. Quando si prendeva l’uno, che aveva il capolinea alla stazione centrale, lo si raccontava ai compagni: “Sai, ieri sono andato a Pac Mania, a Piazza Salotto”. E ci si vergognava di essere in provincia di Chieti, e anche della targa delle macchine dei nostri genitori, che non erano targate PE, ma CH. Ho riversato nel romanzo il mio legame con la città. Da corso Manthonè al porto turistico, dalla zona dei colli fino al mercato ittico, tanti sono i luoghi della città che diventano teatro degli avvenimenti narrati nel libro. Io spero che Pescara diventi sempre di più un centro culturale che non viva solo del ricordo di D’Annunzio, e che
diventi sempre di più, di conseguenza, essa stessa un luogo narrativo. Qual è il tasso di autobiografia presente nel tuo romanzo? Tre anni fa ho pubblicato un libro di poesie, “Riva Azzurra”, la cui prefazione è stata scritta da Enzo Verrengia, scrittore e giornalista. Qualche sera dopo la presentazione di quel libro, ci trovammo in un pub, e lui mi disse: “Michè, senti, ma visto che tu sei un avvocato penalista e conosci i meccanismi del processo e delle indagini, perché non scrivi un romanzo giallo?”E lì io ebbi un’intuizione visto che avevo appena conosciuto in Brasile la ragazza che dopo qualche mese sarebbe diventata mia moglie. Ho pensato di intrecciare la trama classica di un giallo con la storia di due persone che appartengono a mondi lontanissimi, un avvocato abruzzese e una psicologa brasiliana, che si conoscono e si innamorano. Ovviamente, poiché non
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• Michele Pezone nel suo studio di Pescara
mi piacciono i sentimentalismi, la storia d’amore fa solo da sfondo al romanzo. Il Brasile è l’altro grande luogo narrativo descritto nel tuo libro; quasi un contraltare esotica a Pescara. L’avvocato Pace non trova solo questa ragazza meravigliosa, ma scopre un intero mondo. Io non racconto il Brasile che tutti siamo abituati ad immaginare, quello di Rio de Janeiro, del samba e del carnevale. Parlo di una piccola cittadina termale, chiamata Caldas Novas, e poi Goiania, che è la capitale dello stato di Goias, al centro del Brasile, una metropoli lontana dal mare. Racconto scene di vita domestica, come il natale brasiliano, molto simile al nostro, albero di natale compreso, a parte la differenza di temperatura. Ma soprattutto racconto una dimensione del Brasile, che mi ha molto colpito, che è quella della religiosità del sincretismo. Un’altra caratteristica originale del
tuo personaggio è l’attenzione ai temi dell’ambiente. Sì, questo impegno è una componente importante della mia vita professionale e ho trasfuso queste tendenze animaliste anche al protagonista del libro. Solitamente i legal thriller hanno come protagonisti avvocati, investigatori, poliziotti che ancora oggi rispondono allo stereotipo di James Dean. Devono avere la cicca in bocca, mangiare cibo in scatola, e si devono alzare il bavero dell’impermeabile nelle notti gelide che percorrono girovagando tra i bar. Il mio protagonista è un vegetariano non violento, che pratica lo yoga e quando va al pub rimprovera chi si riempie di birra e hamburger. Uno così, nel panorama nostrano dei nostri investigatori, non c’era, o perlomeno io non l’ho trovato. Ho provato a buttarlo io nella mischia.
Michele Pezone Vingança Besa Editrice, pp. 152, € 15,00
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Libri
Poesia/Liberatore
Arte/Olivares
Poesia/Di Egidio
Introdotto da Giordano Bruno Guerri, ecco l’ultimo dei lavori di un giornalista e scrittore tra i più prolifici di quest’angolo d’Abruzzo. Pescarese trapiantato a Chieti, Liberatore, “studente perpetuo”, raccoglie in poche pagine “Priapei, rime, impronte letterarie e versi mondani” che denotano una personalità “sensibilissima, emotiva, umorale, tipica trasposizione psicologica dell’elemento acqua” (Rita La Rovere, cit.) e una sostanziale coerenza con i più complessi lavori precedenti.
La tartaruga come “fondamento del cosmo, garanzia di stabilità, forza nascosta e non violenta a fronte di ogni attacco”. Nella sua vita trascorsa dal 1967 accanto ad Alfredo Paglione, Teresita Olivares ne ha collezionate oltre mille: opere d’arte, oggetti preziosi, manufatti provenienti da ogni parte del mondo, spesso omaggi o ricordi di speciali ricorrenze. A tre anni dalla scomparsa di Teresita, avvenuta il 26 gennaio 2008, questo libro è l’occasione per rendere omaggio alla sua memoria e alle sue passioni.
Incursioni di cartoon kamikaze in un immaginario fanciullo e allo stesso tempo troppo adulto, oggetti quotidiani e ricordi che tramano una rivolta minacciosa e divertita, dichiarazioni d’odio e d’amore di una sensualità sfacciata, dediche che disegnano una costellazione di personaggi squisitamente pop. Le poesie di Roberto Di Egidio, giovane pescarese girovago ed eclettico
Stanislao Liberatore Il collezionista di emozioni Ianieri 2010 – pp. 36, € 8,00
La signora delle tartarughe Immagini di una collezione Fondazione Crocevia 2011, pp. 104, fuori commercio
musicista prestato alla letteratura, arrivano a qualcosa che nasce dal basso, dalla strada, da un angolo del letto o dallo schermo della tv, dalla quotidianità vissuta con sorpresa e curiosità, con una leggerezza che scandaglia e sonda quella dimensione liquida che si cela sotto ogni superficie. È la leggerezza di cui parla Calvino ad ispirare Roberto, a spingerlo verso una poesia lontana da contrizione, accademismi e facili malinconie, e che lascia intravedere sguardi sarcastici, incantati, appassionati, critici, talvolta politici. Una poesia da portarsi sempre dietro. Come fosse un indumento intimo. O un profumo.
Roberto Di Egidio La mia waterloo ventricolare Neo Edizioni, 2010, pp. 144, € 10,00
euro 15,00
Romanzi/ Bosica
Adrenalinico romanzo cyberpunk dalle tinte fosche, Irregolare segna l’esordio letterario (dopo un breve racconto del 2009) di Vincenzo Bosica, pescarese, grafico pubblicitario “attratto da quanto è eccentrico e indecifrabile, dagli sviluppi spesso straordinari a cui potranno condurre le scoperte scientifiche, dalla direzione che prenderà il futuro, da quanto e come l’uomo sarà capace di adattarvisi”. Tutti questi temi vengono affrontati in questo romanzo che intreccia le vicende personali di molte vite e traccia i contorni di un futuro verosimile e non così lontano.
Vincenzo Bosica IRREGOLARE Edizioni Solfanelli, pp. 272 - € 16,00
«A DN K RONOS »
Si respira leggendolo un grande amore, scritto con sensibilità, ricco di verità antiche e nascoste che appartengono a una tradizione e a una cultura dimenticate. « LA R EPUBBLICA »
Non si finisce mai di leggerlo, questo libro. Arrivati all’ultima pagina, lo potremo ancora consultare al momento del bisogno, in cerca di rimedi, tisane, impacchi, cibi. «A MICA »
biare in noi. Da evento, più o meno catastrofico, a occasione di approfondimento della conoscenza di noi stessi. Il corpo non fa che manifestare in modo esplicito il conflitto che via via si crea tra la vita di una persona e la sua coscienza, ancora inadeguata a comprenderlo». Il risveglio del corpo è un libro conosciuto, amato e citato tra i cultori della medicina naturale, esperti e non. Uscito per la prima volta nel 1996, è sta-
IL RISVEGLIO DEL CORPO
NADIA TARANTINI
È nata nel 1946. Giornalista e scrittrice. Ha frequentato la scuola di shiatsu e Medicina cinese diretta da Maria Teresa Pinardi, corsi e seminari di psicoterapia, medicina tradizionale Maori, kundalini yoga e fiori di Bach. Laureata in Filosofia con una tesi sperimentale sulla psicologia dell’età evolutiva. Conduce corsi e seminari di scrittura (“Le vie dei cinque sensi”©) e laboratori di scrittura in alcune università. È nel comitato di redazione della rivista Leggendaria.
Dentro il nostro corpo è scritta tutta la nostra storia: le emozioni mai vissute, i conflitti irrisolti, i piaceri che ci diamo e quelli che ci neghiamo. Per questo il sintomo di una malattia rimanda sempre a qualcos’altro. […] Il risveglio del corpo è un viaggio alla ricerca di sé […] non indaga soltanto i poteri che la mente ha sul fisico: dentro le malattie trova invece i segreti del nostro esistere e la chiave del vivere.
«Ma è soprattutto l’idea di malattia che deve cam-
NADIA TARANTINI MARIA TERESA PINARDI
MARIA TERESA PINARDI
È nata nel 1954 e insegna shiatsu e filosofia della medicina cinese. Ha studiato Medicina cinese con Nguien Van Nghi e in Cina, nel monastero zen di Yuji Yahiro, la scuola di shiatsu. Ha conosciuto negli Stati Uniti e portato in Italia Naboru Muramoto (autore de Il medico di se stesso), allievo di Osawa il divulgatore della macrobiotica. È consulente di Psicoterapia organismica, dopo una formazione di cinque anni in Italia e sette in Svizzera, con Katherine e Malcom Brown.
NADIA TARANTINI • MARIA TERESA PINARDI
IL RISVEGLIO DEL CORPO Dai sintomi alle emozioni l’arte della salute
to ristampato due volte e da due anni è uscito fuori catalogo. Introvabile ma ancora oggi ricercatissimo, esce per la Iacobelli in una nuova edizione rivista e aggiornata. Utile come un manuale ma godibile come un romanzo, Il risveglio del corpo ci guida lungo i percorsi alternativi alla medicina ufficiale, per avvicinarci allo shiatsu e alla medicina cinese, ai Fiori di Bach e alla ginnastica dolce; ci detta le ricette e i rimedi più giusti, ci indica i cibi migliori. Ma soprattutto, questo libro è un invito spassionato a trovare un rapporto nuovo con il nostro corpo: perché nel corpo c’è tutto il nostro esistere nel mondo, la conscienza di sé, la vita psichica e immaginativa, la mente razionale e l’aspirazione alla spiritualità, che è il dare voce alla parte più sottile di noi stessi.
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cover design. illustrazione:
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Società/Felicetti
Teatro/Tornar
Quattro anni di collaborazioni giornalistiche, prima con Il Centro e poi con La cronaca d’Abruzzo: gli articoli settimanalmente scritti da Nevio Felicetti tra il 2004 e il 2008, intervallati da interviste che lo vedono protagonista o da articoli che lo riguardano, raccolti in questo volume che ci mostra il punto di vista di un uomo che è parte della storia di questo Paese.
Dopo Claire Clermont, appassionato romanzo in cui raccontava della tormentata relazione tra Lord George Gordon Byron e la sorellastra di Mary Shelley, il nuovo libro di Tornar è un monologo teatrale in cui la stessa Claire rievoca la breve vita della sua bambina, Allegra, che una febbre tifoidea strappò alle braccia della mamma in un convento a Bagnacavallo nell’aprile del 1821. Un ideale sequel del romanzo, dunque, intenso e commovente come il predecessore.
Nevio Felicetti Prediche della domenica di un laico ottuagenario Ires Abruzzo 2010, pp.216
Marco Tornar Allegra per sempre Tabula Fati, 2011 pp.47, € 5,00
Saggi/ Tarantini - Pinardi Dal 1996, anno della sua prima edizione, questo magico volume è stato ristampato per ben due volte e per due volte è uscito fuori catalogo. Il libro più amato e citato tra i cultori della medicina naturale, utile come un manuale ma godibile come un romanzo, si ripresenta oggi, in una nuova e aggiornata versione pubblicata da Iacobelli, per condurre i suoi lettori alla riscoperta del rapporto col proprio corpo.
Nadia Tarantini – Maria Teresa Pinardi Il risveglio del corpo Iacobelli, 2011 – pp. 208, €15
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Libri
Schirato for Chernobyl Terremoto e tsunami. Le due parole più temute dal Giappone tornato protagonista, tragicamente, delle prime pagine dei giornali. Ma a pochi giorni dalla catastrofe un’altra parola è venuta alla ribalta e sta generando una vera e propria psicosi collettiva: Fukushima, la centrale nucleare danneggiata dal sisma che ha generato una fuga radioattiva. Una tragedia nella tragedia, che riporta alla mente la parola che venticinque anni fa terrorizzò il mondo intero: Chernobyl. Oggi quella vicenda, costata all’Ucraina –e non solo– anni di decessi e di malattie incurabili fa da sfondo alla mostra Chernobyl 25, un reportage fotografico di Stefano Schirato, giovane e affermato fotoreporter pescarese, che documenta il traffico illegale di materiale radioattivo. Allestita nei locali dell’ex Aurum di Pescara, la mostra aprirà i battenti il 17 aprile e resterà visibile fino al 3 maggio, per poi proseguire alla volta di Roma e Milano.
Carriole e tragedie
Caporale, e tre
Quindici mesi di riprese in lungo e in largo su tutto il territorio aquilano, con l’interesse rivolto «alle radicali trasformazioni che sta subendo, alla “sparizione” dei centri storici, tra abbandoni e demolizioni, all’idea di casa che ha dentro di sé ogni persona che ho incontrato. (...). Alla violenza naturale del terremoto si è sovrapposta la voracità degli interessi, la velocità delle urbanizzazioni, l’impatto violento del Progetto C.A.S.E. che ha sconvolto senza pianificazione un territorio bellissimo». Questi i temi affrontati da Ju Tarramutu, il film con cui Paolo Pisanelli –fotografo e regista, docente del corso di Comunicazione Multimediale presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Teramo– ha cercato di raccontare «la città più “mediatizzata” e mistificata d’Italia, passata dalla rassegnazione alla rivolta attraverso mille trasformazioni, intrecciando storie di persone, luoghi, cantieri, voci e risate di “sciacalli” imprenditori che hanno scatenato la protesta delle carriole, quando ormai il terremoto non faceva più notizia: “Riprendiamoci la città” hanno gridato gli abitanti dell’Aquila e si sono organizzati per spalare le macerie, dimostrando la volontà di non rassegnarsi al silenzio, anche se costretti a vivere nelle periferie di una città fantasma». Presentato al Festival dei Popoli, SulmonaCinema, Bif&st e Premio Libero Bizzarri, Ju tarramutu uscirà nelle sale italiane proprio il 6 aprile, distribuito da ZaLab.
Dopo il libro “L’aquila non è Kabul”, instant book sul terremoto del 6 aprile 2009, e “Colpa nostra”, il film documentario realizzato lo scorso anno, a due anni dal sisma torna Giuseppe Caporale, giornalista abruzzese che ha raccontato la tragedia aquilana sulle pagine di Repubblica, con Il buco nero in uscita proprio in occasione della ricorrenza di quella tragica notte. «Un viaggio
impietoso e crudo – come sanno esserlo le carte e i documenti dei tribunali– nelle vicende di una terra quasi uguale al resto d’Italia, sempre alle prese con corruzione e tragedie annunciate».
Giuseppe Caporale IL BUCO NERO Garzanti 2011, pp.200 Euro 14,50
Romanzi/Bellitti Un romanzo d’amore scritto come se fosse una lettera, in cui Marta racconta ad Andrea l’amore che li lega. Lei, segnata da una tragedia quand’era bambina; lui, sognatore e romantico, che non si ferma davanti a nulla per averla. Sullo sfondo di un amore in cui spesso si insinua un freddo polare, il caldo mare della Sardegna, “incubatrice dei nostri sentimenti” e terra d’origine di questa nuova, sorprendente autrice. Il romanzo è stato presentato a Pescara, nella sala Figlia di Jorio della Provincia, alla presenza dell’autrice, dell’editore Marco Solfanelli e di Marco Tabellione e Marco Tornar, lo scorso 30 marzo.
Giorgia Bellitti, AMORI POLARI Edizioni Tabula fati Pag. 112 - € 10,00
CORPO DI MILLE ARTISTI! Tutta dedicata al mondo della Body Art, degli Happening e dell’Azionismo la mostra che il Maaac, il Museo archivio degli artisti abruzzesi contemporanei di Nocciano propone, per la stagione 2011. Alternando momenti di discussione e live performance, la rassegna propone un incontro-dibattito sull’azionista viennese Hermann Nitsch, al quale parteciperà il direttore del Museo ‘Hermann Nitsch’ di Napoli Giuseppe Morra che presenterà due video dell’artista, uno su Giuseppe Desiato, performer napoletano, e uno sull’architetto e performer Ugo La Pietra, artista di origini abruzzesi residente dagli anni ’50 a Milano e di cui si potranno vedere tre video/film degli anni ’70. La seconda parte del progetto, oltre a far conoscere al pubblico come l’Arte Performativa si sia evoluta nel corso degli anni, è finalizzata alla valorizzazione e alla riscoperta del patrimonio artistico culturale dei centri coinvolti: il Museo di Nocciano, annesso al Castello Medievale, il Museo Barbella di Chieti e la città di Pescara, con interventi di giovani autori come Sylvia Di Ianni, Lilith Primavera, Flavio Sciolè, Kyrahm e Julius Kaiser. Il Festival è curato da Ivan D’Alberto, Sibilla Panerai e Giampaolo De Cerchio ed è stato possibile grazie al contributo economico del Comune di Nocciano, della Regione Abruzzo e della Fondazione Pescarabruzzo.
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Arte
Cataloghi/Massimo Camplone Dieci anni di vita all’interno del Museo laboratorio ex manifattura tabacchi di Città Sant’Angelo, in un libro e una mostra. La mostra documenta in trentadue scatti il lavoro che Massimo Camplone ha realizzato nel Museo laboratorio a partire dal 2001. “È lo sguardo del fotografo che per dieci anni rimane discreto di fronte a qualcosa che accade, che cattura il susseguirsi di momenti nella flagranza della loro unicità. Attimi che convivono simultaneamente riportando la dimensione storica a quella umana dell’artista che compie il suo lavoro: la suggestione del momento che fu, nel luogo che è”. Il libro completa l’esposizione con 89 fotografie che ritraggono un luogo oggi essenziale per il lavoro di un artista (non solo) abruzzese. Dice Enzo De Leonibus, artista e direttore del museo: «Conosco il museo in ogni sua intimità e le immagini di Massimo Camplone sono flashback di una parte importante della mia vita, quelli che lui chiama appunto “indizi disseminati” sono per me sollecitazioni emotive di un viaggio simbiotico con questo posto e con tutte quelle persone belle che hanno dato il senso ad un luogo, alle energie profuse, dai lavori umili ai grandi M.L. sogni praticati».
Massimo Camplone INDIZI DISSEMINATI
Amorfografie/Giovanni Gullì
Mostre/Giuseppe Fiducia
I temi che ci fornisce l’attualità, a metà strada tra la satira e l’impegno sociale. Ecco i contenuti delle tavole di Giovanni Gullì, che lui stesso definisce “amorfografie”, in cui la voce della coscienza (“gli occhi dell’altro mondo su questo mondo”) parla attraverso un personaggio “amorfo”, ossia privo di forma, dialogando così col personaggio del “Non saggio”, alle prese con i problemi del consumismo. A volte ingenuo, naif, a volte graffiante e irriverente, il lavoro di Gullì –esperto in comunicazione della voce e della parola– è, come suggerisce lo stesso autore, “fortemente raccomandato a tutti i lettori, grandi e piccoli, che intendono mantenere viva una riflessione” e non lasciarsi opprimere e condizionare dalle regole della società. A.C.
Una mostra che ripercorre la produzione recente di Giuseppe Fiducia, pittore di fama internazionale, dopo l’antologica del 2008 al forte spagnolo dell’Aquila. I volti di gente comune, cristallizzati in “fotogrammi di vita” da una pittura laica, lucida, fatta di tensione fisica e di un metodo rigoroso. Il catalogo è impreziosito da una conversazione di Fiducia con Francesca Referza. A.C.
Giuseppe Fiducia FOTOGRAMMI DI VITA 19/2-19/3 2011 Studio d’arte Forlenza, Teramo
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Musica
I SABATI MUSICALI DELLA FONDAZIONE Al centro di Pescara, nella sala della Maison Des Arts della Fondazione Pescarabruzzo, il sabato è musica. E la rassegna “Sabato in concerto” organizzata dalla Fondazione con il contributo dell’associazione musicale Mario Castelnuovo-Tedesco vuole garantire un alto livello culturale degli appuntamenti, spaziando però tra i tanti generi musicali, tra le proposte diverse che vengono da più parti del mondo, da scuole di pensiero diverse, insomma fotografando –in un certo senso– la realtà odierna, con tutte le sue molteplici sfaccettature. Ecco quindi il gruppo jazz, il pianista classico, il duo latinoamericano, la cantante lirica, la musica popolare e quella etnica, la canzone d’autore: dieci appuntamenti musicali di prestigio, “un’oasi di gusto e di intelligenza nelle scelte musicali, che si presentano libere dagli schemi mentali, aperte al
• In alto l presidente della Fondazione Pescarabruzzo Nicola Mattoscio, nelle altre foto immagini degli affollatissimi concerti
nuovo e alla contaminazione, proiettate verso i quattro punti cardinali della musica, nella migliore tradizione di una città di mare che è punto d’incrocio delle culture e ponte verso le altre, con l’ansia di scoprire, svelare, cercare, senza dover guardare al botteghino –i concerti sono tutti gratuiti– né a un facile compiacimento del pubblico”. Questi gli appuntamenti rimasti per la primavera: il 2 aprile Lucio Turco Trio featuring Riccardo Biseo (brani originali e perle del songbook brasiliano); Il 9 aprile Norina Angelini e Quintettango vi porteranno nella magica notte di Buenos Aires; il 16 aprile sarà infine la volta di Maria Gabriella Castiglione in “Atmosphere”, un concerto in equilibrio tra mondo classico e ispirazioni moderne tra Yann Thiersen, Ryuichi Sakamoto, Philip Glass e Wim Mertens. M.L.
Dischi/Fiorucci Già parlare di concept album sembra decisamente demodé. Quando poi all’interno di un disco ci trovi anche uno strumentale che, per dichiarazione dell’autore, omaggia i poliziotteschi italiani anni ’70, le cose diventano più chiare. È innamorato di un passato, il giovanissimo (classe 1984) Paolo Fiorucci, che non ha mai conosciuto per ragioni anagrafiche ma che ha esplorato e apprezzato fin da bambino. E lo trasporta con un moderno sound cantautorale, capace di confrontarsi con generi diversi, in questo cd che racchiude, come un cofanetto ritrovato in soffitta, otto “canzoni giocattolo” che hanno per protagonisti “sei personaggi antropomorfi” che una notte si svegliano “cercando un proprio posto nel mondo degli umani”. I riferimenti sono tanti e eterogenei, citati senza remore: Tim Burton, Tiziano Sclavi e Dylan Dog, H. C. Andersen, Simon & Garfunkel, i Baustelle, Pirandello, L. Frank Baum. Di certo c’è che Fiorucci (accompagnato dall’arrangiatore Vitale Di Virgilio in questo suo esordio) sembra avere le idee chiare: e in una generazione cresciuta a iniezioni massicce di MTV non è cosa facile. A.C.
Paolo Fiorucci Sei personaggi in cerca di cuore Autoprodotto, 2010
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Cinema
Sexy nostalgia Il circolo Overlook di Pescara riporta in auge due film anni ‘80 girati nel capoluogo costiero. Tra pruderie e commedia l’immagine di una città profondamente cambiata di Fabrizio Gentile
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orreva l’anno 1976, e mentre il cinema italiano di serie A sfornava capolavori come Novecento, Brutti sporchi e cattivi, Il deserto dei Tartari, Todo Modo e Il Casanova, un vasto sottobosco di registi e attori si dedicava a produzioni decisamente meno ambiziose, cavalcando il filone dell’erotismo all’italiana e puntando alla diffusione commerciale dei loro gioielli oltreconfine. Anche Pescara –che continua ad essere scelta come location anche ai nostri giorni, come per Liberi di G.M. Tavarelli– ha vissuto il suo momento di gloria: una gloria rinverdita dall’iniziativa del circolo Overlook che lo scorso gennaio ha offerto al giovane e meno giovane pubblico la possibilità di ammirare i due “capolavori” che il regista Sergio Bergonzelli girò proprio nella ridente cittadina costiera in quell’anno di (dis) grazia 1976, ovvero La sposina e Taxi Love. Il primo, decisamente migliore del secondo, vide (s)vestire i panni della protagonista la sensuale Antiniska Nemour, starlette di origini turche della tv nazionale, telefonista dell’allora seguitissimo Portobello di Tortora, attorniata da un cast improbabile
che annovera anche Riccardo Garrone in un ruolo neanche troppo di contorno e il recentemente scomparso Tiberio Murgia. La trama è, ovviamente, poco più che un canovaccio: neosposina dai costumi piuttosto liberali, la giovane commessa Chiara scopre che il marito, aspirante scrittore, soffre d’impotenza; riuscirà a guarirlo facendolo ingelosire e ne otterrà il successo. Nella finzione scenica Pescara è un quartiere di Roma (Tuscolano, per la precisione), e sono molti i luoghi cittadini immortalati in questo dimenticabilissimo episodio della commedia erotica: da piazza Salotto al negozio di Ferri, dalla storica aiuola di Piazza I Maggio al lungofiume, dalla riviera al porto; c’è, perfino, un inseguimento in automobile durante il quale si intravedono molti dei succitati luoghi (e che scatena in sala, per l’incongruenza degli accostamenti di montaggio, le risate degli autoctoni). Dietro la macchina da presa, oltre al già citato Bergonzelli, anche Mario Di Iorio, noto regista teatrale e cinematografico pescarese –che fortunatamente ha poi legato il suo nome a produzioni ben più significative– che in
occasione delle serate all’Overlook ha introdotto i film raccontando con grande ironia quegli anni e quelle esperienze. È lui, infatti, l’aiuto regista del successivo Taxi Love, successione sconclusionata di avventure erotiche di un gruppo di tassisti che accompagnano turiste straniere a visitare la provincia, offrendo ogni tipo di “servizio”: si riconoscono Atri, Penne, Spoltore e naturalmente non mancano scorci di Pescara (la casa del protagonista in via Piave, la stazione centrale, il lungomare). Malgrado la scarsa qualità delle pellicole (anche quella delle copie digitali presentate), va dato atto al circolo Overlook e al suo direttore artistico Paolo Ferri di aver organizzato un happening originale e divertente, che ha ottenuto fra l’altro un notevole riscontro da parte del pubblico, tanto da rendere necessaria una riprogrammazione a breve distanza di entrambi i film.
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Tabù
Il libro sul comodino… di Laura Grignoli Mi accade anche questo: che non mi trovo dove mi cerco. quanto mai bisogno. “La verità autentica” dice Mancuso “ha natura reE trovo me stesso più per caso che per giudizio. “L’aforisma di Schopenauer secondo cui è certo lazionale, coincide con il bene e con la giustizia, e Montaigne che l’uomo può fare ciò che vuole, ma non può perciò le idee che intendono rappresentarla si veri-
Avrei voluto parlare e riflettere su quello che sta succedendo nel mondo. Di quello che accade a sud del nostro sud. Ma non ho idee né sentimenti originali. Indirettamente, però, mi pongo la domanda sul perché accade quel che accade, sull’umanità che manca di umanità… Il libro sul comodino mi suggerisce come allontanarmi dal pensiero consueto e come orientare l’analisi di certi comportamenti non propriamente etici che sono alla base del nostro presente storico. L’umano autentico dov’è? Che cos’è l’autenticità, cosa ci permette di distinguere un “vero uomo” e di stimarlo, anche se partiamo da presupposti e convincimenti politici ed etici completamente diversi? Cosa ci permette di trovare l’autentico in chi è tanto diverso da noi? La vita autentica, datato ormai di un paio d’anni, sosta sul mio comodino, dono di compleanno di uno dei miei figli. Sono sempre pensierosa circa i motivi di questa scelta: non so se era un invito a una autenticità tardiva o la considerazione che ad una certa età non si leggono romanzetti ma cose “toste”… Fatto sta che lo leggo centellinando le parole, dense e stimolanti. E da oltre due anni non ancora arrivo all’ultima pagina. Non si può finire di leggere quello che ad ogni paragrafo ti apre un capitolo di riflessioni in testa! L’autore, Vito Mancuso, parte da una domanda (cos’è la vita autentica?) apparentemente attinente l’ambito filosoficoteologico ma in realtà sipario su una straordinaria prospettiva etica. E di etica di questi tempi ce n’è
volere se non quello che vuole, mi ha vivamente impressionato fin dalla giovinezza” –dice l’autore– “la vita autentica consiste nell’esercizio della libertà”. Se neanche con la risonanza magnetica funzionale, né con delle tecniche di neuroimaging oggi a disposizione si riesce a spiegare dove sorge e cos’è la coscienza, e con essa, la libertà, da ciò non è lecito dedurre che coscienza e libertà non esistano, ma semmai che le neuroscienze non sono adeguate a comprendere il livello dell’essere che si manifesta come coscienza, libertà, responsabilità, spiega l’autore. La torta non può esistere senza gli ingredienti e senza la ricetta, ma non è riducibile ad essi. L’autenticità è, mi pare di capire, innanzi tutto una fedeltà alla propria libertà e a sé stessi. Forse riguarda l’uso che si fa della libertà. Il progetto di un’esistenza impone sempre di trovare una misura dell’autenticità come fedeltà a se stessi, una fedeltà che si situi a metà strada, fra se stessi e gli altri, e che abbia pertanto come bussola un principio impersonale, e oggettivo, di valori. L’uomo autentico è per Mancuso colui che misura la sua libertà col metro della verità. Ma anche la verità, come l’autenticità, è concetto insidioso e per niente scontato. La verità che guida l’uomo libero non è dunque l’evidenza, nè l’esattezza, bensì qualcosa che si muove come si muove la vita.
ficano pragmaticamente sulla capacità di produrre bene e giustizia” . Un uomo è qualcuno che interpreta la propria libertà; uno che non obbedisce per obbedire, ma è qualcuno che pensa, per cercare la verità, perché sa che la più dura prigionia è quella verso sé stessi, che può essere sconfitta solo con un amore più grande dell’amore per sé stessi, che è appunto l’amore per la verità intesa come tensione alla giustizia e al bene. La vita autentica è dunque un viaggio alla ricerca della conoscenza, sostenuto dalla curiosità e dalla speranza, un viaggio senza fine, attraverso le relazioni. Oggi, nella cultura “ibrida” si ricerca una identità nella libertà da identità assegnate e statiche, nella licenza di sfidare le etichettature, ma in questa indefinitezza dell’io non c’è libertà. È una lotta senza requie per liberarsi di qualcosa e archiviata una cosa ne arriva un’altra da cui svincolarsi. L’uomo libero è l’homo eligens, ovvero l’uomo che sceglie, eppur che “non ha scelto”. La vita autentica è quella di chi mira a costruirsi il senso dell’esistenza, sapendo che l’originalità non è nei principi e negli ideali adottati, bensì nello sforzo irripetibile che ciascuno intraprende e mantiene puntando in una direzione precisa. La libertà. È talmente difficile questo percorso che ognuno di noi è un clandestino a bordo. In attesa di ottenere asilo e viene messo, invece, in un campo di attesa transitorio.
Come ci relazioniamo con le persone?di Galliano Cocco Questa volta proviamo a riflettere su un aspetto cruciale per l’uomo, visto che egli è, e si considera, un essere profondamente sociale, in continuo rapporto con gli altri. La domanda che ci incuriosisce è: qual è la modalità più efficace ed utile di relazionarsi con gli altri? Perché in alcune occasioni riusciamo a interagire in modo così naturale e produttivo ed altre volte, invece, ci accorgiamo di aver fallito e di non essere stati capaci di convincere, rassicurare, mediare o imporre un qualcosa? Una prima risposta sta nel fatto che non esiste uno ed un solo modo di comunicare in maniera ottimale e che l’efficacia è determinata dal contesto, dagli obiettivi, dagli strumenti e dalle peculiarità degli attori presenti sulla scena del processo comunicativo. L’altra questione è che noi non siamo sempre e totalmente consapevoli del nostro modo di agire e di porci rispetto agli altri per cui nel corso dell’interazione non gestiamo al meglio la situazione; anche perché, come più volte abbiamo sottolineato, la capacità di ascolto dell’altro è una merce molto rara! Ma senza ascolto –che significa anche saper osservare e sapersi mettere nei panni dell’altro– non si comprende e non si attiva una relazione adeguata! Per aiutarci in questa nostra riflessione e per fornire qualche spunto pratico al lettore proviamo ad analizzare alcune delle modalità utilizzate nella relazione interumana, cercando di capire quali sono gli aspetti utili e meno utili per ciascuno di esse. Nel corso della storia
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del pensiero dell’uomo sono stati molti gli studiosi che hanno riassunto i nostri modi di rapportarci con gli altri. Ricordiamo, ad esempio, la cosiddetta “caratteriologia ippocratica” (a sua volta basata su quattro tipologie di umori corrispondenti ai quattro elementi indicati da Empedocle: aria, fuoco, terra e acqua) che prevedeva il tipo sanguigno, collerico, melanconico e flegmatico. Oppure la distinzione fatta da C.G. Jung in due macro categorie: gli estroversi dagli introversi. A noi piace una codifica che troviamo molto pragmatica e che individua quattro principali modi di porsi: la passività, l’aggressività, la manipolazione e l’assertività. Nei prossimi appuntamenti analizzeremo ciascuno di questi atteggiamenti e, come premesso, ci soffermeremo sugli aspetti positivi e negativi di ciascuno di essi. Ora, però, per concludere, dobbiamo sottolineare un paio di cosette. Innanzitutto che nessuno dei quattro modi di essere è, in assoluto, meglio di un altro (anche se, ovviamente, l’assertività dovrebbe essere presente in maniera più frequente degli altri). Nessuno assume sempre lo stesso atteggiamento (la divisione è netta solo nello schema), anche se quello più frequente crea di fatto la nostra immagine agli occhi degli altri. Infine, ribadiamo che il punto di partenza per capire e sapersi relazionare alberga nell’assoluta necessità di avere la consapevolezza di quale atteggiamento si sta giocando in quel particolare momento.
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Personaggi
Un cuore nel deserto Da esploratore per gioco a esploratore per davvero: Storia di un ex insegnante che oggi insegna ad affrontare il deserto
di Mimmo Lusito
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er gioco e per passione. Il deserto è qualcosa che non puoi descrivere a parole, è un’emozione diversa ogni volta, è l’adrenalina dell’imprevedibile, è un desiderio e una scoperta. Tutte cose che Stefano Fazzini, abruzzese d’adozione (nato a Fabriano e giunto in Abruzzo da piccolissimo, vive a Città Sant’Angelo) conosce bene, perché dal 1985 ha una relazione col Sahara. Perché il deserto è un po’ come una donna, il cui fascino ti strega ed è difficile restarne lontani troppo a lungo. E così i sogni di bambino, quelli che “da grande voglio fare l’esploratore” pian piano si sono concretizzati in un più prosaico ma altrettanto evocativo “voglio andare nel deserto”, cosa che, appunto, Fazzini ha cominciato a fare per gioco, con alcuni amici, prendi un fuoristrada e via sulle dune. Ma non è così semplice: «Quando ho cominciato non c’era neanche internet, figuriamoci il Gps. Per preparare un viaggio ci voleva un anno. Ma lo facevamo, ci documentavamo su libri, carte geografiche, racconti orali, e dal 1985 ho cominciato così a esplorare il Sahara, con un primo viaggio di cinquanta giorni». Mentre faceva l’insegnante a tempo pieno, a Pescara, e in Africa ci andava solo in vacanza. «Dal 1992 ho cominciato a organizzare viaggi per altre persone, amanti del fuoristrada. E nel 2006 ho affittato una casa a Douz, in Tunisia, che ora ho trasformato in un Bed & Breakfast, punto di partenza per viaggi alla scoperta del Sahara». La maison du voyageurs è anche la sua casa, per sei mesi l’anno. «Di solito da maggio a settembre torno in Italia, perché lì ci sono 50 gradi e nessuno fa escursioni con quelle temperature. Ma i mesi invernali li trascorro lì, alle porte del più grande deserto del mondo». Tranne i primi mesi di questo 2011, perché «la rivolta del popolo tunisino mi ha spinto a tornare in Italia, pochi giorni prima che venisse deposto Ben Ali. A Douz ci sono state anche vittime, non c’era un bel clima e la situazione è tuttora piuttosto calda», racconta Stefano. «Ma appena possibile tornerò a occuparmi della Maison. Non è per desiderio di fuga, quando sono lì mi manca il vivere in società, conoscere persone, mi mancano cose come il cinema, il teatro. Ma il richiamo dell’Africa e del deserto è forte, non si può resistere».
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Vinitaly e Sol 2011
Brindisi per l’Abruzzo Le aziende vitivinicole e olearie fanno incetta di riconoscimenti. Febbo: «Una conferma al valore del nostro sistema e alla vocazione del territorio»
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ioggia di premi per le 80 aziende vitivinicole e le 27 aziende olearie –coordinate da assessorato regionale alle politiche agricole, Arssa e Centro Interno delle Camere di Commercio d’Abruzzo, in collaborazione con l’Enoteca regionale d’Abruzzo– che hanno partecipato dal 7 all’11 aprile ai due eventi più importanti dell’anno: il Vinitaly e il Sol. A Verona le aziende abruzzesi si sono fatte valere e hanno conquistato tanti riconoscimenti: al Concorso enologico internazionale –in gara 3720 vini, 1000 aziende da 30 paesi; attribuite 16 Gran Medaglie d’Oro, 17 Medaglie d’Oro, 19 Medaglie d’Argento e 18 Medaglie di Bronzo– l’Abruzzo conquista ben 9 Medaglie (2 Gran Medaglie d’Oro, 3 d’Oro, 2 d’Argento e 2 di Bronzo) e 100 Gran Menzioni, mentre al Concorso Sol d’oro le aziende olearie abruzzesi hanno riportato 4 Gran Menzioni. Nel dettaglio, l’Abruzzo del vino è stato premiato in tutte le principali tipologie: nei vini bianchi con 1 medaglia oro e 27 gran menzioni; nei rossi con 1 gran medaglia d’oro, 1 d’oro, 1 d’argento e una di bronzo in diverse categorie e 52 gran menzioni; mentre nella categoria rosati ancora una volta conquista l’en plein di tutte le medaglie a disposizione (gran d’oro, d’oro, d’argento e di bronzo) e 21 gran menzioni. Nel calcolo tra medaglie e gran menzioni la palma della migliore performance tra le aziende regionali va alla cantina cooperativa di Orsogna al quale è stato assegnato il Premio Speciale Gran Vinitaly per l’Abruzzo. Anche l’olio abruzzese, dopo il premio nazionale Sirena d’oro, continua la sua scalata: tra gli oltre 200 oli in concorso al Sol, arrivano 3 Gran Menzioni nella categoria “Fruttato Leggero” e 1 nella categoria “Fruttato Intenso”. «Questi premi –ha commentato l’assessore alle politiche agricole
Mauro Febbo– confermano il valore del nostro sistema, dalla vocazione del territorio alla qualità dei nostri produttori e dei nostri prodotti, che emergono nelle più importanti categorie e nelle diverse tipologie in concorso: nel vino i riconoscimenti arrivano per tutti i nostri vitigni, dal pecorino al trebbiano, dalla cococciola alla passerina, dal montepulciano rosso e cerasuolo ai vini bianchi e rossi da vitigni internazionali, mentre nell’olio si riferiscono a due delle tre categorie in gara». «Non potevamo iniziare questa nuova avventura in un modo migliore –ha aggiunto il presidente del Centro Interno delle Camere di Commercio Silvio Di Lorenzo– un biglietto da visita straordinario soprattutto alla luce dell’ampiezza dei risultati che sicuramente rappresentano un ulteriore elemento di attrazione per operatori commerciali e giornalisti accreditati in fiera». M.L.
Vola, vola vola il cantuccio tricolore
È
una livrea tricolore quella che ha vestito per il centocinquantesimo compleanno dell’Italia unita il Cantuccio d’Abruzzo, prodotto di punta della dolciaria Falcone. E per l’occasione ha fatto il suo ingresso trionfale nelle bouvette del Parlamento, finendo direttamente tra le mani del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, durante
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le celebrazioni dello scorso 17 marzo. Unico fra i prodotti tipici ad aver onorato la festa tricolore, il cantuccio d’Abruzzo nell’edizione patriottica è stato immediatamente ordinato dai catering Rai per la serata celebrativa e dalle maggiori compagnie aeree nazionali –Alitalia, AirOne, Meridiana e Blue Panorama– e perfino dalla tedesca Lufthansa. A.C.
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Luciano Passeri
di Alessio Di Brigida
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er essere campioni del mondo bisogna essere proprio bravi. C’è bisogno di preparazione e di tecnica, ma poi occorre anche essere coraggiosi e innovativi; servono anche un pizzico di fortuna e qualche espediente. «La pizza con cui ho raggiunto questo risultato è una pizza “di rottura”, del tipo che o si odia o si ama: ho unito dolce e salato, usando crema di zucca molto dolce abbinata a pancetta, gorgonzola, pomodorini marinati e mozzarella, guarnita a fine cottura con scaglie di Parmigiano Reggiano. Un equilibrio di sapori che la rende unica e che mi ha fatto ottenere il massimo del successo dovunque. Come impasto sono stato molto attento a rispettare tutte le temperature, dosando bene tutti gli ingredienti e preparandolo tre giorni prima così da portarlo alla giusta maturazione proprio per il giorno della gara. E poi mi è venuto in soccorso anche il prodotto abruzzese: oltre all’olio (extravergine di oliva delle colline teramane), dato che i giudici avevano degustato, prima della mia, molte altre pizze, ho offerto loro un vino trebbiano delle colline teramane in purezza, che aveva la giusta acidità, così da “ripulirgli” il palato, e poi ho lasciato che degustassero la mia pizza». Luciano Passeri, titolare della pizzeria Milù di San Giovanni Teatino, racconta così il segreto del suo successo, quando è stato incoronato campione mondiale a Salsomaggiore. La “Mamilù”, la pizza vincitrice, che propone nel menu del suo locale, «si chiama così dai nomi della mia famiglia: le mie due figlie Martina e Michela, mia moglie Michaela e io, Luciano». Nel mondo, continua Luciano, «ci sono grandi professionalità dappertutto. Anche se per esempio negli USA i pizzaioli bravi sono quasi tutti italoamericani. Molto bravi gli egiziani, i marocchini. Ma la nostra cultura costituisce un valore aggiunto, la pizza è nel
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Pizza È un pescarese il numero uno della pizza. Vanta successi internazionali dal campionato del mondo a Salsomaggiore al premio di Las Vegas. Il suo segreto: materie prime di grande qualità e fantasia nell’accostamento dei sapori
dna degli italiani». Quali sono le caratteristiche di una buona pizza? «Deve essere digeribile e fragrante. Il segreto non sta tanto negli ingredienti ma nell’amore e nel tempo che si impiega a farla. Non è solo la lievitazione che rende buona la pizza, ma la maturazione, cioè un processo di scomposizione molecolare di elementi complessi in semplici, che avviene solo col trascorrere delle ore. In poche parole, bisogna fare la pasta della pizza e servirla dopo alcuni giorni, non bastano poche ore; questo permette agli enzimi di scomporre lo zucchero complesso (l’amido) in zucchero semplice (glucosio), le proteine in aminoacidi e così via. Ed è questo il segreto di una buona pizza». Quindi un vero pizzaiolo deve avere competenze specifiche: in materia di trasformazione degli alimenti. Un’immagine molto lontana da quella romantica tramandataci dal folclore. «È importante conoscere la chimica naturale: come la frutta ha bisogno di essere matura per essere mangiata, e la carne va frollata in frigorifero altrimenti è dura e indigesta, la stessa cosa avviene per la pasta della pizza, che va preparata e lasciata a maturare. Ecco perché servire una pizza con pasta fatta da poche ore è sbagliato e inficia la qualità del prodotto». Si fa presto a dire pizza. Ma esiste una classificazione ufficiale? «Sì, c’è la “pizza classica” italiana, quella al piatto, cotta al forno (elettrico o a legna) direttamente su mattoni refrattari, con l’aiuto di una pala; grande circa 33 cm, croccante fuori e soffice all’interno, cotta a circa 320-350° in forno a legna o elettrico, per 2,5-3 minuti. Poi c’è la pizza in teglia, cotta in lastre di ferro di • Nella pagina a fianco Luciano Passeri. Nel riquadro la targa conquistata al campionato mondiale della pizza. Sopra la pizza Mamilù con la quale ha vinto il titolo
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a mondiale
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• Luciano Passeri con i suoi collaboratori. Al centro la pizza “Aquilotta”. Nella pagina a fianco la famiglia Passeri al completo e una veduta della pizzeria
varie forme e dimensioni. E qualsiasi pizza che venga servita a spicchi o quadrati è “pizza al taglio”, ma questa è una distinzione esclusivamente formale». E la pizza napoletana? «Per quella il discorso è a parte, è una specialità territoriale garantita (Stg), e va fatta secondo le regole del disciplinare: ingredienti specifici (si devono usare solo pomodori, basilico, mozzarella o fiordilatte, olio extravergine di oliva che provengano tutti dall’appennino centro-meridionale), bordo alto circa 3cm, quindi con un maggiore volume di pasta in quello che tecnicamente si chiama “cornicione”; cottura esclusivamente in forno a legna, a circa 400-450° per 1’20”; non deve avere più di 25-28cm di diametro e si divide in quattro tipologie: la marinara (aglio, olio e origano), la napoletana (pomodoro, mozzarella, basilico, olio e acciughe), la margherita (pomodoro, mozzarella, basilico, olio) e la margherita extra che è quella con la mozzarella di bufala e pomodorini campani». Da chi sei stato giudicato per diventare campione del mondo? «Tutti esperti del settore: maestri pizzaioli, chef, nutrizionisti, biologi, insomma un pool di addetti ai lavori. L’unica “estranea” era Cristina Chiabotto, che in quanto Miss Italia era stata giustamente scelta per fare la madrina della cerimonia. Più italiana di così…» Come funziona il concorso? «C’è una giuria tecnica che valuta la professionalità del pizzaiolo: dai metodi di lavorazione fino all’immagine complessiva, uniforme, cappello, perfino se ha barba lunga o orecchini; poi quattro esperti giudicano invece il prodotto, la sua cottura e il
gusto». Con la pizza: vino o birra? «La pizza “chiama” tutto, dipende dai gusti. Personalmente preferisco la birra, nel mio menu consiglio anche gli abbinamenti migliori. Per l’accostamento vino-pizza serve invece una certa competenza da parte del consumatore. Ma bisogna sempre fare attenzione alla cottura della pizza: se è poco cotta i lieviti potrebbero entrare in contrasto con quelli presenti nella birra; fermo restando che una pizza poco cotta creerebbe problemi di digestione anche in abbinamento col vino». Tu sei uno di quelli che quando fanno la pizza concedono qualcosa allo spettacolo? «Far volteggiare la pasta è importante: le permette di allargarsi senza lo “stress” delle mani che ne possono rompere le microbolle d’aria all’interno (quelle che consentono sostanzialmente la cottura della pizza, che si cuoce grazie all’eliminazione dell’umidità), e elimina la farina da spolvero in eccesso. Poi c’è chi fa proprio il giocoliere, ma quella è una cosa che serve meno». Parliamo di farciture. «Oltre alla Mamilù ho creato l’Aquilotta, una pizza dedicata all’Aquila, dopo il terremoto, con ingredienti tutti locali: mozzarella, pancetta di Campotosto, due pecorini di Castel del Monte, marcetto, patata di Avezzano, zafferano di Navelli, rosmarino, e trebbiano di Ofena. In uscita, è stata guarnita con miele di Scanno, e in abbinamento vino cotto. Al “Trofeo dei due mari” ci ho vinto il primo premio». Un’altra pizza dai gusti particolari… «Sì, per me le gare sono così, o la va o la spacca. Ecco perché “gio-
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co duro”, mi lancio in equilibri particolari. Mi interessa il podio, zese è molto forte, il prodotto locale è in crescita. Abbiamo un non il decimo posto. Un’altra con cui ho ottenuto un primo pre- ottimo livello qualitativo, il che ci fa ben sperare per il futuro». mio è stata una pizza in teglia, con carciofi e crema di carciofi; ot- E a questa professione come ci sei arrivato? timo risultato, peraltro conseguito in territorio straniero, quello «Non ho una tradizione di famiglia, i miei vendevano giocattoli della Las Vegas, dedicata alla città che ci ospitava per il concorso: (sono i Passeri del famoso negozio di modellismo e giocattoli una 4 formaggi rossa con salame piccante, funghi e olive nere. a Pescara, ndr) e mio padre aveva un miniautodromo dove si Anche quello è un concorso molto ambito: ti danno una lista svolgevano gare di auto radiocomandate; ho cominciato lì a cudi ingredienti, e per la pizza tradizionale devi usarne al massi- cinare qualcosa –primi, focacce, pizze– per i partecipanti, è stato mo due o tre, mentre per una pizza non tradizionale hai mano il mio laboratorio. Lì ho capito che la cucina tradizionale non mi dava soddisfazione come libera. Io ero nella categoria invece la trasformazione totatradizionale, ho avuto qualche le del prodotto, la lievitazione, difficoltà a trovare le materie la panificazione. Spinto dalla prime ma mi sono classificato passione, ho bruciato le tappe: terzo, mentre il mio maestro è ho fatto lo stagionale, mi sono giunto primo». affiancato ai migliori, ho osserOggi gli chef sono protagovato e imparato; mia madre, nisti, spesso anche mediatici. di origini partenopee, mi ha Il pizzaiolo può considerarsi introdotto nell’ambiente deluno chef? le pizzerie napoletane. Nel ’99 «Direi più un artigiano. Parto ho aperto il primo ristorante dalle quinte, nella ricerca di PIZZERIA MILÙ Viale Amendola 19/21 Sambuceto-CH (lungo la Tiburtina, da Pescara in dove ho avuto persone molto materie prime di qualità per direzione Chieti, dopo il centro commerciale Auchan) competenti, che mi hanno inseottenere il prodotto che voglio. Tel. 0854409031-3408436051 – www.pizzeriamilu.it gnato a lavorare. E sono andato Non sono certo una primadonna, ma lavoro per passione e mi piace parlare del mio lavoro ai avanti con corsi e concorsi fino al 2004 quando ho aperto la pizmiei clienti. Oggi poi ci siamo evoluti, da “pizzettari” siamo di- zeria Milù». Pensi di allargare l’attività? ventati “pizzaioli”, così come esistono i “cuochi” e gli “chef”». «Mi piacerebbe, ma ho il timore che passare da artigiano a imLa differenza tra chi “fa da mangiare” e chi “cucina”… «Esattamente. E grazie anche a scuole come l’Accademia Pizza- prenditore mi distoglierebbe dall’attenzione al prodotto. In reioli (con sedi in tutta Italia, di cui due in Abruzzo: a Pescara, dove altà ci ho provato, ma ho avvertito questo rischio e sono tornato insegno io e a San Nicolò a Tordino dove invece c’è il mio amico indietro. Del resto partecipare a gare e concorsi già mi porta a Gabriele Fazzini della pizzeria “Il girone dei golosi”) la categoria stare spesso lontano dal ristorante, e se dovessi occuparmi anè migliorata, cresciuta. Diciamo che l’arte della pizza si è molto che di altri punti vendita rischierei davvero di aumentare le asavvicinata all’arte culinaria; a livello regionale la squadra abruz- senze. Ho paura di inciampare».
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Ekk l’Abruzzo
EKK
In tremila metri quadri firmati dal gruppo Febo il meglio della regione. Un mercato di prodotti tipici agroalimentari, un ristorante, un’albergo a quattro stelle e un garden.
di Mimmo Lusito foto Andrea Carella
A
ll in one, cioè tutto in un’unica struttura: una formula che trova sempre più applicazioni nella tecnologia, nel business, e adesso diventa la filosofia del gruppo Febo e della loro nuova sede, l’ex Cantina Santangelo (a Città Sant’Angelo, per l’appunto) nei cui locali nasce “Ekk - Abruzzo in sintesi” che vuol dire il meglio dell’Abruzzo in termini di ambiente, enogastronomia e accoglienza.Tutto in uno. Ekk (una parola che significa, in vernacolo,“qui”) è infatti un garden, un albergo, un ristorante e un mercato permanente di prodotti tipici regionali: un importante punto di riferimento per il territorio turistico e agroalimentare d’Abruzzo. L’idea è venuta a Umberto Febo, titolare del Gruppo omonimo, che negli anni è diventato il numero uno del florovivaismo in Abruzzo (e non solo). «Ho avuto occasione di lavorare, trentadue anni fa, come cameriere –racconta– proprio nella Cantina Santangelo, il giorno della sua inaugurazione. La sede di Febo Garden è sempre stata a poca distanza da qui, e avevamo bisogno di uno spazio nuovo e migliore. Quando dieci anni fa la cantina è stata abbandonata, un’idea ha cominciato a nascere in me». Un’idea che oggi è diventata realtà anche grazie a due esperti del settore, Claudio Ucci della Euroconsulting srl e Tino Di Sipio, consulenti l’uno di marketing turistico e l’altro di prodotti tipici. «Insieme –prosegue Febo– abbiamo progettato una struttura originale non solo per l’Abruzzo ma per tutta Italia. Il complesso, che ospita il nuovo Febo
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Garden, si estende per oltre 30mila metri quadrati, con più di 250 posti auto, e con servizi ricettivi (Ekk Hotel, in gran parte ricavato dalle vecchie botti di cemento nella torre), ricreativi (Ekk Cafè) ed enogastronomici (Ekk Ristorante), con in più una chicca tutta nostra: Ekk Tipico d’Abruzzo, un intero piano interrato, accessibile via tapis roulant, dedicato al mercato permanente delle produzioni tipiche abruzzesi, allestito come non lo si è mai visto». A gestire i 5mila metri quadrati coperti del Garden ci pensa Antonella Febo, contenta della nuova sede: «Avere più spazio significa poter gestire meglio l’esposizione all’aperto di piante, vasta 3mila metri quadrati, e la suddivisione dei 5mila mq al coperto in settori dedicati alla casa, giardino e orto. Potremo poi organizzare con più efficacia le nostre mostre, come quella sulle orchidee, sulle piante grasse, sulle erbe aromatiche». Nel Febo Garden di Ekk, tra le altre cose, saranno organizzati corsi di botanica in cui sarà possibile approfondire la cura delle proprie piante, dalle rose alle orchidee. In affiancamento saranno organizzati dei laboratori di ricerca sui giardini pensili, su quelli verticali e sugli orti in balcone, veri cavalli di battaglia del gruppo Febo. A Tino Di Sipio,“talent scout del gusto”,è affidata invece la gestione di Ekk Tipico d’Abruzzo, il mercato del prodotto tipico regionale. «È diviso in quattro settori –spiega Di Sipio– che riflettono i territori delle province abruzzesi: Chieti, L’Aquila, Pescara, Teramo. Sarà un modo per raccontare quell’Abruzzo che si
•In alto il Centro Ekk realizzato nell’ex cantina sant’angelo a Marina di Città Sant’Angelo.
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presenta diviso in quattro non solo per motivi climatici, ma anche linguistici, con quattro dialetti totalmente diversi, e soprattutto quattro gastronomie distinte. Il vino Montepulciano d’Abruzzo, ad esempio, è diverso a Teramo rispetto che a Chieti o L’Aquila o Pescara». I colori degli scaffali sono abbinati ciascuno a una determinata area di provenienza: il giallo dello zafferano dell’Aquila, il verde simbolo dell’agricoltura di Chieti, il rosso vinaccia che ricorda il vino per Teramo e l’azzurro del mare di Pescara. E nella Bottega di Ekk è possibile acquistare piccole porzioni di salumi e formaggi, novità che consente a chiunque di portare a casa il meglio anche in quantità limitata. Direttamente collegato al mercato è Ekk Ristorante, affidato allo chef Gabriele Marrangoni: un ambiente elegante, ma non impegnativo dove scoprire la cucina del territorio. «È la filosofia del “chilometri zero” al suo massimo –spiega lo chef– o meglio del “metri zero”: tutti gli ingredienti, formaggi, salumi e altre specialità derivano direttamente da Ekk tipico d’Abruzzo. Il menu è dettato dalle stagioni e dalla volontà di promuovere le produzioni tipiche da salvaguardare, come ad esempio l’aglio rosso di Sulmona, il peperone dolce di Altino e il carciofo di Cupello. Ad emergere non sarà solo la varietà della cucina regionale perché l’attenzione è rivolta anche alle specificità provinciali». E dato che il buongiorno si vede dal mattino, «per la colazione prepariamo un buffet di dolci fatti in casa, crostate e ciambelloni, il tutto senza grassi idrogenati e
senza additivi da accompagnare magari allo yogurt prodotto nella zona. Per chi ama il salato anche subito dopo il risveglio Ekk offre ricotte, giuncatine e altri formaggi freschi. Accanto a tutto questo vi sarà anche una carta dedicata alle colazioni calde con i piatti caratteristici della tradizione contadina». Già, perché la vera novità sta nell’Ekk Hotel, gestito da Lorenzo Ucci: un “Eco hotel”,in realtà: è affiliato alla catena Ecoworld Hotel, ovvero alberghi eco-sostenibili grazie ai materiali ed alle tecniche di realizzazione utilizzati. Una particolare attenzione alla ecocompatibilità viene prestata sia nella gestione alberghiera (risparmio energetico, raccolta differenziata, risparmio idrico, accorto uso dei detersivi, utilizzo di materiali ecologici, ecc.) che nella scelta di prodotti e servizi riservati all’ospite. «Alcune delle 33 stanze –spiega Ucci– sono ricavate nelle cisterne della vecchia cantina, una volta usate per la conservazione del vino. Tutte le camere, che godono di un’incantevole vista panoramica che spazia dal Gran Sasso alla Maiella fino al mare, sono arredate con gusto e dotate di tutti i comfort. Ogni ambiente è il frutto del recupero di un luogo dove un tempo nasceva il vino». E c’è anche un business centre, composto di 2 sale per una capacità da 70 a 120 posti e di 12 uffici temporanei plurifunzionali, in grado di soddisfare qualsiasi tipo di richiesta: incontri e riunioni di lavoro, seminari aziendali, conferenze, convegni e corsi professionali. Insomma, tutto il meglio dell’Abruzzo, all in one.
• Autorità e famiglia Febo all’inaugurazione di Ekk, Umberto Febo con l’architetto Mario D’Urbano che ha firmato il progetto di ristrutturazione nell’area garden, a
destra con Claudio Ucci direttore dell’albergo nel mercato dei prodotti tipici, sotto una stanza d’albergo e un padiglione del centro vendita garden
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I primi 125 anni della De Cecco
Ma la pasta sì
È bio, è buona, è De Cecco: con questo slogan il pastificio di fara S. Martino presenta al Pastatrend la nuova linea biologica. E festeggia i suoi 125 anni con una live performance del grande Heinz Beck
C’
erano Renzo Arbore,Valeria Marini, Marisa Laurito, Vincenzo Salemme. Non era però una mostra del cinema, né un concerto di musica napoletana, e neanche un reality televisivo. È stato invece il parterre di Pastatrend, il salone internazionale della pasta, che dal 2 al 5 aprile alla fiera di Bologna ha celebrato la sua seconda edizione con una serie di appuntamenti che hanno visto la partecipazione di ospiti prestigiosi. E non poteva mancare la presenza dell’Abruzzo, che in fatto di pasta dice la sua da moltissimi anni. Centoventicinque, per la precisione: gli anni di attività del pastificio De Cecco di Fara S. Martino, che al Pastatrend 2011 ha presentato anche un rinnovato packaging con tricolore e stemma “made in Italy”, realizzato proprio in occasione delle centocinquanta primavere dell’unità d’Italia. E, naturalmente, anche per rimarcare l’autenticità del “prodotto alimentare made
in Italy per eccellenza”, come ha definito la pasta Paolo De Castro, presidente della commissione agricoltura del parlamento europeo. Un dovere, visto che la pasta italiana –e la De Cecco in particolare– vanta, come un noto settimanale, “innumerevoli tentativi d’imitazione”. Ma la kermesse bolognese è stata anche l’occasione per la De Cecco di presentare al pubblico la nuova linea biologica: quindici formati di pasta (in confezione da tre chili, pensata appositamente per la ristorazione collettiva) più l’olio extravergine di oliva da coltivazione biologica. «Abbiamo constatato –ha spiegato Luciano Berardi, direttore commerciale del gruppo De Cecco– che troppo spesso, sull’altare dell’immagine del cibo naturale, genuino, sano e rispettoso dell’ambiente, nel realizzare prodotti bio si sacrificano due aspetti fondamentali, la qualità e il gusto, che invece sono al centro della filosofia De Cecco. I nostri prodotti da 125 anni vengono
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pensati e realizzati per essere buoni e di grande qualità. Naturalmente, quando abbiamo deciso di cimentarci nel biologico non potevamo tradire noi stessi e le attese dei consumatori. Ma al tempo stesso sapevamo bene che in questo campo dovevamo fare i conti con una situazione diversa. Per produrre una grande pasta noi della De Cecco badiamo molto alla selezione dei migliori grani. Nel campo del biologico questa possibilità di scelta si restringe di molto. E c’è voluta tutta l’esperienza di un’azienda che da 125 anni produce una delle migliori paste al mondo, per realizzare anche in questo campo un prodotto che nel piatto mantenga la promessa e possa far dire ai consumatori: è bio, è buona, è De Cecco». Il pastificio di Fara San Martino esporta i suoi prodotti in 96 Paesi tra cui Usa e Giappone, dove è presente da 26 anni in 300 ristoranti di Tokio, ma la pasta prodotta in Abruzzo arriva anche nelle
mense scolastiche e nelle cucine di molti ristoranti italiani. E naturalmente anche nel prestigioso Roof garden restaurant La Pergola, dove il grande Heinz Beck, chef che vanta tre stelle Michelin, la utilizza regolarmente: «E sempre con grande successo, in tutti i miei ristoranti in Italia e all’estero. Ho un ottimo rapporto con De Cecco, abbiamo studiato insieme una linea di salse e condimenti totalmente prive di conservanti, aromi naturali, acidificanti ed eccipienti», ha detto Beck durante il suo “live cooking” al Pastatrend, promosso dal pastificio De Cecco insieme allo showman Renzo Arbore. Il grande chef ha festeggiato i 125 anni del pastificio abruzzese cucinando «delle mezze penne all’arrabbiata, dei rigatoni al ragù bolognese e linguine con pesto alla genovese». Ricette semplici e geniali. Come la pasta De Cecco. M.C.
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Crustacea Italia
Il profumo dell’Aragosta Una proposta innovativa e uno slogan azzeccato per un’attività che riscuote sempre maggior successo
A
stici, aragoste e King Crab, ovvero il meglio dei crostacei. E tutti a prezzi contenuti, grazie ad un’idea semplice e vincente: accorciare la filiera e passare dalla vendita all’ingrosso a quella al dettaglio. L’idea è venuta a Matteo Cipriani, a capo di una cordata di sei imprenditori che hanno maturato anni di esperienza nella vendita di prodotti ittici all’ingrosso, ai ristoranti e alla grande distribuzione; ora Crustacea Italia (questo il nome della neonata società che ha aperto i battenti lo scorso dicembre) è passata a vendere i suoi prodotti, esclusivamente crostacei di pregio, anche al dettaglio, raggiungendo così una clientela che difficilmente, per ragioni economiche, si avvicina ad aragoste, astici e granchi, nutrienti e gustosi. E tutto per il piacere di portare sulla tavola di chiunque “tutto il vivo a casa tua”, ovvero il gusto e
il profumo esotico dei mari del Sud. Da questi mari, per arrivare direttamente a casa vostra, i pregiati crostacei passano soltanto per il punto vendita di Via Tiburtina a Pescara, dove vengono custoditi vivi dopo essere stati pescati, “stabulati” e trasportati (in un arco massimo di sette ore) per via aerea dal Cile, dal Sudafrica, dal Portogallo e dal Mediterraneo; il King Crab –un enorme granchio del peso di circa tre chili– invece viene dall’Alaska, sua “terra” di nascita. Oltre ad avere un sapore eccezionale, questi crostacei sono un alimento con apporto calorico ridotto, per cui sono particolarmente adatti ai regimi dietetici. M.L. Crustacea Italia, Pescara Via Tiburtina Valeria, 427 Tel 085 4979403 www.crustaceaitalia.com
VALORI NUTRIZIONALI DEI CROSTACEI La carne dei crostacei è simile a quella del pesce magro. In 100 grammi di prodotto pulito si trovano 80-82 grammi di acqua, 1-2 grammi di grassi e 14-17 grammi di proteine. Una caratteristica dei crostacei è il contenuto di colesterolo più alto rispetto ai pesci e ai molluschi; nei crostacei inoltre sono presenti molti sali minerali, ad esempio sodio, potassio e calcio ed alcune vitamine (soprattutto B1 e B2). A.C.
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Enoteca don Gennaro
Una storia di vino
di Giorgio D’Orazio foto Andrea Carella
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a “Ciarrocchi” si va a mezzogiorno e alle sette di sera. Chi vi entra solo per acquistare bottiglie di vino, birra, liquori o distillati, non è contemplato nella fauna del luogo. Il “luogo” è al di qua d’una linea invisibile che coincide con la cassa e con l’ingresso, tagliando a metà il mondo dei clienti da quello degli avventori. E quello di questi ultimi, che ha il fulcro nel vecchio bancone-frigo con una sfilza di cannule per la mescita, è il cuore di una vineria che nel 1918 cominciava a rifornire di vino Castellammare Adriatico grazie ai commerci di don Gennaro. La location storica e odierna risale però agli anni ’30, collocata al piano terra (con annessa cantina visibile dalla strada) del palazzo che i Ciarrocchi edificarono a Largo Scurti (attuale piazza Muzii), su via Cesare Battisti. C’era già un giovane don Vincenzo (scomparso nel 2006), il vinaio più rispettato d’Abruzzo, che portò in città i vini toscani, siciliani e calabresi e molte altre tipicità, mentre la sua signora gestiva il banco alimentari oggi sgombrato. Un tipo burbero ma sinceramente buono, sempre giusto, capace di stupirti con un gesto di generosità inaspettata o di farti scappare via trafelato se qualcosa non filava come voleva; una bella figura di cui tutti oggi parlano con affetto. Ricordo negli ultimi anni che sedeva su due cartoni a lato della porticina che conduce in cantina e nell’androne del palazzo, tipico da casa-bottega qual era il suo universo, e con gli occhi dietro agli occhiali spessi, sopra ai baffoni bianchi, e con le mani grandi per aiutarsi nella narrazione, ci raccontava della guerra, mentre il fido Twister scodinzolava nel negozio. Ci raccontava ad esempio di quando fece volare per
Dagli anni Trenta a oggi, il lavoro di u na famiglia si intreccia con la storia di una città che cambia le scale un ufficiale inglese perché maltrattò una pescarese che domandava viveri per la prole, oppure di quando distribuì vino e altri generi a tutti, glissando la “tessera” alimentare, per festeggiare la nascita del figlio maschio. Quel figlio è Gennaro, che già cominciamo a chiamare “don”, tornato dopo la pensione all’attività paterna insieme al figlio Matteo, ventiquattrenne, che dal nonno ha ricevuto direttamente il testimone della “Vineria don Gennaro”,come si chiama adesso. Vinaio di quarta generazione, un carattere risoluto e impossibile, tutti i giorni, domenica escluso, mesce vino nei “piccolini” o nel loro doppio, i “manichetti”,stesso bicchiere nel quale poi versa un Campari soda e lo colma di bianco per far pedalare gli avventori con “la bicicletta”.E questi, tra cui un attempato gruppo di fedelissimi quotidianamente impegnati là, sono delle più varie specie: e oggi che si sono aggiunti i nuovi, ora “alternativi” ora “radical chic”, l’ambiente si colora di mestieri e casi umani variegati, ed è garantita un’atmosfera democratica di dialettica mai sopita. Se si passa per Pescara insomma non si può fare a meno di sbicchierare in questo ritrovo indelebile della città, che tira giù antipaticamente le serrande alle 20.30, dove il tempo non s’è fermato ma scorre ancora ai ritmi di una volta. Dietro al bancone troverete appunto don Gennaro e Matteo, che ormai vantano una cantina fornita a tutti i livelli, con prodotti nostrani e stranieri, e permettono ancora di vivere a questa popolarissima mescita. “Sempre bene! Meliusque semper!” è ancora il loro motto: con Matteo staremo a vedere.
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Agriturismi
L’oliveto L’
azienda prende il suo suggestivo nome dal secolare oliveto che la circonda, creando un ambiente bucolico che garantisce relax e benessere senza perdere i comfort della vita cittadina. L’edificio principale è un antico casolare completamente ristrutturato al cui interno sono stati ricavati due appartamenti da 4/6 persone composti da due camere grandi, una cucina e un bagno; all’interno della tenuta sono successivamente state realizzate due baite in legno a tronco intero, con veranda, per 4 persone ciascuna. Potrete scoprire la cultura enogastronomica del territorio, caratterizzata da tanti piatti tipici tra cui i tradizionali arrosticini e le tante varietà di carne da fare alla brace, sull’apposito punto fuoco allestito in giardino, accanto a un gazebo per i picnic. Per chi desidera rilassarsi in azienda, l’Oliveto dispone di una piscina dove godere il fresco nelle giornate estive,
un campo da tennis e uno di bocce. Nelle vicinanze si può praticare il parapendio, percorrere i sentieri delle valli dell’Orta e dell’Orfento, e risalire i fiumi ammirando paesaggi maestosi e suggestivi. Nel vicino paese di Tocco da Casauria, famoso per il liquore Centerba che da sempre vi si produce, si possono visitare il convento dell’Osservanza con la Chiesa della Madonna del Paradiso e la casa natale del grande pittore e fotografo Francesco Paolo Michetti. Nei pressi del paese si trovano anche la magnifica Abbazia di San Clemente e la chiesa del Volto Santo a Manoppello, dove si conserva il fazzoletto sul quale è impressa l’immagine del volto di Gesù. A meno di mezz’ora di strada poi si trovano Pescara e il suo splendido litorale, affacciato sul mare Adriatico, azzurro e placido, che d’estate offre mille occasioni di M.L. divertimento per tutti i gusti.
L’Oliveto - C.da S.Anna, Tocco da Casauria (Pe) Tel. 0858809178 Cell. 3488132970 / 3337345503
Il berrettino I
n un panorama incantevole, circondata da vigneti, oliveti e colline dai colori cangianti a seconda delle colture e delle stagioni l’azienda agrituristica Il Berrettino è l’oasi perfetta per chi cerca relax in campagna a poca distanza dai centri abitati. La pace e la tranquillità regnano sovrane in questa fattoria circondata da un bosco e da un parco dove prosperano rigogliosi gli alberi della macchia mediterranea. Il ristorante accoglie 50 ospiti offrendo una cucina rustica ma estremamente raffinata a base di specialità della tradizione teramana. Tutti i prodotti provengono dall’azienda agricola: il vino Doc Montepulciano e Trebbiano, l’olio extravergine di oliva, il famosissimo Pecorino di Atri e i salumi. Le camere sono otto (6 doppie e 2 triple) più un appartamento indipendente per cinque persone. I bagni sono dotati di vasca, doccia e doppio lavabo. All’esterno una grande piscina (15x8x3,5 m. di profondità) permette di nuotare guardando il Gran Sasso; dispone di un trampolino, di lettini, sdraio e ombrelloni per godere di un po’ di frescura anche nelle giornate più afose. E se proprio non potete stare fermi,
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Contrada Berrettino, 31 Atri (Te) Tel: 085 9353122 Mobile 335 249967 www.berrettino.it info@berrettino.it
il centro storico di Atri è a due minuti di macchina, il mare è poco distante e per chi vuole far spese, a venti minuti d’automobile c’è Pescara. All’azienda è annesso un maneggio privato di 1.400 mq. con una scuderia di 8 cavalli e tre pony. Un istruttore è a disposizione di chi voglia cimentarsi con le attività equestri: tranquille passeggiate nel verde in sella a splendidi destrieri, o interessanti lezioni di equitazione. A cavallo si possono effettuare escursioni in campagna o all’interno del bosco privato dell’azienda. L’azienda agricola Il Berrettino è facilmente raggiungibile dall’autostrada A14 Bologna – Bari. Per chi proviene da nord l’uscita è Atri - Pineto, per chi proviene A.C. da sud l’uscita è quella di Pescara nord.
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...la Spase
(la distesa)
Zafferano dell’Aquila in stimmi Da Seicento anni alle pendici del Gran Sasso, nella Piana di Navelli (AQ), si coltiva lo Zafferano. Per due mesi l’anno, le famiglie dei produttori locali raggruppate in cooperativa, si dedicano alla coltura di questo prodotto. La produzione ormai da secoli, è realizzata tutta manualmente. I fiori vengono raccolti a mano all’alba, quando sono ancora chiusi. Da essi vengono estratti i tre stimmi, che sono messi ad essiccare al calore della brace, in un setaccio posto sul camino. Servono 200 mila fiori per ottenere un chilo di Zafferano. Lo Zafferano d’Abruzzo, per l’aroma delicatamente amarognolo è considerato tra i più pregiati del mondo.
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Sapori e Tradizioni da Scoprire
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Soste
Caffé Venezia I
l caffè Venezia di via Regina Margherita a Pescara dispone di un nuovo spazio riservato ai dolci e a prelibatezze per palati particolarmente raffinati, curato dal Maitre sommelier Fernando Nucci. Tra le nuove proposte si consiglia il favoloso Ananas flambé al Cordon rouge, vera delizia che completa un’offerta di torte e gelati preparati dall’ottima pasticceria della casa. Lo spazio, che va ad aggiungersi a quelli già esistenti e riservati al pranzo/cena veloce, all’aperitivo, alla colazione e alla degustazione di vini, si propone anche come luogo per il brunch del Caffè Venezia, che offre piatti cucinati dallo chef: dal pesce alla carne ai primi piatti e ai contorni, con ampia scelta per tutti i gusti. M.L.
Dapper I
l centro di Pescara si arricchisce di un nuovo locale moderno e accogliente, ideale per gli amanti della buona cucina, ma anche per aperitivi, cene veloci e per allegre serate musicali. Nella centralissima Via Nicola Fabrizi il locale sapientemente ristrutturato dai proprietari Pierluigi Santilli, Alessio Carrozza e David Piperno presenta un arredamento in stile Nord Europa, di taglio minimalista, e offre tra le varie specialità anche dell’ottimo sushi preparato dallo chef Gianluca Cruciani, esperto di cucina orientale. Il bar è fornitissimo e propone –idea originale– anche caffè americano e una vasta scelta di tè. Per cena tanti panini al piatto tra cui scegliere, oltre a gustose tapas sevite per l’aperitivo. Il weekend si anima con un’ottima selezione musicale curata da dj professionisti. A.C. Dapper – Via Nicola Fabrizi 234/236 Pescara – tel. 085291352
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Sole Luna
Dall’alba al tramonto
Lo stabilimento che non dorme mai è anche un ottimo ristorante dove si gusta la cucina marinara
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i fronte al Museo d’arte moderna Vittoria Colonna e ai suoi giardini, lo stabilimento balneare Sole Luna è anche un ottimo ristorante, che i proprietari Fabrizio Serafini, Alessandro Fiammetta e Gianluca Falcone hanno rimesso a nuovo concentrandosi soprattutto sull’ambiente cucina, dotata oggi di nuovissime attrezzature. Lo stile etnico del locale fa da cornice a un ristorante-bar-pizzeria che, come suggerisce il nome, vuole sfruttare tutti gli “spicchi” della giornata, dal primo mattino a notte inoltrata. Si comincia infatti con una colazione europea a base di dolci e caffè, per poi passare al pranzo, con un menu in cui spiccano piatti come i Tagliolini prezzemolati alla marinara o le Foglie d’ulivo (una particolare varietà di pasta) agli scampi, oltre naturalmente a tanto pesce alla griglia. Sia a pranzo che a cena il locale propone anche una grande scelta di pizze. L’aperitivo prevede un vasto campionario di sfiziosità, molto curate, da gustare anche sui patii che si affacciano sulla spiaggia, al tramonto, in un’atmosfera di grande eleganza. Si organizzano anche serate a tema. Sole Luna Lungomare G.Matteotti 112, Pescara – tel. 085375274 www.solelunapescara.it info@solelunapescara.it
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degli Acquaviva trasformandolo
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in una casa-atelier di suggestiva bellezza
di Claudio Carella
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che si affaccia sulla Valle del Fino, è contornato da uno splendido giardino che a primavera si riempie di colori in un’esplosione variopinta, insieme a tutta la campagna circostante. L’interno è stato ristrutturato dall’artista insieme al fratello, con grande sensibilità, mantenendo la struttura originale, rispettandone l’atmosfera e le caratteristiche trecentesche. Si sviluppa su più piani: dai fondaci un tempo adibiti alla conservazione di vino e vettovaglie al salone del primo piano, dove troviamo anche una cucina nella quale troneggia un enorme camino. Le camere da letto, al piano superiore, godono della vista spettacolare sulla valle sottostante e sul vicino paese di Castiglione Messer Raimondo. Tutte le stan-
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ze risentono della sensibilità dell’artista: Carla Manco è riuscita a riempire il castello delle sue donne e dei suoi inconfondibili cuori, grandi dipinti colorati che campeggiano sulle pareti, figure femminili stilizzate tra design e pop art, tra espressionismo tedesco e Warhol. Il cuore è il simbolo della sua arte, “[…]figura la cui forma è quella (fortemente, volutamente simbolica) di sede dei moti interiori, di intima parte dell’anima che indica il segreto della mente, il pensiero della sensibilità, la memoria dei sentimenti e degli affetti”, scrive di lei il noto giornalista Rai Gianni Gaspari. E prosegue: “il cuore è il suo alone duplicato che esce dalla testa di una Minerva stilizzata e assorta. È il puzzle creato dalle tante
• Carla Manco con le sue opere nelle stanze del castello di Montefino
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schegge di colori che esplode da un fondo verde come una ricomposta tavola di Rorschach. È quel centro verde pulsante, spezzato dal taglio di una riga nerissima che cerca di ricostruire una sofferta, e pressoché impossibile, unità. È una maschera in campo (blu su fondo rosso, bianca su fondo blu, verde su fondo bianco…) per l’ultima recita, dove l’identificazione del suo profilo è anche il segno, il primo segno, la lettera iniziale di un codice del vedere e del sentire tutto da inventare, come il fondamento di una nuova grammatica delle emozioni e della memoria”. È il simbolo dell’affetto che l’artista prova per la sua terra, e per un luogo-dimora di rara e suggestiva bellezza, un piccolo tesoro d’Italia che merita di essere visitato.
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Il paese
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In cima a un colle che sormonta la Valle del Fino, Montefino è un piccolo centro abitato che ha mantenuto, urbanisticamente, le sue caratteristiche medievali. La storia di Montefino è però più antica: faceva parte del territorio dei Sabini, stanziati lungo le rive dell’Adriatico, e divenne poi colonia romana di Hatria, oggi Atri. Nel 1150 compare col nome di Mons Siccus (Montesecco) tra i possedimenti della contea di Penne. Nel 1454 divenne feudo degli Acquaviva, che ne restaurarono il castello, la cinta muraria e le quattro chiese. Il castello che oggi domina l’abitato è il più importante degli edifici storici sopravvissuti.
COME CI SI ARRIVA Da Pescara: prendere la Nazionale Adriatica Nord verso Montesilvano; arrivati al casello dell’A14 proseguire in direzione di Elice; attraversare Contrada Colle Maggio e proseguire sulla SS81 in direzione di Castiglione Messer Raimondo e poi fino a Montefino. Da Teramo: prendere l’A24 e uscire a Val Vomano; prendere la SS150 in direzione Villa Vomano e proseguire verso Castelnuovo Vomano; da lì dirigersi verso Monteverde, poi proseguire per Cellino Attanasio; prendere la SS81 fino a Montefino.
Accoglienza Hotel Ristorante Il Gallo Nella piazza di Montefino si trova il bar La Cantina, dove potete trovare anche snack e spuntini. Per assaggiare la cucina tipica teramana dovete però spostarvi a Villa Bozza, frazione di Montefino, raggiungibile in dieci minuti, dove il ristorante-hotel Il gallo offre la migliore cucina tipica abruzzese, usando i prodotti del territorio circostante. Tra le specialità tutti i primi tipici della tradizione locale e i secondi alla brace inclusi gli arrosticini e l’agnello, allevato dai contadini della zona.
Bar La cantina Via Roma, 1 – tel. 0861 990403 Agriturismo Fonte Pecorale
C.da Muraglie, Montefino – tel. 0861990349-3397210972 www.fontepecorale. com
L’edificio principale di questo agriturismo è un vecchio casolare di campagna restaurato a regola d’arte, situato in posizione strategica: alle porte del Parco Nazionale del Gran Sasso e a meno di 30 km dalla spiaggia di Pineto. L’azienda produce un ottimo olio extravergine d’oliva. Otto posti letto a disposizione in due appartamenti ben attrezzati, maneggio e noleggio mountain bike per escursioni nella campagna circostante.
Agriturismo Le terre di Marciano
C.da Marciano, Montefino – tel. 0861996528-3351673620 www.leterredimarciano.it
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Questo delizioso casolare dispone di 9 posti letto in tre camere di diverse dimensioni e di una sala per la colazione con cucina attrezzata. Punto di partenza per escursioni alle riserve naturali del Wwf, ai calanchi di Atri, al lago di Penne e nel Parco nazionale del Gran Sasso; ideale per visitare città d’arte come Atri, Castiglione Messer Raimondo e Castilenti, e per rilassarsi dopo una giornata in spiaggia. È aperto tutto l’anno su prenotazione.
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