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ABRUZZO IN RIVISTA 88

Anche le opere d’arte

Noi di De Cecco difendiamo da sempre il valore di una pasta fatta a regola d’arte. Solo semola di grana grossa impastata a freddo con acqua purissima, essiccata lentamente e trafilata al bronzo, così come vuole la tradizione. Un saper fare che siamo orgogliosi di aver mantenuto vivo nel tempo e che altrimenti sarebbe andato perduto. Un metodo antico e sapiente che potete ritrovare ogni giorno nel sapore unico della pasta De Cecco.

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richiedono un metodo.

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Spedizione A.P. Art.1 comma 1353/03 Aut. n°12/87 25/11/87 Pescara CMP

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ABRUZZO IN RIVISTA 88

DICEMBRE 2015

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EDITORIALE

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VARIOidee Giovanni D’Alessandro, Alessio Biagi e Dario Valeri, Tommaso Di Biase, Mario Pomilio, Enrico Paolini e Paolo Di Pietro

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AMBIENTE LA VITA DEll’acqua

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FLASHBACK L’ABBAGLIO DEL PETROLIO

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ARTE alla ricerca dei fondali perduti

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UNIVERSIVARIO saperi d’abruzzo

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chieti-pescara mangiare da cesari

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teramo allevare il benessere

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L’Aquila convertire, detto e fatto

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PERSONAGGI AGOSTINO BALLONE

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RIBALTA EVENTi

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RIBALTA Teatro

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RIBALTA cinema

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RIBALTA mOSTRE

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RIBALTA MUSICA

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RIBALTA Libri

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RIBALTA NEWS

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LA QUAGLIERA UN OLIO A REGOLA D’ARTE

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TENUTA DI SIPIO PAESAGGIO DIVINO

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LA CHITARRA ANTICA MUSICA PER IL PALATO

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La ricetta

In copertina: Mele piane Foto Claudio Carella

Direttore Responsabile Claudio Carella Redazione Fabrizio Gentile GRAFICA Giorgio De Angelis Hanno collaborato a questo numero Barbara Barboni, Francesco Berardi, Alessio Biagi, Licia Caprara, Andrea Carella, Antonello Ciccozzi, Anna Cutilli Di Silvestre, Giovanni D’Alessandro, Tommaso Di Biase, Francesco Di Vincenzo, Luciano Di Tizio, Maria Virginia Fagnani Pani, Anna Maria Giancarli, Alessia Gloria, Ottavio Nuccilli, Clori Petrosemolo, Dario Valeri, Sandro Visca Contributi fotografici: Alessandro Caporale, Gianni Colangelo, Roberto De Liberato Stampa, fotolito e allestimento AGP - Arti Grafiche Picene Via della Bonifica, 26 Maltignano (AP) Claudio Carella Editore Aut. Trib. di Pescara n.12/87 del 25/11/87 Rivista associata all’Unione Stampa Periodica Italiana Redazione: Via Puccini, 85/2 Pescara Tel. 08527132 - redazione@vario.it

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Giuseppe IAMMARRONE Fotografo L’Abbazia di SAN GIOVANNI IN VENERE

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In questo numero in omaggio il raccoglitore dei fascicoli dedicati alla fotografia e il calendario 2016. I fascicoli arretrati possono essere richiesti inviando una mail a:redazione@vario.it

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PESCARA

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COMUNICAZIONE | GRAFICA | DESIGN INDUSTRIALE | EDITORIA | FIERE

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CLAUDIO CARELLA

PESCARA, LA CITTà visibile L

’immagine della città è come la Nazionale di calcio, di cui tutti pensano di avere la formazione vincente. La “città giardino” la prefigurava Luigi Piccinato, urbanista della ricostruzione postbellica. “La città luna park” la vide Giorgio Bocca. “Città americana in Italia” fu l’immagine di Guido Piovene. “Città della fuga in avanti” la definì Mario Pomilio. Solo per citarne alcuni, tra i quali figurerebbe anche Pasolini, che nel suo La lunga strada di sabbia descrisse Pescara come “l’unico caso di città, di vera e propria città, che esista totalmente in quanto città balneare”, e “Torre di Babele”, “grande fritto misto all’italiana”. La discussione attuale, purtroppo, non coinvolge personaggi di questo spessore, e soprattutto ognuno di essi pensa di essere non solo allenatore, ma anche presidente, direttore sportivo e giocatore. Il nuovo progetto del Ponte del Cielo, secondo le parole della dottoressa Maria Giulia Picchione, Soprintendente alle Belle arti e al paesaggio (Bap) dell’Abruzzo, costituisce “una sostanziale interferenza visiva verso il mare, con la passerella che per tutta la sua notevole estensione orizzontale, intercetta l’orizzonte marino, celandone la veduta”. Ma quando nel periodo estivo dalla riviera non si riesce a trovare uno spiraglio per vedere se il mare è calmo o agitato, non si interviene. In

base allo stesso concetto, perché negare la ristrutturazione interna di un edificio (storico?) per trasformarlo da Banca a Museo, e poi volgere lo sguardo davanti alle bizzarrie architettoniche che sorgono un po’ ovunque? E a proposito di architettura, le brutture di Pescara e dei comuni limitrofi, che pure ci sono, sono solo da addebitare alla cattiva politica o qualche responsabilità estetica possiamo addossarla anche agli Architetti, che rivendicano il loro ruolo tecnico, culturale e sociale nella costruzione del tessuto urbano? Quello che una città aperta e “zingara” come Pescara meriterebbe sarebbe che i suoi cittadini (quelli fieri di esserlo) contribuissero ad elaborare uno schema di gioco per tutte le competizioni che la città dovrà affrontare. Un piccolo grande segnale positivo è stata la partecipazione della cittadinanza, a partire dal primo cittadino, all’incontro per la costituzione della rete ciclabile pescarese, avvenuto peraltro in luogo non istituzionale. Ma qual è il contributo degli artisti, degli intellettuali, degli studenti, delle casalinghe (non di Voghera)? Nelle pagine che seguono abbiamo sollecitato alcuni interventi ma anche riproposto le opinioni di personaggi che in passato hanno detto la loro. Con sorprendente attualità.

La modernità, o post-modernità liquida, ci costringe ad un atteggiamento di continua trasformazione delle “forme” (anche mentali e comportamentali), così come - appunto - accade ad un liquido. Ma, quando non ci sono punti di riferimento, purtroppo prende sostanza la tendenza a rinchiudersi nelle paure, nello smarrimento, nei localismi, anziché sperimentare cambiamenti come sfide ed opportunità. Il lucido articolo della giornalista Lilli Mandara su L’Aquila (“Vario”, n. 86) espone un’analisi “altra”, che dovrebbe far riflettere chiunque abbia veramente a cuore le sorti della nostra regione e sia in grado di pensare senza pregiudizi e malcelate intenzioni che tendono a rinfocolare antiche faide, sicuramente irrisolte anche a causa di uno statuto regionale che, negli anni ’70, pensò di affrontare il problema del capoluogo d’Abruzzo con una risoluzione all’italiana. Nel frattempo, com’è normale che sia, la società complessivamente è cambiata, in positivo e in negativo; perciò, è giusto e saggio che la popolazione abruzzese guardi al suo futuro con una consapevolezza rinnovata, che non può prescindere dall’attualità delle problematiche, senza dimenticare i valori comuni che caratterizzano una comunità civile. Anch’io sono stata a Pescara, giustamente sostenuta dallo Stato, dopo il catastrofico terremoto del 6 aprile 2009, terremoto che tuttora è crudelmente e concretamente vivo nella città e nel suo territorio (Silone afferma, con cognizione di causa, che un terremoto dura decenni); anch’io ho subito gli indelebili danni che ha generato; anch’io, poi, mi sono rallegrata nell’animo della solidarietà dimostrata nei confronti della mia città e, ancor più, della presenza –quest’anno– del Sindaco di Pescara alla fiaccolata

per le vittime. Anch’io, come tanti altri cittadini e cittadine, ho individuato nell’unità del popolo abruzzese la reale possibilità di costruire un’autentica comunità, certamente connotata da differenti vocazioni, che vanno tutte potenziate e raccordate da una politica regionale che, per definizione, deve vere una visione larga, lungimirante, d’insieme, perseguendo nelle diversità il “bene comune”. Le divisioni giocano a favore di chi, come obiettivo, vede soltanto il suo tornaconto, che sia privato o pubblico, essendo erroneamente convinto che può fare a meno degli altri, che può vivere felicemente nella sua isola circoscritta, mentre intorno c’è sofferenza materiale e sociale. Per esempio, la tutela del nostro mare contro le trivellazioni deve e dovrà essere un obiettivo comune per gli abruzzesi tutti. Una regione ed una popolazione che non sostengano la ricostruzione dell’Aquila –che avviene con fondi statali–, che non tutelino la propria memoria, la propria ricchezza identitaria, il proprio ingente patrimonio naturale ed umano, le proprie molteplici risorse, sono destinati a fallire, a rappresentare un’ulteriore icona del degrado culturale che, purtroppo, in tanti casi si manifesta in questo nostro paese. Sono certa di cogliere il medesimo pensiero dei miei numerosi amici poeti e non, soprattutto della costa abruzzese, con i quali da anni sono in sintonia perfetta, se chiudo con un testo luminoso di Jone di Ceo: “Aspettiamo la stella mattutina dall’ala bianca che viaggia nelle tenebre, primo annunzio di sole”.

Anna Maria Giancarli

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TUA è l’azienda regionale di Trasporto pubblico locale nata dalla fusione di ARPA, Autolinee regionali pubbliche abruzzesi, FAS, ferrovie adriatiche Sangritana di Lanciano, e GTM, Gestione trasporti metropolitani di Pescara. Oggi TUA è il sesto vettore a livello nazionale: gestisce una flotta di 895 autobus, 16 treni a trazione elettrica per trasporto di persone, e 16 locomotive per trasporto merci, percorrendo annualmente trentasei milioni di chilometri, con un organico di oltre 1600 addetti in grado di offrire servizi sia in ambito urbano sia in quello extraurbano.

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Giovanni D’Alessandro

LA CITTà dai mille volti N

on è facile tratteggiare il volto di Pescara, perché non ne ha uno. Non uno solo, cioè: ne ha tanti. Ha un’abbondanza e molteplicità di identità –tutte ben marcate, fisiologiche e non posticce– che le risparmiano lo sforzo, proprio di altre realtà, di attribuirsene una, spesso inventata. Ed è un problema, questo che affligge altre città, derivante a volte dal non aver avuto un proprio volto definito nel corso del tempo, altre volte dal non poter restare attaccate a un’identità che la storia ha magari ben radicato, ma in cui non possono rimanere imbalsamate: conta infatti avere un volto nel tempo in cui si vive, col quale essere riconosciute. Pescara è il nucleo principale dell’Abruzzo dai primi decenni del Novecento, anche da prima, cioè, di esistere quale provincia, per una vitalità e propulsività che possedeva in embrione. Oggi lo è innanzitutto per parametri economico-demografici, da non leggersi riferiti al mero abitato municipale, bensì alla conurbazione costiera che la salda a nord a Montesilvano e a Città Sant’Angelo; a sud a Francavilla; ad ovest ai cospicui nuclei, come San Giovanni Teatino e la sua zona industriale, anche ricadenti nel Chietino. Lo è soprattutto in quanto aperta sul mare. Lo è perché fronteggiante le nuove realtà adriatiche croate popolate da un crescente turismo internazionale. Lo è per una serie di elementi in parte positivi in parte negativi, tutti, però, decisamente caratterizzanti. Scorriamone alcuni: ma facciamolo con spirito pescarese. Cioè irriverente. Sincero. Sfrontato. Con cuore di panna dietro una scorza di cioccolato amaro. Con spirito “argabbatore”, di chi cioè gabba tutti e anche se stesso, senza farsi sconti. Città stesa su un “bel sito”, per usare le parole (forse) pronunciate da un re che centocinquant’anni fa l’aveva appena annessa ai suoi dominii, anzi aveva annesso i due distinti borghi di Castellammare Adriatico e di Pescara, attraverso e oltre i quali aveva intravvisto appunto il bel sito costiero/collinare “per una grande città”. Ed è vero, Pescara si stende su un sito obiettivamente splendido. Ma è anche la città giardino vagheggiata negli anni Cinquanta? Per carità. È una città-cemento, piuttosto, lieta dove non passa l’uomo e in particolare il costruttore- distruttore selvaggio, il palazzinaro colluso con le amministrazioni, l’autorizzato da decenni a far scempio del bel sito. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. È una città quasi priva di verde, all’opposto di come dovrebbe essere una cittàgiardino. È caratterizzata da una disarmonica giustapposizione di palazzi e isolati venuti su a fungaia in sessant’anni, per l’assenza di strumenti urbanistici di vera disciplina, con esiti sconfortanti; senza aree libere; con cronica carenza di parcheggi; con ondeggianti sorti attese per le aree di risulta, che pure rappresenterebbero una notevole sfida di restyling; e senza un piano-colore sulla stessa riviera. Non è questione di scempi perpetrati nel passato, quando non esisteva una adeguata sensibilità in materia. Gli scempi proseguono e si aggravano: stanno sbancando adesso, nel 2015, altri palazzi-cigomma, come li chiamano, quelli dove alcuni designer si sono innamorati di orrende coperture che sembrano di plastica, simili a una chewing gum filante – chissà perché, in una

terra così ricca di rara pietra bianca, nonchè storica patria di pinci (tegole) e mattoni che da sempre ne hanno fatto il colore visibile anche dall’aereo: ne deriva una totale alterazione del rossicciomattoncino-travertino persino della linea rivierasca. Per non parlare di quelle che sono autentiche verande mascherate da finte tende (al fine di aggirare regolamenti condominiali e urbanistici), le quali hanno cancellato un po’ ovunque le terrazze dei vecchi attici, creando deturpanti appesantimenti poggiati dove un tempo respirava una terrazza, concepita come non ingabbiata, bensì protesa in un panoramico affaccio. Eh sì, dal punto di vista delle costruzioni e dell’assetto urbano è bruttina, Pescara. Eppure, con tutta la severità di cui ci sforziamo di dar prova per ciò che amiamo, Pescara, nella sua non venustà stesa sul bel sito, è una città che sorride. Allegra. Vivace. Pulsante. Dinamica. Incontenibilmente tale, perchè qui non c’è nulla di spento, c’è un veloce trasmutare da un luogo a un altro, con un ininterrotto inventarsi nuove aree di aggregazione; con un continuo rivitalizzare realtà morenti; come pure, al contrario, con un abbandonare nuclei un tempo vitalissimi. E dunque qual è il suo volto più autentico? Quello metamorfico, cioè pluridentitario, da sintesi di tante varie identità qui richiamate e confluite: il volto per esempio dato dalle migliaia di studenti che vengono da fuori e che a notte d’estate sciamano sulla riviera e durante le altre stagioni nella Pescara vecchia, come la chiamano i pescaresi, o lungo corso Manthonè, come la chiamano loro (chissà perché, omettendo via dei bastioni e via delle caserme che non sono meno animate), nonchè nella nuova area notturna (un po’ da sbronza collettiva) presso la area dell’ex mercato coperto centrale, divenuta isola pedonale. Città dunque decisa a godersi la vita, a non escludere il divertimento dal proprio tempo, a rivendicarne l’appartenenza al proprio dna. Certo a questo giova il mare, coi suoi ritmi. Pescara (…che bel nome salmastro! sa di pesce e di cibo e di commercio!) non è infatti soltanto una città di mare, è di più: è sabbiosa per 20 km, sicché la gente scende da casa e “va al mare”, cioè va ad incontrarlo, come usa dirsi con altra espressione meravigliosa, di cui non ci meravigliamo più perché è troppo radicata nel nostro parlare. Sabbiosa –abbiamo scritto– evitando di usare l’aggettivo “balneare”, giacché nell’estate del 2015 c’è stato un vulnus, alla civica identità di città balneare, con strascichi anche d’indagini sugli amministratori. Più utile che cercare responsabilità, sarà provvedere a far sì che il mare torni fruibile: la vista di spiagge piene, senza nessuno in acqua sotto il solleone di agosto, è stata una delle più tristi e innaturali che di sé la città abbia offerto. Ma adesso, d’inverno, la spiaggia deserta è tornata al suo aspetto di sempre. Quello in cui lo sguardo scorre, e si perde, sopra il verde, non schermato da palme ed ombrelloni, dell’Adriatico selvaggio, che diviene color malachite quando il cielo è corrusco. Che bella città! Trovatene un’altra, adagiata per tutta la sua lunghezza, dopo cento metri di sabbia, su un mare così verde.

Giovanni D’Alessandro, giornalista e scrittore, è autore di saggi e racconti e collabora con il quotidiano Il Centro. Al suo romanzo d’esordio, Se un Dio pietoso (Donzelli, 1996), finalista al Premio Viareggio, sono seguiti I fuochi dei kelt (Mondadori, 2006), La puttana del tedesco (Rizzoli, 2006), la raccolta di racconti Il guardiano dei giardini del cielo (San Paolo, 2008), Soli (San Paolo, 2011) e La tana dell’odio (San Paolo, 2013).

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Dario Valeri/Alessio Biagi

CON GLI OCCHI DEGLI STUDENTI I

l mare, il fiume. E l’Università. Nel corso degli anni Sessanta, durante quel boom edilizio che portò Pescara ad un’incontrollata espansione urbana tale da farle dimenticare le sue umili origini –un borgo di pescatori che dall’acqua del mare e del fiume traeva la sua linfa vitale– nacque qualcosa che oggi, ancora oggi, sembra rivestire un ruolo di secondo piano all’interno del tessuto sociale cittadino: l’Università. Al contrario di quelli naturali, visti più come un limite fisico all’espansione, come un problema da aggirare, l’elemento Università è nato in seno alla città, nel suo centro urbano; è cresciuto insieme ad essa e, quando è stato in grado di camminare con le proprie gambe, spostato nella zona sud, in uno spazio dove espandersi e generare i suoi stessi frutti. Frutti che, statistiche alla mano, sono costituiti dai circa 10mila studenti che popolano le aule del grande edificio di Viale Pindaro per nove/dieci mesi l’anno, e che in quei mesi ingrossano le fila della multisfaccettata società pescarese. E com’è Pescara vista con gli occhi di uno studente universitario? Parlando per stereotipi, si può paragonare a una città del nord trapiantata al sud: vitale, dinamica, interessante; una città di eventi, un luogo dove si incontrano culture ed etnie diverse. Ma allo stesso tempo, con la medesima facilità con cui partorisce iniziative, è distratta, superficiale, dispersiva. Crea e dimentica. Ha fame di spazi: si riappropria di vecchi manufatti in disuso, li rimette a nuovo e li rende ibridi, incompiuti, pronti per un nuovo oblio subito dopo lo sfavillare dell’inaugurazione. Sembra incapace di progettare aldilà dell’esigenza immediata. La rivitalizzazione del centro storico partita vent’anni fa, ad esempio, sembrava preludere alla nascita di uno spazio idoneo alle iniziative culturali; ma con la progressiva proliferazione di locali l’offerta non è cresciuta, anzi è annegata in cocktail, birre e cicchetti neanche a buon mercato. E la recente riqualificazione di via Cesare Battisti ha creato un ambiente alternativo al centro storico, ma già configurato in senso esclusivamente consumistico. Ragion per cui lo studente che non voglia semplicemente un luogo dove “consumare” ma che sia in cerca di uno spazio relazionale, dove socializzare, finisce per vivere solo quella parte di città che gli compete territorialmente, ovvero quella in cui dorme e studia per tutta la settimana. C’è, quindi, una sorta di barriera che lascia l’Università –tanto urbanisticamente quanto socialmente– ai margini della città. Paradossale è infatti che la Facoltà di Architettura, pur vantando un certo prestigio, non sia stata se non in poche occasioni partner dell’amministrazione civica per un confronto sulla pianificazione territoriale. Eppure, proprio l’Università potrebbe diventare un

punto di forza della città, motore di sviluppo con il suo contributo intellettuale e polo attrattivo per gli studenti, fino a diventare simbolo cittadino al pari di opere come il Ponte del Mare. A patto di intervenire con pochi ma importanti accorgimenti proprio nella zona sulla quale insiste. Durante l’estate scorsa, ad esempio, per organizzare un’iniziativa di accoglienza alle matricole con altri colleghi abbiamo ottenuto la temporanea pedonalizzazione di viale Pindaro e in un’altra occasione abbiamo utilizzato il piazzale antistante l’ingresso, solitamente adibito a parcheggio. Aldilà dell’evento in sé queste iniziative hanno avuto il merito di stimolare alla riflessione sull’uso degli spazi contigui e interni, che potrebbero configurare l’idea di un “campus diffuso”, restando evidente l’impossibilità di costruirne uno in modo definito come avvenuto per la sede chietina della “d’Annunzio”. In aggiunta, un parco come quello dell’ex caserma Di Cocco potrebbe essere utilizzato in funzione sociale e culturale. Un’università che offrisse ai suoi studenti la possibilità di viverla anche oltre la sua funzione di luogo di apprendimento potrebbe diventare estremamente attraente anche grazie alla posizione privilegiata di Pescara, al centro della penisola e ben collegata con tutta Italia. In questo senso diventa quasi paradossale che proprio la zona attorno all’Università non sia stata considerata nel tema della Summer School che quest’anno ha visto oltre 400 studenti di Architettura ipotizzare progetti di riqualificazione per dieci aree urbane individuate come strategiche. La Summer School è stata un esempio concreto di come l’Università possa fornire un contributo di idee che non restano nell’ambito della sperimentazione fine a se stessa, dell’esercizio teorico, ma anzi propongono una visione di città modellata sulle esigenze di una larga fetta della popolazione. Gli occhi degli studenti vedono una città moderna, sostenibile, avanzata, capace di offrire spazi e di ripensare se stessa in funzione di un progresso perpetuo. Perché non pensare dunque a una città che nell’Università, nella sua vivibilità, nella capacità di offrire sé stessa agli studenti trovi la sua forza attrattiva? Il dibattito attualmente in corso su alcuni interventi architettonici che verranno è, secondo noi, viziato dalla componente utilitaristica: ma l’architettura, semmai, dovrebbe fornire spunti, stimoli, essere il motore di una trasformazione, ampliare gli orizzonti; e non semplicemente rispondere ad un’esigenza concreta –come sono concrete le esigenze di un teatro o di una struttura per concerti. Del resto, a cosa “serve” il Ponte del mare se non a offrire alla città un simbolo identitario, che salda insieme fiume, mare e terra e consente di godere di una prospettiva mai vista prima?

Alessio Biagi è iscritto alla Facoltà di Architettura di Pescara. Dario Valeri è iscritto alla Facoltà di Economia aziendale.

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TOMMASO DI BIASE

LA GRANDE PESCARA È

sempre bene chiamare le cose con il loro nome. La proposta della cosiddetta “grande Pescara” che ipotizza l’annessione a Pescara dei Comuni di Spoltore e Montesilvano, al di là delle intenzioni dei promotori, oggettivamente, è una proposta che al suo primo passo divide il territorio piuttosto che unirlo. È paradossale ma è così. La “grande Pescara”, infatti, rimanda a data da destinarsi la riunificazione con il resto del sistema urbano nel quale è inserita e che si è sviluppato nell’area tra Chieti e Pescara, lungo la valle del Pescara fino a Scafa e lungo la costa da Francavilla fino a Silvi. Nel suo stesso nome evoca un’appartenenza che esclude uno dei due poli su cui si regge il sistema stesso: Chieti! Ma se una realtà importante come Chieti viene ignorata nell’atto della fondazione di un progetto così forte, come sarà possibile recuperarla in una posizione corrispondente al suo ruolo e alla sua storia? Oppure qualcuno pensa che l’antica Teate sia solo un ostacolo ad un processo aggregativo metropolitano e quindi vada abbandonata al suo destino? Il grande urbanista Bernardo Secchi, nel Piano Territoriale della Provincia di Pescara da lui firmato pone, invece, la questione del riconoscimento di quest’area: “Una ulteriore questione di ambito generale che riguarda specificamente questa parte di territorio attiene la riconoscibilità di un’area metropolitana Pescara Chieti, il suo significato e, in via subordinata, la sua perimetrazione. Il QRR invita ad un riconoscimento dei caratteri metropolitani dell’area Pescara Chieti entro la quale individua la conurbazione di maggior peso dell’armatura urbana regionale”. Bernardo Secchi non è certo l’unico che autorevolmente negli anni passati abbia posto più o meno correttamente questa questione. Allora mi chiedo: quale futuro deve avere una proposta che si porta dietro queste contraddizioni? Al di fuori di un contesto ampio come quello indicato da Secchi, la semplice annessione a Pescara di Montesilvano e di Spoltore favorirà la periferizzazione del resto del territorio. Parti urbane che oggi sono “centrali”, a Montesilvano e Spoltore, diventeranno di colpo periferie alla ricerca di identità. Questioni che oggi sono al centro dell’attenzione dei tre municipi, faranno fatica ad entrare nelle priorità e negli ordini del giorno del nuovo Comune. Temi che necessitano di una visione unitaria come quelli infrastrutturali (aeroporto, asse attrezzato, ecc.) o dello sviluppo industriale della valle, o ambientali come quello del fiume Pescara, rimarranno fuori dalla portata della “grande Pescara”. Ma ci sarà anche una perdita netta di rappresentatività e di democrazia, con un solo sindaco e un solo consiglio comunale rispetto ai tre attuali. Mi si dirà che c’è stato un referendum e che va rispettata l’indicazione che ne è scaturita. Proprio questo è il punto. A parte la percentuale dei votanti e la scarsa consapevolezza del merito del quesito sul quale bisognava esprimersi, il referendum ha un carattere “consultivo” e va recepito come una raccomandazione a legiferare nella direzione indicata. Non ne deriva la prescrizione di una determinata soluzione e solo di quella soluzione.

Sulla base di queste ragioni, credo che la proposta della “grande Pescara” vada necessariamente riportata all’interno di una ipotesi più ampia di riforma dell’assetto amministrativo dell’intero territorio regionale. Dico necessariamente perché operare un ritaglio del territorio così perentorio all’interno dell’attuale assetto delle Province (proprio oggi che sono in corso di smantellamento) significherebbe decidere di porsi in una gabbia istituzionale che da tempo mostra la sua inadeguatezza alle trasformazioni territoriali che si sono prodotte. In virtù di quale progetto economico e sociale si motiverebbe un tale ritaglio? Senza un progetto generale, che la nostra classe dirigente ha l’obbligo politico e morale di elaborare, si rischia di perseguire esclusivamente obiettivi di carattere localistico, con il risultato di non riuscire a soddisfare bene neanche quelli. I problemi dei territori, infatti, non si fermano sui loro confini amministrativi! E non basta ampliarli per risolverli. C’è ad esempio il tema dei piccoli centri della nostra regione che, proprio a causa della loro ridotta dimensione, non riescono più ad essere minimamente efficaci nell’erogazione dei servizi essenziali ai cittadini e nelle politiche territoriali. Quale destino devono avere? Così come l’area urbana di cui parliamo: se si vuole governare al meglio la complessità di questa area non si possono escludere parti della sua realtà solo perché ricadenti in altre province. Una riforma degli assetti amministrativi che renda la pubblica amministrazione efficace e non inutilmente onerosa per lo Stato e quindi per i cittadini è possibile. Un’idea che voglio qui riproporre, valida dal punto di vista del metodo, è quella di innovare e rilanciare le Province proprio come istituzioni di governo di area vasta. Nello spirito della riforma “Delrio” appena varata. In Abruzzo si può immaginare di ridurre a due le circoscrizioni provinciali o di “area vasta”. La riduzione a due sole Province, che chiamerei metropolitane, articolate ognuna in più distretti, per una regione di un milione e trecentomila abitanti può avere un qualche senso. Dividendo il territorio regionale in due aree pressoché omogenee potremmo avere una provincia appenninica e una adriatica. Due Province diverse ma complementari di pari estensione territoriale. Una prima caratterizzata dalla natura, con insediamenti e città d’arte sparsi nel territorio, l’altra caratterizzata da una estesa rete di città inserita nella campagna. Due diversi territori che si incontrano sui crinali dell’Appennino. Uno coincidente con l’attuale provincia aquilana e l’altro con le tre province adriatiche. In una prospettiva di questo tipo, naturalmente, andrebbero ridefiniti i poteri delle nuove istituzioni, affidando loro deleghe importanti (oltre quelle indicate nella riforma) ancorché di competenza regionale, ma anche riducendo e semplificando gli enti strumentali sulle varie materie: ambiente, infrastrutture, scuole, sanità, acqua, rifiuti, depurazione, ecc. Una tale ipotesi infine non esclude ma contestualizza un nuovo disegno dei municipi più aderente alla realtà. Più che una grande Pescara bisogna allora realizzare un grande Abruzzo, a partire dal rinnovamento delle sue istituzioni.

Architetto e urbanista

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[VARIOIDEE ]

MARIO POMILIO

LA CITTà DELLA FUGA IN AVANTI M

eno di cinquant’anni fa [Pescara e Castellamare] erano due piccoli comuni separati da un fiume e appartenenti a due province diverse. A sud c’era la Pescara storica, magari famosa per via di D’Annunzio, ma in realtà poco più che un borgo di pescatori con qualche pretesa d’assomigliare a una cittadina; a nord, dopo una vasta zona d’orti e di canneti tutta aperta verso il mare in una lunga luce d’estuario, c’era invece Castellamare Adriatico, poco più che un centro balneare. Nessuno, intendo, avrebbe potuto allora immaginarsi che dall’unione sarebbe sprizzata tanta energia riposta, la quale avrebbe dato l’avvio a un’avventura urbanistica tra le più singolari dei nostri anni e a uno sviluppo economico tra i più fertili e nervosi. Certo è che nella recente geografia storica dell’Italia, Pescara in tutti i sensi rappresenta un caso a sé. Se si eccettuano infatti alcune città che propriamente città non sono, ma sono unicamente grandi agglomerati industriali, nessuna ha impersonato in egual misura il ruolo della città in crescita, della città che si trasforma, della città che si dilata quasi voracemente, con tutti gli estri e le impazienze dell’urbanesimo odierno. E delle città di gente nuova. Io non so se si sia mai abbastanza notato in qual misura a fare di Pescara quello che è ha contribuito il fatto d’essere stata il centro di convergenza di gruppi molteplici, e di provenienza la più diversa, abruzzesi dell’entroterra e famiglie trasferitevisi da altre regioni: gente nuova, dicevo, gente che aveva operato un brusco taglio col passato, e perciò stesso aperta, disponibile per ogni esperienza, dotata, voglio dire, d’un non so che di pionieristico in cui consiste probabilmente la dote più tipica del pescarese, e che s’esprime per tutta una gamma che va dall’arrivismo all’attivismo all’avventurosità alla fertilità. In tal senso anzi Pescara ha fatto molto e molto di più che provocare un puro e semplice fenomeno d’inurbamento: ha fatto esplodere energie latenti, suscitato e stimolato forze finora in ristagno, e al di là della sua stessa cerchia è servita inoltre a spoltrire l’Abruzzo, a ridestarlo da tante rassegnazioni e da tanti antichi letarghi di regione appartata, conservatrice, trascurata e quasi esclusivamente agricola e pastorale. In altri termini, quel crogiuolo che in definitiva è stata Pescara non solo è valso a creare un tipo d’abruzzese nuovo rispetto a quello del passato, più attivo, meno rassegnato, meno arreso alle proprie tradizioni, più intraprendente e risoluto, ma ha dato luogo, con le debite differenze, a un fenomeno verificatosi già altrove e in altre epoche: quello che io chiamerei volentieri il «fenomeno città», con quanto esso comporta di propulsivo e di attivizzante: la concentrazione e la creazione della ricchezza, la proiezione in avanti, la volontà di fare, l’inappagamento, la febbre delle intraprese, la rottura delle tradizioni, o semmai il bisogno di darsele, le proprie tradizioni, ma proiettandole verso il futuro. Di qui l’aria come di frontiera che m’ha sempre colpito, a Pescara. Di qui quella che io prima definivo la sua perpetua fuga in avanti.

E in verità non so se ci sia modo più adatto tra i tanti possibili, per definire una città che non si preoccupa di trovare un assetto o una fisionomia se non nel suo nervoso crescere e mutare. E che nel riproporsi a ogni tratto febbrilmente instabile, fervida e arruffona insieme, poliversa e imprevedibile e fatta come di tante anime, sembra al limite trovare perfino la sua ragion d’essere. Certo, tutto ciò va messo al suo attivo, ma comporta pure i suoi passivi. La lunga corsa nella quale Pescara si è impegnata in questi cinquant’anni ha anche comportato quel tanto di rapinoso e le mille improvvisazioni che sono proprie di certe crescite. Urbanisticamente parlando, a voler essere schietti, proprio per la sua natura di città tutta nuova e nella quale, in apparenza, non c’era nulla da «salvare», ha finito per esasperare gli errori commessi da altre città, ha divorato chilometri quadrati di campagna senza lasciare spazi al verde, ha moltiplicato scacchiere di strade serrate alla solita anonima edilizia novecentesca, ha soffocato la sua splendida spiaggia ed eroso la sua pineta, un tempo solitaria ai bordi del mare, ha distrutto ogni traccia del suo suggestivo paesaggio fluviale, reperibile ormai soltanto nelle pagine del D’Annunzio prima maniera. A provarsi a guardarla dall’alto si ha un’idea concreta di come è stata affrettata e talora scriteriata la sua doppia corsa che di qui l’ha portata a inghiottire la pineta e quasi a congiungersi con Francavilla al Mare, di lì l’ha proiettata fin sui confini della provincia di Teramo. Pescara è una lunga striscia, di dieci chilometri e forse più, serrata oltre tutto dalla presenza della ferrovia: un assurdo urbanistico di cui finora non ha forse risentito in maniera sensibile, ma di cui presto, c’è da temere, la città incomincerà a pagare lo scotto. Eppure, con tutto ciò, Pescara non è segnata affatto da quella sorta di crudeltà che ormai contrassegna tante altre città cresciute sull’onda dell’odierna civiltà del benessere. M’è capitato anni fa d’udirne parlare come d’una piccola Milano del Sud, e il paragone mi parve, e tuttora mi pare, improprio. E tuttavia qualcosa in comune con Milano Pescara l’ha: e non penso tanto al gusto del nuovo, all’avventurosità economica, al fervore delle intraprese, quanto al fatto che, come Milano, Pescara potrà essere, sì, una città difficile, ma, per l’appunto, non è mai crudele, e non solo per la grossa mistura di buon sangue abruzzese di cui si compone e che la fa essere generosa, ma perché la sua stessa ricchezza le consente d’aprir le braccia a tutti. Di qui il suo talento assimilatore, di qui il rapido processo di acclimatamento di chi vi arriva, di qui come dicevo, il fatto che essa stia diventando come il crogiuolo delle genti abruzzesi, il luogo dove vanno a spegnersi certi mai sopiti municipalismi. Indipendentemente dallo stesso posto che occupa, di capitale economica della regione abruzzese, è in definitiva proprio una simile mancanza di chiusura a farne il punto di riferimento per il resto dell’Abruzzo e a meritarle il ruolo, al quale aspira, di città-guida.

Mario Pomilio (Orsogna 1921 - Napoli 1990) è stato scrittore, saggista e giornalista. Vincitore del Premio Campiello (La compromissione, 1965), di uno Strega (Il Natale del 1833, 1983), ha pubblicato saggi e studi su Italo Svevo, Luigi Pirandello, Benvenuto Cellini, Edoardo Scarfoglio, sul Verismo, e diversi altri temi. È stato redattore per Il mattino di Napoli. Il testo che pubblichiamo è comparso integralmente sulla rivista Oggi e domani dell’ottobre 1974, diretta da Edoardo Tiboni

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ENRICO PAOLINI / PAOLO DI PIETRO

QUANDO POLITICA E AMBIENTE ANDAVANO A BRACCETTO G

aleotta, forse, fu una chitarrina alle vongole consumata in un ristorante sulla riviera. Ma l’incontro tra Enrico Paolini (coordinatore regionale dell’allora Pds e fondatore dell’Arve) e Paolo di Pietro (all’epoca presidente dell’Ordine degli architetti) cominciò a tavola e proseguì in spiaggia. E fruttò l’idea di un parco urbano del litorale, per restituire ai pescaresi un elemento fondante della città, che insieme all’altro –il fiume– è stato completamente ignorato quale fattore di sviluppo e di crescita. E che alla città è stato sottratto (come testimonia la nostra foto di copertina dello scorso numero) salvo restituirlo per circa quattro mesi l’anno, durante i quali diventa vacca da mungere per l’industria del divertimento balneare. Era il 1991 e Vario pubblicava un servizio che, nel denunciare lo stato di degrado in cui versava la spiaggia cittadina, puntava i riflettori sulla proposta partorita dai due personaggi. «È una situazione tipica di quartiere, di un quartiere di una grande città –commenta Paolini– per cui tu devi affermare la libertà di usufruire di uno spazio, in questa terra di nessuno in cui tutti pensano di poter fare quello che vogliono. Da qui, dalla considerazione dei beni ambientali, è nata l’idea di un parco, con una legge di tutela e di regolamentazione dell’uso, con appositi finanziamenti nazionali e regionali, con un organismo di gestione snello e autonomo. Io penso quasi ad un parco d’inverno. D’estate questo modo caotico di vivere la spiaggia diventa più accettabile dal punto di vista razionale, si capisce che c’è un’economia attorno, uno è più disponibile ad accettare un piccolo sacrificio… Sono gli altri dieci mesi l’anno che sono scandalosi: d’inverno questo diventa il parco degli spazi morti, c’è un enorme valore ambientale davanti a me e io non riesco ad usarlo. Anzi, quando ci vado devo stare attento a che mio figlio non si ferisca con le siringhe o non si faccia male sull’altalena arrugginita, quando attraverso la riviera le auto fanno vere e proprie gare di velocità oppure stanno ferme nell’ingorgo, intossicando i pedoni… È una situazione paradossale, un grande bene ambientale della città che si mette la maschera, non si vuole far riconoscere. Il progetto punta a stabilire delle priorità per cui c’è prima di tutto il mare, poi la spiaggia, poi le persone, poi, forse, se c’è spazio, le auto e le moto. Con quali strumenti? Se ci potesse fare un discorso astratto, il primo vero strumento sarebbe il governo della città, ma questo è certo difficile, per cui accontentiamoci di un obiettivo intermedio, una forzatura sui beni ambientali che rimetta in discussione possibilmente il governo di Pescara. Ecco perché parlo di parco, una scelta vincolista o comunque di buona organizzazione vincolata di quest’area che costringa la città a ripensarsi di colpo, a riscoprire le sue ricchezze. Tra l’altro, anche per l’economia balneare sarebbe un’occasione per allungare la stagione e per produrre più reddito e occupazione. Il guaio è che c’è poco tempo e se a questo poco tempo non corrisponde qualche segnale la gente mollerà. Allora avremo sempre più persone che diranno “che importa se sulla spiaggia ci buttano la monnezza, ce n’è già tanta…”. Ecco quello che temo: una spiaggia sporca si sporca. Io invece dico che una spiaggia pulita si tiene pulita». «Questo non è uno sfizio ecologista

–interviene Di Pietro– non c’è volontà di creare qualcosa di isolato o di imbalsamato, né il termine vincolo significa che in quella zona non si fa niente. Significa invece scegliere una possibilità di uso ed escluderne altre. Significa restituire qualcosa alla città in modo tale che i cittadini ne possano godere. Pescara deve la sua nascita e la sua forma primitiva all’esistenza di alcune risorse, il mare, il fiume, le colline, ma nella sua storia non ha mai considerato questi come elementi su cui ipotizzare lo sviluppo. Nell’edificazione li ha sempre considerati come limiti per cui si è creata un’estraneità effettiva tra la città e queste risorse. In questo senso la progettazione delle parti di città che si affacciano sul mare esprime la non-attenzione, non tanto dell’architetto, quanto della città nel suo complesso, e in primo luogo di chi l’amministra. Nel preliminare di piano regolatore, rispetto al mare e al fiume, si dicono cose di estrema genericità, anzi del mare non si parla, non si indicano scelte che partono da questi elementi, sono realtà che esistono, ma che vengono viste solo come confine all’edificazione, non come punto di riferimento o di partenza della progettazione, magari per arrivare ad un recupero di identità. Nella sua forma iniziale la città aveva indicato, proprio nel punto d’arrivo delle strade perpendicolari al mare, rotonde e slarghi collocati come una sequenza di esedre che non avevano funzione puramente scenografica, ma erano indicazioni di una vita che la città esprimeva nei confronti del mare e dell’acqua. Ora stanno scomparendo, trasformate in parcheggio, o comunque espropriate della loro funzione di “isole pedonali”. Infine, un accenno al verde: non è possibili pensare ad un sistema del verde isolato dalla spiaggia, anche perché tutte le aree verdi sono nate con il mare e in funzione del mare. Pescara si è realizzata perché aveva il mare, il fiume, la pineta. Gli abitanti di questa città sono stati richiamati dalla presenza di questi elementi. Tutto questo è avvenuto sino al primo dopoguerra, sino a quando, cioè non casualmente, è stato pensato un piano urbanistico che partiva da questi elementi. Tra l’altro era un piano di pregio, anche dal punto di vista disciplinare, tanto è vero che ottenne vari riconoscimenti. Poi rimase sulla carta perché altri interessi e altre logiche sono sopravvenute e ne hanno stravolto l’ispirazione. Invece, gli elementi su cui rifondare questa città, che nel suo sviluppo non indica niente di positivo se non una grande vivacità imprenditoriale, sono quelli che ci ha consegnato la storia e che nonostante tutto sono ancora tali da poter essere un valido punto di ripartenza». «Il tempo lavora contro il mare –afferma senza mezzi termini Paolini– occorre fare presto, tenere viva la speranza prima che il degrado sia irreversibile. Del resto, cos’è Pescara se non il suo centro insieme ai valori che ci sono dentro? Qualcuno dice la sua economia, ma l’economia può cambiare in bene o in male, un bene ambientale, se cambia, è solo perché si degrada…». «La grande scelta è fra due mentalità –aggiunge Di Pietro– quella economica e del consenso elettorale, e quella che considera la qualità della vita delle persone. La prima, se prevale, esclude senz’altro la seconda, ma la seconda non esclude affatto la prima».

Enrico Paolini è stato vicepresidente della Regione Abruzzo e assessore al Turismo in Regione e in Provincia di Pescara. Ha fondato l’Arve (Abruzzo Regione Verde d’Europa). Paolo Di Pietro, scomparso nel 2013, è stato Presidente dell’Ordine degli Architetti di Pescara dal 1988 al 1992. Il testo è tratto dall’articolo pubblicato su Vario n. 14/91

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IL bene maltrattato

la vita DELL’ACQUA A Pescara la maglia nera dello spreco, seguita da L’Aquila, Chieti e Teramo: tra cattiva educazione dei consumatori e mala gestione delle reti idriche in Abruzzo viene disperso quasi il 50% dell’acqua immessa negli acquedotti

di Luciano Di Tizio

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ettiamola così: da giornalista votato da qualche anno in via pressoché esclusiva alle tematiche ambientali, inevitabilmente accoppiate con l’impegno al vertice del WWF regionale, cerco un incipit a effetto per un articolo sull’acqua. Lo cerco e non lo trovo. Le chiare, fresche et dolci acque sono ormai abusate, e poi che cos’ha mai a che fare

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l’idilliaca immagine evocata dal Petrarca con la situazione abruzzese? Scarto anche il riferimento mistico a San Francesco e alla sor’acqua del suo celeberrimo Cantico delle creature: è un riferimento da enciclica, eccessivo per un articolo. Restano l’acqua azzurra e l’acqua chiara della musica leggera, nostalgico riferimento al duo Battisti-Mogol e alle tante serate trascorse in anni lontani

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Dati vecchi, però, addirittura del 2007. Da allora in avanti strimpellando chitarre in compagnia. Niente, per quanto chi sa quanti progressi avremo fatto… Beh, cinque anni mi sforzi non sono gli aggettivi della musica e della poesia dopo, nel 2012, i conti nei tubi (e sui rubinetti di casa) li ha (chiare, fresche, dolci, azzurre...) quelli che meglio si fatti l’Istat. Pescara con il 55% di acqua dispersa durante adattano alla situazione di casa nostra. Meglio un sano il trasporto si conferma da questo punto di vista il peggior realismo. capoluogo abruzzese. Ma L’Aquila, che non vuole essere Parlare di acqua da noi, oggi, significa scegliere tra fiumi e da meno, insegue da vicino, con un equo 50%: ogni cento laghi quasi ovunque inquinati; tra un mare abbandonato litri di acqua captati in montagna ne arriva ai rubinetti a se stesso nove mesi l’anno e al centro di ogni polemica esattamente la metà. Chieti va meno peggio, col 41% nel restante trimestre, quello che dovrebbe essere della lasciato per strada. I teatini in compenso sono i meno stagione balneare. Se poi decidessimo, come stiamo attenti d’Abruzzo, con un consumo idrico pro capite di per fare, di occuparci solo di acqua potabile dovremmo ben 205 litri giornalieri a testa. Roba davvero da spreconi: districarci tra acquedotti colabrodo, rubinetti a secco e quello che non si getta via attraverso le perdite nei tubi periodici allarmi inquinamento. probabilmente mal si impiega, magari per lavarsi l’auto Come?, direte, inquinamento anche nell’acqua potabile? sotto casa. Teramo infine rilascia nelle falle della rete Non avremo mica dimenticato l’estate del 2007, trascorsa idrica solo il 26% dell’acqua immessa. Non è poco, ma in in Val Pescara a chiederci se fosse meglio patire la sete confronto al resto della regione i teramani possono quasi o sopirla con acqua contaminata e nel resto d’Abruzzo vantarsi. L’Abruzzo nel suo complesso resta comunque semplicemente a soffrire? Allora fummo vittime della nel 2012 tra le aree con maggiore inefficienza nella rete scelta di scavare pozzi per integrare la non più sufficiente idrica e si tiene ben salda la maglia nera che già le era portata dell’acquedotto Giardino a valle e non a monte stata attribuita cinque anni prima. del sito industriale di Bussi Officine e delle sue scorie. In Se vi chiedete se si può fare di meglio o se una certa altre occasioni siamo vittime di reti obsolete che nessuno percentuale di dispersione è addirittura fisiologica vi ripara mai. Piuttosto si cercano nuove fonti, perché diciamo che non è necessario far una captazione è un lavoro confronti oltre i confini nazionali, importante, muove interessi perché in Europa c’è chi di acqua economici cospicui e dà anche Parlare di acqua in Abruzzo significa ne ha molto meno di noi e non la un ritorno di immagine a chi spreca di certo. Non è necessario la promuove. Immaginate: il districarsi tra inquinamento, perdite, perché anche nel Bel Paese c’è chi sindaco che ha dissetato i suoi sta bene attento alla manutenzione concittadini intercettando una sprechi e disservizi dei suoi acquedotti: a Nord, ad sorgente e portando acqua dai esempio, Bergamo e Vercelli perdono rispettivamente il monti al rubinetto di casa. Ce n’è quanto basta per un bel 5 e il 6% e al centro c’è Viterbo che si ferma addirittura comunicato stampa, interviste, qualche passaggio in tv… al 4%. Persino la speranza che in un lontano futuro gli venga Non è mission impossible, dunque. Non possiamo assolverci intitolata una piazza o una strada. Quell’altro sindaco che per essere, da decenni e ancora oggi, sempre ai primi posti invece spendendo un quinto del collega e semplicemente tra gli spreconi. Anche nella gestione: il servizio idrico sostituendo i tubi vecchi dell’acquedotto del suo paese ha integrato rimane affidato da noi a sei aziende pubbliche ottenuto risultati ancora migliori? Per lui non c’è gloria, in di diritto privato (ACA, SASI e compagnia bella) che in fondo che cosa ha fatto? Soltanto il suo dovere! questi anni, tra scandali e disservizi, hanno fatto a gara per Sì, è questo il punto nodale: in un Paese che si sta abituando guadagnare disdoro tra gli utenti. Carrozzoni clientelari, a vivere in uno stato di eterna emergenza gli interventi quelli per i quali è stata coniata l’inquietante definizione che servono davvero sono una coerente pianificazione di “partito (trasversale) dell’acqua”. Carrozzoni che e la giusta attenzione alla manutenzione, in questo caso continuamente si dichiara di voler risanare e magari a delle reti idriche. Nient’altro, in fondo. Ma non sono scelte volte persino ci si prova. Ma l’impresa è titanica e dagli che danno lustro e i denari che muovono sono pochi. esiti incerti, nonostante gli esosi prelievi dalle tasche dei Dunque… cittadini-utenti chiamati a risanare anni e anni di cattiva Le acque che captiamo per la rete potabile sono sufficienti gestione. Robin Hood alla rovescia: qui non si ruba ai ai fabbisogni, quasi ovunque in Italia, certamente in ricchi per distribuire ai poveri… Intanto le reti continuano Abruzzo. Il problema è tutto negli sprechi. Un dossier a comportarsi da colabrodo: a conti fatti oggi, 2015, per elaborato da Legambiente nel 2007 calcolava una avere a disposizione 100 litri d’acqua dobbiamo partire dispersione media nazionale del 42%, qualcosa come alle sorgenti con almeno 180. 10.550 metri cubi del prezioso liquido per ogni chilometro Qualche aggettivo non basta. Per l’acqua in Abruzzo di tubatura! Una quantità di per sé impressionante ma forse abbiamo trovato l’espressione giusta. Niente poeti che merita qualche approfondimento visto che si andava né santi né musicisti. Citiamo invece un ciclista famoso dal 30% delle regioni virtuose (Piemonte, con nel Torinese d’altri tempi, quel Gino Bartali, abruzzese ad honorem, addirittura “solo” il 22%, Veneto, Emilia Romagna, che anche da sotto l’ombrellone, nelle sue abituali vacanze Marche e Basilicata) a quelle con perdite superiori al 50%: a Fossacesia, amava ripetere una frase scelta pure per Campania, Puglia, Calabria e ovviamente l’Abruzzo, con intitolare un suo libro di memorie: qui è tutto sbagliato, punte del 73% nella Marsica. Tra le tredici città capoluogo tutto da rifare. che gettano via più della metà dell’acqua immessa in rete c’era pure Pescara, che di abitanti ne ha più di chiunque altro nella regione con un danno collettivo in termini assoluti nient’affatto trascurabile. 16

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FLASHBACK 1955 in val pescara

L’ABBAGLIO DEL PETROLIO 60 anni fa si gridò al miracolo: bastava bucare la terra per ottenere ricchezza e sviluppo. Oggi le cose sono molto cambiate, ma c’é ancora chi pensa che basta spostarsi e bucare il mare

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urante i primi giorni del 1955 ad Alanno da un pozzo petrolifero –Cigno 1– che l’Agip aveva ceduto alla Petrosud (Gulf Oil+Montecatini) comincia a uscire petrolio in gran quantità. La notizia all’inizio non fa scalpore, in Abruzzo il primo pozzo fu scavato a Tocco da Casauria nel 1860 e il petrolio da secoli si usava come medicamento.

Il miracolo annunciato

Bisogna aspettare il 3 febbraio: è allora che scoppia il caso del petrolio abruzzese: «IL POZZO DI PETROLIO DI ALANNO È RICCO 225 VOLTE DI PIù DI QUELLI DEGLI STATI UNITI - Gli italiani non si lasceranno sfuggire questa ricchezza» titola con grande risalto l’Unità, e non è solo il titolo ad esser bombastico. Il pozzo di Alanno da solo produce 1000 tonnellate al giorno, 365mila all’anno, quando in tutta Italia se ne producevano 225mila. Se questa era l’antifona, avevamo trovato l’Eldorado. Le prime impressioni, stupefacenti, trovano conferma, e vanno al di là delle speranze più rosee: il 20 marzo 1955 Il Messaggero apre in prima pagina nazionale, e parla del “ritrovamento giacimenti in Abruzzo in misura tale da coprire il fabbisogno nazionale” e addirittura di “una situazione nuova che ci permette una politica [...] indipendente dal controllo del cartello internazionale”. Così si scatena la più grande tempesta mediatica che abbia riguardato l’Abruzzo (al di là degli scandali e dei disastri naturali). Da quel momento, e per più d’un anno, il petrolio nostrano abbaglierà la stampa italiana: un miracolo, una ricchezza, un sogno, e non solo per la terra dei pastori, ma per tutta l’Italia, capace di riscattarci, di darci indipendenza. Non si contano gli articoli nelle cronache nazionali dei grandi giornali, decine in prima pagina; quasi ogni giorno si parla di Alanno, come poi di Casalbordino. Il petrolio abruzzese è decantato per le sue qualità, come fosse un gran vino. L’Abruzzo di allora era la penultima regione del Sud, dove quasi i tre quarti delle persone viveva d’agricoltura; una landa isolata: la Tiburtina era ancora, nei primi anni ’50, una strada bianca, e di autostrade non se ne parlava; una terra sconosciuta, tanto che il manager

di una grande agenzia turistica olandese scriveva proprio nel 1955 che c’erano “ancora tanti briganti”.

Enrico Mattei

E in Abruzzo, naturalmente, non si parla d’altro; eravamo diventati la grande speranza nazionale; quello che Mattei cercava di fare con la sua politica terzomondista, che non piaceva agli americani ed alle “Sette Sorelle” pareva che si potesse fare qui da noi, bastava bucare il più possibile sotto la nostra terra. Ma di Mattei, e forse questo sorprenderà, se ne parlò ben poco nel 1955, e se ne disse prevalentemente male, perché per una parte degli abruzzesi e dei molisani, era il “Nemico numero uno dell’Abruzzo”. (Valpescara 15 Dicembre 1955). Così al Consiglio Comunale di Pescara si discute, prima del Parlamento, della politica energetica italiana. Il PCI, per bocca di Miriam Mafai, che segue come assessore comunale la vicenda, sostiene l’Eni ed attacca la Petrosud (Gulf Oil+Montecatini); c’è una spaccatura interna nella DC, dove molti sono favorevoli a Mattei, ma Antonio Mancini, che l’anno dopo sarà eletto sindaco, sostiene l’iniziativa privata, ed attacca lo “statalismo” e l’Eni. Alle riunioni del Comune gli interlocutori vanno preparatissimi: Nevio Felicetti, giovanissimo, fa un intervento che non sfigurerebbe al Senato; ed esamina a fondo la questione, dagli aspetti economici, chiedendosi cosa avrebbe rappresentato un minore prezzo del petrolio per l’economia regionale, a quelli politici, dove, nel difendere l’iniziativa dell’Eni, l’industria di stato, ricorda che negli Stati Uniti “per avere la concessione bisogna dimostrare di essere cittadini americani”. Mancini era portato a leggere il territorio. E qui ne dà un esempio. Nel suo intervento –fatto a titolo personale perché la DC era spaccata– parte da lontano: illustra addirittura “la teoria dell’Antipaese elaborata da un geologo abruzzese, Ranieri Fabiani” che ci racconta come eravamo al tempo dei dinosauri; si avvicina con squarci storici al presente, nei quali ricorda Tocco da Casauria, il Bel Paese dell’Abate Stoppani, effigiato a sua insaputa sul formaggio; non mancano reminiscenze letterarie citando i versi di Domenico Stromei, il poeta ciabattino –“La lucina meravigliosa”– e per chiudere una nota evidentemente

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di FRANCESCO MANCINI

Il testo è tratto dal volume Molto mosso. Ricostruzione, ascesa ed eclissi dell’Abruzzo adriatico 1943-1973. Il libro, di imminente uscita, a cura di Giacomo D’Angelo e Francesco Mancini, è basato sul carteggio di Antonio Mancini.

autobiografica sul “doppio gioco dell’Arollo” (il torrente nei pressi di Tocco in cui da ragazzo si tuffava, uscendone “petrolizzato”). Giulio Spallone, la vera guida ideologica dei comunisti abruzzesi, che pure critica il significato politico dell’intervento, afferma, sembra senza ironia (nei verbali questo ogni tanto non si comprende): «Sono grato al dr. Mancini per averci informato della geofisica e della conformazione terrestre del nostro Abruzzo. All’uopo dovremmo fare degli opuscoli perché la gente conosca i particolari di quest’importante scoperta» (p. 34-35). Il democristiano parla invece per sé, e fatta la diagnosi, fa una prognosi piuttosto guardinga: la storia delle perforazioni Agip, forse eseguite senza tanta convinzione, induce a cautela; ricorda che furono “spinte fino a 1500 metri. Qui si ebbero manifestazioni metanifere ma lievi, mentre bisogna sperare che sotto ci sia qualcosa di più”.

Dallas adriatica

Pescara, che aveva allora l’aria americana di città di frontiera, chiamata capitale economica d’Abruzzo, in attesa di diventare capoluogo amministrativo non appena si facessero le Regioni, si candidava a diventare una specie di Dallas: i tecnici stranieri prendevano alloggio negli alberghi pescaresi; e qualcuno ricorderà pure la centrale radio, che sembrava un accampamento militare, che qualche anno dopo piazzarono sulla spiaggia di Montesilvano, dove si parlava solo inglese.

Sbaglio o bufala

L’effettiva produzione del pozzo di Alanno resta un mistero; sta di fatto che i benefici annunciati non si videro mai. Oggi viene da pensare ad un solenne sbaglio geologico: previsioni esagerate, volutamente sballate, miraggi, stime fasulle: ancora oggi lo scontro sulla “petrolizzazione” si fa su questi problemi anche se in condizioni diverse (le popolazioni non vogliono i pozzi, e le regole che oggi ci sono imporrebbero alle compagnie petrolifere di dare informazioni esatte e fare previsioni attendibili). A leggere i titoli entusiastici, astronomici di allora viene pure da pensare ad una colossale bufala. Montanelli, che di media ne capiva, dice che fu Mattei a far balenare il

miraggio del petrolio in Italia, perché questo creava un clima di aspettative miracolose, che gli permetteva di far passare cose che con il metano non erano pensabili. Tutto questo ovviamente si perde, sapendo come va a finire. Del petrolio un paio d’anni dopo non si parlò più; rimasero gli strascichi polemici: il PCI ancora volle sostenere che il petrolio ci fosse davvero, e che per oscure trame, l’industria privata non volesse estrarlo. All’inizio ce l’aveva sicuramente con la Montecatini, ma già nel ’56 Chiola e poi Spallone ne appoggiarono i progetti di fare stabilimenti chimici sulla costa. La stessa tesi della manovra oscura, diretta però contro l’Eni, la sostenne il MSI. Ma al di là dei retroscena, dell’incredibile atteggiamento dell’Eni, che pagava tutti, la stampa favorevole e pure quella contraria, il “petrolio” fu una brutta falsa partenza verso il futuro che sembrava a portata di mano, o meglio di suola. Nonostante lo scontro sotterraneo (troppo complesso per accennargli qui) fosse proprio su chi dovesse avere le chiavi del tesoro (le royalties), c’era un’aria di concordia regionale (addirittura s’erano riunificati Abruzzo e Molise); e sembravano superati campanilismi indomiti (del resto è facile spartirsi la manna che cade dal cielo).

Lezione mediatica

La lezione fu amara: uscire fuori, delusi, dalla sovraesposizione mediatica, (per fortuna attenuata dalla mancanza della televisione) lascia postumi che viaggiano su onde lunghe. S’era diffuso nel 1955 un sentimento particolare, “uno stato d’animo” come scriveva Laudomia Bonanni in pagine magnifiche, che, concludeva la poetessa, “non può durare a lungo”. Il contraccolpo fu infatti lo scetticismo dilagante, il riesplodere del campanilismo (mai cedere qualcosa di proprio nel presente, in cambio di un bene migliore e comune in futuro). Una vicenda che aiuta a vedere, come in un esperimento dal vivo, in che modo agiscono i meccanismi mediatici e politici. E può aiutare a rendere l’idea di quanto arduo sia stato anche solo impostare ciò che avrebbe poi segnato, con tutti i limiti che si vuole, la “modernizzazione” dell’Abruzzo: autostrade, industrie, università. Che al contrario del petrolio, vennero fuori davvero. 19

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ALBERTO BURRI

ALLA RICERCA DEI FONDALI PERDUTI Il grande maestro, che ha segnato l’arte della seconda metà del 1900, è celebrato con importanti mostre al Guggenheim Museum di New York e in altre città come Dusseldorf, Milano, Bologna, Napoli, Palermo. Anche l’Abruzzo ricorderà il centenario della sua nascita con una mostra a Teramo ma con il rammarico di non poter esporre i tre grandi fondali progettati e donati all’Aquila per la messa in scena de L’avventura di un povero cristiano realizzata dal Teatro stabile aquilano. di BRUNO CORà

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lberto Burri, il grande maestro dell’informale, è stato celebrato in tutto il mondo in occasione del centenario della sua nascita. Anche l’Abruzzo, con cui l’artista ebbe un vivo rapporto professionale, si unirà alle manifestazioni che dalla Lombardia alla Sicilia la Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, istituzione fondata dallo stesso Burri assieme a pochi antichi amici ed estimatori, ha promosso alternando mostre a convegni, proiezioni, dibattiti, rassegne di libri, conferenze, attività didattiche, visite guidate ai due musei Burri di Città di Castello e a numerose altre attività che non hanno tralasciato concerti, spettacoli di danza contemporanea e autentiche feste a vasta partecipazione popolare. Città come Bologna, Napoli, Cosenza, Teramo si preparano a unirsi alla straordinaria corale manifestazione di interesse già tributata da altre importanti sedi culturali, incluse città come Milano, Palermo, New York, dove grandi mostre si sono inaugurate (è il caso della retrospettiva in corso dal mese di ottobre presso il Guggenheim Museum) e altre, come quella che si aprirà a Düsseldorf nel mese di marzo 2016. Ma l’anniversario della nascita del grande pittore umbro, che ha rivoluzionato l’arte italiana e internazionale a partire dal secondo dopoguerra –evento sancito da una legge e da una Commissione Nazionale istituita dal Ministero dei Beni Culturali– è anche l’occasione per una nuova serie di studi sulla sua opera che non smette di sollecitare

discussioni e riflessioni. Nel quadro di una ripresa di interesse sui lavori realizzati in vita da Burri per il teatro, proprio in occasione del ripristino del Teatro Continuo nel Parco Sempione di Milano –ad opera del Comune di quella città, della Triennale e dello Studio NCTM, in collaborazione con la Fondazione Burri– è tornata alla luce anche l’azione svolta dal pittore abruzzese Sandro Visca, che a partire dal 1969 aveva collaborato con Burri per la realizzazione delle scene da lui concepite per L’avventura di un povero cristiano, dramma teatrale tratto dal celebre libro di Ignazio Silone, prodotto dal TSA e messo in scena prima a San Miniato al Tedesco e poi replicato a L’Aquila, dove peraltro a Burri era già stato dedicato un significativo “omaggio” nel 1962 nell’ambito della rassegna Alternative attuali, curata da Antonio Bandera ed Enrico Crispolti, presso il castello della città. Delle tre scene concepite da Burri e realizzate con la collaborazione di Visca ne è materialmente sopravvissuta solo una, oggi conservata presso gli ex Seccatoi del Tabacco di Città di Castello, attuale sede dei grandi cicli dipinti da Burri dal 1975 in poi. Le altre grandi installazioni sono andate perdute e non se ne sarebbe più parlato se l’occasione del Centenario non ci avesse indotto a farlo grazie anche alla preziosa testimonianza resa da Visca stesso che, avendo stretto un sodalizio di amicizia con il Maestro in quella esperienza condivisa, ne ha ricostruito interamente la vicenda. Ma ecco la significativa versione dei fatti dalla viva voce di Visca: «Nell’estate del 1969 fui chiamato da Luciano Fabiani, allora direttore del TSA (Teatro Stabile dell’Aquila) per realizzare le scene di Alberto Burri

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In alto e nella pagina a fianco tre momenti dello spettacolo L’avventura di un povero cristiano con le tre diverse scenografie progettate da Burri e realizzate da Sandro Visca. Qui sopra Visca al lavoro su uno dei fondali

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Qui sopra Sandro Visca e Alberto Burri. Nella pagina a fianco Visca davanti all’unico fondale superstite di quelli da lui realizzati e donati da Burri all’Aquila, conservato nel Museo di Città di Castello

progettate dal maestro dell’informale per lo spettacolo L’avventura di un povero cristiano di Ignazio Silone (regia di Valerio Zurlini, musiche di Mario Zafred, attori principali Giancarlo Giannini e Gianni Santuccio). Il lavoro richiesto consisteva nella realizzazione di tre fondali di dieci metri per sette metri e mezzo di altezza. Due fondali, uno bianco e uno rosso, dovevano essere eseguiti con materiale plastico combustibile, il terzo con varie tele di sacco. Le due combustioni le realizzai presso uno spazio della Fiera di Milano mentre per il sacco mi fu messo a disposizione il palcoscenico del Teatro Comunale dell’Aquila. Tra Milano e l’Aquila lavorai per più di un mese, giorno e notte, senza mai dormire. Dopo la prima rappresentazione a San Miniato in occasione della XXIV Festa del Teatro e dopo due repliche all’Aquila presso il Teatro Comunale, Burri decise di donare le scene alla città dell’Aquila a patto che si istituisse un piccolo Museo Burri comprendente, oltre ai tre fondali che avevo realizzato, i tre bozzetti originali e i progetti materici dei costumi. La motivazione di Burri scaturì dalla considerazione che lo spettacolo era collegato totalmente all’Abruzzo: il TSA dell’Aquila, il testo dell’abruzzese Ignazio Silone e la leggendaria avventura di Celestino V, eremita del Morrone e protagonista del gran rifiuto. Con Luciano Fabiani mi adoperai in tutti i modi a cercare una soluzione idonea per istituire il Museo Burri all’Aquila ma un locale idoneo a contenere i tre i fondali così grandi non si riuscì a trovare. Non avendo altra scelta,

decidemmo di chiedere temporaneamente ospitalità presso il Forte spagnolo dell’Aquila. Il soprintendente alla Direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici dell’Abruzzo, architetto Mario Moretti, ci accolse con garbata amichevolezza e benevolmente ci consentì di occupare uno dei bastioni del Forte spagnolo adatto alla misura dei fondali. E così facemmo. Dopo qualche anno la prematura scomparsa dell’architetto Moretti segnò l’inizio della fine delle scene di Burri. Il successore del soprintendente Moretti, la dottoressa Graziana Barbato, non solo non ritenne opportuna la conservazione delle scene di Burri nel Forte spagnolo, ma ordinò di rimuoverle dai supporti di sostegno per gettarle tra i detriti di uno dei cunicoli sotterranei del Forte, ancora non restaurato e in pieno degrado. Tuttavia la cosa più grave fu che dopo nostre molteplici richieste non accordò un incontro né a Luciano Fabiani, né tanto meno a me perché potessi visionare le scene e valutarne lo stato in cui versavano. Nonostante pressanti sollecitazioni, per alcuni anni il TSA non riuscì a riappropriarsi delle tre scenografie. Solo con l’avvicendamento della nuova soprintendente, la dottoressa Margherita Asso, riuscimmo a recuperare le scene e toglierle dalla penosa condizione in cui erano state abbandonate. Purtroppo la combustione rossa era irrimediabilmente distrutta, in pratica ridotta a brandelli, mentre la combustione bianca e quella di sacco, nonostante malridotte dall’umidità e quasi seppellite dai

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detriti, furono ritirate e trasportate presso gli uffici del TSA; al penoso recupero delle scene partecipammo io e Luciano Fabiani. Nel 1981 in una accorata telefonata Burri mi pregò di restaurargli il fondale di sacco perché aveva necessità di esporlo in una mostra personale a Pesaro dedicata ai suoi lavori teatrali. A chiusura della mostra il fondale di sacco non fu riconsegnato al TSA ma fu trattenuto dallo stesso Burri che lo riportò a Città di Castello. Riguardo alla combustione bianca, dopo anni di insistenze da parte mia presso la direzione del TSA perché fosse riconsegnata a Burri, tra bugie e verità non se ne è saputo più nulla. La gravità di questa storia ingloriosa sta nel fatto che i tre fondali, a parte quello di sacco che insieme Errico Centofanti (a quel tempo direttore del TSA), portai a Pesaro, non sono mai stati riconsegnati a Burri. Di tutto questo ne sono testimone per le ripetute lamentele fattemi da Burri prima che morisse e recentemente confermate dall’architetto Sarteanesi della Fondazione Albizzini che oggi conserva solo quella di sacco presso gli Ex essiccatoi dei tabacchi di Città di Castello, insieme a tutte le opere donate da Burri. In un articolo non firmato del Messaggero dell’Aquila, uscito venerdì 1 dicembre 1989, l’articolista pone un’interrogazione al sindaco dell’Aquila Enzo Lombardi (allora Commissario straordinario del TSA) del perché della decisione di riconsegnare a Burri le scene, come in precedenza lo stesso sindaco aveva dichiarato

ufficialmente, quando le stesse erano state donate da Burri al TSA. Non si è mai capito perché il TSA non sia stato capace di gestire questa storia incresciosa sottraendo alla città dell’Aquila un patrimonio di inestimabile valore, ambito dai più importanti musei d’arte moderna del mondo. Lo scenario di questo giallo non sarebbe completo se non dicessi che Burri, grazie alle sollecitazioni del regista Valerio Zurlini, progettò le scene per il TSA gratuitamente e che il sottoscritto fu impegnato per due mesi alla realizzazione e alla gestione delle scene durante le varie repliche dello spettacolo, senza alcun compenso, e tantomeno senza nessun aiuto di altri scenotecnici nella realizzazione, come erroneamente o in mala fede è stato pubblicato sia sulla locandina del TSA riguardante lo spettacolo, e in qualche dubbia pubblicazione editata di recente». Fin qui la dichiarazione testimoniale di Sandro Visca. Di quei lavori purtroppo andati perduti, fortunatamente tuttavia esistono i bozzetti preparatori realizzati dal Maestro, che sono conservati presso la Fondazione nel Museo Burri di Palazzo Albizzini a Città di Castello. Essi, insieme alla documentazione fotografica delle scenografie dello spettacolo, consentono di conoscere e fruire ancora oggi di quelle importanti opere.

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In questa pagina le opere dei tre artisti abruzzesi presenti a Palazzo Vitelli: dall’alto Nunzio, Ettore Spalletti e Giuseppe Stampone; nella pagina a fianco: Alberto Burri in alcune immagini esposte a Lamezia Terme

OMAGGIO AL MAESTRO Una mostra e un meeting di grandi artisti internazionali riuniti a Città di Castello per confrontarsi sul concetto di arte contemporanea

S

otto il titolo Au Rendez-vous des Amis (che riprende quello di un celebre dipinto di Max Ernst) si sono tenuti a Città di Castello, promossi dalla Fondazione Burri, una mostra e il più grande meeting di artisti mai riunitisi negli ultimi cinquant’anni per discutere sui maggiori problemi della condizione estetica in relazione al Sacro, alla Comunicazione, all’Etica, alla Museologia, allo Sviluppo sociale e ad altri aspetti con cui l’arte contemporanea è chiamata a confrontarsi. Gli artisti invitati da nove direttori di musei europei erano sessantasei, ognuno dei quali ha esposto una propria opera e partecipato a un tavolo di lavoro tra i nove predisposti per affrontare una riflessione sugli argomenti all’ordine del giorno di quello che si è rivelato una sorta di “parlamento dell’arte”, sempre più necessario per affrontare problemi e difficoltà dell’azione artistica nella contemporaneità. La mostra, tuttora aperta presso Palazzo Vitelli a Città di Castello, avrà esito poco prima di Natale, quando si presenteranno gli atti dell’importante iniziativa curata da Bruno Corà, presidente della Fondazione Burri. Ecco i nomi degli artisti che hanno partecipato all’evento: Marco Bagnoli, Stephan Balkenhol, Gianfranco Baruchello, Bizhan Bassiri, Jean-Pierre Bertrand, Gianni Caravaggio, Lawrence Caroll, Enrico Castellani, Giuliana Cunèaz, Richard Deacon, Silvie Defraoui, Auke de Vries, Antonio Dias, Braco Dimitrijevic, Bruna Esposito, Marco Gastini, Eugenio Giliberti, Giorgio Griffa, Jusuf Hadzifejzovic, Abel Herrero, Shirazeh Houshiary, Paolo Icaro, Emilio Isgrò, Jan Jedlička, Magdalena Jetelovà, Joseph Kosuth, Jannis Kounellis, Christiane Löher, Sergio Lombardo, Luigi Mainolfi, Masbedo, Eliseo Mattiacci, Vittorio Messina, Maurizio Mochetti, Carmengloria Morales, Hidetoshi Nagasawa, Hermann Nitsch, Nunzio, Mimmo Paladino, Nakis Panayotidis, Claudio Parmiggiani, Paola Pezzi, Michelangelo Pistoletto, Lucio Pozzi, Luisa Protti, Renato Ranaldi, Franco Rasma, Giovanni Rizzoli, Bernhard Rudiger, Remo Salvadori, Felix Schramm, Helmut Schweizer, Martin Schwenk, Anita Sieff, Santiago Sierra, Nedko Solakov, Giuseppe Spagnulo, Ettore Spalletti, Giuseppe Stampone, Marco Tirelli, Grazia Toderi, Costas Tsoclis, Alexandros Tzannis, Felice Varini, Eduard Winklhofer, Gilberto Zorio.

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RICORDANDO IL MAESTRO In mostra a Lamezia Terme le immagini di Alberto Burri fotografato al lavoro ma anche nella vita quotidiana

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n occasione delle celebrazioni per il centenario della nascita di Alberto Burri, il MAON (Museo d’Arte Otto e Novecento) di Rende (CS) ha promosso la mostra Burri e i poeti. Materia e suono della parola. Nella originale iniziativa realizzata in collaborazione con la Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri di Città di Castello, verrà esposto un grande cellotex policromo e oltre venti “copertine” di libri realizzati in esoeditoria in collaborazione tra Burri e il poeta e critico d’arte Emilio Villa, autore delle 17 Variazioni su temi proposti per una pura ideologia fonetica (Roma, 1955). L’opera in versi di Villa fu realizzata con l’apporto determinante di Burri che creò per essa, a mano, alcune decine di esemplari di copertine, sempre diverse e con tecniche miste, oltre ad alcune tavole che, collocate tra i versi di Villa, ne accompagnano le sulfuree espressioni. Insieme ai rari esemplari posti in mostra, figurano altre creazioni che Burri realizzò per altri pochi poeti, a partire da Dante e fino a Ungaretti. Non sono mancati, infatti, nel corso degli anni, i contributi alla lettura dell’opera di Burri da parte del grande poeta ermetico come pure di Sinisgalli, De Libero, De Mandiargues, Olson e altri. Ma Burri ha amato la fotografia e frequentato anche i fotografi. Contemporaneamente, infatti, all’iniziativa di Rende e promossa in collaborazione con il MAON, a Lamezia Terme avrà luogo la mostra Intorno a Burri: Scatti d’Autore, a cura di Tonino Sicoli e Andrea Romoli Barberini, che include le opere di cinque fotografi: Aurelio Amendola, Vittorugo Contino, Sanford H. Roth, Willem Sandberg e Sandro Visca. In gioventù, la frequentazione con Burri consentì a Visca di avere con il Maestro incontri, conversazioni ed episodi venatori, passione condivisa tra i due artisti. Nel 1978 Visca ebbe occasione di realizzare un’interessante serie di foto di Burri, di cui alcune esposte nella mostra di Lamezia. La mostra presso lo Studio Gallery e l’Associazione P-Art di Lamezia è promossa dal MAON e dalla Regione Calabria nell’ambito dei progetti integrati di sviluppo regionale.

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UNIVERSIVARIO

SAPERI D’ABRUZZO La Regione punta sul suo sistema universitario come motore per l’innovazione e la crescita di Barbara Barboni*

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a società della conoscenza si alimenta dalla combinazione di quattro elementi interdipendenti: la produzione dei saperi, principalmente mediante la ricerca scientifica; la loro trasmissione mediante l’istruzione e la formazione; la loro diffusione con le tecnologie dell’informazione e della comunicazione; il loro sfruttamento per il tramite dell’innovazione ed il trasferimento tecnologico. Trovandosi al punto d’incrocio fra ricerca, formazione ed innovazione, le Università potrebbero essere nella condizione di indirizzare, sotto diversi aspetti, le leve dell’economia e della società della conoscenza. Nell’esercizio di questa responsabilità le Università non sono sole. Esse trovano sul territorio in cui operano insostituibili compagni di viaggio entro il tessuto produttivo; nonché un concreto elemento di facilitazione nelle politiche di sviluppo Regionale. Il punto di incontro fra questi attori, Università, imprese, società e Regione, che a diverso titolo alimentano le complesse reti d’innovazione è attualmente rappresentato dal modello di concertazione delle politiche di sviluppo adottato dall’amministrazione regionale abruzzese. Tale impegno si declina attraverso azioni di investimento in grado di dare concretezza e strumenti finanziari per valorizzare questa essenziale sinergia fra i soggetti in campo. Ne sono un esempio importante alcune linee d’intervento della regione Abruzzo, tutte rivolte a sostenere finanziariamente l’alta formazione universitaria regionale sviluppata in una prospettiva di interazione territoriale: il progetto ”Alta formazione” (AL. FO.), il progetto “AL. FO. aggiuntivo: Abruzzo musica” e la linea d’intervento “Sovvenzione globale: Più ricerca e innovazione”. In particolare, quest’ultima azione progettuale, appena conclusasi, ha determinato l’occasione del recente incontro tenutosi presso l’Università di Teramo “Abruzzo Regione di ricerca” finalizzato alla presentazione pubblica dei risultati conseguiti. Una linea d’intervento che la Regione ha promosso

attraverso un bando competitivo nazionale, per intensificare la cooperazione tra laureati abruzzesi e tessuto produttivo del territorio, e orientarla maggiormente verso l’innovazione e, più in generale, indirizzarla al trasferimento progettuale. Un bando che le tre Università regionali si sono aggiudicate, per la prima volta, partecipando come soggetto attuatore unico. La linea d’intervento è complessa perchè richiede al soggetto attuatore la contemporanea capacità di coordinare iniziative formative ed indirizzarle verso attività di ricerca ed innovazione. Il tutto finalizzato allo sviluppo di potenziali novanta idee progettuali di trasferimento tecnologico e pre-competitivo da realizzarsi presso realtà produttive e istituzioni di ricerca in tre ambiti territoriali: Aquila, Chieti-Pescara e Teramo. Le prospettive offerte dai risultati presentati in occasione dell’incontro pubblico fissano alcuni elementi di lettura e riflessione sul reale valore aggiunto che l’azione congiunta delle tre Università (sistema universitario abruzzese) può offrire concretamente allo “sviluppo regionale”. In primo luogo, le Università regionali si sono mosse come “integratori” consapevoli di complementari forme di conoscenza. Questo è il risultato di una decennale politica del sistema universitario regionale che ha prodotto una forte specializzazione essenziale per razionalizzare la progettualità formativa e di ricerca regionale; ma anche per limitare la frammentazione dei finanziamenti pubblici nonché aumentare l’impatto competitivo verso l’esterno. Nel caso specifico della linea d’intervento regionale “Più ricerca e innovazione” questa fattiva sinergia si è realizzata nella capacità di coprire entro un’unica azione progettuale tutti gli ambiti produttivi e di ricerca del territorio concentrando sull’Università dell’Aquila tutte le candidature e le attività di formazione negli ambiti dell’“Industria meccanica e automotive” e “ICT come fattore abilitante per la Smart Cities and Smart communities”. L’Università di Chieti-Pescara ha avocato a sè le tematiche relative all’“Edilizia sostenibile” e “Medico Farmaceutico” mentre l’Università di Teramo

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si è concentrata sugli ambiti “Biotecnologici biomedicali”, “Agroalimentare” e delle “Discipline trasversali”. Inoltre le Università, nel trasferire conoscenza attraverso la formazione, si sono dimostrate in grado di operare come concreti attori dello sviluppo sociale e culturale attraverso i legami con il diversificato capitale sociale che ruota intorno ad esse. Di questo troviamo testimonianza nei risultati ottenuti nella fase di selezione. Senza le tre Università abruzzesi a guidare il progetto, non si sarebbe sicuramente riusciti a garantire una così elevata attrattività all’iniziativa: la domanda potenziale non solo ha superato ampiamente quella effettiva (150 candidature per 90 borse di ricerca) ma, soprattutto, ha coinvolto candidati con un elevato profilo di qualificazione richiamando, al contempo, laureati abruzzesi che hanno conseguito la laurea al di fuori del circuito universitario regionale stesso (16% delle candidature). Tuttavia il momento di facilitazione più importante che le tre Università sono riuscite ad offrire si è evidenziato durante la seconda fase della linea progettuale: al momento, cioè, dell’inserimento dei candidati nel tessuto produttivo e di ricerca regionale. Non sarebbe stato possibile, infatti, realizzare in un solo mese l’inserimento coerente di ben settantacinque borsisti con i relativi progetti di ricerca senza poter contare sull’ampia rete di collaborazioni che le tre Università vantano anche a livello territoriale. Grazie alla cooperazione fra le Istituzioni territoriali impegnate in ricerca e innovazione oltre una metà dei borsisti è stato accolto presso imprese ed industrie, un 6% in amministrazioni pubbliche e private e la restante quota in enti di ricerca, in primis l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Abruzzo e del Molise, e nelle Università regionali. I risultati della linea d’intervento, per ora censiti esclusivamente sui borsisti dell’ambito territoriale Aquilano e Teramano (46 borse di studio complessive), sia in termini di produttività scientifica (22 pubblicazioni su riviste internazionali, 1 brevetto, 2 banche dati open access) che di ricaduta occupazionale (3 assunzioni, 8 contratti di collaborazione e

1 Spin off), sono decisamente incoraggianti. Soprattutto in considerazione che i risultati sono stati monitorati entro i soli nove mesi di attività del progetto; ed ancor più perchè gli obiettivi raggiunti vanno, comunque, riportati nel contesto economico nazionale e regionale, in cui le performance innovative delle imprese, soprattutto di piccola dimensione, sono ridotte, e la competitività è prevalentemente associata a profili di media-bassa tecnologia dove la diffusione di conoscenza prevalente è quella codificata. Interpretando i risultati conseguiti, le Università regionali hanno dimostrato di poter rappresentare per il territorio un “hub della conoscenza”; hanno la consapevolezza di poter rappresentare a pieno titolo un terminale su cui reti globali depositano competenze e “know-how” operando entro gli ambiti di specializzazione e di sviluppo del territorio. Il merito di questo progetto è, inoltre, quello di aver messo in evidenza che il motore d’innovazione che le Università possono offrire al territorio non si limita al loro esclusivo ruolo imprenditoriale basato su una visione molto anglosassone di commercializzazione diretta o indiretta dei risultati della ricerca universitaria (brevetti, licenze, spinoffs, ecc.). L’interazione territoriale può, altresì, arricchirsi ancor più dalla “terza missione” delle Università: ovvero dalla possibilità di offrire un contributo all’innovazione del sistema economico in termini di condivisa e programmata formazione e valorizzazione delle risorse umane. Questo sarebbe auspicabilmente tanto più agevole potendo rivolgersi ad un interlocutore rappresentato da un “sistema Universitario” maturo come quello regionale che nei fatti ha saputo comprendere che la sola speculazione scientifica non produce crescita e che è necessario inserire la produzione di conoscenza accademica in percorsi di valorizzazione dell’innovazione, in complementarietà con programmi di sviluppo del tessuto economico regionale e di progettualità anche all’interno di azioni di supporto alla domanda reale di innovazione. *Prorettore alla ricerca, Università di Teramo

Nella foto i Rettori delle tre Università abruzzesi: da sinistra Carmine Di Ilio (Chieti-Pescara), Paola Inverardi (L’Aquila) e Luciano D’Amico (Teramo) 29

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MANGIARE DA CESARI Olio, formaggi, navoni di Amiternum, cipolle, fichi: questa l’Eat Parade dei Romani, secondo l’indagine condotta dal ricercatore Francesco Berardi sull’apprezzamento dei prodotti tipici abruzzesi nell’antichità. Che si rivela un ottimo strumento per la promozione e la valorizzazione del nostro attuale patrimonio agroalimentare

L’

indagine scientifica, anche quella filologicoletteraria, apparentemente lontana da immediate ricadute pratiche, può aiutare a individuare le potenzialità di un territorio e trasformarle in occasioni di rilancio economico e progresso sociale. Al di là degli specifici risultati conseguiti e delle informazioni raccolte, è forse questa la conclusione più interessante della mia esperienza di ricerca, finalizzata a ricostruire la produzione, la circolazione e il gradimento dei prodotti tipici abruzzesi nell’antica Roma sulla base delle testimonianze storiche e letterarie. E questo è stato anche il leit-motiv dei diversi interventi succedutisi nel recente incontro “L’Abruzzo regione di ricerca” (Università di Teramo, 30 settembre 2015) tra i rappresentanti dei tre atenei abruzzesi e i vertici dirigenziali della Regione Abruzzo riuniti per discutere gli esiti del progetto Al. Fo. (Reti per l’Alta Formazione). Nel corso del convegno, cui ha preso parte anche il prof. Paolo Sacchetta, referente del piano Al.Fo. per l’Ateneo “G. d’Annunzio”, ho avuto l’opportunità di presentare l’esito delle mie indagini. “L’Abruzzo sulla tavola dei Romani” è il titolo del progetto, nato nel gennaio 2014 dal casuale incontro tra la curiosità dello studio filologico e le concrete esigenze del territorio, quando la lettura di alcuni epigrammi di Marziale, poeta latino del I sec. d.C., pensati come biglietti augurali per scambi di doni, si incrociò con la pubblicazione del bando Al. Fo. da parte dell’Università G. d’Annunzio. La lettura di Marziale rivelava, infatti, la passione degli antichi per molti prodotti dell’Abruzzo (ortaggi, formaggio, vino), mentre il bando assegnava finanziamenti a ricerche che avessero ricadute sul tessuto socio-economico del territorio. Pensai allora di presentare un progetto che mirasse a raccogliere dai testi latini e greci notizie riguardo all’apprezzamento delle specialità abruzzesi da parte dei Romani per mettere a disposizione degli operatori di questo settore in crescente espansione informazioni uti-

li a promuovere azioni di valorizzazione del patrimonio agro-alimentare abruzzese. Chi opera nel mercato delle produzioni tipiche cerca di solito di pubblicizzare i prodotti attraverso richiami alla tradizione e pone la propria attività in continuità con i sistemi di lavorazione degli antichi, ma, non possedendo notizie scientificamente vagliate, rischia di incorrere in gravi errori: usa testimonianze sbagliate per propagandare i marchi, non riesce a ripristinare vecchie filiere produttive per carenza di dettagli o non immagina di poter sfruttare il marketing di prodotti meno conosciuti, ma molto celebri nell’antica Roma, privandosi di ottime occasioni di crescita. Il mio progetto di ricerca voleva rispondere a queste esigenze, indagando non tanto la realtà economico-sociale dell’Abruzzo antico (già autorevoli studi se ne erano occupati), ma l’indice di gradimento da parte dei Romani. Presentai quindi la mia proposta con l’entusiasmo di chi credeva fortemente nella possibilità che anche l’indagine filologica potesse mostrare la sua spendibilità in termini economici, contribuendo non poco all’iniziativa imprenditoriale. Questa nuova, inconsueta prospettiva di ricerca è stata subito apprezzata dall’Università G. d’Annunzio, dal prof. Paolo Sacchetta e dalla prof. Maria Silvana Celentano, l’uno, come già ricordato, responsabile per l’ateneo del Progetto Al.Fo., l’altra tutor della mia attività di ricerca in qualità di ordinario di filologia classica, i quali hanno condiviso con me la sfida di immaginare ricadute economiche anche per discipline non prettamente tecnico-scientifiche. Grazie alla collaborazione delle strutture del Dipartimento di Lettere, Arti e Scienze Sociali e alla supervisione del docente-tutor, la ricerca si è potuta sviluppare in un’esperienza tutta scientifica di ricostruzione, classificazione e interpretazione delle testimonianze antiche, necessaria per prospettare poi un reimpiego dei risultati in vista di azioni volte alla valorizzazione del patrimonio agro-alimentare abruzzese. L’esito degli studi è condensato in una monografia dal

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CHIETI - PESCARA

titolo L’Abruzzo sulla tavola dei Romani (Editrice Pliniana, Perugia 2015), che dà molte informazioni su modalità di produzione, circolazione e gradimento dei prodotti abruzzesi, confermando il successo di alcune specialità come l’olio delle colline teramane e il formaggio vestino, ma sfatando molti luoghi comuni soprattutto sul vino (il peligno e il marsicano non erano particolarmente amati a Roma), tratteggiando un’inaspettata storia di successi per ortaggi e frutti (navoni e cipolle di Amiternum, fichi marrucini) non adeguatamente valorizzati sul mercato attuale, ma rilevando anche gravi omissioni (sfugge ad esempio alla letteratura latina il mondo dell’allevamento o della pesca abruzzesi). Scaturisce un’immagine spesso convenzionale dell’Abruzzo, in cui il filtro della rappresentazione letteraria si sovrappone alla realtà storico-economica, invitando alla prudenza nella lettura delle fonti antiche, ma lasciando molte informazioni sull’apprezzamento dei prodotti abruzzesi nell’immaginario dei Romani. È necessaria quindi l’indagine filologica per discernere criticamente i dati su cui programmare il rilancio delle produzioni tipiche. Del resto la spendibilità delle informazioni raccolte è stata da subito un obiettivo del progetto scientifico; per questo è stata avviata un’iniziativa di pubblicazione on line dei dati acquisiti sotto forma di schede tecniche corrispondenti ai diversi prodotti tipici, grazie ad un accordo tra il Dipartimento di Lettere, Arti e Scienze Sociali e gli uffici della Regione Abruzzo. La ricerca scientifica, in questo modo, mette a disposizione degli operatori economici informazioni che potranno costituire termini di riferimento per l’iniziativa imprenditoriale. In questo senso possono profilarsi almeno quattro linee di intervento per un progetto di ricerca come questo: a) implementare campagne pubblicitarie di prodotti tipici, soprattutto di quei prodotti ad oggi ancora trascurati, ma molto apprezzati dagli antichi; b) favorire esperienze di ripristino di antiche filiere produttive grazie alle notizie di carattere tecnico

conservate nei manuali dell’antichità; c) raccogliere le informazioni utili per la certificazione e il riconoscimento di marchi tipici (IGP, IGT, DOP, STG); d) promuovere lo sviluppo di aree rurali attraverso la valorizzazione delle produzioni locali. In questo senso la ricerca si apre a ulteriori sviluppi non solo in campo scientifico, ma anche nei settori dell’applicazione tecnica e dell’iniziativa economica, collocandosi così nel solco delle più innovative esperienze di collaborazione tra ricerca ed imprenditoria promosse in altre regioni d’Italia, come la Sicilia, dove CNR, Università di Catania e imprenditori locali hanno pensato di ripristinare e commercializzare pregiate qualità di vino di epoca romana. Nell’ambito di un mercato che sembra sempre più apprezzare le produzioni tipiche e vede crescere costantemente forme di turismo enogastronomico e fenomeni legati al cosiddetto slow-food, anche la ricerca storico-letteraria può dunque proficuamente inserirsi per guidare l’attività di promozione del patrimonio agro-alimentare. È imprescindibile assumere le lenti della ricerca scientifica per vedere la bellezza di un’eredità culturale e scorgere con lungimiranza, lungo i sentieri dell’antico, la mèta di proficui sviluppi futuri. Tale riflessione appare particolarmente valida per un paese come l’Italia, così ricco di paesaggi e tradizioni. Il progetto, maturato negli studioli del Dipartimento di Lettere, Arti e Scienze Sociali e cresciuto tra i libri della Biblioteca Paratore dell’Università G. d’Annunzio, crede fermamente in queste potenzialità, lasciando ad altri l’opportunità di tradurre in imprenditoria l’attenta lettura dei testi antichi.

Dott. Francesco Berardi Assegnista di ricerca, Progetto regionale di Alta Formazione (AL.FO.), Università degli Studi “G. D’Annunzio”, Chieti-Pescara

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UNIVERSIVARIO

ALLEVARE IL BENESSERE Nel nuovo Ospedale Veterinario dell’Università di Teramo la dottoressa Alessia Gloria ha individuato e testato strategie innovative per lo sviluppo di una zootecnia sostenibile, capace di aumentare la produzione salvaguardando la salute animale, con un ridotto impatto ambientale

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na Facoltà unica in Abruzzo, quella di Medicina Veterinaria a Teramo, che nel 2007, è stata certificata dall’European Association of Establishments for Veterinary Education, organismo europeo di qualità dell’insegnamento della medicina veterinaria. E che oggi dispone delle modernissime “facilities” dell’Ospedale Veterinario Universitario Didattico (OVUD), inaugurato nel 2013 dall’Ateneo Teramano proprio per mantenere gli elevati standard qualitativi di formazione e di ricerca del settore. La struttura, che ha trovato la propria realizzazione a Piano d’Accio, alle porte di Teramo, rappresenta per la città e la Regione un’opportunità di crescita formidabile offerta agli studenti e ai laureati in alta formazione. Nell’ospedale veterinario servizi clinici e diagnostici su piccoli e grandi animali da compagnia e di interesse zootecnico si alternano ad attività di ricerca. Un moderno contenitore, dove professionalità riconosciute a livello nazionale e internazionale operano avvalendosi di attrezzature altamente specialistiche indispensabili non solo per offrire un servizio di qualità al territorio, ma anche per potenziare un’attività di ricerca che vede nell’Ateneo Teramano una delle realtà più dinamiche del centro Italia. Fra queste, basti pensare alla presenza nell’OVUD, di una risonanza magnetica per la diagnostica avanzata per piccoli animali e per il cavallo, di una banca di sangue per le trasfusioni in piccoli animali e di un treadmill acquatico per la riabilitazione del cane ed un treadmill per effettuare le prove da sforzo nei cavalli sportivi.

È proprio all’interno dell’OVUD che è cresciuta professionalmente la dottoressa Alessia Gloria, un PhD in Biotecnologie della riproduzione, giunta fra i trenta vincitori della borsa di ricerca della linea di intervento regionale Sovvenzione Globale “Più ricerca e innovazione”. La Dr.ssa Gloria è una dei primi ricercatori che ha usufruito delle moderne strutture del nuovo Ospedale, svolgendo accanto all’attività clinicodiagnostica inerente la riproduzione animale un’intensa attività di ricerca indirizzata a studiare e migliorare le tecniche di analisi e conservazione dei gameti nelle specie domestiche. Il progetto di ricerca sviluppato durante la borsa di ricerca, intitolato “Improvement of protective strategies for bull sperm function: a model for human sperm preservation”, è stato volto a migliorare l’efficienza di alcune tecniche di selezione cellulare che vedono l’impiego di strumentazione avanzata applicata alla riproduzione del bovino. Infatti la possibilità di svolgere questo progetto è fortemente legata alla crescente domanda delle realtà zootecniche del territorio in linea con il crescente fabbisogno alimentare globale in espansione. Questo spinge parte dei ricercatori a studiare metodi biotecnologici in grado di incrementare la produttività e l’efficienza riproduttiva degli animali allevati attraverso approcci che siano, al contempo, fruibili dagli allevatori. E, proprio per sottolineare lo stretto rapporto fra ricerca avanzata e contesto zootecnico abruzzese, il progetto ha visto come partner esterno l’Associazione Regionale Allevatori d’Abruzzo, che

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TERAMO

raccoglie le principali aziende zootecniche del territorio. Il forte interesse all’applicazione del progresso scientifico in questo campo è strettamente legato alla necessità, molto sentita in Abruzzo, di valorizzare il proprio patrimonio zootecnico. Fra le eccellenze abruzzesi si deve annoverare, infatti, la bovina di razza Marchigiana, che è tutelata dal marchio di indicazione geografica protetta (I.G.P.) per la produzione del “Vitellone bianco dell’Appennino”. Le tecniche sviluppate dal progetto di ricerca possono essere, inoltre, traslate anche ad altre specie domestiche che hanno un ruolo di primo piano sia per le ricadute sociali (animali da compagnia come cane o gatto) che di crescita economica in Abruzzo così come sul territorio nazionale. Infatti, il fine ultimo del progetto è stato quello di individuare e testare delle strategie innovative per lo sviluppo di una zootecnia sostenibile che sappia coniugare un ridotto impatto ambientale, con la produzione e il benessere animale. Le applicazioni biotecnologiche in ambito zootecnico sono e saranno sempre di più uno strumento fondamentale di crescita economica di un territorio come l’Abruzzo a forte vocazione agroalimentare, capaci di rispondere sia a necessità di tipo commerciale che di tipo socio-economico. La competitività cui l’Abruzzo deve tendere dovrebbe passare sia attraverso la valorizzazione biotecnologica delle produzioni primarie che la consapevolezza del valore del proprio passato dove la ricerca ed il trasferimento tecnologico ne sono l’indispensabile strumento.

Dott.ssa Alessia Gloria Borsista di ricerca, Linea d’intervento Sovvenzione globale “Più ricerca e innovazione”, Università degli Studi di Teramo

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UNIVERSIVARIO

CONVERTIRE DETTO FATTO È completamente made in Abruzzo il convertitore progettato da Ottavio Nuccilli, giovane ricercatore dell’Università dell’Aquila, realizzato dalla LFoundry di Avezzano

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inquant’anni di formazione di eccellenza. Il biglietto da visita della Facoltà di Ingegneria dell’Aquila non lascia dubbi sulla qualità della sua offerta formativa, che vede –dati alla mano– il 70 % dei suoi laureati trovare lavoro entro tre anni dalla laurea, percentuale che sale al 90% a cinque anni. Una fucina di cervelli, quindi, dalla quale è uscito anche Ottavio Nuccilli, ingegnere e ricercatore classe 1984, che partecipando al bando regionale “Più ricerca e innovazione” è riuscito a realizzare il suo progetto di un “convertitore analogico-digitale con compensazione automatica dell’offset”, nell’ambito di ricerca “ICT come fattore abilitante per le Smart cities e le Smart communities”. «Il motivo per cui l’elettronica digitale ha avuto molto successo –spiega Nuccilli– risiede fondamentalmente nella possibilità di realizzare dispositivi sempre più piccoli, a basso consumo, sempre meno costosi, con prestazioni

sempre maggiori e con tempi di sviluppo ridotti rispetto alla tecnologia analogica». Ma perché il mondo digitale funzioni correttamente c’è bisogno, prosegue Nuccilli, di convertire i dati analogici (ossia grandezze fisiche come temperatura, umidità, tasso di inquinamento, radiazione ultravioletta, voce) in informazioni digitali: «Queste grandezze fisiche vengono registrate dallo specifico sensore, il cui segnale elettrico va “tradotto” in un segnale digitale, leggibile cioé dallo strumento informatico. Per questo esistono in commercio numerosi convertitori, con caratteristiche diverse tra loro, che una volta prodotti vanno testati per verificarne il corretto funzionamento: viene cioè verificato che il dato digitale ottenuto rappresenti effettivamente la grandezza analogica originaria». Non basta, cioé, che –ad esempio– il display elettronico della nostra automobile indichi che nel serbatoio c’è “un litro” di carburante, spingendoci a raggiungere il distributore più

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L’aqula vicino, ma che la quantità effettiva presente nel serbatoio sia quella mostrata sul display. «Purtroppo –prosegue l’ingegnere– a causa di molti fattori che intervengono in fase di produzione, i dispositivi realizzati hanno un comportamento diverso da quello atteso ed alcuni di essi potrebbero risultare non idonei alla commercializzazione. In tal caso dunque il profitto dell’azienda produttrice di dispositivi (detta foundry) si riduce, impattando anche sul costo finale del dispositivo che risulterà maggiorato. Inoltre, a causa dell’invecchiamento naturale dei componenti presenti nei convertitori, potrebbe accadere che tali dispositivi non funzionino più correttamente». Il convertitore progettato da Nuccilli, implementando una particolare tecnica chiamata “Compensazione Automatica dell’Offset”, ha lo scopo «di ridurre gli effetti indesiderati precedentemente evidenziati al fine di migliorare l’affidabilità del dispositivo e al contempo migliorare la resa, cioè il numero di dispositivi funzionanti sul numero totale di dispositivi realizzati». Il che si traduce in un vantaggio economico per l’azienda e in una ulteriore garanzia di affidabilità del dispositivo per il consumatore finale. Teatro del progetto sviluppato dal brillante ingegnere è stata la LFoundry di Avezzano, l’unica azienda in Abruzzo specializzata nella produzione di micro e nanotecnologie. Avvalendosi della strumentazione messa a sua disposizione, il giovane ricercatore ha potuto portare a termine il suo progetto mettendo in campo le conoscenze acquisite durante gli studi, a testimonianza non solo dell’alta formazione impartita dall’Università dell’Aquila, ma anche della possibilità di poter progettare un qualunque sistema elettronico utilizzando specifiche “librerie” contenute nel PDK (Process Design Kit) messe a disposizione da LFoundry per poi poter far realizzare fisicamente il dispositivo dalla stessa azienda. «Le applicazioni possibili dei convertitori –spiega Nuccilli– sono molteplici: dal settore automotive a quello ambientale, dalla domotica all’agricoltura, dalla farmaceutica alla metallurgia… in pratica, ogni processo produttivo e ogni situazione del quotidiano in cui si utilizzino rilevatori che hanno il compito di convertire le informazioni analogiche, ossia delle grandezze fisiche, in grandezze digitali». Il lavoro di Nuccilli non si è fermato qui: «Successivamente è stato portato a termine anche il processo inverso, cioè la conversione delle informazioni digitali in informazioni analogiche. Il dispositivo (“Convertitore Digitale/Analogico low power”) consente così la fruizione dei dati digitalizzati che, dopo aver subito una manipolazione digitale, potrebbero richiedere una conversione in formato analogico». Il tutto, lo chiariamo, è qualcosa di estremamente piccolo da realizzare su una fetta di silicio, chiamata Wafer, la quale costituisce il… pane quotidiano dell’azienda tedesca LFoundry, che ha il suo quartier generale nello stabilimento di Avezzano che un tempo ospitava la Micron. Dal 2014 la società tedesca, uno degli attori più importanti nel settore delle nanotecnologie, ha trasferito la testa in Abruzzo lasciando a Landshut, in Germania, il reparto del Design. «Da un punto di vista strettamente legato alla ricerca – conclude Nuccilli– con questo convertitore è stato tentato di limitare l’impatto delle variazioni dei parametri di processo in fase di produzione, le prestazioni effettive potranno essere valutate solo dopo aver prodotto una opportuna quantità di devices per verificarne il corretto funzionamento e poter definitivamente trarre conclusioni sull’efficacia della tecnica proposta».

In queste pagine: un operatore a lavoro in ambiente produttivo chiamato clean room all’interno della LFoundry di Avezzano; l’ingegner Ottavio Nuccilli alla sua scrivania; un wafer di silicio prodotto dall’azienda

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AGOSTINO BALLONE

INDUSTRIA IN MOVIMENTO Il patron di Baltour alla guida degli industriali abruzzesi: semplificazione burocratica e accesso ai fondi europei “obiettivi prioritari”. L’Abruzzo “è una buona macchina, pronta a ripartire; ma serve un efficientamento generale di tutto il sistema”

Testo e foto di Claudio Carella

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a imprenditore alla guida di una delle più importanti società di trasporto private a conducente dell’Unione Industriali d’Abruzzo. L’elezione (all’unanimità e per acclamazione) di Agostino Ballone, 62 anni, presidente e amministratore delegato di Baltour, al vertice regionale di Confindustria autorizza il gioco di metafore: il pullman abruzzese è ripartito? «Penso che l’Abruzzo, come del resto tutta l’Italia, stia imboccando la strada giusta. È stato un periodo lungo, in cui si è fatta manutenzione al sistema… siamo stati tanto tempo in officina e ora stiamo per ripartire. Il sistema economico sta dando segni di sostanziale ripresa anche se i numeri sono ancora molto modesti, ma i segnali positivi ci sono. Ci sono settori che vanno meglio di altri e delineano luci e ombre: molto bene l’automotive, quello dai grandi fatturati, bene anche la farmaceutica che sta dando buoni risultati. Chi ha fatto sviluppo e internazionalizzazione va meglio, perché è uscito dai confini territoriali». Sì, ma la gran parte del tessuto imprenditoriale regionale è caratterizzato da piccole e medie imprese. «In questo panorama un settore come l’agroalimentare mostra segnali positivi: ha fatto breccia nei mercati internazionali, ha investito in ricerca e sviluppo. In sostanza a soffrire ancora gli effetti della crisi sono solo quelle imprese che hanno concentrato i loro sforzi in un ambito essenzialmente territoriale, perché sono i consumi interni a mostrare le maggiori debolezze, mentre le

esportazioni vanno molto bene». I proclami del Governo –nazionale e regionale– hanno un riscontro nella realtà? «Gli investimenti sulla viabilità in Val di Sangro, e altri, sono un segno di dinamicità: si immette liquidità nel sistema economico, si dà lavoro ai cittadini e alle imprese. Gli annunci purtroppo spesso restano tali: noi di Confindustria siamo abituati a valutare i fatti, e ci auguriamo che presto le parole si trasformino in opere cantierabili e realizzabili, che sono le premesse per ripartire col piede giusto. L’Abruzzo è collocato in un contesto generale dove le riforme istituzionali ed economiche sono assolutamente necessarie. I dati Istat ci dicono che il sistema produttivo è ripartito, che l’occupazione è in crescita (anche grazie al Jobs Act) e si sta trasformando da precaria in stabile. È un dato importante perché con un’occupazione stabile ripartono anche i consumi interni». Cosa chiedete alla Regione? «Confindustria Abruzzo ha prodotto un documento programmatico col quale abbiamo richiesto alla Regione una serie di interventi, tra cui il più importante è una riforma della burocrazia, che continua ad opprimere lo sviluppo delle imprese, a ritardarne gli investimenti, ed è un problema molto sentito. Quindi: primo, semplificazione. Secondo: fondi europei. Devono essere messi a sistema, spesi e spesi bene». Il problema è di individuarli, capire quali sono le risorse che l’Europa mette a disposizione. «Proprio per questo col vicepresidente Giovanni Lolli

Nella pagina a fianco: Agostino Ballone, presidente di Confindustria Abruzzo, fotografato nella sede di Baltour

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che deve essere messo a sistema in maniera efficiente. abbiamo convenuto che la Regione si doti di un ufficio La Regione in questo momento è in palese conflitto di apposito che faccia da cinghia di trasmissione tra Europa interessi, perché è ente regolatore e regolato allo stesso e imprese. Anche perché il prossimo futuro sarà segnato da momento, e le scelte che sta compiendo non sono quelle maggiori fondi europei diretti (attivabili cioè direttamente dell’ente regolatore ma quelle delle aziende di cui è dalle imprese), e meno fondi indiretti (attivabili tramite proprietaria al 100%. Siamo assolutamente d’accordo nel gli Enti locali). Fondamentale quindi che si istituisca una mettere in rete il nostro sistema dei trasporti, includendo linea diretta fra sistema produttivo e uffici della Comunità l’aeroporto, per il quale si dovrebbero incentivare nuove europea per accedere ai fondi. L’Italia tra l’altro è il rotte e nuovi collegamenti. Il sistema aeroportuale va terzo contribuente dell’Europa, ma in cambio non riceve potenziato con collegamenti veloci all’Europa che sono altrettanto…» importanti, vitali per il sistema industriale. E su questo mi E sul piano infrastrutturale? pare si stia andando nella giusta direzione». «Abbiamo una viabilità primaria di eccellenza: abbiamo C’è un altro settore dove Confindustria ha rotto lo storico isolamento, le autostrade ci collegano idee meno in linea con la Regione, come quello molto bene a tutto il resto della Penisola. C’è senz’altro ambientale… necessità di porre attenzione alla viabilità secondaria, «Le nostre idee in questo ambito sono chiare e precise, soprattutto su alcune strade provinciali che sono da terzo siamo per la tutela dell’ambiente ma evitando il mondo. Le calamità naturali hanno messo a dura prova radicalismo che imperversa: nel il sistema, che soffre anche rallegrarci per l’Eni che trova il della mancanza di fondi per gas in Egitto le impediamo di la manutenzione ordinaria, cercarlo nei nostri mari, e questo figuriamoci per la straordinaria, Le nostre idee in campo ambientalista mi pare un atteggiamento quindi su questo fronte c’è ipocrita. La disputa qui non è da fare moltissimo. Poi c’è il sono chiare e precise: siamo per la sulla convenienza economica, capitolo banda larga, un fattore che attiene al sistema di sviluppo importantissimo per tutela della natura ma evitando il imprenditoriale da un lato e a le molte imprese che lavorano quello politico dall’altro; qui c’è quasi esclusivamente su canali radicalismo che imperversa una disputa su un falso problema informatici; e va ripensato il ambientalista, che vede una sistema dei porti, superando correlazione tra l’estrazione i localismi e affrontando la petrolifera e il pericolo per il turismo quando i pericoli connettività agli altri sistemi di trasporto in maniera per il turismo scaturiscono più frequentemente da un organica e funzionale. Sul fronte ferroviario l’Abruzzo è sistema fognario obsoleto che provoca costantemente ancora fuori dall’alta velocità: è recentemente arrivato divieti di balneazione. E vorrei dire anche ai manifestanti: il Frecciarossa, ma la tratta adriatica non consente un ma ai cortei ci andate con la bici o con le macchine? Ci miglioramento dal punto di vista dei tempi di percorrenza, vuole coerenza, in tutto. Ricordo molte battaglie condotte solo del comfort. Che è comunque un segnale di progresso». contro infrastrutture che poi, una volta realizzate, ci A proposito di porti, da molto tempo la Regione hanno portato sviluppo e progresso, come il traforo del parla infatti di riorganizzare il sistema, ma non Gran Sasso o le autostrade». sembra si siano fatti grandi passi in avanti. Altre Per concludere: che tipo di mezzo è il nostro strutture, come l’interporto di Manoppello, Abruzzo? Un vecchio “postale” o un pullman di sono ancora inutilizzate. Forse l’unico elemento lusso? concreto è la nascita di Tua, che dovrebbe «In F1 si direbbe che siamo un mezzo da media classifica. migliorare il sistema di collegamenti. Il “postale” per fortuna lo abbiamo lasciato indietro da «Su questo c’è un’uniformità di pensiero: Confindustria tempo: abbiamo mezzi efficienti, non di ultimissima Abruzzo ha sempre sostenuto la linea politica delle generazione ma buoni per l’immediato futuro». privatizzazioni del sistema, e non sono influenzato dalla Baltour ha recentemente festeggiato i 60 anni di mia attività imprenditoriale, perché sono in linea col attività. È un’azienda che cresce anche grazie agli mio predecessore e con il presidente Squinzi, che non sforzi fatti per uscire dall’ambito localistico: oggi perde occasione per rilanciare il tema delle partecipate, collega 17 regioni italiane e 23 stati europei. Nel delle privatizzazioni nei servizi pubblici locali. Tornando settore dei trasporti turistici, a livello nazionale, è all’Abruzzo, l’operazione Tua è sbagliata perché va uno dei player di riferimento per i servizi a lunga a consolidare un monopolio pubblico che non tiene percorrenza. Quali sono le parole chiave della sua conto dell’efficientamento del sistema e dei costi. Siamo gestione imprenditoriale che ha riportato anche estremamente critici su questo e speriamo che in un all’interno del suo ruolo in Confindustria? prossimo futuro la Regione si ravveda e imbocchi una «La parola chiave è una sola: efficientamento. Anche strada diversa, che è quella indicata dall’Europa e dalle al nostro interno stiamo operando in questa direzione, normative nazionali, cioè la messa a gara dei servizi, non potenziando alcuni servizi e riorganizzando le sedi, gli accorpamenti o gli incarichi diretti, che in questo caso eliminando l’organizzazione su base provinciale nel senso sono serviti unicamente a salvare sul piano economico di un’unificazione. Cercheremo di offrire una serie di una società –l’Arpa– che era arrivata al capolinea». servizi nuovi che aiuteranno le imprese a svilupparsi e a Ma strategicamente quale ruolo dovrebbe avere un diventare più competitive sui mercati, non solo italiani ma settore determinante come quello dei trasporti? internazionali». «È il secondo capitolo di spesa nel bilancio della Regione, 38

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menu a base di pesce e bollicine - musica dal vivo spettacolo di mezzanotte con fuochi pirotecnici A 1200 metri, nuotare nell’acqua riscaldata della piscina, avvolti dalla neve con l’azzurro del mare all’orizzonte....e alle spalle il Gran sasso musica, frutta e benessere........con festa in spa e piscine riscaldate

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RIBALTA EVENTI IL CAMMINO DI SAN TOMMASO

IN VIAGGIO VERSO Sé STESSI Da costa a costa, dalla Basilica di San Pietro a Roma a quella dell’apostolo Tommaso a Ortona: un lungo percorso culturale, naturalistico e spirituale di oltre 300 km attraverso il cuore dell’Abruzzo più autentico

di Licia Caprara

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ll’inizio ti sembra di essere sull’Isola dei famosi. Con qualche differenza: non devi saper nuotare, non devi procurarti il cibo, e non ti capita di incontrare Rocco Siffredi. Ma poi ci vuole poco per capire che sei su un altro set, dove è il verde di boschi magnetici a catturarti, e dove i compagni d’avventura sono la tua forza, e non avversari da contrastare. Altro che un format tv, il Cammino di San Tommaso è molto di più, perché mette insieme natura, paesaggi, cultura, anima, resistenza fisica, curiosità, e cuore. E svela tesori nascosti, custoditi tra le pieghe di una montagna aspra che poi ti seduce, con una varietà di alberi e piante che al solo guardarli fai il pieno di energia, corsi d’acqua e cascate incastonate dentro una natura perfetta. Spettacolare. Un viaggio a piedi da Roma a Ortona, attraversando le montagne, per avvicinare le città che custodiscono le spoglie degli Apostoli Pietro e Tommaso. E promuovere un turismo slow, sostenibile, che diventa un’esperienza totale. Dove nulla è uguale a una vacanza normale. La sveglia all’alba, la colazione energetica, e poi via, si parte al sorgere del sole. Salite impervie, pietraie, discese infinite, boschi che riservano una frescura rigenerante, come una doccia emozionale, sentieri pianeggianti morbidi come tappeti, coperti di aghi di pino. Più agevole, più impegnativa, a tratti

faticosissima: ogni tappa è un unicum, mai uguale, che ogni giorno ti sorprende con uno spettacolo naturale differente. Quindici giorni di Cammino per coprire una distanza di 330 km, alla scoperta di meraviglie che non ti aspetti. Il Monte Autore, il punto più alto tra Lazio e Abruzzo, il Monte Velino, ai piedi di Massa d’Albe, l’Altopiano delle Rocche, la vista mozzafiato dalle alture di Forca di Penne, la Valle dell’Alento, che ti ruba il cuore con le sue cascate e i suoi percorsi accidentati: a citare alcuni luoghi si fa torto a tutto il resto, ma è davvero tanta la suggestione concentrata in un percorso che ti mette alla prova e poi ti premia, portandoti dentro un Abruzzo che diversamente non avrai mai la fortuna di ammirare. Ed è proprio questo, ma non solo, il valore turistico del Cammino, progettato dall’omonima associazione e da Fausto Di Nella, presidente vulcanico a vocazione social, nella convinzione che l’Abruzzo possa trovare in una formula alternativa come questa una possibilità di crescita. Basta allungare lo sguardo oltre pacchetti e itinerari “popolari” per scommettere su un modello di sviluppo turistico nuovo, che sappia valorizzare i tesori nascosti, bellezze e luoghi “minori” da scoprire camminando. Un pellegrinviaggio lo chiama Di Nella, ovvero un viaggio che accosta la dimensione spirituale, della fede evocata dagli Apostoli Pietro e Tommaso, a

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Nelle immagini: la registrazione dei “camminatori”, una foto di gruppo prima della partenza e alcuni momenti del percorso

una più laica, che abbraccia quella del Cammino come esperienza di vita, assolutamente unica. L’edizione 2015 ha visto la partecipazione di 20 camminatori, tra cui cinque stranieri, Hanne, danese, Anastasia, russa, Dimitri, lettone che vive a Parigi, Eugéne, rumeno che vive a Buxelles, Julian, basco di appena 19 anni. Hanno aderito attraverso Yap Italia, Youth action for peace, campo di volontariato internazionale che ogni anno promuove il progetto in 80 Paesi attraverso 101 lingue differenti. L’Associazione segue passo passo il Cammino, con due guide, Luigi e Gianfranco, e con la squadra che cura la logistica, Dina, Maura, Loretta, Rosalba, Remo, solo per citarne alcuni: provvedono al trasferimento dei bagagli, ai pasti e alle varie necessità dei singoli. Che, di norma, sono davvero limitate. Perché i Camminatori sono minimalisti, oltre che esperienziali, e si muovono dentro un perimetro piccolo in termini di aspettative e richieste. Non perché sono bravi o disciplinati: è che durante i giorni del Cammino viene naturale resettare il kit delle ordinarie esigenze. Impari a essere essenziale, e a preoccuparti di avere acqua e qualcosa di energetico per la salita, una mantella per la pioggia, scarpe adeguate, una doccia a fine giornata, meglio se calda, un pavimento pulito per collocare stuoino e sacco a pelo per la notte. Tutto il resto diventa accessorio, e ti stupisci quando ti

accorgi che in realtà non ti manca nulla di tutto quanto supporta la tua esistenza nella vita “normale”. Trucco, abitino, piega dal parrucchiere, capo appena stirato. Indimenticabile la scena di Sara che per uscire a cena si cambia e sfoggia la sua minigonna appena ritirata dalla corda del bucato, tutta spiegazzata, con l’aria di chi si è messa in tiro per la serata ed è perfettamente a suo agio! La normalità, al Cammino, si declina diversamente, ribaltando abitudini stratificate, liberando ciascuno da gabbie esistenziali che a scardinarle ci vuole assai poco. Gli altri, i compagni di viaggio, aiutano, molto, a fare spazio a questa semplicità, che contagia tutti, e rende anche più facili e lineari i rapporti interpersonali. Sarà per questo che lo stare insieme, a camminare, a riposarsi, a tavola, alla festa di paese la sera, diventa parte di te, che se viene meno ti manca qualcosa. Un recupero di spontaneità che genera sorrisi, leggerezza, vicinanza emotiva. Meglio di una medicina, che fa bene all’umore e al cuore. Tu, i camminatori, una natura che offre uno spettacolo non replicabile Capisci che la bellezza è a portata di mano. Provare per credere. Come Tommaso. E come me. Io il Cammino l’ho fatto.

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RIBALTA EVENTI

La lezione del premier Teramo laurea ad honorem Elio Di Rupo, ex primo ministro belga di origini abruzzesi. E la cerimonia diventa una celebrazione dei valori europei

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n riconoscimento “che mi onora e onora il destino di una famiglia di immigrati italiani in Belgio. Oggi, tra di voi, mi sento al contempo belga, italiano ed europeo”. Così l’ex Premier belga Elio Di Rupo ha ringraziato l’Ateneo di Teramo per avergli conferito la laurea honoris causa in scienze politiche internazionali e delle amministrazioni, durante una cerimonia alla quale hanno partecipato –oltre al Rettore Luciano D’Amico– anche il presidente della Regione Luciano D’Alfonso, il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini e il sottosegretario alla pubblica istruzione Davide Faraone. «Elio Di Rupo è un esempio per l’Italia e l’Europa –ha affermato D’Amico motivando la laurea– di come si diventa classe dirigente, ma anche la conferma di come ce la può fare chiunque, al di là delle condizioni di partenza. L’importante è che ci siano la volontà, la conoscenza, le competenze». Competenze sottolineate dagli interventi di D’Alfonso, che ha ricordato le origini abruzzesi di Di Rupo, e di Giovanni Legnini, che lo ha descritto come “idealtipo di uomo politico europeo”. “Credo nell’Europa” ha affermato Di Rupo nella sua lectio doctoralis davanti a una sala affollatissima “ma non nell’Europa com’è oggi. L’Unione deve cambiare il proprio meccanismo di funzionamento e aprire il suo spirito. Noi tutti dobbiamo sostenere l’idea dell’interesse del progetto europeo, è il ruolo dei partiti politici europei e nazionali. È il ruolo di noi tutti”. L’Europa, ha ricordato Di Rupo, “nasce come progetto di pace, ma è stata costruita su una base principalmente economica; tra le sue finalità c’è la coesione sociale, ma la strada dell’austerità imposta a molti Paesi dell’Unione non va in questa direzione”. Vario si occupò di Elio Di Rupo nel n.22 del 1994, quando fu nominato Ministro dell’educazione della comunità francofona del Belgio. Nato nel 1951 a Morlanwelz (“un ex campo di prigionia tedesco diventato una baraccopoli per minatori italiani”) da genitori partiti da San Valentino in Abruzzo Citeriore, Di Rupo restò orfano di padre all’età di un anno ma la mamma riuscì, seppur a costo di grandi sacrifici, a sfamare i suoi dieci figli e a dare un istruzione e un futuro ad Elio che si riscattò grazie alla scuola e alla lettura di Rimbaud: “Imparai che la libertà si conquista a forza di ardori e di lotte”. Ma non ha dovuto lottare per integrarsi (“Il Belgio è il mio Paese, non mi sono mai sentito discriminato né per le mie origini italiane né per affermare la mia identità”). La vera lotta l’ha intrapresa nel 2010 quando il re Alberto

II gli affida un incarico esplorativo con lo scopo di formare un governo. La difficile situazione politica e le tensioni tra i principali partiti (quello socialista guidato proprio da Di Rupo e il partito separatista fiammingo N-VA, guidato da Bart De Wever) hanno reso il suo compito estremamente difficile, finché alla fine del 2011 Elio Di Rupo ha prestato giuramento come Primo Ministro del Belgio, ricoprendo il ruolo fino alle elezioni politiche del 2014. È stato il presidente della facoltà di Scienze Politiche Enrico Del Colle a sottolineare come “al di là dei risultati significativi ottenuti da primo ministro in termini di riforme istituzionali, di riduzione dei costi dei bilanci e di impegno civile (fra cui l’estensione ai minori della legge sull’eutanasia), Di Rupo merita riconoscenza per aver portato il Paese fuori dalla zona di pericolo in un momento estremamente difficile”.

Elio Di Rupo a Teramo col Rettore Luciano D’Amico

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ONORE AL LAVORO S

ono Giuseppe Natale e Pierluigi Zappacosta i nuovi Cavalieri del Lavoro abruzzesi, insigniti con altri 23 imprenditori italiani dell’onorificenza dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo scorso 22 ottobre al Quirinale. “Sono lieto di proseguire la tradizione di questa grande cerimonia davanti a una platea di tante eccellenze, manager e imprenditori che fanno da traino alla nostra economia e rappresentano la qualità italiana nel mondo”, ha dichiarato il Presidente Mattarella nel suo discorso, soffermandosi poi sul lavoro quale fondamento della Repubblica, così come sancito dalla Costituzione, e come mastice di coesione sociale. “Il lavoro –ha detto– è cambiato e cambierà ancora, ma non dobbiamo aver paura delle innovazioni, anzi dobbiamo esserne artefici. L’Expo 2015 è una prova tangibile di cosa siamo capaci di fare quando giochiamo in squadra. C’è bisogno di Italia nel mondo”. Non è un caso quindi che tra i nuovi Cavalieri siano stati inseriti Natale e Zappacosta, che in modo esemplare rappresentano la capacità italiana di innovare e migliorare la vita attraverso il progresso nella ricerca tecnologica. Giuseppe Natale, amministratore delegato di Valagro SpA, fondò l’azienda abruzzese nel 1980 insieme a Ottorino La Rocca (attuale presidente della società) inserendosi in un segmento di mercato ancora non presidiato, quello dei prodotti biostimolanti. Oggi Valagro (cui Vario ha dedicato un ampio servizio nel numero 84/2014) è diventata un gruppo di livello internazionale leader nella biostimolazione e nella nutrizione speciale delle piante. Nel 2002, con l’acquisizione di due società norvegesi, Algea e Nordtang,

Valagro ha avviato una diversificazione produttiva, entrando nei settori dell’alimentazione umana e animale e in quello dell’industria cosmetica. Articolato in quattro aree –Farm per l’agricoltura, Garden per il giardinaggio, Turf & Ornamentals per i tappeti erbosi e le piante ornamentali, Industrials per l’industria– il gruppo opera in tutto il mondo e conta una fitta rete commerciale e distributiva in più di 80 paesi, raggiungendo grazie all’export l’80 % del suo fatturato. Nel complesso occupa 376 persone, di cui 216 in Italia e 160 nelle filiali estere. Pierluigi Zappacosta (intervistato da Vario nel numero 64/2008), ingegnere di origini teatine trapiantato negli Stati Uniti, è cofondatore della Logitech, il colosso informatico che ha inventato il mouse, destinato a diventare il prodotto simbolo di una multinazionale nota in tutto il mondo per aver introdotto i sistemi periferici per computer e che conta oggi 3mila dipendenti. Dopo aver ricoperto per diciassette anni cariche diverse (presidente, vice presidente e Ceo) all’interno di Logitech, dal 1998 ha intrapreso insieme alla moglie Enrica una nuova avventura fondando la DigitalPersona Inc., dedita alle soluzioni di biometria per l’identificazione basata sulle impronte digitali, azienda di cui è stato anche Chairman dal 1998 al 2014. Tra il 2003 e il 2013 è stato anche Chief Executive Officer di Sierra Sciences, azienda di Reno (Nevada) specializzata nelle biotecnologie antiinvecchiamento. Oltre ad essere investitore in aziende tecnologiche americane e italiane, attualmente è presidente di Faro, fondo italiano utilizzato come veicolo per investimenti in varie città del Mezzogiorno, e in particolare in Abruzzo.

CITTADINO AL MERITO D

iciotto onorificenze al Merito della Repubblica per altrettanti cittadini, italiani e stranieri, che si sono distinti per atti di eroismo, per il loro impegno nel volontariato, nell’integrazione, nella legalità, nel soccorso e nell’assistenza ai migranti, e a chi si è prodigato a favore dell’inclusione della disabilità nella promozione della cittadinanza attiva, nel contrasto ai fenomeni di violenza. E tra gli “eroi silenziosi” d’Italia c’è anche Alessandro Acciavatti, trentunenne lancianese, insignito dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella del titolo di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, per la sua attività di promozione della cittadinanza attiva. Questa la motivazione: “Per la sua costante attività sui temi della legalità e della formazione dei giovani alla cittadinanza attiva. Laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi Roma Tre. È stato promotore di numerose iniziative di educazione alla legalità e di formazione dei giovani alla cittadinanza attiva. Nel novembre 2003, in occasione dell’anno europeo della disabilità, ha svolto una audizione al Parlamento europeo in rappresentanza dell’Italia”.

Nelle foto in alto da sinistra: Giuseppe Natale, Giancarlo Zappacosta. Sopra Alessandro Acciavatti

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RIBALTA EVENTI L’AQUILA/MUSICA

dai palazzi l’eco del JAZZ Oltre 100 concerti in 12 ore:

una spettacolare maratona musicale che ha coinvolto più di 600 artisti e tutta l’Aquila di Clori Petosemolo foto di Alessandro Caporale

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l 6 settembre scorso il centro storico dell’Aquila, zona rossa (e depressa, disabitata, immersa da sei anni nel limbo della ricostruzione) si è popolato fino all’inverosimile. Merito di quello che è stato definito “il più grande evento jazz nazionale”, e cioé Il Jazz italiano per L’Aquila, la maratona musicale che ha visto circa 600 jazzisti, provenienti da tutta Italia, prodursi in più di 100 concerti dislocati in 18 punti della città. La manifestazione –ideata dal Ministro dei Beni culturali e ambientali Dario Franceschini– è stata organizzata da Paolo Fresu, trombettista di fama internazionale che ha coinvolto i suoi altrettanto celebri colleghi Enrico Rava, Enrico Pierannunzi, Javier Girotto, Roberto Gatto, Rita Marcotulli, Massimo Nunzi, Danilo Rea, Maria Pia De Vito e Gino Paoli, molti dei quali comparsi tutti insieme sul palco allestito in Piazza Duomo per il concerto conclusivo. Fresu, esibitosi sulla Scalinata di S. Bernardino, ha voluto sottolineare come l’iniziativa sia nata “per dare senso a una città per gran parte ancora morta, ma anche per restituire dignità al jazz italia-

no, rappresentando tutte le sue diverse realtà, dai conservatori alle scuole, dalle orchestre ai festival, fino ai singoli musicisti, i giovanissimi accanto ai veterani come Enrico Intra e Marcello Rosa, una varietà che ha pochi paragoni nel mondo. E dire che qui siamo solo un quarto dei jazzisti attivi oggi in Italia, che sono quasi 3 mila. E finalmente il jazz italiano dialoga al suo interno, mettendo in collegamento tutte le sue parti spesso in guerra”. Il megaconcerto aquilano ha ottenuto anche il plauso delle autorità, dal sindaco Cialente al ministro Franceschini: “Siamo di fronte ad un successo talmente clamoroso che con il sindaco dell’Aquila abbiamo deciso di rendere questo appuntamento fisso: si terrà ogni anno nella prima domenica di settembre” ha annunciato Franceschini. “Si è trattato del più grande evento jazz mai realizzato in Italia e oltre a riunire i nomi dei nostri jazzisti più importanti, ha saputo ridare agli aquilani la sensazione di una città viva e vitale. Questo è stato senz’altro il risultato principale”.

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L’AQUILA/FOTOGRAFIA

La generazione che non trema

Una mostra fotografica illustra l’esistenza dei primi adolescenti del dopo-terremoto aquilano

di Antonello Ciccozzi*

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ista da una prospettiva dell’antropologia dell’abitare, l’adolescenza è un itinerario di formazione di ciò che chiamiamo “senso del luogo”; una strada in cui il bambino si scopre ragazzo non solo attraverso la trasformazione del corpo ma anche nell’atto di distanziarsi fisicamente dall’esclusività dei legami della famiglia. Questo rito di passaggio riguarda concretamente l’avventurarsi, insieme

mersa in una soglia: quella della ricostruzione post-sismica. In questo caso, la ricostruzione può essere intesa alla stregua di un’adolescenza della città; un momento, appunto in cui la trasformazione del tessuto urbano reca in sé tanto l’entusiasmo della novità, il fermento della crescita, quanto il turbamento dato dal rischio esiziale di un fallimento storico. Mai come in una città-cantiere disseminare di senso

a un gruppo di pari, in un lungo percorso esplorativo e di appropriazione simbolica degli spazi insediativi circostanti all’ambito domestico. Si tratta di un cammino di composizione di mappe mentali, di conferimento di significato emotivo allo spazio attraverso pratiche di esperienza vissuta. È un processo a due direzioni: se da un lato gli individui si fanno persone dando senso allo spazio sociale, dall’altro lato gli spazi sociali si fanno e rifanno continuamente luoghi proprio grazie a quest’attribuzione di senso. Poi, se l’ambiente è un ambiente urbano, l’adolescente che si forma in città ne vive la specifica geografia come una foresta di segni da comprendere, reinterpretare e ordinare nella trama della propria esperienza. Così, nella tessitura di storie di chi le abita, le città si rigenerano, di generazione in generazione. Inutile ricordare che l’adolescenza non è un percorso facile: come tutti gli attraversamenti di soglie iniziatiche, è un momento di esposizione a un rischio apicale, in cui l’onere antropologico primario per la persona, quello di costruire la propria presenza, il proprio esserci-nel-mondo, minaccia continuamente di precipitare nella dimensione perturbante dell’angoscia, dell’inessenza, del non-esserci. Gli adolescenti del dopo terremoto aquilano vivono una condizione del tutto peculiare poiché la città che fa da soglia al loro percorso formativo (inter)soggettivo è a sua volta im-

gli spazi urbani può avere una funzione enzimatica: i segni che questi ragazzi raccolgono e le esperienze che fanno oggi formeranno il serbatoio dei loro ricordi di domani; il serbatoio di significati da cui viene la linfa che chiamiamo senso d’appartenenza, la struttura collettiva di sentimento che rende un mucchio di edifici una città. Non sappiamo che succederà, ma possiamo dire che il senso d’appartenenza di questi ragazzi –la loro città– non sarà velato dalla nostalgia che spesso promana dal ricordo del “prima” degli altri abitanti, per un motivo semplice: L’Aquila pre-sismica non l’hanno vissuta; la soglia tra “prima” e “dopo” combacia in modo pressoché esatto con quella tra la loro infanzia e la loro adolescenza. Il “prima” non ha che sfiorato le loro esistenze, e resta un luogo in cui non hanno abitato; niente più che un’ombra intorno all’infanzia. Sono usciti di casa per la prima volta da soli a cercare la loro città e hanno trovato un cantiere, simile al loro cantiere interiore. Perciò “We are the future” è appropriato; stando appena di là dalla quasi surreale ma concretissima soglia urbana tracciata dal terremoto, loro sono il futuro per un motivo potentemente elementare: non sono il passato. *ricercatore di Antropologia culturale presso l’Università degli Studi dell’Aquila 45

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RIBALTA TEATRO TEATRO IMMEDIATO

elogio del vagabondaggio

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ultura dei legami, atto secondo. Dopo due anni di “esilio” forzato, durante i quali il Teatro Immediato ha svolto le sue attività nel Teatro marrucino di Chieti e nel Comunale di Città S. Angelo, la compagnia guidata da Edoardo Oliva riallaccia il suo legame con Pescara e porta negli spazi del Matta la sua proposta teatrale, che si compone di quattro spettacoli uniti dal fil rouge dell’erranza: «Si parte per fuga, per esilio, per necessità, per spirito d’avventura», spiega Oliva. «“Partire” significa separarsi, c’è sempre una frattura tra ciò che si lascia e ciò verso cui si è diretti, e a volte proprio il vagabondare im-

Nella foto Edoardo Oliva e Valeria Ferri nello spettacolo Sophie

pedisce a chi parte di vedere un possibile approdo». Forse non è una coincidenza, nella scelta del tema, la storia della stessa compagnia pescarese, attiva dal 2005, che aveva iniziato nel piccolo teatro di via Gobetti una grande avventura durata fino al 2013, quando fu costretta a lasciare quella casa e intraprendere un nuovo cammino, nomade. “Una politica che aspetta da cinquant’anni un nuovo fatidico teatro comunale, e se ne riempie la bocca, ha assistito con noncuranza all’omicidio di una delle pochissime

realtà funzionanti e autosufficienti. Al tentativo di sterminio di una pulsante e civilissima comunità domiciliata nel piccolo immenso teatro di via Gobetti. L’operazione è andata a vuoto, perché siamo ancora qui. E non alzeremo facilmente bandiera bianca”. È il testo che accompagna il lancio di una campagna di crowdfunding (info sul sito www.teatroimmediato.it) per “far ripartire senza più fermate, e con contagioso slancio, il Teatro Immediato. A cominciare dal Festival con cui apriremo il 2016, che vi sorprenderà. Aiutateci a mantenere alta la bandiera ostinata della nostra indipendenza e identità”. E la ripartenza è col botto: il primo appuntamento della nuova edizione della Cultura dei Legami è con Mario Perrotta (Premio Ubu al miglior attore 2013), che dopo il grande successo nazionale porta finalmente a Pescara lo spettacolo Italiani cìncali, storpiatura dell’epiteto “zingari” con cui in Belgio venivano chiamati i nostri compatrioti diretti alle miniere di carbone (in programma il 24 gennaio); un’altro tipo di erranza (e di legame, quello tra fratelli) è quella descritta nello spettacolo GenesiQuattroUno, finalista al premio InBox 2014 e in programma il 7 febbraio, in cui Gaetano Bruno e Francesco Villano mettono in scena la vicenda biblica di Caino e Abele. Il 14 febbraio sarà la volta di Orazio Di Vito e del suo spettacolo Tu sei mio fratello, un viaggio attraverso due diverse culture, i Balcani ed il Maghreb, scritto, diretto e interpretato dal giovane attore della Compagnia dei Guasconi. Una rassegna quindi fortemente legata all’attualità, che ogni giorno ci mostra immagini di persone in fuga e spesso riferisce dell’ennesima tragedia. E proprio a un tragico episodio legato all’emigrazione è ispirato lo spettacolo Allamerica firmato dal Teatro Immediato, che chiuderà la rassegna con quattro giorni di repliche, dal 25 al 28 febbraio. «Nel 1891 un piroscafo inglese dal nome fortemente evocativo –Utopia– salpato da Trieste raggiunse il porto di Napoli dove prese a bordo oltre 800 italiani diretti negli Stati Uniti. Tra loro, anche un gruppo di 15 abruzzesi di Fraine (CH). La nave colò a picco in pochi minuti durante una tempesta dalle parti di Gibilterra a causa di una manovra azzardata del capitano, portando con sé 576 emigranti, in prevalenza italiani. Una tragedia del mare, come quelle cui assistiamo quotidianamente, le cui vittime ora come allora sono persone che fuggono piene di speranza verso un mondo che immaginano migliore. «Lo spettacolo, che per una singolare coincidenza debutterà proprio il 25 febbraio, giorno in cui la nave partì da Trieste per il suo ultimo viaggio, è stato scritto da me e da Vincenzo Mambella. Lo dedico ad un mio lontano parente, Nicola Di Bartolomeo, che morì a sedici anni costruendo un palazzo in Canada dove era sbarcato in cerca di fortuna».

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TEATRO STABILE D’ABRUZZo

UNA CURA PER RIPARTIRE

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giovane, bella e competente. Caratteristiche che, unite a un cognome che non è proprio tra i più comuni, possono generare invidie, sospetti e polemiche. E come da copione, l’ingresso sul palco del TSA, nel ruolo di presidente, di Nathalie Dompé è stato accompagnato da fischi e applausi: «Nei giorni passati –ha scritto in una nota la neopresidente– ho avuto grandi dimostrazioni di appoggio da parte dei cittadini abruzzesi, dei loro rappresentanti istituzionali, degli esponenti del Teatro Stabile d’Abruzzo; in primo luogo da chi mi ha preceduto, Ezio Rainaldi, e dal direttore artistico Alessandro D’Alatri, fattore che ha influito in modo determinante sulla mia scelta di accettare questa sfida. Eppure, non posso né voglio ignorarlo, vi sono state voci dissonanti, anche duramente critiche. Mi preme oggi ringraziare anche chi ha espresso le proprie riserve, e probabilmente anche io stessa –al loro posto– avrei concordato su alcuni dei punti emersi. A costoro, ai professionisti del teatro, alla popolazione chiedo

di valutare il mio lavoro quando avrò avuto modo di attuarlo. Chiedo di superare un giudizio a priori, che rischia di non dare la possibilità di concretizzare un’opportunità. Cercherò dunque di affrontare con umiltà questa bellissima esperienza, che va ad affiancarsi al mio impegno in azienda. Due prospettive che considero unite dal medesimo fil rouge: il senso di responsabilità». Giovane, bella, competente e intelligente. Nel frattempo la stagione teatrale del TSA è stata inaugurata il 30 ottobre dallo spettacolo –presentato in esclusiva nazionale– di Enrico Brignano, dedicato ai cittadini aquilani e il cui incasso è stato devoluto a sostegno del Progetto “Teatro Giovani” del Teatro Stabile d’Abruzzo. Il cartellone propone, su nove appuntamenti, sei spettacoli targati Tsa, che ha riportato in auge la sua vocazione produttiva. Tra le produzioni artistiche dello stabile spicca “Ero”, testo e regia di César Brie, che sta già girando in Italia ed è stata presentata anche in Argentina.

drammateatro

POPOLI la città in teatro

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ell’arco di un anno, dall’estate 2014 all’estate 2015, il regista Claudio Di Scanno ha dedicato una “trilogia” teatrale a Popoli, il comune che ospita il suo Drammateatro quale residenza teatrale storica. Un attraversamento in tre tappe dell’identità di Popoli mediante l’uso teatrale di tre suoi luoghi costitutivi: la Riserva delle Sorgenti del Pescara, che ha costituito lo scenario di Antologia; il vecchio centro storico collinare, dove un fondaco-cantina ha ospitato la rappresentazione di Cannibali; infine, il capannone dismesso dell’ex birrificio Heineken, dove nell’ultima settimana di luglio è andato in scena Immagini da Macbeth. Per Immagini da Macbeth Di Scanno ha scelto, dunque, uno spazio dove ciò che doveva accadere (imbottigliare birra) è già accaduto. Ed è già accaduto tutto anche in Immagini da Macbeth, prima ancora che inizi: il prologo che apre lo spettacolo è in realtà un epilogo. Macbeth è morto: di lui rimane la testa mozza esibita come un trofeo e schernita con saluti beffardi. Tragedia dell’ambizione e della crudeltà, del sangue e del potere è stato definito il Macbeth. Ma Di Scanno sembra seguire altre suggestioni, non a caso ha titolato Immagini da Macbeth la sua rivisitazione del grande testo shakespeariano. Immagini, immaginazio-

ne. E “tragedia dell’immaginazione” ha definito Macbeth il grande critico americano Harold Bloom. Ciò che accade sulla scena sono proiezioni, immagini della mente tormentata di Macbeth o (perché mettere limiti?) nella sua testa mozzata, con un vertiginoso asincronismo fra morte e immaginazione, morte che ripensa la vita, un delirio onirico scomposto e ricomposto per immagini fuori d’ogni vincolo e logica di intreccio, di tempo, di spazio, di genere. Macbeth è una donna (una straordinaria Susanna Costaglione), Lady Macbeth suona il violino, le Streghe s’accompagnano con rapaci vivi, Mac Duff, signore di Fife, chiama pirandellianamente in ballo Shakespeare (“Il Bardo ha affrescato una notte tremenda”), il fantasma di Banquo è truccato come Nicholson-The Joker in Batman. Insomma, c’è più Fellini che Seneca nel Macbeth di Di Scanno, nel segno di un rispetto senza riverenza per i classici. “Lo spazio teatrale –scrive Di Scanno nella nota di presentazione dello spettacolo- è da reinventare al pari del testo classico, entrambi quali luoghi dell’immaginazione”. Francesco Di Vincenzo In alto Nathalie Dompé, nuovo presidente del TSA. Qui sopra un’immagine da Antologia di Claudio Di Scanno

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RIBALTA CINEMA ABRUZZESI A VENEZIA

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n mondo immaginario in cui Steven Spielberg, Presidente degli USA, dichiara guerra allo stato africano del Mahaba e dà inizio a una spietata lotta al terrorismo: è lo scenario sociopolitico creato dal pescarese Lorenzo Berghella, 25enne autore di Bangland, prima graphic novel cinematografica made in Abruzzo, presentata a Venezia 72 nell’ambito delle giornate degli autori. Il lungometraggio di Berghella si è guadagnato l’ambito “Premio SIAE per un talento emergente del cinema italiano”, riconoscimento che intende “incoraggiare la creatività di un autore giovanissimo e originale che usa l’arma del paradosso e della provocazione –anche estrema– per disegnare una favola amara dei nostri tempi con il linguaggio modernissimo della graphic novel”. Prodotto dalla RòFilm dei fratelli Alessandro e Cristiano Di Felice, Bangland nasce da un fumetto di Berghella, che i due intraprendenti produttori hanno pensato di trasformare in un cortometraggio. Dal corto Too Bad è nata poi la web serie omonima, che con l’intervento del produttore Gianluca Arcopinto è diventata Bangland.

GENESI DI UN ARTISTA

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ndrea Pazienza e i suoi anni pescaresi hanno costituito l’ispirazione per un cortometraggio che il regista Andrea Malandra sta girando in queste settimane in diverse location tra Pescara e Montesilvano. Il ritorno di Zanardi parte dall’idea (totalmente inventata) che alcuni dei più famosi personaggi dell’universo fumettistico di Pazienza abbiano trovato origine proprio nelle frequentazioni pescaresi dell’allora giovane artista. «Si tratta di una storia grottesca a tinte gialle, liberamente ispirata ai fumetti di Pazienza, che –spiega il regista– è stato celebrato in numerose occasioni, negli ultimi anni, in tutta Italia. Ma Pescara, a mio parere, non gli ha mai tributato il giusto riconosci-

ALICE VA OFFLINE

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on l’intento di rendere concrete le sue relazioni virtuali la giovane conduttrice Alice, totalmente immersa nella rete, dipendente dai social network e perennemente connessa è passata offline per guardare in faccia persone con cui da anni parla e si confronta solamente attraverso lo schermo dello smartphone o del computer. Questo è Offline, il nuovo programma di Rai 2 che rende “umani” gli “amici virtuali”, e che in quattro puntate trasmesse tra luglio e agosto ha consegnato al pubblico nazionale il volto di Alice Lizza, classe 1986, vj, autrice e producer di format televisivi tenuta a battesimo dall’Università di Chieti, dove per 4 anni ha condotto il tg studentesco. Dopo varie esperienze nell’etere abruzzese, Alice è approdata in Rai dove ha condotto programmi per Rai Scuola, Rai Educational e Rai3, fino al 2014 quando ha raccontato un Brasile lontano dagli stereotipi in occasione dei Mondiali di calcio. In Offline, programma realizzato insieme all’amico e compagno di

Oltre ad aver disegnato, fotogramma per fotogramma, l’intero film, Berghella ha curato ogni singolo aspetto visivo dell’opera, dal design dei personaggi e dalle scenografie ad acquerello, fino alla regia e alla fotografia, dando al film un look totalmente unico e innovativo, lontano dai canoni omologati dell’animazione moderna. Ma non c’era solo Bangland a rappresentare l’Abruzzo a Venezia. Il film Zac, i fiori del Male di Massimo Denaro, allievo della sezione aquilana del centro sperimentale di cinematografia, è stato presentato fuori concorso nella nuova sezione “Il Cinema nel Giardino”, preceduto dall’incontro “I Disegnatori de Il Male” con Drahomira Biligova, Riccardo Mannelli, Vincino, Vincenzo Sparagna e Valter Zarroli. Zac, i fiori del Male ripercorre l’attività umana e professionale di Pino Zac a partire dalla casa dove fu trovato senza vita nel 1985 a pochi chilometri da L’Aquila: “Un castello –spiega il regista– un universo zacchiano, in abbandono. Nel palazzo è tutto sospeso dal 1985: ogni cosa al suo posto, pennelli, colori, tavoli, libri, vestiti, letti, medicine. Tutto come fosse in attesa del ritorno del suo padrone, uscito di fretta a comprare il giornale”. La ricerca sulla figura di Pino Zac da parte del giovane regista Massimo Denaro ci fa rivivere una delle esperienze più stimolanti della satira italiana con la redazione di Il Male di cui Pino Zac “non è stato non solo il direttore, ma la guida, il talent scout, capace di inaugurare una nuova stagione satirica che arriva sino a oggi”.

mento. Ho voluto fare questo film per sottolineare il profondo legame tra Andrea e Pescara, immaginando addirittura che abbia ispirato gran parte della sua produzione». Nel progetto, nato dall’associazione NoHayBanda di cui il regista fa parte, Malandra ha coinvolto a vario titolo alcuni personaggi che hanno conosciuto e frequentato Pazienza: da Sandro Visca ad Albano Paolinelli, da Enzo Verrengia a Francesco “Frisco” Ciancabilla. Girato con lo stile visionario e surreale consueto al regista e Interpretato da un cast di attori in gran parte non professionisti, scelti proprio per l’appartenenza a un mondo “underground” simile a quello descritto nelle storie del grande fumettista, Il ritorno di Zanardi è interamente finanziato dalla Fondazione Pescarabruzzo.

viaggi Davide Starinieri, Alice ha conosciuto e intervistato personaggi di spicco dell’era digitale, da David LaChapelle a Terry Gilliam, dal dj Steve Aoki a Milo Manara: «Un giorno – racconta la brava conduttrice abruzzese– alcuni miei amici mi hanno rimproverato perché continuavo a fissare lo schermo del mio telefono invece di interagire con loro. Ho capito che avevo una dipendenza dai social network, e così ho deciso di “scollegarmi”, di vivere concretamente i rapporti che avevo allacciato virtualmente. Così è nato il programma».

Nelle immagini, dall’alto: Lorenzo Berghella e un fotogramma dal suo Bangland; al centro il regista Andrea Malandra durante la lavorazione de Il ritorno di Zanardi; qui sopra Alice Lizza con David LaChapelle

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RIBALTA CINEMA

RIBALTA MUSICA

RIBALTA TEATRO

Personaggi RANDALL PAUL

VE LO DO IO L’ABRUZZO di Andrea Carella

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oter dire di aver ballato con Nicole Kidman non è da tutti. Soprattutto se chi lo dice vive a Miglianico, non esattamente dalle parti di Hollywood. Ma è proprio nel paesino ai piedi della Maiella che Randall Paul, attore statunitense, si è trasferito da circa tre anni dopo una carriera trentennale che lo ha visto partecipare anche al celebre Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick, in cui era l’elegante gentleman che balla, in una delle scene iniziali del film, con la diva australiana. Nato a Portland, Oregon, nel 1957, Randall Paul a Miglianico ha trovato l’America: sposato con Celeste Di Febo dal 2014, ha fondato la Rancielo Productions, con cui ha realizzato il suo nuovo corto Exhibitionist e si appresta a girare (e dirigere) The Beautiful Boy, un film con un cast internazionale di alto livello; ha appena finito di girare (come attore) il film di Roberto Faenza La verità sta in cielo, dove recita al fianco di Riccardo Scamarcio e Greta Scarano, e dirige insieme alla moglie la Fasa (acronimo di Film Actors Studio Abruzzo), casa di produzione cinematografica “gemella” di quella da lui fondata nella sua città natale (Portland Film Actors Studio) che in due anni ha già realizzato oltre 200 mini produzioni dirette, montate e interpretate dagli stessi allievi. «Non esiste altra Accademia al mondo capace di offrire questo tipo di approccio all’apprendimento. L’unico vero e valido metodo è uscire dalle classi e imparare in campo, sia dietro che davanti la telecamera» spiega l’attore e regista, che

vanta nel suo curriculum collaborazioni con alcuni tra i più famosi attori, registi e direttori della fotografia di tutto il mondo: a partire da Stanley Kubrick (col quale ebbe un breve ma intenso rapporto umano e professionale), ha lavorato con Brian De Palma, Stephen Norrington, Mike Newell, Tarsem Singh, Tom Cruise, Jean Reno, Kristen Scott Thomas, Andy McDowell, Brad Dourif, Hugh Grant, Harvey Keitel e molti altri. «Quando si lavora ai più alti livelli di produzione cinematografica, le produzioni ed i registi si aspettano la massima professionalità e a volte non si ha tempo di insegnare sul set. Per questo motivo ho deciso di fondare Film Actors Studio Abruzzo e Portland Film Actors Studio: per dare la possibilità a chiunque di imparare e perfezionarsi nella recitazione cinematografica». Recitare per il cinema, spiega Paul, non è come recitare in teatro: «Si ha a che fare con una macchina da presa, e per dare il massimo bisogna essere consapevoli delle inquadrature, degli obiettivi usati, delle luci; devi sapere quale espressione puoi usare e quale no, quali gesti puoi fare e quali evitare. Insomma, bisogna conoscere anche il lavoro di chi ti sta attorno, di chi dirige, riprende e curerà il montaggio. Nella mia scuola si impara, attraverso il metodo delle “32 tecniche”, come lavorare con lenti, luci, apparecchiature varie di ripresa audio/ video, movimento, dialogo, sguardo, stile, continuità, sceneggiatura, montaggio, linguaggio cinematografico e molto altro». Perché Miglianico? «L’Italia è un Paese meraviglioso. E Roma è una grande città, molto bella, ma poco adatta per girare. In Abruzzo, invece… wow» dice nel suo italiano incerto l’attore americano. «Ci sono le montagne, c’è il mare, paesaggi ancora incontaminati… Se non sono in molti a venire a girare film qui è solo perché è un territorio ancora poco conosciuto. Riaprire la Film Commission, cosa di cui si parla da tempo, sarebbe d’aiuto: ci auguriamo che si proceda su questa strada perché darebbe un impulso alla promozione di una terra dalle grandissime potenzialità»

Nelle foto: in alto Randall Paul; qui sopra, a sinistra è con la moglie Celeste Di Febo e Lando Buzzanca e a destra durante le attività della Film Actors Studio Abruzzo

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MOSTRE RIBALTA EVENTI

RIBALTA LIBRI

RIBALTA MOSTRE

RIBALTA ARTE

Antonio MARCHETTI

L’AUDACIA DELL’ARTE Un libro e una mostra su Antonio Marchetti rivelano la complessa personalità di un artista completo

di Maria Virginia Fagnani Pani

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d Antonio Marchetti sono stati dedicati due importanti appuntamenti a Pescara e a Teramo, che offrono un quadro esauriente della personalità creativa dell’artista, originario di Pescara. All’Aurum il 18 settembre scorso è stato presentato il volume Disegno dal vero (Pendragon, 2014), uscito postumo. Il testo raccoglie nella forma del journal, saggi brevi scritti dal 2007 al 2013, scelti e assemblati con quella cura e quel puntiglio di chi vuole testimoniare per l’ultima volta il proprio sguardo sul mondo. Un’antologia sul contemporaneo, sull’arte, la società italiana. Vera corona di perle di annotazioni composte nell’esercizio di un pensiero acutissimo e vasto, con un’eleganza che arricchisce la sua pennellata di maestro del vero. Nel novero dei propri personali ricordi, si stagliano i profili di Fabro, Merz, Tadini, Boetti, Mauri, mentre Marchetti non tralascia di affondare il suo stilo con competenza e ironia sull’ambiente dell’arte che viene abilmente smascherato, oggi, nella banalità feroce dei suoi meccanismi. E poi nel testo si rincorrono i ritratti a lui cari di alcuni maestri del Novecento, Alberto Savinio, Ennio Flaiano; emerge la passione per la grande letteratura, il cinema, la storia contemporanea, una cultura profonda che nutrì costantemente la sua opera artistica. A Teramo si sta preparando una sua importante retrospettiva, che si inaugurerà presso la Galleria Comunale L’Arca, Sabato 31 Ottobre prossimo. La mostra dal titolo Vario son da me stesso, motto che Marchetti fece proprio, traendolo da un verso del teorico manierista Comanini, è curata da Umberto Palestini e resterà aperta fino al 15 di Dicembre. La personale dell’artista, nell’ambito della ricca e articolata scelta di autori proposta da Palestini, offre un’efficace selezione dell’opera di questa complessa personalità artistica, attiva nel territorio italiano dalla metà degli anni settanta al 2013. Marchetti fu artista completo, che ancorò saldamente alla sua prima formazione di architetto molteplici esperienze artistiche. La varietas, come recita il titolo della mostra, connota anche la molteplicità dei temi intrapresi, e lo colloca, per affinità, in una temperie di avanguardia no-

vecentesca; è cifra della libertà del suo pensiero, che per tradursi in racconto ha utilizzato tutti i mestieri dell’arte. Ricordo che nell’ambito delle attività del Gramsci a Ravenna Marchetti ideò, tra i tanti progetti a cui contribuì, una bella rivista dal titolo Arti e mestieri. Questa salda unione tra pensare e operare, se ancorano la sua educazione generazionale alla cultura estetico-politica degli anni Settanta, lo rendono originalissimo nella volontà di praticare i tanti linguaggi dell’arte, piegando i materiali e le tecniche al suo immaginario poetico e formale. Era un uomo al contempo antico ed eccezionalmente proiettato in avanti. Ben lo rappresenta uno straordinario Psiconavigante degli anni Ottanta che percorre veloce uno spazio siderale, angelo che attraversa il tempo, colpito da un’epifania di luce. La sua prima mostra personale fu a Milano nel 1981, presso lo Studio Cesare Manzo. Tra le principali manifestazioni d’arte a cui prese parte si ricordano: Materialmente, scultori degli anni Ottanta; Anni Novanta, Padiglione Italia, Abruzzo, 54° Esposizione Internazionale d’arte della Biennale di Venezia, 2011 (Ex Aurum Pescara, Fortezza Borbonica di Civitella del Tronto), Souvenir, Torri d’Italia, progetto ad hoc per Gran Touristas, Biennale di Architettura di Venezia, 2012. Raffinato intellettuale, ha partecipato da protagonista a convegni importanti, fondatore del Circolo Gramsci a Ravenna, ha curato album d’arte, tra cui ricordiamo StiAntonio Marchetti lo. Fu uomo e artista audace Disegno dal vero per il quale la resistenza civiPendragon, 2015, le fu principio inderogabile, p. 238, € 15 ragione non patteggiabile.

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IMMAGINI DI PACE tra italia e spagna

Un’Isola d’arte firmata abruzzo

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opo l’omaggio al Pakistan dello scorso anno, ad Atri questa estate si è celebrata la Spagna, con il progetto interculturale Stills of Peace and Everyday Life promosso dal Comune in collaborazione con la Fondazione Tercas, Exit Media e il Festival del Cine Español. Una proposta trasversale, che racchiude in un unico

contenitore una mostra d’arte contemporanea, una rassegna di cinema dal titolo CineEspaña ed una serie di incontri su letteratura, poesia e musica, che ha animato il Museo Capitolare, il Chiostro della Cattedrale ed il bellissimo Teatro cittadino dal 30 luglio al 4 ottobre. Aprire l’identità culturale abruzzese al dialogo interculturale attraverso linguaggi differenti e attraverso la conoscenza di altri codici espressivi ed identità storiche è l’obiettivo del progetto culturale Stills of Peace and Everyday Life che, realizzando concrete occasioni di confronto tra tradizioni culturali del Mondo, nella sua seconda edizione ha indagato le esperienze artistiche emergenti di Italia e Spagna. La mostra d’arte contemporanea, con le sue 23 opere in mostra, di cui due prodotte site specific, ha coinvolto dieci artisti di cui cinque spagnoli dando loro la possibilità di confrontarsi sul senso del contemporaneo utilizzando diverse forme espressive: pittura, video, scultura, fotografia, installazioni e al contempo dando

entitrè artisti nazionali e internazionali hanno progettato altrettante opere appositamente per una mostra a cielo aperto che coinvolge l’intera isola di Capri, confrontandosi con i suoi luoghi e lem sue storie. Il progetto Capri, The island of Art, rodato lo scorso anno con un’edizione “zero”, apre i battenti ufficialmente quest’anno

con performance, installazioni audio e video, sculture di grandi dimensioni, proiezioni in notturna, esposizioni in luoghi pubblici e privati. L’evento, fortemente voluto dalla Liquid Art System di Franco Senesi, imprenditore culturale di Capri, è curato da Marco Izzolino e dalla “nostra” Lucia Zappacosta, giovane e già ben nota curatrice d’arte pescarese, che ha coinvolto nell’evento altri tre corregionali: gli artisti Zino (al secolo Luigi Franchi) e Gino Sabatini Odoardi, nonché la fotografa Claudia Ferri che ha realizzato gli scatti promozionali dell’esposizione open-air.

RAPPRESENTARE LA BELLEZZA

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allo spettatore la possibilità di inserirsi nel contesto partecipando attivamente perché questo è il senso dell’arte contemporanea: “Dare stimoli, aprire nuove prospettive e nuovi dialoghi”, lo hanno ampiamente “propagandato” i due curatori della mostra, Antonio Zimarino e Marta Michelacci affiancati dai curatori degli eventi culturali e della rassegna Cinespaña: Giampiero Consoli, Simone Ciglia, Alfredo Bruno, Marco Chiarini, Giuliana Benassi e Piercesare Stagni. Non solo arte contemporanea ma ampio spazio alla musica grazie alla collaborazione con il musicologo Francesco Zimei, il quartetto di musica classica del Conservatorio di Pescara, l’Aquila Altera Ensemble e il coro medioevale Clari Cantus che si è esibito nell’incontro dello scorso 3 settembre per l’anteprima del progetto Ad Icona. Curato dal fotografo Paolo Dell’Elce, sviluppato in collaborazione con 7 giovani fotografi il progetto si propone di dare una nuova visione alle opere custodite nel Museo Capitolare di Atri attraverso la fotografia. Parallelamente si è svolta la rassegna cinematografica CineEspaña che ha contribuito all’intento di Stills of Peace di incentivare il dialogo tra i popoli puntando su film di qualità apprezzati dal pubblico e premiati dalla critica in diversi festival del mondo ma spesso poco conosciuti in Italia. Il programma, che si è svolto in lingua originale con sottotitoli in italiano, ha voluto stimolare il dibattito sui temi forti dei film incoraggiando l’incontro tra addetti ai lavori e il pubblico per uno scambio di opinioni e visioni.

e pitture di Stefania Spadano esposte al MuMi di Francavilla al mare, in una mostra curata lo scorso ottobre da Massimo Pasqualone, rivelano come la figura della donna –la sua psiche, il suo mistero e il suo fascino– sia stata oggetto di un’accurata indagine della pittrice, costruendo un percorso pittorico che è un inno alla bellezza. E La Bellezza si intitola l’immagine di una giovane dal corpo imponente e dalle forme perfette, mentre si annoda i lunghi e scuri capelli, opera seguita da due quadri, ognuno con l’immagine di una ballerina dalle flessuose movenze, in cui il trascolorare delle tinte sembra assecondare i movimenti della danza. In Omaggio a Ranucci la vivacità del fondo rosso su cui si staglia una ragazza immersa nella lettura contribuisce alla gradevolezza dell’immagine. In Omaggio a Guttuso domina una donna perfetta nelle sue linee, sdraiata, mentre fuma. L’autrice, con la formula dell’omaggio, rivela un’ansia di esplorare, di interrogare artisti già affermati e di misurarsi con loro. Sempre a Guttuso si ispira Malinconia, una seducente donna seduta sul letto col viso reclinato e nascosto dal braccio che regge la folta capigliatura. È una sinfonia di tinte beige, che si intensificano nella carnagione e nei capelli, su cui spicca il rosso lacca della scarpina. La tecnica utilizzata prevalentemente è il pastello a olio, antico procedimento che richiede un paziente e delicato lavoro dei polpastrelli sul foglio ma che consente profonde sfumature vellutate come si ammirano nelle opere di Stefania Spadano. Chiude il percorso Stella marina, acrilico su tela, un’ampia veduta celeste in cui il mare si confonde con il cielo dando il senso dell’infinito da cui sprigiona un incantevole lirismo e quasi la suggestione di una magia musicale. Anna Cutilli Di Silvestre

In alto a sinistra: il chiostro della cattedrale di Atri. Sotto: Michele Giangrande, Gears 5 (2011-2015); Ignacio Llamas, ST VII; Marco Appicciafuoco, Flussi e percorsi di acqua e luce; una foto di Paolo dell’Elce. In alto a destra: le opere di Gino Sabatini Odoardi (sopra) e di Zino (sotto) a Capri; qui sopra: Stefania Spadano, L’eleganza (2014)

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RIBALTA MUSICA ANDREA PIERMATTEI

MENO MALE CHE c’è la musica Dalla periferia pescarese al centro di Bologna inseguendo un sogno: vivere cantando

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iciamolo subito: Andrea Piermattei è uno che ci crede. Ci crede talmente tanto che si è consumato le gambe a furia di portare la sua chitarra in giro per locali, palchi, produttori, studi di registrazione, concorsi: «Prima, infatti, ero alto 1,85 e avevo anche una gran fratta di capelli in testa». Gli occhi azzurri, invece, non sono mai cambiati e il suo sguardo è espressivo, sincero come si conviene a chi fa il cantautore. Perché Andrea Piermattei, classe 1978, scrive i suoi testi e compone le sue musiche, pratica rara per un ragazzo della sua età in un mondo affollato di interpreti e sempre più povero di scrittori. Ma Andrea viene da un quartiere periferico di Pescara, un posto –come si legge nella sua “non-autobiografia”– “moderatamente invivibile” dove è dura per un adolescente farsi vedere con una chitarra in mano dai coetanei. Dopo lunga gavetta tra Pescara e dintorni, e dopo essersi trasferito qualche anno fa a Bologna per lavoro, Andrea è approdato finalmente al mercato musicale: è da poco uscito il suo primo singolo, Meno male (in vendita su iTunes) che anticipa il disco in uscita a fine dicembre, corredato da un simpatico video che racconta con ironia il tormento e l’estasi di un giovane cantautore, «alla ricerca costante del successo che da un giorno all’altro arriva e allo stesso modo può svanire» spiega. «Arriva per tutti un momento in cui ti viene chiesto di scendere a compromessi per ottenere quello che vuoi, ed è ciò che racconto nel brano. La maggiore difficoltà di un musicista non è scrivere una canzone, ma scriverne una che risponda ai criteri del business, della radiofonia, della sua vendibilità. Così alla fine anche io mi sono un po’ “ammorbidito” e ho scritto un pezzo più commerciale rispetto alla mia produzione consueta, ma senza perdere le caratteristiche che da sempre contraddistinguono i miei testi: contenuti e ironia». Coadiuvato nella produzione dall’amico fraterno Stefano Campetta, col quale sta portando le sue canzoni in giro per l’Italia in una serie di concerti già dalla scorsa estate, Piermattei sta vivendo con contenuta euforia questo momento di celebrità, col video di Meno male che rimbalza da un sito all’altro, il singolo che scala posizioni in classifica, recensioni su fanzine musicali e segnalazioni un po’ ovunque, interviste e concerti promozionali. Quanto è cambiata la tua vita nell’ultimo anno? «Tanto: ormai posso considerare la musica il mio secondo lavoro. Preparo concerti, scrivo nuove canzoni, lavoro in

studio… è faticoso ma è anche ciò che volevo, quindi va benissimo. Il successo? Non so ancora cosa sia, io sono al gradino più basso. Posso solo immaginare cosa significhi essere un paio di scalini più su, e non è detto che ci arrivi. A me basterebbe poter vivere di sole canzoni e concerti». Sembra che tu mantenga i piedi per terra. «È così, non sono certo una popstar. E del resto Meno male parla proprio della vita breve e scintillante di chi improvvisamente scrive un brano di successo, ma vede svanire tutto da un giorno all’altro. In realtà non è solo una critica al mercato musicale, ma anche verso un certo pubblico che richiede quel tipo di prodotto. È un cane che si morde la coda. Per anni mi sono sentito dire: Andrea, perché non scrivi una canzone più orecchiabile? Poi un giorno lo fai, e la gente ti dice che ti sei svenduto». Ma per te di solito i contenuti sono prioritari rispetto alla musica e alla sua vendibilità. «Assolutamente. Infatti Meno male ha solo l’estetica di un prodotto easy, ma non riesco proprio a rinunciare a dire qualcosa con la mia musica». Come sei arrivato a questo importante traguardo? «Ho partecipato a un concorso, vincendolo, e ci siamo esibiti al Circolo degli Artisti a Roma. Qualche tempo dopo sono stato richiamato e messo in contatto con la Irma Records, casa discografica bolognese, che mi ha proposto un accordo per singolo, disco, video e promozione. Neanche a dirlo, ho accettato. Anche perché è a cento metri da casa mia a Bologna e io sono fondamentalmente pigro». Come mai Bologna? «È una città che ho sempre amato, e quando ho avuto l’occasione di andarci a lavorare mi sono detto che era una svolta. E poi Lucio Dalla è uno dei riferimenti musicali più importanti della mia vita. Nel disco c’è anche una canzone che ho scritto la notte in cui se n’è andato». Meno male che…? «Meno male che su certe persone ci puoi sempre contare».

Nella foto: Andrea Piermattei

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TUTTI I NUMERI DEL FLA

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redici anni fa, un gruppo di giovani pescaresi appassionati di libri crearono un piccolo evento, un festival concentrato in pochi ma succosi incontri letterari. «Questa avventura –ricorda l’assessore alla Cultura del Comune di Pescara Giovanni Di Iacovo, fondatore del Festival delle Letterature dell’Adriatico– è cresciuta caleidoscopicamente fino a coinvolgere ormai un pubblico di oltre ventimila persone, che scelgono di trascorrere quattro giornate insieme ai protagonisti della nostra cultura. Il Festival offre decine di eventi, in modo che ognuno possa trovare il proprio percorso. La nostra soddisfazione è che, terminato il Fla, tutti coloro che hanno partecipato si possano svegliare il mattino dopo sentendosi arricchiti di qualcosa di bello, di qualcosa di intenso, di qualcosa che rimanga». I numeri sembrano dare ragione al giovane assessore e agli altri organizzatori, Vincenzo D’Aquino (direttore) e Luca Sofri (direttore artistico) che hanno registrato un aumento del 40% delle presenze agli oltre 150 incontri distribuiti dal 5 all’8 novembre. La tredicesima edizione ha calamitato a Pescara vecchia e in diversi altri punti della città oltre 20mila visitatori fra presentazioni di libri, reading, mostre, tavole rotonde e iniziative collaterali su fumetto, musica e arti visive. Sessanta volontari e sei responsabili del social media team hanno assistito più di 160 ospiti e garantito la copertura di quasi 200 ore di programmazione in tredici luoghi diversi. Le star della tredicesima edizione sono stati personaggi del giornalismo (Michele Serra, Giuliano Ferrara, Monica Maggioni, Corrado Augias, Walter Veltroni) della letteratura e della poesia (Mariangela Gualtieri, Stefano Benni, Gianrico Carofiglio, Giovanni D’Alessandro, Alessio Romano), del fumetto (Giulio Antonio Gualtieri, Francesco De Stena, Marco Taddei, Liana Recchione) e della musica (Piero Delle Monache, Pierpaolo Capovilla, Morgan). Hanno partecipato ai progetti del Fla oltre 2500 bambini e più di 1000 studenti; circa 600 libri sono stati donati all’iniziativa della

IL BOSS DEL FUMETTO

Piccola Biblioteca Solidale, la libreria che il Fla, Marifarma e Tumidei doneranno al reparto di Neuropsichiatria Infantile dell’Ospedale Civile di Pescara. Ben 800 sono stati i testi partecipanti al contest “Tweet and Outlet”, indetto dal Festival e dal Città Sant’Angelo Village. «Il Fla 2015 è stato uno straordinario diffusore e moltiplicatore di esperienze culturali emozionanti e profonde – ha commentato il direttore del Festival Vincenzo D’Aquino – Sono davvero tante le persone che hanno collaborato al suo successo, in mille modi e su mille fronti: le ringrazio tutte e aspetto con curiosità di vedere che cos’altro riusciremo a fare insieme, nei prossimi anni». «È stata senz’altro l’edizione migliore di sempre – ha commentato il direttore artistico Luca Sofri – c’è da esserne orgogliosi. Tutti gli ospiti sono stati lusingati e ammirati dall’accoglienza e dall’efficienza: abbiamo costruito una cosa memorabile, di cui moltissime persone a Pescara ci ringraziano. L’unico “problema” è che la voce comincia a spargersi e stiamo viziando sia gli ospiti sia i pescaresi: loro ora si aspettano tutto questo, e a noi tocca fare ancora meglio ogni volta». La quattordicesima edizione del FLA si terrà dal 10 al 13 novembre 2016.

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arte da Pescara, dai testi di Marco D’Angelo e dai disegni di Fabrizio Di Nicola, l’avventura di “Spiriti nella notte” (Edizioni Npe), 132 pagine a fumetti per descrivere la vita e l’immaginario delle canzoni di Bruce Springsteen. I primi anni della carriera del “Boss”, l’immaginario generato dalle sue canzoni, racchiuse in un volume che è stato presentato, in anteprima nazionale, nella prestigiosa rassegna Lucca Comics e in anteprima regionale al circolo Maze di Pescara. I due autori, in una serie di incontri con il pubblico presso lo stand dell’editore Npe a Lucca, sono entrati nei dettagli di un lavoro originale che ripercorre la prima parte della carriera dell’artista statunitense. «Ma non si tratta di una biografia illustrata –spiegano D’Angelo e Di Nicola– più corretto parlare di una graphic novel dai tempi cinematografici. Ci sono gli inseguimenti, le scene d’azione e, ovviamente, il rock’n’ roll. Si tratta di un mix tra realtà e fantasia. Vicende e luoghi reali s’incrociano con scenari e personaggi immaginari che interagiscono con Bruce Springsteen».

La prefazione del volume è stata curata dallo scrittore Gianluca Morozzi e la postfazione dal saggista, traduttore ed editor Andrea Plazzi.

IL GIOCO che sfida il sistema

MUSINI, CHE PIACERE

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na proposta agli artisti e un’occasione per indagare, giocando a cambiarle, le regole del sistema dell’arte: è questo 10x10xMAW, una call artistica ideata da Valentina Colella con lo Spazio MAW (Men Art Work), galleria indipendente no profit nata con l’intento di creare un approccio partecipativo all’arte contemporanea. Agli artisti è stato chiesto di donare una o più opere di piccole dimensioni –10x10cm, appunto– a tema libero e su ogni media artistico; le opere donate saranno esposte, a dicembre, in una mostra senza il nome dell’autore (riportato sul retro) e proposte all’acquisto per un contributo unico di 10 euro: una “sfida”, una vera e propria prova, tra finzione e realtà, di un possibile sistema in cui il pubblico agisce per un’interazione empatica con l’oggetto artistico, fuori da ogni giudizio legato a firma e quotazione. Tutte le info, per artisti e pubblico, all’indirizzo http://10x10xmaw.weebly.com.

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ento piaceri per Gabriele d’Annunzio, tredici premi per Daniela Musini. Con il premio Carver 2015 per saggistica (7 novembre, Civitavecchia, Roma) e il primo premio assoluto al concorso “Il Convivio 2015” (22 ottobre, Giardini Naxos, Messina) sono saliti a tredici i riconoscimenti conferiti al saggio “I cento piaceri di d’Annunzio” (Enrico Lui editore) con cui la scrittrice, attrice e pianista pescarese sta mietendo successi in campo nazionale e internazionale. Tra questi si ricordano il primo premio assoluto al Premio Nabokov 2011 e il trophée Ville Lumière al World Literary Prize a Parigi nel giugno 2015.

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In alto: Walter Veltroni al Fla 2015; Marco D’Angelo e Fabrizio Di Nicola e la copertina di Spiriti nella notte; qui sopra Daniela Musini

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RIBALTA EVENTI LIBRI RIBALTA PAOLO ZARDI

GERARDO DI COLA

IL FUTURO CHE VERRà

LO SPIRITO DEL CORFINIO

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La Neo Edizioni di Castel di Sangro arriva al Premio Strega con il romanzo di Paolo Zardi

ome nel magnifico, struggente The Road di Cormac McCarthy, la vicenda narrata in XXI Secolo di Paolo Zardi è ambientata in un futuro prossimo fatto di degrado, inquinamento, povertà e mancanza di risorse. Senza i toni apocalittici del collega statunitense, però, Zardi riconduce la storia entro un quadro più misterioso, ambiguo, che si svela a tratti lungo le 160 pagine di questa sua opera, pubblicata (com’è uso fare lo scrittore padovano) per un piccolo editore: la Neo di Francesco Coscioni e Angelo Biasella, di Castel di Sangro, con cui Zardi ha già pubblicato le raccolte di racconti Antropometria (2010) e Il giorno che diventammo umani (2013). E come il Castel Di Sangro, squadra di calcio protagonista di una sorprendente promozione in Serie B nell’ormai lontano 1998, la casa editrice sangrina è arrivata alla “semifinale” del Premio Strega 2015 con questo libro di Zardi, sponsorizzato presso la commissione nientepopodimeno che da Giancarlo De Cataldo (Romanzo Criminale). Escluso dalla cinquina dei finalisti La storia narrata in XXI Secolo è “al contempo intima e universale”, come recita la quarta di copertina: sullo sfondo di un’Europa devastata dalla crisi economica che ne mina gli stessi valori fondanti, dalla povertà, dalla scarsità di risorse e dall’inquinamento si svolge l’umana vicenda di un modesto venditore di depuratori d’acqua, la cui unica ragione di vita è la famiglia, alle prese con il crollo delle sue certezze dopo che un ictus manda in coma sua moglie. “Che sia un’intera società ad essersi illusa o un singolo individuo, la forza d’urto di una certezza che crolla dipende da ciò che si è costruito sopra. […] XXI Secolo è una domanda fondamentale sull’identità e sulla capacità dell’animo umano di sondarne le profondità più nascoste; è il tentativo di comprendere quale significato possano ancora avere, negli anni che ci attendono, la Paolo Zardi parola “amore” e le sue XXI Secolo molteplici forme”. Neo edizioni, 2015, p. 160, € 11.00

La storia del famoso liquore abruzzese e del suo inventore Giulio Barattucci

erardo Di Cola, di Chieti, ha fatto e fa benissimo il grafico e l’editore, ora ci sorprende in una nuova e inedita veste: quella dell’autore. Ha scritto e pubblicato, infatti, per la sua casa editrice èDicola: Corfinio. Giulio Barattucci tra Chieti, Pescara, Napoli, un bellissimo volume, ricco di immagini rare e documenti inediti, sulla storia del Corfinio, il famoso liquore di erbe dalla ricetta ancora oggi segreta, creato nel 1858 da Giulio Barattucci, intraprendente pasticciere di Chieti. Una storia affascinante, ricostruita da Di Cola sulla base di documenti d’archivio e sui vivissimi ricordi della signora Anna Barattucci, ultima erede, con il figlio Fausto Napoli, del capostipite Giulio. “Lo spirito del Corfinio –scrive Di Cola– continua ad aleggiare nelle case di tante famiglie che conservano ancora bottiglie e ceramiche evocatrici di ricordi, quasi si trattasse di preziosi reperti”. E davvero di gran pregio è l’anfora di ceramica dalla forma e dai decori classicheggianti che Francesco Paolo Michetti disegnò per l’amico Barattucci, quale contenitore del liquore amato da D’Annunzio, Di Giacomo, Croce, Scarfoglio, Serao e tanti altri personaggi illustri. Sì, perché il Corfinio, grazie all’intraprendenza di Barattucci e dei suoi eredi, si diffuse ben oltre i confini di Chieti. Dapprima a Pescara, dove il pasticciere-imprenditore aprì uno stabilimento e un padiglione-caffé , poi, in piena belle époque, a Napoli dove aprì nella elegante via Toledo il Caffè Corfinio, che presto divenne il locale più à la page per i maggiori intellettuali e artisti dell’epoca. Ma la storia del Corfinio della famiglia Barattucci, lunga ormai oltre 150 anni, è anche la storia di Chieti, dell’Abruzzo e dell’Italia, e come tale viene raccontata e approfondita da Gerardo Di Cola attraverso decine di sorprendenti e sconosciuti episodi e curiosità che, pur appartendendo a una “piccola storia”, riescono a dirci qualcosa di più anche della “grande storia” abruzzese e italiana. Gerardo Di Cola Corfinio. Giulio Barattucci tra Chieti, Pescara, Napoli èDicola Editrice 2015, pp. 212, € 20

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RIBALTA CINEMA

RIBALTA MUSICA

RIBALTA TEATRO

AMBIENTE COLANZI

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na bicicletta e chi la conduce: il diario di un viaggio insolito per settecento chilometri di sentieri e mulattiere attraverso l’Abruzzo abbandonato. Ezio Colanzi attraversa i luoghi dimenticati, racconta delle persone che li abitano e di quelli che periodicamente tornano a viverli. L’autore proietta le immagini di un piccolo mondo di storie vive e incandescenti, dove emergono biografie impensate. Storie che risplendono –attraverso le parole del libro– di un’umanità profonda e dimenticata. Un viaggio emozionante e intimo fatto di incontri inaspettati e sinceri come le montagne d’Abruzzo. La presenza di chi li attraversa e ne scrive è una collaborazione reale alla riscoperta. L’autore è allora anche soggetto e materia di questo libro e impone un ribaltamento prospettico cui è impossibile sottrarsi. Custode di un’eredità da raccogliere, diffondere e di cui interpretare il profondo messaggio. Ezio Colanzi, Dove tornano le nuvole bianche. Uao Edizioni, 2015, 112p., € 9

SAGGI GAROFALO

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n Francesco Paolo Michetti, il genio fotografico la critica d’arte Daniela Garofalo mette a frutto anni di ricerche intorno alla figura del pittore abruzzese, restituendone un ritratto fedele e appassionato, un’analisi attenta, e di agile lettura, di quello che è stato uno dei rapporti più intensi tra pittura e fotografia della storia dell’arte moderna. Seguendone integralmente la parabola artistica, il libro pone particolare attenzione a una specifica produzione, quella relativa al “Poema delle linee”, in cui l’autrice ricostruisce in modo inedito il laboratorio creativo del pittore di Tocco da Casauria. Uno strumento essenziale per gli studiosi dell’arte, ma anche per chi vuole conoscere più a fondo la poliedrica figura di un artista straordinario. Completano il volume un profilo biografico di Michetti e 167 tavole fotografiche in bianco e nero.

Daniela Garofalo Francesco Paolo Michetti - Il genio fotografico. Ianieri, 2015, 216p., € 16,90

SAGGI SERPENTINI

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a storia d’amore tra Teramo e il cinema nasce più di un secolo fa. Era infatti il 1897 quando furono proiettati tre brevi film nella sala del Teatro comunale, che suscitarono grande entusiasmo e molta meraviglia tra i numerosi spettatori. Frutto di un lungo lavoro di ricerca e documentazione, il saggio del professor Serpentini Teramo e il cinematografo ricostruisce e narra con dovizia di particolari la crescente affermazione dello spettacolo cinematografico nel capoluogo: una storia lunga e appassionante che –tra gli alti e bassi connaturati a ogni vera relazione sentimentale– è giunta fino a oggi, simboleggiata dal premio Di Venanzo, uno dei più ambiti riconoscimenti per gli operatori.

Elso Simone Serpentini Teramo e il cinematografo. Artemia edizioni, 2015, 448 p., € 25

ROMANZI D’ALESSANDRO

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uando un grande scrittore affronta la tragedia, anche l’inimmaginabile si fa quasi comprensibile, e attraverso le sue parole noi riusciamo a recuperare, tra la polvere di infinite macerie, il senso di quanto continua a non poter essere raccontato. In questi Tre notturni (e una lettera), Giovanni D’Alessandro ci parla della città dell’Aquila prima, durante e dopo il terremoto del 6 aprile 2009, astraendo il dolore da qualsiasi facile retorica e riconsegnando la bellezza alla bellezza, la morte alla morte e la storia di una grande città al suo destino di rinascita. Tre racconti che, in notturna, ci narrano l’amore adolescente, l’amore di due madri, e l’amore per la storia, con una lettera finale in cui tutta la commozione viene riconsegnata alla luce, aprendo dell’Aquila la porta che sempre conduce alla speranza.

Giovanni D’Alessandro Tre notturni (e una lettera). Ianieri, 2015, 104p., € 10

ROMANZI FILOGRASSO

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ietro quale velo si nasconde la realtà delle cose? E quali scenari può aprire la morte? In una tranquillo capoluogo toscano Margherita scopre scomode e inattese verità familiari che la costringono ad affrontare un doloroso percorso di crescita interiore. Tra amori intensi e improvvisi colpi di scena, ricerca esistenziale e questioni familiari, la vicenda si snoda all’interno di un moderno ambiente borghese, tesa a coglierne autenticità, menzogne e limiti. I personaggi trovano nuove risposte a vecchi quesiti e comprendono che c’è un significato profondo dentro gli avvenimenti della propria storia. Una storia che li guida a riscoprire il senso più autentico dell’essere uomini e a dare un valore diverso alla materialità delle cose, alla genitorialità, al perdono.

Elisabetta Filograsso La stanza accanto. Tabula Fati, 2015, 104p., € 10

ROMANZI MARTOCCHIA

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obelós era il segno convenzionale usato dai filologi alessandrini per indicare le parti da eliminare del testo su cui stavano lavorando, al fine di ricostruirne e preservarne l’integrità. Ed è proprio grazie all’acume di Aristarco di Samotracia che parte una serrata indagine su un presunto crimine letterario perpretato ai danni dell’Odissea. Metodi forensi e approfondimenti filologici si passeranno il testimone nel tentativo di venire a capo di un mistero che diventerà ben presto un vero e proprio giallo, in cui la vita reale e quella cantata da Omero si intrecceranno in un segreto in grado di rigenerarsi attraverso i secoli e di sopravvivere sempre ai suoi custodi.

Giuseppe Martocchia Obelòs. Il segreto di Demetrio. Riccardo Condò Editore, 2015, 92 p., € 12

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RIBALTA NEWS LA MAIELLA VIRTUALE

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al 7 ottobre scorso gli amanti della natura possono esplorare il Parco della Maiella anche virtualmente: è infatti stata mappata per Google Maps l’intera rete sentieristica del Parco, incluso il percorso che conduce alla vetta del Monte Amaro a 2793 metri di quota. Il Parco Nazionale della Majella ha festeg-

giato così il suo ventennale, offrendo agli escursionisti la possibilità di godere virtualmente degli oltre settecento chilometri di sentieri, tra valli cariche di biodiversità, luoghi di culto eremitici e vette imponenti, facendo comodamente da casa un viaggio nella natura e nella storia. Con la speranza, va da sé, che la visita virtuale si traduca poi in un’esperienza reale.

ZACCAGNINI AL COLUMBUS DAY

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ncora una volta a rappresentare l’Abruzzo alla 71esima edizione della “Columbus Parade”, la sfilata lungo la Quinta Strada a New York che gli italoamericani dedicano ogni anno a Cristoforo Colombo e alla scoperta dell’America, c’era la famiglia Zaccagnini di Bolognano. C’erano quasi un milione di americani assiepati lungo la Quinta Strada che hanno visto sfilare ben 130 gruppi musicali tra bande, orchestre e majorette provenienti da ogni angolo degli States, oltre agli immancabili regiment di centinaia di poliziotti e pompieri italoamericani che hanno marciato in alta uniforme. Soltanto sei i gruppi provenienti dall’Italia che hanno partecipato alla sfila, la crisi si fa sentire, e tra questi i commentatori televisivi della rete ABC, il network che ha trasmesso in diretta l’evento, hanno ricordato e inquadrato per diversi minuti il successo commerciale della cantina abruzzese nel mercato americano, creata e guidata da 40 anni dal vulcanico

Marcello. Come è noto la Cantina Zaccagnini realizza il 70 per cento del fatturato negli Usa, oltre 40 milioni di dollari l’anno di vendite (e più di 4 milioni di bottiglie vendute nel 2014). Non a caso il Tralcetto Montepulciano d’Abruzzo è il rosso italiano più venduto nei supermercati ed enoteche Usa e il più bevuto dai consumatori americani.

ABRUZZO Chiama LONDRA

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he il fenomeno esistesse è cosa nota (noi di Vario ne avevamo parlato già nel numero 64) ma che la tendenza fosse ancora in crescita è una notizia non di poco conto. L’interesse di una buona fetta di abitanti della terra d’Albione verso l’Abruzzo e il suo territorio, così ricco di elementi caratteristici, ha raggiunto livelli tali da attirare su di sé l’attenzione dei media. La seguitissima trasmissione della BBC Escape to the Continent, format che interpreta il desiderio di “rilocalizzazione” delle tante famiglie inglesi che sognano una nuova vita nell’Europa continentale e mostra loro le bellezze dei diversi territori, proponendo varie possibilità dal punto di vista immobiliare, ha percorso le strade abruzzesi alla ricerca di un’abitazione per una coppia inglese di mezz’età, mostrando tra una dimora e l’altra luoghi e tradizioni simbolo della regione, dalla costa dei Trabocchi a Farindola e al suo formaggio pecorino. Sco-

po della trasmissione, infatti, non è solo quello di aiutare nella ricerca un immobile adatto, ma anche quello di far conoscere lo stile di vita del territorio scelto. La puntata, trasmessa lo scorso agosto, è stata realizzata con il contributo di Italianhouses for You, gruppo immobiliare nato nel 2011 e presente con una sua agenzia all’interno dell’Aeroporto d’Abruzzo. Ma non c’è solo la BBC a illustrare le meraviglie dell’Abruzzo e le opportunità di acquistarvi una casa: anche Channel 4, altra rete televisiva britannica, nel suo programma A place in the Sun, ha mostrato al pubblico inglese paesi di suggestiva bellezza –come Roccascalegna o Calascio– e borghi immersi nel verde, dove trovare ottime occasioni per acquistare una seconda casa. Anche questa trasmissione è stata possibile grazie al contributo di alcune agenzie immobiliari come Abruzzo Project, Abruzzo Rural Property, Better Property Italy e Vignaverde.

Nelle foto: in alto il Parco della Maiella come appare nelle foto a 360° di Google Maps. Al centro la famiglia Zaccagnini sfila durante la parata per il Columbus Day. Qui sopra immagini dalle trasmissioni della BBC e di Channel 4 incentrate sull’Abruzzo

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RIBALTA CINEMA

RIBALTA MUSICA

L’ARTE DEL CIBO

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n polo museale dedicato alle eccellenze d’Abruzzo. Un viaggio tra la cultura contadina, l’agricoltura, la tradizione enogastronomica e i prodotti doc e dop d’Abruzzo, per farne conoscere il valore inserendoli in un contesto ricco di storia e diventare una vera e propria “macchina” promozionale del binomio cibo/ territorio della regione Abruzzo sui mercati nazionali e internazionali che gravitano e comunque transitano a Roma. Tutto questo sarà Abruzzo Quality, il museo che prenderà vita alle porte della regione, grazie all’azione sinergica del Patto Territoriale della Marsica, del Comu-

RIBALTA TEATRO

ne di Carsoli e degli enti che hanno aderito all’accordo di programma per lo sviluppo delle aree interne della Regione. L’obiettivo del polo museale –finanziato dal Ministero dello Sviluppo economico con 2 milioni e 500mila euro– è quello di valorizzare e far conoscere la storia culinaria dell’Abruzzo e le sue eccellenze nell’asse Roma - Pescara. A gestire la struttura sarà una fondazione museale. Alla conferenza stampa di presentazione erano presenti l’assessore regionale all’Agricoltura Dino Pepe, il sindaco di Carsoli Velia Nazzarro, il presidente del Patto territoriale Loreto Ruscio, il progettista Carlo

Floris e il consigliere regionale Lorenzo Berardinetti, già presidente del Patto territoriale.

PICCOLI GRANDI GUERRIERI

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gni giorno, in tutto il mondo, un bambino su dieci nasce prematuro e un milione non sopravvive. Un dato allarmante e in continua crescita, che tocca da vicino innumerevoli famiglie. Il basso peso alla nascita e la prematurità rappresentano due delle principali cause di mortalità infantile e rischio di complicazioni per la salute. Per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della prematurità, il 17 novembre ricorre in tutto il mondo il “World Prematurity Day”, che vuole focalizzare l’attenzione sui problemi della gestante, per i rischi connessi a un parto pretermine, e su quelli del neonato, per le complicazioni che una nascita prematura potrebbe comportare a livello neuro-psico-comportamentale. “Piccoli grandi guerrieri” sono stati definiti questi bambini che, venuti alla luce molto prima dei nove mesi di gestazione, combattono con la forza dei giganti per sopravvivere. Al Policlinico SS. Annunziata di Chieti, il Reparto di

GABRIELLA E GABRIELE

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e martyre de Saint Sébastien, opera rappresentata –tra le polemiche– a Parigi nel 1911 su testo di D’Annunzio e musica di Claude Debussy, fu oggetto della tesi che Gabriella Albertini svolse per il diploma dell’Accademia di Belle Arti di Roma: bozzetti delle scene e dei costumi, 53 opere che l’autrice ha donato, dopo l’esposizione, al

Terapia Intensiva Neonatale diretto dalla dottoressa Patrizia Brindisino ha voluto ricordare il “World Prematurity Day” il 29 novembre, con un evento pomeridiano che ha coinvolto tanti bambini nati prematuri che sono stati ricoverati nella terapia intensiva neonatale del presidio ospedaliero, i loro genitori e il personale del reparto. Solo a Chieti, nel 2014 sono stati ricoverati 178 prematuri (età gestazionale inferiore a 37 settimane) e di questi 32 estremamente prematuri (età gestazionale inferiore a 32 settimane). È stata una giornata di festa, con animatori ed esperti in ballon art che hanno intrattenuto i bambini con una grande merenda e li hanno coinvolti in molteplici attività ludiche. Il personale medico e infermieristico del Reparto, con il contributo di una fisioterapista e di un’esperta di massaggio infantile, ha intrattenuto i genitori con suggerimenti e consigli per aiutarli a migliorare la re-

Mediamuseum di Pescara. Uno stile impressionistico caratterizza la raffigurazione dei luoghi in cui si svolgevano le azioni, ambienti spesso con volte a crociera. In queste opere le immagini sembrano nascere direttamente dal colore senza la necessità di un disegno preparatorio. E sono anche opere di elaborazione materica: sfondi ruvidi e superfici graffiate. Furono realizzate all’inizio degli anni Sessanta quando si diffondeva l’Informale che puntava sugli impasti di vari materiali per scoprirne le capacità espressive. Anche Il Paradiso è reso con pennellate verticali, spesse e materiche in una varietà di tinte tenui, alcune argentee. In rosso sangue solo due fasce verticali e irregolari forse a suggerire l’idea dell’ascensione degli umani. Parecchi i bozzetti per i costumi, tra cui tre

DISPENSER, la comunicazione vincente

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buoni prodotti e le buone idee vanno sempre a braccetto, afferma l’agenzia Dispenser, di ritorno dagli Anuga Awards 2015 di Colonia con ben due riconoscimenti: quello per il miglior packaging, ottenuto con la linea di formati speciali Pastificio Extra di Lusso della Molisana e quello per la miglior innovazione di prodotto nella sezione condimento per l’olio Fumo, affumicato naturalmente, dell’Antico Frantoio Muraglia. Il design della linea Pastificio Ex-

tra di Lusso della Molisana, che celebra il centenario dell’azienda, recupera a piene mani il passato, ridando vita al logo originale, al fascino delle illustrazioni realizzate a china e alla Medaglia d’Oro e Gran Palma d’Onore ricevuta nel 1927 alla Fiera Campionaria di Roma. Dopo un anno di ricerche nella memoria storica, Dispenser ha saputo affidare il racconto dell’azienda ad elementi unici e distintivi come la carta ruvida, il lettering dorato e il linguaggio prezioso in

lazione con i propri piccoli. Una fotografa specializzata in “newborn” ha immortalato significativi momenti dell’evento. Per l’occasione anche la fontana “Teate”, nel centro storico di Chieti, si è colorata di viola, il colore simbolo dei bambini prematuri. Clori Petrosemolo

raffigurazioni de La femmina febbricitante in abito rosso scarlatto di cui, una in particolare, ha lo stesso incedere della Mila michettiana de “La figlia di Iorio”. Elegantissimi gli abiti di Crisilla e di Hassub, la maga di Mercurio, invece abito sobrio per La madre dolorosa magra e scarna. E poi Sanae l’arciere in un raffinato abbigliamento da paggio medioevale. Figure appena delineate con poche linee sottili su fondi sempre scuri, marezzati, punteggiati da varie macchioline bianche che rendono tutto l’arcano che caratterizzava Les mystères, le sacre rappresentazioni della Francia medioevale. Stile quindi unico, premiato dalla straripante affluenza alla inaugurazione della mostra con i visitatori in piedi anche oltre la sala. Anna Cutilli Di Silvestre

grado di evocare la tradizione pastaia italiana. Una nomination anche per la linea pack di Ursini.

Nelle foto: in alto Loreto Ruscio, l’assessore regionale Dino Pepe, Velia Nazzarro e Lorenzo Berardinetti alla presentazione di Abruzzo Quality; sotto un’immagine dal World Prematurity Day (ph. Luana Orlandi); al centro: bozzetto di Gabriella Albertini per il costume di Crisilla; in basso i pack realizzati da Dispenser premiati agli Anuga Awards 2015

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VARIOGUSTO

LA QUAGLIERA

UN OLIO a regola d’arte Passione per l’arte e amore per la terra coniugati in un’attività imprenditoriale: è questa la formula del successo di Prisca Montani, che con un eccellente prodotto ha vinto il Sol d’Oro 2014 di Fabrizio Gentile

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l senso del bello l’ha sempre avuto. È una questione di geni, dice: nel suo sangue scorre quello dei Cascella (sua madre Giannetta è figlia di Tommaso Cascella) e quello dei Montani, storica famiglia di proprietari terrieri e di imprenditori agricoli. Prisca Montani, titolare dell’azienda La Quagliera, ha messo a frutto questo suo patrimonio genetico unendo l’amore per il verde e la terra ereditato dalla famiglia paterna all’innato gusto estetico di parte di madre, che la porta a trattare i suoi sei ettari di uliveti sulle colline di Spoltore “come se fossero un grande giardino”. Un giardino che però produce circa 15-20 quintali di olive di tre varietà: Dritta, molto diffusa sul territorio, Leccino (non autoctona) e Cucco, «una varietà tipica dell’Abruzzo ormai quasi abbandonata dai produttori regionali che ho voluto recuperare, e che dà un olio molto apprezzato da chi ricerca i sapori caratteristici del territorio». Ed è con il suo “Ago”, Extravergine monovarietale da olive Dritta che Prisca è salita sul gradino più alto del podio al Sol d’Oro 2014, vincendo il suo primo concorso internazionale, mentre contemporaneamente venivano assegnate dal Gambero Rosso le “tre foglie” al Monocultivar Cucco nella Guida agli Oli d’Italia. Un’ottima annata, il 2014, considerando anche l’Excellence Reward conquistato al Japan Olive Oil Prize dallo stesso Monocultivar Dritta e le “5 gocce” incassate dal Monocultivar Cucco al concorso “L’oro dei due Mari” di Lecce. Successi che hanno proiettato da un giorno all’altro la piccola azienda La Quagliera di Prisca Montani da Spoltore tra le stelle del firmamento oleario italiano e internazionale, e che –di solito– legittimano ambizioni di crescita. Ma lei, Prisca, che ha iniziato nel 1998 la sua attività imprenditoriale impiantando circa duemila ulivi nel terreno di famiglia grazie a un fondo europeo, ad espandere l’azienda non ci pensa proprio. I premi la rendono orgogliosa ma non la lusingano, non la irretiscono nemmeno le offerte giunte da grandi marchi dell’agroalimentare. «Il mio punto di forza –dice– è la qualità del prodotto, non la quantità, che sarebbe necessaria per inserirsi nel circuito della grande distribuzione». Una qualità che si ottiene solo con un controllo totale di tutto il ciclo, dalla raccolta all’imbottigliamento.

Quando ha cominciato, racconta, «Il protagonista della scena agroalimentare regionale era il vino. La sua corsa ai vertici delle classifiche era già iniziata da tempo, mentre l’olio era ancora ai blocchi di partenza. La svolta è stata l’introduzione delle nuove tecnologie di molitura, i nuovi frantoi, che hanno permesso di valorizzare durante la lavorazione un prodotto già buono in partenza. La difficoltà delle piccole aziende come la nostra è che non possiamo permetterci di acquistare e gestire un frantoio (mentre chi produce il vino generalmente lo fa nella sua propria cantina) e dobbiamo quindi rivolgerci a strutture esterne, concordando con loro i tempi e i metodi di molitura dopo la raccolta. Chi possiede un frantoio ha per gli olivicoltori lo stesso ruolo che ha l’enologo per i viticoltori: ci aiuta a ottenere il prodotto che vogliamo». E Prisca Montani, in onore al suo temperamento anticonformista, è ben lieta di rinunciare a fregiarsi della certificazione Dop, pur trovandosi a pochi metri dal “confine” burocratico che delimita il territorio di produzione della Dop Aprutino-Pescarese, per essere libera di fare l’olio che preferisce: profumo fruttato medio-intenso, con un gusto armonico in perfetto equilibrio tra l’amaro e il piccante, con un sentore di mandorla e di carciofo. «Il gusto e il profumo dipendono dal periodo di raccolta: olive più mature hanno una resa maggiore in termini quantitativi, ma noi raccogliamo in leggero anticipo sulla maturazione completa e moliamo entro ventiquattr’ore dal raccolto». Anche le confezioni (bottiglie da 0,50 e 0,75l) esprimono il concetto di autenticità e artigianalità, con un laccetto di rafia annodato a mano sul collo (dalla stessa Prisca, peraltro) e la piccola quaglia raffigurata sull’etichetta, presa pari pari da un piatto di ceramica firmato da Gioacchino Cascella. Proprio il desiderio di preservare la qualità del suo olio ha spinto Prisca a proporlo anche in confezioni “bag in box” da 5 litri: «È un’alternativa alla tradizionale lattina, che evita il contatto con l’aria e quindi previene il rischio che l’olio rimasto all’interno cambi profumo o sapore con l’ossidazione. Peccato che sia oggettivamente una confezione poco attraente, che ricorda i vini da tavola di fascia economica, ma è il futuro del packaging alimentare».

Nella foto in alto l’azienda Montani sulle colline di Spoltore. A fianco Prisca Montani

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VARIOGUSTO

CANTINA DI SIPIO

PAESAGGIO DIVINO

Un’azienda giovane in perfetto equilibrio tra modernità e tradizione di Claudio Carella

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asta osservare, sulle colline di Ripa Teatina in provincia di Chieti, l’azienda agricola Di Sipio per avere un’immagine simbolica della sua filosofia: un tipico (tradizionale) casolare abruzzese del 1600, con accanto una struttura che a prima vista sembra un museo d’arte moderna, perfettamente integrata nel paesaggio. E l’atmosfera che si respira all’interno è proprio quella di un museo, ma ad essere custodite sono le botti di rovere che contengono un più prosaico, ma altrettanto prezioso Montepulciano d’Abruzzo. A fare gli onori di casa è Giulia Di Sipio, una giovanissima laureata in Enologia all’Università di Teramo, che con grande energia, entusiasmo e competenza incarna lo spirito che guida l’azienda. La cantina Di Sipio, grazie alle sue scelte imprenditoriali e alla filosofia ben precisa che la guida, si è saputa ritagliare un ruolo autorevole nel panorama enologico regionale. «Abbiamo la fortuna di fare vino per passione», spiega Giulia. «Lo zio Nicola, pur non essendo sempre in azienda, è molto presente: è lui a dettare lo stile, il gusto e la filosofia della cantina. Che è, essenzialmente, quella secondo cui l’uomo non deve fare altro che creare le condizioni perché si verifichi qualcosa che in natura avviene spontaneamente. Crediamo che il vino buono si faccia con l’uva buona, il che significa lavorare molto in vigna. Per mantenere alta la qualità delle uve utilizziamo accorgimenti fisici: abbiamo la fortuna di avere i 35 ettari vitati (sui 70 totali dell’azienda) posizionati nei pressi della cantina, quindi possiamo vendemmiare senza preoccuparci granché dei tempi e dei problemi di trasporto. Il team di lavoro è guidato dal nostro enologo, il dottor Romeo Taraborrelli, che insieme a zio Nicola e all’architetto ha partecipato anche alla progettazione della cantina, costruita da zero e realizzata con criteri che integrano un senso estetico improntato al rispetto del paesaggio con le necessarie modernizzazioni funzionali alla sicurezza alimentare». La tenuta, a metà strada tra

mare e montagna, è in perfetto equilibrio fra tradizione e innovazione. «La sperimentazione è possibile se conosci la tradizione –afferma Giulia– e per noi è importante mantenere elementi classici all’interno di una produzione che si discosta da quella più consueta. Facciamo vini che non strizzano l’occhio alle mode e al gusto mainstream. Abbiamo scelto di dare espressione a tre Dop: Montepulciano d’Abruzzo, Cerasuolo e Montepulciano riserva per i vini rossi, mentre per i bianchi abbiamo seguito la certificazione Igp con un blend di tre vitigni, Pecorino, Falanghina e Trebbiano, ed un inconsueto Riesling. E dato che allo zio piacciono le bollicine, abbiamo impiantato anche uve Chardonnay e Pinot Nero per fare spumanti col metodo classico». Anche nel packaging la tradizione la fa da padrona: «Rispetto alla tendenza del momento, che vede molti produttori utilizzare confezioni innovative come il “bag in box”, noi facciamo vini pensati per evolversi nel tempo, e quindi abbiamo scelto la “solita” bottiglia: unica nel modello per tutte le linee (perché volevamo che a parlare fosse il contenuto, non il contenitore), scura per proteggere il vino dalla luce e con l’intramontabile tappo in sughero. Solo quella dello spumante è diversa, perché non potevamo usare la stessa del vino fermo». Delle circa 150mila bottiglie che ogni anno escono dalla cantina, la maggior parte trovano spazio sul mercato nazionale, ma i vini Di Sipio sono riusciti a posizionarsi anche su quelli di Europa, Asia, Stati Uniti e Canada, grazie a un paziente e meticoloso lavoro condotto proprio dalla giovane Giulia che si occupa, da qualche anno, della parte commerciale: «In Italia abbiamo il riscontro più consistente, ma anche gli altri mercati stanno dando ottimi risultati. Il segreto? Intanto il rapporto qualità/prezzo: il nostro vino è un prodotto di fascia alta, ma accessibile da una larga fetta di pubblico. E poi manifestazioni, fiere, viaggi, degustazioni, affiancamenti… Anche in questo caso i sistemi tradizionali si rivelano migliori delle soluzioni innovative» Quando la cantina diventa un luogo da vivere. E non solo per i cultori del buon vino, ma anche per quelli della buona cucina. La splendida cornice architettonica e paesaggistica della Tenuta Di Sipio è anche un luogo in cui vivere momenti indimenticabili. Il gruppo MAS Grandi Eventi di Adamo Di Natale, leader in Abruzzo (e non solo) per l’organizzazione di eventi e cerimonie, annovera anche questa affascinante location tra le prestigiose strutture che gestisce, come il Parco dei Principi a San Silvestro.

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Giulia Di Sipio nella bottaia

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VARIOGUSTO

LA CHITARRA ANTICA

MUSICA PER IL PALATO Nel centro di Pescara, tra le architetture moderne e i negozi sfavillanti di luci, c’è un luogo senza tempo dove si respirano i profumi della cucina tradizionale abruzzese

di Claudio Carella

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ulle guide turistiche della città non è menzionata, ma non c’è visitatore che giunto a Pescara manchi di fare un salto alla Chitarra antica, da cinquant’anni il punto di riferimento per le specialità gastronomiche abruzzesi, ma anche “un luogo di incontro in cui si parla, si condividono opinioni, si confrontano diverse esperienze e diverse culture”. Parola di Claudio Minicucci, titolare del negozio all’angolo tra via Trento e via Sulmona, nel cuore della città, che storicamente è sempre stato il tempio pescarese della buona gastronomia. Era il 1965 quando l’attività nacque su iniziativa del professor Giovanni Iannucci, appassionato intellettuale e membro dell’Accademia Italiana di Cucina, desideroso di preservare e condividere l’enorme patrimonio culturale e gastronomico di cui era custode insieme alla sorella. «Il professore –racconta Minicucci– capì subito che il processo di lavorazione di un piatto era importante quanto il piatto stesso, che la preparazione era un elemento di rilevanza culturale. Anche perché nella tradizione contadina ricette e preparazioni si tramandavano oralmente, non c’era mai nulla di scritto. L’intuizione di dedicare la vetrina non alla semplice esposizione dei prodotti ma alla loro preparazione, con le donne che ammassavano la pasta e la tagliavano con la chitarra, rendeva esplicito proprio il legame tra la gastronomia e la cultura popolare». A collaborare alla gestione il professore chiamò i coniugi Giovanni e Giuseppina Minicucci, che presero le redini del negozio quando Iannucci decise di lasciare, e ne proseguirono l’attività con lo stesso suo spirito. Il medesimo con cui Claudio ha raccolto il testimone dai suoi genitori. «In realtà i miei non volevano che seguissi le loro orme, e io mi ero avviato a un altro mestiere. Ma col passare del tempo sentivo di non poter sottrarmi a questa che per me è una vera vocazione, tanto che il piacere nello svolgere il mio lavoro rende accettabili anche i grandi sacrifici che richiede». Sveglia alle prime luci dell’alba, una lunga giornata in negozio che si conclude a sera tardi, aperture domenicali e festive: alla Chitarra antica si dorme poco, e c’è anche il personale a condividere passione e sacrifici con Claudio Minicucci: «Oggi in laboratorio ci sono persone di varia provenienza, tutte unite dalla passione e dedizione verso la cucina abruzzese».

Non è un caso che nella sua ricerca continua dell’eccellenza Minicucci abbia, negli anni, allargato la gamma dei prodotti, scavando nell’ampio repertorio regionale (“da qualche anno proponiamo le Virtù ogni Primo maggio: mi faccio mettere da parte dal grande Genobile i migliori ingredienti”): «Cambiano le abitudini, la società, la città intorno a noi, ma lo spirito con cui gestiamo questo locale è lo stesso da sempre: mantenere viva la tradizione culinaria abruzzese, fatta di ingredienti semplici e genuini. In un mondo in cui abbondano le sofisticazioni alimentari –pensiamo all’ultimo scandalo, quello dell’olio extravergine– solo chi ha conoscenza della tradizione riesce a riconoscere il vero dal falso. Per esempio, per fare un buon timballo alla teramana –uno dei “piatti forti” della proposta gastronomica della Chitarra antica insieme ai celeberrimi fiadoni e alle altre specialità abruzzesi, ndr– bisogna usare uova, mozzarelle, carne, di ottima qualità. Bisogna farlo cioè “come una volta”, senza ricorrere a scorciatoie». Una filosofia che genera fiducia, come dimostrano i tanti clienti (“per me non sono clienti, sono amici” precisa Minicucci) che abitualmente entrano alla Chitarra antica al pari dei personaggi famosi che, di passaggio a Pescara, vanno a visitare il negozio di Claudio, a godere della sua generosa ospitalità, quasi fosse una tappa obbligata di ogni bravo turista: «Qui ne sono passati tanti – racconta Minicucci– e tanti sono anche tornati, fino a diventare dei clienti affezionati. Gianfranco Vissani, ad esempio, che conosce bene la nostra cucina essendo stato sposato con una chef di Villa Santa Maria; e Tiberio Timperi, ghiotto dei nostri fiadoni; e poi Antonio Di Pietro, che veniva sempre quando era ancora un “semplice” magistrato. Ma ci sono anche persone sconosciute che decidono di trascorrere qualche giorno con noi per passione, per imparare a conoscere i segreti della cucina abruzzese. Come un farmacista olandese, giunto qui poche settimane fa con la moglie: lei durante il giorno faceva la turista, lui lavorava e studiava con noi in cucina. È arrivato olandese e se n’è andato abruzzese. Quando ci siamo salutati il primo giorno ci siamo solo stretti la mano, al momento del commiato ci siamo salutati con calorosi abbracci e qualche lacrima».

Nella foto Claudio Minicucci con un “carraturo” dei primi del ‘900 62

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[ VARIOGUSTO - LA RICETTA ]

Zuppa di Cardo Brodo di Carni bianche miste, Pane casereccio, Cardo, Indivia, Carne macinata di Vitello, Uovo, Cipolla bianca, Sedano, Prezzemolo, Carota, Fegatini di Pollo, Pomodori pelati, Olio extravergine di Oliva, Burro, Parmigiano Reggiano, Sale, Pepe nero.

Preparare un brodo leggero di Carni bianche miste, filtrarlo, sgrassarlo per bene e tenerlo in caldo. In una padella leggermente oliata tostare dei piccoli dadini di Pane casereccio girandoli continuamente perché non brucino e appena avranno assunto un bel colore ambrato, tirarli via dal fuoco e metterli ad asciugare su una carta assorbente. Pulire e lavare le coste del Cardo, tagliarle a pezzi, farle bollire in Acqua salata, sgocciolarle e metterle da parte in una scodella. Fare lo stesso anche con l’Indivia. Unire in una terrina la Carne macinata, un Uovo, un filo d’Olio, una presa di Sale e un pizzico di Pepe, amalgamare tutti gli ingredienti con una forchetta, modellare tra il palmo delle mani delle Polpettine di un centimetro scarso di diametro e metterle da parte in una raviera. In un tegame di terracotta soffriggere nell’Olio un trito fine di Cipolla, Prezzemolo, Sedano e Carota e appena le Erbe risulteranno appassite, aggiungere le Polpettine insieme ai Fegatini di Pollo sminuzzati e fare soffriggere il tutto per qualche minuto. Unire i Pomodori pelati, salare e lasciare sobbollire a fuoco molto lento fino a quando si formerà un Sughetto ben ristretto. Tagliare a pezzi le Verdure bollite, ripassarle in padella con una noce di Burro per qualche minuto e versarle nella pignatta del Brodo bollente. Adagiare sul fondo delle scodelle da portata una manciata di dadini di Pane tostato, versarci sopra il Brodo caldo con le Verdure, unire un cucchiaio di Polpettine e di Fegatini, spolverare con il Parmigiano grattugiato al momento e servire in tavola.

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ABRUZZO IN RIVISTA 88

Anche le opere d’arte

Noi di De Cecco difendiamo da sempre il valore di una pasta fatta a regola d’arte. Solo semola di grana grossa impastata a freddo con acqua purissima, essiccata lentamente e trafilata al bronzo, così come vuole la tradizione. Un saper fare che siamo orgogliosi di aver mantenuto vivo nel tempo e che altrimenti sarebbe andato perduto. Un metodo antico e sapiente che potete ritrovare ogni giorno nel sapore unico della pasta De Cecco.

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GIUSEPPE IAMMARRONE Fotografo

Testo di Daniele Cavicchia

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IL FASCINO DISCRETO DELLA FOTOGRAFIA di Daniele Cavicchia

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el gioco dei “se...”, avrebbe potuto essere di volta in volta pittore, architetto, poeta, antropologo, e non da ultimo, confessore discreto e benevolo. E tutto questo, in fondo, lo è stato. Il suo “scatto”, come un’intuizione geniale, ha creato dipinti surreali, architetture fantastiche, immagini poetiche; ha evocato antichi rituali sottraendoli alla banalità delle feste di paese; ha messo a nudo, con sensibilità e pudore, l’anima di molti, artisti e gente comune. La sua macchina fotografica, a partire dagli anni Sessanta, ha fissato generazioni di artisti abruzzesi e non: da Michele Cascella a Remo Brindisi, da Pistoletto a Summa, da Marotta a Visca, da Getulio Alviani a Mario Merz, da Luciano Fabro a Vittor Pisani, da Di Blasio a Spalletti, da Falconi a Fiducia, da Giuseppe Di Prinzio ai fratelli Andrea e Pietro Cascella, Mino Maccari, Valeriano Trubbiani, Nino Gagliardi ed altri. E poi la schiera degli scrittori, degli intellettuali: Ignazio Silone, Emiliano Giancristofaro, Ugo La Pietra, Giuseppe Rosato, Aleardo Rubini, Angelo Civitareale, Benito Sablone, Giammario Sgattoni, Mario Dell’Agata… Con tutti è stata amicizia o comunque rispetto ed ammirazione reciproca, rimasta inalterata nel tempo, inossidabile come una foto che con gli anni forse sbiadisce un pò ma di certo non cambia. Perchè la sincerità e assenza di malizia del suo sguardo indagatore finisce col disarmare chiunque. Al suo “occhio di vetro” non sono sfuggiti neppure i tanti personaggi in “trasferta” in Abruzzo: Mario Luzi, Rita Levi Montalcini, Natan Zach, Desmond O’Grady, Marc Augè, Maria Luisa Spaziani, Yves Bonefoy, Sergio Givone, Vittorino Andreoli… Dove c’è un evento artistico e culturale, è presente, silenzioso e discreto, Giuseppe Iammarrone, confuso tra la gente come uno dei tanti, salvo a far comparire all’improvviso tra le mani la sua inseparabile Leica e a scattare un’improbabile foto, sulla quale non scommetteresti mai: ma che invece si rivela un miracolo di luce, un affresco in cui ogni cosa sembra studiata in tutti i particolari per suggerire l’idea finale, un ritratto elaborato nel tempo per rivelare la personalità del soggetto. E tutto questo senza la fissità della foto da studio, ma anzi con quella sensazione di immediatezza e freschezza che deriva dall’apparente spontaneità dello scatto. Il bambino che gioca lungo le stradine ripide di Scanno o nel buio –non solo fisico– dei vicoli della Taranto vecchia e l’artista famoso che si sottopone di buon grado al servizio fotografico sono osservati con la stessa attenta e curiosa umanità che vuole imparare e prendere dal soggetto per trasmettere agli altri. Perchè per Iammarrone una foto non è solo un esercizio di stile, l’appagamento di una forma di narcisismo ma un modo di comunicare a chi guarda le proprie emozioni, svelandole insieme a se stessi. “Faccio il fotografo perchè non so scrivere”, ha confessato in un’intervista. E, come

per chi scrive, anche per Iammarrone si può parlare di una “vocazione” alla fotografia, di cui si trova traccia fin nei primi tentativi dell’adolescenza di procurarsi una macchina fotografica o nel fervore con cui cerca di carpire i segreti del mestiere all’unico vecchio fotografo del paese. E per ogni vocazione si può risalire, come in una leggenda metropolitana, a un’origine mitica, al momento dello scarto iniziale tra la normalità di una vita e la “chiamata” a cui bisogna rispondere. Nel suo caso racconta che la “folgorazione” è avvenuta sfogliando da bambino un libro di macchine e attrezzature fotografiche che il nonno aveva riportato dall’America. E si rafforza nell’ammirare su alcuni libri dello zio i servizi fotografici sulle popolazioni d’America e d’Africa. Proprio a queste reminiscenze infantili Iammarrone attribuisce la sua predilezione di fotografo per il reportage, che si andrà sempre più consolidando a seguito degli studi sulle culture popolari. È unanimamente riconosciuto che a lui si deve la riscoperta e la valorizzazione del folklore abruzzese. Ha realizzato reportages sulle manifestazioni più antiche e significative della regione –Le Farchie di Fara Filiorum Petri, Le Panicelle di Taranta Peligna, I Serpari di Cocullo, Il Lupo di Pretoro, Le verginelle di Rapino, I Banderesi di Bucchianico, Il Bue di S. Zopito di Loreto Aprutino, Il ballo della Pupa, I Turchi di Villamagna, la festa di S. Andrea a Pescara, destinati a diventare dei “classici” della cultura popolare, acquisiti da musei, oggetto di mostre, ripresi e citati nelle riviste specializzate e nei libri di antropologia. L’amico tra gli amici, il pittore sandro Visca, ha scritto che “Iammarrone è uno straordinario fotografo di lettura antropologica, capace di appassionate esplorazioni”. Nel 1970 il professor Diego Carpitella, antropologo tra i più noti, colpito dalle sue foto pubblicate su alcune riviste, lo definì “un classico ormai della fotografia antropologica”. Attraverso un lavoro minuzioso e paziente di studi e ricostruzioni, Iammarrone ha saputo leggere da dentro, al di là della finzione scenica e del substrato culturale depositato negli anni, il significato originario di quelle tradizioni, il senso rituale che le sottende, fissandole per sempre nelle sue eccezionali foto artistiche, tra poesia e antropologia. Molte volte avrei voluto chiedere a Iammarrone cosa rappresentasse per lui la fotografia e perchè avesse fermato le immagini proprio in quel preciso momento e non in un altro. Probabilmente avrebbe risposto con un sorriso. Ma per un uomo che ha vissuto tra le immagini, ogni foto non può che essere un atto d’amore, un voler fermare il tempo in quell’istante per poter rivivere successivamente la stessa emozione, continuare ad esserci, anche dopo molti anni, come per una forma di immortalità.

In copertina: Giuseppe Iammarrone ritratto dal figlio Paolo (1976); nelle pagine seguenti: il rito dei Serpari durante la Festa di San Domenico a Cocullo; qui a destra Le Farchie a Fara Filiorum Petri

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Nella pagina accanto: Il lupo di Pretoro (1974); adorazione della reliquia di San Biagio durante la festa delle Panicelle a Taranta Peligna (1973); una donna in processione con ex voto a Cocullo (1976). Nelle pagine successive: immagini di ragazzi dalle feste di Carnevale documentate da Iammarrone in diverse localitĂ tra Abruzzo e Puglia

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Cenni biografici Giuseppe Iammarrone nasce il 10 novembre 1937 a San Paolo di Civitate in provincia di Foggia da una famiglia di contadini. Giovanissimo si appassiona alla fotografia sfogliando le riviste che un suo zio riporta dall’America. Inizia a frequentare lo studio dell’unico fotografo del paese ed impara a conoscere le tecniche dello sviluppo e della stampa. Ama anche il cinema, e va spesso nella cabina di proiezione dove si diverte a giuntare gli spezzoni di pellicola delle pizze dei film, per poter poi raccogliere i pezzi che avanzano e rivederseli a casa con un piccolo proiettore regalatogli dallo zio. A sedici anni, partecipa ad un concorso come fotografo per l’Aeronautica militare; lo vince ma viene assunto con un incarico diverso. Solo dopo venticinque anni, in Sardegna gli viene richiesto di realizzare servizi fotografici. Presto si rivela in lui un gran talento per il reportage. Ama scoprire e raccontare la vita della gente comune; ama ritrarre i mendicanti, i giochi dei ragazzi nei vicoli scuri delle città del sud d’Italia. Famose, al riguardo, sono le immagini che scatta ad un gruppo di ragazzini nei vicoli di una Taranto degli anni ‘50 o le sue riprese all’interno di una casa rurale dell’entroterra pugliese che raccontano, come un abile ed attento narratore sa fare, la quotidianità di una realtà a pochi allora conosciuta. Naturale quindi il passaggio a studi di carattere antropologico con una particolare attenzione per il vissuto rurale e le tradizioni dei riti propiziatori nella civiltà contadina. All’inizio degli anni ‘60 si trasferisce definitivamente in Abruzzo, a Pescara, e acquista la prima Nikon F e successivamente la sua inseparabile Leica, con le quali continuerà a scattare fotografie fino alla sua scomparsa. Nel 1965 si sposa e dal suo matrimonio nascono tre figli: Paolo, Elisabetta, Silvia. Realizza numerosi reportage tra l’Abruzzo e la Puglia, e pubblica le sue immagini nelle maggiori riviste fotografiche e libri di carattere scientificoantropologico. A lui si deve la rinnovata attenzione per le feste popolari in Abruzzo; fotografa e pubblica le immagini delle Farchie di Fara Filiorum Petri, dei Serpari di Cocullo, delle Verginelle di Rapino, del Lupo di Pretoro e altre, destando l’interesse di importanti antropologi quali il professore Diego Carpitella e la professoressa Maria Luisa Meoni. Sul finire degli anni ‘60 fotografa personaggi dell’arte figurativa abruzzese e nazionale, instaurando con alcuni di loro un rapporto di amicizia e collaborazione. Ritrae anche ntellettuali e scrittori quali Ignazio Silone, Mario Luzi, Rita Levi Montalcini e tanti altri e collabora con il famoso reporter di Epoca Mario De Biasi. Il 7 agosto 1980 apre uno studio fotografico nel centro di Pescara e diventa un punto di riferimento per i molti appassionati e i neofiti della fotografia. Giuseppe Iammarrone scompare il 28 marzo 2006. Bibliografia Le foto di Giuseppe Iammarrone sono comparse su riviste e quotidiani nazionali e internazionali: “Popular Photography”; “Camera”; “Historia”; “Architettura”; “Vogue Uomo”; “Fotografare”; “Il Diaframma, fotografia italiana”; “Foto pratica”; “Gente”; “L’Europeo”; “Il Messaggero”; “Vario”; “Il Tempo”; “Casabella”; “AB”; “Segno”; “Flash Art”; Riviste del gruppo edizioni Burda. Molti i volumi cui ha partecipato e che sono stati scritti su di lui. Due, in particolare, ben rappresentano e sintetizzano il suo lavoro di ricerca antropologica ed etnografica: Le Farchie (ed. Tracce, 2002) e Riti Propiziatori in Abruzzo (Textus, 2007) Una parte importante del suo lavoro è costituita dalla documentazione fotografica dell’opera di numerosi artisti, che hanno utilizzato le sue immagini per cataloghi e monografie: Giuseppe Fiducia, Ugo La Pietra, Gino Marotta, Emilio Sobrero, Franco Summa, Mario Merz, Sandro Visca, Ettore Spalletti, Josef Beuys, Enrico Jobb, Giuseppe Di Prinzio, Nino Gagliardi, Franco Lo Savio, Vettor Pisani, Luciano Fabro, ed altri. Diversi i servizi televisivi cui ha contribuito per la Rai e tv locali. Sue fotografie sono attualmente conservate presso: Galleria d’Arte Moderna, Bologna; Museo delle Genti d’Abruzzo, Pescara; Museo della Fotografia, Bergamo; Museo delle Tradizioni ed Arti Contadine, Picciano (Pe).

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Ragazzi nei vicoli di Taranto vecchia, 1955

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Un’anziana donna mostra uno dei panicelli di San Biagio. Nella pagina a fianco: Vongolari a Pescara, 1976 ca.

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Nella pagina a fianco: una delle immagini che documentano la performance Un cuore rosso sul Gran Sasso (1974) di Sandro Visca. In questa pagina: Giuseppe Fiducia (in alto, 1982) e Alfredo Del Greco (sotto, 1986) fotografati nei rispettivi studi. Nel retrocopertina: la processione della Festa di S.Andrea a Pescara (1973)

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SAN GIOVANNI IN VENERE Fossacesia

Testo di Plinio Perilli Foto Roberto De Liberato e Gianni Colangelo

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Una sentinella sulla costa dei trabocchi

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uardando e ammirando la stazza insieme elegante e poderosa d’una abbazia come quella di San Giovanni in Venere (in prossimità del borgo di Fossacesia, fra verdi colline ricche di olivi, viti e aranci), altolocata su un poggio di un centinaio di metri sopra il mare, e ad esso prospiciente, contemplante… vengono davvero in mente i celebri versi di Cardarelli sulle “Sere di Liguria”: “Sepolto nella bruma il mare odora. / Le chiese sulla riva paion navi / che stanno per salpare”… Qui la regione cambia, è l’Abruzzo forte e gentile, ma l’idea comunque di questa grande basilica cistercense come vascello arenato lassù in collina –l’operosa collina dei monaci, degli uomini di Dio– resta e si staglia anch’essa come la sagoma di questo splendido monumento della Cristianità tardomedioevale, quando il monachesimo fece le sue prime prove di rinascita, in un periodo in cui anche l’architettura (oltreché la Fede) provava la sua renovatio, non più solo “romanica”, ma non ancora “gotica”… E il nome, poi, che lega San Giovanni a una Venere improbabile che è solo quella –forse– di un tempio preesistente, sopra i cui resti, come usava, si costruì un nuovo sguardo, un nuovo credo, concreto e insieme in excelsis.

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Grigia e bianca, la nave (arenata o sul punto di salpare?); grigia e ocra, terrigna di marrone (la facciata è di pietra grigia e mattoni) ma bianca per virtù marmorea (due splendidi pilastri decorati), come l’arte che ne imbianca e immortala i simboli, le sculture simboliche, le tracce intagliate o levigate della candida fede. Interno d’impronta cistercense, a tre navate divise da pilastri che sostengono archi ogivali. Poi la cripta, cui si accede tramite due scale che scendono dalle navate laterali, divisa in due navatelle – e conserva affreschi importanti di Luca di Pollutri da Lanciano (circa 1190). Nave arenata: il monachesimo che salvò la Fede. Nave salpante: per le virtù ascetiche dei suoi antichi monaci vissuti già in odore di santità, più sovrani dei loro re regnanti, più guerrieri, templari di Pace, dei condottieri bellicosi e improvvidi che scorrazzavano per quelle terre e quei feudi. Oggi, restaurata e pronta –come una nave, moderna arca per il nuovo millennio– se ne sta lì attraccata, tra le colline e la Storia, a guardare il mare, l’Adriatico amarissimo (ancora D’Annunzio), perché più sconfitte che vittorie ci assegnò, l’Adriatico sempre pronto a recapitarci lutti, jatture, migranti disperati. Pure, luogo d’antichi riti venusti, luogo dove forse s’ergeva un tempio

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Nella foto l’abbazia cistercense di San Giovanni in Venere a Fossacesia. Nelle pagine precedenti: in copertina particolare dei bassorilievi che adornano il portale anteriore. Nelle pagine seguenti: una veduta absidale esterna dell’abbazia circondata dagli uliveti (pag. 2-3) e l’interno della cripta (pag. 4-5)

a Venere “conciliatrice” (lì dove il fiume Sangro sfocia in mare, foce dolcesalata come eterna vicenda dell’amore). E non è casuale –forse– nella strategia inconscia o superna della Storia, quell’essere quasi in un centro e fulcro ideale dopo Ortona e San Vito Chietino. Lì vicino, sorge infatti un cimitero di guerra canadese di struggente valenza. Mi colpì molto già in una visita di tanti anni fa, quando realmente lo percorsi turbato e incredulo: tutti nomi, soldati morti giovanissimi, ventenni e anche meno –volontari, credo– per la “nostra” causa: liberarci, insomma, dal giogo nazifascista. Chi non ricorda che a Ortona e dintorni, tra il 5 e il 28 dicembre 1943, si accese e deflagrò, tra l’8ª armata alleata e i tedeschi, una delle più aspre battaglie della Guerra Mondiale, combattuta casa per casa, come a Stalingrado? Ma San Vito Chietino –la letteratura ha i suoi diritti!– è anche luogo (vorremmo dire: rito) dannunziano per eccellenza: dove insomma il Vate pescarese consacrato a Roma fra nobildonne ed elegie mondane, ma sempre ritornante alla sua terra per coglierne suggestioni antiche, sublimità veridiche (su tutti un romanzo come Il trionfo della morte, col famoso capitolo del pellegrinaggio al Santuario di Casalbordino, ma anche Le novelle della Pescara, o il fortore teatrale e arcano de La figlia di Jorio o

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La fiaccola sotto il moggio). Eccola, la costa dei trabocchi, sovrastanti il mare ma arrampicati selvatici anch’essi alla costa selvatica: “una strana macchina da pesca, tutta composta di tavole e di travi, simile a un ragno colossale”, così il divino Gabriele dipinge un Trabocco… Lì, a San Vito Chietino, “nel paese delle ginestre”, l’Eremo munifico –e di fronte, balconata sul mare, un teatro costruito pochi anni fa per alcune efficaci messinscene dannunziane– e presto caduto in disuso, abbandonato –ricordo– alla vegetazione che era già diventata unica selvatica protagonista, come una Mila di Codra sensuale e selvaggia… D’Annunzio, certo. Ma non solo! Ecco che lì vicino, a Orsogna (Chieti) nacque uno dei più grandi scrittori del secondo ’900, quel Mario Pomilio (1921-1990) che, autore del Quinto Evangelio (1975), resta davvero uno dei pochi romanzieri “etici”, etico-religiosi, della nostra smottante contemporaneità. Ma torniamo a quella gran nave arenata e approdata sulla sponda di Cristo. San Giovanni in Venere – anche nei materiali, ripeto, retaggio e simbolo della vera fede. E nella continua, inesausta costruzione o restauro. La chiesa e il convento, infatti, risalgono all’VIII secolo ma furono ricostruiti e ampliati nei secoli XI e XII (nel 1015 ad opera di Trasmondo II, conte di Chieti; e

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successivamente in forme cistercensi). Rifulge, nella facciata della chiesa, lo splendido portale della Luna, con arco a ferro di cavallo e due pilastri laterali di marmo, scolpito con vivide scene del Vecchio e Nuovo Testamento. Poi, giù nella cripta, gli affreschi fra il ’200 e il ’300 col Cristo benedicente tra Santi e la Madonna in trono col Bambino. E nel vicino monastero, lo splendido chiostro con trifore. I monasteri, nella (post)modernità, ahinoi, sono perfino andati di moda. Intendiamo in àmbito letterario: Il nome della rosa di Umberto Eco, è un romanzo (con relativo film) fin troppo noto. Ma torniamo a una location autentica, veridica, commossa e commovente di fede o cultura non recitata. Dunque, San Giovanni in Venere. Che perfetta sintesi, storica e architettonica, di quei grandi, ma ancora oscuri secoli dell’uscita dal buio, dal lungo medioevo delle invasioni e dominazioni, lungo esilio tra fede e cultura – salvati entrambi dal monachesimo! Ora et labora… Ma qui la regola benedettina è innovata da culto e vestigia “cistercensi” (stile sorto oltralpe, in Borgogna). Una grande fascinazione sia intima che morale pervade il luogo, s’infibra e s’impetra nelle forme stesse del luogo sacro, come del resto era nei dettami della regola cistercense. Allora, ecco i nomi, le gesta: Trasmondo II, conte di Chieti; Oderisio I, abate, che temendo l’avanzata dei Normanni fece fortificare il monastero, e fondò il castrum di Rocca San Giovanni; Oderisio II, abate

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anch’egli (che fu cardinale, e resse il monastero per 49 anni, ingrandendolo e impreziosendolo!). E Berardo da Pagliara, poi vescovo di Teramo a furor di popolo, già dopo la sua morte (1122) proclamato Santo. Per non parlare dei ritrovamenti archeologici risalenti al 2007, in occasione della ricostruzione della piazza antistante l’abbazia: addirittura una necropoli italica del V secolo a.C. L’Arte e la Storia e il percorso della Fede annidano infatti in un tempo senza tempo che li comprende tutti, i secoli da cui veniamo, ogni anno un mattone come d’un’immensa abbazia, o fascione di nave – nave incagliata nel porto immenso dell’Anima Mundi. Dove appunto si mischiano contributi pagani e vestigia cristiane, l’Arcangelo Gabriele e due grifi, Zaccaria preannunciato della nascita di Giovanni ed un fregio romano con cupidi saettanti tra girali d’acanto. Intonava Francesco nel suo cantico creaturale: Laudato sii, mi Signore, per sora Luna e le Stelle:/ in cielo l’hai formate clarite e preziose e belle… E quella luna scolpita, invocata, suffragata e archetipica, chiede, chiederebbe parole ai poeti (l’Ungaretti di Sentimento del Tempo l’intonerebbe “magica”, “allusiva”: “Luna allusiva, vai turbando incauta / Nel bel sonno, la terra, / Che all’assente s’è volta con delirio / Sotto la tua carezza malinconica, / E piange, essendo madre” – l’assente è il Sole –cioè Dio– che però mai ci lascia, e anche la notte intiepidisce, rischiata almeno di Luna). Ma la Luna è anche e sempre vestigia mariana, il simbolo, si sa, della Madonna; poi c’è la luna alchemica evocata

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da Tommaso d’Aquino, ma troppo lontano ci porterebbero quelle sacre e magiche cabale filosofali “Dell’amalgama al bianco”: “cioè alla Luna, che è fermento di albedine”. Assai più bello ricordare –ecco il miglior memento del toponimo– che sotto l’Abbazia è ubicata la cosiddetta fonte di Venere, fontana romana dove secondo la tradizione paganeggiante (viva fino alla metà del ’900), le donne che desideravano concepire un figlio si recavano ad attingere l’acqua sgorgante. Ma oggi quella fonte versa in estremo degrado – e forse tutto questo va letto, insieme, come triste bilancio e nuovo auspicio dei nostri tempi sterili, aspri e malvagi, che avrebbero proprio bisogno, insieme, d’una Venere Conciliatrice e d’una Maria Vergine Benedicente. Il che, a far la media, ci porterebbe all’iconografia d’una bella madonna procace di Raffaello, trasfigurata e poetata dall’estro magari di un D’Annunzio/Giorgio Aurispa, in una sua eroina abruzzese, più bella se più semplice, e pura, appunto, come una madonnina contadina, una piccola venere d’acqua dolce spuntata dai balzi degradanti della Maiella; la “Favetta” appunto del Trionfo della morte: “Veniva infatti, ora sì ora no, un canto femminile dal poggio. Giorgio si mise all’erta, in cerca delle maggiaiuole”… Plinio Perilli

«Come vascello arenato lassù in collina –l’operosa collina dei monaci, degli uomini di Dio– resta e si staglia la sagoma di questo splendido monumento della Cristianità tardomedioevale, quando il monachesimo fece le sue prime prove di rinascita, in un periodo in cui anche l’architettura (oltreché la Fede) provava la sua renovatio, non più solo “romanica”, ma non ancora “gotica”»

In questa pagina il chiostro dell’abbazia. Nelle pagine seguenti: il portale anteriore, detto della Luna, con bassorilievi che raffigurano scene dal Vecchio Testamento (a sinistra), e il portale laterale (a destra).

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Bibliografia essenziale - L’abbazia del silenzio e della bellezza... di Armando Marciani. Lanciano, Editrice Quadrivio, 1959 - L’Abbazia di San Giovanni in Venere di Angelora Brunella Di Risio. Chieti, Cassa di risparmio della provincia di Chieti, 1987 - L’Abbazia di San Giovanni in Venere di Michela Trippetta. Pescara, Carsa, 2000

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- Castel S. Flaviano presso i romani Castrum Novum e di alcuni monumenti di arte negli Abruzzi e segnatamente nel Teramano: studi storici archeologici ed artistici di Vincenzo Bindi. Napoli, F. Mormile, 1882 - San Giovanni in Venere - eam aedificare fecit Martinus - ode di Berengario G. Amorosa, Cesare De Titta. Note storiche di L. Renzetti. Lanciano, Masciangelo, 1916

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Veduta aerea del complesso monastico realizzata con un drone dello studio Azurmuvi (ph. Enrico Di Nenno). Nelle pagine precedenti: uno dei corridoi coperti che circondano il chiostro; a fianco: l’interno dell’abbazia con l’altare maggiore. Nel retrocopertina: trifora con affaccio sul chiostro

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