ABRUZZO IN RIVISTA 90
Vario 90 €4,50
gennaio/febbraio 2017 SPEDIZIONE A.P. ART.1 COMMA 1353/03 AUT. N°12/87 25/11/87 PESCARA CMP
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VARIO COLLEZIONE
ABRUZZO IN RIVISTA 90
GENNAIO - FEBBRAIO 2017
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EDITORIALE
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VARIOIDEE Pierluigi Visci, Guido Alferj, Sandro Marinacci, Fabrizio Masciangioli
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AMBIENTE ANTROPOCENE SARÀ LEI
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NATURA LE TERRE DELLA LANA
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PERSONAGGIO QUADRI DI TANINO
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PERSONAGGIO SUMMA DI COLORI
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PERSONAGGIO OLTRE IL GIARDINO
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PERSONAGGIO PENSIERO NOMADE
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CULTURA POESIA CRONACA DI UNA MORTE SCONGIURATA
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UNIVERSIVARIO CHIETI-PESCARA
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UNIVERSIVARIO TERAMO
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UNIVERSIVARIO L’AQUILA
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ZOOPROFILATTICO TERAMO
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FIRA HUB PER LO SVILUPPO
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DE CECCO 130 ANNI SEMPRE AL DENTE
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TUA INTERMODALITÀ, LA NUOVA STRATEGIA
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OTTORINO LA ROCCA CULTURA & IMPRESA
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RIBALTA MUSICA
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RIBALTA LIBRI
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RIBALTA TEATRO
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RIBALTA MOSTRE
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RIBALTA FOTOGRAFIA
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LA RICETTA DI SANDRO VISCA
In copertina: faccia di gusci Foto Claudio Carella
DIRETTORE RESPONSABILE Claudio Carella HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO Guido Alferj, Andrea Carella, Alberto Castellano, Mario Cipollini, Enrico Crispolti, Anna Cutilli Di Silvestre, Federica D’Amato, Argentino D’Auro, Giorgio De Angelis, Francesco Di Salvatore, Donato Di Stasi, Luciano Di Tizio, Francesco Di Vincenzo, Fabrizio Gentile, Giuseppe La Spada, Sandro Marinacci, Francesco Marroni, Fabrizio Masciangioli, Pino Morelli, Vito Moretti, Paola Riccitelli, Marco Tabellione, Sandro Visca, Pierluigi Visci, Mauro Vitale, Roberta Zimei STAMPA, FOTOLITO E ALLESTIMENTO AGP - Arti Grafiche Picene Via della Bonifica, 26 Maltignano (AP) CLAUDIO CARELLA EDITORE Aut. Trib. di Pescara n.12/87 del 25/11/87 Rivista associata all’Unione Stampa Periodica Italiana REDAZIONE: Via Puccini, 85/2 Pescara Tel. 085 8428528 - redazione@vario.it
www.vario.it
Ermando DI QUINZIO Fotografo SAN GIUSTINO di CHIETI
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LA NUOVA LINEA DI OGGETTI UNICI REALIZZATI A MANO CON LEGNI PREGIATI E INSERTI IN METACRILATO FLUO, ARGENTO E PIETRE DURE IN VENDITA A PESCARA
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CLAUDIO CARELLA
BUON 2017
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i siamo fatti attendere e per questo vi chiediamo scusa. In questi mesi abbiamo lavorato a completare il restyling del progetto Vario per consentirgli una nuova e lunga vita. Avete già visto da alcuni numeri la nuova veste grafica, il nuovo formato, le novità editoriali (i due allegati dedicati alla fotografia e al patrimonio artistico), l’inserimento di nuove rubriche e le collaborazioni di prestigio, per migliorare tutto quello che Vario ha sempre offerto (cura dell’immagine, ricerca di tematiche non banali, professionalità e accuratezza: al meglio delle nostre capacità). Ma nonostante tutto il prodotto cartaceo (la parola è brutta ma chiara) oggi non può più bastare per comunicare e informare. Intendiamoci, il buon e “vecchio” giornale stampato su carta non lo rinneghiamo, anzi pensiamo che ancora per molto tempo abbia un suo ruolo fondamentale e complementare con le nuove forme di comunicazione e tutte quelle che velocemente verranno ancora, c’è da giurarci. Abbiamo così rinnovato il nostro sito web (www.vario.
it) inserendo alcune novità: un notiziario di costume a cadenza settimanale per seguire la società abruzzese che cresce. Una sezione video con interviste a personaggi, rappresentazione di eventi, presentazione di musicisti, attori, spettacoli e tanto altro. Uno spazio per le tante immagini pubblicate su Vario relative a personaggi, luoghi d’arte, natura. Ovviamente non poteva mancare un archivio completo, facilmente consultabile su tutto quello stampato nel corso di questi 29 anni: le riviste ma anche gli speciali, gli allegati che hanno rappresentato la nostra regione. E poi i social e altro, tutto “cucinato” con quello che potremmo definire (con un po’ di presunzione, forse) lo stile Vario. In questo numero ci siamo occupati delle novità editoriali del Centro, ora quotidiano dell’Abruzzo anche nella proprietà, delle eccellenze scientifiche presenti negli atenei regionali e in altri istituti, di personaggi del mondo delle arti figurative, della letteratura e dell’impresa. Insomma, come al solito, l’Abruzzo è bello perché è vario.
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TUA è l’azienda regionaledi diTrasporto Trasporto pubblico localelocale nata dalla TUA è l’azienda regionale pubblico nata dalla fusione di ARPA, Autolinee regionali pubbliche abruzzesi, FAS, fusione di ARPA, Autolinee FAS, ferrovie adriatiche Sangritanaregionali di Lanciano, epubbliche GTM, Gestioneabruzzesi, trasporti metropolitaniSangritana di Pescara. di Lanciano, e GTM, Gestione trasporti ferrovie adriatiche Oggi TUA è il sesto metropolitani di Pescara.vettore a livello nazionale: gestisce una flotta di 895 autobus, 16 treni a trazione elettrica per trasporto di persone, e 16 Oggi TUAlocomotive è il sestopervettore livello nazionale: gestiscetrentasei una flotta di trasportoamerci, percorrendo annualmente milioni16ditreni chilometri, con un organico di oltre addetti indigrado di 895 autobus, a trazione elettrica per1600 trasporto persone, e 16 offrire servizi sia in ambito urbano sia in quello extraurbano. locomotive per trasporto merci, percorrendo annualmente trentasei milioni di chilometri, con un organico di oltre 1600 addetti in grado di offrire servizi sia in ambito urbano sia in quello extraurbano.
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PIERLUIGI VISCI
QUANDO IL GIORNALE È LOCALE
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eggere un giornale significa appartenere a una famiglia, condividere riti, ripetere ogni giorno gesti istintivi, sapere dove cercare le cose, ridere, commuoversi, indignarsi, arrabbiarsi, ma soprattutto avere un compagno di strada” (Mario Calabresi, editoriale di saluto ai lettori de La Stampa, 31 dicembre 2015). “Spesso si ignora totalmente cosa significhi un giornale locale, l’influenza che esercita sul lettore, la fedeltà che si conquista giorno per giorno da anni e da decenni, la fiducia e il rispetto che è capace di riscuotere, le ansie che procura, il potere che possiede ed esprime” (Mauro Tedeschini, già direttore del Centro, intervista a Prima Comunicazione, 2014). “L’Abruzzo sembra uscito dal quadro desolante dei ritardi storici delle regioni meridionali. Abbiamo punte di grande eccellenza nei settori più disparati dell’economia e della società. Eppure restano sacche di arretratezza incomprensibili e inaccettabili in settori e gangli vitali della regione” (Primo Di Nicola, direttore de Il Centro, editoriale di saluto ai lettori, 2 novembre 2016). Cos’è un giornale, cos’è un giornale locale, quale realtà interpreta un giornale locale per il suo territorio secondo tre protagonisti del nostro giornalismo. Di conseguenza: quali valori sono in gioco quando si altera (o si rischia di alterare) l’equilibrio dell’informazione. Un rischio corso, di recente, con il cambio di proprietà del primo quotidiano abruzzese, ceduto dal Gruppo Espresso alla società “Il Centro spa”, appositamente costituita da quattro imprenditori locali. La soluzione, a cominciare da questa esibita abruzzesità, appare positivamente orientato a garantire il migliore degli equilibri: Il Centro è nelle mani di imprenditori della sua terra (due dei quali con esperienze nei campi dell’informazione), che hanno creato una compagine azionaria con quote paritarie, evitando l’azionista di riferimento. “Senza padrone”, insomma. Un messaggio inedito e interessante. Seguito da un atto coerente, oltre che di qualità: la scelta, altrettanto inedita, di un direttore (dopo undici estranei all’Abruzzo) di origini e passioni abruzzesi, Primo Di Nicola, marsicano di Castellafiume, cresciuto nella cultura, nella tradizione e nell’intransigenza di impostazione anglosassone del gruppo editoriale nel quale il giornale trent’anni fa è nato e per trent’anni ha messo radici profonde nel tessuto sociale, politico, economico e culturale della terra d’elezione. Le premesse per un cammino positivo ci sono tutte. Il mercato farà il resto. Un mercato arcigno, peraltro, sia per antiche tradizioni, sia per congiunture economiche e culturali, sia ancora per trasformazioni tecnologiche e di abitudini (specialmente dei più giovani, i cosiddetti “millennials”, la generazione digitale tra i 12 e i 34 anni) che riducono e mortificano spazi di lettura. Tanto da espellere, di fatto, i due quotidiani romani, Messaggero e Tempo, che per decenni, nel secondo dopoguerra, hanno dominato il panorama informativo abruzzese, con redazioni corpose e agguerrite in tutti e quattro i capoluoghi, corrispondenze importanti nelle località più significative (Sulmona, Avezzano, Lanciano, Vasto) e antenne nei centri più sperduti. Oggi, Il Messaggero sforna una edizione regionale nella quale sono accorpate tutte le cronache locali, mentre il Tempo le ha chiuse completamente. Resiste, invece, un giovane, coraggioso, ancora gracile quotidiano di carta: La Città a Teramo. Poi il nulla. Una criticità che consegna al Centro ancora maggiori responsabilità per la tenuta della qualità e delle prospettive di un mezzo antico, ma ancora il più prestigioso, direi aristocratico, dell’informazione giornalistica.
Quel mezzo che ha lanciato nel panorama dell’informazione nazionale una fitta schiera di grandi firme e direttori. Quel giornale - secondo il celebre e anche abusato aforisma di Friedrich Hegel - che è “la preghiera del mattino dell’uomo moderno”. Il disimpegno dei due quotidiani romani - per Il Tempo probabilmente il taglio dei costi è un fatto di sopravvivenza, ma Il Messaggero è pur sempre il cuore di un grande gruppo editoriale costituito da cinque quotidiani e con un azionista di riferimento (un “padrone” nel senso pieno del termine) e di sostanza come Caltagirone - unitamente all’uscita di scena del Gruppo Espresso, sollecitano qualche sospetto. Perchè, c’è da chiedersi, tra i 14 quotidiani locali della catena Finegil, siano stati sacrificati sull’altare dell’antitrust proprio i due più meridionali, Il Centro d’Abruzzo e La Città di Salerno? Non conta che il quotidiano pescarese, con le sue oltre 15 mila copie giornaliere e un più 4,4 per cento di vendite tra 2015 e 2016, sia al quinto posto per diffusione (dopo Il Tirreno di Livorno, il Messaggero Veneto di Udine, Il Piccolo di Trieste e Il Mattino di Padova) e prima di Corriere delle Alpi (Belluno), Gazzette di Modena e Reggio, Nuova (Venezia-Mestre), Nuova di Ferrara, Provincia Pavese e Tribuna di Treviso, tra i giornali Finegil? Mi torna alla memoria l’uscita di scena a Pescara, nel 1974, de il Resto del Carlino di Bologna, culla professionale di chi scrive, dopo una appassionante avventura durata cinque anni. Casualmente il periodo coperto dai finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno. Al di là dei sospetti è un dato incontrovertibile che a fronte di una grande “fame” di informazione e soprattutto di desiderio di comunicare (il boom dei post sui social: la gente comunica e si informa su FB), negli ultimi cinque anni è letteralmente crollato il sistema editoriale tradizionale, con progressiva e costante riduzione dei ricavi dei mezzi classici (stampa, ma anche radio e tv). La media è del meno 16%, con punte del meno 30% (quotidiani). E’ il settore nel quale si deve investire. Secondo il presidente dell’Agcom (autorità per le comunicazioni), Angelo Marcello Cardiani, le nuove modalità di consumo e lo sviluppo della digitalizzazione potranno far crescere il Pil europeo del 4% (520 miliardi) in cinque anni. Gli abruzzesi hanno colto appieno questa tendenza e si avviano con soddisfazione a trasformarsi da “lettore individuo” a “lettore comunità”, sempre più “cives.net” (lettori di quotidiani on line e consumatori di politica tramite internet), sempre meno “cives offline” (che non utilizza internet), in transito dalla casella “internauti” (usano internet, ma non il quotidiano on line) a quella “infonauti” (lettori di giornali on line, ma non discutono di politica in internet). Il mercato coglie questi orientamenti. E così crescono le testate on line. L’Abruzzo conta 22 siti quotidiani a rilevanza regionale, 19 a rilevanza locale e 19 periodici. In termini territoriali, L’Aquila ne conta 19, Teramo 18, Chieti 17 e Pescara 15. C’è anche convenienza economica: un articolo per la carta costa otto volte di più di un articolo per il digitale. E con una informazione con “flusso pervasivo e continuo” il messaggio (anche pubblicitario) si velocizza e si amplifica. Senza dimenticare che, carta o digitale, tradizione o innovazione, il valore vincente dell’informazione è nei fondamentali della professione giornalistica e, dunque, nella qualità, onestà, competenza dell’informazione che viene fornita ai cittadini-lettori. Guardiamo al futuro, che è già qui, peraltro, con entusiasmo, senza paura. Non vuole dire cancellare quello che c’è, vuol dire trasformarlo, interpretarlo, migliorarlo. E sempre, buona lettura.
Giornalista, si è occupato di cronaca giudiziaria (la P2, Tangentopoli, la camorra di Raffaele Cutolo, il maxiprocesso a Cosa Nostra istruito da Falcone e Borsellino) e di politica guidando la redazione romana di Il Resto del Carlino, La Nazione, Il Giorno. E’ stato direttore responsabile di Quotidiano Nazionale, Il Resto del Carlino e ilrestodelcarlino.net. Scrive sul periodico di politica e cultura liberaldemocratica Libro Aperto e segue la società di comunicazione ed editoria Musica e Parole, che ha fondato col figlio Lorenzo nel 2012
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GUIDO ALFERJ
QUATTRO MEGLIO DI UNO
E
ditori abruzzesi per un quotidiano tutto abruzzese, perché no? La vicenda del cambio di proprietà del Centro alimenta interrogativi e già qualche polemica e sembra riprodurre a livello regionale quanto è già avvenuto in passato in importanti giornali nazionali. Col cambio di proprietà cambierà anche la linea politica ed editoriale? Con l’avvento dei nuovi editori avremo un restringimento dell’autonomia dei giornalisti? O addirittura la testata sarà messa al servizio degli interessi dei suoi nuovi padroni? I profeti di sventura ci sono sempre e il loro numero aumenta quanto più il clima politico si fa incandescente. E questo in Italia non è certo un momento tranquillo per poter ragionare con lucidità e con ragionevolezza. Il passaggio del Centro dal Gruppo Espresso ai quattro imprenditori abruzzesi ha provocato le stesse reazioni e suscitato le stesse preoccupazioni che, per esempio si erano avute, recentemente con l’arrivo di Urbano Cairo alla guida di Rcs e quindi del Corriere della sera e, anni fa, con l’irruzione dell’imprenditore romano Gaetano Caltagirone nella proprietà del Messaggero (e successivamente del Mattino, del Gazzettino e di altri giornali locali). Però, mentre Cairo può considerarsi (fra i pochissimi in Italia) un editore “puro” e interessato quindi solo a vendere più copie della vecchia e prestigiosa testata milanese, il paragone tra quanto è accaduto al Messaggero e quello accaduto al Centro poteva apparire più calzante, più appropriato. Non c’è dubbio che l’imprenditore romano abbia cercato una sinergia tra i suoi interessi di costruttore e quelli di editore, magari poi appassionandosi a questa sua seconda attività tanto da allargarla all’acquisizione di altre testate. E i quattro imprenditori abruzzesi che hanno rilevato Il Centro sono più vicini al “modello Cairo” o a quello rappresentato dall’imprenditore romano? Non c’è dubbio, editori non si nasce e in particolare in Abruzzo non c’è mai stato qualcuno tanto innamorato di giornali da impiegare i propri capitali e la propria passione in avventure editoriali. E, almeno fino al 1986, la regione è stata terra di conquista per gli editori romani e per i loro quotidiani – Il Messaggero e Il Tempo – che hanno per lungo tempo monopolizzato il mercato locale. Alcuni tentativi di dare vita ad altre iniziative non avevano mai avuto successo, basti ricordare la breve vita de Il Mezzogiorno, quotidiano spacciato per abruzzese ma anche quello messo in piedi da imprenditori romani. Storia diversa per il Resto del Carlino che, nel 1968, aprì una sua redazione a Pescara, una redazione che doveva essere una specie di “testa di ponte” per la conquista dell’Abruzzo. Ma sei anni dopo l’editore del quotidiano bolognese, il petroliere Attilio Monti, decise di fare marcia indietro, chiuse l’edizione pescarese e rientrò nei suoi territori (Emilia Romagna, Veneto e Marche). Ma quell’esperienza abruzzese lasciò il segno: i giovani giornalisti che aveva arruolato Paolo Valentini, il responsabile della redazione pescarese, ragazzi alla prima esperienza professionale, riuscirono tutti a farsi strada. E che strada: Pierluigi Visci è stato direttore del Carlino dal 2008
al 2011; Giancarlo Minicucci vicedirettore del Messaggero e direttore del Quotidiano di Lecce; Pino Buongiorno vicedirettore di Panorama. Carriere prestigiose a conferma della bontà della “scuola” pescarese del Carlino ma anche delle raggiunte qualità professionali del giornalismo abruzzese. Nel 1986 ecco l’arrivo del Centro nelle edicole: un quotidiano finalmente locale, prodotto e stampato interamente in Abruzzo ma con editore romano. Il Centro infatti è l’ennesima testata locale della Finegil, gruppo Espresso, che in pochi mesi conquistò il mercato abruzzese scavalcando agevolmente in diffusione le due testate romane che, fino ad allora, erano state sempre in testa nelle vendite. Il passaggio del Centro dal gruppo romano ai quattro imprenditori abruzzesi è stato, almeno finora, fortunatamente indolore. C’è stata qualche protesta da parte del sindacato dei giornalisti e dei poligrafici, tutti giustamente preoccupati per una cessione della testata, assolutamente imprevista fino a pochi mesi prima. I timori riguardavano anche la probabile “regia” dell’intera operazione da parte del presidente della Regione Abruzzo, Luciano D’Alfonso e di un imprenditore a lui molto vicino. Ipotesi alla fine rivelatesi fortunatamente infondate. Il giornale ora è nelle mani di quattro “editori” abruzzesi: due costruttori aquilani, Alberto Leonardis e Luigi Palmerini, Cristiano Artoni, ex presidente di una banca teramana e titolare di un’agenzia di diffusione dei giornali e Luigi Pierangeli, proprietario dell’omonima clinica pescarese. Quest’ultimo già da tempo si è fatto un’esperienza nel mondo dell’informazione, guidando un’emittente televisiva fra le più diffuse in Abruzzo, Rete 8. Per loro si prospetta sicuramente un lavoro pesante: raccogliere l’eredità di un editore esperto e generoso come il Gruppo Espresso non sarà facile. Ma assolutamente non impossibile. La situazione attuale dei quotidiani non è delle migliori: la flessione delle vendite (in Italia come nel resto del mondo) si accentua di anno in anno e non incoraggia certo nuove iniziative. Però il primo atto dei nuovi editori del Centro sa di ottimismo e alimenta attese positive: scegliere alla guida del giornale un nome prestigioso quale quello di Primo Di Nicola è sicuramente un buon segnale sia verso i trentuno giornalisti preoccupati dalle tante voci circolate negli ultimi mesi sia nei confronti dell’opinione pubblica abruzzese. I nuovi editori, per la scelta del direttore, hanno optato per una figura professionale di alto livello e di altissima professionalità (Di Nicola, origini abruzzesi, giornalista d’inchiesta, è autore di numerosi reportage sul settimanale l’Espresso che hanno scoperchiato più di uno scandalo nei “palazzi del potere”) che garantisce anche piena autonomia rispetto alla proprietà. Editori non si nasce, dicevamo. Quello che attende i quattro imprenditori abruzzesi è un mestiere difficile, impegnativo, che si apprende esercitandolo con correttezza e rispetto per tutte le componenti del mondo dell’informazione. E che può aiutare a crescere l’intera comunità abruzzese.
Giornalista de “Il Messaggero” prima come responsabile della la redazione abruzzese, poi inviato speciale di esteri fino al 2007 , ha seguito i principali avvenimenti internazionali dalla caduta del Muro di Berlino alle guerre nella ex Jugoslavia, dagli scontri etnici in Mozambico e Somalia alle numerose crisi medio-orientali dalla seconda Intifada palestinese alla guerra in Iraq e Afghanistan. Ha poi insegnato giornalismo nelle università romane di Tor Vergata e della Lumsa.
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SANDRO MARINACCI
IL CENTRO QUOTIDIANO DEGLI ABRUZZESI
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unedì 31 ottobre 2016, a trent’anni dal principio fine della corsa per “il Centro - quotidiano dell’Abruzzo” targato Gruppo Espresso, una delle più importanti imprese editoriali che pubblica il quotidiano “la Repubblica”, il settimanale “l’Espresso” e una rete di giornali locali che nel loro insieme - una diffusione di 400 mila copie e passa al giorno - configurano il quotidiano più accettato in Italia. Martedì 1° novembre l’inizio di un’altra corsa: “il Centro” è passato sotto il controllo di una società editrice nuova di zecca che fa capo ad una cordata di quattro imprenditori abruzzesi: Luigi Pierangeli (cliniche private, patròn della tv Rete8), Cristiano Artoni (ex presidente della Banca di Teramo, impresario nella distribuzione editoriale), Alberto Leonardis (manager) e Luigi Palmerini (costruttore edile). La vendita del “Centro” è la conseguenza dell’acquisto da parte dell’Espresso dei quotidiani “La Stampa” e “Il Secolo XIX” che obbliga il Gruppo a rispettare i limiti di tiratura previsti dalle norme antitrust. L’avventura del “Centro”, nato il 3 luglio 1986, è la storia di un giornale unico, soprattutto nella prima fase. Grandi direttori come Ugo Zatterin, Carlo Pucciarelli il fondatore, Pier Vittorio Buffa. Giovani cronisti, scrittori e collaboratori, firme di fama nazionale perché nazionale era ed è stato il legame con il Gruppo Espresso, un rapporto sinergico, un ponte che ha consentito ad un quotidiano regionale come “il Centro” di arricchire le sue pagine e di espandere i suoi interessi attingendo ad un patrimonio di competenze e professionalità di alto livello in tutti i settori della vita sociale, culturale e produttiva del Paese, compresa quella dell’informazione. “Il Centro” però ha aperto le porte soprattutto a scrittori, economisti, e letterati abruzzesi. Nella redazione iniziale figuravano giornalisti provenienti da altre testate del Gruppo, stimolati dalla sfida di dar vita ad un nuovo quotidiano. Meno di un mese dopo entrammo cinque abruzzesi, i primi, fino a che giornalisti, fotografi, poligrafici e amministrativi tutti abruzzesi riempirono le redazioni; per dire del punto di svolta che nel suo piccolo quel quotidiano ha segnato anche sul terreno della formazione e della creazione di posti di lavoro. Una sfida. E’ stata una sfida quel che “il Centro” ha rappresentato, fin dall’esordio: guadagnare la fiducia e la stima dei lettori non è stato un gioco, farsi spazio tra una concorrenza ben radicata nella regione esigeva impegni superiori nel raccontare l’attualità, nella ricerca delle notizie e nell’approfondimento dei fatti. Si potrebbe continuare
elencando gli “scoop” e la realizzazione di inchieste di prim’ordine che hanno fatto del “Centro” il giornale più apprezzato dagli abruzzesi. Per chi questa sfida l’ha vissuta dalle origini è stata una straordinaria storia di giornalismo, concepita dalle idee di Carlo Caracciolo come editore e dai capisaldi informativi e culturali di Mario Lenzi, una simbiosi di amicizia e di fiducia tra un giornalista e il suo editore, Un’esperienza professionale ispirata da una visione etica del giornalismo, una missione. Lenzi, ricordo, già combattente nella Resistenza toscana, è il giornalista che ha inventato i giornali locali dell’Espresso che hanno impresso una spinta decisiva alla stampa provinciale e regionale. Fu sempre lui a ideare le “sinergie” con la creazione di un’agenzia centrale nazionale (Agl) e lo scambio di servizi e pagine tra i quotidiani; fu lui che diede impulso allo sviluppo delle nuove tecnologie rivoluzionando il modo di produzione dei giornali: i cronisti del “Centro” appena nato usavano il computer, la redazione era ammirata e invidiata dalla concorrenza dove si battevano i pezzi ancora con la macchina da scrivere. Per capire la filosofia che sta alle radici del “Centro” sono illuminanti le parole che Lenzi pronunciò in occasione del primo incontro con i giornalisti: “I nostri padroni sono tutti coloro che ogni giorno ci comprano e ci leggono”. In questo spirito è cresciuta una generazione di giornalisti abruzzesi. Il progresso tecnologico ha fatto passi da gigante, viviamo nell’era dei “social network”, la velocità e l’abbondanza delle informazioni online stanno modificando abitudini e costumi, ma la carta stampata resta la fonte di conoscenza più potente, approfondita e ragionata a disposizione dei cittadini e al tempo stesso uno spazio di confronto e di discussione. Quando ovviamente riesce convincente dimostrando autonomia, credibilità, competenza. C’è dunque attesa e curiosità sul passaggio di mano del “Centro”che va in edicola con un diverso assetto proprietario, e non potrebbe essere altrimenti. Il futuro di quel giornale non riguarda soltanto la parte più immediatamente interessata, i giornalisti e i poligrafici che ci lavorano, ma riguarda la vita culturale e civile dell’intera società regionale, già pesantemente impoverita dalla scomparsa e dal ridimensionamento di testate storiche quali “Il Tempo” e “Il Messaggero” Se chiude un giornale chiude un’idea ha detto qualcuno, e se un giornale cambia padrone? Può essere che non cambi nulla, può essere invece che nulla sarà come prima.
Giornalista, si è occupato di politica e cultura. Corrispondente de L’Unità e collaboratore de Il Messaggero, ha lavorato al Centro fin dall’esordio, giornale fondato in Abruzzo dal Gruppo editoriale Espresso-Repubblica dove ha ricoperto incarichi di responsabilità nelle redazioni di L’Aquila, Chieti e Pescara. Al termine della carriera professionale ha accettato l’invito della direzione editoriale a mantenere un rapporto di collaborazione con il giornale che ha contribuito a fondare. Collaborazione che ha scelto di interrompere quando “il Centro” è passato di mano.
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[VARIOIDEE ]
FABRIZIO MASCIANGIOLI
AL CENTRO SI CAMBIA
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el suo editoriale di presentazione ai lettori Primo Di Nicola, approdato a novembre alla guida del quotidiano Il Centro, ha voluto mettere in chiaro che il suo giornale non farà sconti a nessuno. Un’affermazione di autonomia coerente con la sua storia professionale e assai opportuna alla luce di dubbi e timori evocati al momento del passaggio di proprietà della testata abruzzese da un editore nazionale autorevole come il Gruppo L’Espresso ad una cordata imprenditoriale locale capitanata da Luigi Pierangeli, uno dei big della sanità privata nella nostra regione. Senza volersi addentrare nelle problematiche normative del mercato editoriale e nelle strategie complessive dei “padroni” della stampa, resta il fatto che il passaggio, anticipato dai soliti rumors ma sempre ufficialmente smentito, si è realizzato in tempi rapidi e soprattutto senza alcun coinvolgimento del corpo redazionale. Un cambio di mano, insomma, che lascia spazio a legittimi interrogativi sulla solidità del nuovo assetto proprietario e sulle prospettive della testata. Interrogativi motivati anche da uno scenario nazionale per nulla tranquillizzante, se solo si pensa che a sud di Roma resistono soltanto otto quotidiani che fanno riferimento a grandi editori mentre al nord sono più del triplo. L’Abruzzo, poi, da alcuni anni conosce una contrazione dell’offerta informativa e una progressiva smobilitazione dal territorio. Nel novembre 2014 è stato celebrato il funerale di una testata storica come Il Tempo mentre Il Messaggero ha progressivamente chiuso le redazioni provinciali concentrando tutta l’attività a Pescara. Le televisioni private, complice la flessione della pubblicità, non godono ottima salute e la vivacità del giornalismo on line non sembra in grado di realizzare un riequilibrio informativo. Solo il servizio pubblico della Rai mantiene il suo ruolo importante
realizzando anche qualche novità di prodotto e ampliando la sua redazione. Nel complesso si delinea un contesto preoccupante che condiziona la qualità delle notizie e provoca disoccupazione o estrema precarietà dei giovani giornalisti, costretti a vivere la loro condizione professionale con poche garanzie per il futuro. Date tali premesse, si comprende meglio perché il passaggio di proprietà del Centro si sia caricato di particolari significati, non ultimo quello che fa riferimento al peso specifico di Luigi Pierangeli negli equilibri editoriali della regione. L’imprenditore della sanità è, infatti, proprietario anche di Rete8, una delle maggiori emittenti private abruzzesi, e così la sommatoria di carta stampata e televisione può trasformarsi in una posizione preminente che penalizza il pluralismo delle voci. Inoltre, considerando quanto già accaduto a livello nazionale, è lecito riflettere su un ulteriore aspetto, quello delle possibili sinergie produttive. Nel senso che un editore, avendo a disposizione contemporaneamente un giornale, una testata web ( come nel caso del Centro online) e una televisione, potrebbe puntare a farle interagire attraverso una riorganizzazione “intensiva” del lavoro delle diverse redazioni. Tale sinergia, se realizzata soltanto nell’ottica della riduzione dei costi, non porterebbe ad un arricchimento del prodotto informativo ma, al contrario, ad una sua omologazione con la crescente difficoltà dei redattori di scavare nelle notizie a causa dell’accresciuto carico di lavoro. Insomma, pur senza abbandonarsi ad un eccessivo allarmismo, si può dire che l’informazione in Abruzzo vive una fase molto difficile per i giornalisti, chiamati a raccontare la realtà in condizioni sempre più complesse, ma allo stesso tempo anche per ogni cittadino che rischia di essere investito da un flusso tumultuoso di notizie dentro il quale sfuggono significati e motivazioni.
Gornalista del TgrAbruzzo è stato per molti anni consigliere della Federazione nazionale della stampa italiana (FNSI ). Ha diretto il Master di giornalismo dell’Università di Teramo e nello stesso ateneo ha insegnato Comunicazione Politica e Storia del Linguaggio Politico.
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AMBIENTE
di LUCIANO DI TIZIO
ANTROPOCENE SARÀ LEI Il termine, ancora poco conosciuto, indica l’era geologica che stiamo vivendo. Speriamo (e operiamo) di evitare la fine toccata ai mastodontici abitanti del Giurassico
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e quello che credevate essere il vostro migliore amico vi apostrofa con un poco lusinghiero “tu vivi nell’Antropocene”, non affrettatevi a consultare un avvocato per verificare se ci sono gli estremi per una querela. Potrebbe avere infatti perfettamente ragione, anche se la questione è ancora tutta da chiarire e se ci vorrà forse qualche anno ancora per definirla a livello mondiale. Andiamo con ordine, a cominciare da questa strana parola. L’ha inventata nei primi anni ‘80 del secolo scorso un biologo statunitense, Eugene F. Stoermer che ha utilizzato questo termine, più esattamente anthropocene con la grafia anglosassone, per evidenziare l’impatto dell’uomo sul pianeta Terra. Per una ventina d’anni ne hanno parlato studiosi ed esperti, ma nessun’altro. Sino a quando un altro scienziato, il Premio Nobel per la chimica Paul Crutzen, lo ha adottato per intitolare un suo fortunato libro, “Benvenuti nell’Antropocene”, edito nel 2000. Una parola inventata per sintetizzare un concetto complesso e un buon successo editoriale rappresentano certamente importanti premesse, ma la scienza chiede di più: quanto meno da Galileo in poi (ma in realtà anche prima, quantomeno tra le menti più illuminate) procede verificando ogni ipotesi e misurandola con il rigoroso metro dell’esperimento. La comunità dei geologi, quelli tra gli studiosi che si occupano di misurare le ere della storia della terra, ha deciso di approfondire la questione e nel 2009 ha istituito un gruppo di lavoro sull’antropocene, chiamato appunto a valutare la fondatezza della ipotesi nata da Stoermer e Crutzen e nel frattempo fatta propria da decine di esperti: è lecito pensare che l’uomo intervenga così tanto pesantemente sul mondo nel quale vive da meritarsi che 12
gli venga intitolata una nuova era geologica o quantomeno un periodo? Qui urge una parentesi, per i non addetti ai lavori e per tutti quelli che hanno qualche difficoltà nel tenere a mente le nozioni faticosamente incamerate nelle aule scolastiche: la storia della terra la dividiamo in ere e ciascuna era viene a sua volta suddivisa in vari periodi. Ricordate? Il lunghissimo Precambriano da 4600 a 570 milioni di anni fa è suddiviso in tre periodi: Adeano, Archeano e Proterozoico. Poi c’è il Paleozoico (570 - 251 milioni di anni or sono) con Cambriano, momento della prima grande esplosione della vita sulla terra con una incredibile moltiplicazione delle specie viventi, Ordoviciano, Siluriano, Devoniano, Carbonifero e Permiano. Quindi il Mesozoico: 251-65,5 milioni di anni or sono, in termini geologici più o meno l’altro ieri. Qui i nomi dei periodi cominciano ad esserci meglio noti, merito anche di qualche libro e film di successo: Triassico, Giurassico e Cretaceo, teatro, quest’ultimo, della quinta e più famosa estinzione di massa, quella che ha cancellato dal pianeta i dinosauri. Infine il Cenozoico (Paleogene, Neogene, Pleistocene e Olocene sono i suoi periodi) che abbraccia gli ultimi 65,5 milioni di anni sino ad oggi. Oppure sino a ieri se l’Antropocene entrerà ufficialmente nel conteggio. Lo stato dell’arte al momento è questo: il gruppo di lavoro di cui si diceva ha approfondito l’argomento a lungo, stiamo parlando d’altronde di studiosi che gli anni abitualmente li contano a milioni, e infine, nel più recente congresso geologico internazionale, l’estate scorsa a Città del Capo, ha presentato le sue valutazioni. Nella relazione, resa pubblica il 29 agosto 2016 (segnatevi la data: potrebbe diventare storica), gli esperti del gruppo di
lavoro hanno concluso che stiamo davvero vivendo in una nuova era geologica, un’epoca nella quale gli esseri umani stanno rimodellando la Terra. È stata anche stabilita una data di inizio, per la nuova era, insolitamente precisa: l’Antropocene avrebbe avuto inizio intorno al 1950, appena 65 anni or sono. Capirete che per gente abituata a ragionare su tempi che alla gran parte di noi riesce difficile persino immaginare cotanta precisione fa storcere il muso. La comunità dei geologi non è unanime di fronte all’idea di accettare la clamorosa novità. La maggioranza tuttavia è d’accordo e i consensi crescono costantemente. Del resto le prove non mancano e sono pesanti, scritte addirittura nelle rocce. Dagli anni cinquanta del secolo scorso, infatti, i radionuclidi, elementi radioattivi provenienti da centinaia di test atomici svolti nell’atmosfera, sono rinvenibili nei sedimenti praticamente in ogni angolo del pianeta. Abbiamo inoltre disseminato ovunque frammenti di plastica, particelle di alluminio e di cemento e le minuscole palline di carbone non bruciato che escono dalle nostre centrali elettriche. Tutto materiale che inevitabilmente finisce nei fanghi destinati un giorno a consolidarsi in roccia. Solo questo? No di certo. Stiamo anche condizionando il clima, attraverso il riscaldamento globale favorito dall’emissione di gas serra. Come effetto collaterale stiamo sciogliendo i ghiacci e innalzando il livello del mare mentre noi stessi e i nostri animali addomesticati rappresentiamo oltre il 90 per cento di tutti gli animali terrestri di grossa taglia (per intenderci: consideriamo tali quelli più grandi di un pollo) presenti sul pianeta e le nostre coltivazioni hanno sostituito le piante selvatiche su gran parte delle terre fertili del globo. Basta e avanza per affermare che abbiamo già lasciato
una traccia indelebile della nostra esistenza nelle rocce. Antropocene sia, dunque. Sperando non sia l’ultimo gradino della scala che noi stessi abbiamo inventato: nella storia della terra ci sono state sinora almeno cinque estinzioni di massa, che hanno portato alla scomparsa di percentuali impressionanti di specie, tra il 96% e il 75% di quelle in ciascuna epoca esistenti. La più recente, quella del Cretaceo, favorita tra l’altro dalla caduta di un immenso meteorite, ha eliminato, secondo le stime della scienza, circa il 76% degli animali viventi, spianando la strada al successo dei mammiferi, che ci vede protagonisti assoluti. Oggi si parla di sesta estinzione di massa, appena dietro l’angolo nel futuro prossimo del pianeta. Si dice, prove alla mano, che la stiamo favorendo con i nostri comportamenti incoerenti e che potremmo auto-distruggerci. C’è chi non ci crede ma le prove sono davanti agli occhi di tutti. Basta non lasciarsi condizionare dal ritmo travolgente dei film catastrofistici in cui il disastro è condensato nelle due ore della proiezione, compreso l’intervento risolutivo dell’eroe che ci salva. Nella realtà dei fatti anche se l’estinzione nei tempi geologici richiede appena un battito di ciglia, per noi si tratta di secoli e millenni. La sesta catastrofe verso la quale ci stiamo avviando potrebbe già essere in corso: dall’inizio della storia, più o meno dal 3000 a.C., si sono estinte – molto spesso per colpa nostra – oltre 120 specie di mammiferi e 140 di uccelli e una infinità di altre. Stime quasi certamente errate per difetto. L’uomo è una creatura intelligente. Può creare le premesse per la propria distruzione, ma può fare anche il contrario e agire per tutelare il mondo e quindi anche se stesso. Siamo entrati nell’Antropocene: prendiamone pure atto ma diamoci da fare per cercare di restarci a lungo… 13
NATURA
LE TERRE DELLA LANA Reportage di Mauro Vitale
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Le vie delle transumanze tra Iran e Italia, negli appunti di viaggio di Mauro Vitale e Paola Riccitelli
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e in Italia la transumanza è praticamente conclusa, in Iran l’attività della pastorizia è ancora oggi autenticamente nomade e ha una valenza economica importante per il paese. Da questa considerazione è partito il “viaggio” di Mauro Vitale e Paola Riccitelli per arrivare alla mostra e al catalogo “Popoli e terre della lana.Tradizioni,culture e sguardi sulle vie delle transumanze tra Iran e Italia”. Progetto culturale voluto dalla Soprintendenza Archeologia dell’Abruzzo in collaborazione con l’Associazione Abruzzo Avventure e realizzata con il contributo dell’Istituto Culturale dell’Ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iran nell’ambito del protocollo di collaborazione culturale tra i Ministeri della cultura italiano e di quello iraniano a guida islamica sottoscritto nel marzo 2015. E’ un parallelo tra le culture transumanti di Iran e Italia attraverso 50 foto riprese tra il nord e il sud del paese islamico, dalla regione dell’Azerbaijan fino al Golfo persico, e nelle regioni Abruzzo, Molise e Puglia, lungo i principali tratturi L’AquilaFoggia Celano-Foggia e Centurelle-Montesecco. Oggetti d’uso quotidiano, strumenti di lavoro e tappeti persiani
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per illustrare l’attività delle tribù nomadi dei Qashqai e dei Talysh. I primi rappresentano una tra le più grandi stirpi nomadi dell’Iran con 3 milioni di persone che migrano per 2 o 3 mesi percorrendo tra i 10 e 20 chilometri al giorno con cammelli, asini e muli. A dimostrazione che la transumanza in Iran rappresenta ancora un’economia reale e legata alle tradizioni delle popolazioni nomadi. I tratturi dell’Abruzzo, Molise e Puglia, seppure salvaguardati dalle norme di tutela del Ministero dei beni e delle attività culturali fin dagli anni ’80 sono in parte rintracciabili nelle aree meno antropizzate delle tre regioni. Tracce e simboli della cultura transumante che hanno caratterizzato l’economia e le tradizioni di questi territori. “C’è qualcosa che indice a reagire in modo obbligato a fattori tutto sommato uguali che agiscono sulle montagne abruzzesi e molisane, nelle aride pianure della Puglia, sulle alture dei monti Zagros e nelle aspre terre del Fars in Iran”, scrive Mauro Vitale nel catalogo della mostra ospitata all’Aurum di Pescara e che proseguirà con tappe in Abruzzo e in altre città italiane. Giuseppe La Spada
POPOLI E TERRE DELLA LANA
Tradizioni culture e sguardi sulle vie delle transumanze tra Iran e Italia Reportage fotografico di Mauro Vitale a cura di Paolo Riccitelli e Marina Pietrangeli Exòrma edizioni 2016 - Euro 27
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uesto volume fotografico ed etnoantropologico è il risultato dei viaggi e dele ricerche di un gruppo di appassinati e studiosi italiani e iraniani: autentiche immersioni tra le comunità pastorali nomadi nel nord e nel sud dell’Iran alla scoperta di una cultura ancora vitale e dentro la tradizione transumante dell’Italia meridionale. Le fotografie e i testi svelano quanto concreto e tangibile sia il legame tra due realtà per tanti aspetti lontane, accumunate però dalla ciclica migrazione delle greggi sulle “vie della lana”: i tratturi dall’Abruzzo alla Puglia e le “vie delle tribù” in Iran, inardinata da sempre sui ritmi delle stagioni. 17
QUADRI DI TANINO 19
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arigi non è bella come Quadri ma io non cerco una fetta del mio paese nella capitale europea, se no sarei rimasto in Val di Sangro. E giù una bella risata sincera e divertita. Qui vengo ogni estate per un paio di mesi e ai miei amici e colleghi che mi chiedono: “Putain tu fais a Quadri?” rispondo: non lo so cosa cazzo faccio tutto il giorno, vado al bar a prendere un caffè e sto lì per ore a parlare con i miei amici ma anche con i vecchietti». Gaetano Liberatore, per tutti Tanino, è uno dei più importanti, conosciuti e riconosciuti disegnatori e illustratori. Suoi i fumetti di personaggi come Ranxerox e Lucy, collaboratore di “mitiche” riviste come Cannibale, Frigidaire e Il Male, sua la copertina del disco di Frank Zappa The man from utopia, e di tanti libri come La sposa giovane di Alessandro Baricco. Autore di libri con sue illustrazioni: Le donne di Liberatore, Nei sogni, storia su Batman e poi manifesti cinematografici, nel 2003 ha vinto il prestigioso premio César per i costumi del film Asterix missione Cleopatra, interpretato da Gerard Depardieu e Monica Bellucci. «A Quadri ho un mio studio e quando sono in vacanza lavoro per terminare tavole già iniziate o ideare nuovi progetti, ma penso che un giorno concepirò e realizzerò qui un’opera compiuta: la concentrazione e la tranquillità non mancano. Dall’82 lavoro e vivo a Parigi ma dal mio paese sono andato via molto prima: avevo 11 anni quando mi trasferii a Pescara per frequentare il liceo artistico, all’epoca uno dei più prestigiosi in Italia grazie al suo direttore Misticoni e a insegnanti come Sandro Visca, Ettore Spalletti, Albano Paolinelli e altri. Miei compagni di scuola erano Andrea Pazienza e Giuseppe Fiducia e questo la dice lunga su quanto quella esperienza sia stata bella e determinante per la nostra affermazione professionale. Per i miei ultimi lavori ho ripreso una tecnica che avevo appreso prorio in quegli anni di scuola: i carboncini e i gessetti che non avevo più usato e che invece mi hanno fatto risentire le stesse giovanili sensazioni. Mi considero fortunato per avere conosciuto e avuto tutti amici eccezionali (non solo i famosi colleghi sopra citati) ma due sono stati i personaggi che più ho ammirato: Franck Zappa e Miles Davis. Per il primo ho realizzato la copertina di un suo disco, Miles mi aveva contattato ma poi la cosa non si realizzò. La musica è stata comunque molto importante per me e per il mio lavoro; anche con Stefano Tamburrini tutto è cominciato dalla nostra comune passione musicale. Appena arrivato in Francia ero orgoglioso di essere italiano, adesso meno: abbiamo perso molte delle nostre bellissime caratteristiche e mi sembra che a Parigi si respiri un’aria culturale più interessante. Sto lavorando a una rivisitazione storico-artistica, se posso usare questi due termini, che forse non mi si addicono, di Ranxerox il personaggio dei fumetti che mi ha lanciato, che mi ha dato successo, che mi assomiglia.
C.C. Il video dell’intervista a Tanino Liberatore è pubblicato sul nostro sito www.vario.it Nelle foto, Tanino Liberatore a Quadri
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ph. mekas.it
Istituto Orafo Abruzzese Dal 1936
Via Carducci, 93 - Pescara - 345.8797512 -
FRANCO SUMMA
SUMMA DI COLORI Arcobaleno formato non da cinque cromatismi, come si vedono in cielo dopo il temporale, ma da dodici tonalità spalmate sui muri, sui mattoni, sulle architetture delle città
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na grande e bella mostra allestita al Mumi dalla Fondaziome Michetti di Francavilla è stata dedicata a Franco Summa. Più che una mostra è un percorso di mezzo secolo di opere e interventi ambientali che caratterizzano il lavoro dell’artista pescarese. Piena di colori, del suo arcobaleno culturale, non quello naturale formato dalle sette tonalità visibili in cielo dopo la pioggia, ma dalle 12 in doppia serie: una elaborazione intellettuale. Ai tanti visitatori si è aggiunto anche uno dei critici e storici dell’arte italiana più famosi e apprezzati: Enrico Crispolti che del lavoro di Summa è stato lo scopritore, è lui che lo ha chiamato negli anni settanta ad una famosa Biennale veneziana, è un estimatore affezionato. A lui abbiamo lasciato il compito di parlare e illustrare il lavoro e l’opera di Franco Summa. Questi i quattro riferimenti essenziali per un profilo, storico quanto attuale, scritti dal grande Crispolti. Primo – Tutto per necessità di partecipazione Fuori da una comoda e del tutto aproblematica mentalità di adesione a mode artistiche più o meno occasionali, appare difficile non riconoscere nell’ormai lungo percorso della creatività eminentemente di ricerca di Franco Summa, ormai dai primi decenni della seconda metà del XX secolo, uno dei maggiori punti di riferimento sulla scena internazionale relativamente a una specifica problematica di elaborazioni estetiche intrinsecamente partecipative, in prospettive di sollecitazione al dialogo, e su una scena che sempre più è andata chiarendosi, nel suo lavoro, come quella urbana. I riconoscimenti internazionali, a cominciare da Frank Popper, nel 1980, ma già nella Biennale veneziana del 1976, lo hanno attestato appunto da decenni. Al tempo stesso che, in quelli fra i due secoli, si è definita la consistenza della ricaduta del suo operare progettuale anche nell’ambito del design, secondo un impianto immaginativo, plastico, segnico e cromatico, da originale maestro della congiuntura del “postmoderno”, non soltanto in Italia. Che ha saputo originalmente connettersi al patrimonio di suggestioni linguistiche (soprattutto segnico-cromatiche) della remota, ma evidentemente non esaurita,
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progettualità ambientale “futurista” in prospettiva di una “ricostruzione dell’universo”, fra Balla e Depero (1915). Secondo – Testimone, partecipe del suo lavoro Di impegno, qualità e originalità del lavoro di Franco Summa, sostanzialmente nel tempo coerentissimo pur nella subentrante varietà di formulazioni di volta in volta proposte, suo coetaneo, leggermente “plus agé”, posso testimoniare fino dai primissimi anni Settanta. Quando, a mia volta, mi muovevo in stimolanti nuove attenzioni che correvano fra urgenza progettuale di occasioni di intervento specificamente plastico in una condizione urbana del grande numero, anonimamente ripetitiva, a restituirvi occasioni di emotività e memoria (l’“urgenza nella città” indicata da Somaini nel 1971), e l’arco problematico di ulteriori possibilità di intervento e di sollecitazione partecipativa urbana (messe in prova in “Volterra 73”, e poi in “Gubbio 76” e ”Gubbio 79”). E le proposizioni Summa, in senso di sollecitazioni immaginative e partecipative in prospettive di recuperi memoriali archetipi, con una crescente consapevolezza d’implicazione urbana, mi hanno allora sollecitato nella considerazione del suo già ben affermato lavoro in sede di panorama di modalità diverse d’intervento provocativopartecipativo urbano, in particolare nella configurazione della partecipazione italiana all’insegna di “ambiente come sociale” nella Biennale veneziana del 1976, complessivamente dedicata appunto all’ambiente. Non a caso la sua famosa azione collettiva dichiarativa d’affermazione del “NO” nel referendum per una tentata abolizione della legge sul divorzio civile, realizzata a Pescara nel 1974, ha illustrato emblematicamente la copertina del mio Arti visive e partecipazione sociale, pubblicato nel 1977. Terzo – Dalle possibilità formali cinetiche alla funzionalità comunicativa e partecipativa urbana Ma l’operare progettuale, dialogicamente partecipativo, di Summa, si andava qualificando già da allora, inizio Settanta, come di fatto non tanto multimediale, ma soprattutto extra-mediale. Immaginando cioè non un’applicazione
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Nelle foto, Franco Summa al Museo MUMI di Francavilla. In Basso, l’artista con il critico Enrico Crispolti
modulare ambientale formalmente prefigurata e prefigurante (come storicamente nell’incasellato cromatismo d’incastro ortogonale, in particolare tipico di soluzioni del “neoplasticismo” olandese all’inizio degli anni venti, e di quanto ne è derivato in senso costruttivo “concretista”), ma secondo una reinvenzione comportamentale partecipativa di segni, forme, colori, movenze, occasionalmente di volta in volta reinventata giacché specificamente riferita. Cosí da risultare ambientalmente esemplare nel quadro di una creatività molteplice di liberissimo uso, occasionale, del medium, anzi di possibili diversi media. Da me infatti perciò annoverato in breve, il lavoro che andava sviluppando Summa, nella rassegna appunto di operatori in dimensione di Extra-media (libro pubblicato nel 1978). Nel corso dei secondi anni sessanta, nella concretezza di una nuova istanza partecipativa, Summa ha progressivamente capovolto il dinamismo formale di proprie esperienze iniziali legate a un formalismo di linguaggio “cinetico” in nuove occasioni e destini d’implicazione partecipativa, collettiva e ambientale. Esattamente verso “un’arte aperta alla partecipazione, che esprime il popolo” (come dichiarava nel libro del 1978), praticata dall’inizio degli anni settanta. E che inevitabilmente ha progressivamente comportato l’implicazione di un orizzonte operativo di respiro urbano. Da segni ad azioni, miranti a sollecitare affioramenti partecipativi emotivi, memoriali, archetipi, fra azione e partecipazione determinante. Quarto – La città come campo, memoria, destino Al patrimonio memoriale, storico e antropologico della città Summa ha dedicato nel 1986 un singolare libro, tutto fatto di mere associazioni iconiche e segniche emergenti nello spessore de “La città della memoria”. E la dimensione urbana si afferma più che mai da allora come campo e destino del suo identitario operare partecipativo. Con Il video dell’intervista a Franco Summa è pubblicato sul nostro sito www.vario.it
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occasioni di enunciazione e riflessione teorica che corrono dal libro di dialogo a molteplici voci Town Art. L’arte della città, pubblicato nel 2006, e che nasce intorno all’occasione del grande intervento plastico-architettonico-cromatico de la Porta a mare, dirompente, vivida presenza proposta sull’affaccio marino del centro di Pescara. Occasioni di enunciazione e riflessione teorica che Summa riprende, approfondisce e rilancia nel nuovissimo suo volume Arte urbana, pubblicato in questa occasione ad accompagnare la sua rilevante presenza in questo Premio Michetti, che ha intitolata Urban Rainbow. Mi spiega: un particolarissimo suo “arcobaleno che non appare nel cielo dopo la pioggia bensí nella dimensione urbana, accendendo emozioni, ma anche, attraverso una valenza segnica ristrutturante, prospettando nuove visioni e nuove possibilità di percorsi immaginativi e comportamentali per i cittadini”. Enrico Crispolti
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WALTER RANIERI
OLTRE ILGIARDINO Dopo l’inverno viene la primavera e dopo i mozziconi di sigarette vengono i fiori. Uno dei mali endemici di Pescara è l’incuria delle aiuole ma se ci fossero tanti Chance Giardiniere, pardon Walter Pensionato che le accudisce amorevolmente e sapientemente, forse la città avrebbe un volto più accogliente Testo e foto di Claudio Carella
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attino presto, prestissimo, quando la strada è vuota e sono rarissimi gli occhi indiscreti o curiosi. Abbigliamento: tuta, guanti, cappello. Arnesi da lavoro: zappetta, forbici. Zappetta, forbici? Niente bomboletta spray? No, la mia non è arte (usando parole grosse) figurativa. Il mio gusto estetico e cromatico si concentra sulle piante e sui fiori. Il luogo però è lo stesso della Street art, la strada appunto, le aiuole che rubano qualche piccolo spazio all’asfalto e che io cerco di rendere belle e soprattutto curate. Mi piace combinare piante e fiori e trovare i luoghi adatti per ogni pianta. Sono un giardiniere, anche se mi occupo di un’aiuola. Vedendo giardini in tutta Europa ti rendi conto che è possibile osservare qualcosa di bello ogni mattina e lo spartitraffico arido diventato un ricettacolo di rifiuti mi dà proprio fastidio. Così ho cominciato ad occuparmene e oggi è quello che è. (la sua principale opera è a Pescara in via Gobetti angolo via Perugia. Ndr) Quando hai cominciato? Diciamo che, almeno in modo continuativo, ho cominciato circa cinque anni fa. Inizialmente compravo anche delle piante, ma è stato un disastro: rubavano tutto, io le mettevo e il giorno dopo non ritrovavo più niente. Così ho cominciato proprio a coltivare il terreno, in orari in cui non mi vede nessuno: le sei, le sette del mattino. In quel momento c’è più silenzio, l’atmosfera è più raccolta, per me è l’inizio della giornata, poi aspetto le otto e mi vedo 26
con gli amici al bar. Che tipo di fiori hai piantumato? Sono tutte belle le piante, ma a causa dei continui furti ho dovuto selezionare, scegliendo quelle che magari avessero meno possibilità di essere rubate. Ho piantato perfino delle verdure: cavolfiori, ad esempio, che hanno un fiore molto bello, ma arrivavo al punto in cui il fiore sbocciava e puntualmente lo trovavo tagliato. Ho messo il prezzemolo, ma anche quello attirava troppa attenzione. La malvarosa, invece, è difficile estirparla, e poi a me piace tantissimo, ha una fioritura molto bella, resiste alla siccità e dura a lungo. Comunque le piante che ci sono oggi su quello spartitraffico sono frutto di una necessità, quella di non solleticare l’appetito di chi vorrebbe appropiarsene, e di esperienza nella combinazione dei colori, che non giunge per caso. Io sono affascinato dai giardini, per esempio quelli inglesi, in cui ogni tanto si vedono onde di verdi diversi, dati da differenti tipi di verdura. Ma quando qualcuno ti ruba un fiore come ti senti? Prima me la prendevo un po’ di più, ora non mi interessa. Alzo le spalle e mi rimetto al lavoro, tanto alla fine vincerò io: il bello e il buono vincono sempre. Tu me ne rubi una? Io ce ne rimetto due, e prima o poi capirai. Anzi, qualcuno ha già capito: non solo nella mia via Perugia e in via Gobetti, ma anche in via Chieti ho visto aiuole e giardinetti ben curati, segno che il senso del bello si sta diffondendo. Per me, che sono solo un appassionato di botanica e capisco un po’ le differenze tra una pianta e un’altra, è il piacere di vedere crescere qualcosa che mi appaga, non certo la gratitudine degli altri, anche se molti mi fanno i complimenti e mi chiedono consigli. L’unica considerazione
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triste è che i giovani, tanto allettati dalle nuove tecnologie, difficilmente potranno apprezzare la lentezza, la pazienza che caratterizza il giardinaggio. È senz’altro molto bello che a scuola, ogni tanto, si insegni anche come nascono piante e fiori, ma è importante il lavoro di manutenzione, di cura di ciò che si è piantato. Tu che tipo di manutenzione fai? In modo molto primitivo porto circa un quintale di acqua dal mio garage, utilizzando annaffiatoi e altri contenitori. Faccio circa cinque viaggi, è un sostitutivo della palestra. Ogni mattina controllo tutto, alzo le piante che sono cadute, ripulisco la terra dalle cicche e dai pacchetti di sigarette, ho dovuto mettere delle griglie per evitare che i cani sporcassero, cosa che mi ha salvato il carciofo. È un lavoro quotidiano, di cura e di manutenzione, che mi porta via un paio d’ore soltanto. Nessuno si è mai lamentato di questa tua attività? In effetti una delle piante che avevo messo si era alzata fino a oscurare il segnale di stop, e quindi sono stato costretto a potarla su richiesta di qualcuno che me l’aveva fatto notare. Ma per il resto ho ricevuto solo commenti positivi. Più che complimenti, in realtà, preferirei che mi dessero un po’ d’acqua alle piante: come ho già detto, non faccio questo per ricevere gratificazioni, anche se, beninteso, fanno sempre piacere. Esistono anche altri che hanno preso la tua stessa iniziativa? Che io sappia no, ma il vero problema è l’assenza di iniziative a livello amministrativo: ora che il Comune non ha più personale interno che svolga manutenzione del verde, deve rivolgersi a ditte esterne, con grande dispendio di risorse. E pensare che in altre città - in Italia e in Europa - si è ovviato a questo problema con il coinvolgimento, da parte delle amministrazioni, di volontari e persone che devono essere recuperate a livello sociale: ricordo di aver visto ad Aquisgrana, in Germania, scendere da un camioncino diverse persone chiamate dal Comune a potare le siepi di un grande viale. Oltre a giardinieri e personale comunale, c’erano anche tanti volontari, che lo facevano perché sentono che quel luogo gli appartiene. Anche a Pescara la consapevolezza sta aumentando, sono molti i risultati che mi confortano. Spesso vedo persone che mi lasciano piante moribonde, da curare, o alcuni che mi fermano per chiedermi consigli su quale pianta usare per curare questo o quel malanno. Mi rendo sempre più conto che amare il bello è contagioso. Sto cominciando adesso a vedere i frutti del mio lavoro, fatto di tanta fatica che però, quando mi accorgo che qualcuno dissoda un’aiuola e ci pianta qualche fiore, come ho visto fare a un signore in via Venezia, viene ricompensata. Basta poco per migliorare il mondo in cui viviamo, ma questa è l’essenza della vita: vedere crescere una piantina è un piacere che ripaga di tutti gli sforzi fatti per lottare contro il male e il brutto che ci circonda. E speriamo che il nostro volontariato venga sostenuto e agevolato anche dall’amministrazione civica, l’assessore Allegrino è stata promotrice di una bella iniziativa: gli orti urbani (già pubblicato su Vario) collocati in terreni liberi ai margini degli edifici in periferia affidati a chi vuole coltivarli e consumare i frutti della terra. In centro forse pomodori e zucchine non andrebbero bene, ma bisogna nutrire anche la vista. Nelle foto, Walter Ranieri al lavoro nel “suo orto”
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Strada Comunale Piana n. 24/6 Telefono+39 3470741954 - Cellulare+39 08527666 info@italolupo.it
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OSVALDO PROSPERI
PENSIERO NOMADE Ritratto di un personaggio conosciuto e apprezzato ben oltre il suo impegno e ruolo professionale Testo e foto di Claudio Carella
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orriso travolgente, comunicazione poliglotta, affabilità istintiva, proprio non si direbbe un avvocato meticoloso, docente e luminare riconosciuto di diritto civile (non proprio un adisciplina “frizzante”). Osvaldo Prosperi ha le sue radici in Italia e in Abruzzo, e vuole onorarle fino in fondo. «Fin da ragazzo ho sempre avuto il senso della libertà e della giustizia, tanto che la scelta professionale in giurisprudenza è giunta istintivamente a 15 anni, in occasione della vincita di una borsa di studio in America. Mia madre all’epoca mi domandò cosa volessi fare da grande e io risposi che volevo fare l’avvocato. Ho avuto la fortuna di nascere in un piccolo centro, con una vita sociale molto ricca e ho un innato senso del dovere. Mi piace molto comunicare e amo l’insegnamento. Credo nella famiglia, e proprio per questo non ne ho formata una mia: ho un carattere esuberante, sono un nomade del pensiero e delle esperienze, il mio forte non è la stabilità. Il mio mestiere, che è anche la mia passione, si divide in due mondi: la giustizia, ovvero la professione di avvocato, e l’insegnamento universitario. Due mondi che si contemperano anche col senso di socialità. E poi io sono un civilista, il che significa che cerco di risolvere i problemi delle persone e quindi di rendermi utile. Vivo a Pescara per la metà del mio tempo, e per l’altra metà nel resto del mondo, con preferenza per Parigi, Londra e spesso gli USA. D’estate vivo in simbiosi col mare, adoro la Sardegna, il golfo di Napoli e la Grecia, oltre che la spiaggia pescarese. Senza Grecia non saprei stare. A Pescara mi sento a casa, ma il mondo non mi fa paura. Quest’anno sono stato alle Hawaii, ho scoperto un luogo che in parte non conoscevo: profondità immense, strade stupende, boschi... io amo la natura ma sto bene in mezzo alla gente, non a caso sono cresciuto in un piccolo paese abruzzese». Ma la sua professione? «La svolgo prevalentemente in Italia ma ho avuto e ho ancora esperienze a Parigi. È una città di cui
amo anche gli aspetti culturali, così come per l’Inghilterra e la Spagna. Ma mi piacciono anche i Paesi scandinavi e la Russia. Il mondo intero mi stimola curiosità intellettuali». Come si svolge il suo lavoro? «Mi occupo di diritto commerciale e amministrativo, fin da quando in Abruzzo erano ancora poche le società per azioni. Ho cercato di ritagliarmi una funzione di “consigliere” per gli imprenditori. Il mio lavoro riguarda soprattutto le controversie economiche di un certo livello, sono spesso avvocato di banca ma cerco di non avere un rapporto troppo stretto col cliente; diciamo che sono uno “specialista”. Ovviamente faccio anche lavoro di combattimento in tribunale, ma prevalentemente in Cassazione. Mi piace quello che faccio e credo che in questo momento conti molto il valore aggiunto della mia professione, ovvero saper anticipare i temi e portare i clienti verso nuove figure di lavoro e nuovi contratti». Qual è il suo cliente tipo? «Ci sono due livelli: da un lato i manager e i grandi imprenditori, dall’altro qualunque cliente abbia un’esigenza morale o di giustizia da tutelare avrà sempre da me una mano, anche fosse solo un consiglio. Non ho mai curato il diritto di famiglia, ma durante l’estate ho studiato la legge Cirinnà proprio per anticipare i temi. La professione dell’avvocato moderno non è di essere servus principis, è necessario un maggior distacco. In via emblematica posso dire che per avere una visione precisa del mio lavoro ho avuto tra i miei clienti molte industrie venete dell’ottica, come Lozza, Sàfilo, e ho affrontato molto spesso tribunali a Milano, Bergamo, Brescia, in tema di controversie su marchi e brevetti. In Abruzzo è noto che Filippo De Cecco sia un mio carissimo amico, per il quale ho curato alcune questioni. Tra le banche preferisco lavorare con quelle nazionali, ma ho aiutato anche alcune Bcc, che non hanno una grande struttura centrale ma danno fiducia perché sono ben radicate sul territorio; per i privati ho avuto alcuni casi di successioni, come quello della Mion a Padova, che mi portò fino a Nelle foto, Osvaldo Prosperi nel suo studio a Pescara
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Singapore. Comunque delle mie sedi principali Milano è stata quella abituale fino alla fine degli anni ‘90. Al sud sono tornato da poco: Napoli, Bari... sono andato per lavoro 4 volte in Sicilia. Con i clienti ho un rapporto piuttosto severo, ma va anche detto che a differenza delle nuove generazioni, io sono un avvocato vecchio stile, accentratore, lavoro da solo; non è facile lavorare con me, per questo non ho uno studio con 50 collaboratori. Voglio che il cliente si
senta seguito. Lui parla con me e se accetto il lavoro io il problema lo affronto e lo risolvo. Il futuro, purtroppo, sarà invece delle grandi società di professionisti, che portano gli avvocati a diventare imprenditori di servizi, e a me questo non piace. La mia generazione sarà l’ultima o la penultima ad avere questo tipo di rapporto umano col cliente». E’ considerato un luminare ma con quali altri grandi avvocati si è scontrato? «Durante una importante vicenda professionale che si svolse a Milano ebbi come avversari il professor Grassetti e un grande avvocato, ancora vivente, che si chiama Alessandro Pedersoli - sì, è cugino di Bud Spencer - e all’epoca avvocato della Pirelli. Era il principale studio di Milano e lì affrontavo (perché avevo impugnato il bilancio di una delle società da loro seguita). Sono stato il primo in Italia ad impugnare i bilanci delle grandi società per azioni. Tutto cominciò con un collega romano, Enrico Picchioni, che mi spinse a impugnare il bilancio della Rai. Era il 1970. La trasformai in una prassi, e la introdussi nelle controversie che seguivo al Nord, dove questa cosa non si concepiva. Ho avuto come avversari studi importanti come Chiomenti, Carnelutti, ma ho preferito vivere in provincia per lo stile di vita diverso da quello delle grandi città. Anche perché avevo immaginato un mondo dove grazie al telelavoro si andasse a valorizzare 32
la persona e non più il luogo dove si lavora. Quando ho scelto di fare l’avvocato avevo due modelli: uno classico, sussiegoso, un po’ tenebroso, triste; un altro invece allegro. E poiché io ho attitudine alla comunicazione e credo molto nel dialogo - dal dialogo vengono fuori le qualità, c’è un arricchimento reciproco perché chiunque, a qualsiasi livello sociale, può darci un messaggio - e per mia natura sono estroverso, mi apro, non erigo difese, sto bene con gli altri e mi piace affrontare qualunque argomento. Quando sono a Pescara e vado al bar, se sento parlare di calcio parlo di calcio anche io, di basket, di politica. Questo modo di comunicare mi piace, mi fa stare bene. Non sono capace di odiare nessuno, al massimo mostro indifferenza. Un luogo che ho smesso di frequentare è lo stadio, perché nello stadio le persone scatenano le loro passioni e perdono il controllo. La mia squadra del cuore è il Milan, poi viene il Pescara; quando guardo una partita mantengo sempre una certa obiettività, così cerco di evitare di stare vicino a quelli un po’ più focosi. Del resto mi dispiace che non ci siano più centri di aggregazione sociale come Piazza Salotto o i Gesuiti, siamo sempre più isolati nel nostro piccolo microcosmo. Forse questo mio amore per la socializzazione, per la comunicazione verbale, viene non solo dall’educazione e dalla cultura paesana che mi caratterizza, ma anche dall’esperienza di cinquant’anni di insegnamento universitario: sto sempre coi giovani, sono con loro aperto e disponibile, mi piace parlare con loro. Tanto che poi qualcuno si meraviglia che in sede d’esame io sia molto severo, ma non voglio ambiguità nei rapporti. In fondo un sorriso, un aiuto, non costa nulla. Molti si chiederanno perché, con un carattere così aperto ed estroverso, io non mi sia fatto una famiglia. Ci sono molte spiegazioni, e molte circostanze al di fuori della mia volontà che era quella di trovare una persona un po’ particolare, un po’ artistica, perché il senso del matrimonio tradizionale, pieno di doveri e convenzioni, io non l’ho mai avuto. Sono figlio anche io di quella rivoluzione culturale che fu il ‘68, e non mi è mai piaciuta la donna “regina della casa”. Mi piacciono le donne con grande personalità, autonome e indipendenti, ma c’è anche una via di mezzo. Mi piace la montagna, ma preferisco andarci da solo. Amo la natura ma non sono favorevole ai terrorismi ambientali: pur consapevole che esistono gravi problemi di sostenibilità ambientale, che scuotono le coscienze ecologiste, sono convinto che il mondo cambierà ma che l’uomo resterà su questa terra ancora per molto tempo. Ho avuto modo di visitare luoghi “estremi” del pianeta, a Nord (sono arrivato quasi vicino al Polo) e a Sud: in Nuova Zelanda ho vissuto bellissime esperienze, sono arrivato vicino all’Antartide. Sono affascinato dalla cultura orientale, ma non ho quel senso mistico degli asiatici, mi manca la cultura religiosa. I Paesi arabi invece li conosco poco: sono stato in Africa in varie occasioni e ho visitato la Libia, la Somalia, la Tunisia. Sono stato in Libano e in Siria prima del 2000. Ne ho viste di cose insomma e non credo che siamo alla fine del mondo: sopravviveremo, e mai ci sarà un’altra città come Roma. Quando qualcuno mi chiede se difenderei un cliente che ha sicuramente torto, io dico che cerco di interpretare, ma non difenderei chi avesse come unico obiettivo il denaro ». Il video dell’intervista a Osvaldo Prosperi è pubblicato sul nostro sito www.vario.it
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VITO MORETTI - FEDERICA D’AMATO
POESIA CRONACA DI UNA MORTE SCONGIURATA Generazioni di poeti a confronto di Marco Tabellione
I
ndagare la condizione della cultura in Abruzzo non è cosa facile, soprattutto perché occorre scegliere innanzitutto la chiave di lettura, se limitarsi a registrare e a sottolineare le numerose iniziative estemporanee che si accavallano e che vanno a nutrire una congerie di eventi che spesso lasciano il tempo che trovano, oppure esigere un’indagine più profonda. Un’indagine che vada magari a rintracciare i protagonisti delle stagioni culturali regionali, a chiedere loro un resoconto, un bilancio. Noi di Vario abbiamo scelto la seconda strada e abbiamo scelto di intraprenderla partendo dall’arte forse più minoritaria e elitaria che ci sia: la poesia. Talmente elitaria e minoritaria che in tanti oggi ne contestano l’esistenza, decretando a piena voce la sua irrimediabile fine. Ma se la poesia sia ancora viva e incisiva, oppure se sopravviva come reliquia e fantasma di se stessa, oppure ancora se invece sia inevitabilmente tramontata, proviamo a lasciarlo dire ai suoi protagonisti, anche per poter appurare da vicino la situazione abruzzese. Vito Moretti e Federica D’Amato rappresentano due fra gli autori abruzzesi più conosciuti a livello nazionale, anche se fanno parte di generazioni molto distanti fra loro, tanto che diventa interessante, in questo spazio che li separa, andare a vedere quanto è cambiata fra loro la considerazione sul ruolo della poesia oggi. A prima vista è evidente che entrambi sottolineano e denunciano la posizione di emarginazione dell’arte poetica nella contemporaneità. “La poesia” sostiene Moretti “sembra vivere oggi una palese condizione di marginalità e di trascuratezza, perché interessa assai poco gli ambienti della società civile e ancor meno le intellighenzie che tengono voce nei salotti giornalistici e televisivi. È come se una parte della cultura avesse smesso all’improvviso di esercitare le proprie risorse e di utilizzare le opportunità che nel passato le davano anche credito ed ascolto”. Federica D’Amato sembra confermare questa denuncia dell’esilio della poesia, ma le sue parole nascondono forse anche un rimprovero per l’autoesilio dei poeti. “Oggi la poesia è implicata in un paradosso” sostiene la poetessa “essa è allo stesso tempo sovraesposta - festival letterari, social network, blog, reading, gran quantità di 34
pubblicazioni - e intimamente silenziosa, ritirata in un luogo inconoscibile, in esilio necessario laddove nessuno può violarla”. E poi continua lanciando tra le righe quello che sembra essere un monito ai poeti stessi. “Con questo voglio dire che il rapporto tra la società contemporanea e la poesia è lo stesso da sempre: un’alterità che prepara, anticipa e consegue, significa, tutto il reale. Al di là dei falsi problemi, dovremmo piuttosto occuparci di porci in ascolto e non confondere la nostra limitatezza con i limiti di quella stessa alterità”. Insomma è evidente in entrambi i poeti la volontà di sottolineare la condizione di marginalità in cui si trova la poesia, anche se da questa constatazione quasi identica, scaturiscono conseguenze differenti. Moretti non ha perso fiducia nel ruolo della poesia come guida spirituale dell’umanità. “A me piace pensarla oggi soprattutto come una via (o come un mezzo) di autenticità, come un richiamo alle ragioni più profonde e vive dell’individuo e come una misura del vero e del plausibile, contro i depositi fuorvianti della storia e persino contro tutto ciò che corrompe ed ostacola o che spegne e porta buio”. Mentre Federica D’Amato superando la veste ieratica della poesia, la vede piuttosto come un gioco, arte vera e propria. “Non sono sicura” dice infatti “che la poesia abbia una funzione o un ruolo. Di certo ha un respiro: quando mi capita di leggere alcuni poeti e accordare il loro respiro al mio, ne scaturisce la sensazione concreta di respirare meglio, di trarre da tale esperienza una assoluta libertà”. E in Abruzzo? La poesia e la cultura in generale quale ruolo rivestono ancora? Federica D’Amato non ha dubbi, in una fase di generale sterilità l’Abruzzo non farebbe eccezione. “Tremenda” sbotta pensando alla nostra condizione regionale “Ma lo affermo senza giudizio o atteggiamento moralistico. I tempi che ospitano il nostro operato umano sono in caotico e progressivo stravolgimento, la fanfara della storia esige sterilità, e noi sterilmente rispondiamo”. Al solito più ottimista Moretti, dispiaciuto semmai della dimenticanza alla quale la cultura abruzzese viene inevitabilmente condannata, ma secondo lui le colpe non sarebbero le nostre. “In questi
ultimi anni” dice il poeta di San Vito “l’Abruzzo è riuscito a sottrarsi a molti condizionamenti ed anche a liberarsi da alcune maniere e riserve della provincia più goffa ed impacciata. Il problema, semmai, è che nessuno viene in Abruzzo a vedere queste cose né a farne argomento di interesse. Ma va bene così. Chi vuole conoscere questi fatti e ha desiderio di farlo, sa come venire e sa dove cercare”. D’altra parte la rivendicazione da parte di Moretti di una dignità della cultura anche decentrata, va letta come una critica al mondo editoriale e a quello del mercato, da cui inevitabilmente la poesia, nella sua accezione pura, è esclusa. “Credo di avere un rapporto normale con il mercato librario” confessa Moretti “nel senso che promuovo i miei nuovi libri e ne sollecito la divulgazione, ma lo faccio solo per gratificare l’editore e per consentirgli il massimo dei rientri. A me, invece, piacerebbe lasciare ogni mio libro alla sua ventura. Altra cosa è poi il peso della letteratura nel contesto dell’editoria contemporanea. Le percentuali ci dicono che è quantitativamente cospicuo, ma a far numero è una produzione piuttosto effimera, composta da instant book, da libri di attricette in cerca d’ascolto, di giornalisti alle prese della cronaca più pruriginosa, di calciatori al racconto del proprio vissuto, di politici e faccendieri alla ricerca di altri introiti e di strateghi del guadagno facile e delle scaltre iniziative commerciali. La letteratura vera ha spazi assai ristretti e si incontra, direi, su tutt’altri piani, nel profumo delle cose durature”. La stessa critica, la stessa amarezza per un valore commerciale che troppo spesso non coincide con un valore letterario, o presunto tale, è riscontrabile nelle parole di Federica D’Amato, che ha alle spalle anche una frequentazione assidua del lavoro editoriale. “Ho lavorato nel mondo dell’editoria fino allo scorso anno” confessa la poetessa chietina “sebbene io sia considerata una “pivella” del mestiere data la mia giovane età (e in Italia ormai si è giovani fino ai 50 anni…), ci sto dentro praticamente da sempre, sia come autrice che come vera e propria figura professionale. L’impressione che ne ho tratto è quella che mi ha portato ad abbandonare il campo, a smettere di lottare contro i mulini a vento,
tanto che attualmente sono anche indecisa sul destino editoriale dei miei scritti. Quest’anno sarò in libreria con ben quattro opere, nel 2017 usciranno le nuove poesie, ma sono libri figli di accordi e contratti presi quando ancora credevo nel sistema. Ad oggi me ne pento. Il fatto è che abbiamo bisogno di silenzio, o di parole gentili, e poche, ben scelte, riflettute, amate. E amare è l’impresa più ardua da compiere nell’esistenza. L’arte letteraria, espressione bellissima e nostalgica, in Italia non è più tutelata, almeno nelle intenzioni dei grandi mercati, e forse nemmeno più in quelle dei piccoli editori ed operatori del settore; una realtà che non esiste più come sistema, ma sicuramente operosa e vibrante in quella di pochi, e virtuosi, singoli”. Ma indubbiamente al di là delle divergenze di generazione, ispirazione e riferimenti culturali, tra i pochi indicati da Federica D’Amato, non si può non annoverare i due poeti abruzzesi, sicuri entrambi che la loro poesia li proietta, almeno nei limiti della pagina, su altri spazi, spazi utopici, dove l’uomo è migliore. “Io cerco di essere me stesso” confessa Moretti interrogato sul senso della propria poesia “senza badare a scuole e a mode, e di comunicare pensieri e contenuti, giudizi e riflessioni, e di tenere in debito conto i sentimenti che mi rallegrano, l’amore che ho nel cuore e nell’anima, il prodigio di poter guardare i fatti e gli uomini che a volte vanno e a volte tornano, i nomi che mi accendono mari da percorrere e cieli da interrogare. E dopo aver fatto questo, non so mai se sono nel giusto o se c’è un turbamento che ancora mi imprigiona, una seduzione che mi spinge – senza avvedermene – in altri spazi o dentro altre cavità, negli antri della luna e delle stelle”. Più disillusa, forse Federica D’Amato, ma sempre legata alla straordinarietà dell’esperienza poetica, ecco come conclude: “Cosa caratterizza la mia poesia? Non saprei rispondere, soprattutto ora che la Musa tace ed io, silenziosamente, mi limito a pensarla, nella languorosa e felice incertezza che ella possa anche non tornare mai più. D’altronde, viviamo e diventiamo noi stessi grazie agli addii. E anche questo addio sarebbe un bel pezzo di poesia”.
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VITO MORETTI Non c’è da capire la fiamma
Non c’è da capire la fiamma che arde, non l’ingombro della conchiglia né il disordine che resta chiuso nel volo delle gazze. Nulla c’è da capire se tutto torna e ti appartiene e se intorno il cane abbaia, se la nebbia si china sui fossi e se la vigna ha la rincorsa delle volpi: cose di sempre, un giro che magari si ripete alla solita ora, un cerchio di routine per il mese 36
che già condona il freddo di domani, la sera da trascorrere al bar; cose per sempre, al Sud dei miei occhi e dei miei guadagni, un’attenzione forse, che un po’ si fa casa e un po’ amici e che a ragionarci poi un po’ veglia sui Sindaci ed Assessori, come ci vuole (perché proprio ci vuole) e un po’ cerca di cambiare le cose, come a vent’anni,
(dalla raccolta inedita Le cose) un polverone, dentro e fuori, e altre cose da lasciare senza strappo, con buona creanza, metà a destra, metà a sinistra, un poema liscio come uno specchio, storie che si concedono e che portano l’inverno a sfebbrare con i santi del purgatorio e con i barboni che si fanno matti nel paese, e noi fetenti, a ridere altezzosi, a mostrare la terra, il pezzo di terra, una manciata, un lenzuolo che ci fa superbi da schifo nel fosso aperto dentro l’anima e sotto i piedi, uomini con la faccia mica da cristiani, ma da persona che manca di rispetto, bestia che neanche lui sa quanto, scemo che ci lavora mesi ed anni per esserlo, cosa da non credere. Ma questa è un’altra storia, nel Sud e pure nel Nord padano che lavora e va in vacanza e che paga, se c’è da pagare, e che manda il rumeno ad accudire il vecchio e i cani. Altra storia, si capisce, da finto radicale, da giornalista alla moda e da poeta che va ospite in Tv, pronto a dire e a non dire, a darsi controllo, lui, un gesto di meraviglia, un altro di implicita adesione, e poi zitto, un’occhiata… Eh, che storia… Ma, se Dio vuole, anche la notte finisce, anche nel cielo più scuro torna il sereno, il blu, da cantare a braccia larghe come Modugno, o l’azzurro di Celentano, da ripetere con gli occhi chiusi, naufragati nella deriva di quelle lontane e solitarie domeniche in colonia e nell’odore del fieno che torna alle narici, nelle more scovate lungo le siepi della strada comunale, a grappoli, rosse e nere, magnifiche a tingere le mani, il fazzoletto che le portava alla Vergine, la fronte che pulivi del sudore. Cose, va là, di ieri, ti dici, perché la vita non era quella, e le dimentichi, accendi altri fuochi, ci rimetti di tasca e di ossa, oggi, e pensi che tu non sei più il cuore di allora, e che altre facce, altra psicologia, altra verità ti danno gloria all’anima, fanno più vera la casa, più giusto il nome che, a sentirlo, ti è cresciuto addosso.
FEDERICA D’AMATO Gli amati (inedita) Li vedi benissimo tra vent’anni belli e forti comunque vivi nelle corolle degli inizi quando il desiderio di essere lì sarà molto più forte di qualsiasi altrove coloro che ami. Avranno dieci anni saranno bambini o madri con il sole nella pancia padri con la luna tra le mani e gli adolescenti i migliori con la falce di baciare i mondi. Saranno quelli che domani amerai meglio di oggi perché assenti da te che li hai incontrati solo per lasciarli andare.
«Ho da sempre un rapporto difficile con la poesia, nonostante la mia poco seria abitudine a frequentarne gli impossibili lidi, a tentarne le intentabili sponde. Scriverla è stato sin dagli esordi un vizio più tardi abusato in abitudine, infine in modo di abitare la pagina, violarne la decenza. Tutto quel che so è che a sei anni mi sono seduta davanti a un albero che iniziava, dopo l’estate, a perdere le sue foglie, mentre un vento sottilissimo e i colori del tramonto si univano senza sforzo a quelli dei miei occhi: un’immagine semplicissima, ma credo che tutto sia partito da lì. In quel momento capii di amare il mondo, di amarlo profondamente e disperatamente, e quando si ama si vuole sia dirlo a tutti, sia testimoniarlo, conservando la memoria, il ricordo dell’amato per consegnarne l’anima all’eternità. Per me è stato questo iniziare a scrivere poesia, la volontà di testimoniare la vastità della vita, la bellezza della natura e del mondo dove essa pure soffre e scompare; dire il tutto dell’essere prima che passi e ci lasci nel nostro niente d’inevitabile tornarcene per sempre verso il niente.» Nelle foto, Vito Moretti e Federica D’Amato
I video delle interviste a Vito Moretti e Federica D’Amato sono pubblicati sul nostro sito www.vario.it
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UNIVERSIVARIO
LA TERRA È MOBILE Nove Atenei italiani, guidati dalla d’Annunzio, uniti per studiare e comprendere i terremoti di Roberta Zimei
L’
acronimo è CRUST e il riferimento alla crosta terrestre viene immediato: tanto più che CRUST sta per Centro InteRUniversitario per l’Analisi Sismotettonica Tridimensionale con applicazioni territoriali. Nato appena sette mesi fa, e con il primo workshop ufficiale già tenuto, è una struttura di ricerca di punta del DisPUTer (Dipartimento di Scienze Psicologiche della Salute e del Territorio) dell’Università “G. d’Annunzio”. Nove Atenei italiani in tutto, Catania, Messina, Salerno, Roma, Perugia, Bologna, Ferrara, Pavia, dei quali quello teatino è capofila. La caratteristica che fa del CRUST un centro di ricerca scientifica altamente innovativo è l’approccio sinergico e interdisciplinare allo studio della Terra e delle sue continue evoluzioni e trasformazioni, attraverso l’integrazione di competenze, idee, approcci metodologici anche molto diversi tra loro, ma tutti pertinenti a discipline come la geologia strutturale, la sismologia, la geofisica e la sismotettonica. “La sfida che vogliamo lanciare è la globalizzazione della conoscenza attraverso la ricomposizione delle sue sfaccettature, valorizzando la diversità offerta da ogni disciplina nella visione d’assieme delle varie realtà geologiche studiate”. A parlare è la direttrice del CRUST, Giusy Lavecchia, professore ordinario di geologia strutturale, lucana di origine e con una grande passione per la ricerca e lo studio delle forze che agiscono nel sottosuolo. Appesa al muro, fra immagini di affioramenti rocciosi e carte geologiche, una foto in bianco e nero di lei studentessa e sua madre, accompagnatrice anche nelle escursioni geologiche più impervie. Una scelta di vita condivisa con il marito, prof. Francesco Stoppa, noto vulcanologo e petrologo, professore ordinario della stessa Università. “Ho sempre considerato un privilegio poter fare questo lavoro per la possibilità di stare a contatto con la natura e condividere il mio grande interesse con i colleghi e gli studenti”. Come è nata l’idea di creare il CRUST? “L’idea è nata da un gruppo di nove promotori dei nove Dipartimenti consorziati, che hanno sentito fortemente l’esigenza del recupero organico e della valorizzazione delle competenze universitarie nel campo della sismotettonica. Il DiSPUTeR e l’Ud’A hanno supportato sin dall’inizio questa iniziativa, rendendola realizzabile in tempi molto brevi. La scelta di puntare alla creazione di un gruppo di ricerca esteso ed interdisciplinare, diffuso sul territorio dalla Sicilia alla Lombardia, risponde, quindi, alla volontà di superare la frammentazione della ricerca universitaria nel campo della sismotettonica. L’obiettivo è potenziare e migliorare le conoscenze di base e applicative nel campo della fisica e geologia 38
dei terremoti, nonché di rendere più affidabili e precise le stime di pericolosità sismica”. Parlava di stime di pericolosità sismica che allo stato dell’arte sembrerebbero non particolarmente affidabili... “I terremoti sono un problema complesso e difficile. La comunità scientifica è ben consapevole che gli studi effettuati e la strumentazione utilizzata finora non sono sufficienti per comprendere appieno le modalità di genesi dei terremoti e la distribuzione nel tempo e nello spazio del rilascio sismico. Le stime di pericolosità sismica, che rappresentano la probabilità di occorrenza di un terremoto in una data area geografica, in una specifica finestra temporale e con una accelerazione al suolo entro una precisa soglia, possono essere migliorate da una conoscenza più dettagliata della geometria, della cinematica e della dinamica della crosta terrestre, in continua evoluzione e deformazione. In questa ottica, il CRUST si propone, tra l’altro, di contribuire ad un censimento sistematico e dettagliato di tutte le strutture geologiche (faglie) capaci di generare terremoti distruttivi nel territorio italiano e alla costruzione di un corrispettivo database, multiscala, tridimensionale ed interattivo, da mettere a disposizione della comunità scientifica, e non solo, per la costruzione di nuovi e più affidabili scenari di pericolosità sismica di nuova generazione”. Si dice che i terremoti non siano prevedibili. Quindi qual è il compito di un geologo? “Si, nessuna previsione è possibile. Al geologo, o meglio al sismotettonico, spetta il compito di individuare le zone potenzialmente sismogenetiche, evidenziare le faglie attive e capire se e come sono collegate fra loro; prevedere sulla base della dimensione della faglia considerata, quale possa essere il massimo terremoto atteso. Non bisogna dimenticare, però, che il rischio sismico, che è quello che ci interessa come cittadini, non dipende solo dalla pericolosità simica di un’area, ma è fortemente controllato dalla vulnerabilità del patrimonio edilizio, vulnerabilità della quale il principale responsabile è evidentemente l’uomo”. Un Centro Interuniversitario con una dimensione internazionale? “Sicuramente. Nei Dipartimenti aderenti al CRUST sono presenti gruppi di ricerca dotati di una eccellente reputazione a livello internazionale. Del resto, gran parte della nostra attività di ricerca si basa sullo scambio continuo di dati, idee e conoscenza con i geologi ed i sismologi di altre università ed enti di ricerca, in Italia e all’estero. Tutti noi abbiamo trascorso periodi di studio e ricerca all’estero, in prestigiose
ATENEO G.D’ANNUNZIO DI CHIETI - PESCARA
Nelle foto: a sinistra, il Prof. Paolo Boncio (componente del CRUST-DiSPUTer) misura una dislocazione di quasi due metri, che si è sviluppata sul Monte Vettore durante il terremoto del 30 ottobre 2016. Adestra, la direttrice del CRUST Giusy Lavecchia durante un rilievo
università e centri specializzati. Dal punto di vista della didattica quali sono gli obiettivi di un Centro di così giovane istituzione? “Favorire iniziative di coordinamento per incrementare l’insegnamento della sismotettonica, della sismologia e della geologia dei terremoti nei corsi di laurea triennale e magistrale. L’attivazione, nelle nove sedi Universitarie, di tirocini curriculari cui possono accedere gli studenti iscritti preso gli Atenei consorziati. L’istituzione di dottorati tematici per iniziative di coordinamento tra i dottorati di ricerca in geologiastrutturale e sismologia, anche attraverso borse di studio e di ricerca su temi vincolati. Insomma, svolgere attività di alta formazione per preparare giovani studenti e ricercatori negli ambiti più avanzati della ricerca internazionale, cercando di favorirne l’inserimento nel mondo della ricerca e del lavoro”. Qual è la figura professionale che il CRUST intende creare? “Una nuova generazione di esperti in sismotettonica che sappiano coniugare geologia e geofisica nel settore dello studio dei terremoti e della mitigazione del rischio sismico e che possano assumere ruoli a vari livelli di responsabilità negli enti di ricerca, in quelli preposti alla tutela del territorio e della salute dei cittadini e nelle pubbliche amministrazioni. Va specificato, inoltre, che il CRUST non punta solo all’eccellenza delle attività di ricerca e all’alta formazione, ma anche a distinguersi nell’adempiere alla terza missione dell’Università, portando conoscenze e competenze agli enti preposti alla protezione civile, favorendo il trasferimento dei risultati della ricerca ad enti pubblici e privati e alle comunità professionali, divulgando contenuti di alta qualità sulle tematiche di propria competenza e contribuendo, in tal modo, a migliorare la consapevolezza delle popolazioni esposte a rischio sismico”. Rispetto ai terremoti che dalla fine di agosto hanno colpito il centro Italia e l’Abruzzo che tipo di attività e studi ha condotto e conduce il CRUST? “I ricercatori del CRUST sono stati i primi in Italia a fare rilevamenti geologici nelle zone colpite dalla sequenza sismica del Centro Italia. Ad oggi, alcuni di loro sono coinvolti in un progetto di collaborazione internazionale coordinato dall’INGV di Roma per la raccolta sistematica dei dati di fratturazione superficiale. Altri di noi hanno iniziato ad integrare dati geologici e sismologici con dati satellitari, che forniscono una immagine dal cielo della deformazione terreste causata dai terremoti. Il tutto al fine di comprendere la sorgente di questi eventi e la potenzialità sismogenetica delle faglie che li hanno rilasciati. I terremoti del 24 agosto, 26 e 30
settembre si sono tutti enucleati lungo l’allineamento di faglie Vettore-Gorzano, rompendone ampie porzioni a profondità di 8-10 km. Pensi che una nostra prima pubblicazione sulla sorgente del terremoto del 24 agosto, realizzata in collaborazione con ricercatori del CNR-IREA di Napoli, è stata già accettata per la stampa su una prestigiosa rivista americana. Cos’è la fagliazione di superficie? Con questa definizione si intende la propagazione della dislocazione co-sismica, quella all’origine del terremoto, dall’ipocentro lungo il piano di faglia preesistente, fino a raggiungere e dislocare la superficie terrestre. Per esempio, la faglia del Monte Vettore è particolarmente interessante perché rende ben visibili le rotture cosismiche superficiali causate, su una stessa porzione di faglia, dai terremoti del 24 agosto e del 30 settembre. La dimensione di queste fratture è relazionata all’energia rilasciata del terremoto, cioè alla sua magnitudo. Dopo l’evento di agosto abbiamo misurato dislocazioni tra i 10 e i 20 cm, sviluppate per una lunghezza di circa 6 km; dopo l’evento di fine ottobre dislocazioni con spostamenti tra fra i 20 e i 180 cm. sviluppate per circa 20 km. Come termine di paragone, consideri che le rotture di superficie dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980, non superavano i 180 cm e quelle del grande terremoto di Avezzano del 1915 erano ancora minori. Di sicuro gli eventi del 2016 sono stati accompagnati da manifestazioni di fagliazione di superficie fra le più importanti mai osservate nel nostro Paese, anche andando indietro nel tempo alle distruttive sequenze sismiche calabresi del XVIII secolo”. Con quali finanziamenti il CRUST svolge le ricerche? Questa è, al momento, una nota dolente. Tutti i ricercatori del CRUST hanno finanziamenti per specifici e propri progetti di ricerca. Il mio gruppo a Chieti, per esempio, riceve annualmente fondi alla ricerca da parte del DiSPUTer. Il CRUST, però, ha bisogno di finanziamenti propri, indispensabili per costruire la propria identità e realizzare gli ambiziosi progetti scientifici e didattici di cui le ho parlato. Pertanto presenteremo sicuramente progetti di ricerca per finanziamenti internazionali. Ma in Italia, chi potrebbe finanziarci? Chi potrebbe essere interessato ai prodotti della nostra ricerca? Il Dipartimento di Protezione Civile, le Regioni, le Banche, le associazioni onlus, i singoli cittadini, cioè tutti coloro che credono nella possibilità di un futuro migliore per il nostro Paese. Un futuro nel quale la prevenzione sismica non sia più solo un’utopia, ma una realtà, e dove, all’interno delle università italiane, ci sia spazio per i nostri migliori cervelli”.
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UNIVERSIVARIO
LA SCIENZA IN CAMPO Le bioscienze applicate in agricoltura sono indispensabili per raggiungere l’eccellenza dei prodotti della nostra terra come olio extravergine d’oliva e vino. Delle nuova frontiere e dei benefici sulla salute parla Carla Di Mattia ricercatore in scienze e tecnologie alimentari dell’Ateneo teramano
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a scoperta degli infiniti segreti dell’olio extra vergine d’oliva, uno dei prodotti più diffusi e pregiati delle nostre terre entusiasma i ricercatori dell’Università di Teramo che ha svolto studi a livello internazionale con risultati sorprendenti in campo sanitario e alimentare. E’ stato scientificamente provato, infatti, che l’olio extra vergine d’oliva è un valido presidio contro le malattie cardiovascolari e alcuni tipi di tumore. Ma sta destando enorme interesse il ruolo dell’oro verde nel combattere efficacemente patologie degenerative come l’Alzheimer. L’encomiabile lavoro delle sentinelle dei nostri cibi, dei detective della qualità dei vini, degli angeli custodi della produzione e trasformazione degli alimenti diventa per certi versi insostituibile. Dei progetti innovativi e dei benefici sulla salute parliamo con la dottoressa Carla Di Mattia, ricercatore in Scienze e Tecnologie Alimentari, componente dell’unità di Tecnologie Alimentari della Facoltà di Bioscienze e Tecnologie Agro-Alimentari e Ambientali dell’Ateneo teramano. La Facoltà di Bioscienze e Tecnologie Agro-Alimentari e Ambientali è una bella realtà. Quali gli obiettivi? «La Facoltà ha un’offerta formativa che si caratterizza per i seguenti corsi di laurea: Scienze e Tecnologie Alimentari, Viticoltura ed Enologia, e un corso di Biotecnologie interfacoltà con Medicina Veterinaria. Per Scienze e Tecnologie Alimentari c’è anche il percorso di laurea magistrale internazionale, Food Science and Technology. I diversi corsi di laurea quindi, rispondendo a una esigenza del territorio, hanno come obiettivo la formazione di figure professionali dal bagaglio culturale multidisciplinare che si inseriscono nel mondo della trasformazione degli alimenti, della viticoltura ed enologia e delle biotecnologie. Il corso di Scienze e Tecnologie Alimentari si propone di sviluppare una solida formazione teorico-pratica attraverso un approccio che prevede la costruzione - su una base di competenze matematiche, fisiche, chimiche e biochimiche di un approfondimento dei sistemi complessi rappresentati dagli alimenti attraverso lo studio della microbiologia, delle tecnologie e dei processi dell’industria alimentare. Il percorso è completato dalla conoscenza dei metodi per il controllo chimico e microbiologico degli alimenti e degli strumenti di gestione e marketing dell’impresa agroalimentare. Il laureato in Viticoltura ed Enologia interagisce con l’intera filiera vitivinicola, dalla produzione primaria alla fase produttiva, 40
fino al controllo qualità e sicurezza dei vini. Anche il corso di laurea in Biotecnologie si propone di sviluppare una solida formazione teorico-pratica attraverso un approccio multidisciplinare, che prevede un progressivo e parallelo approfondimento di tre principali linee tematiche - biomolecole, cellule e microrganismi - da spendere in diversi ambiti. Le materie di insegnamento spaziano quindi dalle discipline di base (matematica, fisica, chimica) a quelle caratterizzanti per ciascuna figura professional». Gli studi sull’olio d’oliva cosa hanno dimostrato? «Il nostro gruppo di ricerca sta studiando da diversi anni le proprietà tecnologiche dell’olio extra vergine di oliva al fine di implementarne l’utilizzo per lo sviluppo di formulazioni alimentari complesse. L’olio di oliva rappresenta infatti un prodotto molto importante nelle produzioni agro-alimentari italiane e, oltre ad essere impiegato come condimento, sta trovando utilizzo nella preparazione di prodotti alimentari trasformati. Tuttavia il suo impiego in formulati emulsionati pone alcune importanti problematiche di carattere tecnologico, a causa della difficoltà di disperdere tale ingrediente e formare sistemi stabili nel tempo. Tale difficoltà è legata alla complessa composizione dell’olio di oliva e al ricco corredo di composti minori, fra cui le molecole fenoliche, che possono interferire con la formazione e stabilizzazione fisica e chimica della struttura emulsionata. Le molecole fenoliche, infatti, presentando una struttura chimica a carattere anfifilico, possono localizzarsi all’interfaccia di separazione olio/acqua e interferire con la formazione e stabilizzazione della struttura emulsionata, modificando anche la loro efficacia protettiva nei confronti dei fenomeni di ossidazione. Ed è stata proprio l’efficacia protettiva degli antiossidanti fenolici in sistemi modello uno dei primi argomenti ad essere approfonditi dal nostro gruppo grazie a un finanziamento ottenuto nel 2012 dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca scientifica, attraverso il bando FIRB - Futuro in Ricerca di Base - programma di ricerca altamente selettivo destinato a giovani ricercatori su tematiche di ricerca di base. Il progetto, presentato dall’Università di Teramo in qualità di capofila, si è concluso nel marzo di quest’anno e ha previsto l’applicazione di un approccio integrato e complementare nonché l’utilizzo di metodologie innovative che hanno consentito una visione globale della problematica. Contestualmente ai sistemi modello sono stati studiati anche sistemi reali grazie al supporto di una borsa di dottorato finanziata dalla Fondazione
ATENEO DI TERAMO
Nelle foto: a sinistra, Carla Di Mattia , ricercatrice dell’Università di Teramo; a lato, oliveti in Abruzzo
Tercas: in questo caso è stato valutato l’effetto del contenuto e profilo dei composti minori con particolare attenzione verso i composti antiossidanti fenolici, su salse ad alto contenuto lipidico tipo maionese e su sistemi gel ottenuti attraverso la gelificazione dell’olio extra-vergine di oliva. Quest’ultima parte del lavoro è stata condotta in collaborazione con una università canadese, University of Guelph. I risultati, oltre a implementare le attuali conoscenze di base sui meccanismi di ossidazione di molecole fenoliche in emulsione e sulle loro proprietà tecnologiche, hanno fornito informazioni pratiche utili per favorire l’utilizzo innovativo di olio di oliva in matrici alimentari emulsionate e gelificate». Quali altri progetti avete realizzato o state elaborando? Possono beneficiare di questi studi anche le aziende alimentari? «Le unità di ricerca di Tecnologie Alimentari e di Economia della Facoltà di Bioscienze dell’Università di Teramo hanno appena ricevuto un finanziamento nell’ambito dei bandi Olio & Olivo promosso da Ager- Agroalimentare e Ricercarete di Fondazioni di origine bancaria unite per promuovere e sostenere la ricerca scientifica nell’agroalimentare italiano. Il progetto “Sustainability of the Olive-oil System – S.O.S.”, è coordinato a livello nazionale dall’Università di Bari e vede nel partenariato la presenza, oltre che di Teramo e Bari, anche dell’Università di Milano, l’Università Mediterranea di Reggio Calabria e le Università di Sassari e Parma. Il progetto di durata triennale prevede numerose linee di ricerca: analisi del potenziale produttivo, quali-quantitativo, di specifiche varietà minori presenti in Puglia, Calabria e Abruzzo; miglioramento della qualità e delle rese in fase estrattiva mediante l’utilizzo di tecnologie verdi, a basso impatto per la salute e l’ambiente; ricerca di nuove soluzioni di confezionamento per preservare al meglio la qualità dell’olio, migliorare l’impatto ambientale del packaging, tenendo in considerazione la funzione d’uso del consumatore. La nostra unità di ricerca partecipa in maniera attiva sia alla caratterizzazione delle cultivar abruzzesi poco studiate, sia alla valorizzazione dei sottoprodotti della lavorazione per estrarre e stabilizzare i composti fenolici recuperati mediante l’applicazione di tecnologie di incapsulamento. Si studieranno inoltre nuove tecniche analitiche per monitorare la maturazione delle olive in campo e valutare la qualità dell’olio, grazie anche alla realizzazione di prototipi low-cost per eseguire analisi direttamente negli oliveti e al frantoio. Il progetto prevede infine una serie di iniziative orientate al consumatore per diffon-
dere la cultura dell’olio e quindi promuoverne il consumo. Le possibili ricadute applicative derivanti dai risultati di questo progetto sono numerose, come testimoniato anche dalle espressioni di interesse ricevute da parte di aziende alimentari e che sicuramente hanno contribuito a una valutazione positiva del progetto da parte dei revisori». L’olio extra vergine d’oliva fa bene al nostro organismo? Quali proprietà possiede? Quali organi ne beneficiano maggiormente? «L’olio extra vergine di oliva è considerato una matrice lipidica con molteplici proprietà benefiche per la nostra salute per via della presenza di molecole bioattive con funzionalità antiossidante; questa affermazione è supportata da una vasta letteratura scientifica con studi in vitro e in vivo. L’effetto protettivo sembra espletarsi principalmente verso le malattie cardiovascolari e verso alcune tipologie di tumore. Ultimamente si sta approfondendo il ruolo dei composti fenolici dell’olio extra vergine verso alcune patologie degenerative come l’Alzheimer. Importante tuttavia seguire una corretta alimentazione bilanciando i nutrienti e variando molto le fonti. In generale penso sia sbagliato assumere la posizione che i prodotti alimentari industriali siano pericolosi mentre i prodotti del contadino o genuini siano il bene assoluto in ogni circostanza; purtroppo, in passato, si sono avuti casi critici per la sicurezza del consumatore in entrambe le categorie di prodotto. Il concetto di genuino, buono e innocuo, spesso si associa a quello di “naturale” ma non sempre è così banale. In natura ci sono diverse sostanze da evitare o che possono essere tossiche e pericolose, soprattutto a seconda della dose in cui si assumono, concetto definito già da Paracelso (14931541). In generale, una attenta lettura dell’etichetta è sicuramente un ottimo mezzo per orientarci sull’acquisto consapevole; se di fronte a un prodotto che solitamente è ottenuto a partire da poche materie prime ci troviamo un lungo elenco di ingredienti e la presenza di svariati additivi, certamente dobbiamo avere un approccio critico e arrivare a stabilire se ci sta bene acquistarlo e, di conseguenza, consumarlo. Un esempio possono essere tutti i prodotti light a basso contenuto in grassi o zuccheri, molto richiesti dai consumatori: è chiaro che per mantenere le stesse caratteristiche sensoriali in termini di cremosità e spalmabilità, ad esempio, l’industria si trova a dover utilizzare strategie di processo e/o di formulazione che garantiscano l’ottenimento del risultato desiderato a discapito di una etichetta pulita». Francesco Di Salvatore 41
UNIVERSIVARIO
BIOTECNOLOGIE D’AVANGUARDIA L’Università dell’Aquila è nota in molti Paesi europei, asiatici, americani, sudafricani e australiani per le ricerche sulle patologie dello scheletro svolte dal laboratorio diretto da Anna Maria Teti di Francesco Di Salvatore
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’Università dell’Aquila alla ribalta internazionale. Tra le sue principali risorse figura il Dipartimento di Scienze cliniche applicate e biotecnologiche, fiore all’occhiello che dà lustro e prestigio all’ateneo abruzzese in Italia e nel mondo. Il Dipartimento si occupa di aspetti scientifici correlati con varie malattie tra cui le patologie dello scheletro come l’osteoporosi, i tumori ossei e una insidiosa malattia genetica, l’osteopetrosi. Si deve, ad esempio, al costante impegno e all’alta professionalità di dirigenti, docenti e ricercatori la scoperta di una cura per combattere una forma di osteopetrosi, patologia caratterizzata dalla formazione in eccesso dell’osso che diventa più fragile e quindi soggetto a fratture multiple e ripetute. Dell’attività del Dipartimento, della ricerca, dello sviluppo, delle risorse finanziarie, dell’innovazione e della formazione parliamo con la dottoressa Anna Maria Teti, Professore Ordinario di Istologia presso il Dipartimento di Scienze cliniche applicate e biotecnologiche, docente del corso di laurea in Biotecnologie. Qual è il campo d’azione del Dipartimento? Di cosa si occupa? Quali sono gli obiettivi? Il Dipartimento si occupa di numerose discipline biomediche, biotecnologiche e chirurgiche. Il mio gruppo di ricerca si occupa di patologie dello scheletro, in particolare dell’osteoporosi, dei tumori ossei e di una malattia genetica nota con il nome di osteopetrosi. Gli obiettivi sono di identificare i meccanismi alla base di queste malattie allo scopo di migliorare le conoscenze ed applicare cure innovative. Inoltre studiamo le modalità mediante le quali lo scheletro interagisce con il resto del nostro organismo, allo scopo di comprendere le influenze reciproche ed intervenire farmacologicamente quando queste sono alterate. Lo scheletro infatti regola la funzione di altri organi, quali il rene, il tessuto adiposo e il pancreas, e funziona come una ghiandola che rilascia ormoni che agiscono a distanza su vari apparati e sul sistema nervoso. 42
Quali le scoperte più interessanti? Pronte nuove cure? I nostri studi ci hanno consentito di identificare importanti meccanismi che inducono le fratture nei soggetti osteoporotici, la cosiddetta “dormienza” di cellule tumorali nell’osso che le rende inattive per molto tempo prima di emergere in un tumore conclamato, e l’insorgenza di una forma di osteopetrosi che colpisce i ragazzi e gli adulti. I risultati sono di estrema importanza perché attraverso queste conoscenze possiamo identificare nuove cure. Per esempio, abbiamo trovato una cura per la suddetta forma di osteopetrosi, la quale ha un’elevata probabilità di essere sviluppata per l’uomo. Gli esperimenti svolti nel nostro laboratorio hanno chiaramente dimostrato la sua efficacia, tanto è vero che abbiamo depositato una domanda di brevetto. In questo momento siamo in trattative con industrie per proseguire gli studi sino a rendere la cura disponibile per le persone malate. Se riusciremo in questo intento avremo identificato la prima terapia in assoluto per questa forma di osteopetrosi, alleviando le sofferenze dei pazienti che, nel corso della loro vita, possono fratturarsi decine di volte. Può considerarsi una novità il Dipartimento, un’eccellenza nel panorama universitario italiano? Riteniamo che gli studi condotti dal nostro gruppo di ricerca siano all’altezza di quelli svolti non solo nelle migliori università italiane ma anche di molte università e centri di ricerca stranieri. Grazie alle nostre ricerche l’Università dell’Aquila è nota in molti Paesi europei, asiatici, americani, sudafricani e australiani. Abbiamo collaborazioni con vari laboratori prestigiosi e partecipiamo a studi internazionali che coinvolgono gruppi di ricerca dislocati in tutti i continenti. L’eccellenza è evidenziata anche dall’acquisizione di finanziamenti provenienti dalla commissione europea, da istituzioni ministeriali e da Onlus prestigiose, quali Telethon e Airc.
ATENEO DELL’ AQUILA
Nelle foto: a sinistra, Anna Maria Teti, Professore Ordinario di Istologia presso il Dipartimento di Scienze cliniche applicate e biotecnologiche, docente del corso di laurea in Biotecnologie. dell’Università dell’Aquila; Sopra, un laboratorio del Dipartimento–
Avete a disposizione mezzi e risorse sufficienti per centrare gli obiettivi? I finanziamenti che ricevete dalle istituzioni sono adeguati per il lavoro che il Dipartimento deve svolgere? Il nostro gruppo di ricerca è ben finanziato, anche se i soldi non bastano mai. Non si può però non sottolineare quanto sia difficile ottenere finanziamenti, motivo per cui molti gruppi di ricerca falliscono. I finanziamenti non sono certo sufficienti per svolgere il nostro lavoro ad un livello competitivo con altre università italiane e straniere. Le istituzioni fanno quello che possono ma i ministeri non mettono a disposizione cifre adeguate. In tutti i Paesi del mondo il ricercatore ha il dovere di trovare i finanziamenti per svolgere la propria ricerca. Purtroppo però non tutti i laboratori eseguono studi sufficientemente competitivi e per essi ottenere finanziamenti diventa estremamente difficile. C’è carenza di personale tra docenti, tecnici e amministrativi? Conosco bene la situazione fra i docenti e certamente vi è carenza, soprattutto in un contesto in cui molti di essi hanno raggiunto o stanno raggiungendo l’età della pensione. Mancano soprattutto giovani e promettenti ricercatori, ma la nuova legge che governa l’Università ha certamente dato un impulso alle assunzioni di giovani bravi e motivati. Speriamo di coglierne i frutti in un futuro non lontano. Come rispondono gli studenti? Il numero degli iscritti è aumentato o diminuito negli ultimi anni? Qual è il trend? Superata la crisi post terremoto se crisi c’è stata? Il numero degli studenti sembra essersi stabilizzato. L’ateneo aquilano non è mai stato davvero in crisi avendo mantenuto un numero elevato di studenti anche dopo il sisma. Però questo elevato numero andava a scapito della qualità degli insegnamenti essendo le risorse umane e materiali non adeguate all’accoglienza di così tanti studenti. La scelta fatta recentemente dagli organi accademici di
introdurre test di ammissione per i corsi più affollati ha certamente portato un grande beneficio. Abbiamo meno studenti ma sono molto più motivati e noi possiamo offrire loro più risorse che in passato, migliorando notevolmente la qualità degli insegnamenti ed il loro rendimento agli esami. Quali gli sbocchi occupazionali per chi consegue la laurea? In un mondo che va verso la tecnologia estrema le opportunità di lavoro miglioreranno se gli studenti conseguiranno la laurea con profitto. Le potenzialità ci sono ma essi devono impegnarsi a fondo per raggiungere i livelli richiesti da questa rapida evoluzione tecnologica e dalla competizione che diventa sempre più globale. Quali caratteristiche e quale tipo di preparazione devono possedere gli studenti che intendono intraprendere questo indirizzo universitario? Previsto il numero chiuso per l’iscrizione? Il numero chiuso è già istituito per molti corsi di laurea con un enorme beneficio per gli iscritti in termini di qualità. Gli studenti dovrebbero giungere agli studi universitari con un’adeguata preparazione impartita dalla scuola superiore. Il consiglio da dare a coloro che vogliono iscriversi all’università è di impegnarsi molto per raggiungere una preparazione ottima ed ottenere la maturità con voti alti. Più impegno scolastico si tradurrà in una maggiore efficacia degli studi universitari e in una maggiore facilità nel conseguimento della laurea. Gli iscritti sono prevalentemente abruzzesi o provengono anche da fuori regione o dall’estero? Provengono prevalentemente dall’Abruzzo ma anche da altre regioni, quali Molise, Puglia, Campania, Umbria, Marche e Lazio. Gli edifici che vi ospitano dopo il terremoto dell’aprile 2009 sono antisismici? I nostri edifici hanno retto abbastanza bene al sisma ed i danni sono stati riparati. 43
ISTITUTO ZOOPROFILATTICO DI TERAMO
RICERCA SENZA FRONTIERE L’Istituto diretto da Mauro Mattioli all’avanguardia della ricerca veterinaria nel mondo e punto di riferimento per la Cee, la Fao e la Bill Gates Foundation di Francesco Di Salvatore
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inomio vincente. Sinergia perfetta. Alleanza strategica. La Bill Gates Foundation chiama dagli Stati Uniti d’America e l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Abruzzo e Molise risponde. Oltre alla Comunità Europea, al nostro ministero della Salute e a organizzazioni internazionali come la Fao, c’è anche la più grande fondazione del mondo creata nel gennaio del 2000 dal magnate americano e da sua moglie Melinda French tra quanti finanziano progetti in Africa per lo studio delle patologie degli animali affidandosi alle tecniche e alle competenze dell’Istituto teramano. Una collaborazione internazionale intensa e proficua, ma anche reciproca, nel segno della ricerca scientifica, della formazione professionale, del sostegno sanitario nel settore veterinario finalizzata alla scoperta e allo studio di malattie esotiche, alla crescita economica, alla sicurezza alimentare, al benessere sociale, alla gestione dei sistemi informativi nelle popolazioni dei Paesi nel sud del mondo. Una cooperazione all’avanguardia avviata da oltre vent’anni con risultati lusinghieri (e altri da ottenere ad esempio nel settore della biodiversità) in diverse aree emergenti dell’Africa alle quali l’Italia, attraverso appunto l’Istituto Zooprofilattico di Teramo, mette a disposizione, su richiesta dei singoli Stati e nei loro territori, conoscenze tecnicoscientifiche e risorse umane per diagnosticare, controllare e debellare patologie negli animali. Se si riuscisse, infatti, a evitare il diffondersi di queste malattie in un mondo sempre più globalizzato avremmo effetti positivi anche in Italia e in altre parti del pianeta per quanto riguarda la salute umana, l’industria e il commercio delle carni. Tutto ruota attorno alla tenacia e all’elevata professionalità dei dirigenti e del personale dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Abruzzo e del Molise “Giuseppe Caporale” che ha sede a Teramo, una delle eccellenze della nostra sanità, un autentico fiore all’occhiello nel campo della ricerca e della profilassi a livello nazionale, che annovera tra i suoi compiti istituzionali molteplici attività in numerosi settori. Alla guida dell’Istituto c’è il prof. Mauro Mattioli, già rettore dell’Università degli Studi di Teramo, una vera e propria garanzia per quanto riguarda competenze specifiche ed esperienza professionale. Tra i suoi più stretti collaboratori il dott. Massimo Scacchia, dirigente, veterinario di lungo corso, conoscenze allargate con eccellente militanza sul
Nella foto in alto, il direttore Mauro Mattioli in missione in Africa
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campo avendo guidato a più riprese laboratori dell’Istituto in alcuni Paesi africani. «Dall’inizio degli anni ’90 l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale - sostiene il direttore generale Mauro Mattioli - è impegnato a instaurare collaborazioni scientifiche internazionali durature con Paesi in via di sviluppo. L’Africa, l’America Latina e l’Europa dell’Est rappresentano le aree a cui il nostro Istituto ha dedicato i suoi interventi con impegno di risorse umane, finanziarie e strumentali. Abbiamo messo a disposizione dei servizi sanitari di questi Paesi le nostre competenze scientifiche e tecniche nei diversi settori della sanità e benessere animale, della sicurezza alimentare, dell’epidemiologia e della gestione delle tecnologie informatiche. La cooperazione internazionale è stata interpretata dall’Istituto come una collaborazione da cui Italia e Paesi partner debbano poter trarre reciproco beneficio. L’Africa, in particolare il bacino del Mediterraneo, e l’Africa sub-sahariana rappresentano le aree geopolitiche dove abbiamo focalizzato la nostra attività internazionale essendo stato il nostro Istituto riconosciuto nel 1991 dal Ministero della Salute, Centro di Referenza Nazionale per lo studio e l’accertamento delle malattie esotiche degli animali, cioè di quelle malattie che non sono presenti sul territorio nazionale. Conoscere queste patologie, saperle controllare ed eradicare permette di tutelare l’industria zootecnica italiana e soprattutto, essendo alcune di queste malattie zoonosi, la salute degli italiani. Abbiamo realizzato laboratori in Africa dando vita a una specie di prolungamento dell’attività dell’Istituto in quelle aree dove lavora permanentemente nostro personale. La finalità è imparare a conoscere malattie infettive per essere pronti a contrastarle prima che si diffondano in Paesi in cui le patologie sono sconosciute e quindi in grado di causare danni notevoli». Non si tratta più in sostanza di interventi economici disordinati come avveniva nel passato ma di una cooperazione paritaria con reciproca crescita tecnicoscientifica. Un do ut des sul quale elaborare programmi sanitari e socio-economici. Da una parte l’Africa consente allo Zooprofilattico di approfondire e migliorare le proprie conoscenze sulle malattie esotiche, dall’altra l’Istituto fornisce apporto con la formazione e il trasferimento di
conoscenze ai laboratori veterinari africani. «Si tenga conto - osserva il direttore Mattioli - che il trasferimento di conoscenze riguardanti tecniche diagnostiche per una migliore comprensione e definizione delle patologie animali risponde alla necessità di salvaguardare, sanitariamente, le risorse zootecniche locali con conseguente miglioramento delle loro capacità. Tutto ciò ha la naturale conseguenza di migliorare la sicurezza alimentare garantendo l’ottimale livello di proteine nella dieta delle popolazioni locali, il loro livello economico e la salubrità degli alimenti di origine animale. Uno sviluppo sostenibile che renda l’Africa progressivamente autonoma è raggiungibile anche attraverso una futura esportazione verso il Nord del mondo sia di animali sia di alimenti da loro originati. Per poter assicurare ciò i Paesi africani necessitano però di quelle conoscenze e competenze che l’Italia possiede e che solo in parte sta fornendo». C’è poi la questione, tutt’altro che marginale, dell’anagrafe degli animali, ovvero del controllo e della gestione dei grandi numeri, un mega reparto di informatica nella sede di Teramo. «Uno strumento molto importante - evidenzia il direttore Mattioli - in continuo aggiornamento che viene implementato ogni mese. Un sistema informativo utilissimo al quale si appoggiano anche diversi Paesi africani. Una rete ampia cui attingere informazioni sanitarie in tempo reale». Il dott. Massimo Scacchia, medico veterinario, è uno degli artefici del progetto di cooperazione avendo guidato in Africa a più riprese i laboratori dell’Istituto Zooprofilattico di Teramo. «Una missione scientifica di alto profilo - afferma il dott. Scacchia - finanziata dalla Comunità europea, dal ministero della Salute, dalla Fao, dai governi africani, dalla fondazione Bill Gates nell’ottica dello sviluppo dei Paesi del sud del mondo. Va tenuto presente, infatti, che l’allevamento di bestiame rappresenta la principale fonte di guadagno delle popolazioni africane e si capisce facilmente quanto sia importante diagnosticare, curare e debellare le malattie degli animali. Da sottolineare la disponibilità e la collaborazione offerte dai colleghi africani, validi professionisti, per realizzare i progetti. Nessun atteggiamento coloniale ma vantaggi reciproci in un rapporto di grande fiducia che si è consolidato in venti anni. Non è un caso se l’Europa investe 24 milioni di euro per la zootecnica e i Paesi africani scelgono proprio noi come partner collaudato. A gennaio
la Comunità Europea dovrebbe impiegare in questo settore un’altra somma rilevante e la Namibia ci ha già chiamato in causa. Ci riempie d’orgoglio meritare la fiducia direttamente dalla Fondazione Bill Gates che ha chiesto la nostra collaborazione in Zambia e Kenia, sentiti i governi di quei Paesi, per il controllo di determinate malattie e lo studio di antibiotici particolari e vaccini innovativi. L’obiettivo è combattere la pleuro-polmonite contagiosa bovina, patologia molto grave che può causare morte o notevole dimagrimento dell’animale con conseguenze negative per l’alimentazione della popolazione che verrebbe privata di proteine insostituibili. La zootecnica in Africa ha, tradizionalmente, lo stesso valore dei soldi in banca per noi. Non abbiamo la velleità di trasformare la realtà in Africa ma siamo orgogliosi di aver creato validi ambiti operativi. Tra l’altro, stiamo lavorando su un vaccino contro la peste equina, gravissima malattia, a rischio d’introduzione nel nostro Paese, utilizzando le strutture del Laboratorio Veterinario Nazionale Namibiano». Intanto il campo d’azione s’allarga: dal Sudafrica arriva la richiesta di collaborare sul benessere di coccodrilli, rinoceronti elefanti, leoni, etc.. Altra sfida da intraprendere per l’Istituto. Ma il futuro è caratterizzato dagli studi sulla biodiversità presente nel continente africano. Le numerose specie di animali consentono infatti di avere a disposizione soluzioni genetiche ideali per una vasta gamma di patologie. «La biodiversità ha un grande valore - asserisce il professor Mattioli - e il lavoro va decisamente approfondito. Alcuni animali, ad esempio, non sono affetti da forme tumorali. Gli studi su di loro ci potrebbero consentire di isolare il gene per curare malattie. Ogni tipologia di animale ha un messaggio non ancora decodificato che potrebbe essere di notevole valore. Nella biodiversità di queste zone esiste in sostanza un immenso bacino informativo che darà lavoro per anni a noi e a tanti altri colleghi». Un pensiero a latere va all’economia della nostra regione. «L’imprenditoria abruzzese - suggerisce il dott. Scacchia potrebbe utilizzare le vie che abbiamo aperto in Africa per attivare collaborazioni economiche. Un’opportunità che può cogliere anche il Molise». D’altronde sanità ed economia vanno spesso a braccetto. O no? 45
FIRA FINANZIARIA REGIONALE ABRUZZESE
HUB PER LO SVILUPPO Un luogo di incontro per chi si muove, lavora, progetta. Un luogo ospitale e confortevole, facile da raggiungere e ideale per partire localizzato nel fulcro della regione e al centro della città
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a Fira station situata all'interno della stazione centrale di Pescara è a disposizione del territorio e delle sue componenti produttive. Un punto di aggregazione utile per lo svolgimento delle attività professionali e imprenditoriali. «Consentire alle imprese di entrare nel mercato con le loro idee e produrre lavoro e utili - spiega Alessandro Felizzi, presidente della Finanziaria regionale abruzzese - è il nostro principale obiettivo. Fin dall'inizio abbiamo capito che questa struttura non poteva rimanere inutilizzata, e andava sviluppata. perché ne ha le potenzialità sia per la dotazione tecnologica, che è di altissimo livello, sia per la felicità della sua ubicazione: in pieno centro e nel cuore del principale snodo delle comunicazioni locali. Mi sono subito reso conto, dopo il mio insediamento, che era sottoutilizzata, e non poteva rimanere ad uso esclusivo delle startup, malgrado una comunicazione parziale, che passava appunto questo messaggio. L'obiettivo sarà quindi far conoscere ai settori dell'economia che c'è questa struttura, che può essere un importante punto di raccordo per le giovani professioni e non solo per l'impresa che fa innovazione ma anche per le organizzazioni produttive, come quelle sindacali di categoria, che siano degli imprenditori o dei lavoratori; un luogo aggregante per le università, per gli enti locali, insomma un luogo che deve respirare molto più di quanto fatto fino ad oggi. La struttura è sorta inizialmente al servizio delle startup 46
nate con i fondi comunitari e della Regione. Oggi grazie anche ad una politica che questo cda ha messo in atto, di riduzione delle tariffe di utilizzo, gli spazi vedono un accesso molto più numeroso. L’intento è adesso quello di unire a questa politica una comunicazione efficace sull’utilizzo e l’utilità della struttura per la sua capacità di abbattere le barriere tra le professioni favorendo l'interconnessione. Il mondo della giovane impresa è cambiato radicalmente e strutture come la Fira si devono adeguare in fretta. Che ci possa essere l'integrazione professionale, che alla base presenta anche la specializzazione del professionista, è una cosa che in altre latitudini è ampiamente accettata e gradita, qui da noi è un po' diverso però i giovani si prospettano all'interno della professione con questo obiettivo. Ce l'hanno nel sangue questo tipo di idea e noi dobbiamo assecondarli. Lo stare insieme all'interno di uno spazio di coworking può significare stringere accordi commerciali, partnership, sviluppare prodotti comuni, trovare delle intese e quindi creare sviluppo e innovazione. Questi sono gli obiettivi principali. Quando pensiamo alle giovani professioni dobbiamo pensare a un rapporto collaborativo e quella può essere una situazione aggregante: per le piccole imprese quello è un luogo che permette sinergia e sviluppo e quindi consente di fare conto economico. Una sorta di culla del servizio professionale e imprenditoriale dove possono nascere le idee, le sinergie, le professionalità e quindi può essere un luogo a cui rivolgersi tout court. Sta
RIBALTA MUSICA
RIBALTA TEATRO
Nelle foto: in alto la sede della Fira station all’interno della stazione ferroviaria di Pescara centrale. In basso a sinistra, il presidente Fira Alessandro Felizzi
ora a noi far passare questo messaggio e porre quel luogo a servizio del territorio». Come si collega quest'iniziativa alla mission Fira? «Io sono un commercialista - dice Felizzi - vengo dal mondo della libera professione e sono abituato alla concretezza del vivere quotidiano, a pormi dei problemi e a cercarne le soluzioni. Il mio intimo desiderio e di fare di questa società una società del fare, non deve essere più una specie di cartiera della Regione Abruzzo, un banale strumento di rendicontazione. Ha delle professionalità interne che se sfruttate in questo senso creano una diseconomia, ossia una mancata opportunità per la Regione e per il territorio. Deve porsi quindi come società in grado di intraprendere iniziative, farsi collegamento tra il mondo produttivo e la Regione Abruzzo, utilizzando il sistema delle banche in termini assolutamente fisiologici e utilitaristici ottimizzando questo rapporto. Quest'iniziativa va in questa direzione. Se dovesse rimanere una specie di agenzia della Regione allora non serve un cda, non servo io. Qui dobbiamo fornire un servizio: abbiamo le professionalità interne in grado di farlo e dove non le abbiamo possiamo coglierle all'esterno. In questo senso il bando Start Up, Start Hope è stata una scuola per tutti quelli che lavorano in questa struttura: li ha formati, ha creato collegamenti con il mondo delle professioni, con i consulenti anche apicali di società importanti e in materia di contrattualistica questa società ha raggiunto una consapevolezza che forse prima non aveva. Tutto questo deve essere posto al servizio del territorio e deve costituire la base per un nuovo corso della Fira. Nell'ambito del panorama delle finanziarie nazionali la Fira è probabilmente la realtà più piccola in assoluto, più piccola anche di quella del Molise che gestisce un fondo proprio. La prospettiva è quella di ottenere l’iscrizione all’albo degli intermediari vigilato da Banca d’Italia e su questo stiamo lavorando tantissimo, poi dovremo strutturare la Società. Anche qui la cosa più semplice per un amministratore sarebbe stilare un progetto e andare dalla Regione a dire " mi servono 10 milioni di euro".
Attraverso un’analisi puntuale dei fondi a disposizione di Fira, in questi mesi abbiamo reclutato risorse per circa 7 milioni. Quattro milioni costituiranno per la prima volta nella storia di questa società un fondo proprio, tre sono a valere sulla vecchia legge 55. Fondi ancora disponibili e che potrebbero dare impulso ad un nuovo bando di sviluppo per gli investimenti. Il mandato è quindi insito nella mia voglia di lavorare per far sì che venga superato il concetto di carrozzone. Certo, non mi è stato comunicato né formalmente né informalmente, ma ho avuto la netta percezione che questo fosse l'intento del presidente e del vice presidente della Regione Abruzzo«». Uno dei problemi della Regione Abruzzo, ma più in generale dell'Italia, è la scarsa capacità di utilizzo dei fondi comunitari. La Fira potrebbe diventare un'interfaccia tra l'imprenditore e la Comunità Europea? «Certamente, anzi dovrà diventare advisor proprio in operazioni di questo tipo: deve diventare il punto di riferimento dell'imprenditore che vuole sviluppare o investire su questa regione per capire quali sono le opportunità da cogliere, sia in termini di fondi strutturali provenienti dalla Comunità Europea o dalla Regione che in termini di consulenza su come utilizzarli. E dirò di più: la Fira che io vorrei contribuire a creare dovrebbe essere un organismo autonomo in grado di finanziare questi progetti. Ricapitolando: dovremmo essere capaci di rispondere all'imprenditore su quale sia lo strumento migliore per l'investimento e per l'innovazione, mi riferisco anche a imprenditori esterni; il mio massimo grado di soddisfazione lo avrò quando un imprenditore non abruzzese si rivolgerà a noi per un suo progetto di investimento in questa regione. Questo significherà che abbiamo trasformato la Fira in una autentica società di consulenza e poi dotarsi di un fondo proprio per diventare di supporto anche finanziario alle imprese. Mi rendo conto che si tratta di un percorso ambizioso, ma è ciò che serve».
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PASTIFICIO DE CECCO
130 ANNI SEMPRE AL DENTE La contadinella con i covoni di grano continuerà a viaggiare, raffigurata oltre che sulle confezioni della pasta più apprezzata al mondo, anche sui francobolli di Poste Italiane
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utto in un’immagine e in una manciata di parole: la contadinella con i covoni di gravo e la scritta “De Cecco 130 anni”. Per raccontare una vicenda di successo come poche altre, la propria, il celebre pastificio abruzzese ha scelto un francobollo. O meglio, un simbolo con diversi significati. Il francobollo unisce posti lontani e i prodotti De Cecco partono dalla nostra regione per il mondo intero. Il francobollo, grazie alla straordinaria passione dei collezionisti, è storia. E la De Cecco, festeggiando le 130 candeline, di storia ne ha scritta tanta. Il francobollo costa poco - 0,95 euro - e poco costa anche la pasta, malgrado sia un alimento sano e buono come pochi altri. Si potrebbe continuare a lungo perché l’abbinamento tra la De Cecco e il francobollo, sancito da un’emissione del Ministero dello Sviluppo economico (Mise), è tra i più riusciti in senso assoluto. Il tutto per la massima soddisfazione della Cba, l’agenzia milanese che ne ha curato il design. Venerdì 18 novembre, nella fascinosa location dell’Aurum, proprio nel cuore della pineta Dannunziana a Pescara, il presidente dell’azienda Filippo Antonio De Cecco, il vice direttore generale di Poste Italiane, Pasquale Marchese, e il Responsabile nazionale filatelia di Poste Italiane, Pietro La Bruna, hanno annullato la prima cartolina affrancata con il bollo De Cecco. E’ stato il momento clou di una festa cominciata un’ora prima e che ha fatto registrare la coinvolgente ed emozionante esibizione del Volo oltre al pranzo curato da Heinz Beck, chef pluristellato tra i più amati in circolazione. Sul palco, per la prima fase dell’evento ideato da Marco Camplone, direttore Relazioni esterne del Gruppo De Cecco, e presentato dalla giornalista Mila Cantagallo,
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si sono succeduti il presidente del celebre pastificio, Filippo Antonio De Cecco, i rettori Giuseppe Paolone (Università Pegaso) e Luciano D’Amico (Università di Teramo). E, poi, Giuseppe Oriana, presidente del gruppo tecnico dei Servizi associativi di Confindustria, Pasquale Marchese, l’onorevole Nicodemo Oliverio, capogruppo del Pd alla Commissione agricoltura della Camera dei deputati, il sindaco di Pescara Marco Alessandrini e il governatore d’Abruzzo Luciano D’Alfonso. In prima fila, e non poteva essere altrimenti, c’erano gli amministratori delegati Giuseppe Aristide e Saturnino De Cecco. Particolarmente significative sono state le parole pronunciate dal presidente dell’azienda. «La De Cecco, ribadendo giorno dopo giorno la vision aziendale del perseguimento dell’alta qualità dei propri prodotti e della costante crescita, ha avuto la forza di raggiungere importanti obiettivi imprenditoriali in termini di volumi, fatturato e vendite. Così facendo, ha influito positivamente sull’evoluzione del proprio territorio e nella diffusione, a tutti i livelli, della cultura del cibo italiano di qualità superiore. Dal 1886 c’è stata un’ascesa costante anno dopo anno di cui essere orgogliosi e che ci ha portati a diventare il terzo produttore pastaio per volumi nel mondo e primo nel settore delle paste di qualità. Esportiamo in 120 Paesi, secondo un consolidato trend di crescita. La pasta che produciamo viene venduta per il 55 per cento sul mercato nazionale e per il 45 per cento sui mercati esteri». Per l’evento dei 130 anni la De Cecco ha addobbato l’Aurum a festa e, avendo seri problemi di spazio, visto che c’erano quasi 600 invitati, ha dovuto occupare più di un’area.
La cerimonia dell’annullo e il concerto del Volo, al secolo l’abruzzese Gianluca Ginoble e la coppia siciliana Ignazio Boschetto-Piero Barone, sono andati in scena nello spazio interno, meglio conosciuto come piazzale Michelucci che, per l’occasione, è stato coperto con una grande ed elegante tensostruttura trasparente. Il buffet, invece, è stato organizzato nella sala Gabriele d’Annunzio, la più spaziosa dell’ex liquorificio, posta al primo piano. A tutti gli ospiti, la De Cecco ha dato in omaggio il folder “130 anni De Cecco”, stampato da Poste Italiane a tiratura limitata, non riproducibile e con un numero di serie. Folder contenente il francobollo, la cartolina, la busta e l’annullo postale. A testimonianza del successo dell’operazione, è sufficiente rimarcare un particolare: nell’apposito stand di Poste Italiane, ubicato in piazza Salotto, i prodotti filatelici 130 anni De Cecco sono andati a ruba e le cartoline postali hanno fatto registrare il tutto esaurito. Il giorno dopo, questi grandi numeri sono stati bissati negli Uffici filatelici di Milano, Roma, Torino e delle maggiori città italiane. E, a proposito di successo, quello della giornata griffata De Cecco va attribuito anche all’agenzia Alhena di Gianfilippo Di Felice, al team aziendale, Franco D’Anolfi in primis, che ha lavorato alacremente e con entusiasmo, e a due colonne abruzzesi di Poste Italiane, Rosaria Fierro e Maria Campanaro. Su tutti, la benedizione impartita da don Antonio Di Lorenzo, vicario dell’arcivescovo di Lanciano-Ortona, don Emiliano Straccini, in rappresentanza dell’arcidiocesi Chieti-Vasto e da don Giuseppe Natoli, indimenticato abate generale e parroco della cattedrale pescarese di San Cetteo.
Nelle foto: in alto il presidente Filippo Antonio De Cecco; a lato gli amministratori delegati Giuseppe Aristide e Saturnino De Cecco; sotto, Giovanni Legnini e altre autorità presenti all’evento; in basso, il concerto del Volo all’Aurum. Nella pagina accanto l’annullo del primo francobollo con il presidente De Cecco, il vicedirettore di Poste Italiane Pasquale Marchese e il responsabile filatelia Pietro La Bruna.
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TUA TRASPORTO UNICO ABRUZZESE
INTERMODALITÀ, LA NUOVA STRATEGIA Il Masterplan Abruzzo darà risposte per il potenziamento dei porti, dei tracciati ferroviari e di tutto il trasporto regionale
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er l’Abruzzo 1,5 miliardi di euro da investire in infrastrutture, ambiente, turismo, cultura e sviluppo economico. Sono state siglate nei giorni scorsi le convenzioni per l’attuazione degli investimenti del Masterplan-Patto per il Sud. Circa 753 milioni saranno messi a disposizione con il Fondo per lo sviluppo e coesione (Fsc), di cui 138 milioni saranno subito disponibili per completare e avviare non oltre il 2017 decine e decine di opere. Svariati i progetti strategici per lo sviluppo infrastrutturale della regione di cui la società di trasporti Tua è soggetto attuatore. A poche settimane dalla firma delle convenzioni attuative del Masterplan, soddisfazione è stata espressa dal consigliere d’amministrazione TUA con delega alla ferrovia, Giovanni Di Vito, che ha sottolineato come “la realizzazione delle infrastrutture inserite nel Masterplan garantirà notevoli benefici economici per il territorio ed una conseguente ripresa occupazionale in tutta la regione”. Ingegner Di Vito, Tua è designata come soggetto attuatore in svariate opere inserite nel Masterplan. E’ una grande occasione per avvicinare le infrastrutture regionali agli standard europei. Quale sarà il cronoprogramma della società nella realizzazione degli interventi? L’ampliamento della piastra logistica intermodale nella zona industriale della Val di Sangro sarà terminato en-
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tro il 2017. Il progetto preliminare, inserito nello schema finale del Masterplan, con uno stanziamento previsto di 5 milioni e mezzo di euro, diventerà definitivo entro la fine dell’anno e verrà realizzato nel secondo semestre del 2017, implementando l’asset del trasporto merci in regione. Su questo progetto siamo in fase avanzata mentre su altri siamo in linea con le tempistiche scandite dalla Regione. Le opere da realizzare saranno strategiche per l’Abruzzo soprattutto in un’ottica di intermodalità. Quali saranno le potenzialità a medio termine? Puntiamo a traslare il trasporto delle merci sempre più su rotaia e via mare. In quest’ottica la piastra logistica di Saletti, ad esempio, consentirà di implementare la capacità di smistamento delle merci sulla rete ferroviaria nazionale e dunque verso l’Europa, favorendo la piena intermodalità della Val di Sangro, ovvero l’integrazione strada-rotaia, in linea con gli attuali standard europei. A livello tecnico, cosa prevede il progetto? La realizzazione di un piazzale ferroviario dotato di 4 binari di 750 metri di lunghezza e 3 binari di 350 metri, infrastrutture dedicate alla logistica per la movimentazione di merci, quali ad esempio capannoni di stoccaggio, piani di caricamento, uffici e zone dedicate alla manutenzione. Quali i vantaggi? L’opera permetterà di incrementare la lunghezza dei
convogli ferroviari, attualmente movimentati per ciascun viaggio e di caricare direttamente i Tir sul convoglio con una pedana che si sposterà longitudinalmente rispetto al senso del binario. Nello specifico, cosa cambierà? Allo stato attuale ogni treno merci movimenta 15 carri, ognuno dei quali trasporta 4 furgoni prodotti dalla Sevel. A configurazione ultimata, il volume di traffico aumenterà del 33 per cento con un incremento di 200 unità di merce trasportata ogni giorno. Con enormi vantaggi per tutto il comparto industriale abruzzese dell’automobile. Intermodalità non solo ferro-gomma ma anche via mare. Previsto nel Masterplan, infatti, anche il completamento del porto di Vasto... l Masterplan Abruzzo darà risposte, soprattutto, alle grandi aziende presenti in regione che chiedono, da tempo, il potenziamento dei porti e dei tracciati ferroviari per rendere più facile i trasporti. In tal senso, di fondamentale importanza sarà la realizzazione dei collegamenti tra il porto di Vasto, la rete ferroviaria nazionale e la zona industriale della cittadina vastese. Ciò vale anche per il versante portuale di Ortona che, strategicamente, è molto importante a livello regionale. Oltre al Masterplan, Tua è impegnata anche come partner di progetti europei per ottimizzare l’infrastruttura elettrica esistente. Di cosa si tratta?
Il progetto europeo è denominato Eliptic ed è finanziato nell’ambito del Programma Horizon 2020 con un budget di 6 milioni di euro. L’obiettivo è quello di implementare e sviluppare la mobilità elettrica, trasformando l’uso di veicoli alimentati convenzionalmente nelle aree urbane. Qual è il ruolo Tua nelle attività relative al progetto? L’Azienda sta conducendo uno studio di fattibilità che analizza l’implementazione di un nuovo sistema di tram urbano sfruttando il tracciato esistente della rete ferroviaria di Ferrovia Sangritana. In particolare, verrà adeguata la linea San Vito Marina - Lanciano - Crocetta ai servizi di tipo tram; la prima fase del progetto riguarderà la sola città di Lanciano, da Villa Martelli a Marcianese per una lunghezza del tracciato di 5,3 km. Quali saranno i vantaggi dell’opera inserita in Eliptic? Offrirà la possibilità di ottimizzare la rete di trasporto pubblico urbano esistente, servire nuove zone, favorire lo split modale verso sistemi di trasporto più eco-sostenibili e ridisegnare l’impianto urbano della città. Dunque, si tratta di un mezzo elettrico che opererà sulla rete ferroviaria Il sistema tramviario elettrificato è un esempio di utilizzo di veicoli leggeri su rotaia e favorirà un modello di sviluppo del trasporto pubblico nelle zone meno densamente popolate e caratterizzate da un contesto naturale da preservare. 51
OTTORINO LA ROCCA
CULTURA & IMPRESA laurea honoris causa, conferita dall’Università degli studi dell’Aquila al fondatore della Valagro, una delle aziende simbolo dell’imprenditoria abruzzese
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redo che avere la terra e non rovinarla sia la più bella forma d’arte che si possa desiderare». La citazione è di Andy Warhol e sintetizza esattamente il pensiero di Ottorino La Rocca, imprenditore, mecenate e uomo di cultura che ha ricevuto dall’Università degli studi dell’Aquila la laurea honoris causa in gestione degli ecosistemi terrestri e delle acque interne. La sua esperienza nell’azienda agricola di famiglia, il suo percorso professionale in ambito amministrativo e didattico sono alla base di quella idea imprenditoriale - dice la rettrice Paola Inverardi- che, ben presto, diventa una realtà produttiva tra le più innovative e dinamiche a livello internazionale. Nasce così nel 1980 Farmer Italiana s.n.c., fondata con l’amico e attuale amministratore delegato Giuseppe Natale, e oggi conosciuta nel mondo come Valagro S.p.A.. Sotto la guida di Ottorino La Rocca, da oltre 30 anni Valagro porta nel mondo la stessa passione per la Natura dalla quale nascono le sue soluzioni per la cura e il nutrimento delle piante: oggi l’azienda presidia il mercato mondiale attraverso le sue 13 filiali e una valida rete commerciale e distributiva in oltre 80 paesi. Non è un semplice successo imprenditoriale -sosteniene la professoressa Maria Grazia Cifone nella presentazione del riconoscimento- ma una storia di impegno e passione per la realizzazione di una azienda all’avanguardia che ha sempre fatto dell’innovazione e della sostenibilità in agricoltura i suoi pilastri fondamentali, puntando su consistenti investimenti in ricerca e sviluppo e collaborazioni scientifiche e accademiche a livello internazionale. Accanto allo sviluppo di prodotti biocompatibili, l’etica riversata nella gestione degli impianti produttivi, si è
esplicitata nella riduzione delle emissioni di gas, rifiuti e consumi energetici che hanno portato l’azienda Valagro ad acquisire le certificazioni ambientali internazionali di grado più elevato e ad essere insignita di importanti riconoscimenti nell’ambito della green economy. Nel campo della ricerca applicata, la Valagro - dice il prof. Giovanni Pacioni nella Laudatio - grazie alla spinta propulsiva di Ottorino La rocca, sostiene numerosi progetti di indagini selettive e tecnologie all’avanguardia unite all’applicazione responsabile e mirata di genomica, proteomica al fine di rendere possibili soluzioni innovative per i processi di crescita delle diverse colture.
Nelle foto: in alto, Ottorino La Rocca riceve il prestigioso riconoscimento dell’Ateneo aquilano; sopra il neo laureato festeggiato da Giuseppe Natale, coofondatore della Valagro e dai suoi cari
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RIBALTA MUSICA
CANZONI SENZA MALINCONIA L’Italia che cantava e sognava nel 1900. Una mostra a Pescara su Cesare Andrea Bixio I Bixio hanno fatto l’Italia, Nino partecipando, al fianco di Garibaldi, nell’impresa dei Mille, Cesare Andrea Bixio facendo cantare all’unisono tutti gli italiani nel 1900. In una bella mostra allestita al Museo Vittoria Colonna di Pescara si racconta la vicenda artistica e produttiva di una delle figure più importanti della cultura popolare italiana. Cesare Andrea Bixio è stato, infatti, autore di colonne sonore e canzoni celeberrime come Parlami d’amore Mariù, Mamma e Vivere... e moltissime altre che si possono incontrare nel percorso storico e “sensoriale” della mostra. Un percorso ben architettato, grazie al vastissimo corredo di immagini, copertine dei dischi, spartiti, fotografie e cimeli e arricchito da un percorso multimediale sempre attivo. Artista e uomo di cultura innovativo nel panorama italiano, Bixio è stato capace di coniugare la musica con gli sviluppi tecnologici, è stato l’autore della prima colonna sonora per un film italiano e il fondatore
di un’esperienza straordinaria come quella dell’etichetta Cinevox Records. La mostra è un progetto fortemente voluto dalla famiglia Bixio per mettere in risalto la
figura poliedrica del musicista e raccontare il Novecento del nostro Paese. La mostra è stata presentata dal conduttore radiofonico Renato Marengo e ha visto partecipare Franco Bixio, figlio del compositore, compositore a sua volta e curatore della mostra insieme ad Andrea Bixio e Giuseppe Pasquali, il regista e giornalista Italo Moscati, Maria Letizia Bixio, nipote del musicista e curatrice del catalogo della mostra, e Federico Giangrandi che, con Tactus Fugit, ha curato gli eventi collaterali del’iniziativa. Nelle foto: a sinistra uno dei manifesti esposti a Pescara; in alto Cesare Andrea Bixio (al centro) fra Walter Chiari e Vittorio De Sica
STEREOWAVE
ROCK MADE IN TERAMO G
li Stereowave sono rock. Rock moderno e, soprattutto, rock italiano come quello del concittadino, il grande e indimenticato Ivan Graziani. E ne arriva conferma direttamente da RockTV, storico e principale canale di Sky dedicato alla musica cosiddetta “alternativa”, che manda in onda il video del loro secondo singolo “Dimmi che fare”. Gli Stereowave nascono tra i banchi del liceo scientifico di Teramo, dall’incontro tra Lorenzo Di Pasquale (voce principale, tastiere, pianoforte) e Francesco Sbraccia (chitarra, tastiere, pianoforte, mellotron, cori). Completano la formazione Davide Cervella (batteria e percussioni) e Lorenzo Marcozzi (basso, cori). Dai primi tentativi discografici (una demo e un EP, Deja-Vu, datato 2010) è passato più di un lustro e le esperienze dei componenti sono state tante e variegate. Come risultato, il 26 novembre è uscito il loro primo album “Backup_ripristino”: un concentrato di melodie e distorsioni, 11 brani che spaziano tra elettronica e arrangiamenti orchestrali e che vantano addirittura il lavoro di caratura internazionale di Pete Maher (U2, Jack White, Rolling Stones, Lana Del Rey…), curatore del mastering del disco. Disco che è una fucina di talenti teramani,
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dall’artista Alessandro Di Massimo che ne ha realizzato il design, all’ingegnere del suono Davide Grotta che ne ha curato le riprese. Da “Backup_ripristino”, scritto interamente in italiano, sono stati estratti due singoli; il primo, “Equilibrio instabile” e il secondo, “Dimmi che fare”, che trovate in rotazione su Rock TV (canale 718 di Sky) quattro volte al giorno alle ore 12:55, 18:55, 00:55, 06:55.
ANTONIO CIPRIANI
L’ULTIMO ROMANTICO
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n CD dalle atmosfere calde e rilassanti rappresentativo del lavoro del cantante chitarrista Antonio Cipriani. Il titolo è chiarificatore: ‘’L’ultimo romantico’’. inciso per la ARTIS Records e distribuito dalla EDEL. Dopo l’ultimo lavoro intitolato ‘’BossanUova’’, dal sound prettamente brasiliano, questo CD rappresenta tutta la sensibilità musicale espressa in piu’ di 40 anni di attività. Si percepisce l’influenza avuta da James Taylor, Gilbert O’Sullivan, Michael Franks, Jose’ Feliciano fino ad arrivare a Djavan e alle atmosfere della bossanova. Tra i brani spiccano certamente Vino Triste, il cui testo è stato scritto da Stefano Rosso, grande cantautore romano, canzone interpretata da Goran Kuzminac. Poi c’è la dolcissima E’ Difficile Sbagliare, il cui testo è di Franca Evangelisti, paroliera di Renato Zero, vincitrice tra l’altro di alcuni Festival di Sanremo. Nel brano Mimi’, eseguito da Paolo Russo al bandoneon, talento pesca-
rese, è accompagnato da uno dei piu’ grandi violoncellisti al mondo, Jaques Morelembaum: ha suonato con Sting, Caetano Veloso, Gilberto Gil e tanti altri. Altro brano da ascoltare è senz’altro Mi Manchi Tu, la cui musica è stata scritta da Jack Lemmon, che pochi sanno essere grande un’attore e musicista, era anche un grande musicista. Da gustare l’arrangiamento alla Djavan, di Se Mi Vuoi con brani di Lucio Battisti con la partecipazione di Enrica Panza. Oltre ai musicisti sopra citati è da sottolineare la partecipazione di uno dei più grandi arrangiatori e pianisti brasiliani come Paulo Calasans. Ha arrangiato cinque delle ‘’songs’’ dell’album. I testi di alcuni brani sono decisamente un po’ anni settanta, periodo in cui l’autore faceva parte della scuderia della RCA Italiana di Roma. Bellissima la copertina, con un’opera dell’artista Luciano De Liberato. Pino Morelli
BORRELLO IN PROVINCIA DI WOODSTOCK
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uando la musica, anche quella popolare, è uno dei tasselli utili a ricostruire il puzzle della storia, della nostra storia. E’ il caso de La bestia umana Una Piccola Impresa Musicale, ovvero la via borrellana all’opera rock degli Sfaratthon, l’interessante e bel volume di Argentino D’Auro. La sua particolarità è proprio nel riproporre un periodo storico (la fine degli anni settanta), vissuto a Borrello, in provincia di Chieti. In quel luogo, un gruppo di ragazzi adolescenti era pronto ad impegnarsi, con tutta la forza della passione e dell’esuberanza tipicamente giovanili, sul tema del controverso rapporto uomo-natura, attraverso la composizione di una opera rock. Erano anni, rispetto a quelli che di lì a breve sarebbero seguiti, caratterizzati dalla cultura del riflusso, dell’individualismo e del culto del sé, particolarmente fertili dal punto di vista culturale ed irripetibili da quello musicale. Il rock progressive forniva soluzioni musicali innovative, dirompenti ed in controtendenza rispetto ai canoni fino ad allora sperimentati. Non solo i gruppi stranieri erano leader di questo genere musicale, ma anche quelli italiani facevano scuola e tendenza a livello internazionale, con band di spicco come PFM e Banco del Mutuo Soccorso. Gli stessi testi delle canzoni sottolineavano i cambiamenti dettati da un’epoca per tanti versi rivoluzio-
naria. Questi riflettevano un sentire che si contrapponeva a quello tipico della retorica presente in molta parte della musica leggera del tempo. In Italia, infatti, in quel periodo storico, si affermarono i cantautori, che con i loro testi poetici consentirono alla forma canzone di uscire dal ghetto in cui la cultura ufficiale l’aveva confinata (quello sprezzante delle canzonette) per farla assurgere ad una vera e propria forma d’arte, sicuramente non inferiore a quelle ritenute comunemente nobili. Non a caso, oggi, a comprova di ciò, molte antologie di letteratura italiana riportano i testi delle canzoni più significative di cantautori come De André, Guccini e Gaber per non parlare del Nobel assegnato a Dylan. Nella rock-opera La Bestia Umana, quei ragazzi filtrarono e mediarono tutte le loro conoscenze musicali e letterarie assorbite in quel fecondo periodo storico e le riversarono in una serie di canzoni legate dal filo conduttore della questione ecologica, secondo la prassi del concept album. Quelle canzoni che allora, per le varie vicissitudini che la vita impose a quei ragazzi, non poterono trovare il loro naturale sbocco in un disco, oggi, finalmente, trovano la loro degna collocazione in un CD (La Bestia Umana) ed in un libro (Una piccola impresa musicale). Il progetto di quella rock-opera sognata in
gioventù ad occhi aperti, quasi fosse una chimera irraggiungibile, oggi diventa realtà a quasi quarant’anni dalla sua elaborazione originaria, sì da farla apparire, agli occhi di quei ragazzi divenuti nel frattempo uomini maturi, non una piccola, ma, di fatto, una grande impresa musicale. I temi evocati in quelle canzoni (lo smog, le migrazioni, lo sfruttamento, le segregazioni razziali e la schiavitù) continuano, purtroppo, ad essere attuali, in attesa di una qualche soluzione decisiva. A ridestare l’attenzione su queste problematiche è intervenuta anche l’enciclica Laudato sì di Papa Francesco, quasi a confermare la validità di un progetto musicale e letterario dal sapore vagamente profetico. Il libro che accompagna il CD ha il compito di guidare il lettore nella comprensione delle canzoni che compongono la rock-opera, prospettando una narrazione continuamente sospesa fra le ragioni che giustificarono la stesura di quei testi e la loro intatta attualità. A rendere più stridenti le dissonanze persistenti fra l’uomo e la natura, l’opera del pittore Luca Luciano, la cui bellezza è esemplificata dal dipinto intitolato Anatomia di una fine che campeggia sulla copertina del libro. 55
RIBALTA LIBRI DANIELE CAVICCHIA
IL CIELO È LONTANO La poesia di un’armonia impossibile
di Francesco Marroni
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el suo lungo percorso di ricerca, Daniele Cavicchia ha sviluppato diversi discorsi che, pur declinati nelle linee tradizionali della poesia italiana, hanno avuto il pregio di veicolare ai suoi lettori una tematica del tutto originale e autentica sia per ispirazione sia per suggestioni autobiografiche. Nel caso di una silloge come La solitudine del fuoco non possiamo fare a meno di notare la persistenza di una voce che interroga la parola. E mentre la interroga manifesta il suo desiderio di istituire uno spazio dialogico tra i pensieri di ieri e i pensieri di oggi. Si tratta della ricerca di un’unitarietà che, tuttavia, si rivela sempre troppo breve, solo un lampo di luce nel buio di una ostinata sofferenza. La solitudine del fuoco, quindi, parla di un’assenza, di un centro che non si lascia più individuare, di un punto di ancoraggio che non si rivela più alla voce poetica. A vincere è la Babele dei linguaggi che riduce al grado zero la possibilità di un dialogismo tra natura (il fuoco, appunto) e cultura, cioè, la coscienza individuale di essere e non essere al tempo stesso: “[...] e io le parlai di una torre/ troppo alta ridotta in polvere e lei disse Babele/ e dopo una pausa, non si può sfidare il cielo” (p. 77). La distanza è incolmabile, il cielo indifferente osserva gli esseri umani che, in qualche modo, vorrebbero essere depositari di certezze che, invece, sono solo parole sfaldate, plurime voci che si riconcorrono fino a sfociare in un nulla abissale – un abisso che è il contrario della torre. Ma perché interrogare il cielo? Daniele Cavicchia non risponde a questa domanda se non per segmenti di verità, adottando una disseminazione di allusioni costante ma mai conclusiva – all’altro capo della parola vi è una figura angelica che non può più parlare, parlano i suoi ricordi e le sue tracce cosparse di polvere. Ed è giusto dire che la ricerca è fine a se stessa, quasi il piacere della ricerca per la ricerca – in qualche modo l’assenza rimane, l’altra sponda del fiume, lo spazio in cui il “tu” cercato vive, non risponde ma, in qualche modo, ascolta le parole del poeta che, nell’inseguimento dei segni, non smette mai di interrogarsi. E lo fa anche quando ogni passione sembra spenta: “Saremo acqua? Colori?/ Lei verrà con la semplicità del mistero [...]” (p. 65). Potremmo dire con Attilio Bertolucci: “Assenza,/ Più acuta presenza”. Quindi, è possibile che dall’assenza scaturisca una presenza più intensa, è possibile dantescamente “trattare l’ombre come cosa salda”? Questa presenza, nel caso dei versi di Cavicchia, non è semplicemente più intensa nel suo manifestarsi quotidiano. In questa raccolta, la presenza è figlia della sofferenza ed è sottratta ad ogni consolatoria contemplazione: “Quando la rividi l’ottava volta/ ero
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distante dalla sua carezza/ in uno spazio definito/ capace di una sola lingua/ e lontano dalla possibile armonia” (p. 34). È questa l’essenza del dramma. Le parole non restituiscono alla voce desiderante del poeta nemmeno una ipotesi di armonia, ma solo la vaga eco di un passato in cui si davano accordi paralleli, in cui si costruivano paesaggi armoniosi dell’anima e del corpo. Il presente invece genera solo steli piegati, piante e fiori che hanno da tempo rinunciato a fiorire – oggetti piegati dal lamento insistito, disperatamente solitari e disperatamente in cerca di quel “tu” impossibile – il “tu” dal quale avviare la ricostruzione di un presente che sappia essere anche futuro. Ma il cielo è lontano, tutta la volta celeste è come un libro che non si lascia leggere – di nuovo torna ad interrogarsi il poeta e a chiedersi perché il futuro si nega al passato. Nel 1881, in una lirica di estrema intensità, Christina Rossetti si chiedeva: “Perché il cielo è così lontano/ e la terra così remota? [...] Sono costretta in vincoli mortali, / gioia e bellezza non sono per me/ sforzo il cuore, tendo le mani/ e mi aggrappo alla speranza”. In fondo, ogni poesia di Cavicchia, dietro l’intensità della sofferenza, dietro l’espansione semantica del lamento, dietro la tramatura delle parole, rivela un desiderio molto semplice – il desiderio di aggrapparsi alla speranza. Tutto è disarmonia, tutto è dissipazione, eppure il cuore è forte. E, grazie a questa intima forza, la memoria non si spaventa quando si accorge di saper suscitare solo fantasmi. Non è affatto un caso che, in un’altra raccolta di Cavicchia intitolata Dal libro di Micol (2008), l’io poetico, pur consapevole che “il giorno si consumerà nello sgomento”, manifesti la volontà di continuare a credere – a credere con convinzione, profondamente: “Alle quattro di mattina/ quando il silenzio è perfetto/ nella tua camera c’è la luce di Dio”. Contro la Babele delle parole che non si incontrano mai, il poeta oppone la perfezione di un silenzio in grado di veicolare quella speranza che, troppo spesso, la vita quotidiana dissolve nelle trame volgari di una negoziazione fatta di disvalori, di una negoziazione che rifiuta le istanze dell’anima, la tensione anelante e il grande respiro del cosmo. Cavicchia tutto questo non può accettarlo. Così, come un interprete che sa captare epifanie e misteri, nella misura reticente e nel pudore linguistico, racconta la storia di una assenza che, per molti aspetti, è percepita anche dal lettore il cui sguardo, mentre osserva il cielo, si chiede per quali tortuosi sentieri è dato raggiungere “l’angelo [che] sfogliava le pagine segrete”. LA SOLITUDINE DEL FUOCO Prefazione di Dacia Maraini Daniele Cavicchia - Passigli Poesia editore Area Grafica 47 pp.685 € 12,50
LA GALLERIA PIERONI L
a storia di Mario Pieroni e delle sue gallerie raccontano una parte importante del mondo dell’arte italiana dagli anni '70 ad oggi e in questo ambito Pescara e l’Abruzzo hanno avuto un ruolo di primo piano. « Il mio lavoro nell’arte inizia a Pescara nel 1970 - racconta Mario Pieroni nel bel volume presentato alla galleria VistaMare di Benedetta Spalletti a Pescara - con due progetti collegati all’azienda di famiglia, fondata da mio nonno Mario, poi diventata la”Coen e Pieroni” di mio zio Giampaolo Coen e di mio padre Daniele Pieroni, situata nel palazzetto al centro della città in Corso V. Emanuele (attuale sede della banca ex Cassa di Risparmio di Pescara N.d.r.). In seguito, in società con mia cugina Federica Coen, mi sono dedicato alla riproduzione dei mobili e arazzi di Giacomo Balla, in accordo con le figlie dell’artista Luce e Elica. I mobili venivano dipinti nel laboratorio di restauro dell’azienda mentre gli arazzi, che l’artista aveva sempre desiderato di realizzare, senza mai riuscirci, erano prodotti dall’Arazzeria pennese di Ferdinando Di Nicola. Alla pubblicazione del catalogo a cura di Enrico Crispolti, seguirono numerose esposizioni in musei italiani e stranieri. Le prestigiose riviste come Casa Vogue, Bolaffi e Domus si interessano all’iniziativa pubblicando diversi servizi. Negli stessi anni su ideazione di Getulio Alviani nasce Dal mondo delle idee, risultato della quotidianità vissuta insieme a Ettore Spalletti, allora a Cappelle sul Tavo e della stretta amicizia con Mario Ceroli molto legato all’Abruzzo sua terra natale.
Si unirono al progetto di grandi prototipi di arredi d’arte anche Laura Grisi, Enrico Job, Concetto Pozzati e Paolo Scheggi. L’intenzione era quella di creare spazi artistici in cui era possibile vivere, un discorso allora probabilmente prematuro, che ho ripreso recentemente». Tante altre sono state le iniziative realizzate dal “vulcanico” Pieroni ancora a Pescara con la galleria al Bagno Borbonico poi in quella di Roma in Via Panisperna e in altre città non solo italiane. Tantissime le mostre realizzate con i maggiori artisti contemporanei a partire da Ettore Spalletti. Nel volume, dedicato a Federica Coen, realizzato da Di Paolo Edizioni si scorrono tutte le tappe dell’arte italiana e di uno dei suoi più importanti promotori. GALLERIA PIERONI 1970-1992 a cura di Mario Pieroni e Dora Stiefelmeier Di Paolo editore pp. 520 Nella foto la presentazione del volume nella Galleria Vistamare di Pescara, da sinistra Benedetta Spalletti, Bruno Corà, Ettore Spalletti e Mario Pieroni
MOLTO MOSSO
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crivere Molto Mosso è stato per Francesco Mancini un atto d’amore verso il padre, la ricostruzione di respiro storico, che coglie il suo contributo profondo e non occiduo - un vizio di famiglia - consumato senza risparmio, riscoprendone aspetti e immagini e insegnamenti che da giovane inquieto aveva sentimentalmente rispettati ma rimossi. Se Joyce - si licet - ha ispirato l’Ulisse alla carenza del padre, l’autore di Molto mosso è un telemaco che non ha né dimenticato né tampoco rinnegato, ma conosciuto nella maturità - repeness is all - chi, dopo la nascita biologica, lo ha fatto nascere una seconda volta. Nel porre fine a questo mio saltabeccante memorialetto, non posso evitare di ringraziare l’amico Francesco Mancini che mi ha dato con la sua scavante indagine nella storia cittadina e regionale una conoscenza meno approssimativa della stessa e di suo padre, che conobbi, adolescente, nell’ufficio postale di Bolognano, mio paese di nascita, dove veniva da ispettore. Una conoscenza «per l’alto mare aperto», che traduce una citazione di Cesare Pavese: «Ricordare una cosa significa vederla/ora soltanto/per la prima volta». Sono convinto che la carrellata all’interno di una fase storica e di un suo protagonista risulti utile a chiunque abbia a cuore ragione, umanità e intelligenza, per continuare nel cammino segnato dalle virtù civili dei padri. Parole retoriche forse, ma che trovo giusto usare. Giacomo D’Angelo
MOLTO MOSSO Il confronto per il capoluogo d’Abruzzo. Industrializzazione, università, autostrade nell’archivio di AntonioMancini CARSA editore pp. 497 € 25 Nelle foto: sopra, la presentazione del volume con personalità cittadine. A lato Francesco Mancini con la sua famiglia
RIBALTA LIBRI MARCO PATRICELLI
UN POPOLO DI SANTI, NAVIGATORI E PERDENTI Guardare l’Italia di oggi attraverso quella di ieri. Con occhi attenti su eventi passati ma attuali per mentalità, modo di fare e superficialità sfociati in drammi epocali e tragedie rimaste, spesso, senza responsabili
L’
ultimo saggio dello storico Marco Patricelli, pubblicato da Laterza, si intitola “L’Italia delle sconfitte” e si dipana, come dice il sottotitolo, dalla battaglia di Custoza del 1866 per esaurirsi tra le nevi della Russia nella sciagurata ritirata del 1943. Poco meno di un secolo e mezzo scandito da sconfitte militari che erano e sono l’agghiacciante proiezione di malgoverno, malcostume, incapacità, corruzione e opportunismi della classe dirigente che mandò a combattere e a morire gli italiani, troppo spesso senza un perché. Il volume prende avvio dalla terza guerra d’indipendenza, la prima dalla proclamazione del Regno d’Italia, segnata dalla duplice bruciante sconfitta su terra (a Custoza appunto) e sul mare (a Lissa): si riuscì nell’impresa impossibile di consegnare la vittoria agli austriaci sull’onda perversa di rivalità insanabili nella catena di comando, in cui generali e ammiragli facevano a gara nello sconfiggere i loro rivali più che il nemico. E poiché al peggio non c’è mai limite, quello che avviene ad Adua nel 1896 fa persino scolorire le vergogne del 1866, perché in Africa il comandante Baratieri e i suoi generali rivali riescono in un colpo solo a perdere più soldati che in tutte le guerre d’indipendenza messe insieme, e a confezionare il peggiore dei disastri militari di tutte le guerre coloniali europee. Caporetto, nel 1917, è diventata l’archetipo delle sconfitte. Anche in questo caso le responsabilità sono militari e politiche, in un intreccio inestricabile che ha per l’intero Paese conseguenze nefaste. Alle incapacità dei capi si risponde con il terrore tra i soldati: esecuzioni sommarie, decimazioni, negazione dell’assistenza ai prigionieri abbandonati alla fame e alle malattie nei campi di concen-
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tramento austriaci e tedeschi. Poiché la Storia, nonostante il luogo comune, non è affatto magistra vitae, con la Campagna di Grecia e quella di Russia in epoca fascista si confezioneranno altri due scabrosi “capolavori” di inettitudine, pagati col sangue dei morti, dei mutilati, dei dispersi e dei prigionieri. Patricelli (che, lo ricordiamo, nel 2010 ha vinto il prestigioso Premio Acqui Storia e i cui lavori sono regolarmente tradotti all’estero) affronta queste pagine con un solidissimo supporto documentale, che abbraccia altresì i processi che vennero intentati contro i responsabili (veri e presunti), nei quali è sin troppo agevole capire come la giustizia sia stata piegata a interessi di parte, col consueto corredo di omissioni, insabbiamenti, distorsioni, che impedivano aprioristicamente di arrivare alla verità. Nonostante l’indubbio valore scientifico del testo, che ha in coda un corposo apparato di note e bibliografico, l’ultimo libro di Patricelli si legge davvero come un romanzo, per la costruzione agile e vivida del racconto. E ci restituisce appunto l’Italia unitaria dell’Ottocento e del Novecento, che ricorda purtroppo da vicino l’Italia di oggi. La Storia non solo non ha guarito questi mali endemici, ma li ha ammodernati e perfezionati, con l’unica fortuna che non prosperano più sulle guerre. Quanto al resto, però, la lettura del libro apre uno scenario inquietante sulla contemporaneità. L’ITALIA DELLE SCONFITTE Da Custoza alla ritirata di Russia di Marco Patricelli Ed. Laterza, Roma 2016 pp. 330, € 20
GERARDO DI COLA
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on è un caso che Gerando Di Cola, per inaugurare una collana di monografie dedicate al doppiaggio, abbia scelto Anna Magnani per avviare una riflessione approfondita sugli attori e le attrici italiane (auto) doppiate. La più grande e celebrata interprete italiana, ma anche l’attrice simbolo del Neorealismo e come tale la più insospettabile dal punto di vista della contaminazione con le voci di altri o con la propria rimasterizzata, è la figura ideale per annunciare il progetto di studio sull’autenticità dei “mostri sacri” del nostro cinema. Grazie a tale scelta, si possono smascherare in maniera radicale decennali omertà, omissioni, censure di critici e studiosi sull’argomento. Nella documentata ricognizione dell’attore italiano “dimezzato”, fiore all’occhiello di tutti gli studi di Di Cola in lungo e in largo sul doppiaggio. Nannarella diventa giocoforza l’introduzione all’orgomento, il simbolo propedeutico della pratica più diffusa di quello che si può immaginare dei tanti attori italiani che recitavano con la voce di altri, l’apripista di un mondo del cinema italiano sommerso e occultato. E bisognava aspettarselo che, al di là dell’icona congelata da mestieranti di biografie più o meno rimasticate, arrivasse un’analisi più puntuale sulla Masgnani, attrice dalla personalità dirompente che, comunque, doveva andare in sala di doppiaggio per completare i suoi film. Una costrizione di cui, forse, avrebbe fatto volentieri a meno. In quest’ultima fase la Magnani non doveva essere affiancata dai professionisti della voce perché si sarebbe evidenziata una scollatura tra la sua recitazione naturale e quella dei professionisti. Nessuno fino ad oggi si era avventurato a ragionare su questo aspetto non secondario. La grandezza della Magnani non è minimamente scalfita da questo saggio che vuole approfondire un dato incontrovertibile e inesplorato. Alberto Castellano ANNA MAGNANI e il doppiaggio Gerardo Di Cola -èdicola editore pp. 140 € 10
VINCENZO SOTTANELLA
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incenzo Sottanella, uomo appartato e mai ciarliero, infaticabile studioso di d’Annunzio, da poco ha pubblicato per la Casa Editrice Ianieri, il suo sesto libro sul Vate, Letteratura politica in d’Annunzio fino agli anni del Vittoriale”. Dei libri precedenti, 4 hanno meritato un premio e l’altro, una segnalazione. L’ultimo libro e quello sul glossario politico del carteggio del Vate con Mussolini (1919 – 1938) sono stati pubblicati dalla Ianieri, sempre su d’Annunzio, tre libri di Franca Minnucci e due di Franco Di Tizio che della collana dannunziana è il direttore. Il libro di Sottanella si legge d’un fiato ed è un’occasione per reimmergersi nel linguaggio dannunziano così sensibile alla bellezza della natura da esaltarsi dinanzi ad essa come in “Che sinfonia, che gridi, che squilli, che tuoni di colore!” (Canto novo, elegia VII, libro II) ma anche un linguaggio soggetto all’irruenza offensiva quando, nei primi del Novecento, il Vate viveva i contrasti tra favorevoli e contrari alla conquista della Libia (1911) o all’intervento nella prima guerra mondiale (1915). Giolitti veniva definito “tristo capobanda” e “canaglia giolittesca” o “giolitteria” i suoi seguaci. Ma, come scriveva di d’Annunzio Giovanni Comisso, “… i problemi non riuscivano mai ad avere il sopravvento sulla sua lieta poesia che lo accompagnava sempre”. Anna Cutilli Di Silvestre LETTERATURA POLITICA IN D’ANNUNZIO fino agli anni del Vittoriale Vincenzo Sottanella - Ianieri editore pp. 110 € 13
FEDERICA D’AMATO
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ome non elogiare la pazzia di una scrittrice che, di fronte alle condizioni disperate della reificazione in atto, si riempie di speranza e torna finalmente (per noi) a porre il tema di una felicità possibile, saltando a piè pari le solite lagnanze sullo stato endemico di crisi e sulle paure vissute come unico orizzonte escatologico? Federica D’Amato compone tredici lettere di commento alla preghiera cristiana del Padre Nostro, scegliendo come interlocutore Comitò. Federica e Comitò si scrivono, ma l’inchiostro dell’interlocutore si sbianca, fino a cancellarsi, restano solo le parole di Federica, unica prova della comune ricerca metafisica, ossia il bisogno di ridire l’indicibile, il tentativo di cogliere gli slanci epifanini dell’assoluto nella relatività del quotidiano. Il dialogo si fa monologo, invocazione, preghiera: sgorga direttamente dalla coscienza in un getto precipitoso, alternando minime certezze e inarginabili aporie, pienezza e mancanza, memoria e utopia (“ Io voglio parlare con te per stare vicino a tutti: d’altronde, lo sappiamo, si scrive si parla, in assenza, solo per questo. Ma voglio che qui accada l’ottavo giorno, quello in cui la colomba poggia il capo nelle mani del santo, il giorno in cui il padre torna tra le braccia del figlio, nella sua volontà”). Donato Di Stasi
LETTERE AL PADRE Preghiera in forma di lettera Federica D’Amato - Ianieri editore pp. 60 € 10
PAOLO CIUFICI
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aio è un uomo, un uomo che ama un altro uomo. L’amore di Gaio per Tom evolve con la consapevolezza reciproca di voler stare accanto a una persona dello stesso sesso e di costruire insieme una storia di vita. Il caso innesca la scintilla a una festa e i due si ritrovano a parlare, a guardarsi negli occhi, a volersi conoscere e andare oltre le chiacchiere formali. Una storia d’amore divampa e arde. Così come una storia di onestà affettiva e di condivisione. Un percorso verso la felicità, la gaiezza appunto. Un percorso fatto di soste, per poi ripartire. In Gaio e Tom, i due protagonisti, ogni sosta è conoscenza, di se stessi, degli altri, della realtà. Ogni sosta viene effettuata ad un’età diversa e dura un attimo, o un giorno, o un mese, o uno o più anni. Ogni sosta diviene stupore, sorpresa, incredulità, meraviglia, leggerezza, pesantezza, ironia, sarcasmo. Gaio e Tom vivono ogni sosta e ogni ripartenza, per questo conosceranno la felicità. La loro omosessualità è soltanto la strada del tragitto. Il lettore attraversando le parole avrà la possibilità di camminare a loro fianco. Ga(y)o è il primo romanzo di Paolo Ciufici GA(Y)O Paolo Ciufici - Milena edizioni
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RIBALTA TEATRO
RIBALTA ARTE
DRAMMATEATRO
DI SCANNO E I SUOI GIORNI FELICI La messinscena a Popoli da Happy Days di Beckett di Francesco Di Vincenzo
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enso e coinvolgente, con momenti di spettacolare visionarietà, il Giorni Felici messo in scena a Popoli dal Drammateatro di Claudio Di Scanno. Susanna Costaglione ha offerto una superba interpretazione del difficile e faticoso ruolo di Winnie, modulandone con abilità la mutevolezza del profilo interpretativo, dal grottesco al patetico, dal frivolo al nostalgico, dal sentimentale al cinico. Marco Di Blasio, ottimo e originale musicista, s’è rivelato anche bravo attore nel ruolo di Willie. Giorni felici è stato un ottimo spettacolo teatrale, dunque. In sé. Ma qualche perplessità l’ha suscitata, almeno in me. Mi chiedo: la messa in scena di Di Scanno sarebbe piaciuto all’autore di Happy Days? La scrittrice americana Deirdre Bair, nella sua informatissima biografia di Samuel Beckett (pubblicata in Italia da Garzanti nel 1990 con il titolo: Samuel Beckett. Una biografia), racconta che la preparazione della prima mondiale di Happy Days, al Cherry Lane Theatre di New York nel settembre 1961, divenne una faccenda complicata per i contemporanei rifiuti di Samuel Beckett di recarsi a New York e del regista Alain Schneider di andare a Parigi, dove risiedeva l’autore. «I due - scrive la Bair - iniziarono così una fitta corrispondenza al fine di definire ogni particolare». Riferendosi alle lettere di Beckett, Deirdre Bair scrive: «Sono lettere lunghe e minuziose fitte di dettagliate indicazioni sul modo in cui la recitazione deve corrispondere al testo; di descrizioni altrettanto minuziose sulle luci, che arrivano a indicare le caratteristiche, la marca e la posizione di ciascun proiettore; di una serie di disegni tracciati dallo stesso Beckett per mostrare esattamente come voleva che apparisse Winnie sul suo monticello, e quale doveva essere in ogni momento la posizione di Willie in rapporto a quella di lei». (pp. 600-601). Anche in seguito, finché è stato in vita, Beckett non ha tollerato la benché minima trasgressione ai suoi testi e alle sue indicazioni di scena. Mai. Come avrebbe reagito, dunque, se per uno straordinario atto di generosità della natura fosse vissuto fino a 110 anni e avesse assistito al suo Happy Days messo in scena da Claudio Di Scanno? Da buon irlandese avrebbe sicuramente apprezzato che la rappresentazione si tenesse in un ex birrificio, ma, non c’è da dubitarne, avrebbe reagito male. Fin dalla prima “inquadratura”: che diavolo è quel coso, quell’ombrello aperto e sbrindellato pianta-
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to al fianco di Winnie interrata fino alle spalle nel monticello al centro della scena? Beckett nelle sue indicazioni di scena scrive che Winnie ha “alla sua destra un parasole retrattile, col manico che sporge dal fodero”. Un parasole chiuso, ancora nel suo fodero, addirittura. Un parasole che deve ancora sbocciare, insomma, e qui invece è già spampanato e ischeletrito. Sicuramente sarebbe andato via alquanto seccato, il vecchio Beckett. Per fortuna: se fosse rimasto fino alla fine sarebbe andato ai pazzi vedendo il monticello trasformato in una parete di loculi e Winnie in una bara. Si dirà: e allora? Di Scanno rilegge sempre i classici a modo suo, togliendo e aggiungendo personaggi, battute, episodi, modificandone la struttura drammaturgica (geniale e riuscitissimo fu il testa-coda del suo Macbeth che inizia dove Shakespeare finisce). Insomma, adatta i sacri testi alla sua personale visione del teatro. L’ha fatto con ottimi, talvolta memorabili risultati (I giganti della montagna, l’Antologia di Spoon River, Macbeth) che chi scrive non ha mancato di sottolineare ed elogiare. Del resto Di Scanno è stato chiaro: il suo spettacolo l’ha chiamato Giorni Felici “da” Happy Days di Samuel Beckett. Nessun trucco, nessun inganno. Ma questa volta l’operazione non mi sembra riuscita. Perché? Perché non poteva riuscire. Non si può andare oltre Beckett, perché è Beckett l’oltre. Gli eccessi di senso dei quali Di Scanno ha caricato il suo Giorni Felici (l’ombrello aperto e rotto dell’inizio, il cimitero e la bara del finale, per rimanere agli esempi già citati) mi sono apparsi ridondanti esplicitazioni di significati impliciti nel testo beckettiano. La presenza civettuola di un parasole integro e chiuso nella sua custodia è, in quel contesto scenico (Willie interrata fino alle spalle, prima, fino al collo infine, in un monticello di terra circondato da una distesa d’erba arida), più denso di significato dell’ombrello sbrindellato da “day after” scelto da Di Scanno. La situazione scenica e il chiacchiericcio insensato di Winnie hanno già un sapore tragico di stasi, di angoscia, di impotenza. Di morte. Il finale scritto da Beckett prevede che Winnie canticchi “Tace il labbro” dalla Vedova Allegra, poi sorrida, lasci cadere il sorriso, guardi Willie. Infine: “Lunga pausa”. Che cosa possono aggiungere a questa elegante, struggente, disperata conclusione, un cimitero, una bara e l’esplodere dal sottosuolo di lampi presumibilmente infernali? Nelle foto: in alto, Susanna Costaglione; a sinistra, Marco Di Blasio, Claudio Di Scanno e Susanna Costaglione
EZIO BUDINI
MILO VALLONE
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opo più di vent’anni passati a calcare palcoscenici in tutta Italia, il grande pubblico ha cominciato da poco a (ri)conoscerlo grazie alle sue incursioni, peraltro sempre più frequenti, sul piccolo schermo. Dal Commissario Rex a Un medico in famiglia, passando per Don Matteo e altre miniserie di successo targate Rai, il volto di Ezio Budini, autentico talento naturale del teatro allevato e cresciuto a Pescara e maturato nei circuiti professionistici nazionali sta diventando popolare. L’ultima sua fatica televisiva è nella fiction Un passo dal cielo, ambientata sui monti del Trentino, in cui recita al fianco di Daniele Liotti, nel ruolo di un padre che vive il dramma di una figlia oggetto di ricatto da parte del suo datore di lavoro. Un ruolo che si discosta da quelli “da cattivo” per cui spesso è stata scelta la sua faccia dura, tenebrosa, dallo sguardo glaciale: «Probabilmente è un fatto di età –scherza Budini– se avessi fatto televisione vent’anni fa forse mi avrebbero scelto anche per interpretare personaggi positivi. Ma devo dire che i ruoli da “cattivo” sono più interessanti». E, del resto, “cattivo” è anche il Pandolfo che Budini interpreta nella Bottega del Caffé di Goldoni, messo in scena da Maurizio Scaparro, che proseguirà a gennaio la tournée iniziata lo scorso anno e che lo ha portato in giro per l’Italia su palcoscenici di grande prestigio (dalla Pergola di Firenze al Mercadante di Napoli, dal Piccolo di Milano all’Argentina di Roma) e che lo vedrà impegnato per una trentina di date lungo la prima metà del 2017. Nello spettacolo di Scaparro Budini affianca un attore di gran calibro come Pino Micol, ultimo di una lunga serie di nomi che hanno avuto il piacere di lavorare con lui: a battezzarlo come professionista fu, nel 2001, nientepopodimeno che il grande Mario Scaccia (in Jacques e il suo padrone di Kundera nel 2001, in cui recitava anche al fianco di Massimo Venturiello). Oggi Ezio Budini -oltre a prodigarsi nell’attività didattica con i seminari che tiene in tutto l’Abruzzo- è anche l’animatore di uno spazio teatrale a Pescara, Resnuda Teatro, che in tre anni ha permesso a una quarantina di giovani appassionati di muovere i primi passi nel mondo della recitazione. «Resnuda –spiega l’attore e regista (tra i vari spettacoli che portano la sua firma ricordiamo Riflessioni postume, rappresentato con successo da anni)– è nata con l’intento di promuovere attività di carattere artistico, sociale e didattico. Mi premeva utilizzare il mezzo teatrale come strumento di socializzazione, puntando all’evento artistico (lo spettacolo) come traguardo ma rendendo centrale il percorso. Come in un viaggio in cui non conta tanto la destinazione quanto la strada che si fa per raggiungerla, con questa scuola ho voluto fornire ai giovani un’alternativa alla classica scuola di recitazione, in cui lo sviluppo di attività sceniche e laboratoriali possano stimolare l’individuo ed indirizzarlo verso una maggiore consapevolezza e ricerca di sé stesso in relazione alle proprie capacità cognitive e sensoriali». Un obiettivo senz’altro ambizioso che si può dire raggiunto, visto che da questa stagione Resnuda diventa «un nucleo di persone: ex allievi che mi affiancheranno per portare avanti i percorsi didattici, creando così praticamente una compagnia che farà spettacoli e si occuperà anche di gestione ed organizzazione sotto la mia guida e direzione artistica».
ul Trono di Pietra è il nuovo cine-spettacolo dell’attore e regista Milo Vallone ed incentrato sulla figura dell’illustre Pietro da Morrone (poi Celestino V). Nel corso della narrazione che si avvale dell’interpretazione degli attori della Compagnia della Memoria e del sostegno dell’assessorato alla Cultura del Comune di Pescara, si racconteranno e ripercorreranno gli eventi che hanno portato il Santo dalla vita negli eremi abruzzesi al Soglio Pontificio per poi, dopo il celebre (e da Dante non celebrato) “gran rifiuto”, tornare in quegli eremi stessi che ancora oggi conservano intatti la bellezza e la spiritualità di quando il nostro protagonista, li abitò. “Sul Trono di Pietra”, scritto a quattro mani da Luca Pompei e dallo stesso Vallone, vuole essere la testimonianza di chi essendosi avvicinato a Celestino quasi per caso, ne è rimasto affascinato ed ha iniziato un paziente lavoro di ricerca prima e narrazione poi di questo affascinante personaggio. Celestino è inoltre un personaggio carismatico che mai come in questi ultimi tempi vive della sua originalità e contemporaneità, soprattutto dopo la rinuncia di Papa Ratzinger e l’elezione di Papa Francesco, considerato il Papa della svolta, del cambiamento e del rinnovamento della Chiesa. Lo spettacolo si avvale inoltre, della commistione dei linguaggi cinematografici e teatrali seguendo l’innovazione del progetto ideato dal regista Milo Vallone ormai dieci anni fa e da lui chiamato “CineprOsa”. Questa formula di proposta artistica che vede appunto la continua alternanza delle due arti in un continuo rimbalzo narrativo tra palco e schermo, permetteranno agli spettatori anche di godere delle suggestive location del cine-spettacolo: gli eremi celestini.
STEFANO ODOARDI
È
la Sardegna a fare da sfondo al secondo capitolo della “Mancanza Trilogy” di Stefano Odoardi, che dopo aver ambientato il primo (Mancanza - Inferno) tra le macerie dell’Aquila post-sisma porta in sala grazie a una distribuzione indipendente Mancanza Purgatorio, nel quale l’angelo/Ulisse del primo episodio (interpretato ancora dalla bella e brava Angelique Cavallari) si muove in un luogo metafisico e visionario, popolato dagli abitanti del quartiere periferico cagliaritano di Sant’Elia. “Si tratta di una periferia storicamente disagiata -ha spiegato Odoardi- nella quale parole come errare, possibilità di salvezza e riscatto hanno una risonanza concreta. Il mio è un film sull’errare, inteso nel suo doppio significato di sbagliare e vagare, alla ricerca della possibilità di un riscatto, della salvezza”. Prodotto, come il precedente capitolo, dalla O film (Olanda) e dalla Strike fp (Italia), “Mancanza-Purgatorio” è stato realizzato con il supporto dalla Fondazione Sardegna Film Commission e del Comune di Cagliari. Il montaggio è di Gianluca Stuard e la musica di Andrea Manzoli.
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RIBALTA MOSTRE ALEJANDRO BOVO THEILER
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er Tabù/L’Eros in mostra mi sono proposto di cercare non solo il contatto visivo ma anche l’esperienza tattile del pubblico: per me significa mettermi a portata di questo altro/a tanto letteralmente quanto politicamente e poeticamente. Un “corpo a corpo” degli oggetti con ognuno degli spettatori». Alejandro Bovo Theiler è un artista nato in Venezuela da genitori piemontesi emigrati nel paese sudamericano che ha esposto i suoi lavori nel circolo Aternino di Pescara. «Negli oggetti scelti per questa mostra, c’è una costante evidente tra il tattile, il tessile e il testuale. Sono opere per la maggior parte di materialità tessile. Sculture e assemblaggi creati tramite cuciture a mano e ricami. Quando parlo di scultura, con questi materiali e queste tecniche, mi riferisco ad un movimento dall’interno verso l’esterno con cui lavoro questi volumi, non con la logica di un riempimento, ma piuttosto la tela e gli altri materiali cominciano essi stessi a generare volumi, nuovi ed inediti corpi. Le tele finiscono per essere, allora, una mediazione tra quello che si vede e quello che sta nascosto nel corpo dell’oggetto-scultura. Per questo ogni opera, come divenire materiale ed energetico, invita gli spettatori a pensare, immaginare e costruire senso. Vivo la creazione delle opere anche come un corpo a corpo, un’istanza di carica, di scarica e soprattutto come strumento di nuovi allineamenti con me stesso e con gli altri. Durante lo svolgimento di questa esperienza nella sala di Pescara ho spronato i visitanti a toccare e ad interagire con il mio lavoro. Li ho sollecitati ad interagire senza paura di questo contatto, solitamente proibito, con l’opera d’arte. Questo invito a “leggere” le opere tessili con le mani, al di là della “cattura” visiva, è per me la ricerca di una compensazione nella percezione, forse l’erotizzazione dell’immagine attraverso il legame pelle a
pelle con i libri d’artista, gli arazzi, le ceramiche, le bambole e i pupazzi. Credo che lavorare con tessuti significhi accedere ad un piano materiale e sensibile che equivale proprio ad una seconda pelle, ma a questa pelle accediamo per il dritto e per il rovescio; una pelle alla quale aderiamo dallo spazio totale. Alle radici del mio interessamento per i tessuti e per le cuciture, stanno anche i giochi dell’infanzia con i miei fratelli, e le pratiche che ho vissuto nelle famiglie rurali di dove provengo. Lavoro con tessili da quasi 20 anni, dalla elaborazione della mia tesi di Laurea nella Università Nazionale di Cordova. Nella serie “Eclissi e bagagli” dedicata alle bambole/pupazzi è dove più si mette in gioco questa forma di comprendere la fisicità quando l’oggetto bambola o fantoccio allinea in modo indiretto e subliminale il corpo dell’autore col corpo dello spettatore. Si abilita e si produce uno spazio di mezzo e sorge un vincolo tra gli individui attraverso l’oggetto. In quell’allineamento si rinnova l’identità dell’oggetto tramite la tensione degli individui. Corpi che ricevono cariche e scariche affettive e soggettive, energetiche e fisiche. Ci colleghiamo col mondo anche attraverso gli oggetti e molte volte questi compiono la funzione di un sollievo metafisico, quella di un feticcio che garantisce che siamo agganciati al mondo fortificando la nostra percezione ed interpretazione dello stesso, partendo dal microcosmo e dal contesto che l’oggetto conferma con la sua presenza. I materiali sono per me anche un tema e un concetto in sé stessi: l’argilla, la ceramica, il legno, i tessuti, i fili, una lastra, altri oggetti raccolti o ritrovati, etc. Quindi la stessa maniera di affrontare il lavoro con essi costituisce una conversazione ed un ascolto attivi. Riconoscerli nella loro bellezza concreta e nelle loro potenzialità e sapere che posso produrre trasformazioni a partire dalla loro esistenza, fa parte del mio fare più attento».
ANNA MARIA DI MARCO
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nna Maria Di Marco, artista che vive tra Roma e Pescara, la sera del 20 settembre 2016 ha inaugurato una mostra di pittura nella Maison des Arts Corso Umberto 83 a Pescara. Pittrice eclettica ha offerto al numeroso pubblico il fascino del molteplice. Sperimentando diverse tecniche, ella appunto, ha realizzato dipinti di diverse modalità di pittura. Nelle sue composizioni il confronto con il soggetto spazia dalla Pop Art alle vedute cittadine, alla rappresentazione delle persone approdando al Surrealismo e all’Astrattismo. Il percorso dal figurativo all’astrazione è seguito anche dai Grandi tra i quali Kandiskj, l’artista russo al quale Anna Maria Di Marco può considerarsi collegata per due opere intitolate “ L’amore”. Le figure di tali opere sono vestite con tanti e vivaci colori pastello. E come diceva Kandiski, che alla ricerca cromatica si era dedicato, nella pittura gli oggetti vanno perden-
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do la loro realtà ottica a favore dei colori che invece influenzano di più l’animo dell’osservatore. Tale convincimento portò Kandinskij alla pittura astratta costituita soprattutto di colori. Anche Anna Maria Di Marco dopo aver bene rappresentato paesaggi, vedute di città e figure umane tra le quali si fanno notare “Charlot”, “Le due amiche”ed altro, si orienta verso il Surrealismo alla Magritte e l’Astrattismo alla Kandiskij. Il Surrealismo propone l’associazione imprevedibile di parti senza nessun rapporto logico tra loro come si vede nell’opera della Di Marco “ Gaborina”. L’Astrattismo rifiuta le forme figurative tradizionali e la rappresentazione degli oggetti a favore di un libero uso delle forme e del colore. C’è da rallegrarsi con la pittrice per la sua voglia di sperimentarsi nelle varie tendenze e la sua incessante tensione verso il meglio. Anna Cutilli Di Silvestre
RIBALTA FOTOGRAFIA A DANILO SUSI IL PREMIO SCANNO
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l prestigioso premio fotografico internazionale “Scanno dei fotografi 2016” è stato assegnato all’abruzzese Danilo Susi. L’ambito riconoscimento è stato consegnato dal maestro della fotografia Gianni Berengo Gardin alla presenza del sindaco Piero Spacone e dall’assessore alla cultura Amedeo Fusco. Danilo Susi svolge la professione di medico ma la sua grande passione è la fotografia ed è presidente dell’AMFI, associazione medici fotografi italiani. Inizia a fotografare negli anni ’70 come autodidatta. La sua ricerca sul colore, già in epoca analogica, si basa sull’astrazione dell’immagine da una realtà visivamente concreta. Il progetto Acquastratta nasce nel 2003, anno internazionale dell’acqua. Recuperando dalla natura quell’esistente secondo l’impressionismo di Claude Monet, ha dato colore ad un liquido per definizione incolore ed amorfo, fotografandone i riflessi: l’acqua è diventata la sua “ tavolozza”, i suoi colori il suo “ visibile”. Ha cercato di riscoprire la “purezza” della tecnica fotografica senza ricorrere ad elaborazioni di postproduzione, esaltando ciò che la natura offre di per sé; in tal modo i colori dell’acqua, intensi numerosi e fluttuanti secondo la luce, sono diventati opere astratte di valenza pittorica, esempi estremi di come la luce crei immagini inimmaginabili e dia sensazioni visibili: dalla purezza del bianco
suminagashi, l’arte giapponese degli inchiostri fluttuanti, ai neri notturni di un’acqua dolce, ai colori più intensi dell’inquinamento del mare, di cui la serie OIL si propone come viaggio all’interno della forma/colore per scoprire nuovi percorsi di bellezza e comunicare con essa. L’ultima serie è ANIMALIA. Sue immagini sono state selezionate per la Triennale di Roma, il Codice MIA di Milano, Off Site Art de L’Aquila, la Biennale di Fotografia di Trezzo e fanno parte delle collezioni della Galleria Civica “G.Sciortino” di Monreale (Pa) , del Museo del vetro di Abano-Montegrotto Terme e della Fondazione Malerba per la Fotografia FMF, della società Alidem-l’arte della fotografia di Milano, del Gran Sasso Science Institute GSSI de L’Aquila. Nella foto, Gianni Berengo Gardin premia Danilo Susi
LE LUCCICANZE DI PAOLO DELL’ELCE
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apita di essere sopraffatto dalle “circostanze” del vivere: reazioni, parole, a volte persino oggetti ci opprimono e nulla possiamo a proposito. In tali frangenti ho imparato, mio malgrado, a non opporre resistenza. Mi lascio invadere senza proferire parola e attendo con pazienza che la morsa si allenti e la ragione prevalga sul caos. Subisco la stessa sopraffazione, ma di ben altra origine e con esiti totalmente diversi, nell’osservare le immagini che Paolo Dell’elce porta alla nostra attenzione. Resto lì, in silenzio, imprigionato nelle sue boscaglie, ogni possibile via d’uscita mi è felicemente preclusa. Non c’è nessun elemento esterno ostile che condizioni il mio ritorno al presente. Divento ostaggio volontario di una realtà tanto illusoria quanto visionaria che mi spinge ad essere, contemporaneamente, carceriere e prigioniero di me stesso. Intrecci di rami, liane di rovo, cespi dorati di canne selvatiche. La luce scivola argentea. Inesorabile si espande ed esalta casualmente microcosmi in perfetto scompiglio. Tutto, contemporaneamente, è particolare, è totale. Mi distolgo dalla fissità che mi pervade per vagare in un disordine naturale, idealizzato e rarefatto. Il caos, che finalmente mi appartiene, ha le
sue ragioni di vita. Tra racconto e mito, mi addentro nel viaggio iniziatico che mi è offerto. Figurazioni simboliche, luccicanze simboliche, le sue, mi spingono a diventare solista. Interprete unico di passaggi obbligati del pensiero, dove il far luce per recuperare una purezza primordiale, è chiave di volta del suo dare che passa attraverso un’insolita quanto rara rappresentazione panteistica di una “selva chiara”. Mariano Cipollini
LE OMBRE DI CRISTIAN PALMIERI
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uori dall’ombra” è il titolo della mostra fotografica di Cristian Palmieri, dedicata al mondo femminile. Il progetto, finanziato dal Comune di Roseto degli Abruzzi e dalla Fondazione Tercas, è inserito nel programma di Roseto Cultura 2016 e sarà visitabile, nella sede della galleria d’arte di Progetto Auto Group di Scerne di Pineto (statale 16), fino al 10 gennaio. La volontà dell’autore, tramite l’arte fotografica, è quella di rendere la donna protagonista di una società che non sa riconoscerla ancora come tale. Un tema fortemente contemporaneo che assume i caratteri di una problematica sociale che chiede urgentemente di essere ascoltata. Il lavoro del fotografo rosetano Cristian Palmieri si compo-
ne di cinquanta ritratti di donna a grandezza naturale. Ogni ritratto narra una storia personale, intima, femminile che abbraccia età diverse ed estrazioni sociali diverse. Donne che escono dall’ombra per reclamare lo spazio della propria identità.
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[ VARIOGUSTO - LA RICETTA ]
Zuppa di lenticchie Lenticchie di Santo Stefano di Sessanio, Pane casereccio, Aglio rosso, Carota, Sedano, Prezzemolo, Alloro di montagna, Olio extra vergine di Oliva, Sale.
Tagliare dei cubetti di pane casereccio di circa due centimetri di lato, tostarli in una padella leggermente unta con olio di oliva mescolandoli continuamente e appena risulteranno dorati metterli ad asciugare su una carta assorbente. In una pignatta di terracotta fare soffriggere nell’olio un trito molto fine di prezzemolo, sedano e carota e quando sarà appassito unire le lenticchie ben pulite e lavate facendole insaporire per un minuto. Aggiungere acqua quanto basta, due foglie di alloro, uno spicchio di aglio spellato e salare. Coprire la pignatta con un coperchio e lasciare sobbollire a fuoco lento mescolando di tanto in tanto con un cucchiaio di legno. A cottura ultimata togliere dalla pignatta l’aglio e l’alloro, adagiare sul fondo dei piatti da portata una manciata di pane tostato, versarci sopra la zuppa di lenticchie, unire una foglia di alloro fresco e servire in tavola.
Le lenticchie di Santo Stefano di Sessanio, paesino castellano dei monti del Gran Sasso, sono coltivate in terreni asciutti di montagna e risultano, per il loro sapore e la facilità di cottura, quelle più ricercate sul mercato.