54 luglio 2005• n. 54• EURO 3.50
Sped Abb. Post. GR. IV(70%)•Taxe parçue-Tassa riscossa•Uff.P.T. Pescara Italia
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Estate 2005 MARE NOSTRUM Inchiesta GENTE DI DEL TURCO La pubblicità in Abruzzo CARSA ADVENTURAGE Santo Stefano di Sessanio BORGO A CINQUE STELLE
Inquestonumero Costume Mare nostrum
Inchiesta Gente di Del Turco
Interni abruzzesi Il borgo a cinque stelle
Personaggi Daniele Kihlgren
Personaggi Massimo Felicetti
Personaggi Luciano De Liberato
Pubblicità/2 Adventurage
Pubblicità/2 Carsa
Abruzzo Valley Alberto Sangiovanni Vincentelli
Universivario Chieti 2011 Ateneo nello spazio
Universivario Teramo Caccia grossa alla zanzara tigre
Universivario L’Aquila Biotecnologie, la Facoltà che si industria
Ricerca Mario Negri Sud
Ribalta Gusto, gusti, modi, mode, eventi Società Musica Letteratura Libri Regista Moviementi Teatro Arte Natura Cosebuone La Memoria Storie dal volontariato Tabù Salute & benessere
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Direttore responsabile
Claudio Carella Redazione
Antonella Da Fermo (grafica), Fabrizio Gentile, Silvia Jammarrone Hanno collaborato a questo numero
Giuseppe Capone, Annamaria Cirillo, Giulia Cocciante, Galliano Cocco, Anna Cutilli, Sergio D’Agostino, Giacomo D’Angelo, Pierluigi D’Angelo, Milena De Luca, Miriam Di Nicola, Mario Di Paolo, Francesco Di Vincenzo, Ermando Di Quinzio, Francesca Fadda, Paolo Ferri, Laura Grignoli, Maristella Lippolis, Marcello Maranella, Marco Manzo, Marco Patricelli, Angela Romeo, Giovanna Romeo, Roberto Sala, Eleonora Sasso, Francesco Stoppa, Fabio Trippetti, Ivano Villani. Editing AB Puzzle Pescara Progetto grafico Ad. Venture - Compagnia di comunicazione Stampa Publish - Sambuceto (Ch) Fotolito Publish srl - Sambuceto (Ch) Allestimento Legatoria D’Ancona - Cepagatti (Pe) Claudio Carella Editore Autorizzazione Trib. di Pescara n.12/87 del 25/11/87 Abbonamento annuo (sei numeri) Euro 19, estero Euro 36 Vers. C/C Post. 13549654 Rivista associata all’Unione Stampa Periodica Italiana Redazione Via Puccini, 85/2 Pescara Tel. 085 34296 Fax 085 27132 www.vario.it - e-mail: redazione@vario.it
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Mare nostrum Tipi da spiaggia. E tipi da mare aperto. E da caletta incontaminata, o da impegno ecologista, o da sport estremo: come vivere il mare a 360 gradi, sulle tavole da surf o sul ponte di una barca. O, se preferite, sotto una palma con libri e racchettoni. Ritratto dell’Abruzzo riflesso sul mare lucente.
di Paolo Ferri foto Silvia Jammarrone
Andrea Papa istruttore di windsurf e di vela per bambini – ex pallanuotista È fondamentale quasi come il mangiare tutto l'anno, avere lo sguardo sul mare almeno un'ora al giorno. Il mare è in continuo movimento e non sai mai quello che ti regala, e questo ti fa scoprire sempre nuove cose; poi è una cosa che insegna a vivere, per questo è collegato al mio modo di vivere oggi. Credo fermamente nel fatto che il mare possa aiutare i bambini a crescere. Credo che il mare collegato al vento sia un ulteriore situazione di crescita, nel senso che sono due forze che ti costringono a convivere con la natura, quando pratichi il windsurf e la vela, e ti costringono a darti delle regole, e ti regalano sensazioni uniche, come veleggiare e muoversi col vento. È unico al mondo e non ci sono sensazioni uguali e paragonabili, in nessun altro sport. Soprattutto nel windsurf si ha un contatto puro con la natura, con l'aria, col mare sotto i piedi; se il mare è agitato senti qualcosa di ancora più forte, questa massa che si agita... È un grande maestro.
Mariangela Giangiulio istruttrice di windsurf Il mare è una scuola che insegna a dominare te stesso, a confrontarti con energie primordiali. Un'attitudine che ti rimane dentro anche quando sei lontano dal mare. Lo sento come un maestro, il mare, mi accorgo che tante insicurezze sono sparite e le certezze si sono rafforzate. Insegnare agli altri il windsurf mi insegna tante cose, perchÊ equivale ad insegnare come affrontare il mare e come capirlo. Questo mi arricchisce interiormente e arricchisce chi lo comprende.
Sabrina Saino skipper Antiche superstizioni dicevano che le donne a bordo di una barca portavano sfortuna. Invece una donna comprende anche meglio il mare, le sue altalenanze, le sue incostanze. Per me il mare è uno sfogo, una via di fuga, l'altra faccia della medaglia della mia vita ordinaria.
Daria Di Mascio appassionata di sport alternativi Sono mare dipendente, mi dà armonia, è l'assoluto. D'estate non riesco a stare senza. Lo amo di più senza ombrelloni, preferisco viverlo nelle spiagge non affollate e viverlo da sportiva, in azione, confrontarmi con l'acqua e le onde, cercare l'emozione, l'adrenalina. Io avevo quasi paura del mare; mi ci sono avvicinata tardi, ma ora non ne posso fare più a meno: mi ha cambiato, ora mi pongo diversamente verso la vita in generale.
Antonia Iurisic istruttrice di beach fitness Il mare mi ispira, sempre. Quando nuoto, quando mi alleno e insegno agli altri come trattare al meglio il loro corpo. Il mare è il luogo migliore per il movimento e per il mantenimento della perfetta forma fisica. È come se mi trasmettesse la vitalità per muovermi e migliorare il rapporto col mio corpo. Questo cerco di suggerire alle persone a cui faccio lezione in spiaggia: trarre motivazione dal mare, per gestire al meglio la propria corporeità.
Daniela Bellante bagnina Il mio rapporto col mare è duplice. La ragazza che va in spiaggia con gli amici cerca ora il relax ora l'azione, gioco a beach volley o faccio il bagno. Quando invece sono in servizio il mare diventa una cosa seria: occorre tenere gli occhi apertissimi ma anche saper infondere fiducia e tranquillità. Il mare c'è sempre stato nella mia vita.
Carlo Paternuosto comandante Capitaneria di porto di Pescara Ho un rapporto abbastanza oggettivo col mare. È qualcosa che sento di dover proteggere; il mio ruolo mi fa sentire questa esigenza. È un bene comune, mio come di tutti, mi appartiene e ci appartiene, per questo occorre vigilare su di esso e punire, all'occorrenza, chi non lo rispetta.
Eriberto Mastromattei balneatore Il mare per me è sentimento, esprime i miei sentimenti, li stimola e li amplifica. Il mare è amore, profondo come l'oceano, è passione, viene dalle viscere. Il mio mare è quello della mattina presto, dell'alba, più genuino, più affascinante, che meglio mi accende i sentimenti. La fine della stagione mi fa molta tristezza, ma quando lo stabilimento rimane chiuso ne approfitto per cercare nuove idee, il mare è uno stimolo per inventare, per cercare novità.
Andrea Natale biologo marino È un rapporto di amore ma anche di rispetto e timore. Io vengo da una famiglia di mare, mio nonno era marinaio; ho sempre vissuto il mare come una presenza continua, la prima cosa che vedi quando ti svegli la mattina. Se non lo vedo per due tre giorni mi manca. Ricordo sempre l'emozione di quando tornavo in treno dall'università e lo rivedevo. Quest'amore mi ha portato a studiarlo per cercare di renderlo migliore. Ma il perfetto ricercatore deve avere sempre il cuore di un marinaio. Senza mare farei fatica a concepire sia il lavoro che la vita.
Aurelio Coltri pescatore e cuoco sui trabocchi Cucino per diletto, non per professione, per gli amici e per cene private, e il mare stesso mi ispira come cucinare il pesce. Annusare il mare, le sue creature, questo è il modo migliore per gustare la cucina di mare. Perché il mare è fantasia di profumi e di sapori, occorre solo lasciarsi trasportare dall'immaginazione e dalla fantasia che il mare stesso evoca.
Pamela Padovano sommozzatrice Il mare è il mio punto di arrivo naturale. Il luogo dove sento di essere diretta. Quando sono lì sotto sono come sulla luna, un luogo fantastico, dove si è senza peso, nella semioscurità, ogni cosa che si vede è un oggetto o una creatura fantastica. Consiglio sempre, a chi ha la possibilità, di praticare lo scuba-diving, il nuoto in tenuta da sub, senza bisogno di andare in luoghi esotici: l'Abruzzo ce lo permette.
Giuseppe De Nobile guardiano del faro di Punta Penna » un'immensit‡ senza confini, quando lo guardo mi sento un abitante del mondo, non ci sono nazioni nÈ bandiere. In questo spazio i fari sono ancora una fonte di tranquillit‡, quando il mare Ë imbufalito i marinai vedono la luce del faro, la riconoscono e si rasserenano. Non so come farÚ tra due anni quando andrÚ in pensione, senza vedere il mare tutte le mattine.
Paola Barbuscia delegato regionale associazione Marevivo Forse sono stata un mammifero marino nella mia vita precedente. Il mio è un rapporto che si basa sul rispetto, com'è giusto che debba essere tra le persone. Il mare è un po' come una persona, d'altronde è un'entità vivente e perciò dev'essere rispettato con i suoi litorali, le creature marine e tutto il resto. Al di fuori dell'attività con l'associazione non posso prescindere da questo spirito. Per questo cerco un approccio al mare il più rispettoso possibile nei suoi confronti. Anche la vita estiva può svolgersi col minimo impatto possibile, se praticata con un po' di intelligenza e sensibilità. Personalmente cerco luoghi dove questo mi è possibile, e la costa abruzzese ne è piena. Luoghi in cui la vita da spiaggia organizzata è assente, e che spesso sono contraddistinti da uno stato di salute ottimale dell'acqua. Insomma, un altro mare è possibile, tranquillo, placido e rispettoso. Se noi rispettiamo lui, lui rispetta noi.
GENTE DI Del Turco di Fabrizio Gentile e Paolo Ferri ha collaborato Roberto Sala
i fa presto a dire “Gente di”. Facile quando parliamo di Gente di Pescara (non di Dublino) o di Chieti, dell’Aquila, di Teramo o della Marsica: c’è la carta d’identità o la cittadinanza acquisita, più o meno onoraria, a testimoniare l’appartenenza ad una comunità, ad un gruppo omogeneo, ad una caratterialità. Quando è di persone, invece, che si parla, tutto diventa tremendamente difficile. Metti D’Alfonso: è da quando aveva 18 anni (anche se non è molto tempo fa) che studia da leader, che cerca sul vocabolario i termini più singolari e improbabili, che però a livello subliminale catturano “le masse” . Metti Sospiri: una vita a scuola dal maestro per saltare fuori dall’acqua, nell’acquario della politica che conta, per poi ritrovarsi qualche “sgombro qualsiasi” che pensa di poter saltare più alto. Per dire che potersi fregiare dell’avere la gente alle spalle che ti guarda come un Napoleone non è da tutti. Prendiamola alla larga: Ovidio da Sulmona (ma si sa che l’amore è sempre stato il tema preferito, da che momdo è mondo); d’Annunzio (ma si sa la classe non è acqua); Troilo con i suoi partigiani (e qui non scherziamo, c’è solo da inchinarsi e ringraziare); Galeone, e qui possiamo tornare a dire: si sa, il calcio è il moderno oppio dei popoli. Poi basta, se vi viene in mente qualcun’altro segnalatecelo. E arriviamo alla politica: un fuoriclasse, Gaspari e poi solo la contezza dalfonsiana e l’aggressività del Sandokan della marina. E invece no. All’improvviso è spuntato lui: l’orso marsicano, l’aquila di Collelongo, una rosa sbocciata in primavera. Ottaviano Del Turco. Certo non è di primo pelo, ma gli abruzzesi lo stimavano come protagonista del sindacato che ha contribuito a svecchiare l’Italia, come garantista dell’antimafia, come europeista convinto ed apprezzato. Forse proprio per questo che ha affascinato gli abruzzesi, che si sentono europei e si comportano da europei assumendo e accogliendo i macedoni, per continuare ad occuparsi di pastorizia. Certo una perplessità ce la procura: quale neologismo per la Gente di Del Turco? Turchini, turchesi, ottavianei? Meglio fermarsi qui, sperando di poter usare solo abruzzesi forti e vincenti.
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1 • ENRICO PAOLINI Vicepresidente della Giunta Una persona autorevole che parla dell’abruzzo da un osservatorio nazionale, oltre al fatto che ha le sue radici qui. Una novità assoluta. Dopo Gaspari non c’è mai stata una personalità così forte che sia stata al tempo stesso così abruzzese e così uomo d’Italia, nazionale e internazionale. L’immagine che io ho in mente è questa. Se pensiamo ai leader della politica nazionale paragonandoli a delle montagne, loro sono le Alpi, lui è il Gran Sasso.
2 •VALENTINA BIANCHI Assessore Attività produttive È un artista, che traccia una linea d’orizzonte e costruisce intorno un nuovo progetto, un nuovo Abruzzo. Ha la capacità di vedere le cose in prospettiva; la figura dell’artista sembra intangibile,un po’eterea,ma in realtà esprime un’emozione importante. Può ricostruire un quadro nuovo dell’Abruzzo che è fatto di emozioni, di valori, di fiducia verso il futuro ma anche e soprattutto di credibilità,referenzialità, affidabilità, progettualità, eticità. E sotto quel quadro mette una firma, a testimonianza che l’opera è di valore.
de esperienza. È un personaggio di transizione tra l’Abruzzo di tradizione e la nostra tendenza ad aprirci, come la sua biografia ci insegna. Ha quel piglio brusco e burbero come chi ha capito tutto quel che c’è da sapere. Nei nostri anziani di paese è un’attitudine conservativa, in lui è piuttosto un qualcosa che ci fa uscire dalle nostre radici arcaiche ed entrare nella modernità.
5 • FERNANDO FABBIANI Ass. al Lavoro, Istruzione e Diritto allo studio Anche nell’aspetto Del Turco è come l’Abruzzo: forte e gentile. In un momento di crisi per tante famiglie, il presidente deve essere come una montagna abruzzese: forte, di polso, capace di decisioni importanti ma anche gentile per poter essere vicino a quanti vivono una situazione di precarietà economica vicina alla miseria.
6 • TOMMASO GINOBLE Ass. Protez. Civile e Trasporti Un treno, una moderna locomotiva che deve percorrere un vecchio tragitto. Porta con sé tanti vagoni, e quando ci sono i tornanti e sente che alcuni vagoni sono di peso, sbuffa, e pensa quasi quasi di sganciarli…
3 • FRANCO CARAMANICO Urbanistica e Aree protette È un bulldozer. Un uomo autorevole, concreto,come emerge dai lavori della giunta dove prevale un pragmatismo esasperato ma anche molto efficace. Ha la capacità di una visione politica con orizzonti più ampi del comune, e la delega sul Mediterraneo ne è la testimonianza. Cerca di fare un gioco di squadra piuttosto che gestire il governo in maniera verticistica.
7 • BERNARDO MAZZOCCA
4 • GIOVANNI D’AMICO
8 • ELISABETTA MURA
Vicepresidente della Giunta Mi comunica la stessa sensazione che mi danno quegli anziani di paese, di cui i piccoli centri sono pieni. Quelli che si incontrano nei bar, che hanno quell’atteggiamento a volte un po’ burbero di chi ha navigato tanto, ne ha viste tante e ti guarda dall’alto di una vita caratterizzata più da una lunga appartenenza che da una gran-
Assessore alla Cultura Secondo me somiglia ad un’aquila: si forma in grandi organizzazioni, quindi è abituato a valutare i problemi dall’alto, ma è anche in grado di focalizzare i singoli problemi. La sua storia personale lo ha fatto crescere al di fuori di questa terra cui è comunque molto legato,e al di fuori quindi di certe dinamiche localistiche a volte nobili,a volte
Assessore alla Sanità Un grande federatore,non soltanto del centrosinistra ma di tutto l’Abruzzo, complessivamente, che ha problemi di carattere territoriale trea aree interne e la costa, uno che può costruire l’integrazione tra i due aspetti di questa regione che un tempo era conosciuta col nome di Abruzzi e che oggi è l’Abruzzo.
meno nobili. Ha dunque questa peculiarità: un forte affetto per l’Abruzzo ma la capacità di osservarne i problemi con distacco. Non deve farsi degli amici, quindi è libero.
9 • MAHMOUD SROUR Assessore ai Lavori Pubblici e Politiche del Mediterraneo Lo conosco da poco, e mi fa pensare a un’aquila,che abita le alte vette e guarda tutto dall’alto. Sono convinto che questo volare alto gli dia una particolare sensibilità: ha delle intuizioni che possono essere una risorsa per questa regione. Anche noi dobbiamo riuscire a vedere per intero le potenzialità dell’Abruzzo,e aiutarlo ad uscire da un isolamento più mentale che fisico.
10 • MARCO VERTICELLI Ass. alle politiche agricole A me da l’idea di un grande pescatore, di questa figura ha la pazienza, la estrema tenacia e concretezza nel voler raggiungere un obiettivo, nel catturare la preda. Il tutto in un contesto come il mare che stimola l’immaginario, ci fa pensare, ci trasporta su percorsi lontani da quelli del quotidiano. Quindi del pescatore apprezzo la pazienza, la concretezza ma anche il sogno, la dimensione atemporale. In Ottaviano vedo riunite queste tre caratteristiche, tenacia, volontà, e saper navigare su orizzonti molto più lontani dell’evento immediato che è la cattura di un pesce, cioè il semplice raggiungimento di un obiettivo.
11 • MARINO ROSELLI Presidente del Consiglio Regionale Un treno che è sempre in movimento, che vuole arrivare ad una stazione finale mettendo su ad ogni fermata tutto quello che incontra. Lo conobbi quando era Ministro della Repubblica, ma solo oggi ho capito quanto tiene a questa regione. Anche dal documento di programmazione si è capito quanta voglia ha di cambiare questa regione, dalle tante sfaccettature e dalle enormi potenzialità che possono essere messe in relazione per creare un vero sistema Abruzzo che rilanci la Regione.
12 • LIBERATO ACETO Consigliere Regionale Un padre di famiglia. Parlamolto di regole, di attenzione ache tutto fili secondo le regole, autoritario e severo ma concede delle libertà che consentono al gruppo di crescere. Lui è il capo di questa famiglia, la sua responsabilità è di governare e sa affrontare i problemi quando gli si presentano davanti.
13 • WALTER CAPORALE Consigliere regionale È una rosa sbocciata in primavera, entusiasta di vivere e irradiare tutto ciò che lo circonda, in particolare, il consiglio regionale, vivificato dal suo slancio, dalla sua forza, dal suo entusiasmo, fino all’intera Regione e agli abruzzesi, il tutto dopo un periodo di depressione, sociale ed economica.
14 • ANTONELLA BOSCO Consigliere regionale Un mare in tempesta. Perché come il mare anche Del Turco è un oggetto in continua evoluzione, che si modifica di continuo. E, come il mare, gli appartiene una idea di forza, irruenza, pienezza, estensione, nelle vaste dimensioni, ed ampiezza di contenuti, come il mare, che contiene tante cose.
15 • ANNA MARIA FRACASSI BOZZI Consigliere Regionale Assomiglia ad un leone, il re della foresta, perché il leone ha la capacità di saper guidare il branco, la sua comunità. Sa provvedere ai bisogni della stessa e in caso di necessità sa lottare per difenderne gli interessi, nelle diverse sedi: è uno che può accedere dovunque (sindacati, parlamento europeo) per difendere le istanze dell’Abruzzo, che sono molte.
16 • MARIA ROSARIA LA MORGIA Consigliere Regionale Ottaviano Del Turco è come un regista alle prese con un set molto complesso. Mi fa pensare ad una figura a metà tra Rossellini e Spielberg, con un occhio alla realtà come i grandi neorealisti della storia del nostro cinema e l’altro capace di immaginare il futuro attraverso le nuove tecnologie.
17 • STEFANIA MISTICONI
21 • ALFONSO MASCITELLI
Consigliere e capogruppo DS Un capitano di una nave ammiraglia, che sa dove deve andare e conosce il suo mestiere.Un politico di lungo corso, quindi, di livello nazionale che ha conosciuto confronti di livello nazionale ed europeo, quindi una guida sicuramente più elevata e lungimirante, più attrezzata anche dal punto di vista delle categorie culturali e dell’analisi della realtà abruzzese.
Consigliere Regionale IDV Lui è l’equivalente di una bella donna che bisogna sposare. Non è un matrimonio per corrispondenza né un colpo di fulmine. È un matrimonio che prende vita dopo un lungo corteggiamento, dopo una sincera e profonda conoscenza dei reciproci caratteri, attitudini, virtù e vizi. Questo è il matrimonio che ha durata maggiore e maggior spessore, e questo è l’approccio migliore da avere nei suoi confronti.
18 • GIANNI MELILLA Consigliere regionale Orso bruno marsicano, un animale simbolo della nostra regione, generoso, forte, intelligente; il suo discorso di apertura è stato di altissimo profilo, ed è una garanzia certa che quanto ha detto si tradurrà in fatti. Lo conosco dai tempi della Cgil e sono sicuro che quando parla le sue parole non scivolano come acqua sulla pietra,ma lasciano una traccia e sono certo che nella storia di questa regione la giunta Del Turco lascerà tracce profonde.
19 • NICOLA PISEGNA Consigliere Regionale Nel cercare la forma Del Turco è una persona che cerca anche la sostanza. Lo si vede dai suoi gesti, dall’importanza che attribuisce ai modi di fare, al modo di rapportarsi agli altri. Cerca la sostanza del pensiero delle persone, forte di un grande carisma. Un’immagine che lo racchiuda potrebbe essere quella che media tra due grandi figure del suo vissuto trascorso, Pietro Nenni e Bettino Craxi, vedo in lui lo stesso grande carisma che avevano loro.
20 • DANIELA SANTRONI Consigliere e Capogruppo PRC È come un grande attore cui viene conferito il premio alla carriera: non ha più bisogno di vincolare le proprie scelte alle grandi major o a contratti particolari, non ha più necessità di scegliere il copione giusto. Può scegliere in autonomia le parti che ritiene di voler interpretare.
24 • LAMBERTO QUARTA Responsabile dell’attuazione del programma di governo Un centravanti d’altri tempi, un centravanti di sfondamento come Chinaglia, o Boninsegna, determinato a sfondare e quindi a iniziare questa legislatura andando avanti a testa bassa.
28 • STEFANIA PEZZOPANE Presidente della Provincia di AQ Ottaviano Del Turco? Mi fa pensare un po’al nonno di Heidi, in apparenza burbero e severo, e un tantino isolato nella sua casa di montagna. In realtà pochi come lui sono capaci di grande saggezza, pochi come lui capaci di far crescere intorno a sé i più giovani, di aiutare a costruire una classe dirigente.
27 • GIUSEPPE DE DOMINICIS Presidente della Provincia di PE Ottimo golfista, al primo impatto mi ha rifilato già un…paio di buche inattese. Scherzi a parte, del giocatore di golf sembra avere l’aplomb e il passo giusto per fare centro, magari ricorrendo al mestiere e alla capacità di guardare lontano: doti che si hanno nel sangue e non si improvvisano con tecniche dell’ultim’ora. Proprio quello che occorre sull’evergreen della politica, dove lui ha certo i numeri del maestro.
29 • ERNINO D’AGOSTINO Presidente della Provincia di TE Mi ricorda il Presidente Ciampi e quello che fu per l’Italia all’inizio degli anni ’90, quando la nostra economia ebbe decisamente bisogno di
una iniezione di fiducia. Come per Ciampi toccherà a Ottaviano Del Turco rilanciare il prestigio di questa Regione dopo gli anni di abbattimento scorsi. 39 • TOMMASO COLETTI presidente della Provincia di Chieti Uno che possiede le chiavi per entrare nei palazzi romani ed europei, dove si decidono le sorti del territorio, dalla porta principale. È una personalità dal prestigio riconosciuto, e il fatto che proprio un personaggio così noto ed apprezzato occupi un posto tanto importante, fa ben sperare per le sorti della nostra regione. Perché proprio quelli sono i palazzi che contano, sono quelli dove si fanno le scelte che contano.
40 • LUCIANO D’ALFONSO Sindaco di Pescara Ottaviano Del Turco è un jolly per l’Abruzzo, una carta formidabile da giocare sui tavoli più importanti d’Italia e d’Europa per farci vincere, come sistema regionale, le partite fondamentali dalle quali siamo stati esclusi per troppi anni.
31 • FRANCESCO RICCI Sindaco di Chieti Un novello Giuseppe Garibaldi, uomo di forza e di servizio. 1) perché è socialista, 2) perché si è messo al servizio della sua comunità di origine, cioé l’Abruzzo, pur provenendo da sistemi più grandi, e 3) perché ha dimostrato una grande forza di spirito, forza elettorale e grandi capacità personali.
30 • FRANCO LA CIVITA Sindaco di Sulmona Un tenace e raffinato uomo di montagna.Tenace, perché difende con la passione che è tipica della gente di montagna le proprie convinzioni e le proprie idee, ben difficilmente si lascia smontare o intimorire. Raffinato, perché è persona di cultura, dotata di strumenti intellettuali non comuni, che getta spesso nella discussione. Insomma, come diciamo noi a Sulmona,“è tost”! Mi sono fatti l’idea, poi, di un uomo profonda-
mente solidale con gli amici, schietto e leale come pochi.
25 • FRANCO LEONE Segretario Regionale Cgil Quando penso a Del Turco mi viene in mente quel personaggio del “Quarto Stato”di Volpedo, la figura centrale. Quando l’ho conosciuto era al centro della politica, quand’era sindacalista alla Fiom. Era una persona estremamente complessa, ad esempio nell’articolare i discorsi. Era ed è un riformista che deve sempre avere rigore, cercava di dominare una situazione in cui, come tutti i riformisti, doveva spingere sull’innovazione e sulla modernità davanti ad una platea che non era sempre ricettiva, quindi era sempre preciso nelle argomentazioni. Guarda in avanti; ha la necessità di stare davanti e trascinare le persone dietro di sè, ma avere il senso dell’innovazione, idee originalità non può significare un distacco rispetto alle masse.
26 • RITA DEL CAMPO Consigliere Regionale Mi evoca un personaggio di un quadro fiammingo, d’altronde è amante della pittura. È un uomo a tinte scure, possenti, molto evocativo, di non facile impatto nel rapporto diretto, poco incline al rapporto effimero, di facile lettura, immediato. Non è un tipo da gran pacche sulle spalle, ma da studiare, da capire e che richiede approfondimento.
32 • GAETANO CUZZI Ass. alla Provincia di Pescara Non è un centometrista che parte a razzo per finire presto la sua corsa. È un fondista che scandisce i tempi e le tappe della sua azione di governo mettendo a dura prova anche i più navigati “maratoneti” della politica. Quando raggiunge un traguardo, lui ne indica subito un altro ricordando alla sua squadra che non è l’arrivo. La sua esperienza è una garanzia per ridare alla Regione, il giusto ruolo che le compete: con un uomo così non servono contratti di garanzia, basta la parola ed una stretta di mano.
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22 • KATIA SCOLTA Capo ufficio stampa della giunta Un quadro futurista: ha passione per l‚arte e per la pittura da sempre, con risultati apprezzabili. Guarda al futuro di questa regione con grande attenzione; ha interesse ad esplorare sempre nuovi percorsi, ad individuare nuove linee di sviluppo.Pensa concretamente al rilancio del territorio in un contesto economico italiano ed europeo.
23 • ANGELO SALUCCI Sindaco di Collelongo È acuto, intelligente nel capire la gente, è un lavoratore, coraggioso nelle scelte, si assume la responsabilità di ciò che pensa, è pronto al confronto, al dibattito, alla valutazione, ha il coraggio delle proprie idee, idee vincenti. Penso a lui come ad un precognitivo, un precursore, sa vedere in anticipo. In questa campagna elettorale era sicuro di vincere: glielo hanno insegnato 30 anni di sindacato, che hanno stimolato l’attitudine a leggere le persone e a capire la realtà. 33 • GILBERTO SALUCCI qualcosa qualcosa Un uomo con grandi capacità, che si è fatto da solo, un autodidatta; quindi molto intelligente, molto capace. Ne apprezziamo le qualità: la bontà, la magnanimità… Un grande giocatore, capace di giocare con intelligenza a carte e nella vita politica.
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37 • ROCCO E GIOVANNA studenti Rende fiero il popolo di Collelongo.È come Giulio Cesare:deciso,forte,e intenzionato a far qualcosa per la sua gente. 34 • GIUSEPPE CERONE qualcosa qualcosa Un’aquila, che vola molto alto. Lo stanno notando tutti gli abruzzesi, ora che sta girando dappertutto. E tutti riconoscono il suo spessore politico. 35 • SLIM fotografo Del Turco è un universo, tra i più affascinanti che abbia conosciuto. È un logo, un marchio che garantisce puntualità, serietà, professionalità, disponibilità. Con lui si lavora molto ma non ci si stanca mai, perché si lavora bene. 36 • ANTONIO SANSONI commerciante Prima di tutto un amico: ha tanti pregi, e va accettato così com’è: intelligente, pragmatico. Prodi è mortadella, Del Turco è un prosciutto nostrano. 38 • CARMINE CESTA Ex Direttore di Banca Lo conosco fin da giovane,andiamo spesso a passeggiare nei boschi. Lo paragono ad una freccia dotata di cuore:determinato e incorruttibile,raggiunge il bersaglio che si è prefissato,ma anche se viaggia veloce verso il suo scopo,questo non gli fa dimenticare di essere una persona dotata di una grandissima umanità.
Del Turco secondo Ottaviano Del Turco sindacalista Un traghettatore, che si è battuto per portare il sindacato da una stagione di conflitti e di contestazione alla prassi della concertazione. Sono stato un mediatore che ha puntato tutto sull’unità, tra persone che avevano culture, storie e ideali diversi. Cortei, applausi, ma anche fischi e bulloni; a un sindacalista tocca tutto questo, ma per fortuna la mia regola era quella insegnatami da Fernando Sarti: quando la situazione si fa difficile, è meglio usare il cervello piuttosto che i polmoni. Del Turco all’Antimafia La Commissione poveva essere una sorta di struttura politica della cultura giustizialista del Parlamento italiano; io ho cercato di trasformarla in una struttura garantista, più coerente con la Costituzione. Il momento peggiore? Quando ho dovuto difendere il capo dell’opposizione dall’accusa di essere un capomafia: stava per succedere a Berlusconi la stessa cosa che era successa ad Andreotti. E io mi sono opposto. Del Turco Ministro delle Finanze Un autista al volante di una macchina senza frizione, né freni, néacceleratore. Un’esperienza breve, durante la quale sono riu-
Del Turco europeo Un mimo, che si fa capire comunque e dovunque. Sono un logorroico, e mi pesa, a Bruxelles, dover usare un linguaggio che non sento mio per esprimere il mio pensiero. Mi sono però, nonostante la lingua, trovato a mio agio nel rapporto con la gente. Mi ha stupito molto che, appena eletto –all’unanimità– Presidente della Commissione Affari Costituzionali, molti dei parlamentari presenti conoscessero il mio passato sindacale. Probabilmente il mio spirito provinciale mi aveva fatto dimenticare che avevamo costruito qualcosa non solo per noi italiani, ma anche per altri Paesi europei. Del Turco abruzzese Un emigrato in casa. Io sono nato in un piccolissimo paese d’Abruzzo e sono cresciuto in una grande città con la più alta percentuale di abruzzesi al mondo, cioè Roma. La cosa che non tollero dell’Abruzzo è che appaia come una piccola regione, che merita una piccola politica, un piccolo aeroporto, una piccola autostrada, una piccola ferrovia… è la vergogna della cultura politica di questa regione che intendo combattere ogni giorno per i prossimi cinque anni.
scito a fare la cosa in cui credevo di più: trasformare la casa di proprietà (un valore importante per la stragrande maggioranza degli italiani) in un bene che non poteva essere tassato, perché non si tassano i valori. Del Turco socialista Una specie di Braccio di Ferro: passionale, istintivo, idealista. L’unica volta in cui ho cercato di fare a botte in Parlamento è stato quando qualcuno mi definì “ex socialista”. Quell’ex era un insulto. Del Turco craxiano Potrei dire che in noi scorreva lo stesso sangue, quello della passione politica e del socialismo. D’altronde eravamo “figli” dello stesso padre, Pietro Nenni. Ho visto Craxi piangere quando passò una macchina che insultava Pietro Nenni. Conservo di Craxi questo straordinario ricordo. Del Turco pittore A me piacciono i pittori che sanno dipingere il silenzio; il mio cruccio è di non esserci mai riuscito. Mi sento come se avessi sempre un amplificatore davanti ai miei pennelli. I mari di Guccione esprimono silenzio, le nature morte di Morandi sono silenziose. Io dipingo paesaggi rumorosissimi.
Del Turco marsicano Un’antenna di Telespazio, più che un orso: qualcosa che nasce nel Fucino ma si irradia nel mondo (ed oltre). Mi sento molto marsicano, ma il valore in sé della mia storia politica è l’Abruzzo. Ho fatto una campagna elettorale che esortava ad “unire l’Abruzzo”, perché non sopporto questa mentalità provinciale che fa di ogni luogo, di ogni zona una sorta di repubblica a parte dell’Abruzzo: una cosa insensata, che piace ai mediocri della politica e ai mediocri della cultura. Può darsi che io sia un politico mediocre, ma per altre ragioni: io questa mentalità non ce l’ho. Del Turco governatore Un eminenza laica. Quando mi dicono:“Governatore… Presidente… come devo chiamarla?”, io rispondo “Mi chiami eminenza”, per scherzare, ma anche per chiarire che le parole non sono importanti, è quello che si fa che conta. Comunque “Governatore” non è un termine che mi piace: dà l’immagine di un Abruzzo come una specie di Stato federale; un’immagine che appartiene più agli abruzzesi che vivono nell’Ohio o nel Wisconsin. Bisogna avere un’idea contemporaneamente più umile e più ambiziosa di questa funzione.
Il borgo
a cinque stelle
L’antico centro mediceo rinasce come “albergo diffuso�, grazie ad un illuminato imprenditore e ad un restauro filologicamente corretto.
di Fabrizio Gentile foto Mario Di Paolo
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erovestito, bardato di una robusta armatura, il cavaliere sul suo fedele destriero percorreva l’antico sentiero che dalla Baronia di Carapelle conduceva al libero comune dell’Aquila; un falco ne seguiva il cammino dal cielo. Era ormai a poche miglia dall’arrivo quando davanti ai suoi occhi apparve un borgo, sormontato da una torre svettante, fiancheggiato da un lago e perfetto nelle sue forme architettoniche. Folgorato dalla inattesa apparizione, il cavaliere vi entrò, e dopo aver dato un’occhiata in giro, decise che quello era il luogo dove realizzare il suo sogno. Correva l’anno 1999. Il cavaliere si chiama Daniele Kihlgren, e il suo destriero BMW. Il borgo è Santo Stefano di Sessanio, il sogno realizzato. Kihlgren ha restaurato mezzo paese (3500 mq) sottraendolo all’abbandono e all’inevitabile consunzione. E ne ha recuperato integralmente le architetture e le atmosfere, rendendo un soggior-
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no a Santo Stefano un’esperienza fuori dal tempo. Rimasto sostanzialmente intatto da circa cinque secoli, da quando cioè le terre circostanti, insieme ai comuni di Calascio e Carapelle, passarono sotto il dominio dei Medici, Santo Stefano di Sessanio visse grazie alla famiglia fiorentina un periodo di grande prosperità, con la fioritura del commercio della lana (con le altre economie legate alla pastorizia) e soprattutto con lo sviluppo della produzione enogastronomica (già in quest’epoca si parla delle famose lenticchie e dello zafferano). Qualche secolo dopo, con la fine della transumanza, Santo Stefano e i paesi vicini condivisero lo stesso destino, quello di un fenomeno di emigrazione senza ritorno che ha lasciato questi centri praticamente disabitati. Eppure vivere a Santo Stefano si può, oggi, immergendosi completamente in quello che è forse uno dei borghi medievali centromeridionali meglio conservati d’Italia. La sua pianta, tipicamente SANTO STEFANO DI SESSANIO
medievale, non è stata modificata dai successivi interventi architettonici, e l’urbanizzazione selvaggia non è riuscita ad arrivare fin qui. Ancora oggi le case-mura circondano il cuore del borgo, di cui l’agile torre costituisce il simbolo, e le vie rimandano ad un uso difensivo (come la Bucella, uno stretto passaggio che conduce a Piazza Capo Castello da cui si diramano le vie principali che portano alla Torre, la cui parte più stretta misura meno di 30 cm di larghezza) o alla fatica di vivere (come la Via sotto gli archi, completamente chiusa e quindi utile per spostarsi durante le bufere di neve). Se l’esterno del paese testimonia una quotidianità aspra, difficile, ragionevolmente ostica, l’interno delle case del borgo consente oggi una vita commisurata alle esigenze dell’uomo contemporaneo, dalla luce elettrica ad internet, dalla doccia al telecomando. Chi desidera leggere, può farlo a lume di candela, IL BORGO A CINQUE STELLE
come un tempo, consapevole altresì della possibilità di sfruttare una comoda abat-jour; e se per creare un romantico momento c’è il camino davanti a cui brindare, a riscaldare l’ambiente ci pensa l’impianto radiante nascosto sotto il pavimento. Pavimento che, va detto, è stato ricostruito utilizzando esclusivamente materiali architettonici d’epoca. Così come le porte, i camini, le volte: ciò che i secoli hanno tolto è stato reintegrato secondo uno studio filologico che ha perfino individuato, in qualche caso, ciò che era stato aggiunto all’impianto originario di ogni edificio, per eliminarlo. La memoria degli anziani, ormai i soli residenti di Santo Stefano, è stata utile per recuperare ogni edificio alla sua originaria destinazione d’uso, e così ogni vano è tornato ad essere quello di un tempo: il forno è tornato forno, la cucina è tornata cucina; la camera da letto è stata riarredata sulla base di ricerche, soprattutto fotografiche, che
Nelle foto di queste pagine, Santo Stefano di Sessanio e le stanze delle case dopo gli interventi di recupero.
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In alto, una panoramica del borgo medievale e gli interni del ristorante. Qui sopra, il palazzo delle Logge. Nella pagina a fianco, ancora un’immagine di Santo Stefano di Sessanio e alcuni particolari degli arredi interni delle case ristrutturate.
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hanno permesso di reperire correttamente gli arredi della montagna abruzzese per una loro esatta riproposizione all’interno delle case, fino nei particolari più minuti, gli asciugamani, i materassi di lana, le lenzuola provenienti dagli antichi corredi e le coperte realizzate con i tradizionali telai in legno, con i colori naturali e secondo modelli consolidati. Ciò che di nuovo esiste in questi ambienti è solo ciò che non esisteva allora, ad esempio il bagno, la cui vasca, pur nel design sofisticato, ricorda le tinozze in cui fanciulle di buona famiglia avevano la fortuna di immergersi, e i lavandini hanno la forma di un bacile. Questo è, oggi, Santo Stefano di Sessanio: un paese-albergo, o “albergo diffuso”, come è stato chiamato, dopo un’operazione imprenditoriale unica (vedere le foto per credere) che, per la prima volta in Italia, ha recuperato e valorizzato un patrimonio storico-culturale, dove sicuramente non si troverà un chioschetto prefabbricato per la vendita dei prodotti tipici se non addirittura dei gelati. Il turista colto, che cerca in Italia non solo i monu-
menti della classicità e del Rinascimento, ma anche l’Italia meno battuta, dove certi patrimoni, certe tradizioni, si sono mantenute inviolate, le troverà a Santo Stefano. È stata restaurata una antica locanda, dove vengono serviti esclusivamente piatti della antica tradizione gastronomica locale, a base di cereali e legumi (le rinomate lenticchie sono in cima alla lista); una cantina per la vendita di prodotti enologici; presto verranno avviate le attività in alcune rinnovate botteghe artigiane, dotate di strumentazioni autentiche e secolari, con tecniche di produzione strettamente disciplinate. E il progetto di restauro ha allestito, naturalmente, anche alcune aree di uso più propriamente alberghiero, come una sala conferenze, un centro benessere e una sala riunioni. Insomma, quello che era un borgo abbandonato, custode della memoria di uno splendore passato da secoli, è oggi, verrebbe da dire, un paese a cinque stelle. La cui fortuna, paradossalmente, è stata quella di essere abbandonato. E di essere stato riscoperto.
SANTO STEFANO DI SESSANIO
L’uomo che ricostruisce i paesi «Dodici anni fa condussi in modo assolutamente autonomo, cioè senza alcuna committenza, uno studio sui paesi abbandonati dei Monti della Laga. Gli antichi borghi abruzzesi erano la mia passione. Dopo un po’ mi resi conto che avevo investito molte risorse in quella passione, e tornai ad occuparmi di attività più remunerative». Quello studio, l’architetto Oriano Di Zio lo teneva nel cassetto, come si custodisce una lettera di una amante segreta. «Nel 1998 un mio amico mi chiamò e mi presentò Daniele Kihlgren, un imprenditore milanese innamorato dell’Abruzzo, che aveva un progetto…». Nacque così la Sextantio srl, e l’incartamento tornò a vedere la luce, diventando la base del lavoro che questi due personaggi hanno portato a termine in maniera così brillante. Il resto è storia nota. Meno noto è il “dietro le quinte” di una complessa operazione di recupero e conservazione («non è corretto usare la parola “restauro”: quello che abbiamo fatto a S.Stefano è recuperare un patrimonio edilizio che può ancora produrre ricchezza» , ammonisce Di Zio) passata attraverso la fase dell’acquisizione delle proprietà, particolarmente complicata dalla situazione catastale degli immobili: «In alcuni casi esistevano documenti scritti a comprovare la proprietà di una casa, quindi è stato relativamente facile risalire ai legittimi proprietari. Nella maggior parte dei casi, però, le divisioni ereditarie avevano frammentato la proprietà, per cui i proprietari erano varie persone, e tutte devono dare il loro assenso. In casi estremi, poi, non c’erano neanche i documenti, ma una proprietà acquisita dall’utilizzo o da una cessione orale tra vicini o confinanti. Su 50 atti, comunque, c’è stata una sola contestazione che è attualmente in via di risoluzione». Successivamente si è trattato di intervenire sugli edifici acquisiti: «La Sextantio ha semplicemente eliminato tutto quanto appariva estraneo all’impianto originario della casa (ivi compresi infissi nuovi o muri divisori, o pavimenti) e ricostruito l’ambiente com’era un tempo. Per fare ciò abbiamo dovuto studiare e conoscere le tecniche del fare antico. Fino al XX secolo il principale materiale edilizio era la pietra, e ogni costruzione (come Palazzo delle Logge) è il risultato di una trasformazione che ha sempre sovrapposto le vecchie costruzioni alle nuove. Col XX secolo si distrugge per ricostruire, e i materiali cambiano radicalmente, diventando subito identificabili. S.Stefano non ha bisogno di zinco, alluminio o altri materiali moderni. E anche la tecnologia, fondamentale per garantire il benessere di chi vi soggiorna, non è stata ostentata, ma piegata al servizio dell’utenza. Quando è stato possibile ci si IL BORGO A CINQUE STELLE
è limitati a smontare e rimontare (come nel caso del riscaldamento sotto il pavimento), o semplicemente a togliere (come nel caso degli intonaci); dove qualcosa non c’era più è stata ripristinata con materiali di recupero. C’è tutto un mercato sommerso di materiali edilizi d’epoca, che dall’Abruzzo e dalle regioni del sud vanno a quelle del nord o addirittura attraversano l’oceano, essendo richiestissimi negli Usa». E per il futuro? «Stiamo già progettando interventi analoghi in alcuni comuni abruzzesi nel chietino e nell’aquilano, e anche fuori regione. È una sfida che crediamo di vincere».
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Il signore di Santo Stefano Giovane, disinvolto, testardo: Daniele Kihlgren, sceso in Abruzzo per occuparsi di cemento, ha finito col recuperare le pietre delle antiche dimore di Santo Stefano di Sessanio. Ritratto di un imprenditore etico all’ombra della torre medicea.
di Sandra Fioravanti foto Claudio Carella
«I borghi sono un patrimonio italiano importante, spesso violato, ma che merita di essere consegnato integro alle nuove generazioni».
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e Santo Stefano di Sessanio non è diventato uno dei tanti angoli d’Abruzzo abbandonati, svuotati dall’emigrazione e dalle trasformazioni economiche della regione è merito di Daniele Elow Kihlgren. Di lui si è molto parlato proprio per il progetto di recupero dell’antico borgo all’interno del Parco del Gran Sasso e dei Monti della Laga, che è ormai diventato realtà. Siamo andati a trovarlo fra le antiche mura e, approfittando di una pausa di lavoro, lo abbiamo incontrato nella fresca penombra della Locanda sotto gli archi, uno dei tanti ambienti restaurati in un’ottica rigorosamente conservativa, dove la ritrovata architettura originaria, l’illuminazione, le scelte di arredo e di suppellettili restituiscono un’atmosfera antica di secoli. Abbiamo di fronte un uomo giovane, disinvolto, la cui origine svedese, se non bastasse il cognome, sarebbe comunque tradita dall’aspetto che, per i colori della carnagione e dei capelli e per la regolarità dei lineamenti, immediatamente richiama la bellezza nordica. In realtà Kihlgren è nato a Milano, da madre italiana e da padre svedese venuto in Italia per lavoro. La sua è una famiglia di imprenditori ma lui inizialmente ha percorso altre strade. A Milano ha studiato e si è laureato in filosofia; dopo un anno trascorso in Inghilterra è tornato in Italia e undici anni fa problemi di lavoro e di famiglia lo hanno portato a Pescara. Aveva già avuto qualche rapporto con l’Abruzzo?
«No,non ero mai venuto qui anche se in famiglia se ne parlava spesso per via del cementificio di Pescara,del quale eravamo gli azionisti di maggioranza dai tempi di mio nonno materno.Dovevo fermarmi solo un paio di settimane e,invece,non mi sono più spostato». Non capita spesso che un milanese,per di più di origini nordeuropee,si radichi in una realtà di provincia.Che cosa la attrae di Pescara? «La città mi piace e mi diverte, la trovo dinamica, molto diversa dal resto della regione.È un caso di “perversione metropolitana”,è particolarmente attratta dalle novità, ingloba e consuma tutto ciò che è contemporaneo, anche l’arte, ma con spirito sudista. Si può accomunare, però, all’Abruzzo per la “percezione troppo privata della proprietà privata”, vale a dire non accompagnata da un senso di responsabilità civile.Ad esempio qui sono rare le iniziative no profit che, pur appartenendo soprattutto alla tradizione anglosassone, si realizzano in città italiane come Roma, Milano, Napoli.Personalmente penso che l’assenza di una borghesia consolidata, detentrice di un potere economico e culturale, può essere stata da una parte garanzia di uguaglianza, ma dall’altra può aver contribuito a far diventare i soldi la principale misura delle cose». Però,in fin dei conti,ha deciso di rimanere. Come è avvenuta la sua scelta? «La scelta è maturata poco a poco, ho cominciato con il rimandare la data del mio rientro a Milano DANIELE KHLGREN
perché quando vi tornavo mi trovavo a disagio non riuscendo più a condividere quel ritmo di vita e di lavoro.Vedevo persone perennemente arrabbiate e anche gli amici mi attraevano di meno. Ogni volta mi sembravano più vecchi, troppo presi dalle loro attività e mi facevano pensare a degli anziani zii. Inoltre ero attratto dalla realtà industriale del cementificio del quale dovevo interessarmi in sostituzione di mia madre, sconvolta da tragici eventi familiari. Mi sono calato nella vita della fabbrica al punto di viverci stabilmente, di farne la mia casa e di condividere le iniziative sociali realizzate a favore del quartiere. Unico inquilino in pianta stabile dello stabilimento, potevo anche verificare direttamente sulla mia persona gli eventuali effetti di quell’ambiente industriale sulla salute». Finita l’esperienza con il cemento,poteva investire i suoi soldi in una vita agiata,invece si è impegnato nel recupero di antiche case di pietra.È una scelta che ha anche il sapore del riscatto? «Assolutamente no, il cementificio non lo avevo scelto, apparteneva alla mia famiglia. Dopo la sua vendita, invece, ho avuto l’opportunità di guardarmi intorno e di selezionare le possibilità che mi si offrivano, ma una vita di solo divertimento non l’ho mai presa in considerazione perché la trovo immorale. Girando per la regione mi rendevo conto che,per effetto delle trasformazioni sociali ed economiche del territorio,numerosi antichi centri si IL SIGNORE DI SANTO STEFANO
erano spopolati andando verso il completo abbandono e la rovina.Un vero peccato perché i borghi sono un patrimonio italiano importante, sistematicamente violato,ma che merita,come dovere morale,di essere consegnato integro alle nuove generazioni.Tra l’altro possono rappresentare un valore economico rilevante.Così è nata l’idea di recuperare un borgo antico e di dargli una destinazione turistica,pensando ad un turismo qualificato,attento alla storia,alla civiltà,alla cultura. Bastava soltanto guardarsi intorno e Santo Stefano di Sessanio mi ha subito affascinato per la perfetta fusione tra la ricchezza storico–architettonica e l’ambiente e per l’eccezionale integrità dell’impianto urbanistico.La struttura tipicamente medievale del paese,infatti,quasi paradossalmente,è stata preservata proprio da drammatiche storie di miseria e di emigrazione e così non ha subito trasformazioni né traumatiche urbanizzazioni». Un progetto così complesso e attento ai minimi dettagli è frutto di studi approfonditi e di un lavoro lento e minuzioso.Ma per realizzarlo quanto c’è voluto? «Parecchio tempo ma non ho avuto mai fretta. Circa cinque anni fa sono stati acquistati gli immobili all’interno del borgo ed è iniziata la loro ristrutturazione. Un lavoro enorme perché tutti gli interventi sono stati finalizzati a mantenere l’integrità architettonica degli ambienti, utilizzando
Nelle foto, alcune immagini di Daniele Kihlgren nel “suo” paese d’adozione, Santo Stefano di Sessanio. Milanese, non ancora quarantenne, ha padre svedese e madre italiana. Dopo l’intervento sul borgo mediceo ha intenzione di replicare il progetto in altri comuni abruzzesi e campani.
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esclusivamente materiali di recupero compatibili per origine geografica e provenienza, nella ferma volontà di restituirli al loro più autentico aspetto. L’idea dell’albergo diffuso all’interno del borgo si va pian piano concretizzando con il completamento delle strutture ricettive e della locanda, che dovrà servire cucina esclusivamente locale. A questi spazi si aggiungeranno botteghe di artigianato tradizionale, una cantina di prodotti enogastronomici tipici e servizi per il turismo. Per quanto riguarda la produzione di vino è già iniziata una collaborazione con Masciarelli. Allo stato attuale sono pronte tutte le camere del Palazzo delle Logge e la Locanda sotto gli archi. Inoltre è già attiva la Sala incontri, che da tempo ospita avvenimenti artistici e soprattutto concerti. Sul modello dei paesi nordeuropei, infatti, il borgo ha “adottato” l‘Officina Musicale, ensemble di grande valore diretta dal maestro Orazio Tuccella, che durante le prove dei concerti e negli appuntamenti musicali riempie di note il dedalo di viuzze. L’orchestra ha offerto agli abitanti del borgo e agli ospiti prestigiose anteprime, ad esempio il concerto per il “giorno della memoria”, eseguito, poi, a Roma presso la Camera dei Deputati, ed eventi speciali come l’originale incontro realizzato di recente con l’artista Jannis Kounellis». In Italia e all’estero i media hanno dato grande risalto alla sua iniziativa, sono usciti articoli su importanti giornali come il Financial Times,The Washington Post,La Tribune.Come hanno reagito qui la gente e le autorità di fronte a tanto improvviso clamore? «Le reazioni sono alterne e un po’ contraddittorie perché in Abruzzo a volte non si riesce a percepire la novità come risorsa.Tuttavia sono convinto che c’è una “maggioranza silenziosa”che apprezza molto me e il mio progetto. A mio
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vantaggio gioca sicuramente il fatto di essere straniero, estraneo all’ambiente e quindi al di fuori di rivalità o piccole invidie di paese. A volte, però, mi sorprendono le reazioni di insofferenza o addirittura di rabbia che seguono all’attenzione mostrata da giornali e televisioni, come se la gente avesse paura di ritrovarsi sottoposta ad un ingombrante padrone. Questi timori sono del tutto infondati perché la mia è un’iniziativa economica che si fonda sulle pietre e non sulle persone. Senza contare che da quando ho iniziato a lavorare qui i prezzi degli immobili sono saliti alle stelle. Importante e delicato è anche il rapporto con gli amministratori locali e con l’Ente parco. Insieme abbiamo concordato un importante documento, la “Carta dei valori per Santo Stefano di Sessanio”, approvato dal consiglio comunale, che è l’espressione della comune volontà di tutela del patrimonio ambientale come presupposto per la promozione turistica e come linea guida per ogni progetto in queste aree». Per far decollare un’impresa così complessa sono sicuramente serviti una grande tenacia e una fede incrollabile nella validità dell’idea, qualità che di certo non le mancano. Ma sul piano tecnico–realizzativo chi l’ha aiutata e chi ha costruito l’immagine del progetto? «I pionieri siamo stati io e l’architetto Lelio Oriano Di Zio. All’inizio non abbiamo ricevuto incoraggiamenti e tutti si dimostravano molto scettici: poi l’atteggiamento è andato via via cambiando. Se i risultati raggiunti sono soddisfacenti, però, lo dobbiamo soprattutto alla passione con la quale tutte le maestranze hanno affrontato i lavori, anche i più faticosi. Ad esempio la sistemazione di questo pavimento in pietra è costato tre ernie ai miei operai. Dell’immagine, invece, mi sono
interessato in prima persona, perché per certi versi sono un bacchettone moralista e rifiutavo l’idea che altri se ne occupassero manipolando in qualche modo l’idea originaria. Dal mio punto di vista l’iniziativa era seria, valida, e per questo doveva essere promossa dagli ideatori. Soltanto adesso, che siamo presi da tanti altri problemi, ci stiamo avvalendo di qualche aiuto esterno». Ora che il progetto è quasi ultimato e che ha già avuto modo di verificarne la validità, anche dal punto di vista economico e finanziario, che cosa si augura per il futuro? «Al di là dei risultati economici mi piacerebbe molto che i precetti di restauro e di conservazione che hanno ispirato il mio lavoro diventassero replicabili. Sono infatti convinto che il modello di “ridestinazione” turistica di antichi centri sia proponibile anche nel resto d’Italia. Ci sono tanti luoghi del sud, di origini lontane e accomunati da un destino di povertà e di emarginazione, che potrebbero avere oggi una nobile prospettiva di crescita per una semplice scelta di sviluppo economico e senza far leva sull’orgoglio sudista». Siamo di fronte ad un illuminato uomo d’affari o ad un cultore della storia? Daniele Kihlgren sorride quando afferma, quasi giustificandosi, che solo una straordinaria coincidenza ha fatto sì che nel progetto dell’albergo diffuso si sovrapponessero discorso morale, estetico ed economico. È come se volesse semplificare al massimo il senso della sua scelta, ma mentre parla, il pensiero corre al nonno svedese, quel “pastore di anime” a cui ha accennato di sfuggita: forse proprio ai suoi insegnamenti si deve risalire per comprendere l’impronta di eticità che permea l’attività di questo singolare imprenditore.
DANIELE KHLGREN
Superlativo Massimo
di Paolo Ferri Foto Silvia Jammarrone
odici millimetri, disse il dottore, e la vita di Massimo Felicetti non fu più la stessa.Perché a 45 anni un buco di dodici millimetri sul tendine di una spalla sono una specie di scure, sono un sipario che si chiude, sono i titoli di coda di qualsiasi carriera sportiva. Il fatto è che quella di Massimo Felicetti non è mai stata una carriera sportiva qualsiasi.E forse anche per questo non si è conclusa sul tavolo operatorio del miglior ricucitore di spalle del mondo, quel professor Walsh che riaggiusta i deltoidi strappati ai bestioni da un quintale e mezzo dell'NBA, e i legamenti crociati miliardari dei ballerini dell'area di rigore come David Trezeguet. Ma una operazione perfettamente riuscita non fa miracoli.i miracoli li ha dovuti fare Massimo, completamente immobilizzato per due mesi (“mi dovevano lavare,e imboccare”) e poi lentamente ma inesorabilmente intenzionato a tornare nella piscina,il suo mondo. Ora l'obiettivo sono le Olimpiadi di nuoto Master, nel prossimo autunno, per bissare quel fantastico podio dorato ottenuto in Australia, nel 2002, l'acme della sua vita da mediano, ex sciatore, ex cestista, ma soprattutto, ex pallanuotista. «La prima competizione della mia vita fu a sei anni, con gli sci ai piedi, alla Maielletta», racconta l'assicuratore,giubbotto di pelle,occhi azzurrissimi,fisico asciutto e tirato, l'immagine di un'impeccabile longevità psicofisica,ma non impermeabile all'emotività che il racconto della propria vita inevitabilmente suscita. «Ma prima di arrivare alla pallanuoto,sono passato attraverso quello che è stato il primo vero amore, la pallacanestro. Mi si sarebbe potuta aprire una bella carriera se mi fossi trasferito a Chieti, ma non seppi nemmeno di essere stato richiesto perché mio padre rispose no,al posto mio, senza farmelo sapere. Lo scoprii per caso pochi anni fa». Sono i rischi che si corrono quando si ha un padre come il grande Nevio, vera e propria istituzione della politica abruzzese,ex Senatore della Repubblica nella fila del Pci, una passione da cui Massimo non poteva rimanere al riparo,ed esercitata negli anni universitari (giurisprudenza a Teramo,ma mai avvocato) come militante della Fgci. A quattordici anni non sa ancora nuotare,Massimo,sono i primi anni ‘70, e gli amici nuotatori e pallanuotisti sono una tentazione troppo forte per resistere. Una volta in vasca non ne esce più. È bravo, e la squadra di pallanuoto pescarese va forte.Cresce anno dopo anno,dalla serie C alla A in pochi anni, l'epoca dei Maurizio Gobbi, dei Luciano Di Renzo, degli Eraldo Pizzo, della GIS gelati di Pietro Scibilia (prima) che investe nello sport e la cui squadra di ciclismo è ai vertici, e della Sisley (poi). Ma quella di Massimo è una vita da mediano,appunto.Molta panchina,molto lavoro oscuro,prezioso,certo,ma ai mar-
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MASSIMO FELICETTI
gini dei riflettori. «Soffrivo, lo confesso, sapevo di poter dare molto di più, forse avrei dovuto fare scelte diverse, che mi potevano portare ad esprimere meglio il mio potenziale.Come poi è avvenuto,negli ultimi anni di carriera,in serie minori e lontano da Pescara».Finita la pallanuoto («ho avuto repulsione della piscina per anni»),una breve esperienza in Polizia («sono stato il primo allievo agente laureato d'Italia»), anche agonistica, con le Fiamme oro,e,senti senti,come sorveglianza a mare.Già, proprio così, un baywatch ante-litteram («Pensa che mi capitò di salvare la vita alla cognata e alla suocera di un mio carissimo amico,Maurizio Gobbi»).E prima di tornare al nuoto, quasi a volerlo ritardare il più possibile, si affaccia anche nel football americano,in quella famosa,e di breve vita,esperienza,che furono i Crabs.Arriva nel '98 il richiamo della foresta. L'ululato proviene dal vecchio lupo di vasca Luciano Bonnici,colonna del nuoto pescarese. «Mi spinse molto mia moglie (Stefania Mariotti, excampionessa di basket all'epoca della Varta, ndr), e l'importante incontro con un'allenatrice polacca, Marzena Kulis, che notò in me ottime potenzialità». È la seconda giovinezza di Massimo quella che comincia nel categoria Master,riservata ad atleti dai 25 anni in su che non hanno più legami con società professionistiche. Nella categoria M40 vince tutto. Medaglia d'argento ai mondiali di Casablanca, 8 titoli italiani e diversi record, fino ai World Games di Melbourne,le olimpiadi di categoria,dove l'acqua salata delle sue lacrime si mescola al cloro della piscina da cui esce con la medaglia d'oro al collo, a 45 anni, riscatto di tanto lavoro nell'ombra.«Avevo vinto tanto in uno sport di squadra ed era bellissimo dividere quella gioia. Ma nello sport individuale è infinitamente più bello.Toccare la piastra,da solo,essere solo sotto lo sguardo di tutti,è qualcos'altro».Una vittoria,però,che nasconde la beffa.Quel dolore che accompagna i 100 stile libero significa «lesione al tendine sovraspinoso della spalla sinistra». Operato nel febbraio 2003, scopre una vita in salita.«La riabilitazione al Don Orione,tra la vera sofferenza, mi ha svelato cose che non sapevo, che non avevo mai visto.L'importanza,il coraggio,del volontariato,questa è stata la mia prova di fede, la fede di un laico». Ha ripreso a correre Massimo,ai livelli di quell'Olimpiade del 2002. Peccato che i suoi avversari, invece siano migliorati.Allora meglio guardare al futuro.Ad ottobre altro giro, altri giochi, altro banco di prova e, ineludibile tormentone di una vita, un altro nemico dentro:“intolleranza cronica al cloro”, incurabile, mina la gola. «Fermarmi? Neanche a parlarne. Si va sempre avanti, nel 2007 potrò accedere alla categoria M50,e lì voglio essere il migliore. So di poterlo fare,perché non dovrei?»
Al suo mezzo secolo mancano due anni, però Massimo Felicetti vuole assaporare ancora il brivido di quell’oro ottenuto a Melbourne, alle Olimpiadi dei Master del nuoto, vertice di una carriera sportiva piena di ostacoli.
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Luciano De Liberato
L’arte, che intreccio!
di Annamaria Cirillo
Schivo e solitario, allergico ai recinti della comunicabilità formale, con la attuale produzione si pone in comunicazione
col mondo intero, in “presa diretta” con l’avanguardia contemporanea internazionale. In anteprima le sue ultime opere.
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’opera di Luciano De Liberato, artista chietino molto noto in Italia e all’estero, per quanto ridotta in queste righe ai suoi passaggi fondamentali, dimostra ancora una volta la vocazione ad una astrazione concettuale capace di rinnovare se stessa, anche in maniera imprevedibile e sorprendentemente trasversale come sta avvenendo nella sua ultima produzione. È da riconoscere che pur nella coerenza di una puntuale e certosina metodologia operativa, alla base di strutturazioni geometriche di fascinoso impatto estetico-introspettivo, poetiche dell’intreccio e del nodo di nastri rettilinei, vi sono stati nel suo percorso artistico quasi
in strutturazioni geometriche in cui sono ben riscontrabili le due nature, simbolica e formale dell’astrattismo, la prima, concezione puramente mentale ed emozionale rivolta ad afferrare il significato recondito delle cose oltre il visibile, quali l’inconscio ed i moti della psiche (come nei suoi nodi, grovigli, trame, intrecci, gomitoli) e la seconda più attenta alla logica interna, alla dinamica dei segni ed alla loro sintassi. Dalla compenetrazione di tali due nature, che hanno resa profonda e nel contempo affascinante la conoscenza misteriosa della psiche (Rosso, 2003), pare ora già nata, prorompente ed imprevedibile, una nuova esigenza di sintesi esistenziale-concettuale della
trentennale, anche passaggi inaspettati che ancora oggi, a guardarli con la distanza storica, colpiscono per la radicalità dello scarto rispetto al prima ed al dopo della sua opera, ma avvenuti sempre, prima d’ora, con una percettibilità sfumata e naturale, quasi consequenziale, come all’accondiscendere dell’artista alla mutevolezza di una propria interiorità tormentata, ricerca nell’arte anche di se stesso, delle proprie passioni e del proprio ruolo. Da indagini materiche astratte-concettuali, risalenti al ‘75, su neri e grigi con cenni di apertura al colore, reso in piccoli grovigli di fili colorati, la creatività dell’artista è poi lievitata nella sua conquista completa fino ad esplodere in un magnifico virtuosismo di nodi ed intrecci di fiammanti nastri rosso-fuoco. Tale sua pittura, (portata avanti in diversificati cicli fino allo storico quadro Vita 2001, conclusivo dell’ultimo quinquennio) è stata sempre espressa
contemporaneità nelle sue devastanti contraddizioni. Luciano De Liberato è quindi un artista “filosofo” profondamente contemporaneo. La sua arte, affidata alla creatività del proprio inconscio e ad una cultura di matrice contemporaneainternazionale, ha prima indagato l’uomo ed ora, mutando con geniale urgenza ideativa anche il linguaggio pittorico dei suoi nastri-segni, da rettilinei divenuti curvilinei (Rosso 2, 2003), ha spostato l’asse di ricerca ideativa sulla sintesi del concetto stesso di mondo ed esistenzialità nella contemporaneità globale, sollecitato da tutti gli aspetti di tale complessa spazialità. Libero di penetrare nella filosofia di un nuovo esistere e di una mutante identità umana. Un artista quindi di “razza internazionale” che dello specifico concetto di contemporaneità fa testo e rimodella in pittura come pochi, non solo il significato stesso dell’opera d’arte, quasi ARTE
ribaltato rispetto al passato, ma anche il ruolo dell’artista e del fruitore divenuto contraddittoriamente “libero” cittadino di un mondo mediatico senza frontiere, ma imprigionato “in catene”. In un ciclo appena precedente (2003-2004) alla attuale produzione, le opere di Luciano De Liberato già andavano esprimendo questa contraddizione esistenziale, specie nell’assunto di quanto le catene ed i reticoli siano più incombenti dei nodi. I nostri nodi, pur soffrendo, ce li portiamo dentro, nella temporalità di poterli sciogliere, ma le catene ci immobilizzano definitivamente nella prigione di un labirinto chiuso, ossessivo che
Luciano De Liberato ha saputo trovare una via di fuga “d’artista” verso l’alto, rompendo in uno spaccato rossofuoco il nero angoscioso dei tracciati (Labirinto 50, 2004), e la sua libertà l’ha riafferrata col suo segno, non più geometrico ma curvilineo, libero, aperto, non più ossessivo ma adatto ad ogni gesto, ad ogni parola, fluido come sangue che scorre nelle vene ad irrorare all’interno del corpo, nella sua ininterrotta circolarità, tutte le cellule della nostra identità umana. L’incertezza tra la possibilità e l’impossibilità dell’esistere nell’era contemporanea, del sino a quando e soprattutto del come, è la sconcertante realtà del più pericoloso dei viaggi dell’uomo, fino ad oggi,
questo artista di talento esprime in assometrie di impianti serrati senza vie d’uscita, nei quali il sopravvivere ha percorsi obbligati come parti di un circuito elettronico; Dna umano, reso elemento di programmazione mediatica senza ritorno e senza identità. Dolorosa oggi la presa di coscienza di tale processo di mutazione veloce e violento, processo che pur l’arte contemporanea già dagli anni ‘80 ipotizzava oggetto di denuncia. Penso al famoso Labirinto tridimensionale, grande scultura a triangolo (1982), dell’artista americano Robert Morris che è conservata in Italia, nel giardino della Fattoria di Celle a Pistoia (collezione Gori). Quel labirinto degli anni ‘80 era ancora percorribile come quello di un giardino del ‘700, che “la moda” delle grandi dimore tende oggi a far ricostruire, mentre i labirinti d’oggi sono divenuti “carcerari” ed ogni nostro movimento è controllabile.
verso la sopravvivenza. Allontanarsi dal passato iniziando dall’arte è un atto di coraggio, cambiare i codici per penetrare nei nuovi forse ne è una via. Il concetto lo sintetizza una stupefacente opera del 2005 nella quale una semplice circolarità continua del segno va a formare in rosso il numero otto. Pur in tale fluida e libera circolarità questo numero pare racchiudere due spazi diversi ed incomunicabili della contemporaneità. Il titolo di questa opera è proprio Otto?, con un punto interrogativo. Forse perchè rosso come una speranza? O perchè potrebbe non esistere più speranza? Non rinuncio a chiedere a Luciano De Liberato: “Un altro numero di una sua prossima opera sarà tutto nero?”
LUCIANO DE LIBERATO
Nelle immagini di questo servizio, alcune opere di Luciano De Liberato. Da sinistra: Vita 2001; Segni di Fuoco (2002); Rosso 2 (2003); Labirinto 50 (2004); Cinto (2005); Otto? (2005). Nella pagina precedente, Rosso (2003). In alto l’artista.
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La pubblicità in Abruzzo 2 ADVENTURAGE
L’agorà di Sergio D’Agostino foto Claudio Carella
Un creativo per vocazione, un ex politico di collaudata esperienza, due emergenti. La formula vincente di un consorzio che sulla comunicazione a tutto tondo ha costruito la sua affermazione 36
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a trama e l’ordito, cioè gli elementi essenziali della tessitura. Ma anche il nesso, il disegno che lega altri fili ancor più sottili e impercettibili, talvolta perfino invisibili: le idee. Fino a trasformare quei fili, quando il cervello si sintonizza con il cuore e i cinque sensi, quando i colori diventano forme, in comunicazione. A Venezia, dall’inizio di giugno e fino a novembre prossimo, un consorzio tutto abruzzese della comunicazione,“Adventurage” ha portato e porterà i suoi colori e le sue idee nel milieu dell’evento per eccellenza della cultura italiana a cinque stelle: la Biennale. Le splendide sale di Palazzo Cavalli Franchetti, gioiello di legni e stucchi affacciato sul Canal Grande, e storica dimora dei principali eventi culturali della città di San Marco, sono diventate la sede de “La trama e l’ordito”, la manifestazione che l’Istituto ItaloLatino Americano, ovvero una delle più prestigiose istituzioni culturali internazionali, ha voluto dedicare a sedici tra i più noti e affermati artisti latino-americani. Scegliendo per la comunicazione e l’allestimento una società che ha esteso da tempo le sue credenziali ben oltre i confini regionali e nazionali. A rendere testimonianza dei successi del gruppo, del resto, c’è un palmarés di premi raccolti in giro per il mondo che da solo già dice della bontà dei risultati: dagli otto “Agorà” mietuti in Italia, alle vittorie di Francoforte e Portland. E che in palio, di volta in volta, ci fossero la comunicazione istituzionale piuttosto che quella aziendale, poco importa: i riconoscimenti ottenuti hanno
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ecumenicamente riguardato la prima come la seconda. La cover story dedicata dalla città di San Marco all’azienda di comunicazione pescarese è solo l’ultimo dei “gioielli” inanellati dalla società che ha in Ivano Villani (i cui soci sono tutti colonne portanti della catena aziendale, alle cui fortune contribuiscono la trentina tra dipendenti e collaboratori che ruotano intorno al lavoro dei team manager) la storia e il presente, il cuore e la mente, le braccia e le gambe. Cinquant’anni, architetto, Villani si è laureato con il massimo dei voti in quella facoltà pescarese che ebbe tra i padri fondatori intellettuali carismatici e fior di maestri come Aldo Rossi e Giorgio Grassi: gente che ha segnato la vita degli allievi e formato legioni di professionisti. Figurarsi l’impatto con chi i primi passi li aveva mossi, di suo, in un’altra fucina della creatività locale: quel liceo artistico pescarese che ha segnato altri momenti decisivi della crescita professionale. Un posto, racconta ora Villani «dove ho interiorizzato il mio rapporto con il colore e le forme, che non è certo un problema di gusto, ma il frutto dello studio maturato accanto a maestri come Franco Summa, Ettore Spalletti, Alessandro Mendini, Bruno Munari. Una lezione che oggi, a distanza di tanti anni, è messa a frutto nelle scelte professionali». La via maestra della comunicazione, Ivano Villani («Una pecora nera per definizione –scrive di sé in un curriculum vitae che farebbe rabbrividire i cultori del “politicamente corretto” e i teorici con la erre moscia di “civì” prestampati, della serie LA PUBBLICITA’ IN ABRUZZO /2
delle idee
In apertura, i quattro soci di Adventurage: da sinistra, Ivano Villani, Franco Mancinelli, Corrado Proia e Tino Di Sipio. Sotto il titolo, da sinistra: campagna autopromozionale (Premio Agorà 2005); campagna europea di marketing territoriale per la Regione Abruzzo, premio industrie Anzeiger a Francoforte (2004); Campagna europea per la Dayco Spa, premio Anzeiger 1999; Campagna per il portale DoYouWork.it, premio Agorà 2004.
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“clicka qui e riempi”– che ha vinto a diciott’anni il primo, secondo e terzo premio della prima e unica edizione del Premio Michetti Fotografia», o che di agognati corsi di marketing, comunicazione, media e creatività si dice «vittima», fino «spesso a farsi espellere dai medesimi») la imbocca molto presto. Per l’esattezza nella sala macchine del padre riconosciuto della comunicazione abruzzese, Gabriele Pomilio: un’esperienza formativa che lo portò a fare il grande passo, quando correva l’anno di grazia 1979. La scommessa su se stesso e la propria autonomia, nonostante, a differenza di tanti che hanno deciso di mettersi in proprio, «non fossi un figlio d’arte, ma solo uno che nell’immaginario familiare avrebbe dovuto fare il medico. E che invece, a sedici anni, aveva preferito andarsene per i fatti suoi con 30mila lire in tasca». Nacque così, con Giuseppe Di Sabatino,“Studio Alberti”, l’agenzia di comunicazione che fece del copricapo all’inglese, la bombetta, il suo logo-cult, e della sua sede sul lungomare di Pescara, di fronte ad Eriberto, il seggiolone dove svezzare ai problemi della comunicazione frotte di associazioni culturali e aziende, sindacalisti e politici incerti e timorosi. Svezzamenti forse favoriti dal fatto che in quegli anni, la passione della comunicazione Villani la divideva con l’insegnamento scolastico e la lezione pedagogica di Piaget. Difficile davvero capire, senza questo scenario alle spalle, cosa sia oggi la realtà della comunicazione costruita, nel 1997, attorno alla battistrada “Ad.Venture”. Per aiutarvi a realizzare un’idea, provate a immaginare un incrocio, dove trama e ordito ritornano per rappresentare, e spiegare, come si muova oggi una moderna azienda della comunicazione. Come si possano cementare attività e interessi aderendo alle novità che un mercato in continua evoluzione sollecita e reclama: «Eh, sì –spiega Villani– perché la sigla “Adventurage”, il consorzio che oggi raggruppa tutte le nostre differenti attività, e il cui atto di nascita è il 2004, altro non è che un’ammiraglia da
cui si snodano quattro differenti società.Tutte legate alla comunicazione, formalmente autonome l’una dall’altra, ciascuna in ottima salute e in grado di funzionare come affluenti di uno stesso fiume». Insomma, per restare alle metafore di mare, accanto e attorno all’ammiraglia che ha sede a Pescara in via Ravenna (ma presto si trasferirà in una nuova e funzionale sede, firmata assieme agli architetti pescaresi Paolo Di Pietro e Piero Ferretti) veleggiano veloci e sicure quattro navi corsare, in grado di intercettare e qualificare l’intervento nei campi più differenti della comunicazione. Così è per “Ad.Venture”, sigla specializzata nella comunicazione in senso stretto, e capace (sono cifre 2004) di fatturare da sola per il gruppo qualcosa come oltre sette miliardi di vecchie lire. Così è per “Ad.Movie”, creatura guidata da Corrado Proia, che ha fatto del filmato e di tutto quanto è legato all’immagine la sua ragione sociale: in grado, insomma, di spaziare dai filmati aziendali ai cortometraggi, ma anche di firmare collaborazioni eccellenti come quella con la casa produttricesimbolo della nouvelle vague del cinema italiano, la “Fandango”. Così è per “Ad.Media”, la costola del gruppo che –con Franco Mancinelli alla guida– naviga nelle acque virtuali della rete, scommettendo sulle potenzialità del web, ed assecondando così una vocazione che ha fatto in questi anni di Pescara una delle capitali italiane delle imprese leader dell’innovazione. Così è, infine, per “Consul Job”, società diretta da Barbara Scutti e nata per fornire servizi alle imprese su tutto quanto ruoti attorno al lavoro e alle opportunità offerte dall’Unione europea. Ma siccome la rotta sui mercati della comunicazione resta esercizio difficile, Villani ha voluto accanto a sé, sulla tolda di comando del consorzio, un nocchiero speciale, o se preferite una bussola personalizzata: l’ex presidente della Provincia di Pescara, Tino Di Sipio. Lui, ora, del consorzio è presidente, e rappresenta un curioso caso dell’Italia che va al contrario: di solito, le professioni prestano uomini alla politica, stavolta è stata la politica (per quanto esperienza del passato) a suggerire il tragitto opposto. Figura di prestigio, uomo di esperienza, Di Sipio affianca Villani a centrocampo, volendo prendere a prestito dal calcio un paragone ed applicarlo agli schemi di casa Adventurage. «È un rapporto nato quasi per caso, nel confronto in Camera di commercio: lui da una parte, dirigente dell’ente, era il mio interlocutore per la comunicazione. Sarà stata questione di affinità, sarà stata la sua voglia LA PUBBLICITA’ IN ABRUZZO /2
di cimentarsi con qualcosa di nuovo, ed ecco qua spiegato il sodalizio» dice Villani. Un sodalizio che, a quanto pare, ha già portato al massimo regime di giri i motori del consorzio. Si spiega così il bouquet di clienti catturati nelle proprie reti dalle diverse società del gruppo, non certo perché i suoi manager sappiano sciorinar a memoria «il Bignami di teoria della comunicazione». «In America, fior di teorici della comunicazione insegnano che conta soprattutto il cervello, il raziocinio. Noi, europei e latini, crediamo invece che il cliente si conquisti sintonizzando il cuore con la mente, i sentimenti con il cervello. Abbiamo un approccio più caldo con i problemi: candidati alle elezioni o dentifrici vivono di e nel colore, non come creature grigie, fredde e impersonali». Si spiega così, forse solo così, con l’amore dei colori e con la passione che solo il cuore riesce a suscitare, perché abbiano scelto di farsi curare l’immagine dal team Villani –pescando solo qua e là a casaccio nel ricco portafoglio clienti, tra passato e presente– aziende e istituzioni che di cervello ne hanno da vendere, come Pirelli Power Transmission, Sammontana gelati e Honda Italia, Dayco Europe Spa e Bluserena Spa, Honeywell e ADVENTURAGE
l’Ippodromo di San Giovanni Teatino, il Gruppo Schirato Hotels e la Regione Abruzzo, fino all’Ambasciata francese. Ma anche perché abbiano fatto rotta da queste parti il Museo Pecci di Prato o l’Istituto Italo-Latino Americano. Oppure perché, da ultimo, la vittoriosa cavalcata di Ottaviano Del Turco alla presidenza della Regione («Ma abbiamo lavorato per campagne elettorali quasi sempre vincenti e per quasi tutti i partiti») sia stata firmata proprio qui, da Villani & Co. Non sarà un caso, allora, se a questa scuola della comuicazione il “maestro” abbia associato da qualche anno, e proprio per la direzione “creativa” un allievo davvero speciale. Eh si, perché Marco Colantuono, 32 anni, che nel team di via Ravenna svolge questa delicata missione possibile, di Villani non è un collaboratore qualunque, ma il nipote: ovvero, il figlio della sorella Luciana. Il nipoteallievo ha girato mezza Italia prima di tornare all’ovile, mettendo a disposizione del gruppo anni e anni di formazione fatta accanto a Enzo Baldoni. Proprio lui, il pubblicitario con il giornalismo nelle vene che amava la pace, ma nell’inferno di Bagdad ha trovato una morte tragica e assurda. E forse sarà anche per questo che dalle parti di Adventurage il cuore abbia davvero tanto senso.
Qui sopra, da sinistra: la brochure della catena alberghiera Bluserena, 3° premio a Portland (USA) 2001; la campagna elettorale per Del Turco alla Regione, 2005; la campagna murale per la catena Schirato Hotels (premio Agorà 2004) e Palazzo Franchetti, sul Canal Grande a Venezia, sede dell’Istituto Italo Latino Americano, durante la biennale di Venezia 2005
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La pubblicità in Abruzzo 2 CARSA
Comunicare Ha meno di venticinque anni, ma è considerata una veterana. Ne ha fatte di tutti i colori, ma il suo preferito è il “verde parco”. Roberto Di Vincenzo, Giovanni Tavano e Luana Patricelli ci raccontano i segreti del suo (loro) successo.
di Paolo Ferri foto Claudio Carella Roberto Sala
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i sono imprese che hanno fatto di Pescara una delle capitali italiane della knowledge economy, l’economia che non produce le sedie o le automobili, le lampadine o i vestiti, ma idee e servizi di alta qualità che altre imprese metteranno a frutto per produrre i loro beni. Carsa, acronimo che sta per “Centro abruzzese di studi e ricerche socio-antropologiche”, naviga in questo arcipelago dell’economia del futuro sventolando la carta d’identità di più vecchia data, il 1979. Da allora, la società oggi guidata dal presidente Roberto Di Vincenzo (rampollo della dinastia imprenditoriale fondata dal padre Dino), dall’amministratore delegato Giovanni Tavano e dal direttore operativo Luana Patricelli, di strada ne ha fatta tanta. All’inizio dell’avventura, in verità, con Di Vincenzo e Tavano c’erano anche Roberto Tinaro e Carlo Iavicoli, ma poi il destino ha tracciato strade diverse per i quattro amici. Da un esordio con una forte vocazione alle ricerche antropologiche, figlia del curriculum
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formativo dei fondatori (ma l’interesse resta ancora ben vivo grazie al settore affidato alle cure di Marcello Bonitatibus) Carsa ha deciso di guardare con occhio più disincantato al mercato: una scelta vincente che si traduce in uno staff con una trentina di collaboratori, un fatturato consolidato di circa 6 milioni di euro l’anno e la capacità di offrire “prodotti” che vanno dalla comunicazione ambientale a quella istituzionale, dal marketing e la pubblicità all’organizzazione di eventi, dall’allestimento di mostre all’editoria, passando attraverso i progetti comunitari. Più che ad una “cifra tecnica”, in un perimetro del medio adriatico che fa di Pescara la nona piazza italiana per concentrazione di imprese ad alto valore tecnologico dietro solo alle città metropolitane, i team manager di Carsa hanno puntato le proprie carte soprattutto su un colore, il verde, e su un aggettivo, sociale. Perché tra le tante suggestioni che la comunicazione reca nel suo Dna, Carsa ha capito che quella cromatica meglio di ogni altra avrebbe LA PUBBLICITA’ IN ABRUZZO/2
naturalmente
«Siamo orgogliosi di avere ideato quel che oggi viene ancora identificato come il carattere vincente di questa regione, l’identità attorno a cui si stanno costruendo progetti di sviluppo»
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fatto al caso suo, a condizione di sposare il fattore “U”, l’uomo, con il sociale. E nell’Abruzzo che l’immaginario collettivo ha elevato a rango di regione verde d’Europa, migliore sintesi non poteva nascere tra i luoghi e le idee, tra le persone e il loro habitat, tra i simboli e le cose. A confermare che questa sia la miscela di Carsa è lo stesso Roberto Di Vincenzo: «La nostra è comunicazione di tipo sociale e territoriale, che nasce da una specializzazione in campo ambientale e naturale, dove per ambiente si intende quello naturale e umano insieme. Questa sensibilità nei confronti del territorio e dello sviluppo locale dà alle nostre campagne una forte efficacia rispetto a temi sociali e culturali.Tanto per citarne una,“Abruzzo natura forte del Mediterraneo” spostò la strategia di comunicazione dell’Abruzzo come regione dei parchi: dall’89 ad oggi è rimasta un caposaldo fondamentale dell’identità di questa regione». A questa filosofia si ispira la “strategia delle alleanze” messa in campo da Carsa, che si traduce –rammenta la home page del sito, www.carsa.it– nella scelta di “partner strategici”come Legambiente e Federparchi e che ha permesso la nascita di esperienze come quella di “Compagnia dei Parchi”, una società senza scopo di lucro che organizza l’ospitalità nelle aree protette italiane. Oppure, la vasta produzione editoriale del gruppo: un ramo d’attività che non sarà il settore fondamentale della produzione, ma di certo il biglietto da visita che ha dato notorietà all’agenzia. Un’offerta che negli anni (a partire dal primo volume dedicato a Guardiagrele, centro simbolo dell’Abruzzo che sposa uomo e natura) ha visto fiorire qualcosa come centotrenta volumi: espressione di come natura, tradizioni, architettura e arte possano svelare all’occhio del curioso le radici più profonde dell’Abruzzo. Dice Tavano: «È indiscutibile il fatto che le nostre edizioni ci diano notorietà e visibilità, visto che sono destinate direttamente al pubblico: i nostri volumi vendono dalle 10 alle 20mila copie l’anno, permettendoci di raggiungere 100mila persone. Non “volumi strenna”, ma qualcosa di più, visto che nascono con importanti contenuti di immagine, grande capacità di innovazione tecnicoscientifica, valori che durano nel tempo. Ogni volume lascia una conoscenza del e sul territorio: quello sui castelli ha permesso di sottoporre a
vincoli ambientali gioielli senza tutela e lo stesso è accaduto per gli eremi e le capanne a tholos ignorate da noi “reinventate”». L’attività editoriale (il team comprende Oscar Buonamano, Roberto Monasterio, Carlo Gagliostri, Stefania De Benedictis, Antonio Amadio e Daniele Bartolini) per quanto importante, da sola non esaurisce l’identità di Carsa, la sua “missione”. Il core business è la comunicazione integrata, che ricopre più di tre quarti del fatturato. Ma guai a pensare che la miscela di ambiente e sociale non rappresenti anche qui il riferimento d’obbligo: «Il mestiere di mediatore culturale esiste da tempo in America in campo ambientale, noi abbiamo pensato di importarlo. L’identikit? Buona conoscenza di un settore, godere del rispetto delle istituzioni, delle associazioni ambientaliste, dei piccoli gruppi locali. Il nostro ruolo è mediare, creare un’attenzione nei confronti di un tema. In Molise, ad esempio, abbiamo seguito l’azione di sensibilizzazione per la prima centrale italiana turbogas realizzata dal gruppo “Cir” di Carlo De Benedetti. Abbiamo curato le relazioni pubbliche, i contatti con le istituzioni, fatto opera di convincimento con le popolazioni locali perché accettassero quella soluzione tecnica senza opposizioni preconcette, ma chiedendo piuttosto alla proprietà un segnale positivo attraverso sconti sull’energia, impegno attivo per la forestazione, opere di qualificazione ambientale». Della pubblicità tout court, o di quella che così il grande pubblico percepisce, rimane davvero ben poco: «Oggi la pubblicità classica è l’advertising (in casa Carsa ne fanno pane quotidiano Simone D’Alessandro, Francesca Bisignani, Susanna Matricardi, Andrea Di Menno Di Bucchianico e Marika Perazzetti) si tira fuori quando occorre vendere qualcosa, ma da sola non basta. La pubblicità, per essere efficace, deve avere alle spalle e di contorno azioni di comunicazione. Prendiamo le campagne sociali, che spesso rischiano di cadere nel banale, magari solo di giustificare la spesa di un ente pubblico. Con quella che abbiamo messo a punto per il settore Trasporti della Regione abbiamo scelto di andare sopra le righe, lavorare sull’ironia, entrare nel profondo della psicologia delle persone. Si chiama ambush marketing, marketing d’imboscata, rompe schemi tradizionali, magari farà innervosire: veder spuntare le corna non dal finestrino di una LA PUBBLICITA’ IN ABRUZZO/2
macchina, ma dalla fiancata di un autobus mentre si è in coda nel traffico può dare l’idea che qualcuno ti stia dando…del cornuto. Ma forse farà riflettere se non sia meglio lasciare l’auto in garage». Sociale, dunque, come seconda parola chiave, chiarisce Luana Patricelli, direttore operativo di Carsa: «Abbiamo voluto sviluppare un’azienda con una forte attenzione all’impatto della propria attività, alla propria “responsabilità”, al modo in cui si relaziona e avvantaggia il territorio con il proprio lavoro, indipendentemente e oltre l’aspetto economico. Siamo orgogliosi di avere ideato quel che oggi viene ancora identificato come il carattere vincente di questa regione, l’identità attorno a cui si stanno costruendo progetti di sviluppo. E poi, se cresce il territorio, cresciamo anche noi coi nostri clienti». Questo modello, verde e sociale insieme, è diventato così la voce più attiva dell’export nella maison Carsa.“Parklife”, il primo Salone dei parchi e del vivere naturale tenutosi alla Fiera di Roma tra il 26 e il 29 maggio scorsi, porta il marchio di fabbrica Carsa. E lo stesso vale per la prima conferenza delle aree protette dei Balcani, con tutti i paesi dell’ex Jugoslavia attorno a un tavolo, CARSA, COMUNICARE NATURALMENTE
dopo aver parlato per anni a colpi di cannone. Una fama sbarcata anche nella giovane Spagna, cuore dell’Europa che cambia, dove gli eventi fimati da Sabina Rosso, Giulio Di Genova, Monica Carugno, Luisa Di Ciano, Marina Delfino e Valeria Foschini fanno tendenza. Un percorso aziendale, dunque, che muove un po’ in tutte le direzioni, e ha scelto per farsi rappresentare un logo che da solo vale... il biglietto d’ingresso. Sì, perché Carsa vanta, come marchio, una scritta enigmatica, dal vago sapore misterioso –qualcuno ne associa l’origine agli egizi, altri a quella congrega gravida di segreti dei Cavalieri Templari– che una splendida chiesa abruzzese, San Pietro ad Oratorium di Capestrano conserva incisa sul portale:“Sator Arepo Tenet Opera Rotas”. Un misto di latino e celtico che per quanto vi affanniate a leggere (da sinistra a destra, da destra a sinistra, dal basso verso l’alto o dall’alto in basso) crea sempre la stessa frase. Dalle parti di Carsa fidano che davvero tutte le strade portino a loro, anche perché una delle possibili traduzioni recita “Il seminatore sul suo carro dirige con perizia le ruote”, dove le ruote stanno a significare le orbite dei corpi celesti.
Nelle pagine precedenti, i tre soci di Carsa: Luana Patricelli, Roberto Di Vincenzo (seduto in alto) e Giovanni Tavano. Qui sopra, foto di gruppo per il team dell’agenzia di comunicazione pescarese.
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Cliente: Federparchi Prima Conferenza italo-bosniaca delle aree naturali protette a Sarajevo
Cliente: Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio Campagna di promozione del Sistema delle Aree Protette Nazionali
Cliente: Ministero delle Politiche Agricole e Forestali Campagna di Comunicazione “Lemilledop, i territori delle identità italiane”
Cliente: Agenzia Regionale Parchi della Regione Lazio Marchio/Logotipo, Immagine Coordinata Istituzionale, Campagna di Promozione, Edizioni, Cartellonistica
CARSA. L’Agenzia italiana
Da un'idea di Carsa, sviluppata con Legambiente, Federparchi e FieraRoma, nasce PARK LIFE -Salone dei parchi e del vivere naturale,lacui prima edizione si è svolta a Roma dal 26 al 29 maggio 2005. Una fiera delle qualitàterritorialicheharaccontato,attraversoallestimentimultisensoriali, mostreedeventi,degustazioni,convegnieappuntamenticulturaliescientifici internazionali,lastraordinariaesperienzadelleareeprotetteitaliane.
Cliente: Regione Abruzzo - Assessorato ai Trasporti Campagna di Comunicazione e Sensibilizzazione all’uso dei mezzi pubblici
Cliente: Regione Abruzzo - Assessorato alla Sanità Campagna pluriennale di Sensibilizzazione per la prevenzione del tumore al seno
Nata dalla collaborazione tra Carsa, Federparchi, Legambiente e Cresme, Compagnia dei Parchi èiltouroperatorcheorganizzal'ospitalitànellearee protetteitaliane,dandounadimensionestrategicaall'offertaturisticadeiparchi, attraversol’utilizzoelamessainretedistrutturericettivenonconvenzionali comecasali,masserie,malghe,caseincentristorici,rifugiebaite,perrecuperare esvilupparelaricettivitàdiffusa,affiancandoquestesoluzionidisoggiornoa quelledellaricettivitàclassica. Un modello di turismo sostenibile che anche l'ONU ha preso ad esempio, decidendodiesportarloindiversiPaesidelSuddelmondoattraversoilProgetto IDEASS,un'iniziativavoltaapromuoverel'innovazioneperlosviluppoela cooperazionetraPaesidelSud,conilsupportodegliStatipiùindustrializzati.
che comunica l’ambiente
Iniziativa strategica di promozione del territorio e di Comunicazione Integrata ideata e sviluppata con e per Legambiente
Cliente: Fondazione Symbola “Ravello Festival 2005” Convegno: Coesione e Competizione
Cliente: Legambiente Nazionale Campagna nazionale “Piccola Grande Italia - Volere Bene all’Italia”
Cliente: Energia spa Campagna nazionale di sensibilizzazione sociale sui consumi energetici - Concorso per le scuole “EnerGino & LucenTina”
Cliente: ARPA spa Bilancio Sociale 2003
L’Abruzzo si muove
Ogni giorno 50mila persone scelgono i nostri bus, la nostra clientela è in costante aumento. I nostri bilanci in attivo. Lavoriamo insieme con altre aziende per un servizio di qualità. Siamo in mille, tutti impegnati a far crescere l’Abruzzo rispettando l’ambiente.
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AbruzzoValley I
l presidente della Regione, Ottaviano Del Turco, l’aveva promesso prima ancora che le urne decretassero il suo successo del 12 apr ile: «Voglio un uomo immagine da spedire in giro per il mondo come ambasciatore abruzzese per la ricerca e l’innovazione. Lo voglio in grado di mettere finalmente in rete tutto quel che in Abruzzo può fare squadra e sistema: i saperi e i centri di eccellenza della ricerca, le università e le grandi aziende, le piccole imprese affamate di “valore aggiunto” e di know how e il mondo della finanza». A giochi fatti, e urne chiuse, dentro l’identikit tracciato dal neo governatore ci sono pure un nome e un cognome, anzi due: Alberto Sangiovanni Vincentelli. Soprattutto c’é un curriculum chilometrico come il nome, che il presidente-governatore conta di tirare fuori al momento opportuno come biglietto da visita di una Il Professor Alberto Sangiovanni Vincentelli, è Chairman dell’Istituto di Electrical Engineering regione che fatica a pensare in grande. Però, quando e Computer Sciences presso l'Università della California, a Berkeley, nonché Vice Presidente scegli come testimonial uno che l’Istituto di Electrical Engineering e Computer Sciences della mitica Università responsabile delle Relazioni con il mondo dell’Industria. della California, a Berkeley, definisce Chairman (letteral- È membro della Faculty all’Università di Berkeley dal 1976. Il professor Sangiovanni Vincentelli è stato insignito di numerosi Award e riconoscimenti da mente: uomo del seggio, ovvero presidente), forse è segno che qualcosa si muove davvero. Se poi ti metti a parte della comunità accademica e scientifica internazionale. Il professore ha accettato la procontare i riconoscimenti internazionali piovuti sul capo posta dell'assessore regionale alle Attività Produttive, Valentina Bianchi, per una collaborazione di lungo periodo con la Regione Abruzzo. Si occuperà dei temi della ricerca e dell'innovazione e del professore da aziende e centri di ricerca, oppure a pesare l’attenzione dedicatagli da atenei come Torino, di tutti gli aspetti dell'economia della conoscenza che sono parte fondamentale del programma Bologna, Pavia, Pisa, La Sapienza e Tor Vergata a Roma, di rilancio della Regione. allora capisci che è stata aperta una via nuova. Toccherà a lui, all’ambasciatore di origini vastesi ma adottato dai Universivario/ Chieti-Pescara templi del sapere made in Usa, materializzare quel dise2011 Ateneo gno che Del Turco (sotto l’occhio vigile di Valentina nello spazio Bianchi, assessore alle Attività produttive, ed Enrico Paolini, vice presidente con delega ai rapporti con gli atenei abruzzesi) ha delineato il giorno del debutto Universivario/ Teramo davanti a imprenditori ed esponenti del mondo accadeCaccia grossa mico regionale, politici e sindacalisti, attingendo ad v ocaalla zanzara tigre bolario tanto semplice ma così difficile da mandare a memoria in una regione che ne fa raro uso: fare squadra. Per superare quelle incomprensioni e quei problemi che Universivario/ L’Aquila hanno portato nel tempo il sistema Abruzzo a farsi picBiotecnologie, la Facoltà colo dentro un sistema Italia sofferente di suo. In ritardo che si industria di sviluppo e capacità competitiva tanto con l’Europa che con il colosso americano. Spaventato dai nuovi giganti dell’economia che parlano asiatico, difetteranno Mario Negri Sud/ Santa Maria Imbaro di democrazia, ma di sicuro sono stati capaci (come nesIl territorio suno?) di intercettare qualità, ricerca e innovazione. «Una della ricerca regione ripiegata su sé stessa –ha detto il professore– che ora deve guardare con più coraggio in avanti». Una sfida bella e buona, che proprio le università abruzzesi potrebbero essere le prime a raccogliere in nome di una union sacrée ancora tutta da scrivere. S.d’A. ABRUZZO VALLEY
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2011 Ateneo nello spazio Che gli abruzzesi fossero sparsi un po’ dappertutto per il mondo è cosa nota. Che un po’ di Pescara stesse per atterrare su Marte invece è una novità: l’Istituto internazionale di Scienze Planetarie dell’Università d’Annunzio si sta preparando alla conquista del Pianeta Rosso, nel 2011. E la Nasa studia le contromosse. di Fabrizio Gentile foto Silvia Jammarrone
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uardate in alto. Nel cielo. Lassù, tra le stelle, a centinaia di milioni di chilometri dalla Terra, c’è un pianeta che più degli altri ha ispirato romanzieri, musicisti, registi, disegnatori: il suo nome è Marte. Chi di noi non ha mai sognato di andarci? Di vederlo? Qualcuno (come H.G.Wells) ne ha fatto un nemico, la sintesi di tutte le ataviche paure umane; qualcun altro (come David Bowie) lo ha eletto a luogo dove realizzare i propri sogni (psichedelici) e a simbolo della speranza. Anche solo per un giorno, nella vita di chiunque è passata, fugacemente, l’idea di diventare astronauti per poter viaggiare nello spazio, vedere le stelle da vicino, mettere piede su un pianeta sconosciuto. Beh, non occorre diventare astronauti: basta essere geologi. Ce lo assicura Gian Gabriele Ori, docente dell’Università ”G. d’Annunzio”, che presto metterà piede sul Pianeta Rosso: non in senso stretto, naturalmente, ma attraverso uno strumento progettato a Pescara, dal pool di scienziati dell’IRSPS (International Research School of Planetary Sciences), di cui Ori è il direttore. Una fondazione non a scopo di lucro, nata nel 1999, dedita allo sviluppo delle scienze planetarie, e in
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particolare della geologia planetaria, di proprietà dell'Università G. D'Annunzio, della Provincia di Pescara e del Comune di Montesilvano con sede presso il Dipartimento di Scienze dell'Università G. D'Annunzio (campus di Pescara). «Lo strumento in questione –spiega Ori, geologo e professore Ordinario di Geologia presso la Facoltà di Scienze della “d’Annunzio”– si chiama “diffrattometro a raggi X”, e serve per la misurazione della composizione mineralogica del terreno e delle rocce; andrà su Marte nel 2011, con la missione ExoMars. Contemporaneamente la Nasa si prepara a mandarne uno con un’altra missione. Insomma, siamo in competizione con la Nasa!» Ride di gusto, Ori, dietro la folta barba rossiccia. Il suono della sua risata è esattamente quello che ci si può aspettare da un uomo della sua stazza. Così come il suo ufficio è esattamente come ci si immagina l’ufficio di uno scienziato: un guazzabuglio disordinato di carte di ogni ordine e grado, tra le quali spuntano un modernissimo computer e alcuni reperti geologici. «Sono rocce laviche, in realtà vere e proprie “bombe” vulcaniche, quei pezzi di lava che vengono espulsi UNIVERSIVARIO PESCARA
con violenza dal cratere in fase eruttiva». Ori ha 51 anni, molti dei quali li ha passati in giro per il mondo: «Dopo la laurea andai a Cambridge, poi ho lavorato per il Servizio Geologico americano, a Denver, poi al Laboratorio di Scienze planetarie dell’Università dell’Arizona e infine al Politecnico di Cataluña, a Barcellona. Ma ho trascorso mesi a studiare rocce in Antartide, in Amazzonia, in Grecia sulle Meteore, in Marocco… Sono un geologo di campagna». Di campagna? «Intendo dire che sono un field geologist, uno che sta sul campo, non in laboratorio. E voglio tornare ad esserlo presto: fare il geologo planetario è un po’ troppo stancante». In che senso? «Si tratta di un lavoro che comporta responsabilità enormi a livello decisionale. La missione Exomars, per esempio, che abbiamo fatto partire da poco, comporta una spesa di circa 800 milioni, 1miliardo di Euro… si può immaginare in quanta burocrazia siamo immersi, e quanto si litiga. C’è un sacco di stress». Quando è entrato, per cosi dire, nell’orbita del pianeta rosso? «Sono stato molto coinvolto nella missione Mars 2011 ATENEO NELLO SPAZIO
‘96: un consorzio di Stati europei più la Russia riunì un gruppo di scienziati per progettare una sonda da mandare su Marte, vent’anni dopo le missioni Viking. Ma la sonda, invece di atterrare su Marte, atterrò nell’Oceano Pacifico, pochi minuti dopo il lancio… [ride, ndr]. La fatica non andò sprecata, perché l’Esa, l’Agenzia Spaziale Europea, ci prese tutti a lavorare a Mars Express mettendo me e altri cinque scienziati nel Science Definition Team, che è il comitato scientifico che decide gli obiettivi della missione. A tutt’oggi, a parte l’affare Beagle 2 [la sonda britannica, che avrebbe dovuto atterrare su Marte nel 2003, e che svanì senza lasciare traccia e senza inviare segnali sulla Terra, ndr], Mars Express è la miglior missione spaziale non lunare mai realizzata, e la Nasa non avrebbe saputo fare di meglio con gli stessi finanziamenti». Presso l’Irsps lavorano una decina di persone, tra le quali tre dottorandi. Come si fa a studiare qui? «Se uno è bravo, lo prendiamo. Prima avevamo avuto dal Ministero un dottorato in Scienze Planetarie, ora non c’è più ma andiamo avanti con i dottorati interni all’Università. Quattro dottorandi sono andati via da poco. Uno era già stato preso dall’Università dell’Arizona, prima ancora di finire il
Qui sopra, il professor Gian Gabriele Ori abbraccia il suo sogno. Nelle pagine successive, da sinistra: Ori gioca con una “bomba” lavica; il cratere marziano Tholus; Ori davanti alla “sua” duna preferita in Marocco, a Erfoud; il burrone Huygens; Ori nel suo studio all’Ud’A; il polo nord di Marte, con neve e ghiacciai.
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dottorato; un altro doveva scegliere tra Parigi e l’Università dell’Indiana; un altro è andato all’Esa in Olanda, un altro cerchiamo di tenercelo noi, per non perderli tutti». Ma come, contribuiamo alla fuga dei cervelli all’estero? «Certo che sì: e non abbiamo neanche potuto soddisfare tutte le richieste, che ci sono giunte anche dall’Università Paris Sud, dall’Agenzia Spaziale tedesca, e dall’Istituto Physique du Globe di Parigi. È anche bello che questi ragazzi vadano fuori, e poi qua in Italia non c’è certamente posto. Il ragazzo che è andato all’Esa ora guadagna 2.800 Euro al mese, e anche gli altri hanno stipendi che si aggirano su quelle cifre. Qui dovrebbero accontentarsi di un migliaio di Euro. E poi fanno un bel lavoro, magari qui si sarebbero incastrati chissà dove. Noi riusciamo a restare perché siamo una fondazione no profit e abbiamo un enorme supporto dall’Asi –l’Agenzia Spaziale Italiana–, dall’Esa, ma questo supporto è anche frutto di un enorme sacrificio personale da parte di chi lavora in questa struttura: fondamentalmente siamo in quattro “vecchi”, il gruppo che chiamiamo “la Faculty”. Siamo molto selettivi, ma abbiamo anche dei bei successi, visto che i nostri studenti hanno potuto scegliere». E lei? perché non è andato a lavorare all’estero? «Ero a Bologna, mi ero un po’stufato, ho sentito che qui si apriva Geologia e ho mandato il curriculum. Mi piace stare qui». Strano, considerando le polemiche sul taglio dei fondi per la ricerca. «Vero. Non è che qui non ci siano dei problemi, ma per questo tipo di ricerca l’Italia è uno dei migliori posti al mondo. Anzi, oserei dire che o si sta in America o qui. Le condizioni di lavoro sono assolutamente ottime, e d’altronde lo dimostra il fatto che questa struttura è attiva. Non abbiamo un nostro edificio, certo, ma è perché non mi va di crescere». Sarebbe a dire? «Che mi piace mantenere un profilo basso, evitare l’eccessiva visibilità, mi piace poter restare piccoli perché si lavora meglio. Quel che pensiamo è che “piccolo è bello”: non vogliamo crescere, per poterci mantenere elastici, flessibili. Cerchiamo di tenerci fuori dalla burocrazia, dalla politica, dagli interessi privati. Il nostro unico interesse qui è la ricerca. E sta bene così anche a chi ci finanzia, dato che il ritorno è ingente». Per esempio? «Il diffrattometro ci è stato finanziato inizialmente dall’Asi, ma nella sua fase operativa è finanziato –e bene– dall’Esa. Significa soldi e prestigio, due cose che fanno sempre piacere». Ora su cosa lavorate? «Abbiamo coinvolto la “d’Annunzio” in tutte le missioni spaziali
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dell’Asi, l’Agenzia Spaziale Italiana, e di conseguenza in quelle dell’Esa, l’agenzia europea. Siamo molto impegnati nel trattamento dei dati dell’Hrsc, una camera stereo a colori ad alta risoluzione che è a bordo di Mars Express. I dati arrivano a Perth, da lì vengono trasmessi a Berlino e dal centro operativo dell’Esa di Berlino distribuiti a chi di dovere. Poi fra un po’ cominceremo a lavorare sui dati radar, che per la prima volta ci mostreranno cosa c’è sotto i primi cinque chilometri di crosta marziana; anche il radar è uno strumento italiano, con un contributo americano. Gli americani hanno fatto l’antenna che riceverà i dati. Quel che facciamo spesso è confrontare la geologia terrestre con quella marziana, è una delle nostre principali occupazioni, e questo ci fa lavorare sui dati marziani di prima mano e sulla Terra. Abbiamo due grossi progetti di questo tipo, uno in Nordafrica e uno in Asia centrale. E poi c’è il discorso promozionale. Noi abbiamo bisogno di geologi che si occupino dei pianeti, quindi partecipiamo e organizziamo convegni, presentiamo le nostre cose sperando che chi ci viene a sentire si interessi alla cosa e magari decida di seguirci e lavorare con noi». Ci sono pochi geologi planetari in Europa? «Sì, mentre l’America ne è piena. La questione è antica e risale allo sbarco sulla Luna, con il quale è iniziata l’esplorazione dei pianeti. Quando gli americani sono sbarcati sulla Luna avevano per forza bisogno di geologi, mentre in Europa l’esplorazione dei pianeti è nata dagli astronomi: di quelli qui in Europa ce ne sono a pacchi. Come dire che i geologi sono quelli che toccano, gli astronomi quelli che guardano. E a noi serve gente che tocchi». Per andare su Marte… «Il programma a cui abbiamo dato inizio a Birmingham, Exomars, è il primo passo per mandare l’uomo su Marte. E c’è un programma dell’Esa, che si chiama Aurora Exploration Program e uno simile della Nasa, che si unirà in qualche modo a quello dell’Esa, dati gli enormi sforzi economici e tecnologici richiesti». Non c’è rivalità, dunque, tra i due enti spaziali? «Mah, gli americani hanno innata in loro la competitività, per cui se tu fai una cosa loro devono farla uguale se non migliore. Per esempio, noi organizzammo insieme all’Asi un workshop sugli omologhi terrestri di Marte previsto per il 20/9/2001, esattamente nove giorni dopo l’attentato alle Twin Towers. Naturalmente fu annullato, ma gli americani ne avevano organizzato uno pure loro, previsto per il mese successivo. Altro esempio: per anni alcuni miei colleghi americani hanno proposto una missione su Mercurio, e puntualmente veniva respinta dalla Nasa. Appena l’Esa ha approvato la missione UNIVERSIVARIO PESCARA
Colombo su Mercurio, anche la Nasa ha fatto lo stesso. Il problema è che quando noi andiamo a lavorare con la Nasa dobbiamo avere una statura organizzativa e scientifica pari alla loro. Per questo l’Esa sta facendo un intero programma: non vuole collaborare per piccole cose, altrimenti resta sempre un gregario della Nasa. Avere un programma preciso significa poter dire: uniamoli, il tuo e il mio». Così nel 2011 un pezzetto di Pescara verrà spedito su Marte… «Un pezzetto piuttosto piccolo, in verità (un diffrattometro odierno è grande come una poltrona, mentre noi ne abbiamo progettato uno grande come una mano), ma molto importante. Nei prossimi anni metteremo a punto un modello di testo, due modelli di volo, dovremo preparare l’interfaccia… poi verrà realizzato a Milano presso la Laben, e in parte in Gran Bretagna e in Olanda». Perché non qui? «Non ci sono stati dati soldi.Vede, se dovessimo tener conto di tutta la burocrazia che ci circonda non finiremmo più: abbiamo partecipato al progetto Colombo [un progetto che prevedeva finanziamenti per alcuni spin-off della ricerca, ndr], ma non siamo stati convincenti e siamo stati fatti fuori al primo turno. Magari se fossimo rientrati nel progetto avremmo potuto metter su una piccola azienda per la costruzione di questi strumenti, chissà. Comunque noi facciamo la nostra ricerca, la facciamo bene, conta solo questo». Ci tolga un dubbio: c’è vita su Marte? «Non lo so». Mi aspettavo un sì… «Ci sono tutte le condizioni perché ci sia: c’è acqua, c’è metano, ma da lì a dire che c’è vita… quando la troveremo lo dirò. Cerchiamo di fare gli scienziati». Ma i geologi planetari, sempre con la testa tra le stelle, non sognano? «Più che la testa tra le stelle cerchiamo di tenere i piedi per terra. Ma certo che sognamo: ogni volta che si prepara una missione dal progetto alla realizzazione passano dieci, quindici anni… se questo non è sognare! Si deve avere un enorme capacità immaginativa. Noi viviamo di sogni. Stiamo preparando una missione per andare su Mercurio, partirà nel 2018. Io vado in pensione, nel 2018. Ti metti a lavorare per una cosa che non sai neanche se riuscirai a vedere. Se non sogni, sei finito».
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MISSION TO MARS La storia dell’esplorazione spaziale è costellata di fallimenti,ma quella di Marte non ha rivali: di circa quaranta missioni tentate,più della metà sono fallite, alimentando la leggenda del “pianeta maledetto”. Ricordiamo le missioni più importanti. La prima missione su Marte riuscita,Mariner 4,venne lanciata dalla NASA il 28 novembre 1964.Passò a 9844 km da Marte,scattando,come programmato,22 immagini.Il primo veicolo spaziale a orbitare intorno a Marte fu invece la sonda russa Mars 2nel 1971. La sonda sorella,Mars 3,riuscì anch’essa nell’impresa e lasciò cadere con successo un lander sulla superficie.Fu operativo per soli 20 secondi: gli esperti sospettano che a distruggerlo sia stata una tempesta di polvere marziana. Nello stesso anno anche il primo orbiter della NASA raggiunse l’orbita di Marte. Le missioni spaziali che tuttavia fecero dell’esplorazione di Marte un obiettivo fondamentale furono indubbiamente quelle delle sonde gemelle Viking a metà degli anni ’70.Entrambe erano composte da un orbiter e da un lander e scattarono le prime foto dettagliate della superficie marziana.Mostrarono un paesaggio desertico che,per la temperatura,era effettivamente più simile alla tundra terrestre.Gli orbiter riuscirono a mappare il 97% del pianeta. L’ulteriore esplorazione di Marte conobbe poi una pausa di oltre vent’anni, interrotta solamente da alcuni tentativi falliti o parzialmente riusciti (orbiter/lander sovietico Phobos 1, perso sulla rotta verso Marte nel 1989, Phobos 2,perso anch’esso vicino a Phobos,una luna di Marte e la sonda statunitense Mars Observer,persa prima dell’arrivo su Marte nel 1993).Mars Global Surveyor è stata la prima missione sul Pianeta Rosso ad avere successo in un arco di vent’anni.Lanciata nel 1996,raggiunse l’orbita nel 1997. Nello stesso anno,la politica del “faster,cheaper,better”,ovvero più in fretta,a minor prezzo e meglio, portò il Mars Pathfinder sulla superficie del Pianeta Rosso.Sojourner,il piccolo rover,è proceduto lentamente sulla superficie per molte settimane,analizzando rocce e catturando l’immaginazione del pubblico.Sfortunatamente quella missione non si è dimostrata essere l’inizio di un glorioso rinascimento: il “demone marziano” ha colpito ancora, rendendo le quattro missioni successive inutili o danneggiandole gravemente.L’orbiter e i lander russi Mars ’96, che trasportavano diversi esperimenti europei, sono andati persi nell’incidente di lancio del veicolo nel 1996.Il Mars Climate Orbiter statunitense si è perso all’arrivo su Marte nel 1999.Altrettanto è accaduto alle sonde statunitensi Mars Polar Lander/Deep Space 2 nel 1999. Tuttavia,nel 2001,la sonda statunitense Mars Odysseyè riuscita a raggiungere l’orbita con a bordo esperimenti scientifici per condurre osservazioni globali di Marte.Questo veicolo spaziale sarà inoltre operativo come ripetitore per le comunicazioni per il veicolo spaziale statunitense ed europeo arrivato su Marte nel 2003 e nel 2004. L’anno 2003,comunque,ha conosciuto un rinnovato interesse per Marte,con un crescendo di missioni verso il Pianeta Rosso,il lancio da parte dell’Agenzia Spaziale Europea di Mars Express insieme a Beagle,il suo modulo lander,e i due rover della NASA,Spirit e Opportunity.(Fonte:ESA) VARIO54
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Caccia grossa alla zanzara tigre di Fabrizio Gentile foto Ermando Di Quin zio
Parola d’ordine: qualità. Questo è il senso del lavoro della Facoltà di Veterinaria, che seppur nata da poco, è già entrata nel cuore della gente di Teramo. Come? Rispondendo alle esigenze della comunità. E dichiara guerra a un insetto killer 54
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’è una tigre che terrorizza i turisti. Ma non siamo in Kenya o in India, i turisti non sono appassionati di caccia grossa e la tigre in questione ha in comune con quella del Bengala solo le strisce. Parliamo della famigerata zanzara tigre, nota per la sua aggressività e per le abitudini diurne; un tempo appannaggio solo di alcune regioni del nord, è giunta anche in Abruzzo a turbare la quiete dei turisti (appunto), dei residenti e degli amministratori locali, che devono trovare il modo per arginare quella che è diventata un’emergenza. In soccorso dei Comuni, punti (è il caso di dirlo) dal dilagare di questo fastidioso insetto arriva, l’Università di Teramo con un progetto di due docenti della Facoltà di medicina veterinaria: l’infettivologo Fulvio Marsilio, e l’entomologo Claudio Venturelli. Lo studio –che si avvale del coinvolgimento scientifico del dipartimento di scienze biomediche comparate dell’Università di Teramo e del coordinamento amministrativo della provincia– prevede la mappatura, il monitoraggio e il trattamento della Aedes Albopictus, nome scientifico della zanzara tigre. Al progetto, di durata triennale, partecipano sette Comuni (Alba Adriatica, Giulianova,
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Martinsicuro, Mosciano Sant’Angelo, Pineto, Roseto degli Abruzzi, Silvi e Tortoreto) ma si prevedono ulteriori adesioni. L’accordo –firmato a fine aprile– prevede una spesa di 210.600 euro. L’intero progetto è stato argomento di un convegno dal titolo “La zanzara tigre compie 15 anni: cosa sappiamo e cosa dobbiamo sapere” curato da Fulvio Marsilio e Claudio Venturelli, che hanno illustrato le fasi del lavoro, e dal Preside della Facoltà di Medicina Veterinaria, Andrea Formigoni, che spiega i motivi alla base dello studio: «L’attenzione verso la zanzara tigre rientra nella nostra costante volontà e voglia di relazionarci col territorio contribuendo alla soluzione di problemi che necessitano di nostre competenze, anche nel tentativo di dimostrare che l’istituzione universitaria non è fine a sé stessa e che il suo compito non si limita alla sola didattica, così come il suo scopo non è solo quello di preparare e formare professionisti. L’idea di affrontare il problema della zanzara tigre è nata da un colloquio fra alcuni colleghi e alcuni amministratori locali preoccupati dalle negative ricadute del fastidioso problema in termini turistici, soprattutto per le località costiere». UNIVERSIVARIO TERAMO
Quindi combattete la zanzara tigre perché aggredisce il turista? «Ovviamente l’insetto non fa differenze: aggredisce anche i residenti, ed è di quelli che principalmente noi di Medicina Veterinaria dobbiamo occuparci. Non è una zanzara come tutte le altre. È particolarmente aggressiva, colpisce di giorno e non solo di notte come le comuni zanzare, causa pomfi (bolle) evidenti ed è insensibile agli strumenti classici di controllo; è una zanzara da giardino, da zone umide ed è poco conosciuta in questo territorio perché la sua è una introduzione relativamente recente; si tratta pertanto di una new entry particolarmente fastidiosa. È un problema che coinvolge, inoltre, la sanità pubblica: non sono infrequenti casi di bambini che devono ricorrere alle cure mediche in seguito alla puntura di Aedes Albopictus». Come svilupperete il lavoro in questi tre anni? «È la classica questione che va affrontata in tutte le sue sfaccettature: la parte scientifica, che ci compete, ha il compito di conoscere il problema e di individuare i punti deboli di vita, di sopravvivenza e di diffusione di questa zanzara, che peraltro comincia la sua opera in aprile-maggio e la conclude in novembre. Questo consente di eduCACCIA GROSSA ALLA ZANZARA TIGRE
care la popolazione a dei comportamenti che siano virtuosi e che possano bloccare il problema sul nascere e di indirizzare al meglio l’attività di controllo, anche attraverso l’impiego di mezzi tradizionali, al fine di risparmiare energie, personale e quindi risorse economiche. Il tutto si dovrebbe trasformare in un miglioramento della vita quotidiana di chi risiede o di chi visita il territorio». Quale sarà la procedura? «Il finanziamento dei comuni verrà indirizzato a trovare nostri studenti (o ex studenti) che svilupperanno la procedura di lavoro, già ben codificata perché nota anche in altre realtà del Paese dove la zanzara tigre è già combattuta, che inizierà in estate col monitoraggio. Dovremmo, al contempo, apportare ulteriori conoscenze del fenomeno in ambito locale, ma soprattutto, una volta individuati i momenti topici del problema, dobbiamo stabilire le adeguate contromisure. Questo è uno dei primi esempi in cui la Facoltà di Medicina Veterinaria trova una sinergia forte con le amministrazioni locali per risolverere un problema attraverso l’impiego di un metodo scientifico. Si tratta di un metodo interessante anche per il coinvolgimento pieno dell’opinione pubblica (fino in fondo): vorremmo, insomma, essere un ospedale del-
Il preside della Facoltà di Veterinaria, professor Andrea Formigoni, nella fattoria di Chiareto con un giovane ciuchino di appena due giorni.
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«In una società evoluta si dà per scontato che ciò che mangiamo sia sicuro. Ma la sicurezza si costruisce, non viene da sé»
Alcune immagini degli animali allevatii nella fattoria di Chiareto e degli studenti che vi svolgono le attività didattiche. Nella penultima foto a destra, il preside Formigoni davanti alla Facoltà di Veterinaria.
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la cultura». In che senso? «Nel senso che un Ateneo, una Facoltà, appartengono alla comunità, non solo agli studenti. L’Università è di tutti. Compito dell’Università è di produrre conoscenza anche radicandosi nel territorio e recependone le esigenze specifiche. Altrimenti sarebbe nient’altro che un liceo, dove avviene una semplice trasmissione di conoscenze. Quindi ben venga anche la zanzara, antipaticissimo insetto, se ci aiuta –perdonatemi il calembour– a pizzicare la sensibilità della comunità e a scoprire interlocutori con i quali collaborare e produrre risultati». La Facoltà di Veterinaria, dunque, si pone al servizio della gente… «In linea generale si può affermare che la ricerca deve essere fruibile. Questo vale anche per l’Università di Teramo e la Facoltà di Medicina Veterinaria,che è al servizio dei cittadini.A questo scopo,col Comune di Giulianova stiamo cercando di istituire un Centro di educazione ambientale che dovrebbe aiutare a risolvere molti problemi di questo genere, educando il cittadino a difendersi anche attraverso semplici accorgimenti,anche con mezzi tradizionali». Finora abbiamo parlato di come l’Università può aiutare a risolvere un problema contingente.Ma la ricerca e la “mission” della vostra Facoltà si muovono anche in altre direzioni, per esempio nella salvaguardia dei prodotti tipici. «Il rapporto dell’uomo col suo territorio si estrinseca anche attraverso gli alimenti. I medici veterinari che operano nel servizio pubblico hanno il ruolo istituzionale di controllare la salubrità degli alimenti,soprattutto quelli di origine animale,nella logica di preservare la salute del consumatore. È evidente che in una società evoluta si dà per scontato che ciò che mangiamo sia sicuro. Ma la sicurezza si costruisce, non viene da sé, si controlla attraverso comportamenti virtuosi e metodo scientifico applicati a tutta la filiera di produzione. Ma nella nostra società non ci accontentiamo solo di mangiare sicuro, vogliamo anche che il prodotto sia buono, gustoso. La conoscenza del proces-
so di produzione, di ciò che mangia l’animale, di come deve essere allevato e di come va tutelato il suo benessere,contribuisce alla produzione di alimenti sicuri e anche gustosi. Perseguiamo, per così dire, una gustosa sicurezza. Questo significa anche essere molto attenti nel definire meglio i nostri percorsi di tipicità». Come si può essere certi che ciò che è tipico sia anche sicuro? «Possiamo affermare che la tradizione di molti prodotti alimentari è di per sé un elemento di garanzia: nulla resta nella storia se non ha successo, e soprattutto si presuppone che un alimento che ha tanta storia sia di per sé sicuro. Ma abbiamo la necessità di documentare questa sicurezza, andando a individuare quali possono essere i punti critici di questo o quel processo produttivo, senza demonizzare, ma anzi per conoscerli e certificarli. Gli alimenti non sono solo il frutto di un territorio in senso geografico, lo sono anche in senso culturale». Quindi vi occupate di qualità degli alimenti? «Sì, a tutto tondo; la qualità si costruisce conoscendo i processi e governandoli; sempre e soprattutto ove si operi in filiere caratterizzate da tempo immemore per tipicità e sicurezza è necessario porre grande attenzione all'introduzione di procedure e tecniche nuove per evitare che si rompa il delicato equilibrio fra ambiente, inteso in termini di territorio, acqua, foraggi, animale e alimenti che da questi derivano. Il ricercatore ha il compito di capire gli elementi che sono alla base di questi delicati rapporti per rispondere alle nuove necessità dei produttori e dei consumatori evitando che si disperda un patrimonio di tradizione; esso anzi va definito sempre meglio e con scientificità per promuovere sulle tavole dei consumatori di tutto il mondo le nostre produzioni alimentari di pregio. Insomma, la natura e l’uomo hanno codificato un processo produttivo che di fatto costituisce il DNA della tipicità di quel prodotto. Noi desideriamo scoprire qual è».
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UN PIZZICO D’ESTATE «Tutto è nato dall’esigenza dei comuni costieri di capire se esiste e che dimensioni ha il fenomeno della Zanzara Tigre, date le lamentele dei cittadini, e soprattutto dei turisti» racconta il Prof. Fulvio Marsilio, Coordinatore Scientifico del progetto. «Ecco il perché di questa collaborazione, che sostanzialmente si articola in tre anni di lavoro, durante i quali effettueremo reiteratamente il monitoraggio del territorio per ottenere risultati attendibili riguardo al valore del fenomeno. Lo scopo è naturalmente quello di debellare l’insetto, andando ad agire in maniera mirata: cercheremo di individuare le zone in cui avviene la riproduzione e agiremo solo in quelle, invece di utilizzare tradizionali metodi di disinfezione “a pioggia”, che oltre ad essere scarsamente ecocompatibili rischiano anche di essere controproducenti; è stata infatti accertata la capacità della Zanzara Tigre di adattarsi alle tradizionali tecniche di disinfezione e quindi di sviluppare difese contro tali metodi. Tuttavia la Zanzara Tigre si adatta all’ambiente in cui vive, quindi metodi utilizzati magari in Emilia Romagna potrebbero non funzionare qui, e viceversa». L’Aedes Albopictus è originaria delle foreste tropicali del sud-est asiatico, e da noi è conosciuta con l'appellativo di zanzara tigre a causa delle strisce bianche che attraversano il suo corpo di colore nero. In Italia è stata rinvenuta per la prima volta nel 1990 a Genova, ed è giunta attraverso l’importazione di pneumatici usati; poco dopo numerosi focolai larvali sono stati identificati a Padova e in numerose altre città del nord Italia. La sua diffusione è stata particolarmente rapida in vari continenti:
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America (USA, Messico, Rep.Dominicana, Brasile, Argentina), Africa (Nigeria) ed Europa (Albania 1987, Italia 1990 e Francia 2000). L’assenza di una normativa specifica inerente il commercio nazionale e internazionale dei pneumatici usati ha contribuito alla progressiva estensione dell’area, che nel 2000 ha interessato 10 Regioni e oltre 100 centri urbani perlopiù nel Nord e Centro Italia. Le Regioni più colpite sono il Veneto, la Liguria e la Lombardia. A minor livello d’infestazione appaiono al momento Piemonte, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia-Giulia oltre alle regioni meridionali. Nel 1999 è stato segnalato un grande focolaio nell’area urbana di Roma e nel 2000 pressoché tutta la città e l’hinterland sono stati colonizzati. Nel 2000 la specie è stata rilevata anche a Bologna, Firenze e nell’area urbana di Torino. Dal 1994 al 1996 è stato realizzato lo studio della struttura genetica, condotto attraverso l’analisi elettroforetica, delle popolazioni italiane di Aedes albopictus (18 ceppi raccolti nelle regioni centro settentrionali) in comparazione con popolazioni degli USA (2 ceppi), del Giappone (4 ceppi)e dell’Indonesia (4 ceppi). La ricerca ha evidenziato un’alta affinità genetica tra le popolazioni italiane e quelle degli Stati Uniti e del Giappone. In effetti dal 1989 al 1994 la maggior parte di pneumatici usati sono stati introdotti in Italia proprio dal Giappone e dagli Stati Uniti. Inoltre dallo studio si evidenzia che in Italia la colonizzazione è avvenuta probabilmente attraverso ripetute introduzioni di un elevato numero di individui. (fonte: Centro Agricoltura Ambiente Emilia Romagna).
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Biotecnologie, la Facoltà che si industria di Fabrizio Gentile foto di Isabella Colonnello
Nasce all’Aquila per guardare al futuro. è il primo passo del nuovo Rettore verso il territorio. Con un partner d’eccellenza.
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ullo stemma della città dell’Aquila è raffigurato l’omonimo rapace, fiancheggiato dalla scritta “Immota manet”, ossia “resta immobile”. E se non c’è dubbio che lo stemma scolpito nella pietra sulla facciata del Municipio sia, effettivamente,rimasto immobile nei secoli,va altresì osservato che tutto, ai suoi piedi, è in movimento: la leggenda della città scostante, rocciosa e “orsa” è smentita in particolar modo dall’Università, che si è ritagliata il ruolo di guida del progresso culturale e scientifico dell’Aquila e del suo hinterland. Dopo un “manifesto programmatico” di forte impatto, in cui delineava prospettive di apertura e sinergie con le realtà imprenditoriali locali, il neoeletto Magnifico Rettore Ferdinando di Orio passa dalle parole ai fatti, istituendo non una, ma ben due nuove Facoltà, entrambe in risposta ad una attenta analisi dei problemi del territorio: la Facoltà di Psicologia, per la quale l’iter di istituzione e di attivazione era già stato avviato lo scorso anno sempre in seguito alla spinta del Prof. di Orio e la Facoltà di Biotecnologie che, in pochissimi mesi, ha avuto tutte le autorizzazioni previste dalla normativa vigente, rappresentando un vero “record” a dimostrazione che “quando si vuole veramente, si può…”. La Facoltà di Biotecnologie nasce all’insegna della
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tradizionale vocazione tecnologica a tutto tondo dell’Aquilano. «In particolare le biotecnologie –spiega il Rettore– che oggi sono alla base del lavoro di tantissime industrie, sono state sempre oggetto di studio nell’Ateneo, prima con la Scuola diretta a fini speciali, poi con il diploma universitario, in seguito trasformato in Corso di Laurea; a dimostrazione del forte interesse nei confronti delle biotecnologie, appare opportuno ricordare che nel 1984 l’Università ha dato vita al Crab (Consorzio di Ricerche Applicate alle Biotecnologie), che attualmente è ancora un importante punto di riferimento per tutta la comunità scientifica nazionale e per l’economia del territorio.L’istituzione della Facoltà di Biotecnologie è solo la naturale evoluzione di un percorso che ci vede sempre all’avanguardia per tutto ciò che concerne il settore tecnologico». E proprio i locali del Crab ad Avezzano saranno la sede di uno dei C orsi di L aurea della nuo va Facoltà, quello in Biotecnologie Agro-Alimentari, che inizier à il suo primo ciclo di lezioni già dal prossimo Anno Accademico 2005/06. «L’Università –prosegue Di Orio– deve confrontarsi col luogo in cui vive, uscire dal suo bozzolo dorato e mettersi al servizio della comunità. Si deve fare di UNIVERSIVARIO L’AQUILA
tutto per rispondere alle esigenze del territorio, in termini di economia,di ricerca e anche di occupazione. Non dimentichiamo che fino a poco tempo fa, prima della crisi economica degli ultimi anni, L’Aquila era un Polo tecnologico di valore nazionale. È una vocazione ormai consolidata, e resta patrimonio di quest’angolo d’Abruzzo. E proprio su questo terreno vogliamo rilanciare i rapporti tra Università, industria e tessuto sociale. Ma l’avvio di una nuova Facoltà è soprattutto un’occasione da non perdere sia per attuare un programma di sviluppo senza pregiudizi o impegni pregressi, sia per delineare nuovi percorsi formativi in linea con gli standard europei, più corrispondenti alle esigenze del mercato del lavoro e attraenti per gli studenti». Il vulcanico Rettore (che si è guadagnato il singolare soprannome di “tsunami” per l’impeto con cui promuove le attività dell’Ateneo) prosegue nell’illustrare come sarà la nuova Facoltà: «L’istituzione di questa Facoltà ha soprattutto lo scopo di valorizzare insegnamenti che prima erano, come dire, mimetizzati all’interno dell’offerta formativa di altre Facoltà, come Medicina, Scienze o Ingegneria. Questo è già un segnale forte che dimostra le nostre intenzioni di rilanciare l’Università anche sul piano della didattica. Quando abbiamo avviato il Corso di laurea in Scienze BIOTECNOLOGIE, LA FACOLTA’ CHE SI INDUSTRIA
e Tecnologie Cosmetologiche presso la Facoltà di Medicina il territorio ha risposto in maniera più che positiva:sono stati in tanti,anche lavoratori,che hanno voluto qualificare la loro attività già avviata uscendo dal “far west” che spesso caratterizza questi settori imprenditoriali, dove chiunque, da un giorno all’altro può improvvisarsi di volta in volta estetista, cosmetologo, dietologo e via dicendo. Ci è stato chiesto di fare altrettanto per il settore erboristico, ed ecco che la nuova Facoltà di Biotecnologie offrirà un Corso di laurea in Scienze e tecnologie erboristiche, che ci auguriamo possa mettere ordine in un altro settore in cui vige una certa deregulation». Ma non ci si limiterà a questo. «Gli altri Corsi saranno volti a coprire tutti gli aspetti delle Biotecnologie. Nell’ambito del Corso di Laurea in Biotecnologie, saranno attivi gli indirizzi di Biotecnologie mediche, Biotecnologie farmaceutiche, Biotecnologie agro-industriali e alimentari e Biotecnologie industriali, a ciascuno dei quali corrisponderà lo specifico Corso di Laurea Specialistica. Quale sarà la sede che ospit erà la nuova Facoltà di Biotecnologie? «La situazione degli spazi dell’Ateneo è fortemente critica. Le esigenze didattiche di molte delle Facoltà VARIO54
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preesistenti (vedi in particolare Lettere, Scienze Motorie, Scienze della Formazione) sono state, in passato, solo parzialmente “tamponate” attraverso l’utilizzo di locali in affitto, per lo più del tutto inadeguati (e anche assai onerosi!) per la formazione universitaria. In tale scenario, certo non esaltante, ribadisco tutto l’impegno da parte mia e degli Organismi Accademici, nonostante la gravità della situazione dovuta ad una pesante eredità e la previsione di una soluzione a lungo termine, a reperire gli spazi da destinare alla Facoltà di Biotecnologie. Faccio presente che è stato emanato un Bando per la ricerca degli spazi,coinvolgendo in questa problematica la Prefettura, il Comune e la Provincia. È stata fatta una ricognizione, da parte del Direttore Amministrativo, per quanto riguarda la zona di Coppito, dove bene si allocherebbe la Facoltà di Biotecnologie, considerando che proprio nel polo di Coppito è concentrata la “massa critica” di docenti/ricercatori coinvolti nella formazione del “biotecnologo” e le strutture, i laboratori, le attrezzature adeguati per la stessa. Ma nel frattempo è stata considerata anche l’opportunità di poter utilizzare la struttura dell’ex Optimes, collocata nel Polo industriale e con possibilità di espansione, cercando al contempo, qualora fosse possibile, di recuperare delle forze lavorative sottoposte a licenziamento.Stiamo anche aspettando una risposta dalla Regione, che dovrebbe concederci l’uso di una palazzina (ex CRAB-Sud), sita nel polo biomedico di Coppito, che potrebbe, almeno parzialmente soddisfare molte delle esigenze della nuova Facoltà». Si prevedono molte iscrizioni? «In realtà conosciamo già, in parte, la numerosità della popolazione universitaria che seguirà i corsi di studio preesistenti. Si tratta del Corso di laurea interfacoltà (Scienze, Medicina e Chirurgia, Ingegneria) in Biotecnologie,il Corso di laurea interfacoltà (Medicina e Chirurgia, Scienze) in Scienze e Tecnologie Cosmetologiche, il Corso di laurea specialistica, attualmente inserita nella Facoltà di Medicina e Chirurgia, in Biotecnologie mediche, e il Corso di laurea specialistica, attualmente inserita nella Facoltà di Ingegneria, in Biotecnologie Industriali. Prevediamo, però, un incremento della popolazione studentesca dato dalla nuova visibilità che la Facoltà di Biotecnologie permette di dare ai Corsi di Laurea di Biotecnologie, preesistenti e di nuova attivazione. Vorrei sottolineare che, secondo i nuovi strumenti di valutazione utilizzati dal Ministero, un Corso di Laurea dell’area Biotecnologia deve avere un numero consistente di requisiti minimi, in termini di strutture e personale, per ogni gruppo di 75 studenti. Con i Corsi di Laurea proposti, abbiamo raggiunto i requisiti minimi per permettere l’iscrizione al Corso di Laurea di Biotecnologie a ben 150 studenti, i quali, una volta laureati, troverebbero numerosi percorsi alternativi per specializzarsi
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nell’ambito di interesse». In che modo en trano nel pr ogetto r ealtà impr enditoriali di grande spessore come le farmaceutiche Dompé o Aventis? «Questo è il punto che mi preme di più: la Facoltà avrà il compito, infatti, di rinsaldare i già robusti legami col tessuto imprenditoriale, consentendo una sinergia più intensa e un rapporto quotidiano con aziende che già oggi offrono prospettive occupazionali serie a chi frequenta i Corsi. Partiamo soprattutto dalla domanda di formazione, attuale (oltre 200 studenti) e potenziale, e delle possibilità occupazionali nel settore delle biotecnologie, con riferimento al bacino di utenza regionale, tenendo conto della localizzazione delle principali strutture (aziende, industrie, università) che applicano le scienze biotecnologiche. Ci siamo assicurati la piena disponibilità delle industrie farmaceutiche citate, che già da anni collaborano con noi nel settore, e agro-alimentari locali a collaborare con la nuova Facoltà di Biotecnologie in ambito formativo professionalizzante, in particolare attraverso la messa a disposizione di laboratori di biotecnologie applicate alla formulazione e produzione di farmaci e prodotti della salute. I mercati di queste industrie sono di rilevantissime dimensioni e di alta specializzazione, non aggredibili senza un retroterra di competenze scientifiche. Scopo di questa collaborazione è di promuovere con la Regione Abruzzo un progetto per l’innovazione e il miglioramento del rapporto industria-ricerca, dedicato alle applicazioni delle biotecnologie al tessuto produttivo locale (sanitario, farmaceutico, agroalimentare, ambientale), che potrebbe portare alla costituzione di un Distretto Biotecnologico Aquilano». Quindi vi pr oponete c ome P olo di ec cellenza nel sett ore biotecnologico, almeno per quel che riguar da la produzione di conoscenze… «Esatto. Con la istituzione di questa nuova realtà accademica, l’Ateneo allargherà i suoi orizzonti culturali a campi della scienza e del sapere tra i più affascinanti ed innovativi, riproponendo la centralità del proprio ruolo di indirizzo nella ricerca ed avviando il consolidamento a L’Aquila di studi ed attività che possono utilmente contribuire non solo ad ampliare le nostre competenze scientifiche, ma anche rappresentare fertili terreni di incubazione per la nascita di nuove idee imprenditoriali e l’insediamento di un fertile distretto tecnologico. Da essa possono venire importanti contributi alla qualificazione ed al sostegno del sistema economico territoriale, che potrà così raccogliere più facilmente la sfida prepotentemente lanciata nel settore delle biotecnologie dalla concorrenza internazionale».
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La scienza in aula «Dove hai lezione oggi?» «Nello stabilimento di Pile». A L’Aquila si sente anche questo, perché l’insegnamento non avviene solo nelle aule austere degli storici edifici del centro cittadino, ma anche nei moderni capannoni industriali. Naturale quindi vedere anche il percorso inverso, cioè un industriale che per un giorno entra nelle aule universitarie. È accaduto a Sergio Dompé, titolare dell'omonima casa farmaceutica, che lo scorso 22 Marzo ha ricevuto la Laurea honoris causa in Biotecnologie mediche, un premio che –come ha spiegato il Rettore dell'Università dell'Aquila, Ferdinando Di Orio– «Rappresenta il giusto riconoscimento accademico allo studioso che, prima degli altri, ha avuto il grande merito di individuare nelle Biotecnologie mediche una nuova disciplina scientifica, frutto della sintesi tra ricerca farmaceutica di base e nuove esigenze della Medicina clinica; ed è un riconoscimento anche all'imprenditore che ha saputo valorizzare un nuovo sapere scientifico, trasformandolo in risorsa strategica per il nostro Paese». Presente con successo sul mercato farmaceutico tradizionale nell'area della terapia respiratoria e osteoarticolare, Dompé ha sviluppato la propria presenza nell'area biotecnologica con farmaci e servizi innovativi.«È facile immaginare la grandissima soddisfazione con cui io ho vissuto questo riconoscimento –racconta un cordialissimo Sergio Dompé– ed è stata una grande gioia per tutta l'azienda. Non posso evitare di legarlo al nostro impegno in Abruzzo, non solo con l'Università ma con tutte le istituzioni. Sono convinto che ogni azienda dovrebbe lavorare con l'Università,
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se vuol fare innovazione e ricerca. Il premio di questa collaborazione è un vantaggio per l'impresa stessa e per l'Università, ma soprattutto per il Paese, perché ne accresce la competitività sul piano internazionale». Come mai la Dompé decise, nei primi anni novanta, di progettare e realizzare un centro ricerche e uno stabilimento produttivo in Abruzzo, e proprio nell'aquilano? «Avevamo esigenza di trovare una sede che rispettasse le norme internazionali stabilite per la qualità della ricerca e della produzione tra cui la salubrità dell'aria e le caratteristiche dell'acqua, oltre ovviamente alla qualità delle Risorse Umane. Incaricammo una società internazionale, tra le più quotate allora e oggi, di fare uno screening per presentarci alcune proposte di insediamento; un investimento di questo tipo è uno sforzo notevole. Valutammo diverse possibilità, tra cui la Puglia, la Campania e altre zone dell'Abruzzo, ma alla fine scegliemmo quella che presentava il miglior equilibrio tra costi e vantaggi, non ultimo quello di un rapporto valido con le istituzioni, ivi compresa l'Università». Com'era il rapporto con l'Ateneo prima e come cambia ora che esiste la Facoltà di Biotecnologie? «Le biotecnologie sono un settore, l'ultimo grande ambito di investimento della ricerca, in cui noi siamo impegnati da più di dieci anni. Avevamo già rapporti piuttosto stretti con l'Università dell'Aquila in questo campo, e il loro interesse per l'argomento è iniziato molti anni fa. Magari non tutti i nostri desiderata si sono poi concretizzati, ma è certo che stiamo lavorando per sostenere tangibilmente i nostri progetti di collaborazione fattiva e per conseguire risultati efficaci. Cercheremo, insieme, di aumentare la competitività dell'azienda e dell'Ateneo, in un'ottica di innovazione che non può che portare giovamento a tutta la ricerca italiana».
Nelle foto di queste pagine, da sinistra: alcune immagini dello stabilimento Dompé in località Pile, vicino L’Aquila. Qui sopra il titolare dell’azienda, Sergio Dompé, insignito recentemente del titolo di Dottore Honoris Causa per l’alto contributo alla ricerca biotecnologica.
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Mario Negri Sud
di Francesco Di Vincenzo foto Silvia Jammarrone
Il territorio della ricerca Si chiama “Patto per qualificare e diversificare l’impresa sociale”. Un Progetto Equal d’iniziativa comunitaria al quale l’Istituto di Santa Maria Imbaro collabora sperimentando un rigoroso sistema di monitoraggio dei servizi socio-assistenziali. Obiettivo: verificare la soddisfazione del paziente/utente. Risultati? Interessanti. E con qualche sorpresa.
«Valutare la soddisfazione dei cittadini significa strutturare e sperimentare un sistema territoriale di monitoraggio qualitativo dei servizi socio-assistenziali con particolare riferimento agli aspetti inerenti la soddisfazione del cliente/utente»
Nella foto in alto, l’Istituto Mario Negri Sud. Nella pagina accanto la dottoressa Marta Valerio e la collega Veronica Scurti
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ario Negri Sud di Santa Maria Imbaro. Quando si parla del prestigioso centro di ricerca si fa sempre riferimento alla località in cui è insediato. Non si tratta di una pura formalità, ma di una dichiarazione d’intenti sulla mission dell’Istituto: ricerca pura per il mondo scientifico internazionale, ma anche soluzioni concrete e immediate per i problemi del territorio. Il Mario Negri Sud, infatti, è uno dei principali protagonisti del Progetto Equal (d’iniziativa comunitaria) denominato “Patto per qualificare e diversificare l’impresa sociale”, un progetto partecipato e condiviso da soggetti pubblici, pubblico-privati e privati: Provincia di Chieti, Associazione Enti Locali del Sangro-Aventino, imprese sociali operanti nel Sangro-Aventino, l’ASL Lanciano-Vasto, Camera di Commercio di Chieti, la Confcooperative, LegaCoop, Agci, DierreForm, Enfap, Ial-Cisl, Eurobic. Di che si tratta? «Il progetto –spiega la dottoressa Marta Valerio, del Laboratorio di Epidemiologia Assistenziale e Sistemi Informatici Farmacoepidemiologia– mira al consolidamento della situazione occupazionale degli addetti alle imprese sociali, attraverso il miglioramento delle condizioni di lavoro e del livello professionale, nonché tramite il rafforzamento e lo sviluppo del sistema delle imprese sociali del comprensorio basato su una maggiore integrazione con il contesto sociale ed economico». Il ruolo dell’istituto di ricerca di Santa Maria Imbaro è di grande importanza ed elevato impegno scientifico:“Valutare la soddisfazione dei cittadini”, una delle azioni previste dal progetto Equal. «Si tratta di strutturare e sperimentare un sistema territoriale di monitoraggio qualitativo dei servizi socio-assistenziali con particolare riferimento agli aspetti inerenti la soddisfazione del cliente/utente». Soddisfazione? Cliente? Insomma, si sta parlando della customer satisfaction, una delle tante
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espressioni di anglofila supponenza entrata nel nostro linguaggio corrente. Al Mario Negri Sud hanno avuto il buon senso di utilizzarla nella sua versione italiana (“soddisfazione del cliente/utente”), ma la sostanza non cambia e lo stupore è inevitabile: il marketing, dunque, detta legge anche in settori finora considerati al riparo dalla sua onnivora influenza? Marta Valerio, replica così all’ingenuo stupore del cronista: «Le misure di soddisfazione abitualmente utilizzate per monitorare l’andamento ed il grado di accettazione dei beni di consumo da parte dei clienti, sono entrate ormai anche nei servizi. Anzi, nell’area socio-sanitaria questa valutazione viene fatta con particolare intensità e una grande attenzione agli aspetti metodologici. E per questo diviene di cruciale importanza esplicitare da che parte si sta: se dalla parte del fornitore del servizio o se da quella di chi esprime bisogni che in un settore come quello socio-sanitario hanno strettamente a che fare con la vita delle persone e con il peso dello star male». Prendiamo atto e ci inoltriamo nel merito: quali sono i vantaggi di questo tipo di valutazione? «Intanto, misurare la soddisfazione dei cittadini significa fornire un prezioso indicatore di qualità del servizio erogato. In secondo luogo, questa modalità di verifica implica un concreto riconoscimento del diritto alla partecipazione e condivisione delle scelte da parte dei cittadini. Infine, misurare la soddisfazione degli utenti asseconda e potenzia la tendenza allo sviluppo di una concezione sempre più di mercato di tutta l’area dei servizi. Del resto l’uso di alcuni concetti basilari dell’economia di mercato, come domanda e offerta, aziendalizzazione, managerialità, ecc. è una tendenza ormai consolidata nei servizi sociosanitari». Sì, però è innegabilmente diverso valutare i giudizi, le percezioni dei cittadini sui servizi sociosanitari dal valutare i comportamenti e i giudizi dei consumatori… «Ovviamente». E allora? «Allora si MARIO NEGRI SUD
tratta di scegliere un punto di vista sulla soddisfazione del cliente-utente. Ci si può mettere nella logica di un processo valutativo “oggettivo” o almeno neutrale…». Oppure? «Oppure si incorpora il monitoraggio qualitativo e quantitativo della soddisfazione nel percorso di sviluppo del progetto, facendone un indicatore permanente di partecipazione e condivisione del progetto e dei suoi risultati». Altro problema: si fa presto a dire “soddisfazione”, ma che significa esattamente questo concetto nel caso specifico? Da che cosa dipende la “soddisfazione” dell’utente di un servizio? «Dal grado e dal tipo di attesa, e/o dal livello di partecipazione nel processo oggetto di valutazione e/o, ancora, dal risultato del progetto.Tuttavia, la soddisfazione può coincidere con la capacità degli utenti di esprimere “comprensione” del problema, il che significa crescita di una cultura della partecipazione e di una autonomia di giudizio che può essere ancora più positiva di una soddisfazione acritica». A voler essere pignoli, chiarito il concetto di soddisfazione, ci sarebbe da chiarire quello della valutazione, cioè della valutazione della soddisfazione… «Vero. Se però sostituiamo a questo termine quello di “controlloverifica”, cioè controllo verifica dei risultati, si capisce subito che cosa s’intende per valutazione. L’unica differenza è che la valutazione dei servizi sociali, non è rivolta alle prestazioni bensì alle aspettative e ai bisogni delle persone che le ricevono». Insomma, la valutazione è uno strumento per verificare che un diritto, un diritto di cittadinanza, venga effettivamente garantito… «Esatto. Ecco perché la valutazione della soddisfazione del cittadino, applicato ai sevizi socio-sanitari, da strumento di marketing si fa IL TERRITORIO DELLA RICERCA
Un impegno comune Intervista con Gianni Tognoni, direttore del Mario Negri Sud Direttore, il suo istituto collabora ormai da tempo con il Patto Territoriale Sangro-Aventino. Un’esperienza un po’ insolita, non trova? «Un’alleanza esplicita –per quanto con un peso quasi simbolico a liv ello di risorse– tra coloro che sperimentano gestioni territoriali ed una istituzione di r icerca è sicuramente, di per sé, un elemento di novità, con potenzialità da cui si possono attendere risultati utili, per i loro contenuti e per le più generali implicazioni culturali». Qual è il senso di una collaborazione a progetti (non solo con il Patto ma anche di altri soggetti di questa r egione) che talvolta sembrano lontani dagli interessi e dalla “mission” del suo Istituto? «Noi collaboriamo con il massimo delle nostre competenze specialistiche in settori molto bene definiti (dal monitoraggio biologico-ambientale alle tecniche di valutazione della qualità dei ser vizi, ai modelli matematico-statistici di analisi-previsione dei dati). La responsabilità di porsi domande sulla interazione e le (dis)continuità tra i tanti frammenti della conoscenza è par te della identità stessa di una istituzione che ipotizza-scopre-descrive-spiega i meccanismi molecolari della vita, e ne verifica il senso nell’organismo vivente complesso. L’organismo sociale e territoriale non è meno complesso». Può indicare una finalità specifica di tale collaborazione? «Porsi e muoversi in una logica di scambio intelligente di punti di vista e di strumenti di comprensione e pianificazione è uno dei nodi per trasf erire ai cittadini ed al territorio conoscenze operative sempre meglio corrispondenti ai bisogni». Finalità della ricerca e di un Patto Territoriale: ci sono elementi comuni? «La sfida-prospettiva di lavorare in e su realtà locali ben definite, di cui analizzare con lo stesso rigore i diversi aspetti, ma avendo una progettualità verificabile e trasparente, accomuna la logica del Patto a quella della ricerca. La logica “pattizia” è, di per sé, un’ipotesi come un protocollo di ricerca. È qui il senso di immag inare un progetto di “qualità d’area” o un “bilancio ecologico territoriale”, in un tempo-paese-mondo su cui c’è una prognosi sfavorevole». Qualità d’area, bilancio ecologico territoriale, infine i diritti di cittadinanza. Sono queste, dunque. le coordinate della vostra collaborazione con il Patto? «Ecologia e diritti sono le due parole-chiave che in un cer to senso sintetizzano le anime dei due progetti principali (Agenda 21, Equal) su cui il Patto ed il Consorzio collaborano più direttamente. È opportuno sottolineare la continuità tra una progettualità di presa in carico dei rischi e realtà di degrado ambientale, e la progettazione di responsabilità-risposta di rischi-realtà di marginalità sociale ed umana. Si tratta nei due casi di bisogni inevasi, ma per i quali esistono risposte se si ricercano-sperimentano percorsi e strategie di intervento. E nei due casi le r isorse dedicate possono di fatto rivelarsi un investimento –anche economico– non solo di civiltà». VARIO54
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strumento di, per dirla grossa, giustizia sociale». L’apporto del Mario Negri Sud al progetto Equal si è articolato attraverso un’ipotesi di costruzione di un Osservatorio dei Bisogni e una proposta per l’Assistenza Domiciliare Integrata. Due parole per spiegare che cosa dovrebbe essere l’Osservatorio. «Affinché il cittadino possa esercitare il proprio diritto di cittadinanza e quindi dare voce ai propri bisogni, è necessario che questi siano resi visibili. L’Osservatorio può adempiere a questa funzione purché non sia inteso solo come uno strumento tecnico che raccoglie i dati e li elabora in informazioni compiute. Esso è chiamato a divenire luogo di partecipazione e di stimolo per la realizzazione di iniziative finalizzate al miglioramento del sistema». Avete compiuto passi concreti nella costruzione dell’Osservatorio? «È stato progettato e realizzato in via sperimentale un sistema informativo in grado di fungere da Osservatorio dei Bisogni, ed è utilizzato in via sperimentale per ora dal Comune di Lanciano, sperando che possa poi essere esteso agli altri Enti di Ambito territoriale Sociale della Val di Sangro». Può indicare qualche risultato pratico di questo sistema informativo? «Il sistema consente: la segnalazione degli utenti che hanno richiesto ma non hanno ottenuto l’erogazione del servizio, la gestione delle liste di attesa attraverso la segnalazione degli utenti che hanno richiesto ma non hanno ottenuto l’erogazione del servizio; la gestione delle scadenze, con una serie di avvisi che segnalano i protocolli provvisori e definitivi giunti al termine; la possibilità per l’operatore di consultare l’archivio storico». E riguardo alla “soddisfazione” del cittadino-utente? «Le informazioni raccolte sono funzionali anche alla costruzione di un sistema di indicatori idoneo alla rilevazione della qualità del servizio, e quindi indirettamente della soddisfazione, in termini di risultati, non solo gestionali ma anche soprattutto di esito delle prestazioni». Veniamo alla vostra proposta di valutazione per l’Assistenza Domiciliare Integrata. Di che si tratta? «L’Assistenza Domiciliare Integrata rappresenta un modello, nuovo e stimolante, di servizio socio-assistenziale in cui entrano in gioco i criteri di efficienza/efficacia dei servizi e la capacità di esprimere la propria soddisfazione». Insomma, l’Assistenza Domiciliare Integrata come “banco di prova” del modello di
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valutazione. «Esatto». Come avete articolato il vostro lavoro? «Abbiamo innanzitutto analizzato il territorio, rilevandone i dati fondamentali: popolazione, indice di vecchiaia, numero dei pazienti in ADI, distribuzione per sesso e età,la distribuzione territoriale del servizio, la frequenza delle diagnosi…». Dica qualcosa sulle diagnosi più diffuse…«Le diagnosi rilevate le abbiamo sintetizzate in 25 macro categorie diagnostiche di cui si è calcolata la frequenza assoluta e percentuale». Qual è la diagnosi più ricorrente? «Quasi il 16,65% della popolazione interessata ha almeno una diagnosi di scompenso cardiaco». Poi le fratture, immaginiamo, data l’età avanzata degli assistiti… «Meno di quanto si pensi: questo tipo di diagnosi interessa meno del 7% dei casi. Invece sono di più le diagnosi di artropatie e osteopatie, cioè le malattie delle ossa». Qual era lo scopo di queste analisi? «Riuscire a ricostruire il percorso del cittadino-paziente all’interno del servizio, e quindi riuscire a valutare complessivamente l’assistenza ricevuta. Naturalmente tra le prestazioni includiamo anche quelle infermieristiche». Quali sono gli interventi infiermieristici principali? «Il 60% è costituito da prelievo venoso e controllo della glicemia, terapia intramuscolare e fleboclisi». Interventi generici, insomma. «Sì, interventi, come dire,“trasversali” a sesso, età e diagnosi diverse». Quali sono stati gli strumenti di coinvolgimento diretto del paziente, di misurazione del suo grado di soddisfazione per il servizio ricevuto? «Abbiamo realizzato tre questionari che utilizzano una modalità di approccio complementare». Cioè? «Non si indaga solo la percezione del paziente rispetto alle prestazioni ricevute, ma viene indagata anche la “rete sociale” di cui il paziente fa parte». I questionari, dunque, non sono stati distribuiti solo ai pazienti? «No. Oltre ai pazienti, ai familiari che si prendono costantemente cura di loro e a un campione di anziani con più di 70 anni della zona». E quali sono le finalità del questionario, che cosa cercate di sapere? «Con il paziente cerchiamo di approfondire gli aspetti della accessibilità e continuità dell’assistenza, dell’efficacia ed efficienza dell’organizzazione, delle relazioni e dei rapporti con il personale, del grado di personalizzazione e umanizzazione del rapporto e, di conseguenza, del servizio. Dei familiari cerchiamo di conoscere il carico emotivo e lo stress psico-fisico. Degli anziani valutiamo il grado di solitudine oppure di ricchezza delle relazioni umane di cui godono».
MARIO NEGRI SUD
I RISULTATI DI UNA RICERCA DEL MARIO NEGRI SUD
A S S I S T E N Z A D O M I C I LI A R E INTEGRATA C’E’ SODDISFAZIONE IN GIRO. O QUASI Il M ario Neg ri Sud ha par tecipato al P rogetto “Patto per qualificar e e diversificare l ’impresa sociale” coordinato dal P atto t erritoriale Sang roAventino nell’ambito dell’ iniziativa comunitaria Equal realizzando l’azione “Valutare la soddisfazione dei cittadini”. Fra le varie fasi che hanno portato alla realizzazione dell’azione, c’è quella che comprende la realizzazione di due questionari per gli utenti del servizio di Assistenza Domiciliare Integrata: il primo per rilevare il grado di soddisfazione dei cittadini/utenti, il secondo , distr ibuito ai familiar i, per consentir e loro di espr imere il proprio carico assistenziale ed emotivo. Quali sono i risultati? Vediamoli. Il primo questionario è stato distribuito a 129 pazienti in ADI (sigla che da qui in a vanti user emo per A ssistenza D omiciliare I ntegrata). Di quest o campione 85 hanno restituito il questionario compilato. La maggior parte ha più di 65 anni ( quasi il 90%) e si tratta pr evalentemente di donne (oltre il 60%). Accessibilità e continuità dell’assistenza. La valutazione complessiva sull ’assistenza ricevuta è risultata nella maggior parte “buona” (oltre il 50%) se non “ottima” (oltre il 33%); accorpando questi due g ruppi è e vidente come ben 1’83% degli int ervistati r itiene positiva il ser vizio r icevuto. Tuttavia va seg nalato che una per centuale non irrilevante considera il ser vizio “discreto” (14%) e in un caso “insufficiente”. I tempi di attesa tra la richiesta del servizio e il primo accesso degli operatori sanitari e sociali sono stati valutati positivamente dalla maggioranza, oltr e l ’80% degli int ervistati li ha considerati “brevi” o “abbastanza brevi. Efficienza ed efficacia dell’organizzazione del servizio. Complessivamente soddisfatti per la qualità dell’assistenza ricevuta, per l’efficacia del servizio, per la puntualità, la precisione e il rapporto umano instaurato con il personale sanitario e sociale; meno contenti dell’aspetto organizzativo e di coordinamento fra servizio sanitario e sociale. Una parte non piccola degli intervistati (18%) lamenta l’insufficienza dell’assistenza ricevuta dal proprio medico curante, per la scarsa frequenza dei contr olli. St esso discorso v erso i medici specialisti: anche qui una percentuale notevole (oltre il 27%) ritiene insufficiente l’assistenza dello specialista: o per ché completament e assent e o per la mancanza di informazione e dialogo. Diversa l ’opinione nei confr onti di inf ermieri e fisiot erapisti: r ispettivamente il 95% e l ’85% di chi ha r isposto ai questionari ritiene sufficiente l’assistenza ricevuta da queste due figure professionali . La voce dei diretti interessati. Fra le domande dei questionari ve ne erano alcune che richiedevano di esprimere pareri “liberi” sulla funzionalità del ser vizio. In particolare ci si interroga su quali aspetti del servizio sono considerati inadatti chiedendo suggerimenti ai diretti interessati. Fra le varie indicazioni relative alle disfunzioni segnaliamo lo “scarso interessamento da parte del medico di famiglia del pazient e”, la mancanza di un numer o adeguato di addetti disponibili (medici, specialisti), l’impossibilità di scegliere gli operatori, gli ostacoli burocratici. IL TERRITORIO DELLA RICERCA
Fra i sugger imenti proposti dagli int ervistati per migliorar e il ser vizio si segnalano: la r ichiesta di int erventi più fr equenti di medici per visit e domiciliari, magg iore pr ofessionalità, v elocizzazione delle pratiche di attivazione del servizio, maggiori informazioni sul servizio per i pazienti potenzialmente ammissibili in ADI. Il secondo questionario è stato distribuito a 129 familiari di pazienti in ADI. Profilo del prestatore di cura. Di 129 familiar i int ervistati, 85 (66%) hanno r isposto al questionar io. Circa la metà ha un età media compresa fra i 45 e i 64 anni e per la maggior parte sono donne (oltre il 73%). Maggiormente coinvolti sono figli e coniug i, rispettivamente il 46% e il 30%. La durata dell ’assistenza supera un anno nella magg ior parte dei casi, e 16 intervistati il familiare da oltre 5 anni. L‘assistenza fornita dal prestatore di cura. Dai dati raccolti emer ge che i pazienti hanno bisog no “totalmente” nel 68% dei casi o “molto” (22%) dell’aiuto del familiar e per sv olgere molte delle loro attività abituali, segnalando quindi una notevole dipendenza dal cong iunto, che spesso si v ede costr etto a vig ilare costant emente sull’ammalato (53%). Ciò compor ta un disag io per l ’assistente che si manifesta nel “non avere tempo da dedicar e a me st esso” nel 70% del campione. Lo stato d’animo. Va segnalato che il car ico di r esponsabilità e di la voro nell’assistenza di una persona che ha bisogno costante di cure ha delle ripercussioni notevoli sulla vita del familiare visto che una percentuale molto alta del campione dichiara di “non sentirsi più padr one della propria vita”, di “desiderare pot er fugg ire da questa situazione ”. Altr e seg nalazioni impor tanti riguardano le conseguenze per la vita sociale, le aspettative deluse per il doversi occupare di una persona non autosufficiente oltre al “sentirsi interiormente svuotati a causa del ruolo di assist ente”. Il carico fisico. Oltre alle conseguenze psicologiche, sono state indagate anche le ripercussioni sulla salute dell’assistente. In particolare ne ha r isentito il riposo con difficoltà legate al sonno ( circa il 45%), in alcuni casi anche la salut e dell’assistente stesso (39%), oltre alla generica denuncia di una stanchezza fisica aumentata nel 95% degli int ervistati. Le ripercussioni sulla famiglia e sul lavoro. La maggior parte dei prestatori di cura dichiara di non a ver avuto cambiamenti notevoli dal punto di vista delle t ensioni e del disaccor do con gli altri membri della famiglia (67%) o con il coniuge (84%), che non sottovalutano i suoi sforzi. Sul lavoro il 31% dichiara di non a ver notato cali di rendimento. Il carico emotivo. Un ultimo gruppo di domande ha messo in e videnza che essere impegnati nell’assistenza di un familiare con problemi di salute non ha causato grossi problemi da un punt o di vista emotiv o. La magg ior parte del campione dichiara di non provare alcun imbarazzo (74%) per la condizione del proprio caro nè vergogna (90%) nè risentimento (76%). VARIO54
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Ribalta Tutto quanto fa Ribalta: venite con noi a pagina 70 a scoprire cosa accade in una notte magica nel piccolo paese di Goriano Sicoli. Ghiotti appuntamenti per chi ama la musica a pagina 72: spesso suonare vuol dire anche altruismo, come ci insegna la scuola Baobab e l’associazione Pierpaolo Felli; a Roseto, invece, sono di scena gli indipendenti del Soundlabs. Conoscete la Seconda Guerra Mondiale? Sapete cos’è stata la Brigata Maiella? Ve lo spiega Marco Patricelli, a pag.74 e poi girate pagina per scoprire le novità editoriali: chissà che non troviate ispirazione per un libro da leggere sotto l’ombrellone… A pagina 78 vi presentiamo un regista di talento, sul quale scommettiamo: Stefano Odoardi, abruzzese d’Europa. Il cinema, anche stavolta, è ricco di Moviementi: dal film di Daniele Vicari sui laboratori del Gran Sasso al giovane Berardo Carboni, che vorrebbe sparare al Premier, all’apertura di una nuova multisala a L’Aquila, e poi tante altre notizie. Se vi capita di andare a teatro, scegliete di vedere lo spettacolo che vi presentiamo a pag. 82: vi garantiamo una piacevole serata in compagnia degli attori di Teatro Immediato. Pescara inaugura un nuovo spazio per l’arte (pag. 84), mentre Teramo se li conquista. Prima di proseguire, beviamo insieme un bicchiere di vino (che sia tutelato, però), e prendiamoci un aperitivo al Caffè Venezia, a pag. 86. Subito dopo, vi invitiamo a rispondere all’appello della città di Pineto per salvare il suo parco, e a pag. 89 scoprirete che il Gran Sasso va in Egitto. L’appuntamento con la nostra storia è stavolta a Capistrello (pag. 90) per ricordare una strage dimenticata. Vincenzo Castelli è il personaggio che racconta la sua storia di volontariato (a pag. 92), e tutto il resto, come al solito, è Tabù. Buone vacanze a tutti!
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SOCIETÀ
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Un’antica tradizione rivive nelle case di Goriano Sicoli, nella Valle Subequana. Un rito femminile tramandato da un tempo in cui la terra e la vita
Nelle foto di Francesca Fadda: due momenti della notte di Santa Gemma.
erano rispettate.
In basso, una foto di gruppo all’alba.
SANTA GEMMA SUPERSTAR La casa dei miei nonni è situa ta nella piazz etta e fa par te del “Vicinato di Santa Gemma”. Far parte del “vicinato” della santa è sempre stato un privilegio perché le famiglie che vi appartenevano godevano di speciali attenzioni. Significava essere molto rispettati nel senso che ci portavano un assaggio di tutte le cose da mangiare che si preparavano nella “casa” della Santa durante il c orso dell’anno. La “casa” è sempre stata un vero e proprio antico santuario in cui c onvogliavano le off erte dei pr odotti della t erra nelle varie stagioni dell’anno. La vita che vi si sv olgeva all’interno con i vari lavori era tutt’uno con la religione. la religione era la vita. Ed io ricordo che quando ci portavano le ricotte, i formaggi, le pizz e, i bisc otti, le ciambelle e tutt o il r esto, noi di famiglia li mang iavamo in silenzio e c on devozione
Demetra per sempre di Paola Di Giannantonio Rivista abruzzese L’autrice ha indagato la complessa ritualità della festa di Santa Gemma, rintracciando straordinarie analogie con il mito di Demetra e Persefone. In particolare nella cerimonia che si svolge il primo giorno, quando dal paese di San Sebastiano arriva a Goriano una ragazza, che sarà accolta con grandi festeggiamenti e
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ed il t ono della v oce si abbassa va in seg no di rispett o. Ho vissuto la mia esistenza lontano, in città. Il tempo dello studio, del lavoro, altre leggi, mi hanno distratta e distolta. Ma in questa stag ione della mia vita sono v oluta “tornare”. Ho partecipato al rit o del pane , insieme alle altr e donne; abbiamo impastato, vegliato ed a tteso la lievitazione. Quello che è suc cesso den tro di me , nella mia anima, posso solo tentare di scriv erlo. Il flusso delle ener gie positive sprigionato dallo stare insieme alle donne del mio paese ha risv egliato i miei ricordi positivi più lontani e le emozioni legate alla parte più sacra di me. E sono uscita dalla “casa” all’alba, leggera e rigenerata, e mi sono sen tita parte di tutto l’universo, del cielo e della terra da cui quel pane proveniva. Angela Romeo
accompagnata ad incontrare una donna che non ha mai visto, e che la terrà con sé per tre giorni ospitandola nella casa di Santa Gemma. Grande importanza nella festa ha il pane, che secondo il mito Demetra donò agli uomini in segno di pace dopo che le fu restituita la figlia rapita da Ade, ottenendo di tenerla con se per metà dell’anno.
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notte del Pane vicoli del centr o storico di G oriano Sicoli sono immersi nel silenzio. Sono le tr e e l ’alba è ancora molt o lontana. Eppur e in questa notte che precede il primo di maggio non tutti dormono. Qualche voce sussurra piano, parole che si rincorrono nel buio; e nella piazzetta ecco un gruppo di donne, in attesa. Altre sbucano dall’ombra. Ma che sta succedendo? Una donna si a vvia su per le scale di una casa antica, la casa di Santa G emma. È la commar e, quella che guida tutto il lavoro che precede e accompagna la festa dedicata alla santa pastorella, incarcerata a vita dal Conte di Celano come punizione per a ver osat o r esistergli. È lei che accoglierà in questa stessa casa, come una madre, la giovane sconosciuta che arriverà dal paese di San Sebastiano e che resterà con lei per i tre giorni della festa, che si svolge dall’11 al 13 maggio, per poi r ipartire di nascosto al mattino del t erzo giorno, dopo r iti e pr ocessioni. Noi
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che veniamo dalla città siamo qui per osservare da vicino, per capire il senso di questa strana cer imonia ricca di simboli religiosi e pagani, ma anche per la vorare; per ché, questa nott e, qui si farà un grande la voro di mani e di braccia: si impast erà il pane di Santa Gemma, che il giorno della festa verrà distribuito dentro le canestre dalle ragazze nubili del paese . Alla spicciolata, da sole o in piccoli gruppi, arrivano tutte: Antonina e Annetta, Cristina, Pasquina e Giustina, Paoletta, Maria, Carolina, Lucia, e tante Gemma. Alla fine saremo ventisette. Si accende il fuoco nel g rande camino e intant o si preparano le prime caffettiere, e i biscotti. E poi si comincia. Già dal giorno prima è stato preparato il lievito in un grande recipiente, tenuto al caldo sotto panni e coperte per favorirne la ricrescita. La più esperta del gruppo (l’ho soprannominata tra me e me “grandi braccia”), la più vigor osa, immerge le mani fino al gomit o nella massa LA NOTTE DEL PANE
biancastra, e la mescola lentamente, con calma; altre svuotano sacchi di farina dentro una madia enorme e lentamente la massa lievitata viene agg iunta e mescolata, e si comincia a la vorare il pr imo impasto. Intorno ai tavoli in fila, che occupano quasi tutta la stanza, ci allineiamo per dare vita a un specie di catena di montaggio: si rispettano scrupolosamente le regole, ognuna lavora il proprio pezzo di pasta solo per qualche minuto per poi passarlo alla vicina; perché il pane impastat o da molte mani diverse raccoglie tante energie diverse e viene meglio, mi dicono. E come non crederci? La pasta viene lavorata, poi tagliata in pezzi cilindrici e messa ancora a lievitare nella madia e poi sui ta voli; il primo pezzo che viene r iposto ha la forma di un serpente. Un caso? Chissà. Tutta la massa verrà impastata di nuovo per tre volte, e alla fine i filoni di pane allineati sui tavoli saranno 208, il numer o massimo che il f orno del paese è in grado di cuocere. Il tocco finale è dato dalle tre tacche incise sulla superficie che ser viranno per spezzarlo in quattro parti, e dalla decorazione di pasta con le iniziali SG. Il pane di Santa Gemma è pronto per la cottura. Prima di ricominciare, pizzelle fritte per tutte, pizza con il pomodoro appena sfornata e caffè. Poi via di nuo vo a impastare. Domani tutto si ripeterà, e in totale i filoni di pane saranno oltre mille; poi si passerà alle ciambelle dolci, quelle che orneranno le braccia della santa in processione, e infine ai biscotti. La ricetta della ciambella è r igorosamente segreta. I nutile chiedere. M i dicono che al momento di mescolare insieme gli ingredienti solo pochissime hanno il pr ivilegio di assist ere e par tecipare al seg reto. Perché anche di questo si tratta: di riti antichi, di segreti tramandati, di una festa dedicata a una giovane santa che nelle sue fasi più pagane ricorda in modo impr essionante la vicenda nar rata dal mit o di D emetra e Persefone, come ha scr itto nel suo bel libr o Paola Di Giannantonio. Il mito che racconta della figlia rapita e por tata negli inferi, e della madr e che la cer ca ovunque e che alla fine r iuscirà a trovarla e a tenerla con se sulla terra per metà dell’anno: la primavera e l’estate, con i fiori e il raccolto, e il grano regalato agli uomini e il pane sacro. Nell’altra metà dell’anno la terra sarà buia e fredda, ma tornerà a fiorire di nuovo quando Persefone tornerà, quando la fanciulla con il velo rosso arriverà in paese da lontano accolta da un’altra donna che per tutta la vita r esterà la sua madrina, quando i serpenti mutano la pelle, quando la natura si risveglia e gli uomini sanno che ancora una v olta il tempo ha seguito la sua cur va immutabile. È questa forza immutabile dei simboli che celebrano la t erra e la vita che oggi ci affascina e ci ha richiamate in questo piccolo paese della Valle Subequana? È quest o antico r ito che ci racconta di una giovane intrepida che seppe resistere al suo persecut ore? Oppure è il ricordo ancestrale di un tempo ancora più antico regolato dalla sapienza femminile e dalla sua sacralità? O soltant o il desiderio di condividere emozioni con altre donne in una notte di primavera? Forse tutte queste cose insieme . Ma all’alba abbiamo la certezza di aver partecipato a qualcosa di unico e di sig nificativo, che non dimenticheremo. Maristella Lippolis VARIO54
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COSE BUONE
VINI D’ABRUZZO: TUTELA VUOL DIRE QUALITÀ
roteggere le D oc abruzzesi, innalzar ne la visibilità e il posizionamento competitivo in un mer cato globale sempre più agguerrito e minaccioso , questi sono gli imperativi con cui nel dicembre 2002 si è costituit o il Consorzio di Tutela Vini d’Abruzzo, e con cui oggi questo organismo mostra tutta la sua vitalità e intraprendenza. Un obiettiv o, quello di tut elare i vini a denominazione di or igine contr ollata, il M ontepulciano d ’Abruzzo e Trebbiano d’Abruzzo, verso cui si stanno indir izzando le ener gie di tant e aziende e pr oduttori abruzz esi. A tutt ’oggi sono 29 le cantine sociali e 21 le aziende private che partecipano dello spirito del Consorzio, per un totale di 6000 soci viticolt ori iscritti alle Doc, 42 soci vinificatori e 34 soci imbottigliatori, ovvero il 64 % dell’intera produzione a Doc della regione Abruzzo. È la struttura di g ran lunga più impor tante della r ealtà vitivinicola r egionale, un fondamentale strument o di or ganizzazione, coesione e elaboratore di strategie collettive per i soggetti del sist ema vitivinicolo, il cui ruolo è codificat o dalla legge 164 del 1992. Un ruolo in continua evoluzione, oggetto di un dibattito continuo teso ad aggiornarne e valorizzarne l’operatività. A tale scopo il Consorzio ha riunito operatori ed osservatori in una tre giorni di studio e incontri finalizzati verso una pluralità di obiettivi. Innanzitutto adeguare le dinamiche del C onsorzio ai mutamenti del sist ema competitivo, alle nuove priorità e alle nuove sfide che esso pone ad una realtà complessa, con notevoli punti di forza ma anche alcuni elementi di cr iticità, come il sist ema vitivinicolo abruzz ese. Nello scenar io dello Spor ting Hot el Villa M aria di F rancavilla al Mare, e successivament e attraverso visite alle aziende associat e al C onsorzio, si sono dati appuntament o analisti dell ’enologia italiana ed int ernazionale ( Andrea Pastore di A griprojects), rap-
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presentanti di prestigiosi istituti di ricerca, (Eurisko), esponenti di importanti realtà aziendali nel settore enogastronomico (Vittorio Di Carlo, Lega Cooperative) e vitivinicolo, e membri di organismi regionali (Giuseppe Cavaliere, Arssa), con il coin volgimento dell’assessore r egionale all ’agricoltura Verticelli, per discut ere e r iflettere sulla situazione attuale del comparto. Uno scenario in cui compaiono minacce (la crescente concorrenza internazionale da parte delle aree “neo-competitive”, Usa, Sud America, Sud Africa, Australia), ma anche int eressanti oppor tunità (nuo vi seg menti, nuovi paesi che si stanno apr endo sempre più al vino, ecc.), e in cui il Consorzio si fa carico di impostare strategie di sviluppo forti e condivise, consapevole di alcune cr iticità che caratterizzano la situazione locale (squilibr io domanda/offerta, necessità di accelerare i processi di innovazione qualitativa, soprattutto in materia di inno vazione or ganizzativa e manager iale per alcune realtà tradizionali, soprattutto cooperative) ma anche della grande forza produttiva, imprenditoriale e territoriale che la sua base associativa può espr imere. E dunque ha deciso di affr ontare in maniera approfondita e sistematica i problemi del suo sviluppo , sia nel breve che nel più lungo termine, avvalendosi di un Piano Strategico corredato di un progetto di Promozione e Comunicazione, di por tata indicativamente triennale, che possa or ientare le sue scelt e più sig nificative. Da tale la voro discendono quelle che saranno le linee-guida generali che caratterizzeranno la strategia del Consorzio nei prossimi anni, orientate verso le seguenti aree, la base associativa (stimolando le C antine Sociali a intensificare i rapporti con la base sociale orientandola verso politiche di qualità, di innovazione culturale, di crescita delle capacità gestionali), il territorio produttivo (stimolandone maggiormente la conoscenza e valorizzare sempre di più le vocazionalità reali e le potenzialità dei div ersi “terroir”), e il mercato (stimolando politiche e di sempre maggior sicurezza sulla provenienza dei prodotti, di cr escente visibilità dei nostr i “Prodotti-Territorio” come il Montepulciano d’Abruzzo). Ricerca, Piano di marketing, Strategia di comunicazione , questi sono i momenti salienti del pr ogetto avviato dal Consorzio. «È con queste sfide “alte” ma anche con questi or ientamenti e volontà “forti” che si misura il ruolo e la strat egia del Consorzio –è il parere di Alberto Tiberio, presidente del Consorzio– che per far riprendere alla vitivinicoltura abruzzese un ruolo di primo piano nel panorama nazionale, dopo una fase di stasi legata anche a momenti critici attraversati dal mondo del vino, serva lungimiranza strategica e chiarezza operativa nel Consorzio, ma anche una diffusa consape volezza del comune destino con cui si trova confrontata gran parte della vitivinicoltura abruzzese, soprattutto il fondamentale mondo della cooperazione, per raggiungere un più elevato posizionamento competitivo generale».
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CAFFÈ VENEZIA ’atmosfera è moderna e minimalista, ma lo spirito è quello del caffè di una volta: dalla macchina del caffè a leva, alla gelateria classica, alla cucina tipica abruzzese, all’angolo vini, dove, come in enoteca, stuzzichi e assaggi prima di scegliere la bottiglia preferita. Il Caffè Venezia è nato da pochi mesi, ma col piglio di chi sa il fatto suo. E non poteva essere altrimenti, vista la supervisione di Giuseppe Fiorilli, un maestro della gelateria e della pasticceria pescarese. Concepito per i pranzi veloci, (ovvio, se sei nel cuore della city pescarese, in Via Venezia) ma anche per coltivare l’arte del gelato, preparato a vista
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dietro una vetrata trasparente. Un banco dolci animato da tre maestri pasticceri, un torinese, un siciliano e un napoletano, vale a dire, l’aristocrazia dell’arte dolciaria nazionale, dalle praline, alle sfogliatelle, ai cannoli, alle cassate. Anche un semplice caffè diventa novità, il veneziano, nocciola e cacao purissimo, è l’invenzione e l’esclusiva del luogo, da gustare tra pareti di mogano e wengè
CALALENTA, CHE GUSTO profumi e i sapori della cultura marinara abruzzese, le meraviglie di un paesaggio nel quale l'uomo e la natura convivono da secoli in rispettoso e precario equilibrio. Questo è stato Cala Lenta, un evento che si è svolto dal 24 al 26 giugno 2005, in concomitanza con la presenza della luna piena, tra i comuni di Francavilla al Mare, Ortona, San Vito Chietino, Rocca San Giovanni, Fossacesia,Torino di Sangro,Vasto, e San Salvo oltre a Mozzagrogna e Lanciano nell'entroterra. È la splendida Costa dei Trabocchi lo scenario che ha ospitato una sorta di viaggio attraverso le attività marinare della frentania, alla scoperta delle bellezze paesaggistiche ed artistiche del territorio per gustare le tradizioni gastronomiche della provincia di Chieti, guidati da esperti attarverso cene tematiche e laboratori del gusto.Visite ai trabocchi, attività di pescaturismo e di piccola pesca, durante le quali i visitatori sono saliti sui pescherecci per vivere le emozioni di un mestiere antichissimo.Visite in cantina e ai frantoi e tanti eventi musicali, teatrali ed espositivi, tra cui una personale di Vittorio Bruni, esponente qualificato ed apprezzato della Pop Art hanno arricchito una manifestazione unica per ricchezza di ispirazioni e contenuti culturali.
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COSEBUONE
in un gioco cromatico d’arredamento tutto ispirato dai toni caldi. Chi entra vede, prima di mangiare. Sono a vista la cottura dei rustici e dei cornetti, la mantecatura del gelato, i piatti tipici della cucina abruzzese. Aperto sette giorni su sette, al venerdì e al sabato si presta anche per la cena, il dopo-cena, fino e oltre alle tre del mattino, per il popolo della vicina Pescara Vecchia.
IL LOUVRE DELL’OLIO ome ogni elemento di cultura degno di rispetto, anche l'olio meritava un suo museo, e ora ce l’ha, nel cuore di quel triangolo d'oro, culla della tradizione olearia abruzzese,i cui vertici sono Moscufo,Pianella e Loreto Aprutino.A Loreto,nelle stanze fresche di ristrutturazione del Castelletto Amorotti, un sontuoso palazzo nobiliare incastonato nella cornice di un borgo medievale tra i più belli della regione, il 14 maggio scorso è stato inaugurato il Museo dell'olio. Lo ospitano gli stessi ambienti dove un tempo si trovava il pemiato frantoio di Raffaele Baldini Palladini, e si articola in due sezioni. Una in cui sono illustrate le tecniche di lavorazione delle olive secondo le metodiche del frantoio settecentesco, quello a trazione animale. L’altra dove sono esposte le presse idrauliche dei primi del ‘900. A salutare l'evento, nella giornata inaugurale, è accorso anche il bue di San Zopito, a cui, per la prima volta al di fuori dei giorni canonici,ovvero quelli della festa ad esso dedicata, il lunedì di Pentecoste, si è concesso di uscire, praticamente dal 1711.Tra le tradizioni legate all’olio, evocate dal museo, c’è il viaggio dei vetturali, che portavano l'olio da Loreto verso le maggiori città italiane. All'interno del museo trovano posto tutti quegli utensili e macchinari che dal frutto dell'oliva per secoli hanno ricavato l'oro liquido che ha fatto la fortuna e la fama di Loreto nella storia. Un museo di archeologia industriale, dunque, dove gli oggetti della tradizione olearia loretese testimoniano e raffigurano ogni fase delle operazioni di raccolta e spremitura, con un corollario di tutto quanto, attorno agli ulivi, costituiva la vita contadina. Un omaggio non solo all'olio e alla sua storia, ma anche a tutto un mondo che continua ad esistere dentro e fuori la memoria delle genti d'Abruzzo,ora,come in passato, legate ad esso a doppio filo.
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MUSICA
I RISVEGLI DEI CICCON’DELA SULLE NOTE DELLA SOLIDARIETA’
con il nuo vo cd Risvegli (Caligola R ecords di M estre), che tornano i Ciccon'Dela: gruppo abruzz ese, ma non per quest o limitat o entr o confini nazionali, pr estigiose collaborazioni con M arco Mandolini, Emiliano Zapata, Matar M'Baye, gli sono valsi la partecipazione a manif estazioni come il P escara Festival Jazz e il Jazz Wine. L oro, un trio pr onto a trasf ormarsi in base alle necessità in un quartetto/quintetto, sono: Carmine Ranieri, Giacomo Salario, M organ F ascioli, F abrizio M andolini e G abriele P esaresi. Contraddistinti da uno stile insolit o, non chiuso in abituali schemi jazzistici ma aperto a nuo vi, div ersi suoni che nascono dall'uso spr egiudicato di strumenti ibr idi come l' udu. Un sound g raffiante che racchiude all'unisono diverse culture: da quella afr icana a quella spag nola, tanto da mer itarsi la definizione di World Music ed Etno Jazz, ma anche di musica per immagini; per chè quello dei Ciccon'Dela è un percorso visivo che nasce dalla continua interazione, dove nessun elemento è il leader e do ve tutti esprimono di v olta in v olta ciò che poi porta alla creazione spontanea dei loro pezzi.
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Miriam Di Nicola
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Tra i tanti appuntamenti dell ’estate pescarese, ce n ’è uno che più di altr i vale il pr ezzo del bigliett o: il concerto di beneficenza pr evisto per il 21 agost o presso il Teatro D’Annunzio, sul Lungomare Sud, con un ospite d’eccezione, Giorgio Canali, affiancato da tr e belle r ealtà della nostra scena musicale , Santo Niente, Buen Retiro e Effebizeta. Ad organizzare il tutto ci pensa l’associazione culturale “Pierpaolo Felli”, nata nel 2000 su iniziativa di R ossella Clerico, mamma dello scomparso P ierpaolo, che da anni r ealizza iniziative come questa, per raccogliere fondi da destinare a ospedali e istituti di r icerca. Il concerto del 21 agost o vedrà sul palco del “D’Annunzio” Giorgio Canali, storico chitarrista al fianco di Giovanni Lindo Ferretti prima nei Cccp, poi nei Csi, ogg i nei Pgr, già collaboratore dei primi Litfiba, che ultimamente ha anche avviato una carriera solista che lo ha por tato a realizzare alcuni album di r ilievo; l’ultimo suo lavoro, Precipito, è stato registrato con la sua nuova band, i Rossofuoco. Il compito di “aprire” il concer to t occa in vece a tr e band abruzz esi. Si comincia con gli E ffebizeta, g ruppo che mescola abilmente la tradizione salentina e mediterranea con i suoni del rock; a seguire Buen Retiro, uno dei più bei gruppi indie della costa, g ià premiati in var i concorsi e f estival nazionali; e per finir e i Santo Niente, gruppo rinato dalle sue cener i guidato da quell ’Umberto Palazzo, vastese, il cui la voro comincia negli anni ‘80 a Bologna (sue alcune canzoni incluse nella colonna sonora di Jack Frusciante è uscito dal gruppo) e la cui ultima tappa è costituita da Il fiore dell’agave, attualmente nei negozi. P.F.
Udite, udite! L'associazione Baobab, in collaborazione con la Presidenza del Consiglio comunale di Pescara, è fiera di presentare un nuovo progetto firmato Pino Petraccia e Matar M'Baye: la Maison de la Culture. Ma procediamo per ordine. Loro, i protagonisti di questa avventura, sono due vecchie conoscenze
dell’ambiente musicale pescarese, da sempre convinti della funzione sociale della musica. Diversi solo per nazionalità: l'uno italiano, l'altro senegalese. L'incontro di 8 anni fa li ha por tati ad intraprendere la stessa strada e a perseguire gli stessi obiettivi: creare uno spazio dedicato ai giovani artisti come loro, uno spazio accogliente in RIBALTA
E ROSETO SI FA INDIE Stanchi delle solite proposte musicali? Le grandi manifestazioni nazionalpopolari vi annoiano? I Pooh, Ricchi e Poveri, Michele Zarrillo e Gigi D’Alessio vi rendono allergici? La medicina per le vostre orecchie si chiama Soundlabs Festival, si tiene a Roseto degli Abruzzi ( TE) dal 29 luglio al 1 agost o, e costa soltanto 15 Euro. Andando a curiosare nel “foglietto informativo” scopriamo che: 1) si tratta del più bel f estival di musica indipendente che l’Abruzzo possa vantare (e probabilmente anche l’unico), 2) che qualche anno fa si chiamava “Suoni dal sottosuolo” e ha portato in Abruzzo gente come Afterhours, Liars, Wire, Hooverphonic, La Crus, Verdena, Giardini di Mirò, Cristina Donà, Marco Parente, Moltheni, Nada e 3) che è g iunto alla nona edizione ed è organizzato dalla Sound Society, un’associazione per l’aiuto ai giovani musicisti. Non a caso uno dei punti f orti della manifestazione è l’idea di affiancare alle esibizioni dei nomi più prestigiosi quelle dei vincitori dei concorsi “Progetto Demo”, che si tengono parallelamente in vari Paesi europei. Dopo la collaborazione con il Festival Aquarock (Francia), da tre anni il Soundlabs ha avviato una proficua partnership con il Festival Internacional de Benicassim, ospitando sul suo palco , insieme ai vincitori dell’edizione italiana, anche quelli del “Proyecto Demo” spagnolo. E dato l’intensificarsi dei rapporti con Germania, Francia, Inghilterra e Spagna, l’anno prossimo si attende almeno un 10% di pubblico straniero. Quest’anno tocca dunque a Les Fauves, modenesi, e agli Standard, spagnoli, misurarsi con star del calibro di Calexico, Marlene Kuntz, Perturbazione e Yuppi Flu, per non parlare dei Franklin Delano, Offlaga Disco Pax, Jennifer
Gentle e Port-Royale: in parole povere, il meglio dell’attuale produzione indie italiana e internazionale. E se questa è la par te “Sound”, non va dimenticato che esiste anche una parte “Labs”: nelle settimane antecedenti il festival, presso il Soundlabs Recording Studio in località S.Lucia, via Delfico 22, si terranno i laboratori, momenti di studio e di incontr o con professionisti, ideati per avvicinare giovani artisti al mondo della creazione e produzione musicale e visiva. L’edizione 2005 prevede l’attivazione di un Dj Lab (23-24 luglio) e di un D ocuclip Lab (24 luglio – 1 agosto). Il costo di iscrizione ai labs è di 50 eur o e nel caso del Docuclip Lab comprende un backstage pass. I laboratori delle precedenti edizioni hanno avuto come curatori artisti del calibro dei Manetti Bros, Giorgio Canali, e Federico Bertolini. I partecipanti al laboratorio DjLab avranno l’onore di esibirsi durante il Welcome Party del 29 luglio e e il F arewell Party del 1 agosto, presso Barraca, Lungomare Sud, sempre a Roseto. Per le informazioni dettagliate vi rimandiamo al bel sito F.G. del festival, www.soundlabs.it.
UN BAOBAB PER IL SENEGAL cui poter esprimere nuove musicalità e nuove culture. Guidati dai comuni intenti fondano l'Associazione Culturale Baobab di Pescara che si fa da subit o portavoce dei loro progetti, anche grazie alla struttura (i locali dell’ex Ecamlab), che in poco spazio riesce ad offrire un luogo accogliente e d'incontro tra i giovani artisti. Dotata di una sala prove e di un piccolo studio per la produzione musicale, è sede di seminari e corsi di percussioni africane (e non solo) tenute dai più competenti maestri; organizza inoltre concerti e spettacoli come l'ultimissimo Musica & Spiritualità, che ha visto oltre tremila persone assistere ai concerti di Piero Brega e dei Dounia. Ma Pino e Matar non si fermano soltanto all’ambito nazionale. L'intento più ambizioso è quello di costruire uno MUSICA
spazio culturale ed artistico anche in Senegal, e più precisamente ad Ndagane, un piccolo villaggio che per la sua posizione, geograficamente strategica, si presta all'onorevole progetto. Ed è così che si a vvia la costruzione di una vera e propria Casa della Cultura. Con essa, alcuni tra i migliori artisti italiani e del Senegal, sotto l'aurea guida di Bouly Sonko, direttore del Balletto Nazionale, hanno deciso di rispondere all'urgenza/esigenza di realizzare un centro di formazione artistica e artigianale: un luogo di scambio e di la voro per gli artisti locali e stranieri. Una struttura capace di offrire spettacoli a 360°: musica, t eatro, danza, rappresentazioni di cultura e di vita afro. Così come in passato erano i cantastorie, oggi è la Maison de la Culture che
raccoglie da ogni angolo dei villaggi africani un pezzo della loro storia per proseguire la tradizione, per non dimenticare che ciò che si è ogg i lo si deve alle proprie origini. Un progetto afro-italiano di cooperazione internazionale, che trova ben presto consensi non solo in patr ia, ma anche qui a Pescara, dove le istituzioni abruzzesi hanno saputo comprendere l'importanza e l'urgenza di patrocinare un così profondo legame culturale tra l'Europa e il Sud del mondo, sostenendo e promuovendo la costruzione del centro. M.D.N. Nella pagina a fianco, i Santo Niente; in basso, Pino Petraccia e Matar ‘Mbaye. Qui sopra, i Calexico, che chiuderanno il Soundlabs Festival di Roseto degli Abruzzi.
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MOVIEMENTI
Stefano Odoardi
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’è un luogo, al di fuori del tempo e dello spazio, circondato da luci e ombre e popolato da personaggi indefinibili. È il cinema di Stefano Odoardi. Pochi registi, oggi, hanno mantenuto e sviluppato una capacità evocativa simile a quella di questo talentuoso abruzzese, nato a Pescara trentotto anni fa, che vive tra l’Italia e l’Olanda, dove ha trovato un sistema che funziona e un produttore illuminato, Renè Goossens, che lo ha aiutato a muovere i primi passi nel mondo del cinema. Chi non conosce i suoi lavori potrebbe storcere il naso di fronte ad un elogio tanto sperticato, ma basta vedere il suo secondo cortometraggio (Ad occhi chiusi, 1998) per rendersi conto di quanto il suo sia Cinema con tanto di maiuscola, parente stretto di quello degli Antonioni Leone Bertolucci Bellocchio che spesso rimpiangiamo (“eh, erano altri tempi… quello sì che era cinema”, quante volte l’abbiamo detto/sentito?), intriso di poesia come i film di Pasolini e Olmi e che nell’epoca di Mtv è così difficile ritrovare (dobbiamo lasciare che l’Est, Sokurov, Kim Ki-Duk e Wong-Kar Wai in testa, ci sollazzi il senso che più ci rappresenta in quanto occidentali: la vista). Odoardi, tanto a suo agio con il Super 8 quanto col 16mm, il 35mm o il dig itale, ha già realizzato molti cortometraggi che sono stati selezionati e premiati in diversi festival internazionali: Nel nostro primo mondo (1998), La terra che non è (2000), L’ultima bobina (1999), F***ing in the $tars (2001), Storia di B. (2002), La terra nel cielo (2003). Nel suo curriculum però figurano anche lavori di-
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versi dal cinema tout court, come Storie dal Mondo,una collezione di voci per immagini andate perdute (una film installazione non-lineare, 2002), o Esilio della Bellezza, che oltre ad essere l’ultimo cortometraggio girato da Odoardi è anche il titolo dell’installazione, presentata al festival Cement di Maastricht, composta da ventotto massi di pietra bianca della M aiella protagonisti di un set speciale, allestito presso uno spazio scelto dal regista, e in esposizione permanente dal mese di agosto presso la locale Fondazione C105. La sua ultima fatica è stata, nel mese di apr ile, girare a Bolognano un film ispirato a Joseph Beuys dal titolo: Il Luogo della Natura, Utopia Concreta della Terra. È stato invitato al Maggio Fest di Teramo 2005 e ha partecipato col corto Esilio della bellezza al festival Arcipelago di Roma, a giugno. Ma sentiremo presto parlare di Stefano Odoardi anche per i suoi lungometraggi: come per esempio Una ballata bianca che sarà girato in 35mm, scritto in collaborazione con Kees Roorda, le cui riprese sono iniziate a giugno in una casa di Lanciano con due att ori non professionisti, Nicola e Carmela Lanci (già protagonisti di La terra nel cielo) e i piccoli Andrea e Cristina, e a Gessopalena con l’attrice Simona Senzacqua, per terminare a settembre durante un viaggio che gli farà attraversare tutto il sud dell’Italia (si tratta, per sua stessa ammissione, di “un film sulla flessibilità della tristezza”, molto impegnativo per lo spettatore, e di difficile distribuzione). Seguirà Novembre, che si preannuncia come un prodotto di più larga fruizione: la storia, favolistica e venata di pessimismo, è quella di un RIBALTA
Nelle foto di queste pagine, alcune immagini tratte dai film di Stefano Odoardi (nella foto, in un ritratto di Dino Viani). In apertura, l’installazione Esilio della bellezza. Nei fotogrammi, dall’alto: La terra nel cielo (2003); Storia di B (2002); il regista Stefano Odoardi; in basso, due scene di Ad occhi chiusi (1998) e una foto da La terra che non è (2000).
LA VISIONE DELL’ANIMA
bimbo che insegue la sua visione (nella figura di un uccello in visibile), incontrando sulla sua strada personaggi diversi. Abbiamo incontrato Stefano sul suo set naturale preferito, un tratto di costa vicino Fossacesia, di fronte ad un bellissimo trabocco sul quale sta g irando un documentario, e gli abbiamo posto poche domande per illustrarci il suo lavoro. Come definiresti il tuo cinema? «Non è definibile. Il mio approccio al lavoro è spesso intuitivo, legato a quel che chiamo “visione”, un elemento onirico. Io scrivo immagini, non racconto storie. I miei film sono spesso frutt o di coincidenze, di casualità, il montaggio non è mai consequenziale, anche se esiste sempre una sceneggiatura, e tutto è esattamente come volevo che fosse. Il mio cinema pone solo interrogativi, non pretende di dare alcuna risposta; risponde, semmai, ad un’urgenza mia, interiore, e non ha come riferimento il pubblico. Ecco anche perché cerco di avere sempre gli stessi collaboratori: Tarek (il direttore della fotografia/operatore e montatore), Kees Roorda (scrittore , sceneggiatore), persone con le quali basta un cenno per intendersi e che non interrompono il processo creativo con domande del tipo “perché facciamo questo?”, alle quali sinceramente non saprei rispondere». Sei abruzzese. Come mai la scelta di lavorare in Olanda? «Perché in Italia non si può lavorare. È palesemente in atto una censura contro le arti. Una classe politica più responsabile potrebbe comportarsi STEFANO ODOARDI- LAVISIONE DELL’ANIMA
meglio verso gli artisti, e non lo fa. Questa politica è un cancr o, perché sempre più scollata dal tessuto sociale, mentre l’arte ha un’urgenza sociale. In Olanda per esempio i fondi per la cultura sono trasferiti a Fondazioni private, eliminando così la figura del “politico”e se hai talento e buone idee, c’è tutta una macchina che si mett e in moto per sostenerti. Qui le difficoltà sono enormi. Per non parlare poi della Francia dove c’è una sensibilità maggiore e significativa verso il cinema e l’arte più in generale». Quanto Abruzzo c’è nei tuoi film? «Io sono nato a Pescara, ho vissuto a Lanciano e quando torno qui abito tra Fossacesia e Torino di Sangro: mi sento molto “abruzzese” e allo stesso tempo molto europeo, spesso mi chiedo che cosa siano le radici per me e non ancora ho trovato delle risposte. Soprattutto i miei film hanno un aspetto umano che ritrovo sempre quando sono qui. Sono legato al mare, a certe ritualità, alla cultura di questi luoghi. E viv ono tanto dei miei ricordi inconsci nelle atmosfere». Cosa ti aspetti dai tuoi prossimi lavori? «Spero di mantenere integra la mia visione».
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MOVIEMENTI
CINQUE REGISTI, UNA CITTA’ Cinque registi, cinque cortometraggi, cinque giorni. Una sfida, quasi, quella che hanno affrontato i cinque giovani registi che a Teramo dal 20 al 25 giugno sono stati chiamati a girare dei cortometraggi, utilizzando come attori abitanti del luogo, selezionati in precedenza durante una fase di casting. Meno di una settimana di fuoco, con le mini troupe (regista, fonico, montatore e aiuto) che hanno avuto a disposizione tre giorni per girare e due per montare, prima della sera del 25 quando i la vori sono stati proiettati in Piazza Martiri, davanti a una giuria popolare e una tecnica. Ad organizzare il tutto ci ha pensato il Cineforum Teramo Lumiére-Gianni Di Venanzo, associazione nata nel 1995 e intitolata allo storico direttore della fotografia teramano scomparso nel 1966. In quella settimana di giugno ci saranno tante altre iniziative che faranno da contorno a questo concorso. Proiezioni all’aperto di classici italiani, registi e attori di fama che verranno a parlare della propria attività, rumoristi, direttori della fotografia, doppiatori e altre figure di rilievo che racconteranno al pubblico il loro lavoro; in aggiunta, una mostra fotografica sui tanti volti che hanno preso parte ai provini per Cineramnia lo scorso 20 e 21 maggio: in poche ore più di 200 persone hanno dedicat o 10 minuti della loro vita ad un piccolo sogno, con sincera e originale compartecipazione ad un evento realizzato nella e per la città.
SCOPPIA LA MULTISALA Quattro sale da 232 posti, due da 180 per un totale di 1300 comode poltroncine nelle quali sprofondare per godersi un bel film d’avventura, o l’ultima fatica di Marco Tullio Giordana in contemporanea al Festival di Cannes, oppure un classico thriller o ancora il colossal amer icano Le crociate… tutto questo è Movieplex, la nuova multisala aperta a L’Aquila di fronte al palazzo che ospita gli uffici della Regione in Via L.da Vinci. La struttura sorge nel quartiere di Pettino, in forte espansione demografica, abitativa e commerciale, è facilmente raggiungibile da ogni punto della città e presto sarà servita dalla tanto sospirata metropolitana di superficie che collegherà il centro cittadino all’ospedale di Coppito. Ma si sentiva la necessità di altre sale cinematografiche a L’Aquila? Tra l’altro in un periodo in cui il cinema non gode proprio di molta salute?«Indubbiamente –risponde Massimo Turco, il cortesissimo direttore della multisala– si tratta di una scommessa che però la proprietà, con il presidente Carlo Bernaschi e l’a. d. Roberto Longhi, intende vincere offrendo al pubblico una varietà di proposte e di occasioni per uscire di casa e passare due ore al cinema». Però, obiettiamo, esiste un’altra multisala alla periferia est, e il
cinema Massimo proprio al centro, dove tra l’altro si svolge il cinefestival… Il direttore sorride: «Lo so bene, sono anche il direttore del Massimo, ma l’offerta è differenziata. Qui puntiamo sui giovani, e ne vedo tanti ogni sera, mentre là il pubblico è più selezionato, forse anche più esigente. Poi abbiamo preso accordi in modo che le programmazioni anziché sovrapporsi o farsi concorrenza creino una gamma completa di proposte sia per i cinefili che per gli spettatori occasionali. Per quanto riguarda l’esistenza di più sale non mi sembra un problema, le zone di influenza sono così distanti che possono tranquillamente coesistere e forse, anzi senz’altro, è stato colmato un vuoto che in questa città era particolarmente avvertito. Nella prossima stagione abbiamo intenzione di organizzare rassegne tematiche e matinée per invogliare il pubblico a preferire il grande schermo». Il Movieplex è ubicato in una palazzina che ospita per il momento anche una filiale della Carispaq, uno sportello delle Poste, un caffè e si avvale di ampi spazi di parcheggio. Sembra, dall’affluenza dei primi giorni, che la scommessa sia vincente e che il cinemaalmeno nella zona- stia riappropriandosi del ruolo che gli compete nel campo dello svago e del divertimento intelligente.
GRAN SET D’ITALIA È passato qualche anno dall’ultimo film italiano girato sulle nostre montagne (Il viaggio della sposa, Sergio Rubini, 1997), ma il Gran Sasso sembra esercitare un fascino irresistibile per i “cinematografari” che da Germi a Tornatore, dalla Cavani ai fratelli Taviani (senza dimenticare Richard Donner e la sua Ladyhawke) scelgono la selvaggia bellezza della cima più alta d’Abruzzo come set naturale. Ultimo a soccombere alla seduzione della montagna è stato il regista Daniele Vicari (Velocità massima, 2002) che ha girato tra l’Aquila, il Gran Sasso e il Laboratorio di Fisica Nucleare il film L’orizzonte degli eventi, produzione Fandango e protagonista Valerio Mastandrea. L’attore romano interpreta un fisico, appunto, che vive un’avventura capace di cambiarlo profondamente. L’orizzonte degli eventi è, nel gergo scientifico,“quel confine invalicabile sull'orlo dei buchi neri, oltrepassato il quale nessuno e niente può tornare indietro, neppure le onde elettromagnetiche”. Dice il regista: «La vita degli scienziati sotto il Gran Sasso e quella dei pastori stranieri che vivono in superficie sotto il sole sono due dimensioni spazio temporali parallele ma tra loro stridenti e all'apparenza insanabilmente distanti che però, insieme, costituiscono una straordinaria opportunità per riflettere sul rapporto tra uomo/natura/cultura nel momento storico che chiamiamo ormai universalmente globalizzazione». Il film, passato il 13 maggio a Cannes nella Semain de la critique ha suscitato il plauso della critica che lo ha definito “complesso e affascinante” ed è stato presentato a L’Aquila in anteprima nazionale il 20 maggio. C’è anche un altro Abruzzo nel film di Vicari, quello musicale: la colonna sonora de L’orizzonte degli eventi include infatti la canzone Il tuo nemico dei Vega’s, gruppo aquilano di cui è uscito, l’anno scorso, il primo cd, Popshock, per la One Eyed Fish.
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SILVIO, TI UCCIDERÒ Originale, sicuramente, lo è: scrivere una sceneggiatura (in cui un ragazzo, orfano e benestante, uccide Berlusconi per essere qualcuno) e metterla in rete. Originale è anche il modo in cui Berardo Carboni, trentenne laureato in Giurisprudenza e dottorando in Diritto civile, sta rimediando i fondi per fare il suo film: feste, organizzate in giro per l’Italia, partecipando alle quali si può contribuire con una donazione o comprando alcuni dei gadget ispirati al film. M a Shooting Silvio, il cui titolo gioca sull’ambiguità del termine inglese che vuol dire sia “sparare” che “filmare”, storia di Kurtz, ragazzo killer del premier, non è, secondo Carboni, un’istigazione alla violenza: «Il cuore del film è altrove, nella necessità di avere dei sogni. Nel rischio di
Regia di DANIELE VICARI Con VALERIO MASTANDREA, GWENAELLE SIMON, LULZIM ZEQJA, GIORGIO COLANGELI e FRANCESCA INAUDI una produzione FANDANGO
Alla veneranda età di 78 anni (splendidamente portati) e molto tempo dopo il suo ultimo film (La neve nel bicchiere, 1984) Florestano Vancini torna a parlare della sua Ferrara. Lo fa con un film in costume, E ridendo l’uccise, storia di amori, potere e gelosie alla cor te degli Estensi, che annovera nel cast e nella troupe due nomi piuttosto noti della nostra regione. Il primo è quello di Sabrina Colle, avezzanese, fidanzata ormai storica di Vittorio Sgarbi, scelta dal regista per interpretare il ruolo di Martina. L’altro nome è quello di Videa, la nota casa di produzione video digitale che ha curato molti degli effetti visivi del film. Interpretato anche da Manlio Dovì, Ruben Rigillo, Marianna De Micheli, Giorgio Lupano, Carlo Caprioli, Vincenzo Bocciarelli, Victoria Larchenko, il film prodotto dalla Italgest Video e distribuito dall'Istituto Luce, è uscito nelle sale Venerdì 15 aprile. L’editore e regista Gianni Di Claudio ha terminato il montaggio del suo primo lungometraggio, un thriller/horror con tanto di zombies dalla singolare ambientazione: i trulli di
perdersi in un mondo senza valor i e senza linee guida da seguire. Shooting racconta la ricerca affannosa di un identità, di un pr ogetto, di un percorso che dia senso al viv ere ma è anche la denuncia disperata di un sistema in cui comunicare è solo apparentemente più semplice e ogni idea può essere manipolata e distorta. Infine e soprattutto Shooting è un film sulla vita. Tutto quello che nel film accade e che porta alla morte in realtà è contro la morte, è un invito a vivere, a considerare l’importanza di essere vivi». Il denaro raccolto finora raggiunge i 7000 euro, a fronte di una spesa che si agg ira intorno a 60-70 mila euro. In estate una delle feste si svolgerà in Abruzzo, sul litorale pescarese. I finanziatori sono avvisati…
Alberobello. Per l’occasione, qualcuno ha pensato bene di coniare il termine “Truller”. Staremo a vedere. Giovanna Di Lello, reduce dai successi mietuti dal suo documentario su John Fante, ha completato una video intervista di circa 45’ a Noam Chomsky, il noto linguista, professore al Mit di Boston, in prima fila nelle lotte della sinistra radicale americana, da sempre impegnato nell'analisi e nella contestazione del colonialismo americano (culturale e non solo) e nella critica del sistema mediatico e del suo impatto sulla società. La nostra redazione ha ospitato fra aprile e maggio due workshop teorico-pratici aventi per oggetto il cinema digitale, tenuti da Maurizio Fiume, il regista televisivo che ha raggiunto il grande pubblico col film E io ti seguo sulla vicenda di Giancarlo Siani, giornalista del “Mattino” di Napoli ucciso nel 1985 dalla camorra. Il workshop, organizzato dalla Icarowebfilm e dalla cooperativa Rosabella, ha visto la partecipazione di circa quindici giovani aspiranti cineasti che da poco hanno cominciato a lavorare con
Fiume alla realizzazione del suo nuovo film dal titolo Cantieri, protagonisti alcuni detenuti della Casa Circondariale di Pescara. Gianni Volpe e Jacqueline Capuzzi, la coppia di L’ultima Venere, sono di nuovo insieme sul set, stavolta in quel di Pacentro, per girare una docufiction sulla più famosa delle cittadine del borgo abruzzese: Madonna. O meglio, sulla cugina della rockstar, Esmeralda, che nel film desidera seguire le orme della consanguinea: si imbarcherà per New York e cercherà di realizzare il suo Sogno americano insieme al coprotagonista Barbato De Stefano (attore napoletano, ex sosia di un altro vip dal cognome italiano: Leonardo Di Caprio). La notizia ha creato un certo clamore sui siti web dedicati alla signora Ciccone (quella vera), e si attendono fans in arrivo da tutto il mondo. Per Volpe il cortometraggio Un sogno americano costituisce il terzo capitolo di una trilogia, iniziata con L’Ultima Venere e proseguita con Tracce di Cristo, documentario sulla Sindone.
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TEATRO
Edoardo Oliva
GLENGARRY GLEN ROSS Un ex mercato coperto diventa teatro e ospita la famosa piéce di David Mamet. In scena, sei attori affiatati e la crudeltà dell’american way of life
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n una città che non ha un teatro, come si fa a fare teatro? Semplice: si inventa. Quella di Glengarry Glen R oss non è cer to la pr ima esperienza di spettacolo allestit o in un luogo “altro”, non canonico , ma f orse in questa più che in altre occasioni la scelta dell’improvvisato palcoscenico è stata vincent e. Sette repliche, l ’ex M ercato C operto di via M aestri del Lavoro, a Pescara, gremito di spettatori, recensioni sulle più impor tanti testate r egionali e nazionali. Un successo indiscutibile , messo in scena con grande professionalità e interpretato da un quintetto di attori al top della forma (Enzo Spirito, Milo Vallone, Ennio Tozzi, Vincenzo Mambella e Ezio Budini), dir etto dal sest o personaggio in scena, E doardo Oliva. P rofessore di Diritto presso l’Ipssar di Pescara e attore consumato, Oliva è qui alla sua seconda prova registica dopo un adattamento di alcuni frammenti di Beckett: «La figura del r egista è sopra vvalutata nel t eatro odier no, specialmente in certo teatro. Per usare una metafora calcistica, non è l ’allenatore che g ioca, ma i calciatori. E uno spettacolo come quest o si regge sugli attori. Io mi sono scelto una parte che mi consentiva di occuparmi anche dell’allestimento». Come sei giunto a scegliere questo copione? «La cur iosità int orno a Glengar ry è nata nel ‘93, quando vidi il film. Trovavo che il t esto avesse un forte elemento di fascino: mostrava il Willy Loman di Morte di un c ommesso viaggiatore al lavoro, nella sua mediocr ità nuda e
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cruda, t otalmente spogliata degli elementi psicologici e sentimentali che caratt erizzano Tennessee Williams». La storia che si dipana in poco più di un’ora di rappresentazione è infatti quella di un g ruppo di agenti di v endita di lotti di t erreno, in competizione tra lor o per entrare in una classifica int erna che offr e come primo premio una Cadillac, come secondo un set di coltelli, e come terzo premio il licenziamento. «Non mi interessava il lato politico-ideologico, benché sia lecito, per chi assiste, trar re le pr oprie personali conclusioni. Quel che v olevo approfondire è il t ema portante: l’inaffidabilità delle relazioni umane». Sono stati apportati cambiamenti al testo originale? «Mi sono pr eso, da r egista, poche liber tà, rimaneggiando il copione quel tant o che bastava a renderlo un po’più leggero nella struttura. Ho eliminat o la separazione tra i due tempi con una soluzione di cambio scena molto simbolica, figlia diretta delle mie precedenti esper ienze nel t eatro di r icerca, e ho ambientato la prima parte dello spettacolo in una palestra anziché nei bar e r istoranti che appaiono nel testo di Mamet. La palestra è un luogo tra i più orribili della nostra società, dove le persone fanno mo vimento r estando nello stesso luogo, come cr iceti in una gabbia; non a caso, nella palestra messa in scena in Glengarry non ci sono pesi, ma solo macchine. E simboleggia bene l’ambiente lavorativo in cui i personagg i si muo vono: un ambiente squallido, do ve vige la legge del più
forte, dove chi non sta al gioco è fuori dal gioco, dove non c’è pietà, comprensione, solidarietà». Glengarry Glen Ross è anche la prima uscita ufficiale della nuova compagnia Teatro Immediato… «Io e Vincenzo, che abbiamo condivis o i palcoscenici e anche alcune esper ienze cinematografiche con aut ori locali, v olevamo cimentarci in qualcosa do ve la nar razione, la st oria, i dialoghi, i personagg i avessero un peso , e so prattutto f ormare una squadra, un g ruppo compatto di attori. Questo testo che avevamo per le mani ci è sembrat o un ottimo banco di prova. È stat o un la voro durat o mesi, ma la squadra è nata e l’affiatamento c’è stato fin dall’inizio». Dal risultato sembra che si possa fare teatro di qualità anche con pochi mezzi… «Tutt’altro che pochi: il t eatro l’abbiamo davvero costruito, nell’ex mercato, e ci è costat o molto. I l teatro ha bisog no di r isorse. Mente chi dice di far e spettacoli a basso cost o. Vuol dire che elimina dalla spesa la voce “compensi per gli attori”. Noi abbiamo avuto il sostegno del Comune e della Provincia, ma anche di alcuni sponsor che hanno contribuito per circa il 50% del t otale. E ci siamo a vvalsi di pr ofessionisti anche per la par te tecnica: Francesco Vitelli ha disegnato le scene e Fabrizio Paluzzi le ha costruite, oltre ad essersi occupato delle luci. E i professionisti si pagano». F. G. RIBALTA
Nella pagina a fianco, Edoardo Oliva in un momento di Glengarry Glen Ross.In questa pagina, nella foto di gruppo, da sinistra: Ennio Tozzi, Edoardo Oliva, Ezio Budini, Enzo Spirito, Milo Vallone e Vincenzo Mambella. Nelle foto piccole, alcuni momenti dello spettacolo. Qui sotto, Luciano Paesani.
400 candeline per il don L’anno 2005 segna la ricorrenza del quattrocentesimo anniversario della pubblicazione del Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes, ricorrenza che verrà celebrata con un gran proliferare di iniziative, in Spagna e in Italia in particolare, tra cui il ciclo di trasmissioni già in onda su R adio Tre RAI, dedicato al Cavaliere dalla Triste Figura. Anche il Centro Universitario di Ricerca sul Teatro intende onorarne la lunga vita con l ’allestimento di uno spettacolo teatrale dal titolo (provvisorio): Gli occhi tristi del Chisciotte. Tempi previsti per l’allestimento dello spettacolo: da settembre a novembre 2005. L’elaborazione drammaturgica, dalla quale scaturirà il testo originale, che verrà messo in scena, prende vita dal classico del Cervantes, dalla riduzione teatrale fattane da Bulgakov (1938) e si nutre delle suggestioni letterarie di Borges, Kafka, Mann, Turgenev «e degli scritti critici che vanno da Unamuno a Nabokov, non tralasciando Ungaretti, Foucault, TEATRO
Bodini, Segre ed altri eminenti studiosi», afferma il professor Luciano Paesani, regista dello spettacolo e direttore del Curt. «Non si tratta di una semplice riduzione, quindi, né di una ser ie di quadri, ma di una complessa, inevitabilmente, ricerca attorno all’archetipo del Chisciotte, di quei valori e dei concetti che animano l’opera di Cervantes, innovativa e di perenne attualità, ben lontana dalla parodia dei romanzi cavallereschi come fu a volte liquidata, specchio della vita reale e del suo complesso e intimo mistero. Si parla della realtà (sociale) tra mistificazione e ribellione, dell’importanza della cultura, della censura dei libri e la censura delle idee; e ancora del g ioco, come stratagemma per rifugiarsi nel sogno. Né può ignorarsi il rapporto fra libertà individuale e libertà collettiva, che si traduce nel rappor to fra l’individuo e le masse, fra l’Artista (l’uomo creatore) e il Potere; per concludersi nel Teatro come metafora del mondo». VARIO54
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LETTERATURA
La storia scritta dagli abruzzesi
Marco Patricelli I banditi della libertà. La straordinaria storia della Brigata Maiella, partigiani senza partito e soldati senza stellette. UTET, 2005, pagg. 322, Euro 19,90
I banditi della libertà, l’ultimo saggio del giornalista scrittore, racconta la Brigata Maiella e i par tigiani che ne fecero parte, uomini duri come le pietre della loro terra. di Francesco Di Vincenzo
a guerra è un’esperienza che non merita di essere vissuta”. Raramente la sacrosanta condanna della guerra ha assunto il tono sommesso e antieroico, eppure così eticamente alto e finanche stilisticamente persuasivo, usati da Domenico Troilo il 24 aprile scorso a Taranta Peligna, in un discorso pronunciato in occasione del 60° della Liberazione davanti al Sacrario che custodisce i resti dei 55 caduti della Brigata Maiella. Non stupisce che queste bellissime parole di Troilo, vice comandante e responsabile militare della formazione partigiana abruzzese, aprano il resoconto della cerimonia di Taranta che Marco Patricelli, autore de I banditi della libertà, ha scritto per Il Tempo. Sono, quelle di Troilo, parole che potrebbero costituire, per il loro messaggio di antieroica normalità, un’ideale, perfetta epigrafe al libro che Patricelli ha dedicato alla “straordinaria storia della Brigata Maiella, partigiani senza partito e soldati senza stellette”, come recita il sottotitolo. Del resto, e non a caso, il lavoro di Patricelli, giornalista e storico pescarese,
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esponente ormai di spicco della storiografia italiana non accademica (ma lui, a dire il vero, opera anche dentro l’Università), si apre con un’altra affermazione di Domenico Troilo del medesimo tono:“Io non volevo cambiare il mondo: volevo solo vivere in pace”. Ancora un’affermazione di tono basso ma di alto significato, che esprime con grande efficacia ed esemplare chiarezza lo spirito e le motivazioni di coloro che diedero vita alla Brigata Maiella: non motivazioni politico-ideologiche (“cambiare il mondo”) bensì ripristinare, in un certo senso “sanare”, la pace, condizione primaria di vita di ogni comunità, di ogni patria; quel “vivere in pace”, lacerata dal vulnus della guerra e della violenza sopraffattoria degli occupanti nazisti e dei loro collaboratori fascisti. Una motivazione tutta umanitaria e patriottica, dunque, che coincide perfettamente con l’interpretazione della Resistenza instancabilmente divulgata dal Presidente della Repubblica Ciampi con l’obiettivo di fare di quella lotta di popolo un valore condiviso da tutti gli Italiani. Un obiettivo nobile e civilissimo che sconta,
però, la necessità di “spurgare”la Resistenza da ogni connotazione politica e ideologica, quasi che motivazioni e obiettivi ulteriori alla liberazione dal nazifascismo (che c’erano eccome) non avessero diritto di cittadinanza nel “racconto”della Resistenza. Una sorta di revisionismo “soft”a fin di bene, insomma. La storia della Brigata Maiella, mirabilmente raccontata da Marco Patricelli, coincide in modo così esemplare con questa interpretazione della Resistenza, da costituirne uno dei più persuasivi atti fondativi. Carlo Azeglio Ciampi, nel suo discorso pronunciato a Sulmona il 17 maggio 2001 (ampiamente citato da Patricelli) in occasione della cerimonia celebrativa del “sentiero della libertà”(la lunga, drammatica marcia sulle montagne abruzzesi, dopo l’8 settembre, di soldati italiani sbandati e di ex prigionieri di guerra) affermava:“Vi è una continuità spirituale e materiale fra l’assistenza data da gente di ogni classe sociale a coloro che cercavano rifugio in queste città, in questi paesi, in queste montagne, e la costituzione della gloriosa Brigata Maiella, che percorse, RIBALTA
Marco Patricelli
SOSTITUIRE ALTA combattendo, da Sud a Nord, il suo sentiero di gloria (…) fino ai confini della Patria, segno spontaneo vissuto di quella che è la nostra grande forza: l’unità d’Italia”. Poco prima Ciampi aveva detto:“Fu questo il terreno su cui nacque spontaneamente, come scelta di popolo, la Resistenza: scelta istintiva, che divenne consapevolezza, che si organizzò fino ad assumere struttura militare”. Insomma: spontaneità di popolo, solidarietà umana e patriottismo quali fondamenti della Resistenza. Discorso esemplare nella sua chiarezza e nella nobiltà “civile”dei suoi fini. Il libro di Marco Patricelli declina la “versione Ciampi”con la forza inoppugnabile dei fatti e dei documenti, ma non si pensi a una noiosa e pedante ricostruzione.Tutt’altro: I banditi della libertà ha la fluidità narrativa e il respiro corale d’un romanzo storico, dove, in un sapiente ed efficace montaggio di taglio cinematografico, si alternano in primo piano personaggi storici o comunque di gran nome (Mussolini, Badoglio, Eisenhower,Togliatti, Umberto II, Ciampi, Calogero, etc.) e una gran folla di uomini LETTERATURA
“qualunque”che non appariranno mai nei manuali di storia ma che la storia la fecero rischiando e pagando in prima persona: Domenico Troilo, innanzitutto, il combattivo, coraggioso e determinato vice comandante della Brigata Maiella, il suo omonimo ma non parente Ettore Troilo, l’avvocato socialista che fondò e comandò la brigata con lucidità e saggezza, il maggiore inglese Lionel Wigram morto combattendo a fianco dei partigiani della Maiella con i quali aveva saputo instaurare un fraterno rapporto di fiducia e di stima, i tanti eroici partigiani caduti con le armi in pugno, le vittime e i testimoni delle stragi nazifasciste in Abruzzo (che Patricelli onora ricordando il nome di ognuno di loro), personaggi come quel Donato Ricchiuti di Lama dei Peligni, studente universitario morto combattendo, che ha lasciato un diario di quei giorni non solo di eccezionale valore documentario ma anche letterariamente sorprendente per la sua scrittura secca, paratattica, quasi già conoscesse la lezione stilistica di un Hemingway. Sullo sfondo, i grandi eventi del drammatico biennio 1943-1945: il 25
Luglio, l’8 settembre, la fuga di Mussolini dalla “prigione”di Campo Imperatore, i governi di Badoglio, la “svolta”di Salerno di Togliatti, le Fosse Ardeatine, le cruentissime battaglie combattute fra tedeschi e Alleati in terra d’Abruzzo (con una dettagliata descrizione dello scontro feroce fra canadesi e tedeschi che costò la distruzione di Ortona, la “Stalingrado d’Italia”, cui Patricelli ha dedicato un altro bellissimo libro). Senza mai smarrire, naturalmente, il filo del racconto delle gesta della Brigata Maiella, dalla sua costituzione al suo arrivo ad Asiago (dove i partigiani locali accolsero gli abruzzesi esclamando ammirati:“Siete duri come la pietra della vostra montagna”), dopo essere stata la prima formazione militare ad entrare nella Bologna liberata. E racconta, Patricelli, anche di quel Primo Maggio del ‘44 che Ettore Troilo (“fedele al suo credo socialista”sottolinea l’autore) volle celebrare a Casoli con un solenne manifesto. Forse non era stato informato, il comandante Troilo, che la sua iniziativa mal s’accordava con la storia tutta patria e umanità della sua Brigata Maiella. VARIO54
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R ibalta UN IMPEGNO CONCRETO: LA POESIA
Giuseppe Rosato, Di questa storia che declina. Ed. Manni, 2005, pp. 40, Euro 8,00 Per usare uno slogan, si potrebbe dire che il nome di Giuseppe R osato è garanzia di qualità: sempre puntuale nell’osservazione della società e dei suoi mali, con uno sguardo stupito, ironico e partecipato. Lasciamo ai suoi versi il compito di illustrare quest’ultima raccolta di poesie.
Ma c’è chi ride. Mentre tutto va allo sfacelo e se ne scende agli inferi fin l’ultima speranza, lui di consesso in consesso, da un tele schermo a un altro e a un altro inarca il sopracciglio e ride. Non avverte Il naufragio che incombe? Non si sente scivolare la nave sotto i piedi incalzarlo i marosi? Ma non può esserci rischio per chi ha il suo gonfleur incorporato, un altro colpo alla pompa e si enfierà l’autosalvagente, sfiderà il fortunale e via sulla cresta dell’onda, ancora, ancora, fino a che un pesce spada, o sega, o l’erto aculeo di un diodon hystrix…
LIBRI
LAMPI GIALLI SU PESCARA Luciano De Angelis, Lampi di luce nel buio. Ed. Tracce/Fondazione Pescarabruzzo, 2005, pp. 160, Euro 10,00
Una Pescara ferita a morte e deserta di pietas (simile a quella di Giuseppe F errandino in Pericle il nero) è il teatro delle imprese poliziesche del commissario Umberto Toscano, detto Mezzotoscano, esperto d’arte e del jazz di M ulligan e Chet Baker, con la gastrite che scandisce i suoi pasti da tra vet al Circolo del Tennis, assediato dai ricordi degli scontri con la ‘ndrangheta, che s’indigna ancora per l’intreccio inestricabile tra politica e corruzione dominante la città. Con echi del Duca Lamber ti di Scerbanenco e del Pedro Carvalho di Manuel Vàsquez Montalbàn, questo detective decifra il caos delle st orie arruffate che Luciano De Angelis, scrittore di antica vocazione, srotola nei due libri pubblicati da Tracce editrice: Nebbia fitta e il recente Lampi di luce nel buio. Se il primo era un noir con regole meccanismi e stilemi propri del genere, in cui la figura e gli astratti fur ori del commissario erano centrali, l’altro squarcia le regole del «giallo», per seguire liberamente le due inclinazioni sorgive dell’autore: lirica e narrativa. In Lampi di luce del buio è l’esercizio della memoria che lega fatti, emozioni, climi, immagini, rievocazioni, registrati in due diari, privato e pubblico, dove si mescolano lacerti autobiografici, dissolvenze della storia cittadina di Porto Castello (così è ribattezzata Pescara), di quella nazionale e oltre. Si alternano duttilmente strutture narrative tradizionali, frammenti lampeggianti da Notturno dannunziano (se non lo spirito è la movenza lirica a ricordare il Vate), citazionismi di escursioni in var i terreni: arti, musica (il sassofono di Charlie Parker e l’oboe di Albinoni), cucina, mistica con suggestioni orientali, pesci, idiosincrasie linguistiche alla Nanni M oretti. Di fascino catturante è il pellegrinaggio sentimentale della mitologia personale dell’autore, rivissuto minuziosamente come nei passages di Walter Benjamin o nel catasto magico degli «oggetti desueti» di Federico Orlando, che si anima di luoghi e di personaggi, dal Cicognini di Prato (quello di d’Annunzio, Malaparte e Landolfi) al Convitto Pontano Conocchia di Napoli, dalle topiche raccapriccianti di primari misogini alle pratiche cèliniane del Dispensario Dermoceltico. Nella perdita di memoria di un individuo dopo un incident e è il plot della vicenda, che man mano all’orizzonte individuale ne sovrappone uno collettivo, svelando di quanta violenza (genocidi, pulizie etniche, torture di massa, delitti contro l’umanità) grondi la storia sanguinosa del «secolo breve». Ma il cimitero più straziato è nel cuore dell’autore, si potrebbe dire rincorrendo il motivo ungarettiano. In Lampi di luce nel buio infatti, il narratore insegue con amara elegia le sue illusioni perdute: una città odiosamata, ieri devastata dalle bombe, oggi avvilita dall’auri sacra fames dei suoi depredatori di verde e di bellezza. E un paese, pieno di misteri senza fine, dalla strage di Portella delle Ginestre a Tangentopoli. Una città mancata, un paese mancat o. In questo nodo di sofferenza e di impegno civile risiede la necessità di scrittura di Luciano De Angelis. Giacomo D’Angelo
STUDIARE DA PROFESSIONISTI. DEL BIT Antonio Teti, EUCIP - Il manuale per l’informatico professionista. Ed. Hoepli, 2005, pag. 642, Euro 48,00
Grazie all’esperienza ventennale nel settore informatico e in funzione della partecipazione al gruppo europeo di ricerca e sviluppo sulle cer tificazioni informatiche, il Prof. Antonio Teti, docente di informatica presso l’Ateneo G. d’Annunzio di Chieti e Pescara, l’Università degli Studi di Teramo e L’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, ha presentato nel 2005 la prima “guida” completa, a livello europeo, sulle tematiche trattate nel percorso formativo EUCIP. ll testo, primo in Europa per formare i nuovi informatici professionisti rappresenta un vero e proprio “strumento” di alta formazione per tutti coloro che desiderano intraprendere la carriera del “professionista dell’ICT“.
I CONFINI DELL’UOMO
SI SCRIVE CERAMICA, SI LEGGE AZULEJOS
Francesco Marroni, Finisterre. Ed. Tracce, 2004, pp 112 Euro 9,00
Azulejos, Rivista di studi ceramici. N.1, 2004, pp. 185, Euro 32,00
Nell’universo simbolico di Francesco Marroni esistono alcune immagini ricorrenti che rimandano all’insensatezza del vivere umano e all’instabilità psicologica dell’io. È proprio intorno a questa frustrazione esistenziale che sono costruiti i sette racconti di Finisterre, quarta silloge dello scrittore ormai conosciuto come rappresentante originale e sensibile della narrativa breve contemporanea. In linea con le precedenti raccolte, ad emergere è un mondo di oppressi, di vinti, di falliti, di “gente di polvere”alle prese con il “male di vivere”, destinatari di tragedie interiori che si interrogano sul senso della fine, non diversamente dall’idea di T. S. Eliot secondo il quale inizio e fine coincidono (“ Abbiamo cominciato dalla fine”). Quello che rende ipnotiche queste storie è la scoperta della quotidianità come epifania joyciana, là dove i segni dell’esperienza (un minareto, una foto, un paesaggio, la polvere, un libro, la neve, un faro) racchiudono la consapevolezza dolorosa che “Le nostre vite si sfrangiano come le nuvole al tramonto…“ e, nel momento della scelta, “corri[amo] verso la voragine che come un altoforno fumante tutto scioglie e tutto riduce al silenzio”perché noi “erriamo sì, sempre erriamo”. In breve lo sguardo fatica sempre a penetrare il mistero delle cose. Sottesa ai racconti di Finisterre vi è la solitudine intesa come la nuda ancorché poetica rappresentazione di un “cuore di tenebra”. E si tratta di un cuore moderno e conradiano (“Si vive come si sogna –soli”), colto in una “solitudine estrema”, alla ricerca di un punto di ancoraggio che dia un senso al quotidiano vivere e restituisca all’anima i suoi paesaggi positivi. Eleonora Sasso
OLTRE LE SBARRE
Tommaso Prestieri, Uomini di cristallo. Tullio Pironti Editore, 2005, pagg. 112, Euro 10, 00 Netta si staglia nella mente del lettore la sagoma di un uomo ristretto in carcere, e palpabile egli avverte il doloroso disagio che quell’uomo prova agli sguardi indiscreti che lo scrutano come “animale allo zoo”e la vita gli diventa “un posto / di crudo martirio”. A volte nell’autore, ex carcerato, riaffiora il ricordo del ”sangue sull’asfalto”e prova biasimo per gli “uomini allo sbando”e pietà per il dolore delle mamme. Ora egli percepisce il tempo come fosse di cristallo e come tale soggetto ad andare facilmente in frantumi. Invece sempre più duraturo e struggente si fa il desiderio dell’amore per le sue donne, rievocate con i toni della passione ardente. Di cristallo gli appaiono anche i giovani “occhi assenti… sguardo appassito… Sentimenti corrotti / Tristi destini”, e l’autore li esorta: “…c’è un sorriso/ Lei ti aspetta”. Ciò che colpisce nelle poesie di Prestieri è la forza d’animo, la volontà di non abbattersi, il coraggio di superare tutte le difficoltà anche avendo soltanto “una branda per amica” e la poesia per evadere. In effetti la poesia, impegnando a fondo lo spirito e liberando la fantasia, crea spazi di libertà e permette di sentirsi altrove e altrimenti, al di là del tenore effettivo dei versi. A.C.
La nascita di una rivista culturale monotematica indica, di solito, intento di ricerca e bisogno di approfondimento. Due giovani, Diego Troiano e Van Verrocchio, hanno scelto come campo di ricerca della loro Rivista annuale “Azulejos”, l’antichissima arte della ceramica limitando l’ambito di studio all’Italia dell’età postclassica, quindi dall’alto medioevo all’età contemporanea avendo come punto di partenza la realtà abruzzese. A dare l’accattivante titolo alla Rivista sono le pregiate piastrelle maiolicate, a disegni per lo più geometrici, utilizzate per pavimenti e zoccoli nelle moschee e nelle regge arabe del sud della Spagna. Nel numero 1 si documenta come il “valente ceramista valenzano di origine araba Joan Al Murci” dal 1446 si sia recato a Napoli dove massicce erano le impor tazioni di azulejos. Punti di sviluppo tematico previsti dalla Redazione saranno i centri di produzione, i contesti di consumo, le dinamiche del commercio di manufatti e la mobilità delle maestranze. E scrupoloso è e sarà l’intento di ricerca delle fonti, specie per la ceramica postmedioe vale, dalle archeologiche alle archivistiche, dalle orali a quelle di altra natura. Lo zelo documentale del primo numero a garanzia del successo futuro. Anna Cutilli
MEZZO SECOLO DI STORIA Raffaele Colapietra, l’uomo, lo studioso il cittadino, A cura di Enzo Fimiani. Gruppo Tipografico Editoriale 2004, pag. 245, Euro 20,00 Quale studente, ricercatore o curioso lettore non si è mai imbattuto, nel corso dei propri studi o ricerche sull’Abruzzo, in uno dei numerosi scritti di Raffaele Colapietra? Certo sono stati pochi coloro i quali non abbiano apprezzato i suoi lavori prendendoli come punto di riferimento insostituibile per le proprie ricerche storiografiche sull’Abruzzo; nonostante ciò appare paradossale il fatto che pochi conoscano la dimensione umana e civile di quest o studioso aquilano e del suo mezzo secolo di studi e r iflessioni che sono andati ben oltre il ristretto ambito regionalistico. Il pregio di questo libro, curato dallo studioso Enzo Fimiani per i tipi del Gruppo Tipografico Editoriale, ha il merito di colmare questa lacuna svelando al lettore, con un’intervista realizzata dallo stesso Fimiani, la complessità di uno dei pr incipali storici italiani del ‘900 che racconta il bilancio dei suoi cinquant ’anni di studi e ricerche, della “scomodità” della sua indipendenza, dei difficili rappor ti con l’establishment accademico e istituzionale, delle amicizie, degli affetti, delle collaborazioni con riviste importanti come Belfagor , Il Ponte o Il Mulino. Giulia Cocciante
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ON THE ROAD AGAIN Massiveart
Dall’alto: Berardo Di Bartolomeo, Stanza dei bottoni; il team MassiveArt al completo: da sinistra, Berardo Di Bartolomeo, Valentina Ruggieri, Pino Monaco. Qui sopra e a destra, Pino Monaco, Animals; in basso, l’opera di Paolo Consorti.
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o stradone. Una lunga arteria che introduce al centro storico di Teramo. Croce e delizia dei teramani che rientrano in città nelle ore di punta tra indignazione e rassegnazione. Ristretti, a passo d’uomo, fra fioriti spartitraffico e la grande muraglia di cemento seminascosta da gigantografie pubblicitarie. Ad attenuare il disagio del traffico ha pensato la neonata associazione Massive Art di Pino Monaco e Berardo Di Bartolomeo. Due artisti con l’idea di porsi Sulla strada e di esporla in una sorta di galleria aperta attraverso trentatrè opere firmate da diciotto artisti dentro un insolito scenario di case sparse, asfalto e cemento. Una meditata contaminazione fra il quotidiano e l ’arte trasmessa da Umberto Palestini, storico della fotografia e critico d’arte, docente di Teoria e metodo dei mass media all’Accademia di Belle Arti di Urbino. Lo Stradone dunque accoglie la Public Art quale nuova frontiera dell’intervento estetico nell’ambiente urbano. E si sconfina dalle pareti dei musei alle superfici degli edifici e delle strutture della città creando uno scambio interattivo fra i luoghi e le persone che vivono tali ambienti, avvicinando l’uomo della “Strada” all’arte attraverso il mezzo pubblicitario. «Con un simile strumento –precisa Umberto Palestini– questa riflessione supera quelle barriere sociali, culturali e psicologiche che possono frapporsi in occasione di mostre ed eventi culturali i quali, pur ospitati in spazi prestigiosi, vengono visti da un numero selezionato o da specialisti del settore». M. M.
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EX TABACCHI, ARRIVA IL FORTINO Marco Samorè è un quarantenne di Faenza che da molto tempo propone opere che hanno per oggetto le icone dell’universo merceologico. Dopo installazioni (I love my dog, 1993), opere fotografiche (Pistola ad acqua, 1997), lavori in video (L’estetica della noia, 1997; Molti ricordi sono comuni, 1999), ora l’artista emiliano espone in prima assoluta nell’ex manifattura tabacchi di Città Sant ’Angelo la sua ultima creatura, Il fortino: una “scultura” attraverso la quale un vecchio mobile anni ‘50 è stato trasformato in un fantasioso gioco di costruzioni e ricostruzioni in un fortino, appunto, con tanto di merli alle torri e bandiere sventolanti. Opera particolarissima, caratterizzata dal senso del gioco e dal gusto di costruire castelli di sabbia, miscelata con un’ironia di cui solo i g randi
NELLA BELLA GALLERIA Contemporanea. Un nome un programma quello del nuovo spazio espositivo che ha aperto i battenti a Pescara. In una città che da sempre vive un rapporto tormentato e difficile con l’arte pittorica, con particolare riferimento alla neo-figurazione, una conduzione aperta e competente come già appare quella dei due giovanissimi e determinati Luca Di Marco e Federica Tombari (nella foto), formatisi nell’ambiente culturale bolognese e da tempo attenti collezionisti, pare essere l’iniziativa giusta per scelte di qualità a livello nazionale-
sono capaci. Lo scarno, austero e tanto suggestivo ex-convento, meglio noto come Ex Manifattura Tabacchi, tra vicoli e scalette, sede del Museo Laboratorio di Arte Contemporanea a Città S. Angelo, ha ospitato, inoltre l’edizione 2005 di Godart, manifestazione che ha offerto la scena a 40 artisti di varie parti del mondo per una mostra singolare, certamente eterogenea. Aperta ai vari modi espressivi, la mostra è un crogiolo di idee, un terreno di incontro e di scontro a tensioni contestatarie e a sentimenti delicati. Dalle forme figurative più nette della pittura a olio a quelle più enigmatiche dei disegni, dalle foto che indagano nella profondità della psiche umana alle ardite ed eccentriche installazioni, dai video di fiaba agli astratti acrilici: tutti discorsi simbolici espressi con i vari linguaggi. Un premio offerto agli internazionale ma anche quell’occasione tanto attesa, tra le più rare, di aggregazione, selezione e confronto anche delle nuove tendenze espressive regionali. Un vuoto sul territorio che potrebbe essere finalmente colmato. La galleria è sicuramente fra le più belle d’Abruzzo, scelta a due passi dal mare, ad un incrocio di via Tommasi, nella zona sud della città quasi a delinearne un confine fatto di spazio, aria e luce fin negli ampi e modulati saloni anticipati da una larga scalinata, che con linea moderna eleva ed affranca dal piano terra la struttura, ulteriore elemento di ottima posizionatura e rappresentanza. La Galleria Contemporanea è stata inaugurata il 30 aprile con la mostra personale di Angelo Davoli, uno degli artisti di più sicuro talento della nuova ondata di pittura neo-figurativa. A seguire è già in atto un valido programma di mostre come l’attuale personale di Marco Tamburro, in esposizione dal 18 giugno al 10 luglio. Mostre da visitare, bella e “giovane” galleria da frequentare, realtà, come ci si augura, di un nuovo punto di riferimento artistico-culturale ad ampio raggio, opportunità di incontro ed informazione sull’arte. Annamaria Cirillo Galleria Contemporanea, Pescara, Via S. Tommasi 27
artisti che, per una settimana, hanno collaborato con 800 bambini delle elementari, per produrre opere che rimangono a scuola. Perché artisti a contatto dei bambini? Risponde il direttore artistico Enzo De Leonibus, argutamente négligé: «Uno spazio pubblico come questo museo deve segnare anche i futuri cittadini, deve essere utile a tutti. È la VI° edizione di questa full immersion dei bambini nel campo dell’arte a contatto con artisti internazionali. È un’esperienza eccezionale sostenuta dal Comune, per favorire l’aprirsi ad altre culture. Ma il progetto di questo spazio è più ampio: vuole div entare luogo di riferimento per la progettazione e realizzazione dell’arte». Anna Cutilli
SCOLPISCO, CIOÈ DIPINGO Si chiamerà “Nelle vene del legno la linfa dell’arte”la mostra antologica delle opere di Claudio Bonanni, in esposizione presso il teatro “Gabriele D’Annunzio”a Pescara dal 24 luglio al 30 agosto. Un percorso affascinante attraverso i cromatismi e le tridimensionalità di una pittura lignea, che si avvale dell’intrigante tecnica mutuata dagli antichi mobilieri, che ha già ottenuto ammirazione e riconoscimenti in Italia e all’estero: ultimo riconoscimento, quello della Federacion Internacional d’Artistes di Barcellona, che ha inserito Bonanni nell’Albo accademico. Per chi volesse saperne di più, l’artista ha attivato un sito web con tutte le sue opere (www.bonannipittore.it), ma possiamo garantirvi che l’esperienza “dal vivo”ha tutto un altro spessore.
www.galleriacontemporanea.it VARIO54
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UN ARCOBALENO SU PINETO oche città vantano un nome così poetico come P ineto, che viene direttamente dalla famosa Pioggia nel pineto che faceva da sfondo ai ricordi amorosi del Vate. Un nome che si sposa perfettamente con l’immagine di una città unica nel suo genere, immersa in un esteso parco di pini secolari che ne incorniciano la spiaggia, scelta come meta di villegg iatura e di ristoro fin dalla sua nascita e r inomata per la limpidezza delle sue acque. In origine, però, Pineto si chiamava Villa Filiani, ed era solo una frazione del vicino C omune di Mutignano. Luigi Corrado Filiani, proprietario terriero, era un amante della pace e dell’ecologia, tanto da piantare intorno alla sua villa circa duemila alberi, della specie Pinus Pinea, rendendo Pineto quella che appare oggi. La sua villa negli anni ‘30 diventò il parco della città di Pineto. Dopo la pioggia, sulla città arriva l’arcobaleno, o meglio l’associazione “Arcobaleno–città ideale”, che lancia un
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grido di allarme proprio per il Parco Filiani. Perfettamente integrato nel contesto urbano della città, il Parco versa oggi in gravi condizioni a causa del passar e del tempo e della scarsa manutenzione. Trattandosi di un giardino botanico di circa quattro ettari, vero polmone verde della città (in cui sono presenti specie arboree di vario genere, tra cui leccio, pino, frassino, cedri atlantici e del Libano, e poi specie animali come tassi, ricci e volpi oltre a una gran varietà di uccelli) l’associazione “Arcobaleno–città ideale” ha recentemente indetto un concorso di idee per la r iqualificazione del Parco, che tenga conto della sua naturale destinazione d ’uso. Un’iniziativa che stimola la cittadinanza a par tecipare al recupero di quest’importante area verde, cercando di individuare o riprogettare spazi finalizzati alla migliore “vivibilità “ del Parco; “eventuali progettazioni di strutture –recita il bando di concorso– oltre al recupero ed alla destinazione dei manufatti già esistenti, dovranno essere previsti in legno e/o in pietra”. Il termine previsto per la consegna è il 15 ottobre 2005. Dopo quella data, cinque membri di una commissione esaminatr ice, scelti dall’Associazione, sceglieranno i tre migliori progetti che verranno premiati rispettivamente con 1000, 750 e 500 E uro. Il presidente dell’Associazione Arcobaleno, Ernesto Iezzi, ha fatto sapere che è stato presentato alla Regione un progetto, approvato dal Comune di Pineto, relativo al restauro e alla riqualificazione del Parco, allo scopo di accedere ai fondi regionali. «Nel caso che questo progetto non venisse approvato dalla Regione, invito gli Enti deputati ad int ervenire, anche sulla base della ampia e dimostrata par tecipazione cittadina al destino del Parco».
LA CIMA DEL PAPA utti la conoscevano come vetta del "Gendarme", 2424 metri sul livello del mare, versante occidentale del Gran Sasso. Dal 18 maggio scorso quella vetta si chiama "Cima Giovanni Paolo II". Il Papa polacco amava questo scorcio d'Abruzzo, e lo visitava spessissimo, specialmente il martedì, e in tanti ancora ce l'hanno negli occhi la sagoma del Papa montanaro. Alla cerimonia di inaugurazione era presente anche il ministro Gianni Alemanno,
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responsabile delle Politiche agricole e forestali, in una giornata ventosa a San Pietro della Jenca. Era una meta molto vicina, a soli 45 minuti d'auto da Roma, un luogo che a Papa Wojtyla ricordava molto i suoi monti Tatra, in Polonia, dove imparò a sciare grazie agli insegnamenti del fratello maggiore Edmondo. Ora la cima ribattezzata diventerà un luogo di pellegrinaggio ed aiuto spirituale: lo stesso neo eletto Benedetto XVI ha inviato la
sua benedizione, con annesso l'augurio di un elevazione spirituale di tutti coloro che raggiungeranno questa vetta. Nel 1993 sul massiccio abruzzese Giovanni Paolo II recitò un Angelus, in occasione della benedizione della chiesetta della M adonna della neve, costruita dagli alpini a 2000 metri di quota. P.F.
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DAL GRAN SASSO ALLE PIRAMIDI n po’ di Abruzzo alla corte dei Faraoni: ecco quello che capita quando si ha un esempio di inno vazione gestionale come quello dell’Ente Parco del Gran Sasso e M onti della Laga. Una missione composta da diverse professionalità si è recata nel Parco egiziano di Wadi El Rayan per studiare e progettare la prima fase di infrastrutturazione di questa grande e delicata area protetta che si estende per 175.000 ettari di superficie tra le dune del deser to, le oasi e i villaggi del Fayum e le acque di ben tre laghi, due dei quali ar tificiali. Saranno progettati centri visita nella valle delle balene fossili e a ser vizio della città faraonica di Medinet Madi. L’8 maggio scorso è par tita la prima missione tecnica del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga composta da un architetto, un ingegnere, un biologo, un geologo e un fotografo, guidati al presidente Walter Mazzitti. L’obiettivo è stato quello di prendere direttamente atto della complessa e ar ticolata realtà dell’area protetta egiziana e di gettare le basi della futura progettazione mirata
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all’allestimento e alla valorizzazione di una delle riserve naturali più belle dell’intero continente africano. La Valle delle Balene, così chiamata per la pr esenza di circa 800 cetacei fossili risalenti a 40 milioni di anni fa, costituisce uno dei luoghi d’eccellenza del parco egiziano e certamente il più sensibile, data la necessità di conservare i resti fossili che, altrimenti, sarebbero destinati, una volta scavati, ad un repentino ed irreversibile fenomeno di disfacimento a causa degli agenti climatici e metereologici tipici delle zone desertiche. È proprio qui che il Parco del Gran Sasso interverrà prioritariamente attraverso la ricerca di soluzioni adeguate ma non impattanti per la tut ela e la valorizzazione di questo straordinario patrimonio naturale, testimone di una storia antica di milioni di anni quando ancora dell’uomo non c’era traccia e l’oceano ricopriva quello che oggi è deserto. Il nostro parco, inoltre, si farà carico di un’intensa campagna di comunicazione, rendendosi promotore delle prime visite turistiche in questa sensazionale valle, ad oggi ancora chiusa al pubblico. Esiste già
una zona destinata ad area campeggio che l’Ente allestirà e potenzierà per l’accoglienza a scopo promozionale. Durante la conferenza stampa di fine missione, tenutasi nell’Ambasciata Italiana a Il Cairo, con tutti i giornalisti delle maggiori testate arabe, l’ambasciatore Antonio Badini ha ribadito l’importanza del ruolo che il Parco del Gran Sasso sta svolgendo nell’ambito dell’intera operazione e sottolineato la garanzia di un successo sicuro visti i prestigiosi risultati che l’Ente Parco sta ottenendo relativamente alle innovative strategie gestionali di recente adottate e speriGiulia Cocciante mentate.
LA POESIA DEL TEMPO uovi eventi culturali all’Ud’A ripercorrono i temi del rapporto tra Uomo e Natura. L’importanza e il fascino della Scienza sono dischiusi ad un pubbl ico universale. Esaltazione della bellezza esteriore delle forme che la vita e la mat eria hanno preso nel passato e il segreto degli eventi che le ha sottratte al tempo, trasformandole in gioielli. La mostra Architetture Preziose della Natura , allestita pr esso la Facoltà di medicina dell’Università “G. d’Annunzio”, si sviluppa a par tire dagli infiniti spunti offerti dalle Scienze della Terra e si innesta nella naturale curiosità umana r ispetto alla realtà materiale vicina e lontana che lo circonda. Conchiglie che appaiono miracolosamente trasformate in gemme d’opale dai colori cangianti, merletti di travertino di Roccamontepiano, fiori di pietra del deserto egiziano: forme misteriose e impronte lasciate dalla vita stessa che si evolve e muta e fluisce per un tempo così lungo da essere quasi inconcepibile. Resti pietrificati di creature che vivevano nelle acque d’altri mari scomparsi da decine di milioni d ’anni. Le uova del Dragone, un mito cinese vecchio di migliaia d’anni che si riallaccia ad una storia più antica. Le tiepide acque del mare pleistocenico si
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NATURA
ritirano e un milione d ’anni fa l’Abruzzo emerge con la sua forma attuale. Grandi mammiferi e una fauna abbondante e selvaggia popolano le sue conche montane fino alle pianur e costiere. Misteriosi cimiteri d’elefanti, leoni, pantere e orsi segnano luoghi in cui si tr ovano le prime armi umane, selci rozzamente scheggiate. La mostra Architetture Preziose della Natura è uno spazio ideato dal professor Francesco Stoppa sotto il patronato del Magnifico Rettore Franco Cuccurullo, progettato dall’architetto Lucio Rosato e scaturisce da un’idea del direttore amministrativo Marco Napoleone e dedicato ed eventi culturali che raccontano storie molteplici nella grande spirale dell’evoluzione della Terra attraverso fossili, minerali e rocce di preziosità e bellezza unica provenienti da tutti i continenti. La mostra, per ora allestita pr esso uno spazio gentilmente concesso dal Preside di Medicina Carmine Di Ilio, è permanente ed è completata da collezioni didattiche ospitat e dal Polo Bibliotecario & Collezioni di Scienze della Terra diretto dal Dr. Stefano De Sanctis. L’associazione studentesca Agorà della Terra provvede all’attività laboratoriale e didattica per le F.S. scuole e alle visite guidate alla mostra stessa.
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LA MEMORIA
La strage dimenticata A sessant’anni dai tragici giorni della Resistenza, e dopo oltre quarant’anni di oblio, Ciampi consegna al Comune di Capistrello la Medaglia d’oro al merito civile, in memoria dei 33 cittadini trucidati dai tedeschi il 4 giugno 1944 di Marco Patricelli
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bagliori dorati della medaglia sono iiflessi r di una storia scritta col rosso del sangue. A 60 anni esatti dal 25 aprile 1945, e quasi sessantuno dai fatti, il gonfalone di Capistrello ha un altro significativo simbolo per ricordare: la medaglia d’oro al Merito civile. L’ha conferita il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, nel cor tile del Quirinale, sottolineando «la memoria dei sacrifici e delle lotte della Resistenza» come «fondamento della nostra passione per la libertà». Quella medaglia cristallizza nel metallo più nobile la fierezza innocente dei 33 martiri di Capistrello, e la ferocia di soldati senza onore. È la primavera del 1944. Gli Alleati hanno sfondato la Linea Gustav sul fronte tirrenico, grazie all’impeto e alla tenacia dei polacchi del generale Anders che hanno issat o la bandiera biancor ossa sulle r ovine dell ’abbazia di Montecassino. I tedeschi sono in ritirata. Nella seconda metà di maggio alcune unità della 5ª divisione cacciatori da montagna da Sora sono penetrati nella Valle Roveto. Non hanno eser citi da fr onteggiare e si dedicano ai rastrellamenti antipar tigiani, in att esa dell ’ordine di ripiegamento generale. La divisione è stata costituita nel 1940 in Tirolo, si è battuta in Gr ecia e in Russia, e ha partecipato alle tre battaglie di Cassino. Quei soldati si muovono sui monti dell’Appennino a caccia di «banditen», applicando i bandi spietati di Kesselring. Il 4 giugno alcuni militi fascisti accompag nano un r eparto di cacciat ori tedeschi in una località nei pressi di Luco dei Marsi dove si trovavano contadini e pastori che avevano trovato un ricovero al bestiame sottratt o alle razzie , e alcuni ex prigionieri alleati sfuggiti ai rastrellamenti. In breve le canne delle carabine e degli Schmeisser tengono sotto controllo 33 uomini, sui quali pende l ’accusa – estorta a un contadino– di essere partigiani: un’accusa che equivale a
una condanna a morte senza processo. Tra di essi c’è un ragazzo di 13 anni, ma ’letà non è scriminante nella ferocia delle rappresaglie. La colonna viene condotta sott o la minaccia delle ar mi v erso la stazione f erroviaria di Capistrello bombardata dagli aerei alleati qualche giorno prima. I tedeschi non forniscono risposte alle domande mute di quegli uomini, che interrogano e si interrogano con gli occhi, e forse hanno capito che per loro non c’è scampo. L e cose si sono subit o messe male quando addosso a uno di essi è stat o rinvenuto un v olantino inneggiante alla r esistenza. P robabilmente era stat o semplicemente raccolto chissà dove e messo in tasca. Adesso quel foglio inchioda il possessore e i compagni di sventura. Il sospetto che siano partigiani basta e avanza nella logica nazista. I cacciatori stanno cercando solo il posto giusto per liquidarli e intanto li hanno rinchiusi in un magazzino della stazione. Alcuni soldati parlottano, fino a che un militare indica un profondo cratere lasciato da una bomba, lì di fr onte al luogo di raccolta dei pr igionieri. Hanno stabilito il luogo della mattanza, senza neppure perdere tempo a far scavare una fossa ai condannati a morte. Uno alla volta quegli uomini vengono portati sul bordo della buca e freddati con una raffica. Arriva il turno del tredicenne Giuseppe Forsinetti. Lo zio Antonio con un gesto disperato cerca di fargli da scudo, ma i tedeschi non hanno pietà né di lui né del nipote. La missione criminale è compiuta, i soldati possono andar via. Quei militari della Wehrmacht non li v edrà più nessuno , inghiottiti dalla storia. Non si saprà neppure con certezza se hanno agito per rappresaglia a un attacco della Banda M arsica, per reazione al bombar damento aer eo, oppur e per lo sgombero dai civili della zona della Conca del Fucino. La strage è scoperta solo il 9 giugno. Nella fossa vengono RIBALTA
rinvenuti i cor pi di A urelio Alonzi, Giacomo C erasani, Pasquale Ciangoli, Angelo Cipr iani, Tullio D i M atteo, Ezecchiele Di Giammatteo, Antonio Forsinetti, Giuseppe Forsinetti, Franco Gallese, Luigi Giffi, Alessandro Palumbo, Domenico Palma, Antonio Pontesilli, Berardo Ranieri, Mario Ricci, Alf onso R osini, L oreto R osini, Giuseppe Rulli, Innocenzo Serafini, Mario Sorgi, Fernando Stati, Emilio Stirpe, Giovanni Tiburzi, Luigi Volpe, Giovanni Ripaldi. A otto cadaveri è impossibile assegnare un nome, probabilmente si tratta di angloamer icani senza documenti di riconoscimento o di qualcuno che non è del post o. La strage di Capistrello finisce nel dopoguerra nel pentolone degli eccidi senza colpevole, per le difficoltà di indagare oppure per la precisa volontà di non farlo. Anche il nome di Capistrello contribuisce a gonfiare le ante dell’”armadio della vergogna”. Uno dei r esponsabili del massacro è il caporale Siegfried Oelschlegel, che alla fine della guerra ha preso i voti ed è diventato parroco a Monaco di Baviera. Non renderà mai conto alla giustizia umana per «la cieca ed efferata rappresaglia delle truppe tedesche in ritirata», come cita la motivazione della medaglia d’oro concessa a Capistrello da Ciampi. O elschlegel ha dichiarat o il 20 dicembre 1993 che si tratt ò di una «rappr esaglia organizzata perché c’era la certezza che gli aerei alleati (che il 26 magg io bombardarono la stazione di C apistrello, causando vittime tra i t edeschi) erano guidati contr o obiettivi militari dell’esercito tedesco dalle segnalazioni dei partigiani». Una delegazione con il presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco, il presidente della Provincia dell’Aquila, Stefania Pezzopane, il presidente dell’Associazione parenti vittime di Capistrello, Antonio Rosini, e l’intero consiglio comunale guidat o dal sindaco P aolo de M eis, ha LA MEMORIA
sottolineato con commozione il momento in cui Ciampi, il 25 apr ile 2005, ha asseg nato la medaglia simbolo del sacrificio supremo. Nella piccola comunità marsicana la ferita resta comunque aperta, perché una nuova inchiesta è sempre meno probabile. Le ultime speranze di far luce sulla vicenda si sono arenate, forse definitivamente, con la scomparsa nel 1998 a Toronto di Ang iolino Di Nar do, originario di Sant ’Eufemia a Majella e all’epoca dei fatti stalliere delle unità tedesche di stanza a C apistrello. Ha portato con sé i segreti di quella drammatica giornata, forse carpiti ai soldati, e forse anche gli indizi utili ad assegnare precise responsabilità. Gli investigatori tenuti al palo per decenni dall ’archiviazione pr ovvisoria dell ’inchiesta sull’eccidio sono arrivati alla pista canadese troppo tardi. E oggi testimoni viventi non ce ne sono più, anche se non è improbabile che qualcuno di quegli assassini in divisa abbia continuato a vivere come nulla fosse, cancellando dalla mente persino la parola Capistrello.
Due momenti della cerimonia. Nella foto in alto, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi decora con la medaglia il gonfalone del comune di Capistrello. Qui sopra, ancora Ciampi col Sindaco di Capistrello, Paolo De Meis. VARIO54
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STORIE DAL VOLONTARIATO
Vincenzo Castelli di Pierluigi D’Angelo foto Roberto Sala
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incenzo Castelli ha 50 anni, un fisico robusto e una t esta di f olti r iccioli. Ha una laur ea in F ilosofia e una in Teologia, e ogg i è uno dei massimi esper ti nel campo delle politiche di int ervento sociale. Collabora con governi nazionali e con organizzazioni go vernative so vranazionali, in particolare con l’UE e l’Onu, alla stesura di progetti di politica sociale. Questo di giorno. Di notte, invece, Vincenzo Castelli è un v olontario che per corre le strade costier e da San Benedetto del Tronto a Vasto, per offrire alle pr ostitute una via d ’uscita dal mondo dello sfruttamento sessuale e della cr iminalità organizzata. «Siamo nel campo della de vianza pura: prostituzione maschile , f emminile e minor ile, transessuali e travestiti, persone dunque con varie devianze sessuali e che viv ono in questo mondo di soprusi e sfruttamento. La mission dell’Associazione è questa». L’associazione cui si riferisce Vincenzo si chiama On the road. Ha sede a M artinsicuro, e si occupa della prostituzione di donne e minori immigrate, spesso vittime del traffico di esseri umani a scopo di sfruttament o sessuale ad opera di or ganizzazioni criminali. L'esperienza della complessità e delle pr oblematiche dell'esclusione sociale hanno portato ad un ampliamento degli interventi agli scenari dell'immig razione, delle div erse f orme di traffico di esser i umani, della pr ostituzione, dell'abuso di sostanze psicotrope. «Negli anni 70 ero impegnato nel volontariato di stampo catt olico, ma anche , politicamente, nella sinistra g iovanile. Vengo pr oprio da quel mondo , da un catt olicesimo
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«Aiutare le persone significa metterle in condizione di vivere la loro vita» molto critico, che poi venne identificato come “cattocomunismo”. R ifiutavamo il concetto di un volontariato assistenziale, ritenevamo che gli interventi sulle politiche sociali appartenessero anche ad un modo di far e politica, cosa che per noi tutt ora è centrale . Fui, credo, tra i pr imi a svolgere servizio civile, e subito dopo cominciai a lavorare nel territorio della Val Vibrata, occupandomi da una parte di t ossicodipendenza, con int erventi legati soprattutt o alla r iduzione del danno (unità di strada e accoglienza di t ossicodipendenti attivi), e dall’altra parte di affido familiare e accoglienza di minori. Un’esperienza che ho portato avanti fino all’85/88». È il per iodo in cui Vincenzo incontra una suora oblata, e l’attività di volontariato prende una piega più decisa v erso gli ultimi della società. «Trattando spesso casi di persone tossicodipendenti che si pr ostituivano, in particolar modo nel t erritorio attra versato dalla tristemente famosa Bonifica del Tronto, abbiamo pensato di dedicarci al settore del disagio f emminile, muo vendoci pr ima nell’ambito della prostituzione legata alla droga e poi dedicandoci più specificatament e, a partire dal 92/93, al fenomeno della prostituzione e della tratta». È un compit o difficile, condotto in una sor ta di far West legislativo e dai connotati pionier istici: «C ostituimmo l’associazione. I mezzi a disposizione erano pochi, quindi le case di accoglienza erano le nostre, la macchina per l’unità di strada era la mia. Non c ’era neanche la legge sulla tratta: facevamo tutt o da soli, r ischiando anche grosso, a v olte. Io ne so qualcosa. O ggi, per fortuna, siamo cresciuti e possiamo contar e
su un numer o cospicuo di v olontari e su personale stipendiato». 40 Operatori e molti v olontari lavorano per On the road, un nome che oggi è un punt o di riferimento obbligato per chi voglia conoscere quest’ambito di int ervento. Tra marzo 2000 e magg io 2004 hanno contattat o più di 13.000 persone, di cui cir ca 230 in appartamento; hanno attivato programmi di protezione, assistenza e integrazione sociale per un totale di 182 persone, e percorsi di formazione pratica in impr esa per 38 di esse , per un totale di 114 inser imenti lavorativi. «Abbiamo una cr edibilità nazionale ed int ernazionale; solo in Abruzzo facciamo un po’fatica ad affermarci istituzionalmente. I nostri risultati sono pubblicati tr imestralmente e le cifre sono considerevoli». Il lavoro di On the road si traduce soprattutto in quello dell ’unità di strada. «Si sv olge con un pullmino, di notte, con un uomo che guida, un ’operatrice esper ta dei pr oblemi di strada, e una “mediatrice”, una ragazza della stessa nazionalità delle ragazz e che contattiamo. Si esce alle no ve e si r ientra verso le quattro. Ci facciamo conoscer e, lasciamo il numero di t elefono (da poco abbiamo attivato un numero verde per le vittime di tratta)… Il nostro è un approccio soft: ci limitiamo a renderci disponibili, le ragazze devono sapere che esistiamo . Diamo al nostr o contatto un taglio sanitar io, che ci ser ve per coinvolgerle. Nel pescarese da qualche tempo abbiamo cominciat o –forse unici a far lo in Italia– a lavorare sugli appartamenti, contattando cioè chi si prostituisce negli appartamenti tramite le inser zioni sui g iornali. Da
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questi si fa un la voro di contatto telefonico presentandoci come associazione, offrendo un controllo sanitario o legale del tutto gratuito. Lavoriamo anche sulle cosiddette aree di scorrimento e di flusso: stazioni ferroviarie, centri commerciali, porti e aeroporti: la stazione di P escara è un centro di prostituzione e tossicodipendenza, nonché di pr ostituzione minor ile». I compiti non si esauriscono, naturalmente, nel solo lavoro di strada: «Ci sono i cosiddetti drop-in, incontri per l’offerta di servizi: tramite volantini o semplici passaparola, or ganizziamo incontri in luoghi pr estabiliti (uno qui a M artinsicuro e uno a P escara) ad esempio con una g inecologa che parla dei pr oblemi legati alla pr omiscuità sessuale. C’è poi un terzo settore, quello delle case d’accoglienza. La legge sulle vittime di tratta attualmente in vigore (della quale, senza falsa modestia, posso dir e che siamo stati tra i promotori) è un’esclusiva italiana ed è all’avanguardia rispetto ad altri Paesi. Prevede che le ragazze che si prostituiscono possano ott enere il per messo di soggiorno se si dimostra che sono vittime di tratta (mentre nel resto d’Europa ottengono il per messo solo se denunciano il protettore). In questo caso vengono attivati programmi di protezione sociale che pr evedono l’uso di case di accoglienza. Noi ne abbiamo di tr e tipi: la casa di pr ima accoglienza o “di fuga”, dove mandiamo le ragazze che ci v engono portate dalle forze dell’ordine, per determinare quali di lor o siano vittime di tratta e abbiano davvero intenzione di uscire dal giro. Successivamente chi decide di pr ovare viene trasferita in una casa di seconda accoglienza, do ve si attivano var i programmi: per imparare l’italiano, per il recupero psicologico, e per la formazione lavorativa. Abbiamo stipulato convenzioni con diverse aziende. Il programma di formazione prevede che dopo sei mesi di pr ova, se la ragazza è in grado di svolgere il lavoro venga assunta dall’azienda. Solo l’anno scorso ne sono stat e inserite ot-
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tanta. Infine ci sono le case “di autonomia”, in cui vanno ad abitare le ragazze che vengono assunte». Esperienze di questo genere sono totalizzanti. Lasciano poco spazio alla vita privata. «Il fatto di crescere insieme a questo lavoro ci permette però anche di ricavare degli spazi per noi stessi, di non farci rubare il nostro tempo. Quello che non de ve mancar e mai è la v oglia di starci, e di a ver deciso da che par te stare. Dieci anni fa sicuramente dedicavo 24 ore a questa esperienza. Poi il lavoro ha modificato il mio impegno, ma non il livello di attenzione: questo significa che quando sono qui sono un punto di r iferimento. Avere tempo per sé sig nifica poter ascoltare la gente, essere libero da pensier i, non avere la testa da un’altra parte. So che quando la gente sta bene non mi cerca e se ha un problema può trovare in me tutto l’aiuto che posso dargli. Fare una scelta significa mettere in gioco una casa, fare dei sacrifici, sapere che vale la pena investire in questo campo». Tanti anni di la voro hanno dato grandi soddisfazioni e grandi delusioni. La storia più bella? «Verso le 4 del mattino mi chiama la polizia e mi dice che c ’è una bambina in strada. S ono andato alla centrale. Aveva 12 anni. La portammo in un istituto di suore e dopo un mesetto è venuta a vivere con me. Ho imparato a fare il genitore, la mia vita è cambiata completamente. Poi l’abbiamo data in affido ad una famiglia. Quando ha compiu to 18 anni è voluta tornare da me, e viviamo insieme da quattro anni. È lei la mia famiglia».
Vincenzo Castelli
Associazione Onlus On The Road Via delle Lancette, 27 64014 MARTINSICURO (TE) tel. 0861796666–762327 fax 0861765112 e-mail: mail@ontheroadonlus.it
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LETTURE PER PENSARE
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a lettura de L’uomo senza qualità di Robert Musil, devo ammetterlo, è stata rivelatoria. Non riuscivo ancora a capacitarmi di cosa mancasse al mondo, all’Italia, al mio vicinato, al mio ambiente di lavoro, quando all’improvviso un libro che da tempo si impolvera nel mio scaffale ha illuminato il buio senza speranza in cui di tanto in tanto mi capita di brancolare. Siamo nella totale assenza di uomini senza qualità (sì, avete letto bene: senza qualità), ovvero di esseri umani veramente pensanti che non si entusiasmino troppo facilmente e che al contempo non inoculino nelle persone falsi entusiasmi e assurde verità; di leader, in una parola, che siano in grado di escogitare pazientemente delle soluzioni e di applicar le o di farle applicare. In fondo non ci serve qualcuno da seguire come un vate, ma semplicemente (!) qualcuno che sappia almeno seguire se stesso, le proprie idee, lontano dai rumori esterni, non ricattabile, non schierabile, non demolibile (oddio! Detta così pare che si vada cercando un Terminator, ma vi prego di leggere tra le righe…). Ma torniamo alle suggestioni che mi ha suscitato Musil. Nelle storie che si intrecciano ne L’uomo senza qualità, ce n’è una particolarmente romantica: Ulrich è amico di una cop pia, Clarisse e Walter. Quest’ultimo ne è geloso ed affascinato ad un tempo; e teme che la
SESSO E FUTURO
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di Laura Grignoli*
sua consorte possa cadere vittima del carisma del suo rivale. In una delle numerose scenate fatte per smontare l’invaghimento di Clarisse, ecco che proprio Walter ci descrive Ulrich, l’uomo senza qualità, appunto: «Dall’aspetto non puoi indovinare la sua professione, eppure non ha l’aria di un uomo senza professione. E adesso rifletti com’è: sa sempre ciò che deve fare; sa guardare una donna negli occhi; è capace di meditare su qualunque argomento in qualunque momento; è un buon pugilatore. Ha ingegno, volontà, spregiudicatezza, coraggio, perseveranza, slancio e prudenza... non voglio addentrarmi in un’analisi, diciamo che possiede tutte queste qualità. Eppure non le possiede! Esse hanno fatto di lui quello che è, e hanno segnato il suo cammino, ma non gli appartengono. Quando egli è in collera, c’è in lui qualcosa che ride. Quando è triste, si prepara a far qualcosa. Quando qualcosa lo commuove, egli lo respinge da sé. Ogni cattiva azione sotto qualche aspetto gli apparirà buona. Solo una possibile correlazione determinerà il suo giudizio su un fatto. Per lui nulla è saldo, tutto è trasformabile, parte di un intero, di innumerevoli interi che presumibilmente appartengono a un superintero, il quale però gli è del tutto ignoto. Così ogni sua risposta è una risposta parziale, ognuno dei suoi sentimenti è soltanto un punto di vista, di ogni c osa non gli preme di sapere che cos’è, ma solo di scoprire un secondario “com’è”, un accessorio
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*Psicologa e psicoterapeuta, Viale Alcione 137g, Francavilla al Mare (CH). lauragrignoli@hotmail.com
di Giuseppe Capone
ualcuno immagina come saranno i rapporti sessuali nel futuro? Io non so se posso essere credibile, perché alla nascita dei miei figli, nell ’immaginare il lor o futur o ed i possibili per icoli, mai e poi mai a vrei pot oto pr efigurare la discesa sulla Terra della micidiale combinazione Ber lusconi-Bossi-Calderoli-Tremonti. Posso per ò pr ovare. Immaginate due persone (ma potrebbero benissimo essere tre o quattro) che si cercano e si trovano tramite un Sms: “Xké no try un trip around la disco . See me on displa y and g ive me a str ongation” (non significa un tubo, ma immag ino che saranno in ventate nuove parole, e così comincio per primo). A questo punto, trovatisi i due (o più) controlleranno sui rispettivi display che le immagini combacino con la r ealtà, e quindi si salut eranno, toccandosi varie parti del corpo ed emett endo con i lor o coput er cellular i, musica t echno, ur la gutturali e luci stroboscopiche (così chi sta intorno capisce che non deve r ompere le palle) quindi comincerà un dialogo sms per ché i nostri discendenti limit eranno il dialogo al minimo: “Mi spak ki un
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qualunque. Non so se riesco a farmi capire». “Non so se riesco a farmi capire”. Ma mi pare che noi, al contrario, siamo pieni di uomini che ostentano alte qualità: esperti di ogni genere, presidenti di vattelapesca quale club o associazione, professori, luminari dell’economia, politologi. Nei talk show imperversano i “saputi”. E poi, oggi c’è sempre un corso universitario che ti fa diventare dottore in qualcosa, scienziato di qualcos’altro, esperto in… Manca l’uomo comune normalmente pensante, che abbia la qualità di non a vere qualità. L’eccesso di chi si dichiara politico alimenta la non politica; tanti libr i abbassano la qualità della letteratura, c’è tanta informazione ma mai tanta gente è stata così disinformata. La massa viene invitata nei musei, per sollecitarla le si regalano gadget portafortuna, le si promettono fantastici viaggi per esortarla all’emigrazione vacanziera, la si spedisce ai tropici, per sudare le tossine degli svariati rincari fiscali, o allo stadio, per impegnarla in feroci attività sportive con cui potrà dimenticare le batoste dell’Euro. Vuoi sapere cosa contiene un programma elettorale o di governo? O le relazioni della Bicamerale? Trova su Pagine Inutili: traborda di indirizzi di uomini con tante qualità.
sakko baby piccolina” “tu bono come la nut ella”, oppure “ke la f orza sia con te e con la tua band ”. Dopodiché passeranno all’atto pratico (niente r omanticismi per ché il r omanticismo sarà “closed”), si spoglieranno e dopo le pr ime manovre comparirà una scritta sul reggiseno “touch me”, e sul davanti dello slip della (o delle) baby la scritta “start”, mentre sul r etro, a seconda delle pr eferenze sessuali della/e ragazza/e la scritta “Mission impossible” o “try” o “my favourite channel”; sullo slip del ragazzo, davanti, ci sarà la scritta “take away” oppure “taste” oppure ”klikka kui” e sul retro “no way babe”. Poi comincerà la seconda par te che consisterà nel collegarsi dei sensor i sulle varie parti del corpo e quindi, masticando chewingum allucinogeni, finalmente tromberanno al suono di una t echno manovrando contemporaneamente dei mouse , collegati ai sensor i, naturalment e wir eless. All’atto dell’orgasmo sarà proiettato un raggio laser con la scritta “bingo” oppure “big skiantation”. Sì, i nostr i discendenti ce la met teranno tutta per divertirsi, ma secondo me saranno “kazzi loro”… TABÙ
LE PAROLE PER DIRLO
di Giovanna Romeo
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raz, Cogne… luoghi che echeggiano di morte, solitudine, disperazione. Una disperazione solitaria perché nessuno sembra essersene accorto. Si è disperati proprio perché si è soli con il proprio dolore, il contatto con il mondo si è perso e si comincia a morire lentamente. Quando si muore è naturale accompagnarsi con la parte di sé rappresentata da un figlio. Realtà e disperata fantasia si fondono e il dolore invade la quotidianità inesorabilmente. Nessuno si accorge di nulla perché il tarlo della morte agisce in maniera subdola. La maternità è un momento delicatissimo, che può essere vissuto benissimo se l’equilibrio della madre e della coppia sono stabili e la r ete di relazioni sana, ma se ci sono dubbi, conflitti, confusione e mancanza di stima un evento come questo può accentuare il disagio e la incomunicabilità con l’esterno. Se c’è depressione profonda i confini tra sé e il bambino si annebbiano e tutt o può diventare possibile. Chi segue queste donne? Chi riesce a guardarle con
PERCHÈ LA CREATIVITA’?
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bbiamo dato, al nostro lettore, appuntamento a questo numero per trattare uno dei temi più affascinanti, oltre che utile, della psiche dell'uomo: la creatività. Iniziamo, quindi, con questo articolo una serie di interventi che ci aiuteranno a capire cos'è la creatività, perché ci è utile (anzi, indispensabile!), come scoprirla, come svilupparla. Prima di addentrarci nel magico mondo della creatività provate ad unire, con quattro linee rette, i nove punti equidistanti tra loro disegnati qui sotto, senza mai staccare la matita dal foglio e non cambiando lo schema dei puntini. I punti li do vete toccare tutti e nove!
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occhio attento? Personalmente ritengo che dovrebbe essere obbligatorio un monitoraggio, dopo il parto, realizzato da persone esperte, che richiama in ospedale la neo-mamma per qualche mese per controllare il tono dell’umore e il grado di solitudine vissuto dalla donna. I mariti non sono in grado in genere di leggere la disperazione, spesso perché sconvolti dal passaggio di ruolo che li vede padri dopo essere stati figli. Le madri emotivamente sane in genere sono seguite da mariti attenti e sorridenti, parenti accorti che contengono periodi di confusione e stanchezza. Ma non facciamo l’errore di pensare che queste donne sole sono rare o hanno connotazioni variopinte. In questa disperata follia può entrare chiunque, senza essere connotato da particolari patologie.
di Galliano Cocco
Ci siete riusciti? Se sì, probabilmente potete evitare di leggere questa serie di articoli. Se invece avete avuto delle difficoltà e non ci siete riusciti, leggete attentamente e creativamente i nostri contributi e… vedremo alla fine se vi abbiamo aiutat o ad uscire fuori dagli schemi e ad usare la vostra intelligenza divergente ed il pensiero laterale, uniche chiavi di accesso alla soluzione del giochino proposto. Come possiamo definire la creatività? Com'è facile intuire, una giusta definizione –definitiva e onnicomprensiva– non la si può dare. Essa è la capacità di or ganizzare in forma diversa gli elementi e produrre idee nuove e realizzabili; è anche la capacità di affrontare situazioni di problem solving in termini nuovi, non schematici, strutturati e dejà-vu. O, per dirla con E. De Bono, studioso di cui ci occuperemo, è pensiero laterale un processo attraverso cui si arriva ad una ristrutturazione dei contenuti percettivi, cioè al cambiamento del modo con cui guardiamo le cose, nella convinzione che il nostro è solamente uno dei modi di spiegare e comprendere i problemi e le situazioni. Sicuramente un luogo comune da sfatare è che la creatività è solo un dono di natura: in parte è vero, ma le doti creative non
lavorano senza sforzo o per intuizioni repentine; l'intuizione è lo stadio finale di un lungo processo. C. Darwin produsse la sua (creativa) teoria dopo venti anni di appassionato studio, tra l'altro, delle modalità di deposito degli escrementi di lombrico (è tutto vero). A. Einstein era molto giovane, certo, ma produsse le sue teorie solo dopo aver compreso quelle esistenti (e non fu lavoro da poco, immaginiamo). In realtà il primo passo per l'innovazione è la profonda conoscenza dell'ambiente in cui ci si muo ve. Spesso consideriamo originale semplicemente un diverso accostamento di elementi già noti, magari presentato in elegante veste grafica e zeppo di termini complicati. Il dubbio che sorge è, in sostanza, questo: un risultato creativo –un'opera d'arte, una nuova trovata pubblicitaria, una soluzione innovativa all'interno di un'azienda– è frutto del pensiero e quindi di una natura più propriamente razionale oppure figlio di un sentire più conosciuto come emozione? Anche a queste domande proveremo a dare delle risposte nel corso del nostro itinerario.
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I BIORITMI: MA COSA SONO? di Fabio Trippetti*
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lla nascita subiamo uno stress che porta le nostre cellule a “resettarsi” partendo da un punto zero, da cui poi scaturiranno tre andamenti ciclici: uno cerebrale che si conclude e riparte ogni 33 giorni, uno emozionale di 28 giorni ed uno fisico di 23. Questa è la teoria dei Bioritmi, elaborata prima dal Dr. Fliess e dal Dr. Swoboda, professori universitari rispettivamente di Berlino e Vienna, e poi dal Dr. Feltscher e Dr. Rexford delle università di Innsbruck e Pennsylvania (si tratta dunque di studi scientifici e non di empirie da Maga Magò). Ogni bioritmo ha un periodo di fase positiva ed uno di fase negativa, ed i giorni più critici sono quelli in cui si passa da una fase all’altra. Periodicamente possono sovrapporsi nello stesso giorno momenti critici di due o tutti e tre i bioritmi, dando vita, come effettivamente dimostrato da studi accreditati, alle famose “giornate no” in cui ci accade di tutto a causa di nostri errori o inadempienze. Quando un bioritmo è nella fase positiva (la prima metà del periodo) abbiamo la massima disponibilità di risorse, mentre siamo in riserva nella seconda fase, quella negativa (seconda metà del periodo). Il bioritmo fisico influisce su forza fisica, coraggio, resistenza, autostima; quello emotivo su
SALUTE E BENESSERE
umore, intuizione, spirito comunitario; quello cerebrale su perspicacia, presenza di spirito, prontezza di risposta, capacità di concentrazione. Se nella curva positiva diamo il meglio, in quella negativa tendiamo a perdere colpi, ed entriamo decisamente in crisi in quei due giorni di passaggio tra le due fasi. Calcolando i bioritmi dei propri dipendenti, e lasciandoli a casa nei giorni critici, in alcune aziende si sono ridotti enormemente gli incidenti sul lavoro e nel tragitto casa-lavoro. Come si calcolano i bioritmi per ognuno di noi? A par tire dalla data di nascita, va costruito un diagramma contando su un calendario i giorni di ogni ciclo bioritmico e ricominciando ogni volta che finisce il ciclo, non dimenticando di calcolare gli anni bisestili e... troppo complicato, vero? Molto più comodamente esistono semplici ed economici programmi per computer che fanno tutto loro, calcolando addirittura le affinità bioritmiche tra due persone. Un consiglio: non fatene il vostro “oroscopo”, tappandovi in casa quando qualcosa non vi convince sui diagrammi: la conoscenza deve migliorarci la vita, non il contrario, e conoscere in anticipo quale sarà un nostro giorno critico, deve solo aiutarci ad essere
più attenti. Una curiosità: analizzando geometricamente una Fuga di J.S. Bach, la BWV 846 in do maggiore, da molti definita tra le più equilibrate e rasserenanti, ho scoperto che l’andamento curvilineo delle voci sovrapposte rispecchia esattamente la sovrapposizione delle tre curve dei bioritmi. Bach nel ‘700 non sapeva nulla di bioritmi, ma evidentemente li intuiva, come solo un genio può fare. Parlando di mal di gola, in questo periodo, a causa degli sbalzi di temperatura prodotti dalla climatizzazione, capita spesso di avere mal di gola, faringiti e laringiti. Piccoli malanni, ma molto fastidiosi in una società nella quale la parola è essenziale. La gola, in ambito psicosomatico, rappresenta certo la relazione comunicativa con gli altri, ma anche l’affermazione sul lavoro, la conquista dei piaceri della vita, e la primavera è una stagione che amplifica le nostre ed altrui esigenze su tali tematiche. In questo contesto un rimedio preventivo può essere “Olive”, uno dei 38 Fiori di Bach (4 gocce sublinguali 4 volte al giorno), poiché rigenera da stress psicofisici. L’erborista consiglia anche la tisana di Farfara, erba primaverile tipica dei nostri prati, indicata per
molte affezioni delle vie aeree, da assumere molto calda con miele. Se siete dei temerari, vi consiglio un vecchio rimedio naturale per uno dei sintomi del mal di gola, l’afonia. Masticate tre foglie di olivo ingoiandone solo il succo, e la voce tornerà a breve. Perché sareste temerari? Perché tale succo è a dir poco amarissimo. Ma a questo punto, per preservare gola e molto altro, vinte le riserve di gusto e di alito, mangiate molta cipolla ed aglio preferibilmente crudi (i cantanti lirici coreani sono famosi per avere ugole inossidabili, e nella loro alimentazione aglio e cipolla sono sempre abbondantemente presenti). Ricordo un’arzilla e saggia vecchietta che aveva sempre una cipolla fresca in tasca, e mordendola ed innaffiandola con vino rosso, esclamava con voce ferma e sonora: “La cipolla è la bistecca dei vecchi, il vino ne è il latt e”. Morì centenaria, non di vecchiaia ma purtroppo cadendo mentre coglieva olive sull’albero!
*Dottore in Psicologia, Direttore della Libera Università Medicine Naturali e Artiterapie. (Tel. 339 1331281)
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Estate 2005 MARE NOSTRUM Inchiesta GENTE DI DEL TURCO La pubblicità in Abruzzo CARSA ADVENTURAGE Santo Stefano di Sessanio BORGO A CINQUE STELLE