novembre 2005 n. 56• EURO 3.50
Sped Abb. Post. GR. IV(70%)•Taxe parçue-Tassa riscossa•Uff.P.T. Pescara Italia
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Inchiesta GENTE DI SPORT
Giada Colagrande novembre 2005
IL CINEMA, LA MIA VITA
Ben Pastor SWEET, MY SWEET ABRUZZO Fabrizia D’Ottavio, campionessa mondiale di ginnastica ritmica
La pubblicità in Abruzzo SINERGIA / MIRUS
L?innovazione passa attraverso l?esperienza Internet banking Trading on line
tercas www.tercas.it cassa di risparmio della provincia di teramo spa
inquestonumero Inchiesta Gente di Sport
Interni abruzzesi La camera dipinta
Personaggi Giada Colagrande
Personaggi Michele Buracchio
Personaggi Ben Pastor
Personaggi Albano Paolinelli
Pubblicità/3 Mirus
Pubblicità/3 Sinergia
Abruzzo Valley Com’è Del Verde la mia valley
Universivario Chieti D’Annunzio Network
Universivario L’Aquila Nel segno di Sigmund
Universivario Teramo Un Master che vale il futuro
Ribalta Gusto, gusti, modi, mode, eventi Postigiusti Cosebuone Sostegolose Società/1 Società/2 Musica Moviementi Teatro Letteratura Libri Artisti Arte La Memoria Storie dal volontariato Tabù Salute & benessere
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novembre 2005
Direttore responsabile
Claudio Carella Redazione
Antonella Da Fermo (grafica), Fabrizio Gentile, Silvia Jammarrone (foto) Hanno collaborato a questo numero
Rolando Alfonso, Dimitri Bosi, Giuseppe Capone, Fabio Ciminiera, Annamaria Cirillo, Giulia Cocciante, Francesco Cocco, Galliano Cocco, Anna Cutilli, Sergio D’Agostino, Pierluigi D’Angelo, Ermando Di Quinzio, Michele Lamanna, Livia De Leoni, Antonella Di Lorito, Luigi Di Marzio, Paolo Di Matteo, Miriam Di Nicola, Paolo Ferri, Sandra Fioravanti, Elvira Giancaterino, Pierluigi Greco, Laura Grignoli, Marco Manzo, Marcello Maranella, Marco Patricelli, Daniela Peca, Giovanna Romeo, Roberto Sala, Fabio Trippetti, Ivano Villani. Editing AB Puzzle Pescara Progetto grafico Ad. Venture - Compagnia di comunicazione Stampa e Fotolito Publish - Sambuceto (Ch) Allestimento Legatoria D’Ancona - Cepagatti (Pe) Claudio Carella Editore Autorizzazione Trib. di Pescara n.12/87 del 25/11/87 Abbonamento annuo (sei numeri) Euro 19, estero Euro 36 Vers. C/C Post. 13549654 Rivista associata all’Unione Stampa Periodica Italiana Redazione Via Puccini, 85/2 Pescara Tel. 085 34296 Fax 085 27132 www.vario.it redazione@vario.it
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aese che vai, palestra che trovi. Abruzzo da sempre periferia dello sport, Abruzzo che aspetta gli Europei di basket femminile di Chieti del 2007 e i Giochi del Mediterraneo di Pescara del 2009 per sdoganarsi. Abruzzo che intanto si scopre più in forma di quanto pinguedini e pancette dicano in spiaggia. Desiderio di tenersi in forma, embrione di popolo di sportivi? Chissà. Le cifre ufficiali, quelle, dicono che qui fiorisce un gran desiderio di forma fisica: non sarà l’anticamera dei primati, ma di lì si passa. Perché proprio nelle nostre contrade fioriscono i luoghisimbolo del benessere fisico: in Abruzzo le palestre nascono in ragione di mille ogni 100mila abitanti in provincia di Teramo (leader assoluta in Italia), di 667,6 in provincia dell’Aquila (anche le virgole contano), di 620 in provincia di Pescara, di 588,6 in provincia di Chieti. Che è l’ultima della compagnia, ma la diciottesima in Italia: come dire, signori accomodatevi, dietro c’è posto. Così, mentre la casalinga fatica sul tapis-roulant, mentre il giovane manager gronda
P
sudore sollevando bilancieri nelle pause di lavoro, poco alla volta è nato anche in Abruzzo un mondo di sportivi. Qualcuno ha già scalato i vertici assoluti, altri sono in lista d’attesa. Gente di sport, ambasciatori nell’Olimpo dell’agonismo. Gente arrivata sul podio, o in attesa di salirci: ma che sa già che la strada promette gloria. Talvolta denaro. Sempre e comunque sacrifici e fatica. Perché che sian campi di calcio o di rugby, di basket o pallavolo, piscine o palazzetti, piste o strade, stadi o campi di periferia, lo sport in Abruzzo è ancora (e soprattutto) sacrificio, levatacce mattutine, allenamenti chilometri, orari da conciliare con gli studi o il lavoro, spazi che non ci sono e si dovrebbero inventare. Diceva Alberto Moravia, che «lo sport rende gli uomini cattivi, facendoli parteggiare per il più forte e odiare il più debole», ma se poi ti fermi a pensare con Ginetto Bartali «che gli italiani sono un popolo di sedentari: chi fa carriera ottiene una poltrona», beh allora meglio che la gara inizi.
di Sergio D’Agostino e Paolo Ferri foto Silvia Jammarrone
G E N T E d i
r p t o s
1 CARLO LUISI Pescara Calcio
2 daniele c roce Pesca ra Calcio
3 domenico soccor si L’Aquila Rugby
5 roberto mariani L’Aquila Rugby
ni 4 luigi miglbay L’Aquila Ru
1 Carlo Luisi Meglio il campo o la curva? Per carità, «meglio il primo, perché almeno riesci a scaricare la tensione». Carlo Luisi, classe ‘77, una vita da mediano e un modello nelle gambe e nel cuore: Rino Gattuso, il “ringhio” nazionale che non sarà un modello di stile, ma é l’emblema di chi nel calcio tira la carretta per sé e per gli altri. Pescarese purosangue, Luisi si sente un ragazzo fortunato e in vena di consigli: «Vesto la maglia della mia città, della squadra per cui ho sempre tifato, per cui fino a diciott’anni ho frequentato la curva nord. A un ragazzino che inizia ora dico di pensare con la propria testa, magari tenere a distanza i genitori, che a volte condizionano le scelte sportive dei figli». A ventisette anni dà ancora la sensazione che il bello debba ancora arrivare: «Mi ritengo giovane per aspirare a obiettivi ambiziosi, anche se non ho una maglia in particolare da sognare. Se ce la dovessi fare a trovare la grande occasione... non potrò dire di non averci provato». Grinta e carattere, polmoni d’acciaio e piedi buoni, forza d’animo per lasciarsi alle spalle qualche brutto infortunio. I primi passi li ha mossi nella Renato Curi (sotto lo sguardo di un talent scout inimitabile come Cetteo Di Mascio), poi il gran salto nel calcio che conta: cinque campionati a Benevento, l’approdo alla Fermana, lo sbarco a Pescara, la parentesi piacentina, il rientro in riva all’Adriatico. «Quando inizi non pensi alla carriera. Stando a Pescara, riuscivo a conciliare calcio e scuola: ho fatto lo Scientifico, volevo centrare il diploma e avviarmi alla carriera di calciatore, ci sono riuscito». A Piacenza, con una società organizzata, ha scoperto che si può lavorare contando su strutture di prim’ordine, ma che in fondo, «per un calciatore, la domenica, una curva semideserta non è il massimo: meglio il calore della gente del sud». Gli infortuni, capitolo nero: «Sono cose che ti segnano, ma se non ti piangi addosso, allora recuperi in fretta e torni più forte di prima».
2 Daniele Croce Una fascia per volare, giusto come Gianluca Zambrotta, il suo idolo. Ma intanto, zitti zitti, ritrovarsi ad essere già Daniele Croce: ovvero una delle più belle realtà della cadetteria. Storia di un ragazzo di ventitre anni che da Roseto, dove è nato e ha mosso i primi passi, è sbarcato nel calcio che conta per restarci grazie a una ricetta semplice semplice: la
GENTE DI SPORT
testa sulle spalle. Che sarà anche un modo di dire, ma é pure una filosofia di vita. «Da ragazzino uscivo di scuola giusto in tempo per filare alla stazione accompagnato da mio padre o mio fratello, salire sul treno, buttare giù il panino preparato da mamma, correre a Pescara ad allenarmi. Prima delle otto di sera non rientravo mai» dice. Il treno adesso é lui: «Ho iniziato con la Rosetana, sono al Pescara da circa dieci anni. Ho fatto tutta la trafila: le giovanili, l’esordio in prima squadra a diciassette anni, con Delio Rossi allenatore, ma retrocedemmo». Neanche il tempo di pensarci, ecco la consacrazione: «Ho disputato due campionati con Ivo Iaconi, il secondo con la promozione in B. Dopo un anno di prestito al Taranto sono rientrato». Lo sbarco nel calcio che conta non sembra avergli dato le vertigini: il successo é un frutto da gustare un po’ alla volta. «Vestire questa maglia mi dà grandi soddisfazioni, ma da professionista devo seguire qualunque strada».
3 Domenico Soccorsi Il rugby? Una metafora della vita, dove non si finisce mai di correre e crescere: insomma, una scuola di vita. Parola di Domenico Soccorsi, rugbista aquilano di 23 anni, approdato al più anglosassone degli sport di squadra quasi per caso, in una città dove i ragazzi, a colazione e merenda, mangiano pane e palla ovale: «Avevo cominciato con nuoto e calcio. Poi sono state le pressioni di mio cugino a farmi decidere per un provino. L’ho fatto, e adesso son qua». All’Aquila il rugby è una calamita: per quanto si ostenti disinteresse, mete, drop, touche, mischie aperte e chiuse, ti conquistano: «Gioco nella società a più alto livello del centrosud, in una piccola città con pochi sponsor, ma in grado di partecipare alle coppe europee». Per amore di questo sport ha deciso per ora di mettere gli studi in stand by: «Sono iscritto a Scienze motorie, ma ho dovuto sospenderli perché ormai i ritmi di vita sono uguali a un professionista». E meno male che almeno «le ragazze capiscono». Ma resta il fatto che spesso «le serate le passi in casa anziché con gli amici e i coetanei, perché in campo il giorno dopo devi essere in condizioni perfette». Insomma, guai pensare che il rugby sia solo sport fisico: «Ora prevalgono gli aspetti tecnici e tattici, occorre una preparazione generalizzata, con allenamenti duri. Terza linea, Soccorsi fa
da...118 tra i reparti: ultimo a spingere in una mischia chiusa, diventano il primo a schizzare in caso di gioco aperto.
4 Luigi Milani Una vita da pilone, altro che mediano. Chissà se Luigi Milani, 21 anni a fine novembre, aquilano “doc” ispirerebbe mai a Luciano Ligabue il soggetto per un’altra ballata. Perché in fondo, se nella palla ovale c’è qualcuno che sta “lì nel mezzo finchè ce n'hai, lì stai lì sempre lì, lì nel mezzo finchè ce n'hai”, beh è proprio un pilone: che sta a una squadra di rugby come una trave a una casa. E lui, insieme al compagno di reparto Andrea Lo Cicero, atleta simbolo del rugby made in Italy, reggerebbe una palazzina. «Ho già fatto esperienze con le varie nazionali giovanili, da due anni gioco in prima squadra. Sono iscritto all’università e penso davvero che sport e studio si possano conciliare» dice, ma ride di gusto per l’immagine un po’ trita dei rugbisti dispensatori più di randellate che di sorrisi: «Ma no, assolutamente. L’unica verità è che a 21 anni giocare contro gente di 30 ti fa perdere qualcosa sul piano dell’esperienza. Questo è uno sport di squadra che insegna a vivere con gli altri, avverti il bisogno del compagno, che deve esserti sempre vicino». Come i colleghi, pensa che portare la maglia della squadra della propria città sia un atto d’amore: «L’Aquila è sempre vissuta intorno a questo sport, l’unico che abbia raggiunto i massimi livelli, prodotto i vari Mascioletti, Ghizzoni, gente che ha il record delle presenze in nazionale come Marco D’Onofrio. Capitasse l’offerta di qualche altro club, direi di no: qui sto bene, ho una vita privata, voglio restare in questa città, indossare questa maglia».
5 Roberto Mariani Provate ad aggirarvi per un campo di rugby circondati da avversari un po’ truci che hanno l’unico desiderio di farvi a fette, e pesano una trentina di chili più di voi. Provate a tenere tra le mani una palla ovale, a doverla portare oltre la fatidica linea di meta. Beh, se non siete veloci come Speedy Gonzales, difficile riuscirete mai a sfuggire agli uni e a far felici gli altri. Roberto Mariani, 21 anni, ala di belle speranze dell’Aquila Rugby, ha fatto della velocità virtù: in mezzo a quei sacramenti, lui che ha un fisico “normale”, affida proprio alle gambe le sue chanche di carriera sportiva. La sua rapidità, nella città dove il rugby è sport,
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6 Alberico Di Cecco Maratoneta
8 Valentina Panara Softball
10 Fabio Maccarone Equitazione
7 Osvaldo Ta resco Ku ng-fu
i Marco D e n o m i S 9 ai Boxe Th
abitudine, stile di vita, immaginario collettivo, ne ha fatto già un giocatore-simbolo: un ruolo che profuma già di maglia azzurra, in quel ‘rugby a sette’ che sta alla nazionale maggiore come i giovani industriali a Luca di Montezemolo. «Gioco qui da quando avevo undici anni. Il rugby ce l’ho nel sangue» dice. Universitario alla facoltà di Scienze giuridiche e manageriali dello sport di Teramo, Roberto Mariani coltiva intanto il suo amore per uno sport affascinante e difficile, e non rimpiange di non essersi mai lasciato “tentare” da sport che gonfiano il portafogli più dei bicipiti: «Certo, ce ne sono di più ricchi, ma questo ha caratteristiche morali differenti. Siamo diventati professionisti a tutti gli effetti, con sacrifici enormi per conciliare lo studio con l’agonismo». Spot viaggiante della palla ovale, a un ragazzino con la voglia di fare sport darebbe un consiglio solo: «Vieni a giocare a rugby, i suoi valori ti torneranno utili nella vita». Se poi gli si chiede quale sia la maglia dei propri sogni, neroverde aquilano e azzurro-Italia a parte, la risposta è «giocare contro gli All Black neozelandesi. Un obiettivo che vale una vita di sacrifici».
6 Alberico Di Cecco «L’Abruzzo va proprio di corsa. E’ una regione felice per il podismo in generale, c’é un bel movimento amatoriale, ovunque, sulle strade, si vedono persone che si allenano. E quando corro tra la gente in tanti mi riconoscono, mi salutano, tante dimostrazioni di affetto, gratificazioni, sia di pubblico che a livello istituzionale. Il movimento si estende a macchia d’olio, segno che la nostra é una regione fertile per questo sport. Soprattutto nell’ultimo anno c’é stato un salto di qualità a livello istituzionale, noi atleti sentiamo la vicinanza degli Enti, ci sentiamo dei privilegiati.»
qui é difficile, nel mio campo é difficile il doppio. Oggi, però, gli abruzzesi, le tante mamme che ci portano i figli, comprendono meglio queste discipline: sport che limitano, invece di incrementare, la violenza».
8 Valentina Panara Andiamoci piano a chiamarle “soft”. Le ragazze come Valentina e le sue compagne di squadra del Cus Atom’s Chieti sono toste e non solo perché nel softball ci vuole il fisico. Il carattere e la passione, in una terra non sempre riconoscente verso chi pratica uno sport lontano dai riflettori, è una necessità: «Praticare il softball in Abruzzo è molto difficile –si rammarica il Catcher della prima squadra della regione, tra softball e baseball, maschile e femminile, attualmente militante nel campionato di serie B– peccato perché è uno sport bellissimo, divertente. Io e molte mie colleghe siamo insieme da quando avevamo 12 anni, ora siamo amiche per la pelle». Valentina Panara ne ha 24 e sebbene il ricordo della beffa subita nello spareggio per la promozione in serie A sia ancora fresco, niente potrebbe impedirle di rinunciare al softball, neppure l’indifferenza da cui questa disciplina è circondata: «Se non fosse stato per la sensibilità dell’Università D’Annunzio noi avremmo dovuto smettere, invece essere nel CUS ci permette di sfidare gli squadroni marchigiani». La realtà del softball abruzzese è quella di una dimensione familiare. Beniamino Gigante, allenatore (ma meglio è parlare di pioniere e anima) delle ragazze atomiche, l’infanzia vissuta in Venezuela e “importatore” del baseball in Abruzzo, sfida quotidianamente quell’indifferenza, dando continuità a una realtà piccola ma preziosa, che con dignità e serietà porta in giro il buon nome dello sport regionale.
9 Simone Di Marco 7 Osvaldo Taresco Anima il Centro Studi Wushu Kungfu, a Pescara, dal ‘95, un centro da oltre 5 anni campione d'Italia. Oltre 300 le medaglie e altrettanti i campioni formati, nel WushuKung Fu, nel Sanda (le discipline più famose), docente di Wushu presso la facoltà di Scienze motorie di Chieti. «L’Abruzzo mi ha permesso di realizzare quel che sognavo da bambino, sulla scia dei film di Bruce Lee. Con difficoltà, per l’erronea concezione di cui le arti marziali hanno sempre goduto e per la carenza di sensibilità e strutture. Se fare sport GENTE DI SPORT
Con l’Abruzzo nei pugni, Simone Di Marco ha conquistato l’oriente senza mai dimenticare il luogo che lo ha visto nascere e crescere, una terra alla quale si sente orgoglioso di appartenere: «Ero compagno di scuola di Jarno Trulli, come lui sono legato alla mia città (Pescara, ndr) e sento l’emozione, ogni volta che vinco un titolo, di averle regalato qualcosa». Una specialità, la boxe thailandese, dove sembrerebbe non esserci spazio per i teneri. Si emozionò, invece, Simone, anche il giorno in cui riuscì a conquistare un titolo mondiale, nella
prestigiosa e blasonata federazione americana ISKA, thai boxe con regole orientali. E si è emozionato ogni volta in cui la carriera gli ha regalato momenti di gloria: come quando, primo e unico italiano, ha combattuto nel tempio della boxe tailandese, il Siamo Omni Stadium di Bangkok: un match trasmesso in tutto il continente asiatico contro il micidiale cubano Alfredo Limonta. Ma Simone è stato anche profeta in patria. A Pescara è legato un epocale “prestige fighting” contro quella macchina da guerra olandese conosciuta come Remko Hisken. «Sì, la mia regione, la mia città mi sono state vicine, mi hanno sostenuto. E io in Italia e all’estero dichiaro sempre con orgoglio i miei natali». A breve Simone diventerà un professionista, per conoscere nuovi modi di sentirsi abruzzese. Fiero di esserlo.
10 Fabio Maccarone Ha partecipato ai campionati italiani del 2002 in tre discipline (salto a ostacoli, completo e dressage) arrivando quarto e sfiorando il podio per un soffio (una penalità nel salto a ostacoli); l’anno successivo è stato selezionato per i campionati europei juniores, categoria Young Riders, prendono i migliori dieci d’Italia. Ha preso parte alla Coppa delle regioni, una manifestazione all’interno della Fiera Cavalli di Verona, rappresentando l’Abruzzo e arrivando secondo. «Fare sport significa vivere in un ambiente sano, responsabilizzarsi, crescere. In Abruzzo per la mia specialità è difficile trovare spazi, strutture, il che ci porta spesso in regioni dove l’equitazione è più diffusa, ma aumentano le spese. Con una metafora, data anche la scarsa attenzione che istituzioni e media ci rivolgono, potrei dire che siamo “una voce che grida nel deserto”, ma stiamo facendo di tutto per portare alla ribalta questo sport. E i miei risultati aiutano».
11 Andrea Iannone Sedici anni veloci, in groppa ad un’ Aprilia 125, in giro per il mondo, oggi Malesia, domani Qatar, dopodomani Giappone. Andrea corre, in tutti i sensi. Brucia le tappe della vita e della carriera, contagiato dalla passione paterna, tanto che la prima gara è arrivata a 7anni, sulla minimoto, naturalmente. Nel 2003 campione italiano e secondo in Europa, ora viaggia intorno al ventesimo posto nella classifica del motomondiale VARIO56
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11 Andrea Iannone Motociclista
12 Simone e Francesco Masciarelli ciclismo
fani pietroste o l o a P , Gobbi taccia 13 Luigiola e Jacopo Pe Nic Pallanuoto
14 Stefano Lombardi Pattinaggio
classe 125: il che, stando a chi se ne intende, è ottimo, visto che Andrea è al primo mondiale. Corre per l’Abruzzo Racing Team, la scuderia di Giuliano Cerigioni e del capotecnico Mauro Noccioli, già al fianco di Valentino Rossi nel mondiale vinto nel ’97. Lo sponsor è la Regione Abruzzo, anche se la scuderia ha sede a Falconara e l’officina a Firenze. E l’Abruzzo, la sua Vasto gli vogliono bene. Lo dice il poster che campeggia sulla vetrina del suo bar preferito, dove il barman, appena gli chiedi di Andrea, sorride con gli occhi. «Sono fiero di essere abruzzese – confessa con una sicurezza inusuale per l’età – faccio il possibile, ogni volta che sono in giro per il mondo, per far conoscere il posto da cui provengo». Perché se Andrea è dov’è ora, lo deve anche alla sua Vasto, che lo ha ”sopportato“ scorrazzare sgasando alla Sirenetta, sul lungomare, assieme al fratello e agli amici scavezzacollo: gli stessi i cui nomi ora porta stampigliati sul casco, peraltro ammaccato dall’ultima caduta, a Sepang. «Vacanza? È spegnere il telefono. Scuola? Da privatista e d’estate, soprattutto, sono al terzo Industriale. Certo è una bella vita, ma per chi ci sta dentro è anche tanto stress». Con Vasto sempre in testa, cioè sul casco.
12 Simone e Francesco Masciarelli Troppo facile definirli due ragazzi acqua e sapone? Sì, troppo facile, ma anche troppo vero: il che, nel ciclismo di oggi, non è affatto poco. Simone Masciarelli, 25 anni, e il fratello Francesco, 19, oltre allo sguardo pulito, hanno un cognome che li presenta. Papà Palmiro li ha cresciuti a pane e biciclette e oggi sono, assieme al terzo fratello Andrea, il futuro del loro team la “Acqua & Sapone”, appunto. Simone ha fatto la Vuelta e il Giro d’Italia, è professionista da 6 anni, è ciclista completo, si trova a suo agio sia nelle salite che nelle pianure. Francesco è uno scalatore puro, professionista non lo è ancora, ma ha fatto un mondiale junior nel 2003. Entrambi sentono di essere nel posto più bello che ci sia per un ciclista:«Per qualsiasi ciclista l’Abruzzo è la regione più bella. Abbiamo la pianura, il mare, la collina e la montagna, allenarsi è un piacere tutto l’anno, tranne quando arriva il freddo dai Balcani. Qui vengono da tutta Italia e non c’è domenica senza frotte di ciclisti, amatori e non, che invadono le strade. Spesso ci troviamo a correre assieme a Danilo Di Luca o a Jarno Trulli, addirittura. Il posto più bello? Passo
GENTE DI SPORT
Lanciano, oppure le Gole del Sagittario». Piaceri paesaggistici a parte, l’Abruzzo è una regione che da tutti i punti di vista ama, riamata, il ciclismo. «Il pubblico è caloroso, c’è cultura e organizzazione, un ottimo movimento giovanile».
13 Nicola e Jacopo Petaccia, Luigi Gobbi, Paolo Pietrostefani Provate ad avere diciassette anni, ad alzarvi alle sei del mattino per tuffarvi in piscina, correre a scuola, avere appena il tempo per un panino, tornare di nuovo in acqua, mettersi a tavolino a studiare quando gli occhi non ti assistono più e gli amici sono in giro con l’ultima fiamma…Storia di quattro ragazzoni pescaresi, sulle cui spalle lo sport d’Abruzzo più titolato, la pallanuoto, conta di ricostruire un futuro roseo in un ambiente depresso. Loro, i gemelli Nicola e Jacopo Petaccia, Paolo Pietrostefani e Luigi Gobbi tirano dritti per la loro vasca. Gli ultimi due sono figli d’arte: i papà, Fernando e Maurizio furono pionieri di questo sport e Maurizio adesso è anche il coach del team, la Waterpolis, che proverà a rinnovare i fasti degli squadroni di Estiarte e D’Altrui, Calcaterra e Pomilio, Attolico e Ferretti. Nomi con cui i quattro moschettieri under 18 hanno imparato a familiarizzare quando i coetanei guardavano Bugs Bunny. Nicola Petaccia, portiere che ha già assaggiato la gioia della maglia azzurra, nello scorso campionato di A1 ha giocato da titolare: «Mai pensato di lasciare, sei non hai passione non reggi, ma con la scuola è stata dura. Giocare in Sicilia anche tre volte la settimana, significa che poi recuperare è dura». Luigi Gobbi, invece, qualche cedimento l’ha pure avuto: «Avevo pensato di lasciare. I sacrifici erano tanti, i minuti in vasca pochi. Poi, abitando a Francavilla, per allenarmi devo mettere in conto pure una quarantina di chilometri al giorno. Adesso però sono determinato: sarà anche perché conto di giocare di più». Jacopo Petaccia, invece, qualche conto lo fa pure sul futuro: «Guadagnare giocando? E perché no? Nessuno mi costringe ai sacrifici, alla fine è normale pensarci». Sacrifici, ecco la parola chiave per chi decide di dedicarsi alla pallanuoto. Paolo Pietrostefani l’impegno in piscina lo vede così: «E’ uno sport duro, se non hai la passione, il tempo, il fisico e la mentalità per immaginare un sogno. Non lo
vedo come impegno di tutta la vita, non è il calcio, non dà sicurezze economiche. Alla fine delle superiori deciderò cosa fare, se proseguire o lasciare». Idee chiare, ma intanto largo al sogno: «Come quello che nel ’78 portò la Gis-Libertas alla prima storica promozione di questo sport». Già, quando in vasca c’erano i papà.
14 Stefano Lombardi Pattinava il papà, pattina anche Claudio, anche se in Abruzzo pattinano in tanti: «E’ una regione felice per il pattinaggio», si rallegra Claudio Lombardi. «Certo, purtroppo siamo costretti ad allenarci soprattutto sulle strade, perché a impianti non siamo messi molto bene. Ma il calore della gente che ci segue, che segue il movimento, è la moneta che ci ripaga di tanti sacrifici». Ventun anni, 31 titoli italiani, 8 titoli europei, 3 volte campione del mondo nelle sue specialità, sui 300 e sui 500 metri, per la prima volta nel 2000 in Cile, poi di nuovo l’anno seguente. Pattina dall’età di tre anni e non lo farebbe in nessun altro posto. «Se prendiamo, ad esempio, gli Europei di Pescara dell’anno scorso, ad agosto, beh, ci hanno fatto fare un figurone in tutto il mondo con gli atleti stranieri che si complimentavano tutti per la bellezza dello scenario, la riviera: una scenografia che è una pacchia per qualsiasi pattinatore. Nelle altre regioni non è così, qui da noi vengono apposta per allenarsi e mi reputano fortunato. Per essere un cosiddetto sport minore di pubblico ce n’è, sono cose che danno morale e quando poi vai a gareggiare in campo nazionale e internazionale ti fa sentire onorato di rappresentare questa terra».
15 Fabrizia D’Ottavio Deliziosa quanto spietata, questa esile macchina da guerra, che assieme alle cinque sorelle (“le farfalle” ormai le chiamano tutti), ha sbancato le temibili russe, le dittatrici della ginnastica ritmica, mai battute nella storia. Finora. Dopo l’argento del 2004 ad Atene per Fabrizia, vent’anni compiuti a febbraio, è arrivato il traguardo più bello di tutti, l’oro nel mondiale per nazioni: a Baku, in Azerbaigian, a casa delle super-favorite. Lei, l’asso del nastro, quasi non si spiega come sia potuto accadere: «Le russe sono predisposte geneticamente per questo sport, ma noi siamo amiche, siamo un tutt’uno, è stato proprio il cuore l’arma vincente». Ma il cuore
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Ottavio D a i z ri 15 Fabnastica Ritmica Gin
16 Luigi Marchionne Calcio A5
17 Stefano Rajola Basket
a Mandolini 18 Mimm Kickboxing
di Fabrizia ha i colori del luogo dove è nata, Chieti e la regione che la ospita, che porta sempre negli occhi:«Dalla finestra di camera mia vedo le colline, e la Majella, l’Abruzzo ce l’ho sempre dentro, è come un quadro, un acquerello. E dentro c’è il calore delle persone che mi accolgono sempre con affetto, che tappezzano la città con le mie foto: fare sport qui non è come al nord, dove vivo e mi alleno ormai da tre anni. Qui c’è di più». Pensa sempre in termini artistici, Fabrizia la creativa. Ha persino inventato una figura nuova, il “calcio D’Ottavio”, d’altronde la sua passione è il disegno, vorrebbe lavorare come grafico pubblicitario. Un pensiero artistico applicato anche al suo sport, quando, per esempio, lancia in aria il cerchio o la bacchetta in fibra di carbonio per poi riprenderli in modi sempre nuovi: «Immagino di disegnare in aria dei fuochi d’artificio». Riceve tante lettere di bambine che vogliono emularla, lei che è così schiva, che mai prima d’ora si è fatta fotografare fuori d’una gara e che potrebbe diventare un modello femminile:«Certo, diventare veline è più facile che allenarsi nove ore al giorno e fare una vita quasi monastica come facciamo noi nel centro tecnico di Desio. Lì la voglia d’Abruzzo viene ancora più forte».
(«Gli devo tutto»), Enrico Catuzzi e del “Vate”, Giovanni Galeone: «Mangiava pane e calcio, non guardava in faccia a nessuno, fece giocare me tenendo in panchina fior di campioni». In carriera ha calcato campi di prestigio, (nell’87, nella partita che valse la “A” contro il Parma di Sacchi c’era), segnato gragnuole di gol, ma alla fine ha scelto il calcio a 5. Lontani gli anni del ticket calciatore-velina, lui che pure aveva solo 28 anni, guardò al suo futuro dopo lo sport: «Ebbi un’offerta di lavoro, allora di soldi non ne giravano mica tanti». E fu calcio a 5: non aveva ancora finito di spogliarsi, che già il fratello maggiore del calcetto tra amici gli riservò la maglia più bella, l’azzurro: «Oggi un ragazzo ti chiede subito quanto guadagna, divide i suoi interessi sportivi con il pub, la discoteca, la comitiva. Io i primi soldi li ho visti nel calcio a 11, in serie B». L’emigrazione al nord, il confronto con l’erba del vicino: «A Venezia i ragazzi potevano scegliere, c’era solo l’imbarazzo della scelta, l’Abruzzo è carente di spazi, impianti, almeno per certi sport. Quando ha cominciato io, a Pescara c’erano gli impianti delle scuole». Spazio per qualche sassolino nella scarpa: «Da ragazzini contano pure le raccomandazioni, ho visto gente meno dotata di me passarmi davanti. Poi ho avuto la pazienza di aspettare…».
16 Luigi Marchionne
17 Stefano Rajola
Quarant’anni, l’aria sbarazzina da eterno ragazzo, il cuore diviso a metà tra maglie che più “nemiche” non si può (il biancazzurro del Pescara e il neroverde del Chieti, perché lui come la madre è nato sul colle, mentre il papà è pescarese, e in carriera per metter pace in famiglia le ha indossate entrambe) e due sport: il calcio e il calcio a 5. Piccolo ritratto di Luigi Marchionne, ex enfant prodige del calcio abruzzese, folgorato sulla via del calcio a 5, che gli ha regalato da atleta quelle soddisfazioni internazionali, come la partecipazione agli Europei e ad un Mundialito, che il calcio senior poteva solo concedergli in un sogno. Cresciuto, grazie alla passione del papà, in quella fucina di campioncini che fu, ed è, la società “Pescara Nord”, bandiera sportiva di un quartiere ad alto rischio come Zanni («Eh, con me c’era Di Cara e tanta gente importante»), Marchionne è stato allievo di mister che portano i nomi di Eraldo Mansueti
Di sé, dice di essere «un combattente». Uno, avrebbe detto il mitico Dan Peterson, che in campo «sputa sangue». Logico che Stefano Rajola, trentadue anni, da Pescara, professione play maker, un metro e ottantotto d’altezza (centimetro più centimetro meno) sul parquet teramano sia diventato un autentico beniamino, come nelle tante piazze che ha girato da autentico globetrotter: Napoli, Ferrara, Cremona, Reggio Calabria, Cassino. In mezzo a corazzate da “due metri e dieci per centoventi chili”, certo non è uno che faccia pensare a Rambo. Il suo modo di giocare, di dare tutto e anche qualcosa di più, si spiega con la voglia di sentirsi ancora ragazzino, nonostante l’età non sia più verdissima: «Siamo fortunati, guadagnamo bene. Ma per arrivare facciamo sacrifici che da ragazzo sono impensabili: niente gita scolastica,uscita del sabato sera. Crescendo tante cose mi sono state ridate, però per emergere non basta il talento. Ricordo gente
GENTE DI SPORT
che a diciotto anni era molto più forte di me: ora io gioco in serie “A”, loro neppure in “B2”». Unico cruccio è non aver potuto aiutare la sua città a scalare il basket che conta: «Dopo il black out degli anni Novanta, la pallacanestro è risorta solo in provincia di Teramo. Qui si gioca l’unico derby che conti, Teramo contro Roseto, io ho la soddisfazione di essere l’unico abruzzese in campo». A Teramo è di casa: la moglie, teramana doc, lo ha aiutato ad integrarsi in una ambiente sportivo che lo acclama come uomo-simbolo in campo. «Mi identifico totalmente nel posto in cui gioco. E’ una fortuna, ma pure un guaio, perché aumenta pazzescamente la pressione. Però, come diceva a Napoli il mio tecnico, la pressione fa parte del nostro lavoro».
18 Mimma Mandolini Siamo sicuri che l’oro di una medaglia sia dello stesso colore per tutti? Mimma Mandolini ce l’ha una medaglia d’oro al collo, è quella appena vinta ai mondiali di kickboxing, in Marocco, unico oro di tutta la nazionale femminile, ma l’Abruzzo non lo sa. «La gioia di questo successo è tutta mia e di quelle poche persone che mi sono vicine. Nessuno capisce la nostra realtà». Allenarsi anche a 42 gradi per sopportare l’afa di un palazzetto africano, prepararsi col pluricampione del mondo, Riccardo Bergamini, direttore tecnico della nazionale italiana di kickboxing, che non ci va affatto piano quando allena le sue ragazze («Mi insegna a incassare, anche a costo di qualche ko»), sbaragliare una dopo l’altra le russe, superprofessioniste. E tutto gratis. Questa è la storia della medaglia di Mimma. «Sento l’orgoglio di essere abruzzese, ma è l’Abruzzo a non sentire l’orgoglio di una sua rappresentante che vince una competizione così importante. Ma queste soddisfazioni mi ripagano da sole di tutti i sacrifici, e poi i miei amici del Body Line (la palestra tempio del kickboxing dove Mimma allena e si allena, ndr) mi sono vicini». Combatte da sette anni: ora ne ha 27, è al secondo anno di Scienze Motorie. E col suo oro al collo invisibile a tutti tranne che a lei, va per la sua strada: «Credo che nessuno, come una donna, sappia incassare e rimettersi subito in piedi, e poi quando vinci, beh, basta solo quello a riempirti».
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La camera dipinta La grande decorazione di fine Settecento in un appartamento dell’antico Palazzo Giordano a Lanciano.
di Rolando Alfonso foto Silvia Jammarrone
Qui sopra, la facciata dell’antico Palazzo Giordano (oggi Brasile-De Cecco) nel centro storico di Lanciano; in alto, una panoramica della Camera dipinta. In apertura, particolare di uno degli affreschi parietali.
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vvicinare la camera dipinta di Palazzo Giordano per ammirarne la preziosa decorazione –che reca su di sé, purtroppo, le tracce di un forte deterioramento, sia sul piano pittorico, con distacco e perdita della pigmentazione originale, sia nella tenuta della struttura muraria della stanza con grosse crepe che s’irradiano dal perimetro della cornice della volta sino ad invaderla in grosse sue porzioni– equivale all’impresa di gustare il volto, particolare e seducente, di un passato luminoso in cui è inscritta una finis historiae di una bella città sul finire del Settecento: Lanciano. Un periodo storico della città frentana che prendiamo come paradigma di un suo già avviato e repentino impoverimento sul piano economico –minore dimensione della sua centralità come centro fieristico nel meridione– e politico –subordinazione della borghesia delle nuove professioni,in special modo quella forense,alla volontà punitiva dei Borboni dopo la caduta della Repubblica napoletana– e che si rifletterà poi, inevitabilmente, su quello culturale con la scomparsa di una committenza, ben oliata come macchina promotrice, che era solita impegnarsi nell’ampliamento e nel rinnovo urbanistico sia pubblico sia privato. La restaurazione costrinse la città, una delle piú popolose e ricche della regione –basta ricordare che in essa si stabilivano i prezzi regionali delle derrate– a normalizzarsi sul piano di un’immarcescibile fedeltà al re borbone. Una città infiacchita dai corsi e ricorsi della sua storia, che solo con l’avvento dell'unità nazionale ritroverà nuova forza e dinamismo espansivo. A Palazzo Giordano (successivamente Brasile - De Cecco) si giunge subito dopo aver imboccato via Roma da piazza Plebiscito.La visita alla camera –concessa per gentilezza del proprietario Mariano De Cecco– risveglia visivamente e per incanto il piacere riprodotto per noi contemporanei dalle atmosfere viscontiane a corredo delle pagine del Gattopardo, la stessa tristezza intrisa d’affetto.Se ci si sofferma sulla facciata esterna si può già arguire che la committenza originaria non abbia preteso per la
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propria residenza un’architettura ricca e rappresentativa, limitandosi solo nell’accettazione di un minore e quasi accennato formale linearismo barocco. Dopo l’ingresso e un breve patio, piú funzionali che rappresentativi, si accede attraverso una scala all’appartamento che conserva al suo interno la camera dipinta. La decorazione, erroneamente attribuita per molto tempo alla mano di Giacinto Diano (o Diana), è stata eseguita, nei primi anni dell’ultimo decennio del Settecento, dal suo seguace abruzzese Giuseppangelo Ronzi, originario di Penne. La certezza di tale attribuzione si basa sia sui raffronti tra le opere dei due artisti eseguite nel cantiere principale della città, la cattedrale, sia nelle differenze riscontrate, sul piano narrativo, nelle scene composite dei medaglioni. Nella camera dipinta queste ultime hanno un modello di riferimento preciso: le allegorie illustrate dal Tiepolo che, come materiale iconografico, erano in quel periodo ancora fonte di grossa ispirazione nel panorama pittorico italiano ed europeo. Inoltre, ulteriore conferma viene dalla stessa cifra stilistica che si evidenzia nella decorazione di Palazzo Dura-Del Bono a Penne e nei dipinti,sempre realizzati dal Ronzi,situati a lato della cona dell’altare maggiore e nella tela superstite del presbiterio –Salomone e la regina di Saba– sempre nella cattedrale di Lanciano. Il cantiere della cattedrale dal 1787, anno in cui vengono portati a termine i lavori di ristrutturazione muraria, al 1793, data che sancisce il completamento della sua decorazione interna,diviene il centro di diffusione di una sensibilità artistica che invade la città stessa.La decorazione della camera, che interessa tutte le superfici delle pareti e della volta, sfrutta la tecnica del trompe l’oeil per delinare e differenziare la superficie interessata, per costruire/disegnare gli elementi di un’architettura interna fantastica che conforma uno spazio vitale ideale.Cesellando,quest’ultimo,con cornici,quadrature e finte lesene gravide di grotesque ornamentali, che testimoniano una assodata tendenza del gusto verso tematiche classiche. Solo ad un primo sguardo l’intero LA CAMERA DIPINTA
ciclo decorativo si presenta stilisticamente unitario. Difatti, basta poco per accorgersi delle differenze, le quali interessano la parte propriamente decorativa –costituita da ripetizioni e giustapposizioni di elementi figurativi desunti dalla natura e fortemente idealizzati o trasfigurati nell’operazione di razionalizzazione che il neoclassicismo imponeva trasformandoli in elementi di un’architettura– da quella che possiamo chiamare illustrativa, tutta circoscritta nelle allegorie che danno mostra di sé nei quattro medaglioni delle pareti e in quelli più piccoli della volta. È proprio la coesistenza tra questi due differenti registri visivi a rendere interessante il ciclo decorativo di Lanciano. Le allegorie dipinte nei medaglioni prendono spunto da una modellistica allora ritenuta sicura, già ampiamente assorbita da una sensibilità artistica diffusa, in definitiva già testata. Dietro di essa vi era la gloriosa tradizione del barocco italiano ed europeo e della sua estenuata mutazione in rocaille.Ultimo tentativo, quest’ultimo, di superare l’inaridimento del linguaggio del barocco che si trascinava da piu di un secolo. Nella camera dipinta si possono gustare compositi “recit” direttamente tratti dal Tiepolo e dai veneti ma diversi nella luce e nel viraggio cromatico. Caratteristiche che essendo già presenti nella pittura di Giacinto Diano –ma pur sempre entro la grande tradizione della pittura napoletana dei De Mura, Giaquinto e Solimena– assumono in quella di Ronzi, suo attento e provinciale discepolo, un’ evidenza che si conforma a maniera. In breve, per quanto riguarda i medaglioni, possiamo parlare di veneti in salsa napoletana. Ma qualcosa di piu interessante ci riserva l’artista abruzzese.Ad esempio, la sua particolare attenzione alle atmosfere richiamate dall’arcadia prossima ventura che, pur stemperandosi nei lievi influssi neoclassici, quasi anticipa quella pittura romantica che governerà il panorama pittorico di un’Europa, controvoglia, totalmente riportata all’ordine politico e culturale. Queste trasversali mutazioni di gusto, e quindi di stile, le possiamo percepire analizzando altri elementi caratteriali del ciclo LA CAMERA DIPINTA
pittorico. Particolari che messi l’uno a fianco dell’altro ne costruiscono identicità. Un esempio evidente é la postura, tesa tra la danza e il semplice incedere, che assumono le figure delle fanciulle poste ai lati estremi dei medaglioni. Dove la posizione delle gambe e il movimento della parte inferiore delle vesti sono già in quel registro neoclassico, fatto di una grazia trattenuta, che si tradurrà poi, intatto, in cifra romantica, lasciando il resto –busti e acconciature– perfettamente all’interno di una iconografia barocca. Diverso e di piu difficile collocazione, in quanto a richiamo stilistico, è invece il motivo ornamentale rappresentato dai lunghi tralci di rami di vite che le fanciulle/ninfe tendono tra i medaglioni. Elementi che se da un lato accentuano l’aspetto lirico delle scene, e quindi di una deriva verso il pastorale e il bucolico, dall’altro riportano anche ai ben conosciuti motivi ornamentali cari sia al manierismo che al primo barocco.Pochi gli elementi residui e filologicamente apprezzabili dell’arredo della stanza –due dignitose console ottocentesche, un busto in marmo di ottima fattura. Sebbene la camera dipinta sia uno dei tanti ambienti che costituiscono l’appartamento –per accedervi dalI’ingresso principale bisogna attraversarne altri tre più ridotti– è il solo ad essere dipinto. Alla sua pregevole decorazione, in deperimento costante, non basteranno queste poche righe per un apprezzamento scientifico appropriato ed esaustivo, ma possono servire per fornire lo stimolo ad un interesse conservativo più ampio, partecipato sia dalla attuale proprietà sia dalla città e dalla sua amministrazione. Nella foto in alto, il soffitto affrescato della camera dipinta. Qui sopra, alcune monete antiche esposte sulla parete della stanza.
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le tue idee,il tuo spazio.
Via Verrotti, 13 Montesilvano (Pe) tel. 0854452642 e-mail: LACITTÀDELMOBILE.191.tin.it
Giada Colagrande
Il cinema,
la mia vita. Due cortometraggi, due film-scandalo e un matrimonio hollywoodiano. La regista abruzzese si racconta. di Elvira Giancaterino foto Michele Lamanna
«Quello che conta per me è essere fedele a me stessa. Come quando ti mostri sapendo di avere dei difetti e sai che tutti li noteranno. Penso di essere un giusto miscuglio di vulnerabilità ed esibizionismo».
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l luogo è la terrazza Cinecittà dell’Hotel Excelsior, a Venezia. È lì per presentare il loro film, Before it Had a Name. Giada Colagrande è sorridente, allegra, mano nella mano col suo uomo. Esattamente come la sera prima, la sensazione che danno è quella di una estrema complicità. Erano entrati in sala così, passo deciso e mano nella mano. Si erano separati solo all’ultimo momento, davanti ai simboli uomini/donne delle toilettes, lei e Willem Dafoe. È un pensiero buffo, come la sua eleganza a metà strada tra una dark lady da fumetto e una contadina uscita da una tela di Michetti. Pettinatura corvina leggermente cotonata, sopracciglia rinforzate, un abito blu notte di seta impalpabile dal taglio demodé e scarpe altrettanto d’antan di un marrone scamosciato con bordatura dorata. Di fronte al minimalismo del marito Willem (in nero totale eccezion fatta per la camicia a righe vivaci) si evidenzia il suo fascino, il suo temperamento creativo. Ma le domande della conferenza stampa sono tutte sul famosissimo consorte, sul recente matrimonio, sul loro amore da favola. I lettori di Vario vorrebbero conoscerti meglio per come sei, per quello che fai, non solo per
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aver sposato il divo Dafoe. «Che bello! che piacere essere intervistata da Vario, Abruzzo in rivista. Sono molto legata alla mia regione, ci torno appena posso. A 13 anni (è nata nel ’75, n.d.r.) mi sono trasferita in un collegio a Losanna. Ho studiato le lingue e ho avuto modo di fare un’esperienza scolastica anche in Australia per via di una borsa di studio. Il mio principale interesse è sempre stato l’arte contemporanea. Sono cresciuta nella campagna di Cappelle sul Tavo e ho avuto modo di osservare da vicino un amico di famiglia, Ettore Spalletti, un pittore ormai noto in ambito internazionale. Mi chiedevo come si potesse riuscire a guadagnarsi da vivere facendo cose così fuori dal comune. Pensavo a mia madre che insegnava (ora si occupa di antiquariato), ai lavori delle persone normali che facevano parte della mia vita, e quello che faceva Ettore mi sembrava straordinario, tanto da pensare che anch’io, un giorno, sarei riuscita a farlo». C’è stato un momento che ha contato più degli altri da questo punto di vista, una specie di fattore scatenante? «Si, una mostra di un video artista americano che amo molto, Bill Viola, a Losanna quando avevo 17 GIADA COLAGRANDE
anni, conosci? (faccio no con la testa). È stata questa la molla, unita alla mia propensione, a farmi realizzare una serie di video su lavori e interventi di diversi artisti contemporanei. Lavorare con le immagini in movimento. Poi è stata la volta di Carneval (1997) il primo cortometraggio in pellicola premiato al Roma Film Festival nel ’98. Dello stesso anno è Fetus. Così è cresciuta la voglia di raccontare storie, senza fretta, l’amore per il cinema ha fatto il resto ed è stata la volta di Aprimi il cuore». Aprimi il cuore (2002) è stato il tuo primo lungometraggio. A Venezia ha suscitato opinioni contrastanti, la critica ti ha elogiata per il tuo stile originale ed estremo e si è augurata di non vederti sparire… «Beh, difatti sono qui (si schermisce ridendo). Aprimi il cuore è stato girato interamente in digitale per ridurre i costi. Una troupe di 5 persone rispetto ai 35 di questo secondo progetto. Ha partecipato a numerosi festival vincendo il Prix de l’Avenir a Parigi nel 2003. Before it Had a Name si può considerare invece un film di famiglia perché è stato realizzato in modo intimo. Scritto a quattro mani con Willem che ha avuto l’idea e mi ha trovata entusiasta. Prende il EFFETTO GIADA
nome da una trasmissione molto popolare negli USA che racconta le cose “prima che abbiano un nome” sottolineandondone l’importanza per comprendere gli eventi ma anche l’impossibilità di definirli totalmente. Per la prima volta, New York mi ha ispirato una storia interessante». Vuoi dire che è una città che ti entusiasma poco? «No, è fantastico viverci, è piena di gente interessante, di cose da fare. Però la storia del film è ambientata in una casa particolare rivestita di gomma nera che si trova nella campagna che la circonda. Questo fa la differenza. La protagonista del film la eredita dal suo maturo amante e lì conosce il custode Leslie (Dafoe) con cui nasce una morbosa intimità. È stata la casa (scovata dal marito) a ispirarmi. Anch’io vivo l’intimità come una cosa estremamente confinata, chiusa in un luogo protetto e angusto. Un bozzolo che mi rassicura e mi fa sentire al sicuro». Come negli anni vissuti a Roma? «Si, a Roma studiavo alla Sapienza e condividevo la casa con Natalie Cristiani, la mia migliore amica (editor del film, n.d.r.). Invitavamo spesso gente a casa a mangiare (cosa che non succede a N.Y. dove, di solito, ti invitano fuori) tenendo la tv
Nelle foto, Giada Colagrande col marito Willem Dafoe, col quale ha scritto e interpretato Before it had a name, sua ultima fatica dopo il successo di Aprimi il cuore (2002); Giada e Willem si sono sposati lo scorso luglio con una cerimonia privata alla City Hall di New York. In questa pagina, un ritratto della giovane cineasta; nella pagina seguente, alcune foto di scena del film.
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«Non voglio fare un cinema che attutisca l’aspetto delle cose, voglio essere diretta, non indolore. Non mi interessa l’intrattenimento spicciolo».
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accesa con relative critiche degli amici che si lamentavano per la mancanza di dialogo. Per me e Natalie faceva tanto famiglia, era davvero intimo e divertente, come non essersi allontanate da casa. Adesso, quando rientro a Roma siamo in tre a condividere la casa. Willem, infatti, ha il mio stesso modo di vivere l’intimità, di sentire il calore dei luoghi». E il modo in cui ti vesti? «Mi sento legata a un’immagine femminile del passato. Nel film la colonna sonora è una canzone di Ornella Vanoni, parla di rimpianti, di nostalgia per il passato. Adoro l’abbigliamento delle donne siciliane degli anni sessanta, un modo di vestire non scontato, fuori dalle regole. Hai presente la Sandrelli in Sedotta e abbandonata? L’ho fatta vedere a Willem nel film e se n’è innamorato. Mi toccherà trovare qualcuno che gliela presenti». Quando ridi sei buffa, e un po’ lo sei anche nel tuo ultimo film. Sei consapevole delle critiche durissime che ti pioveranno addosso per la scena del tampax che lui le sfila con naturalezza prima di fare l’amore? «Mi piace essere buffa, adoro le cose buffe. Quello che conta per me è essere fedele a me stessa. Come quando ti mostri sapendo di avere dei difetti e sai che tutti li noteranno. Nel film sono spesso nuda e, anche se non ho le tette, non mi preoccupa che lo notino gli altri. La scena del tampax ha entusiasmato molte donne per il fatto di aver sfatato un tabù maschile, ponendo l’accento su una prerogativa intima femminile. Non voglio fare un cinema che attutisca l’aspetto delle cose, voglio essere diretta, non indolore. La società tende a minimizzare quello che non è gradevole come gli aspetti morbosi delle cose, le ossessioni. Esistono ammiratori e persone pronte a farti a pezzi, l’ho imparato sulla mia pelle. Non mi interessa l’intrattenimento spicciolo. Penso di essere un giusto miscuglio di vulnerabilità ed esibizionismo». Prima una giornalista ha chiesto a tuo marito com’è avere a fianco una moglie italiana. Sarebbe stato meglio chiedergli com’è avere
una moglie abruzzese… «Già, lui ha capito di che pasta sono fatte le abruzzesi, dice che sono una testa dura. Per rimediare, prossimamente lo porterò a mangiare il timballo dalla mia tata. Io adoro la pasta alla pecorara e lui apprezza molto la nostra cucina. Del resto, la mia famiglia l’ha conosciuta subito e non mancheranno le occasioni per viziarlo». Un’immagine dell’Abruzzo che ti porti sempre in valigia? «Il profilo della bella addormentata». Tempo scaduto, il tè e il pasticcino al burro sono rimasti sul tavolino. Ci congediamo con la promessa, da parte sua, di imparare a fare la pasta e il rimpianto, da parte mia, di una conversazione sorprendente che sembra essere durata troppo poco.
GIADA COLAGRANDE
Michele Buracchio Dal quotidiano della sinistra extraparlamentare, Lotta Continua, a Il Foglio, ideato da Giuliano Ferrara, l’extrasize del giornalismo nell’era berlusconiana. Un percorso senza pregiudizi condito con olio extra sincero.
La passione per l’extra di Sergio D’ Agostino foto Claudio Carella
n Abruzzo sono rimaste un bel pò di amicizie, come quella con l’ex rettore dell’ateneo teramano Luciano Russi, e il lascito di rapporti familiari legati a un cognome, Buracchio, che nel bene e nel male ha segnato un lungo pezzo della storia politica regionale. Della giovinezza divisa tra Chieti e Pescara, prima, Roma poi, riaffiora senza i postumi della malattia nazionale, il pentimento, la foto di gruppo della militanza nella formazione più controversa della sinistra estrema italiana, Lotta Continua. Oltre al gusto un po’ retrò delle cene del buon ricordo con gli ex compagni di liceo. Il presente ha invece altri segni: quello forte e indelebile del sodalizio professionale (e umano) con Giuliano Ferrara, in tutti i sensi il più extra size tra gli intellettuali vicini al centrodestra e la “scelta di campo”, per dirla con Silvio Berlusconi, maturata proprio in coincidenza con la discesa in politica del Cavaliere all’inizio degli anni Novanta. Michele Buracchio ha cinquantuno anni, occhi mobilissimi e vivaci dietro gli occhiali, la passione per la vela, uno sport figlio del vento. Il suo nome sono forse in pochi a ricordarlo, senza sentire il bisogno di doversi fermare un attimo a frugare nelle memorie giovanili, nell’album di famiglia di quella che fu, sembrò, si convinse di essere, la meglio gioventù. Dall’Abruzzo se n’è andato a metà degli anni Settanta, là dove lo portò il cuore, che era poi il progetto politico di un gruppo, Lotta Continua, dove comunque la si pensi il nome dei dirigenti basta a far comprendere quale fosse il contesto: Gad Lerner, Adriano Sofri, Luigi Manconi, Marco Boato, Enrico Deaglio. In Abruzzo, dove adesso ritorna di tanto in tanto, sono in pochi a sapere che insieme a Giuliano Ferrara, forse il meno conformista, di certo il più pirotecnico (o immaginifico, come direbbe l’interessato) tra gli intellettuali del centrodestra italiano, poco meno di dieci anni fa ha fondato un quotidiano, Il Foglio, di cui ora è direttore generale. Quella di Michele Buracchio, giornalista prestato alla poltrona da manager, è una strada che forse vale la pena ripercorrere proprio partendo dal cognome. Un cognome che all’inizio degli anni Settanta, in piena bagarre per la scelta del capoluogo di Regione, portò una famiglia, la sua, a traslocare per motivi politici da Chieti a Pescara: «Mio padre Nicola era stato sindaco di Chieti. Insieme al collega pescarese Antonio Mancini rappresentava l’anima più intraprendente di una Dc di stretta fede gaspariana. Nel ’68, molti pensarono che quell’esperienza dovesse trasferirsi anche a Roma: mio padre doveva candidarsi alla Camera, ma un intervento di Gaspari lo escluse
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«Dell’esperienza di Lotta Continua resta lo spirito indipendente, non convenzionale, i rapporti trasversali. È stata una comunità di “irregolari”, sia per quanti hanno confermato un’appartenenza alla sinistra, sia per gli altri».
Nelle foto di queste pagine, Michele Buracchio scherza con il suo giornale.
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dalla lista, all’ultimo istante. Fu un caso clamoroso, il partito non fece in tempo neppure a raccogliere le firme per presentare un altro candidato. Dopo quella delusione pensò di lasciare, ma l’amicizia con Mancini lo convinse a ritentare la strada della politica a Pescara. Fu così che ci trasferimmo: mio padre fu eletto e divenne capogruppo in consiglio comunale, ma dopo un paio d’anni abbandonò definitivamente». In una famiglia che mangiava pane e politica, in cui un nonno materno era stato eletto nelle file del Msi nel primo consiglio regionale («La sua, a Chieti, era stata una famiglia molto influente negli anni del fascismo») ed in cui un cugino avrebbe ricoperto molti anni dopo la carica di primo cittadino di Chieti in una stagione tutt’altro che indimenticabile, il giovane Michele incontrò la politica in versione studentesca. L’eskimo e il volantino, il pane e le rose: «Allo Scientifico c’era un collettivo molto attivo, con me c’erano Gianni Melilla e Roberto Di Vincenzo. Quando quell’esperienza finì mi trasferii a Roma per continuare a fare politica: c’erano diversi gruppi strutturati, e c’era soprattutto Lotta Continua in cui militavo. Facevo parte della commissione studenti, con Gad Lerner, Luigi Manconi e tanti altri personaggi. Non feci in tempo ad arrivare, che il movimento politico decise di sciogliersi. Era novembre del 1976: restò il giornale, e quelli come me che avevano pensato di fare cose diverse nella vita, si ritrovarono giornalisti». Non tutti i mali vengono per nuocere: «Il giornale seguitò le pubblicazioni per diversi anni, ma nell’82 chiuse definitivamente. Fu una bella scuola, perché nei giornali piccoli si scrive a tutto campo, si impara parecchio e presto». Il primo incontro con Giuliano Ferrara data il 1985: «Lo conobbi con la nascita di un giornale che si chiamava Reporter: uscì per un anno, diretto da Enrico Deraglio, un po’ di vecchia Lotta Continua e uno sponsor che si chiamava Claudio Martelli. Dal punto di vista economico non funzionò, chiuse un anno dopo; dal punto di vista giornalistico fu invece un’esperienza molto interessante. Da lì mi sono spostato all’Ansa, prima di approdare tre anni in Sardegna come capo redattore dell’Unione Sarda. Poi arrivò il momento delle decisione, e preferii tornare a Roma». Il rientro sulla piazza romana si colora di un’esperienza televisiva («Una serie di Mixer con Giovanni Minoli»), ma soprattutto del nuovo, decisivo incontro con il Ferrara dalle bretelle rosse. Insieme, bruciata la breve stagione del primo governo Berlusconi, cominciano a lavorare al PERSONAGGI
progetto del Foglio quotidiano: «Ferrara voleva uno schema diverso dal solito. Un giornale molto sintetico, una scelta di impaginazione ispirata al Wall Street Journal, una redazione scarna. Cinque o sei giornalisti non impegnati direttamente nella scrittura, tanti collaboratori esterni scelti tra personaggi da scoprire, ma anche esperti, professori. Non possiamo permetterci di inseguire un giornalista tutta la vita, abbiamo necessità di formarlo. È la formula che da duecento anni applica l’Economist: noi debuttammo a gennaio del ‘96 nelle edicole, sono passati dieci anni ed eccoci ancora qua». Della nuova creatura, Buracchio è un po’ padre, un po’ madre: «A metà strada, avendo il giornale deciso di organizzarsi su basi proprie, e date anche le mie origini non strettamente giornalistiche, ho finito per fare il direttore generale. Di cose redazionali mi occupo poco ora, anche se all’inizio ho dovuto pensare anche al format, ai modelli grafici. Il giornale è cresciuto, anche se resta piccolo, con un giro da 10 milioni di euro. Un’idea va costruita, ma poi devi trovare i mezzi: oggi Il Foglio è una via intermedia tra la formula iniziale e il classico giornale». Da Lotta Continua, movimento politico e giornale, al Foglio di Ferrara. Ma la contraddizione, per chi MICHELE BURACCHIO
volesse cercarla, è solo apparente: «La mia militanza non nacque e non fu vissuta come contrapposizione alla famiglia. Mio padre era un uomo sui generis, ci accreditava tutta la libertà possibile, credo che l’ultima volta abbia perfino votato il partito radicale. Dopotutto, al collettivo studentesco veniva anche il figlio di Mancini…». Lo stesso vale per la politica e i suoi percorsi, nonostante i leader amici di un tempo, i Lerner, i Manconi, i Sofri, i Boato abbiano fatto scelte opposte. Però, forse proprio perché tra i segni particolari di quel gruppo irripetibile che fu Lotta Continua, il “personale” e la “politica” intrecciarono tra loro fili strettissimi, fin quasi a confondersi e fondersi, qualche tratto comune è rimasto: «Lo spirito indipendente, non convenzionale e i rapporti trasversali. Manconi sul Foglio ha una rubrica dove fa le pulci al Giornale, Sofri ne ha una sua da quando è in carcere. Andrea Marcenaro e Carlo Panella vengono da quella stessa esperienza: Lotta Continua resta una comunità di “irregolari”, sia per quanti hanno confermato un’appartenenza alla sinistra, sia per gli altri». Architrave dell’esperienza umana e professionale resta l’incontro con Giulianone Ferrara. Il profilo che ne traccia Buracchio sorprenderebbe chi si accontenta dell’iconografia ufficiale: «Ha la VARIO56
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«Mio padre Nicola era stato sindaco di Chieti. Insieme al collega pescarese Antonio Mancini rappresentava l’anima più intraprendente di una Dc di stretta fede gaspariana» 28
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psicologia dell’artista, ha l’idea e la realizza. Può sembrare egoista, al contrario è pronto ad ascoltare, anche se lì per lì non lo ammetterà mai. Non è elitario, non si dà arie: chiunque dopo un paio di giorni può ritrovarsi a fare cose importanti e di fiducia con lui. Ogni tanto, scherzando, mi rinfaccia “ecco sei un abruzzese” perché non gli do ragione». Della sua creatura giornalistica, Ferrara non è detto non voglia affrancarsi un giorno o l’altro, coltivando in questo la stessa aspirazione di Michele Buracchio: «Ho cambiato tante volte, dopo tanti anni mi piace farlo ancora, anche se ho battuto ogni record rimanendo dal ‘98 al 2005 a fare lo stesso lavoro. Giuliano vorrebbe che Il Foglio diventasse sempre più autonomo e capace di vivere senza di lui, meno dipendente dalla sua presenza e dalla sua figura, anche se ora è difficile anche solo da immaginare». Giornale controverso, ruvido, con quella sua grafica “tutto piombo”, Il Foglio targato Ferrara & Buracchio sembra nato per dividere. I detrattori lo bollano come organo ufficiale del neo-conservatori all’italiana, argomento che forse rappresenta per gli estimatori la miglior ragione per l’acquisto in edicola. Insomma, l’essere in Italia quel che negli Usa il lessico della politica ha ribattezzato neo-con o neo-conservatives: «Il Foglio però c’era già quando la stagione neo-con è diventata nota anche da noi. È vero che noi li abbiamo fatti conoscere in Italia, però i neo-con stanno in America. Hanno dato il loro contributo a una presidenza Usa, ma è parola che abbraccia molte cose». A complicare il quadro ha contribuito il referendum recente sulla procreazione assistita, e la discesa in campo di Ferrara con il fronte antiabrogazionista: da neo-con a teo-con, ateo devoto o qualcosa di simile. Ribatte Buracchio: «Ferrara quella posizione l’ha presa da un punto di vista laico, non religioso. Una questione di valutazione sulle conseguenze etiche di queste tecniche. Naturalmente si è trovato in totale accordo con la Chiesa, che partendo da presupposti diversi sosteneva la stessa posizione. Certo, poi al Meeting di Cl è intervenuto anche sull’aborto, ma anche su questo le sue posizioni non partono da presupposti religiosi. Le sue opinioni sono le sue, come le mie possono essere le mie: il giornale è un cantiere aperto, c’è un po’ di tutto, non una posizione definita una volta per tutte». Ed eccoci a Berlusconi: «Prima delle Europee ho detto che l’avrei votato perché “quelli che vengono
dopo non mi piacciono”. La mia scelta l’ho fatta all’inizio degli anni Novanta, all’epoca di quello che viene comunemente chiamato giustizialismo. I giochi non erano più fatti da una politica in crisi e in grave difficoltà, ma da poteri estranei, le procure. Forse in questo avrà anche influito la mia formazione precedente: mi era difficile immaginare rapporti non conflittuali con i giudici. Per questo vedo una continuità della mie posizioni. Ora il tema si è in parte attenuato, pure tra mille difficoltà la politica si è ripresa i suoi spazi, ma a stabilire a chi vada l’Antonveneta è stato il tribunale di Milano e non il mercato. Ero con una troupe della tv quando al Rafael di Roma ci furono le famose monetine contro Craxi. Lì vicino faceva un comizio Rutell. Disse “Quello lì lo voglio vedere in galera a pane e acqua”, ma parlava di uno con cui aveva avuto ottimi rapporti anche personali. Lì maturò un giudizio negativo su questo miscuglio tra procure e una sinistra che ci marciava». Dunque, la discesa in campo del Cavaliere è «un merito oggettivo, una funzione storica anche se con il tempo l’uomo ha rivelato i suoi limiti. Resta il fatto che una sinistra credibile non ancora la vedo, forse ci vorranno ancora un paio di giri». Di mettersi in proprio, in politica, però neanche ci pensa: «Dalla fine dell’esperienza del quotidiano Lotta Continua nulla più. Ho seguito il movimento del ’77, ma il finale ha portato alcuni a lasciar perdere, altri su posizioni pericolose e inaccettabili». Di destra e sinistra, allora, cosa resta? «Non mi voglio avventurare in definizioni. Se si tratta di andare a votare, negli ultimi anni ho votato per lo schieramento di centrodestra, nelle prossime elezioni forse ancora perché sono favorevole alla riduzione delle tasse, ad alleggerire lo stato sociale e quant’altro. Certo, all’epoca sostenevo il contrario, su questo avevo una posizione che si è rivelata sbagliata». Del suo Abruzzo, delle sue città, tratteggia un giudizio che si nutre di frequentazioni rare, ma si arricchisce di confronti maturati girando in lungo e in largo l’Italia: «Tra le due città c’è molta più integrazione, da ragazzo si andava a Pescara da Chieti. Pescara sembra sempre la stessa, in apparenza é Chieti ad aver vissuto più modifiche. La regione, benché sia piccola, é di grande vivacità. Mi è capitato di girare, di vivere a Milano ma anche di stare in Sardegna, che è una regione che pure ha avuto il suo sviluppo: ma qui c’è maggiore vivacità. Da giornalista ho girato il sud e il nord, qui c’è una vivacità superiore alla media».
PERSONAGGI
Ben Pastor
Sweet, my sweet Abruzzo
Dal Vermont agli Appennini, il percorso di una scrittrice americana alla ricerca delle proprie origini italiane guidata dal suo eroe letterario.
di Marco Patricelli foto Claudio Carella
La storia e la fiction in un intreccio avvincente, tra la riscoperta delle radici e i convulsi giorni di guerra. Il giallo del carteggio Mussolini-Churchill con lo sfondo del Gran Sasso e un nobile investigatore con la divisa della Wehrmacht.
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’ombra del Gran Grasso l’ha raggiunta fino alle montagne del Vermont e il richiamo della roccia abruzzese ha fatto breccia nel suo alter ego letterario. Martin Bora è la “creatura” di Ben Pastor: lui, ufficiale della Wehrmacht che cerca di attraversare le lordure della seconda guerra mondiale senza macchiare la divisa; lei, scrittrice di successo, americana di formazione e italianissima di nascita. Il quinto romanzo del ciclo di Martin Bora è un ritorno alle origini per Maria Verbena Volpi, alias Ben Pastor, di padre abruzzese e radici a Bisenti. Ma sarebbe semplicistico e riduttivo confinare l’indagine del tenente colonnello Bora, in Il morto in piazza, come una sterzata verso il vissuto conscio o inconscio dell’autrice, anche se è lampante quanto la finzione sia il riflesso del vero: un ritorno al passato, o forse a un presente in cui conta più l’essere che l’apparire. Ben Pastor non ha davvero nulla degli stereotipi che sedimentano attorno agli intellettuali. Semplice e diretta nei modi, di un’affabilità quasi fuori dai tempi, quasi non diresti di avere di fronte un’apprezzata docente universitaria e scrittrice di best seller di cui parla la stampa di mezzo mondo; poi la senti parlare, in quell’italiano fluente ed elegante con un vezzoso quanto impercettibile accento americano, e capisci come una persona straordinaria possa mantenere un alto senso della spontaneità e della genuinità pur veleggiando nei quartieri alti della cultura del Nuovo e Vecchio mondo. E capisci anche perché il suo eroe di carta, Martin Bora, faccia l’impossibile per tenere alti i valori dell’umanità durante un conflitto che è riuscito a
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farli sprofondare nell’abisso di orrori fin allora inauditi. La scelta dello scenario abruzzese non è un caso, ma neppure uno snobismo tanto per collocare l’azione lì dove nessuno aveva mai pensato di fare, superando persino il luogo comune che vuole l’Abruzzo del ‘900 come quello focalizzato secoli prima da Boccaccio: irraggiungibile e lontano da tutto. Il morto in piazza è invece un altro importante sipario che si apre sulla storia di una regione che, per il pudore e la capacità di sopportazione della sua gente, ha anestetizzato i disastri imposti dal secondo conflitto mondiale in una terra di per sé aspra, annichilita dalle distruzioni, dalle battaglie e dalle stragi che nella grande storiografia sono o ignorate o sminuite. Un paradosso, se solo si pensa a cosa e a quanto accadde in Abruzzo nel periodo 1943-44: la fuga del re Vittorio Emanuele III e di Badoglio a Ortona e Pescara, la liberazione di Mussolini dall’albergo-prigione di Campo Imperatore, la prima battaglia campale tra tedeschi e partigiani a Bosco Martese, la rivolta di Lanciano, le sanguinose battaglie del Sangro e del Moro, l’epopea di Ortona, gli eccidi di Pietransieri, Onna, Filetto, e quella meravigliosa e unica esperienza di riscatto e di idealismo che è racchiusa dalla vicenda della Brigata Maiella. Fino alla liberazione, nei giorni convulsi della presa di Roma e dello sbarco in Normandia, ai primi di giugno del 1944. Sono proprio questi i giorni frenetici nei quali Martin Bora dalla Capitale è inviato d’urgenza in missione a Faracruci, paesino immaginario in un contesto storico reale ed esatto, per quella che a Hollywood avrebbero chiamato SWEET, MY SWEET ABRUZZO
ante litteram “mission impossible”: recuperare il carteggio tra Mussolini e Churchill, affidato dall’ex duce durante la detenzione sul Gran Sasso a un suo ex amico da lui stesso mandato al confino per antifascismo, l’avvocato Borgonovo. Quei documenti sono una bomba a orologeria, pronta a esplodere appena qualcuno potrà metterci le mani sopra. La stessa storia dovrebbe essere riscritta, e per l’Italia sarebbe un disastro nel disastro. L’Abwehr dell’ammiraglio Wilhelm Canaris –che storicamente finirà impiccato per la partecipazione all’attentato a Hitler del 20 luglio 1944 del conte Claus von Stauffenberg, cui Ben Pastor si è espressamente ispirata per disegnare il suo ufficiale-investigatore– manda Bora non solo a recuperare e distruggere quelle carte, ma anche a eliminare l’ultimo testimone. Pure le SS, che dei servizi segreti dell’Abwehr e dello stesso Bora non si fidano più ormai da tempo, devono essere tenute lontane da quello scomodissimo scambio di lettere tra Roma e Londra mentre le due nazioni si fanno la guerra, una al fianco di Hitler l’altra a difesa della libertà. Sembra tutto troppo semplice, ma se così fosse non saremmo di fronte a un mistery di qualità: un cadavere viene simbolicamente lasciato nella piazza di Faracruci, e quel corpo senza vita fa riaffiorare un altro fatto di sangue accaduto un quarto di secolo prima, concatenando gli eventi. L’aristocratico tenente colonnello, proiettato in un paese che ha vissuto davvero al di fuori della realtà, dove persino la lingua parlata dalla povera gente risulta incomprensibile, agisce, riflette e ragiona lottando contro il tempo. Bora non è Sherlock Holmes con la BEN PASTOR
divisa della Wehrmacht, non è il nobile annoiato che si dedica a risolvere un enigma, non è quella “macchina da guerra”identificata dall’uniforme: è un uomo che non esteriorizza le emozioni che pure prova, e che lo mettono alla prova in ogni gesto e in ogni azione. È anche un uomo colto, che discerne il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, che conosce i classici e il peso dell’esilio e della lontananza dagli affetti, tematiche senza tempo e senza luogo.Tra Borgonovo e Bora, a loro modo attratti dall’idem sentire, scatta allora una singolare alleanza tacita alla ricerca della verità. Quella assoluta, che martella la coscienza dell’ufficiale lacerata tra senso del dovere e senso etico. Ma è sicuramente più facile sciogliere un mistero intricato come quello del morto in piazza, che trovare in se stessi il bandolo della matassa. L’autrice disegna personaggi e situazioni su un tessuto narrativo in cui gli uomini e la natura “respirano”la storia vissuta e l’incalzante trama di fantasia. Lo stile della scrittrice rispecchia peraltro il modo d’essere di Ben Pastor, con la sua garbata immediatezza e l’abilità nel rendere lampanti anche i concetti più complicati; il mistery è di conseguenza meticolosamente assemblato come un meccanismo a orologeria, quindi smontato ingranaggio dopo ingranaggio, pagina dopo pagina, fino a disvelarne il cuore pulsante, quello che ne scandisce i momenti più alti. Un avvincente gioco di ombre e luci, ma comunque un gioco di gran classe come solo una “signora in giallo”sa servire sul tavolo letterario. Marco Patricelli
Nelle foto, la scrittrice Ben Pastor, al secolo Maria Verbena Volpi. Nata in Italia e laureatasi a Roma, insegna Scienze Sociali alla Norwich University. Qui sopra, la copertina de Il morto in piazza (Hobby&Work, pp. 328, euro 17.50) il suo ultimo romanzo. In precedenza ha pubblicato Lumen, Luna bugiarda, e La canzone del Cavaliere, fortunatissimi thriller sullo sfondo della Seconda Guerra Mondiale, ed è autrice de I misteri di Praga, magistrale omaggio “in giallo” alla cultura mitteleuropea di Franz Kafka e Joseph Roth. Nel 2003 è stato pubblicato Kaputt Mundi, quarta avventura dell’ufficiale tedesco Martin Bora.
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Albano Paolinelli
Artista senza frontiere Insegnante carismatico, pittore innovativo, scenografo ricercato e iperattivo operatore d’arte. Una lucida creatività ne completa la personalità d’artista dall’infinita voglia di rinnovamento.
di Annamaria Cirillo foto Silvia Jammarrone
Nella pagina precedente : un ritratto di Albano Paolinelli.
In queste pagine, da sinistra: La rosa rossa (1992), Esterno con figura (2000), Frammento di pittura - Cinema (1992); Donna in giallo (2000), Dalla città (2000), Dalla città (1999).
Nella pagina a fianco: due foto con Andrea Pazienza suo allievo al Liceo Artistico di Pescara.
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n artista completo, innovativo, Albano Paolinelli. Anticonformista ed anticonvenzionale, vero protagonista eclettico del mondo dell’arte d’Abruzzo, sempre disponibile e tanto amato da tutti i suoi studenti. Proprio da questo suo modo di essere cominciamo a dir di lui e della sua arte partendo non dagli antefatti ma da alcune conclusioni. La prima è che, nel suo credo, ogni tipo di ordine precostituito può essere sovvertito al fine di portar “oltre” un coinvolgimento mentale, sfrondandolo da qualsivoglia convenzione e retorica. Purchè il messaggio dell’arte scorra fluido e diretto, comunque rinnovato e profondo,
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“reale” della struttura di ogni cosa, manufatto o evento, che il tempo ricopre e mistifica nella materia e nell’anima e che è da riportare alla luce per poter riafferrare il senso di una realtà da vivere. Tutto il suo operare appare insegnamento di vita nell’arte. Anche le nozioni della realtà che noi traiamo dalla vista di un quadro di Albano Paolinelli non vanno a beneficio di una realtà generale ma del valore dell’arte specifica in sè: dalle sue pitture “frammentate” traiamo il mutevole divenire della realtà ed impariamo a gustare l’arte quasi senza rendercene conto, avvicinando ad essa la nostra sensibilità senza doverla piegare a schemi cognitivi o
espandendosi con ogni mezzo, anche frammentato e ricostruito come interiore variazione di note di una bella sinfonia che a tratti il vento ricrea e porta lontano. Le sue opere sono “…vita contemporanea di immagini, di cose, di natura, di protesta, di storia, di disagio e solitudine” ma anche di luce e di poesia, talora racchiuse in una rosa rossa o in un cielo stellato di una notte di San Lorenzo. L’intensa personalità di Paolinelli è in stretto connubio con il suo fare arte e appare come una felice ed intelligente coniugazione degli opposti. Riservato, raffinato, sensibile e prudente quanto deciso, razionale, determinato e vivamente polemico nella difesa dei diritti e delle sue certezze. Gran corredo per una vita da passare a far arte a tutto campo perchè quando un’idea non basta “dipingerla” egli l’opera se la “costruisce”, come un’artigiano che sa il suo “mestiere”, che ha conoscenza dei materiali e padronanza degli strumenti a disposizione –le sue mani prima di tutto!–, per riuscire a creare su un palco, con sudore e fatica, una scenografia della sua arte. Il fine non cambia e sta nella ricerca dell’origine
linguistico-esplicativi propri della cosiddetta “realtà sensibile” (che gira e rigira è sempre economica e classista e “già stata”). Arricchiamo invece in maniera innovativa l’orizzonte della nostra realtà stando dentro l’arte o nel suo operare nell’arte con ogni strumento-oggetto possibile, percependola come “moto in corso d’opera” e “possibile nuova identità”, non già giudicandola da una precostituita nostra postazione di certezza stanziale.Tale riconduzione al senso dell’immagine della realtà rimette in discussione tutto il nostro modo di concepire e leggere un’opera.Tale è il suo insegnamento e a questo subito si abbina il grande nome di Andrea Pazienza, cantatore di storie che se n’è andato subito in un’altra storia. Albano Paolinelli così ce ne parla: «Posso dire con soddisfazione di aver collezionato studenti forniti di grande personalità, capacità ed interesse nei confronti dei vari sbocchi creativi che il Liceo offriva; tra questi Andrea Pazienza. Cosa dire di Andrea? Una forza della natura! Un ragazzo dalle capacità non comuni, intelligente e attento osservatore che, nonostante la giovanissima età, aveva una buona cultura e mostrava già maturità ARTE
e grande professionalità. Genio e sregolatezza. Cosa mi resta? La rabbia di aver perso questo grande interprete del nostro tempo, più che uno studente, un amico, un ragazzo che mi aveva fatto anche divertire con il suo modo di relazionarsi con gli altri compagni di scuola e con il suo insegnante, anche attraverso il continuo ricorso a citazioni e presenze di me nelle sue storie pubblicate, vissute sul piano del ricordo e della fantasia, suggellando così la reciproca stima ed affetto». Questa è stata la vita da insegnante di Albano Paolinelli, percorsa in parallelo ad una vita da artista, che ha espresso sempre l’avvicendarsi di momenti ideativi e sociali contemporanei, sino ai suoi
artistica di Angelo Valori. Alcune serate sono divenute storiche come quella dell’edizione ‘87, in cui la grande Irene Papas, accompagnata al pianoforte da Mimis Plessas si esibì nel recital Poesia nel canto, sotto la regia di Iannis Diamantopulos. La grande attrice, giunta il giorno prima, era rimasta affascinata dalla cittadina di Spoltore e dal panorama di tetti che sotto le luci avrebbe fatto da sfondo al palco. Disse che per quella serata particolare avrebbe indossato un manto tutto d’oro e appena accennò all’opportunità di un riferimento dorato sulla scena. Paolinelli non ci pensò due volte. Senza dir niente a nessuno lasciò tutti e scappò via a cercar da ogni
ultimi attuali lavori (pitture, allestimenti, scenografie; tra queste, quella per il Don Chisciotte di Luciano Paesani).Volendola definire in sintesi questa bell’arte, così operativa, viva e contemporanea, occorre trarne gli assunti più identificativi e basilari quale il razionale e creativo procedere ad una frammentazione e ricomposizione di immagini da rielaborare in una diversa idea di realtà e il forte carattere dello spaziopittura: spezzature tra interni-esterni, sprazzi di luce strisciata su immagini azzurrate, una sedia bianca, una porta, un cubo, apparizioni di un unico organismo ricomposto. Già da questi assunti Albano Paolinelli può considerarsi un artista molto significativo della nuova immagine innovativa italiana, sicuramente il più innovativo in Abruzzo. E poi c’è (e come si è accennato c’è sempre stato), l’Albano scenografo ed anche “artigiano dell’arte”, che per 20 anni (1983-2003) ha operato all’interno dello Spoltore Ensemble a fianco di William Zola e del direttore artistico Federico Fiorenza, e che nel 1984 ne ha anche creato il logo, mentre nel 2004 e 2005, nominato Presidente dell’Ente Manifestazioni Spoltore Ensemble, ha curato personalmente la manifestazione, con la direzione
parte quanta più vernice d’oro possibile (fece riaprire anche un negozio). Quando tornò già s’era già fatta notte e chiese aiuto all’ultimo operaio rimasto. Questo gli rispose:“Ma tu sei matto!”. Lavorò da solo, tutta la notte all’aperto, fischiettando sotto le stelle per farsi compagnia. Pensò anche di costruire una scalinata sotto al palco che avvicinasse di più la diva al pubblico. A mano segò le assi, le inchiodò, smussò gli angoli perchè venisse un lavoro perfetto e poi, pazientemente con un rullo ed un pennello passò a verniciare d’oro tutta la scala ed il palcoscenico. Man mano che il lavoro procedeva se ne sentiva più entusiasmato e gli sembrava che la fatica svanisse perchè già alla sola luce della luna l’effetto era spettacolare. Al mattino il suo lavoro era finito, il palco era degno della dea. A sera, sotto le luci, quello spettacolo di Irene Papas divenne indimenticabile. Questo è Albano Paolinelli. L’impegno e la sua creatività fanno ipotizzare un “continuum” in crescendo di questa manifestazione estiva. A questo punto e con tali premesse, una nuova storia di Albano è tutta ancora da scrivere. Ma già intuiamo quanto ci coinvolgerà.
ALBANO PAOLINELLI
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La pubblicità in Abruzzo 3 MIRUS
La fabbrica della qualità Il brillante percorso dell’agenzia fondata da Michele Russo tra comunicazione, formazione di manager e campagne elettorali in puro stile stelle e strisce. Una carriera “meravigliosa”. di Sergio D’Agostino foto Silvia Jammarrone
Nella pagina a fianco, il fondatore di Mirus Michele Russo. Sotto il titolo, quattro campagne pubblicitarie curate da Mirus: Itali Airlines, Proel, MicroNet e Emas.
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n gergo si chiama certificazione di qualità, anche se al secolo è conosciuta con un nome che sembra uscito dalla mente di Eta Beta:“Uni En Iso 9001:2000”. È un traguardo prestigioso per qualsiasi azienda produca pasta o laterizi, progetti autostrade o navighi in rete: figurarsi per chi campa di comunicazione. Storia della giovane “Mirus & Company” di Pescara, compagnia nata nei primi anni Novanta, che a dispetto dell’anagrafe (negli uffici di corso Vittorio Emanuele la carta d’identità più diffusa è largamente “under 40”) è riuscita ad anticipare la concorrenza, diventando una sorta di pioniere proprio in fatto di certificazione di qualità. Ma se la qualità è il biglietto da visita dell’agenzia, anche il nome merita un supplemento di attenzione. Mirus è infatti un piccolo rebus: l’ufficialità dei testi e la patina delle brochure si ostina a negare quello che ai più sembra evidente, ovvero il legame tra l’acronimo e il nome del suo Pigmalione, preferendo piuttosto indugiare sulle origini latine. Dove all’aggettivo “mirus” si
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attribuisce il significato di qualcosa che sta a metà strada tra il “meraviglioso” e il “mirabile”, il “sorprendente” se non addirittura lo “straordinario”. E perché no, perfino lo “strano”. Dato un nome alle cose, a spiegare la filosofia del team che fa sfoggio di qualità e promette cose mirabili è proprio il fondatore dell’agenzia, Michele Russo, che ricorda le diverse tappe del suo gruppo: «La certificazione di qualità, che abbiamo ottenuto nel Duemila, suggella un percorso nato mettendo a punto una filosofia e un metodo tutti nostri, che rispondono a un preciso credo instaurato in agenzia. Alla nostra filosofia aziendale abbiamo dato un nome, ”Penta star-Mirus”, che coincide con l’impegno di applicarla in ogni progetto sotto il profilo stretegico, creativo, comunicativo, innovativo e professionale. Lo stesso vale per il metodo “creAttive Oriented”: un nome che racchiude il dosaggio giusto tra aspetti operativi e produttivi, strategici e creativi. Il tutto senza mai perdere di vista il controllo delle fasi, dei tempi e delle procedure studiati con e per il cliente, perché LA PUBBLICITA’ IN ABRUZZO/3
«La nostra clientela al 95 per cento è rappresentata da aziende private, naturale conseguenza del nostro essere per loro più che un consulente un vero e proprio partner d’impresa».
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più che uno stile dell’agenzia, esiste uno stile del cliente. A volte non riesco a entrare nella mentalità di colleghi che vogliono imporre la loro visione, cucire addosso al cliente abiti che non vogliono indossare. Magari saranno anche belli, ma non sono i loro». L’agenzia di corso Vittorio Emanuele, in sostanza, ha finito per applicare alla comunicazione, con il suo “creAttive Oriented” quel che a metà dell’Ottocento uno dei padri del Risorgimento italiano, Giuseppe Mazzini, tradusse nella indimenticata massima “Pensiero e azione”. Risolto il problema della paternità, lo schema adottato torna ancora utilissimo nella società della comunicazione globale dell’era post-industriale. Dice Russo: «Lo abbiamo studiato per raggiungere l’eccellenza dei risultati: perché prima pensi, seguendo uno schema e fasi codificati, poi passi all’azione e alle soluzioni operative vere e proprie. Infine, controlli i risultati conseguiti: verifichi cioè se alla fine del percorso intrapreso siano state rispettate le premesse iniziali, e soprattutto se gli impegni presi con il cliente siano stati mantenuti». La sua filosofia mazzinian-postindustriale, l’agenzia pescarese ha finito per applicarla come una sorta di schema calcistico. Un “4+1” in cui ai Buffon, Totti, Adriano, Kakà e Vieri di turno del rettangolo verde, Mirus ha sostituito il campionario della comunicazione full optional: marketing, pubbliche relazioni, eventi, advertising. Con in più, il valore aggiunto delle attività di formazione: una sorta di centravanti di sfondamento, per restare alle metafore calcistiche, che la società di comunicazione di Michele Russo ha affidato a una costola aziendale, la “Punto Alto”, e ad un’allenatrice (pardòn: una manager) che si chiama Monica Astrologo. Un cognome che sembra studiato apposta per guardare lontano, forse con quello stesso binocolo che l’agenzia, a Natale del 2004, ha donato ai suoi clienti: quasi a simboleggiare l’ambizione –come recita la prima pagina del testo di presentazione del gruppo– di «vedere oggi ciò che i vostri clienti vedranno domani». Proprio grazie a “Punto Alto” Mirus è riuscita a inserirsi nel ricco business dei corsi di formazione manageriale, dell’aggiornamento di tecnici ed amministrativi, nelle complesse strategie dell’organizzazione aziendale, dei sistemi di qualità ed efficienza, dei modelli di gestione e di sviluppo delle risorse umane, di selezione del personale. Insomma, tutto
quanto contribuisce oggi ad accrescere la capacità di competere di un’azienda. Mirus –e siamo così all’albero genealogico dell’agenzia– nasce dalla trasformazione in farfalla dai colori accesi di una precedente crisalide: ovvero, la società che lo stesso Michele Russo, oggi quarantenne presidente regionale dei giovani di Confindustria con ampio curriculum all’interno di importanti consigli di amministrazione come AirOne, aveva fondato nell’86 appena diciannovenne. Una società dalla mission più limitata dell’attuale, dedicata com’era soprattutto alla promozione di eventi. Oggi, invece, sui due piani occupati dall’agenzia nel grattacielo di corso Vittorio Emanuele che si affaccia su piazza Duca d’Aosta, lavorano una quindicina di professionisti equamente divisi tra reparto creativo, divisione marketing, organizzazione di eventi, formazione. Forte di una clientela che «al 95 per cento è rappresentata da aziende private, naturale conseguenza del nostro essere per loro più che un fornitore di servizi un vero e proprio partner d’impresa», nel curriculum e nella storia dell’agenzia resta tuttavia ben impressa un’importante stagione dedicata alla comunicazione politica. Diverse e fortunate campagne hanno infatti portato indelebile il marchio di fabbrica del team Russo, catapultando in terra d’Abruzzo, e non solo, uno spicchio di campagne elettorali in puro stile “stelle e strisce”. Così, nella galleria dei clienti vecchi e nuovi, spiccano i nomi di sindaci ancora in carica (Emilio Floris a Cagliari) o di ex primi cittadini, come il pescarese Carlo Pace, che la loro corsa hanno vinto anche grazie all’accorta regia delle campagne dell’agenzia. Al nome dell’ingegnere che nel ’94 conquistò il timone del palazzo di città pescarese, per poi confermarsi cinque anni dopo, si lega uno dei ricordi più significativi di questo spicchio di storia del gruppo, senza nulla togliere ad altri nomi prestigiosi passati di qui, come Luciano D’Alfonso e Ottaviano Del Turco, Umberto Aimola o Carlo Masci: tutta gente che alla terapia Mirus ha affidato le proprie speranze pre-elettorale. L’allora già quasi sessantenne ingegnere pescarese, per molti era davvero una specie di “signor nessuno”, un soggetto da inventare (sul piano comunicativo) visto che alla politica che conta non s’era mai affacciato prima se non da qualche spioncino LA PUBBLICITA’ IN ABRUZZO/3
secondario: eppure, la cura-Russo seppe plasmare dal professionista digiuno di politica un comunicatore tutt’altro che disprezzabile, e una più che discreta macchina da voti. «E cinque anni dopo, nella corsa per la rielezione, stupimmo un po’ tutti piazzando un sindaco in carica sui manifesti, ritraendolo al timone di una barca a vela. Volevamo proporre l’idea di una città in piena corsa, con il vento in poppa: ci riuscimmo in pieno e lui fu rieletto» ricorda ora Russo con malcelato distacco. Alla comunicazione politico-istituzionale, Mirus dedica con questo know how alle spalle uno spazio che nel tempo ha portato nelle casse dell’agenzia contratti con i Comuni di Pescara, Montesilvano, Francavilla,Vasto, Regione Abruzzo, Parco nazionale della Maiella, università di Chieti e dell’Aquila, ma anche aziende pubbliche come la Saga e la Fira, la Soget e la Siap. Oggi tuttavia, il core-business dell’agenzia si concentra intorno al mondo delle aziende private: nel portfolio-clienti del gruppo compaiono infatti pezzi da “novanta”dei cieli italiani, come AirOne, ma pure la neonata Itali Air Lines. I colossi del mattone, come Caldora, D’Andrea e Sciarra, o le corazzate dei grandi appalti, come la Toto Spa. I piccoli imperi locali della sanità privata, come Villa Serena e MIRUS, LA FABBRICA DELLA QUALITA’
Pierangeli, ma pure le cliniche del divertimento (come Porto Allegro) o dello shopping (come il gruppo Ferri). Fino ad aziende emergenti del food, come il pastificio “Nonna Luisa” o la teramana “Sapori Veri”, distributori di gas ed energia come “Blu Ranton” o imprese specializzate nel trattamento dei rifiuti industriali, come la “Extra Spa” o dei servizi di pulizia come “Integra”. Eppure, tra tanti clamori mediatici, tra campagne elettorali all’americana e raffinata comunicazione per aziende-vip, da queste parti ricordano soprattutto una campagna molto diversa: quella condotta per conto della Regione Abruzzo contro gli incendi boschivi. «Per tre anni abbiamo cercato di comunicare alla gente che prevenire è meglio che curare. I messaggi hanno fatto salire la soglia d’attenzione per la salvaguardia di un bene comune, come il patrimonio dei nostri boschi: chi prima girava le spalle, ha finito con il prendere a cuore il problema, magari facendo solo una telefonata per segnalare le avvisaglie di un incendio. Non pretendiamo di aver salvato noi tanti alberi dalla distruzione, però abbiamo fatto la nostra parte, e contribuito a creare un circuito virtuoso tra cittadini e protezione civile». E forse anche questo è Mirus, cioé straordinario.
Nella pagina a fianco, ancora Michele Russo negli uffici di Mirus. Qui sopra, il team dell’agenzia di comunicazione al completo.
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La pubblicità in Abruzzo 3 SINERGIA
Il gruppo di Sergio D’Agostino foto Silvia Jammarrone
Sempre insieme, dall’esperienza nella Fater alla creazione dell’agenzia: storia di un team che ha reso noto il Montepulciano d’Abruzzo ed eletto due senatori in un colpo solo. 44
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accontano i manuali di storia che nel quinto secolo avanti Cristo il console Menenio Agrippa salì sull’Aventino per persuadere la riottosa plebe romana, che aveva abbandonato la città, a tornare nell’Urbe. Una società –disse– non può funzionare senza l’apporto delle varie parti che la compongono: questione di sinergia, avremmo detto noi, magari sfogliando un’edizione aggiornata dello Zingarelli. Alla comunicazione, è il caso di dirlo, davvero potrebbe essere applicato l’apologo che rese celebre il console romano. Senza intesa, senza armonia tra impresa e imprenditore, tra qualità del prodotto realizzato e appeal sul pubblico, non solo é impossibile migliorare il presente, ma neppure immaginare un futuro più roseo. Non sarà un caso, allora, se proprio un primo nome con questa missione, Sinergia (quello completo è “Sinergia advertising”) abbiano scelto nel 1988 i tre soci fondatori (Riccardo Mantini, Carlo Marzovilla e Fabio Di Camillo) della società di comunicazione pescarese che oggi ha sede in via Tiburtina, e affianca ai titolari una dozzina di collaboratori agguerriti. I tre soci, per la verità, la necessità di tenere assieme tutte le complesse membra dell’universo comunicativo l’avevano già sperimentata su se stessi, in quella che per anni era stata per loro una sorta di università della comunicazione aziendale:
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la Fater. Insieme nel “product management” della celebre azienda di pannolini, Mantini & C. contribuirono all’inizio degli anni Ottanta con il proprio lavoro a reggere il duro confronto con il colosso mondiale del settore, quella “Procter& Gamble” che avrebbe dovuto impiegare diversi anni (e pacchi di miliardi) per conquistare il controllo della società pescarese. Allora, in quegli anni formidabili, i “sederini famosi”(ricordate la campagna?) divennero l’arrossato campo di battaglia tra i Davide e i Golia del pannolino: ma tanto è bastato ai team manager di Sinergia per mettere a frutto la lezione, farsi le ossa e imparare a padroneggiare senza imbarazzi tutti gli arnesi del mestiere. Ovvero, tutti quegi strumenti poi affinati nel contatto fortunato con i più bei e prestigiosi nomi della comunicazione italiana: da Armando Testa alla Mc Cann-Erickson, fino allo sbarco nel Gotha dell’Unicom, l’associazione che raggruppa in Italia le prime duecento imprese della comunicazione. La formazione in casa Fater, a distanza di tanto tempo, resta perciò ben impressa nella mente dei suoi protagonisti. Come Carlo Marzovilla, che quasi vent’anni dopo ne vede in modo originalissimo il riflesso nel lavoro odierno: «Tra i primati che mi piace citare, metto al primo posto il tasso bassissimo di “mortalità” della nostra clientela. In che senso? Quanti ci hanno conosciuto, quanti hanno LA PUBBLICITA’ IN ABRUZZO /3
fa la forza
I tre soci di “Sinergia�: da sinistra: Carlo Marzovilla, Riccardo Mantini e Fabio Di Camillo
Nelle pagine precedenti: sotto il titolo, quattro campagne pubblicitarie di Sinergia Advertising: Molino Alimonti, Centri per l’impiego della Provincia di Pescara, Fater e Cantina Tollo; In questa pagina, due campagne istituzionali: quella per l’assessorato al Turismo della Regione Abruzzo e quella per l’Arssa sul Montepulciano.
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lavorato con noi, difficilmente hanno abbandonato l’agenzia: gli addii, in questi anni, si sono contati sulla punta delle dita di una sola mano. E sa qual è il segreto di tanta fedeltà? Uno solo: gli imprenditori-clienti ci hanno percepito come uguali a loro, con la stessa cultura d’impresa, con lo stesso Dna nel sangue. Lo stesso di chi ogni giorno reinventa spazi e strategie per i suoi prodotti: qui hanno trovato la stessa cultura, lo stesso approccio che vivono in azienda. Se i budget di tante imprese abruzzesi non sono emigrati verso altri lidi, alla ricerca di strumenti adeguati per comunicare, beh, un pezzetto di merito passa dalla porta d’ingresso di questa agenzia». Messisi in proprio con questa filosofia alle spalle, convinti che il tempo avrebbe dato ragione alla loro voglia di rischiare, i titolari di casa “Sinergia” hanno puntato le loro carte sul bouquet di prodotti che il mestiere del comunicatore di professione mette a disposizione dei suoi clienti. Una sorta di global service immateriale, che progetta e realizza il confezionamento di campagne pubblicitarie, rifà con l’arte del packaging l’abito da sera ai prodotti, sviluppa quel galateo tra aziende e clienti che si chiama adesso pubbliche relazioni, mette in piedi l’organizzazione di eventi studiati per promuovere persone e cose. Così, giorno dopo giorno, alla porta dell’agenzia hanno bussato tanti bei nomi dell’imprenditoria, in un puzzle coloratissimo di aziende di primo piano, abruzzesi, italiane e multinazionali, votate al food come al mattone, al commercio come alla produzione industriale. Sono i nomi di Cantina Tollo e D’Amico, di De Cecco e di Del Verde, di Del Giudice e di Falcone, dell’Iper Pescara e della Saquella, della Pilkington e di Walter Tosto, della Denso e della Bayer Italia, di D’Andrea e di William Di Carlo, tanto per pescare qua e là. Un percorso che –sulla sponda pubblica– ha portato a far rotta verso l’agenzia anche la Provincia di Pescara, l’Arssa e l’Aptr: queste ultime due, aziende nate per la promozione dell’agroalimentare e del turismo made in Abruzzo, guarda caso autentiche specializzazioni della struttura di comunicazione pescarese. All’agroalimentare, e al vino in particolare, si lega infatti il ricordo di una delle stagioni più fortunate del gruppo: la promozione del Montepulciano d’Abruzzo, il figlio prediletto delle colline abruzzesi che una scarsa vocazione alla comunicazione ha reso meno famoso di altri rossi d’autore italiani. Pregi che solo il tempo (e perché no: proprio quell’azzeccata scelta di comunicazione che Sinergia scelse nel 1999, strappando il rosso delle nostre terre a un’ubriacante sequela di insuccessi media-
tici) ha permesso di sdoganare, allineando il Montepulciano d’Abruzzo ai calici che contano. Come andò “la madre di tutte campagne” a favore del nostro vino, lo ricorda Riccardo Mantini: «Puntammo su un testimonial femminile, come Kay Rush, rompendo il tradizionale approccio che vuole il vino materia per soli uomini. E fu una scelta azzeccata, che trovò il consenso di tutti i principali produttori coinvolti. Alla base di quella scommessa ci fu un’analisi preventiva molto attenta, condotta con gli strumenti tipici del sondaggio di massa e della ricerca di mercato, lo stesso armamentario che non ci stanchiamo mai di proporre ai nostri clienti, come essenziale per tarare il successo di un prodotto. La Rush, sommelier professionista, piaceva agli uomini perché conosciuta grazie ai tanti eventi sportivi televisivi, ma non dispiaceva neppure alle donne, che percepivano in lei un modello non aggressivo. Così, miscelando un testimonial che funzionava a una campagna mirata di eventi promozionali nei migliori ristoranti romani, dove il vino abruzzese fu associato ai piatti migliori, si finì davvero per aggiungere valore al prodotto. Se oggi il Montepulciano ha superato i confini regionali, anche grazie ad un ottimo rapporto tra qualità e prezzo, lo deve anche a quella campagna così forte». Sperimentate le suggestioni di strumenti tanto forti quanto innovativi della comunicazione, come la “land art” («Insieme a Carsa realizzammo tra il 1996 e il 1997 una campagna per la visibilità dell’Abruzzo, utilizzando l’immagine del Guerriero di Capestrano messo a presidio delle colline affacciate sulle principali vie di comunicazione che portano in Abruzzo da nord, da sud e da ovest») resta negli annali del gruppo anche un esperimento in stile “tyser”. In sostanza, il prodotto non appare subito, ma solo alla fine di una serie messaggi che a distanza di pochi giorni prima disorientano, poi catturano irrimediabilmente l’attenzione del consumatore. In Francia, negli anni Settanta, una specifica campagna dedicata proprio a questo modo di comunicare ne svelò i pregi con un messaggiochoc. Una splendida fanciulla sorridente si privò giorno dopo giorno, senza imbarazzi e senza rossori, su manifesti “seipertre”, dei propri indumenti intimi, fino alla rivelazione finale: l'afficheur qui tient ses promises, ovvero il pubblicitario mantiene sempre le sue promesse. La tecnica fu importata da Sinergia per una campagna del caffè Saquella: un arabo e un esquimese, acconciati nei loro abiti tipici, apparvero sulle gigantografie di mezza Italia dicendo semplicemente “freddo” il primo,“caldo” il secondo. Le tazzine e i marchi della ditta pescarese LA PUBBLICITA’ IN ABRUZZO /3
del caffè, quelli, apparvero dopo una quindicina di giorni d’attesa: e fu anche quello un bel vedere. Alle campagne istituzionali, il nome di Sinergia ha legato il proprio nome grazie soprattutto alla Provincia di Pescara, il cui stile comunicativo ha ormai raggiunto una “cifra” precisa. Una volta, incontrando a un appuntamento politico il presidente Giuseppe De Dominicis, un assessore regionale lo apostrofò così: «Se in giro vedo manifesti gialli e verdi già so che quella è roba tua». «Anche quella –racconta Marzovilla– fu una scelta controcorrente, che qualcuno ritenne perfino azzardata in un mondo, come la pubblicità, abituato a declinare i suoi colori con il blu e il rosso. Studiammo a lungo il giallo e il verde che contraddistinguono la comunicazione della Provincia, li associammo a presenze e simboli rassicuranti per i cittadini: il sole, la campagna, e perché no anche la Guardia di finanza, che ha quegli stessi colori, è una forza dell’ordine ed è vissuta dalla gente come un elemento di sicurezza». Dalla galleria dei ricordi spunta infine la sfida incrociata giocata nelle stanze della stessa agenzia in occasione delle elezioni politiche del 1996. Eh sì, perché in quell’occasione i creativi di “Sinergia” visSINERGIA
sero da separati in casa: una parte del team sposò la campagna elettorale dell’Ulivo (con Bruno Viserta candidato), l’altra quella di Andrea Pastore, sponda Casa delle Libertà. Tra i candidati finì uno a uno, tutti e due eletti a Palazzo Madama: Viserta in prima battuta, Pastore grazie ai “resti”. In agenzia i fratelli separati brindarono fino a notte fonda, ma non già al pareggio: al due a zero.
In questa pagina: i componenti della squadra di Sinergia Advertising, la campagna per le Scale Faraone, e quella di autopromozione.
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uattro decenni di passione e professionalità fanno della MADA un centro leader nel settore della distribuzione selettiva di automobili. Un punto di riferimento, dal 1968, per il marchio Ford, e dal 2002, anno della legge Monti e della liberalizzazione del mercato dell'auto, anche per tutti gli altri marchi più prestigiosi del mercato internazionale. Perché oggi, nei diecimila metri quadrati della sua superficie espositiva, MADA ospita BMW, MINI, AUDI, SMART, MERCEDES, VOLKSWAGEN, CHRYSLER, FORD. Merito di un percorso aziendale che ha suscitato la stima e la fiducia di pubblico e addetti ai lavori, e che attualmente fa di MADA il centro plurimarche di maggiore importanza e dimensioni della
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zona. Risultati che parlano da soli, ma che provengono da lontano. Perché alle spalle di MADA c'è la solida tradizione di una famiglia animata da sincera passione per le automobili, unica e sola condizione basilare, questa, per il raggiungimento dell'eccellenza nei servizi e nella professionalità. Oggi, oltre alla vendita di auto nuove, MADA commercializza anche vetture usate con garanzia e vetture aziendali, a km zero e semestrali. Ma l'orgoglio dell'azienda è il reparto assistenza: 2500 metri quadrati di moderni locali dove trova posto una officina meccanica dotata di tutte le più moderne apparecchiature diagnostiche elettroniche, predisposta all’intervento su tutte le marche, e che, inoltre, è officina autorizzata per Volkswagen e Ford. Completano
il reparto una carrozzeria con tre forni di verniciatura, un banco di riscontro, una cabina di preparazione per vernici ad acqua e un moderno reparto gomme, con equilibratura, geometria avantreno e pneumatici di tutte le marche. Senza dimentichiamo la linea revisioni auto e moto, autorizzata dalla Provincia. Tra i servizi aggiuntivi che la MADA offre ai propri clienti c'è il noleggio giornaliero di autovetture ed il noleggio a lungo termine, tramite la ditta hld\axus della quale è partner per l'Abruzzo. La realtà di MADA è quella di un'azienda che opera a 360 gradi, e che possiede un team di professionisti in grado di gestire con grande competenza ogni singolo reparto, di garantire ai loro clienti il massimo livello di prestazioni e soddisfazione.
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A bruzzoValley
Com’è Del Verde la mia valle Dalla California a Fara San Martino, il ritorno di un imprenditore che scommette sul made in Abruzzo. al mouse alla pasta, purché nel segno della qualità. È la storia di Luigi Zappacosta, ingegnere chietino, residente in California dagli anni Settanta, diventato famoso per aver legato il proprio nome al più comune e diffuso accessorio di un personal computer: quel mouse, con o senza fili, che proprio lui ha contribuito a rendere indispensabile, fino a fare di una intuizione virtù (e business). Da qualche settimana, alla gloria già raggiunta ha unito la gratitudine della sua gente: il nome prestigioso dell’ingegnere si è legato infatti ad una delle aziende produttrici della pasta, la Del Verde, che hanno reso celebre il nome dell’Abruzzo fuori dai suoi confini. “Navigando” come sa, l’ingegnere ha contribuito con altri soci (Giuseppe Farchione, che di finanze aziendali se ne intende assai) a salvare il marchio del celebre pastificio di Fara San Martino dalla meno nobile delle “cotture”: un fallimento figlio di gestioni precedenti. E i suoi dipendenti dalla valle di lacrime della perdita del lavoro. Per una volta, insomma, per un abruzzese che parte alla ricerca di fortune all’estero, un abruzzese che torna a salvare un’azienda della sua terra: se poi l’abruzzese che parte e quello che torna sono la stessa persona, come nel suo caso, allora il cerchio di chiude e il nuovo miracolo sembra prendere forma e sostanza. La parabola dell’Ingegnere (mai maiuscola fu tanto meritata) potrebbe aprire infatti una nuova via, stavolta all’incontrario: dagli addii ai ritorni, dai titoli di coda all’inizio del film. Insomma, che nessuno sia destinato ad essere
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D’Annunzio network ABRUZZO VALLEY
Universivario/ Teramo
profeta in patria, stavolta potrebbe rivelarsi sbagliato: per una volta, a fare dietrofront, potrebbe essere la storia. Ecco il messaggio. Nella regione delle tante Finmek e Oliit, Solvay e Teleco, delle grandi e piccole aziende, dei tanti grandi e piccoli gruppi che all’ex terra del miracolo industriale hanno detto (o stanno per dire) “arrivederci e grazie”, a riaccendere la fiammella della speranza potrebbero essere proprio quelli come Zappacosta: gli abruzzesi. Perché investire si può, meglio ancora nella propria terra, e per rilanciare quel made in Abruzzo che proprio dalla tavola (il food) potrebbe ricevere l’iniezione di fiducia che elettronica e chimica, tessile e meccanica le negano. Ed allora sperare che all’orizzonte si affaccino ora diecicento Zappacosta, davvero non costa nulla. L’Ingegnere, insomma, potrebbe aver aperto una nuova stagione. L’interessato, ovviamente, spera di ripetere con spaghetti e fusilli, mezze maniche e penne rigate, bucatini e linguine, lasagne verdi e rigatoni, il miracolo che fu (ed è) del mouse: se lo augura con lui una regione, che costretta ormai al digestivo della crisi industriale, non immaginava s’aprisse una nuova stagione. A base di primi. S.d’A.
Nella foto in alto, l’ingegnere Pierluigi Zappacosta. Partito da Chieti negli anni ‘80, in California ha studiato i sistemi di interfaccia tra computer ed esseri umani e rilanciato un´invenzione fino ad allora sottovalutata: il mouse. Due anni fa la Logitech, l´azienda da lui fondata nell´81 e che dà lavoro a 4000 dipendenti, ha festeggiato il mezzo miliardo di pezzi prodotti e oggi investe nelle biotecnologie.
Un Master che vale il futuro
Universivario/ L’Aquila
Nel segno di Sigmund
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d’Annunzio Network Web Agency, Ateneo in linea, Campus Network e Ud’A News, ovvero internet, televisione, tv digitale e stampa. Quattro modi per presentarsi e farsi conoscere e non solo dagli studenti. di Fabrizio Gentile foto Silvia Jammarrone
e esistesse una laurea “ad honorem” attribuibile a un ateneo, la “d’Annunzio” meriterebbe quella in Scienze della Comunicazione. Questo corso di laurea non figura nell’offerta formativa dell’Università di Chieti -Pescara e le sue “tecniche” non vengono spiegate agli studenti ma semplicemente applicate con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti: l’Ud’A è uno degli atenei più comunicativi d’Italia. Diversi sono i media utilizzati: la televisione, la tv digitale, il giornale e, come si addice ad una struttura attenta e sensibile alle nuove tecnologie, il web; e non va dimenticata poi la collaborazione con la nostra rivista, che da sette anni pubblica un “Vario speciale Ud’A”, stampato anche in lingua inglese,che “fotografa”l’Ateneo nella sua evoluzione e nel suo grado di eccellenza didattica. Web Agency, Ateneo in linea, Campus Network e Ud’A News: quattro strutture pensate per fornire quattro tipi di informazioni diversi;quattro mondi, apparentemente distinti, che in realtà interagiscono tra loro quotidianamente. Andiamoli a vedere da vicino.
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Ateneo in linea «La tv di Ateneo nasce da un incontro che ho avuto tre anni fa col Rettore Cuccurullo: immaginavamo una tv tematica che si occupasse di cultura,
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scienze, arte». A parlare è Renzo Labarile, storico direttore di Tar, prima, e Telemare dopo, passato da una tv generalista all’esperienza di Ateneo in linea, la prima tv universitaria italiana.«Ci siamo resi conto però che l’approccio iniziale,praticamente identico ad una lezione accademica, non poteva trasformarsi in prodotto televisivo. Così dopo alcuni incontri abbiamo corretto il tiro, e abbiamo optato per lezioni di venti-venticinque minuti, sostitutive di quelle frontali». Successivamente la tv si è data un vero e proprio palinsesto,con trasmissioni come La mia storia, Omnibus, Tam tam, spazio curato dalla redazione giovanile, Università lavoro, Cinema d’essai:«Gli intrattenimenti sono stati affidati a contenitori diversi, a più voci: ad esempio, parlando della depressione abbiamo chiamato il farmacologo, lo psicologo, il sociologo e anche un testimone che raccontasse la sua esperienza. Così per la trasmissione sull’anoressia. Quindi assume anche i contorni della tv verità, che parla con i protagonisti». Di recente, la tv ha ospitato anche personaggi di spessore internazionale, come il premio Nobel Rita Levi Montalcini. «Pensavamo che il target fosse un po’ di nicchia, invece ci siamo resi conto che l’utenza è variegata. Al di là di quelli che potrebbero essere i dati ufficiali dell’Auditel, il polso della situazione ce lo danno le telefonate che riceviamo UNIVERSIVARIO CHIETI-PESCARA
sia qui in redazione che in rete: talmente tante, che saremo presto costretti a metter su un numero verde o un call center. La salute è un fatto importante, e le nostre trasmissioni per il 30% trattano di argomenti medico-scientifici». «Ma il fiore all’occhiello di Ateneo in linea –continua Roberta Zimei, giornalista e “colonna” della redazione– è il tg Ud’A News, che copre il territorio nazionale sul canale 848 del bouquet Sky:un tg scientifico della durata di ventiventicinque minuti che costituisce il nostro vanto e che verrà trasmesso in Italia, Europa e Nordafrica per un totale di quattro ore settimanali, come da accordi recenti con il network satellitare». Insieme al direttore e a Roberta Zimei ci sono Enrico Mammone (regia); Giziana Pantalone, creativa, Emanuele Monti,operatore,Andrea Romiti,grafico,che realizza le sigle insieme a Gianpiero Consoli, Alessandro,stagista per riprese e montaggio,Valentina che coordina il tg, Simona Salvi, segretaria di redazione e giornalista, i ragazzi di Tamtam, Marinella Iezzi, giornalista esperta in medicina e il professor Fabio Capani che è il coordinatore scientifico, e Rettore dell’Ateneo telematico “Leonardo da Vinci”. Per la logistica la responsabile è Carmelita Della Penna e non va dimenticata Ester Vitacolonna, collaboratrice di Capani. Il centro di produzione, attualmente ubicato presso il Cesi, presto si trasferirà in un belD ’ANNUNZIO NETWORK
l’edificio nuovissimo vicino al Palazzo dei Baroni di Torrevecchia Teatina, sede del Ceduc, dove costituirà una sorta di polo tecnologico insieme all’Università “Leonardo Da Vinci”, probabilmente già dal prossimo gennaio 2006. Attualmente le trasmissioni di Ateneo in linea sono ospitate per la maggior parte da Telemare e parzialmente da Rete8. «La grande intuizione del Rettore Cuccurullo –conclude Labarile– è stata credere nelle nuove tecnologie, tv in particolare. Ha capito che l’Università “turris eburnea” non ha senso, ha avvicinato l’ateneo alla gente. Inoltre attraverso la tv ha dato un grosso impulso alle iscrizioni, che oggi sono arrivate a circa 30mila. Oggi la comunicazione è importante, la tv di ateneo è stata la pietra angolare di questo successo,altre Università ci prendono come esempio». Campus Network Campus Network, ovvero il primo canale per gli studenti.È una vera e propria sector tv quella inventata dal Comitato per l’Orientamento Universitario e coordinata dal professor Gianpiero Consoli, Docente di Storia critica del cinema presso la Facoltà di Lettere e Filosofia. «Sector tv è un neologismo che ho inventato quando decisi di sostenere la mia tesi di laurea», dice Giuliano Vernaschi,
Nella foto grande, la redazione di Ateneo in linea insieme ad alcuni stagisti. Qui sopra,in alto: il Direttore Renzo Labarile;
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Il Rettore dell’Ateneo “da Vinci”, professor Fabio Capani .
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caporedattore della più giovane realtà nel panorama della comunicazione di Ateneo.«Esistono i mass media da un lato, gli individual media dall'altro (come i pacchetti Sky), ma nessuno finora si era occupato di queste piccole tv di settore (come le business tv o le tv dei centri commerciali) che sono un esperimento in espansione. Ho cominciato per gioco,ma dopo qualche mese ho deciso di fare della mia esperienza l’argomento della tesi in Sociologia». Come lui, anche gli altri studenti che lavorano nel CNT (acronimo di Campus Network Television) hanno cominciato per gioco, con entusiasmo e voglia di sperimentarsi nella comunicazione televisiva. «Si tratta di una specie di laboratorio, dove i ragazzi imparano a conoscere il video, gli strumenti della comunicazione, a usare i programmi per il montaggio, la videografica e le telecamere per realizzare servizi di informazione su tutto ciò che riguarda l’Università, ma non solo» dice Gianpiero Consoli. «Abbiamo cominciato trasmettendo videonotiziari grafici senza conduttori, dando informazioni su convegni e attività dell’Ateneo,trasmettendo su monitor posti in vari luoghi di ritrovo del Campus: bar, corridoi affollati. Ci siamo detti che potevamo fare di più, e abbiamo realizzato il primo vero tg studentesco,in onda ai primi di maggio: ne abbiamo fatti altri tre». Gli argomenti? Spaziano da eventi significativi, come le Giornate dell’Orientamento, a quelli di carattere più scientifico, come il convegno organizzato dalla Facoltà di Medicina su “Ecografia in gastroenterologia” e “Nuove metodiche di ricostruzione del legamento crociato anteriore”, fino a quelli più leggeri come la festa della Facoltà di Architettura. «Il target d’altronde è uno solo: gli studenti dell’Ateneo», precisa Fabrizia Paolone,conduttrice e tuttofare di Campus Network; anche lei, come gli altri cinque collaboratori fissi (Vivi Pappa, Giola Pappa, Veronica Dagres, Silvia D’Alberto,Virginia Marino), ha voluto cimentarsi in qualcosa di nuovo, fresco e professionalmente stimolante come realizzare i prodotti televisivi della piccola tv, il cui “taglio” rimanda immediatamente allo stile giovanile imposto da trasmissioni come “Nonsolomoda” negli anni Ottanta e da Mtv oggi: sigle accattivanti, inquadrature oblique, sfondi virtuali, montaggio da video-
clip e tanta musica. «Badiamo molto alla forma, ma i contenuti sono importanti» sottolinea Vernaschi. «Cerchiamo di conciliare gli argomenti, che a volte possono essere poco attraenti, con il nostro gusto estetico per renderli simpatici». Oltre ai cinque o sei collaboratori fissi, attorno alla redazione ruotano altrettanti “occasionali”,che di volta in volta decidono gli argomenti, provando anche loro l’ebbrezza dell’esperienza tv: «Forniamo un operatore e loro fanno le riprese e le interviste, poi qui in sede montiamo il tutto con l’aiuto di Giuseppe (Volpi, il responsabile tecnico della redazione, che insegna a usare i software e a realizzare i programmi, n.d.r.). Il bello di Campus Network è che tutti possono partecipare, l’unico requisito è essere iscritti ad una Facoltà della “d’Annunzio”, di Chieti o Pescara» prosegue Fabrizia. Il successo dell’esperimento è stato tale che dalla trasmissione locale, diffusa via LAN sui televisori del Campus di Chieti, si è passati ben presto ad uno spazio sul web, attraverso il sito http://orientamento.unich.it/page/orienta/cnt, grazie al quale chiunque abbia una connessione ad Internet (meglio se ad alta velocità) può vedere i tg realizzati da questi intraprendenti ragazzi.Sempre grazie al web si è poi realizzata la recente partnership con AltraTv (www.altratv.tv), un portale alternativo che raccoglie notizie sulle tv non generaliste. «Fino a qualche tempo fa eravamo quasi clandestini» ricorda Giuliano. «Persino il Direttore Generale Marco Napoleone ha lodato il nostro lavoro quando lo abbiamo intervistato dopo il tradizionale Caffè concerto, e ci ha augurato di diventare presto una vera e propria emittente televisiva». Le premesse ci sono tutte… Web Agency Nata nel dicembre 2000, è diretta da Nicola Di Nardo.Ha come compito principale la “manutenzione” del sito dell’Università, www.unich.it: «Il Rettore Franco Cuccurullo crede nelle nuove tecnologie. Dopo aver progettato l’ingresso della “d’Annunzio”sul web, nel 2000 ha finalmente dato vita a uno dei siti universitari più usabili d’Italia». Usabili in che senso? «Nel senso che un sito, prima ancora di essere bello, deve essere utilizzabile, altrimenti le nuove tecnologie non hanno senso: il sito della UNIVERSIVARIO CHIETI-PESCARA
“d’Annunzio” fa evolvere il web da una funzione monologica, di “vetrina”, ad una dialogica: è importante l’interattività, la comunicazione a doppio binario perché i primi fruitori del sito sono gli studenti».A questo scopo la pagina principale del sito, recentemente rinnovata,persegue ancor più di prima una linea di sobrietà,di leggibilità,di facile reperibilità delle informazioni, restando fondamentalmente impostata a misura di studente. «Non dobbiamo trascurare l’aspetto relativo alla formazione –aggiunge– che oggi costituisce uno dei principali programmi della Web Agency. Il personale utilizzato per la diffusione delle informazioni di ogni singola Facoltà è in grado di aggiornare le proprie pagine web in piena autonomia. Questo significa rendere chi lavora alla “d’Annunzio”partecipe delle innovazioni tecnologiche, e garantire allo studente una informazione corretta e costante sul web prima ancora che in Facoltà: il semplice cambio d’orario di un corso viene comunicato su internet prima che in bacheca.Questo vuol dire contribuire a creare una cultura del web». Il Rettore Franco Cuccurullo ha anche una parte attiva all’interno della Web Agency: «È il nostro Art Director, il direttore artistico –prosegue Di Nardo– e ha anche un ruolo nella verifica della navigabilità, nella progettazione e nel design». Gli altri componenti dello staff sono, con Di Nardo (Webmaster), Simone Calci (realizzatore dei prodotti multimediali), Paola Di Giuseppe (grafica), Serena Petrongolo (contenuti del sito), Maria Cristina Ricci (design), Anna Rita Tomei, responsabile dei contenuti. Ma i compiti della Web Agency non si esauriscono al solo “www.unich.it”: «Il sito è la punta dell’iceberg, siamo il riferimento tecnologico per la comunicazione digitale di tutto l’Ateneo». Ogni progetto di comunicazione in formato digitale (si tratti di cd, dvd, web o tv) viene coordinato da questa bella e funzionale struttura, attualmente al secondo livello dell’edificio del Rettorato nel Campus di Chieti. «Nella mission della Web Agency è inclusa la sperimentazione di tutte le possibilità offerte dalle nuove tecnologie digitali su didattica e ricerca.È nostra responsabilità gran parte del lavoro che viene fatto per l’Ateneo Da Vinci, così come è consistente il nostro apporto alla Tv di Ateneo o al lavoro dei ragazzi di Campus Network». D ’ANNUNZIO NETWORK
Non mancano realizzazioni di prodotti promozionali, come il recente doppio dvd «regalato agli studenti che si sono iscritti durante gli “Ud’A Open Days” dell’estate, e contenente il tradizionale Caffè Concerto del Coro della “d’Annunzio”, interventi del Rettore e filmati di presentazione dell’Università». Altri prodotti verranno realizzati tra novembre e dicembre, quando la struttura avrà un ruolo importante nella serie di eventi organizzati nell’ambito del Chieti Festival: per la Web Agency è l’ennesimo successo.
In queste pagine, da sinistra: Roberta Zimei mentre conduce il tg “Ud’A News” di Ateneo in linea; lo staff della Web Agency in una foto di gruppo; i ragazzi di CNT; Mario Pasotti, direttore della rivista interna “Ud’A News”; Nicola Di Nardo, Webmaster e direttore
Ud’A News È un organo d’informazione storico quello diretto, redatto e impaginato da Mario Pasotti, creatore insieme all’ex Rettore Uberto Crescenti di Ud’A News, il piccolo foglio distribuito internamente all’Ateneo che fornisce notizie ufficiali su tutto ciò che ruota intorno alla “d’Annunzio”. «Inizialmente –racconta Pasotti– esisteva una vera e propria rivista interna, dal nome semplice ed efficace: Università d’Annunzio. Era il 1986 e in quelle 96 pagine patinate trovavano spazio saggi e articoli di vario genere, tutti di carattere culturale e scientifico». Ud’A notizie era invece il nome del foglio allegato, che sostanzialmente svolgeva lo stesso ruolo dell’attuale Ud’A News. «Informazione pura», chiarisce Pasotti, «e soprattutto ufficiale. Questo quindicinale contiene le notizie sulla vita dell’Ateneo, non c’è nulla di ciò che viene scritto qui che non sia interessante per i media locali, che lo usano come fonte per ogni servizio sulla “d’Annunzio”. Un po’ come la Gazzetta Ufficiale». Mario Pasotti, unico redattore del più longevo tra gli organi d’informazione dell’ateneo, continua a dirigere, impaginare e stampare in proprio Ud’A News, che presto –si augura– troverà un nuovo direttore:«Vado in pensione alla fine del 2005. Mi piacerebbe che questa esperienza, benché limitata alla diffusione interna, non si chiudesse. Le nuove tecnologie sono sicuramente importanti, ma tenere in mano un giornale è un’altra cosa». Come dargli torto?
della Web Agency; Gianpiero Consoli e la redazione di Campus Network al completo.
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Nel segno di
Sigmund Tornare al passato per cavalcare il futuro. La nuova Facoltà di Psicologia istituita all’Aquila seguirà linee di sviluppo che recuperano la tradizione scientifica della psicanalisi per essere al passo con la comunità accademica mondiale.
di Fabrizio Gentile foto di Silvia Jammarrone
Il Rettore Ferdinando Di Orio
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a sette a nove in pochi mesi. Parliamo di Facoltà, e del grande passo avanti compiuto dall’Università degli studi dell’Aquila per implementare l’offerta didattica e intensificare i rapporti col territorio. Dopo la Facoltà di Biotecnologie (vedi numero scorso) è giunto il momento della Facoltà di Psicologia, che aprirà i battenti dal mese di novembre, e sarà guidata dal professor Claudio Pacitti, già Preside della Facoltà di Scienze della Formazione. Il Magnifico Rettore dell’Università dell’Aquila, professor Ferdinando Di Orio, ha così celebrato la nuova nata: «Per emergere in un mondo competitivo e multiforme, la realtà accademica deve sapersi aggiornare arricchendosi di insegnamenti interdisciplinari; si riduce così, a vantaggio di una preparazione più profonda e adeguata, il rischio di formare gli studenti secondo comparti chiusi e alla lunga stagnanti. L’Università degli Studi dell’Aquila, con la Facoltà di Psicologia, va incontro proprio a questa esigenza: una materia che, per sua stessa natura, non sopporta confini didattici, diventa simbolo di scambio e confronto interaccademico». La Facoltà di Psicologia dell’Università dell’Aquila
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si caratterizza, infatti, per una spiccata matrice medico-scientifica che si sviluppa su percorsi formativi trasversali alle Facoltà di Medicina e Chirurgia e di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali. In questo modo si ribadisce il carattere specialistico e autorevole di una materia che troppo spesso viene erroneamente avvolta da un alone di provvisorietà e di impenetrabilità. «La psicologia è la scienza della mente umana e la mente umana è la macchina più complessa che si conosca» prosegue il Rettore «e per questo deve essere indagata con competenza, multidisciplinarietà e adeguatezza di mezzi. La psicologia si interseca con materie assai diverse come la biologia, la medicina, la filosofia, l’antropologia, la sociologia, l’intelligenza artificiale. Bisogna quindi tenere conto di ciò se si vuole istituire una Facoltà che sia in grado di offrire corsi di laurea altamente specialistici e professionalizzanti». E la Facoltà di Psicologia dell’Aquila pare abbia tutti i presupposti per riuscirci e puntare all’eccellenza. «Il progetto della nuova Facoltà –ci spiega Claudio Pacitti, Preside di Psicologia– nasce da UNIVERSIVARIO L’AQUILA
«Ciò che distingue questa Facoltà è la ritrovata attenzione verso le neuroscienze. Sigmund Freud era un neurofisiologo, ma in molti lo hanno dimenticato»
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lontano, da valutazioni delle esperienze nazionali ed internazionali nella didattica della Psicologia, da verifiche da noi stessi condotte all’Aquila da diversi anni, per poi mirare, con la costituzione della Facoltà, a creare un prodotto innovativo, ma con solide radici nella tradizione consolidata del sapere in tema di Psicologia. Non ci poniamo certo in concorrenza con Roma o Padova, che sono le sedi più blasonate, ma abbiamo individuato una linea di sviluppo che è sicuramente innovativa per il panorama nazionale e altamente qualificante dal punto di vista di una specializzazione professionale». Medico, laureatosi a Roma, Pacitti è stato docente di Fisiologia umana presso la Facoltà di Medicina dell’Aquila, per poi ricoprire, dal 1998, l’incarico di Preside della Facoltà di Scienze della Formazione, riservandosi la cattedra di Psicobiologia e Psicologia fisiologica. «Ciò che contraddistingue la neonata Facoltà di Psicologia che nasce, va detto, dal nucleo dei due corsi di laurea in Psicologia presenti all’interno di Scienze della Formazione è l’attenzione ritrovata verso le cosiddette neuroscienze, discipline che studiano il sistema nervoso, cioè il cervello. Quando si parla di Psicologia lo studente pensa subito al suo studio futuro, con un bel lettino da psicanalista. Ma in molti hanno dimenticato che il dottor Sigmund Freud era un neurofisiologo. Lo psicologo deve sapere di neuroscienze più di altri medici. È un discorso che oramai all’estero è più che avviato. Intendiamo, pertanto, fornire una base scientifica e clinica, se possibile, ancora più
ampia di quella che attualmente si acquisisce in altre sedi. Il nostro approccio sarà quindi prettamente scientifico, senza trascurare naturalmente la dimensione filosofica già ampiamente storicizzata». Il professor Pacitti chiarisce quali saranno gli ambiti di ricerca della nuova Facoltà: «Se la base, quindi, è costituita dal preesistente corso di laurea triennale in Scienze Psicologiche applicate, con i due indirizzi in “Psicologia generale sperimentale e della valutazione clinica” e in “Psicobiologia del comportamento”, sono invece i due indirizzi della Laurea Specialistica in Psicologia applicata, clinica e della salute che caratterizzano in modo particolare l’offerta dell’Università (iscrivendosi peraltro in un percorso inaugurato da scelte innovative come quella di istituire all’Aquila il corso di Scienze dell’investigazione): “Psicologia clinica e dinamica”, classico nel titolo ma ampliato con nuove discipline, che prepara lo studente interessato a proseguire i propri studi di specializzazione in ambito psicoterapeutico, e “Psicologia del lavoro e delle organizzazioni”, vera novità del corso, che apre ad un ampio intervento nel mondo della Psicologia del lavoro, della selezione e valutazione del personale, della gestione delle risorse umane e della valorizzazione del capitale umano nella società attuale. Roma in questo campo è il punto di riferimento nazionale, ma noi allarghiamo l’ambito alla valutazione e formazione delle risorse umane, e alle interrelazioni umane nell’ambito del sistema sociale. In poche parole, curare o predisporre il soggetto in quanto “momento
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produttivo” è compito di un medico, ma lo psicologo deve andare oltre, incontrare e migliorare il sistema. La psicologia sociale potremo allargarla poi a tutti gli aspetti, compresi quelli relativi alla devianza: apriremo una “Psicologia della devianza”, un indirizzo criminalistico che è, in parte, già predisposto. In questo contesto la Psicologia del lavoro è un momento importante e professionalmente caratterizzato». La nuova Facoltà, quindi, con questo programma si inquadra nel processo di avvicinamento al territorio delineato e promosso dal Rettore Ferdinando Di Orio: «Nella garanzia di poter offrire a tutti gli studenti -prosegue Pacitti- possibilità professionali valide all’interno del panorama nazionale, cerchiamo anche di far sì che chi si iscrive da noi non debba proseguire gli studi altrove a meno di aver bisogno di una superspecializzazione». Eliminate le possibili competizioni a livello nazionale, Pacitti non teme neanche conflitti sul piano locale: «Noi lavoriamo molto sul rapporto con gli studenti, così da poter garantire degli spazi da caratterizzare ed approfondire perché nell’offerta nazionale abbiano il loro risalto. Dobbiamo avere un offerta più variegata, ci vuole un contorno di alta qualificazione con docenti di alta professionalità. Abbiamo, nella Facoltà, psicologi, medici, filosofi, economisti e biologi; avremo cioé una base scientifica che consentirà a questi ragazzi una conoscenza perfetta nell’ambito delle neuroscienze. Con la nostra “concorrente” di Chieti abbiamo basi comuni, certo; e d’altronde la competizione tra
atenei è un processo ineliminabile, un fatto storico. È perfettamente inutile cercare di nascondere il fatto che in Abruzzo c’è competizione tra le Università, ma va detto che si tratta di un comportamento naturale, sano, che spinge tutti a migliorare. In particolare L’Aquila cerca di identificare delle linee che garantiscano un punto di forza per la Facoltà: basi scientifiche ancora più ampie, se possibile, di quelle di Roma e Padova, e poi specializzazioni formative e mirate. Non è importante avere centinaia di studenti, ne bastano pochi che però sappiano quanto vale la nostra preparazione, più moderna che altrove. Ad esempio, negli Stati Uniti il nostro indirizzo è già molto diffuso, mentre qui spesso la didattica e l’offerta formativa sono soggette ad assurde leggi di mercato, non si dice ma è così… Prendiamo un Paese apparentemente meno sviluppato dal punto di vista scientifico, il Brasile: stanno riformando gli studi di medicina inserendovi materie umanistiche; alcune università sono di taglio prettamente biologico, mentre altre hanno sviluppato linee di ricerca autonome che si iscrivono nel quadro mondiale. La doppia anima è possibile, ma non dappertutto. In Europa, solo la Grecia è più arretrata di noi».
Nella prima foto a sinistra, il professor Claudio Pacitti, Preside della Facoltà di Psicologia; nelle altre immagini, il Polo didattico dove sono attualmente ubicate le aule della Facoltà; presto sarà operativa la nuova sede presso il Polo didattico di Coppito.
NEL SEGNO DI SIGMUND
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Un Master che vale il futuro Sviluppo sostenibile, Agenda 21, Multilevel governance: sono il pane quotidiano dei futuri esperti in gestione ecologica del territorio. A Teramo un corso che prepara i professionisti di domani. di Fabrizio Gentile foto Silvia Jammarrone
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i chiama “Gestione degli Enti locali: sviluppo sostenibile e Multilevel governance”, e promette di formare figure professionali “che abbiano competenze per fornire agli enti di appartenenza ed alle imprese il know how necessario ed indispensabile per individuare e perseguire nuove politiche di sviluppo in un quadro coerente con i principi e gli indirizzi indicati sia dagli atti di recenti summit internazionali sia dai documenti di programmazione e sviluppo della Comunità Europea”. Il concetto, nascosto all’interno di un linguaggio un po’ burocratico, ce lo spiega il professor Carlo Di Marco, docente di Istituzioni di Diritto pubblico e coordinatore del Master: «Nel 1992 al Summit Onu della Terra di Rio de Janeiro venne sancito il concetto di “sviluppo sostenibile”, ossia quello sviluppo –urbano, industriale– che non sfrutta in maniera indiscriminata le risorse di un territorio ma le gestisce in modo da conservarle per le generazioni future. Un comportamento improntato, quindi, ad un maggior rispetto dell’ambiente».
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Non solo: a Rio si decise anche una serie di provvedimenti che vanno sotto il nome di “Agenda 21”, cioè “cose da fare nel 21° secolo”per attuare e favorire tali processi di sviluppo sostenibile: «Il piano di azione fu articolato in 40 capitoli; il capitolo 28 di tale programma riguarda il ruolo degli Enti locali e la realizzazione di Piani di Azione locali che siano il frutto della combinazione di politiche integrate e della partecipazione attiva e coresponsabile dei vari attori delle comunità locali. Tali Piani di Azione prendono il nome di Agenda 21 Locale». Il Master promosso dall’Università di Teramo fornirà alle amministrazioni locali (e non solo) proprio figure professionali con competenze specifiche nel settore, in grado cioè di conoscere ed utilizzare strumenti come l’Agenda 21 locale, SGA (Sistemi di Gestione Ambientale), Contabilità Ambientale e Certificazione Ambientale, atti a far sì che il territorio diventi elemento coagulante per uno sviluppo sostenibile. «In ambito europeo –prosegue Di Marco– molti di questi processi UNIVERSIVARIO TERAMO
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«Il governo del territorio è passato da un concetto obsoleto, quello della delegazione del potere, al concetto nuovo di potere partecipato»
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sono già stati avviati. Le ultime statistiche, per quanto riguarda l’Italia, risalgono al 2003 e vedono Ferrara in testa alla classifica delle città che hanno attivato il maggior numero di processi». E in Abruzzo? «In Abruzzo abbiamo Abru21, che rappresenta l’unico caso finora in Italia di Agenda21 locale su scala regionale, cioè un piano promosso in sinergia dalle quattro province che in sostanza attivano contemporaneamente e con le stesse modalità i processi di Agenda 21 locale. Il Master in Gestione degli Enti locali acquista così maggior significato in questo territorio». Ma come si attiva un processo di Agenda 21 locale? «Il governo del territorio passa ora da un concetto obsoleto, quello della delegazione del potere (il cittadino elegge l’amministratore e questo porta avanti il suo programma in autonomia) al concetto nuovo di potere partecipato. In pratica, se un’Amministrazione civica, provinciale o regionale deve affrontare un problema relativo allo sviluppo, la soluzione a tale problema andrà presa concertandola con gli elementi che subiscono gli effetti di tale sviluppo.Vale a dire che se per esempio il Comune vuole costruire una strada per collegare due zone della città, e questo comporta un intervento che modifica l’ambiente, la cittadinanza è interessata perché tale decisione influirà in
modo sensibile sulla vivibilità del territorio, condizionandone le opportunità di crescita e di lavoro; una decisione in merito avrà riflessi sostanziali sulla vita futura dei cittadini, investendo la viabilità, le infrastrutture, il turismo, i servizi… La cittadinanza quindi va informata e la decisione se fare la strada, come farla e dove farla passare va presa in accordo con tutti». Viene spontaneo chiedersi:ma non è già così? Non è forse questo il modello di democrazia che dovrebbe essere in vigore? «No, perché, come accennavo prima, la vecchia concezione della democrazia rappresentativa prevedeva una sorta di delega del potere: io ti eleggo, poi tu fai il tuo comodo e se casomai hai sbagliato ti punisco alle prossime elezioni. Ora invece il concetto è quello di democrazia partecipata, il che in teoria aumenta il controllo dell’amministrazione eletta da parte dei cittadini». In teoria, appunto. Ma come si fa a rendere partecipe una cittadinanza che è già difficile portare alle urne una volta ogni cinque anni? «Le fasi di attuazione di un processo improntato allo sviluppo sostenibile secondo le direttive dell’Agenda 21 locale passano per la realizzazione di forum e focus groups», prosegue il professor Di Marco. «Ovvero, ogni comune pubblicizza l’esistenza di un forum (uno dei più comuni strumen-
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ti di discussione sul web, n.d.r.) sull’argomento in questione, nel quale ogni cittadino può dare il suo contributo al dibattito. Dall’esito del dibattito dipenderanno le future decisioni dell’amministrazione in merito all’argomento di cui si parla. L’uso di tecnologie informatiche nei processi di partecipazione trova però spesso applicazioni assai ridotte, che non vanno al di là della pubblicazione sul web di documenti e questionari; inoltre è limitato ad una parte della cittadinanza, rischiando di escludere dai processi decisionali i bambini, gli anziani, gli emarginati o le persone con basso tasso di scolarità. Pertanto è consigliabile integrare i processi di coinvolgimento virtuali con quelli reali, come assemblee, comitati, consigli: l’attuazione corretta di un processo di Agenda21 locale prevede infatti il coinvolgimento di tutti gli “attori” del processo di sviluppo sostenibile». Il Master in Gestione degli Enti locali è articolato in quattro moduli, volti a far acquisire al futuro “esperto in gestione sostenibile del territorio” (questo il titolo rilasciato) tutte le competenze richieste a questa nuova figura professionale. «Il primo modulo è dedicato alla conoscenza e all’approfondimento delle istituzioni e delle norme giuridiche che li governano. Il secondo alla valutazione critica del territorio, ovvero alla sua “lettura” in termini di svi-
luppo sostenibile, per capire quali e quanti processi possono essere attivati; il terzo alle nuove tendenze evolutive della gestione sostenibile e alla pianificazione, ai metodi d’analisi, alla gestione partecipata. L’ultimo sarà focalizzato sulle problematiche connesse ai percorsi operativi dell’inserimento nella programmazione europea e nazionale di settore». Il tutto per una durata di 208 ore in un anno di studi, con il conseguimento finale di 52 crediti formativi. «Sono ammessi a partecipare non solo i neolaureati, ma anche i non laureati che abbiano una preparazione adeguata, acquisita “sul campo”, mediante attività professionale nella pubblica amministrazione in qualità di responsabili di settori con funzioni dirigenziali, inerenti allo sviluppo del territorio e alla tutela dell’ambiente, per almeno tre anni». Sempre più quindi l’Università di Teramo si mette al servizio del territorio, intrecciando la propria attività con quella di chi vive quotidianamente i problemi,facendoli uscire dal ristretto confine di un’aula accademica.
Nella foto : il professor Carlo Di Marco davanti al panorama di Teramo.
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Ribalta Tutto quanto fa Ribalta: il primo appuntamento è con un romantico soggiorno da trascorrere all’ombra di una fortezza spagnola (scopritelo a pagina 66). Una nuova rubrica dedicata al vino e a chi lo produce si trova a pagina 68 insieme ad alcune soste golose. Cosa pensa chi guarda il cielo? E le stelle stanno solo a guardare? Troverete le risposte a pagina 70. C’era una volta una piccola tivvù: il suo nome è TV Atri, e compie trent’anni; a pagina 72 le facciamo gli auguri. Chieti diventa, per una settimana, la città della musica: a pagina 74 tutte le notizie sul Chieti Festival. Apagina 76 farete conoscenza con un personaggio davvero singolare: il regista Dino Viani, sognatore a cavallo tra la Pampa e l’Appennino. Di Moviementi, a pagina 78, ce ne sono davvero tanti: dalla mostra su Stanley Kubrick a Daniele Baldacci che gira con Battiato, e poi una nuova multisala, ilMatita Film Festival e la leggenda dell’uomo fiammifero. E per chi ama andare a teatro, ecco un’intervista con il regista Claudio Di Scanno (a pagina 80). Scendiamo dal palcoscenico, poi, per tuffarci nella vita vera: leggete a pagina 82 l’esperienza di Loredana Ranni. Tanti libri per l’inverno che ci attende, nelle due pagine seguenti: poesia, romanzi e saggi per pensare, svagarci e scaldarci il cuore. A pagina 86 presentiamo l’ultimo lavoro di un bravissimo e giovane fotografo, Stefano Schirato. Come è cambiata la percezione della donna durante il secolo ormai trascorso? Ce lo spiega la bella mostra di cui parliamo nell’articolo a pagina 89. La vostra memoria vacilla? Non sapete cosa è successo a Lanciano nel 1943? Lo scoprirete a pagina 90. L’altruismo non ha colore e la vita riserva sempre sorprese: ce lo assicura Roger Mendy a pagina 92. Tutto il resto, come al solito, è Tabù.
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POSTI GIUSTI Roberta Venturoni, titolare del Bed & Breakfast ”Dal Poeta ” di Civitella del Tronto.
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na casa del XVI secolo, una fortezza che domina un antico paese, un fantasma e una giovane donna: sembrano gli ingredienti giusti per una classica storia gotica. Quella che andiamo a raccontarvi è invece una storia contemporanea, al centro della quale c’è l’intraprendenza di una giovane teramana, Roberta Venturoni, che tre anni fa decise di terminare i lavori di ristrutturazione (cominciati dal padre negli anni Ottanta) della bella casa di Civitella del Tronto, ubicata proprio ai piedi della maestosa fortezza spagnola, e di farne quello che oggi è uno splendido Bed & Breakfast dove trascorrere qualche giorno immersi nella pace e nella natura. «Avevo studiato filosofia e trascorso un pe-
Dal Poeta Bed & Breakfastddd Via Gambacorta 65 Civitella del Tronto (Te) Tel. 0861 918428 Mobile 349 0746558 www.bbdalpoeta.it info@bbdalpoeta.it
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riodo di due anni in Inghilterra, dove il Bed & Breakfast è una tradizione ormai consolidata della ricettività nazionale. Quando tornai, mi dissi che era necessario riportare alla vita questa casa, e onorare gli sforzi compiuti da mio padre. L’edificio risale al 1536 –racconta Roberta– e fu acquistata da mio nonno, negli anni Cinquanta, direttamente dagli eredi dell’ultimo proprietario, il poeta e medico Francesco FilippiPepe (da cui il nome del B&B) nato a Civitella nel 1737 e morto a Teramo nel 1812. Pepe raggiunse la fama letteraria con un poema in latino (in quattro libri e 1834 versi) dedicato al Monumento a Pietro il Grande; le sue opere sono tutte presso la biblioteca Melchiorre Delfico di Teramo, e un suo ritratto è custo-
dito nel Municipio di Civitella del Tronto». Situato in posizione panoramica proprio a ridosso delle mura della fortezza, il B&B “Dal Poeta” è un piccolo gioiello che trasuda storia, disposto su tre piani, dotato di quattro confortevoli stanze da letto, tre bagni, un salone per il soggiorno e per la ristorazione, un terrazzo e un giardino. Per chi ama sognare c’è la camera “del poeta”, con letto matrimoniale e vista panoramica sulla vallata dal piccolo balconcino: probabilmente la vera stanza di Francesco Filippi-Pepe, le cui pareti erano tappezzate di scritte andate perdute nei lavori di restauro; per chi desidera più romanticismo c’è la camera “della regina”, dotata di un bellissimo letto matrimoniale a
baldacchino e di vista sul Gran Sasso e i monti gemelli. Le altre due camere, “del cardinale” e “del cavaliere” includono, oltre al letto matrimoniale, un letto singolo ciascuna, per un totale di dieci posti letto. Al mattino, i dolci di Roberta, la frutta di stagione e le squisite confetture garantiscono una succulenta colazione e preparano ad affrontare la visita al paese e naturalmente alla fortezza, ma anche ai luoghi vicini a Civitella Del Tronto: una natura rigogliosa e paesi ricchi di bellezze architettoniche come solo l’Abruzzo sa offrire. E il fantasma? Quello c’è, ma è un’altra storia. Chiedetela a Roberta, ve la racconterà volentieri, arricchendo di mistero un soggiorno davvero speciale. F.G.
DRINK IN MUSICA Briciola Cafè, Via Piave, Pescara.
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furia di jazz, tartine e champagne, ma senza la pretesa di selezionare la clientela (“non vogliamo essere il solito baretto snob”) Briciola Cafè nasce dalle ceneri dell’ennesimo decaduto negozio di abbigliamento, e adesso è una tappa imprescindibile per i forzati del passeggio nel centro di Pescara. Oasi dove stemperare gli attacchi di shopping compulsivo, per qualcuno; surrogato della Piazza Salotto di una volta, dove, prima del messaggiarsi e del videochiamarsi, ci si incontrava in automatico, per qualcun altro. Tre soci, Gianluca Viola, Angelo Baldacci e Andrea “Briciola” Leonetti (“era il mio nomignolo da bambino”), nella nuova pedonalizzata e fiorita Via Piave puntano (quasi) tutto sull’aperitivo. Gli squisiti stuzzichini della mamma di Gianluca, i cocktail fantasiosi dalle abili mani dei due barman ex del Bloom di Roma (Mauro De Julio e Marco Mira), degustazione di champagne con ostriche e sushi al giovedì, dj set chill out e chill house di Nicola Simone al venerdì, serate bossanova al sabato con la voce e la chitarra di Beto, brasiliano doc, e domenica la world music di Andrea Romoli. Domenica, avete capito bene, unico bar del centro aperto anche il giorno di
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chiusura dei negozi. Il tutto calato nelle calde e luminose geometrie di un arredamento che punta sulla garanzia del legno, lavorato dal sapiente artigiano Eliseo Valori. Paolo Ferri VARIO56
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VINI & VIGNAIOLI
Il fascino di un vino
ranco Ziliani, esperto e autorevole giornalista del settore, ne è rimasto sedotto. Merito del profumo, del colore, del retrogusto, del Montepulciano d’Abruzzo Divus 2000, e della vignaiola, l’affascinante Chiara Ciavolich. Come per gran parte delle cantine abruzzesi, il successo nazionale e internazionale è coinciso con il cambio di generazione, che ha portato entusiasmo, capacità e investimenti: in una parola, una nuova immagine oltre che una riconosciuta qualità. Chiara, fra le più giovani e belle vignaiole abruzzesi, una laurea in legge conseguita a pieni voti alla Luiss di Roma, forza di carattere e un sorriso coinvolgente, all’enologia e alle sue problematiche ci è abituata sin da piccola. Storceva il naso a sentire l’odore del mosto e pensava che non avrebbe mai fatto la vignaiola. Invece si è rimboccata le maniche, ha chiuso la sua laurea in un cassetto ed è scesa in… cantina per dare il suo contributo alla causa del vino: il suo e quello abruzzese. La Ciavolich è una piccola ma antica azienda vinicola: il capostipite fu Francesco che fece incastrare una targa marmorea su una delle colonne portanti del palazzo-cantina nel centro di Miglianico. Correva l’anno 1853 e il vino era la bevanda più consumata, ma certo non così trendy come oggi. Quando Giuseppe, papà di Chiara, imprenditore nel settore delle macchine agricole, decise con il sostegno della signora Anna di dedicarsi a tempo pieno ai vigneti, lo fece un pò per rinverdire la tradizione familiare, ma soprattutto per passione. Nei 46 ettari divisi tra i 24 di Loreto aprutino, i 7 di Pianella e i 15 di Miglianico si producono Montepulciano, Trebbiano, Cerasuolo, Chardonnay, Cabernet Sauvignon e Pecorino. Per quest’ultimo, anche una bella menzione d’onore al Vinitaly di due anni fa e un’etichetta che risplende, ispirata forse dalla folta chioma bionda di Chiara. «Prendere in mano le redini dell’azienda ha significato fare i conti con molti problemi di natura più o meno pratica. Il mondo del vino è incredibilmente complesso e articolato, non è sufficiente fare un buon vino, entrano in gioco anche tante varianti. La prima etichetta l’ha creata mia madre, nel ’97, un’immagine forte e classica come può esserlo una moneta d’oro. Io ho continuato seguendo la tradizione ma alleggerendo i contenuti per poter essere al passo con i tempi. In fondo, l’immagine di un’etichetta è importante, è la prima cosa che si assapora». Donna del vino con le altre donne imprenditrici abruzzesi, Chiara detesta le competizioni e continua a distinguersi: è sua l’idea di un’etichetta destinata ai non vedenti che ha conquistato giornalisti e pubblico, proiettandola come partner di altre aziende europee in progetti a lunga scadenza, tutti da valutare. Un premio al coraggio e alla spontaneità, come la sorpresa attuale di essere sulla guida di Duemilavini. Elvira Giancaterino
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nella foto, la vignaiola Chiara Ciavolich
LA CIVITELLA, TRE GIORNI DI ENOLOGIA
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na cornice suggestiva, quella del Museo La Civitella di Chieti, per il Gran Galà dei Vini edizione 2005 con la presentazione della guida Duemilavini ‘06 di Bibenda. L’evento concluderà un wine workshop che ha l’obiettivo di far conoscere il vino abruzzese agli operatori del settore, nazionali ed internazionali. Enotria, questo il nome dell’iniziativa, avrà luogo nei giorni 3, 4 e 5 dicembre, vedrà la partecipazione di 40 aziende vitivinicole ed è stata ideata e organizzata da Infiera, società che ha già legato il suo nome a Ecotur. «È necessario realizzare un sistema integrato di marketing territoriale e di commercializzazione dei prodotti di qualità –ha
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commentato Renzo Giammarino, presidente di Infiera– e questa edizione punterà su quei mercati dove la presenza enologica dell’Abruzzo è ancora limitata, come Gran Bretagna, Irlanda, Polonia, Austria, Repubblica Slovacca e naturalmente l’Italia». Un obiettivo condiviso dal presidente della Camera di Commercio di Chieti, Dino Di Vincenzo: «Sostenere Enotria significa sostenere le aziende, che potranno incontrare gli operatori di mercati ancora inesplorati». Dello stesso avviso il Commissario straordinario dell’Arssa Donato De Falcis: «All’Abruzzo mancava un evento di questa portata, e confidiamo che porterà risultati già a medio termine». RIBALTA
UN LOCALE DA MILLE E UNA NOTTE Sheik - Arabian Tea Club, Piazza Ionio - Francavilla al Mar e (Ch) Tel: 328/9772592 n pezzo d'oriente in Abruzzo. Atmosfere suggestive in un am- nato dalla fantasia di un giovane biente volto al relax, con un’ampia sala fumatori dove poter pro- ventiquattrenne di Pianella: Gianvare il narghilé, il più antico strumento creato dall'uomo per gustare il domenico Di Girolamo, le cui aspitabacco; per passare in compagnia un momento di tranquilla conver- razioni lo hanno portato a realizzasazione, con una buona tazza di thè (ma non mancano i cocktail) da re un locale unico nel suo genere scegliere tra diverse qualità: verde per rinvigorirsi, al Karkadé (ottimo in Abruzzo, e presto ad espandere il come digestivo), all'Anice, il classico thè nero dal gusto forte e deciso, marchio anche oltre i confini regioalla Menta, e il Sahara consigliato per un buon riposo notturno. Cusci- nali. Un imprenditore dunque che ha saputo, grazie ad un determini e pouf broccati alla maniera araba creano l’atmosfera, mentre sor- nante intuito e ad un raffinato gusto nei particolari, offrire una valida prese e attrazioni fanno da co-protagonisti ad un ambiente già di per alternativa alle classiche serate costiere. Un invito per tutti coloro che sé particolare: infatti ogni venerdì e sabato dalle 23.30 si susseguono per una sera vogliono sentirsi davvero rapiti da un'insolita atmosfera. esibizioni di danza del ventre e di fachiri. Un posto diverso dai soliti, Miriam Di Nicola
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PIZZA D’AUTORE Pizzeria CIRO, Viale Marconi 63, Pescara, Tel. 085 4503089
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tto metri per dieci, all'incirca ottanta metri quadri calpestabili: pavimento e tavolini in legno scuro; pareti giallo ocra che accolgono stampe di Klimt e Gauguin; giornali da leggere e sgabelli comodi su cui sedere. Protagonista insieme alle molteplicità di pizze variopinte e dai condimenti più succulenti, l'imponente bancone di legno che costeggia le pareti laterali, dove scegliere tra varie specialità di panini e quant'altro di stuzzichevole si può desiderare. Un ambiente confortevole per un pranzo veloce, o per uno spuntino (oltre cento varietà di pizza) o per ordinare una pizza da asporto, o da farsi consegnare direttamente a casa grazie al servizio a domicilio. Ma anche un posto alternativo dove festeggiare un compleanno. Una pizzeria concepita quindi non solo come take-away, ma anche luogo accogliente e familiare dove sentirsi a proprio agio. All'interno del locale nulla è lasciato al caso, come sottolinea il titolare, Mirco Falcone: «Per lavorare bene si deve voler lavorare bene. Un locale oggi deve essere completo in ogni sfaccettatura: ottimo servizio, luogo accogliente, ma soprattutto personale cortese». È facile entrare nella pizzeria e trovarlo intento ad impastare o mentre serve le pizze ai clienti. Imprenditore nel settore della ristorazione da almeno dieci anni, il
suo “progetto Ciro” è quello che si potrebbe definire la realizzazione di un sogno perseguito dopo anni di ampi successi nel campo. Dopo aver iniziato quasi per caso, Mirco ha deciso, attraverso corsi per pizzaioli e continui aggiornamenti, di realizzare quella che un giorno sarà una “catena di Ciro”. Ecco perchè dopo la prima più piccola in V.le Marconi 63, nasce la seconda più grande all'inizio di Via Tiburtina, perchè «l'idea è quella di non fermarsi solo a Pescara, ma di spostarsi anche verso Chieti, Montesilvano, Silvi…». Ma la vera protagonista di “Ciro” resta pur sempre la pizza, che con i suoi molteplici condimenti rimane la regina incontrastata del locale. Grazie forse all'impasto segreto? Provare per credere! O magari tentare di estorcere la ricetta a Mirco. A voi la scelta. M.D.N.
TABULA RASA CON LETTURE Tabula Rasa, via A. Di Vestea 20 - Pescara (Pe) Tel: 085 4516162
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nventare inventare inventare, pena l’anonimato, e il “Tabula Rasa”, in Via di Vestea, non si sottrae alla regola aurea dei locali della “Miami del medio Adriatico”(etichetta coniata dal settimanale “D”di Repubblica per il divertimentificio Pescara). Siamo a due passi da Corso Manthonè, in un quadrato dipinto di rosso, «ibrido, bar serale\disco pub –parola dei proprietari Luca Lotteria e Davide Rapagnetta– qui ti facciamo ascoltare buona musica, ti sfruculiamo con l’aperitivo dalle 18.30 in poi, tutto preparato all’istante, ti sorprendiamo con i taglieri ed altre invenzioni, la fonduta o i supplì dolci, al cioccolato fondente. Laddove per buona musica si intende no e sottolineo no, al solito latino americano, tipo salsa e merengue. Sì al rock alternativo (al venerdì con BB1) o elettronico (al sabato)». Al giovedì la serata diventa “favela 51”,
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sonorità africane con mélange di Cuba Giamaica e Brasile. Interessante anche il martedì. Due volte al mese sono i libri ad essere protagonisti, nella serata “Garagermetico” (reading, recital e varie amenità letterarie). Gli altri due ospitano il dj set Hip Hop di Manfredi. Un sontuoso schermo al plasma garantisce anche l’intrattenimento per i malati di Champions League, ma, beninteso, con sottofondo musicale senza telecronaca. Curioso anche il gemellaggio con un locale di Barcellona e uno di Cracovia, in collegamento via webcam. P.F. VARIO56
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SOCIETÀ
DILETTANTE A CHI? osa occorre per diventare astronomi? Innanzitutto il buio. quindi per prima cosa è necessario individuare un luogo di osservazione lontano da grandi fonti luminose, lontano dalle città, in definitiva, meglio se in riva al mare o in alta quota, collina o montagna. L’attrezzatura è importante, sì, ma anche con poca spesa e con strumenti base è possibile ottenere belle soddisfazioni. Un telescopio dal diametro di 10-20 centimetri è il punto di partenza. Accrescendo la dimensione aumenta la resa visiva, fino a 40 centimetri il costo e il peso, sono alla portata delle tasche di chiunque. Importante è sistemarlo su una base stabile. Meglio se si connette al telescopio una macchina fotografica o una telecamera digitale per immortalare quel che si scopre. Giove, Saturno con gli anelli, la nebulosa di Orione, questi sono i primi e i più accessibili oggetti che con poco sforzo si riescono a cogliere. All’occorrenza, con pochi e semplici rudimenti di falegnameria, è possibile anche
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allestire un piccolo osservatorio, una specie di cabina che protegga dal freddo delle notti invernali (le migliori per avere il cielo più terso possibile), costituito da una sorta di cabina sormontata da una cupoletta. L’estate è la stagione migliore per le osservazioni, perchè la temperatura consente luinghe pemanenze all’aperto, ma il problema è l’umidità. Allora conviene salire in alta quota, sopra lo strato di umidità che diffonde le luci delle città vicine. Che lo si chiami “dilettante” o “della domenica”, l’astrofilo è una figura preziosa per l’astronomia, una disciplina che non vive di soli scienziati. L’astrofilo è colui che divulga la scienza astronomica al grande pubblico, ma è anche colui che spesso, libero dai limiti imposti dall’appartenenza ad un istituto di ricerca, riesce a compiere veri e propri miracoli, come scoprire stelle, ammassi, comete, meteore, nebulose, galassie, costellazioni. Il cielo è grande, c’è spazio per tutti.
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hi ci vede un carro, chi ci vede un guerriero con la spada alla cinta,chi ci vede figure animali,bestie mitologiche o il proprio quadrupede di famiglia. C’è gente che ci legge il proprio futuro e quello degli altri, c’è chi trascorre tutta la vita a dar loro un nome fatto di sigle, numeri, o lettere dell’alfabeto greco, attentando al romanticismo di chi, vedendole cadere, si affida a loro affinché si realizzi il proprio sogno più inesprimibile. Esistono infiniti modi di guardare un cielo notturno, ma un'unica condizione base, che sia estate. La bella stagione suscita irrimediabilmente la voglia di non avere nulla al di sopra di sé, tranne la volta celeste. Al suo cospetto diventiamo tutti come il Postino di Massimo Troisi, o come il piccolo minatore pirandelliano Ciaula. La necessità dell’incanto, insopprimibile nello spirito umano, in quello animato da attitudini scientifico-analitiche così come in quello mosso esclusivamente dal puro sentimento, trova soddisfazione nella contemplazione
CHI HA PAURA DEL BUIO? ra la vendetta degli astronomi sarà tremenda, e avallata da nuovissime leggi regionali e nazionali.Agli osservatori si attribuisce giurisdizione nel far spegnere tutto ciò che,nel raggio di 20 km,impedisce loro la visione notturna del cielo. Ad esempio quei proiettori enormi sui tetti delle discoteche, maledizione degli osservatori di tutto il mondo,una sola,la più grottesca, tra le forme che assume l'inquinamento luminoso, lo strangolatore
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a cura di Paolo Ferri
dell’assoluto. L’alibi della ricerca come quello del romanticismo, reggono fino a un certo punto. Il cielo punteggiato della notte, il profumo di una brezza nel buio assoluto, diventano, per chi le ha conosciute almeno una volta, per chiunque sia in possesso di uno straccio di sensibilità, la realizzazione di una esigenza fisiologica, pura e semplice, ancorché non percepita come tale. Che diventa rito, nella giornata dell’anno ad essa consacrata, il dieci di agosto, la notte di San Lorenzo, le lacrime del martire (ce le ricorda ineluttabilmente “il” Pascoli). O che diventa fuga, per l’astrofilo provetto del week-end, nel suo mini-osservatorio. Infinite sono le suggestioni evocate dal cielo notturno estivo, infinite come quelle cose che non hanno forma e sostanza, che non sono altro che gas e vapori,cose che che non si possono toccare o trattenere,come le cose più preziose. E cosa c’è di più prezioso di una stella?
delle nostre notti. E che dire dei lampioni a globo, che inviano metà della luce verso l'alto, sommo spreco e inutilità? Sono stati fissati criteri severi e precisissimi sul posizionamento delle luci stradali. Della cancellazione della visione notturna con conseguente perdita della cultura del cielo si è occupata addirittura l'Unesco, che ha inserito nella dichiarazione Universale dei Diritti delle Generazioni Future il cielo
notturno, come “patrimonio dell'Umanità da preservare integro e visibile alle future generazioni”. Per capire come chi vive in città non abbia idea della bellezza e ricchezza del firmamento si pensi a quanto accaduto durante i recenti blackout negli Stati Uniti e in Italia. Gli istituti scientifici sono stati tempestati di telefonate da parte di gente stupefatta per la visione di quel cielo pieno di “puntini luminosi”. Crediamo che siano ufo invece sono le care vecchie stelle, stanno lì da milioni di anni, le conosciamo da millenni,ma sono diventate a tutti gli effetti, oggetti non (più) identificati. RIBALTA
GLI OCCHI D’ABRUZZO Astronomia e astrofisica trovano in Abruzzo realtà importantissime, sia nel campo della ricerca che in quello dell’osservazione. Di ambito strettamente astronomico (escludendo quindi le installazioni di Alenia Spazio nel Fucino e il laboratorio astrofisico sotto il Gran Sasso) sono tre le strutture di primissimo livello, e tutte nella provincia di Teramo, quando nel resto d’Italia al massimo ne troviamo una per regione. L’occhio più importante, (scopre supernova e studia i raggi gamma) è quello dell’osservatorio
COME TI INSEGNO LE STELLE n satellite per le comunicazioni GPS si può rompere con più facilità di un sestante. È accaduto di recente, nel Pacifico Meridionale, e se sei in mare, prega di aver fatto un corso di navigazione astronomica, altrimenti è facile che non tu riesca mai a sapere dove ti trovi. Per ottenere la patente nautica necessaria a condurre imbarcazioni
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QUANDO CADE UNA STELLA astronomico di Campo Imperatore, a 2200 metri sul livello del mare, promanazione dell’Osservatorio Astronomico di Roma, istituito nel 1958 grazie ai fondi del Piano Marshall. Poco distante dal centro di Teramo si trova l’osservatorio astronomico di Collurania, nato alla fine dell’800 per merito del grande scienziato teramano Vincenzo Cerulli Irelli che addirittura ribattezzò un pianetino da lui scoperto col nome di “Interamnia”. Ora fa parte degli osservatori dell’INAFS (Istituti Nazionali di Astrofisica e Fisica dello Spazio) e ospita un master in Astrofisica dell’Università di Teramo. Ma il vero guru dell’astronomia abruzzese rimane il mitico Fausto Marini di Mosciano Sant’Angelo, con l’osservatorio di Colle Leone, costruito tutto da solo, da 20 anni il maggiore osservatorio privato in Abruzzo. Una lente di 51 centimetri, tra le più grandi d’Italia, un planetario nuovo di zecca, tra i più moderni d’Europa, con una cupola di dieci metri, e che, sebbene sia in attesa dei fondi necessari a completarlo, accoglie frotte di scolaresche e turisti. Accanto a Fausto lavorano settanta collaboratori, tra cui il figlio Alessio e, in veste di presidente dell’associazione che gestisce la struttura, un astronomo di fama internazionale (Nasa) come Mario Lattanzi.
Era un macigno di composizione metallica, grande quando una stanza, che vagava nello spazio. Un giorno imprecisato, forse dell'anno 412 Dopo Cristo, decennio più decennio meno, il masso spaziale fu attratto dal campo gravitazionale del pianeta Terra. Penetrò nell'atmosfera alla velocità di 20 km al secondo, si arroventò lanciando bagliori di intensità solare, e infine andò a schiantarsi sul Monte Sirente, in Abruzzo, a Sud della odierna città de L'Aquila. Non sapremo mai il numero delle vittime, forse diverse centinaia, ma al momento è difficile affermarlo con certezza. Di quell'evento così nefasto e terribile per le antiche popolazioni abruzzesi resta un laghetto di circa 140 metri di diametro, circondato da altre 17 piccole buche prodotte dai frammenti del corpo impattante. Nell'impatto si sviluppò tanta energia, paragonabile a quella rilasciata da una piccola testata nucleare, che sia il meteorite sia il terreno roccioso vaporizzarono all'istante. Si tratta della prima scoperta di un cratere d'impatto avvenuta in Italia, che si aggiunge alle 155 formazioni simili finora individuate e descritte in varie parti della Terra.
superiori ai 24 metri è obbligatorio superare l’esame di navigazione astronomica e tutte quelle che fanno rotte oceaniche sono obbligate a portare un sestante. D’altronde, millenni di marineria non possono sbagliare. Oggi, con i libri delle Effemeridi nautiche e con le tavole a soluzione diretta, una bussola e un sestante, si va anche senza il Sistema di Posizionamento Globale. Il sestante esprime in gradi l’altezza di una certa stella sull’orizzonte, le carte ti dicono dove si deve trovare quella stella in quel giorno a quell’ora, così si può trovare la propria
latitudine e il gioco è fatto (più o meno). «Il corso di navigazione astronomica ti fa scoprire un mondo sconosciuto e incantevole –spiega Marco Bovani, faro dei diportisti pescaresi– che accresce il piacere di andare per mare. Sei solo, a tu per tu con il cielo, e conta solo la tua capacità di osservare e riconoscere le stelle. E a sette-otto miglia dalla costa si vede l’80-90 per cento in più di stelle. E dimenticarlo –assicura Marco– poi, diventa assai difficile». VARIO56
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SOCIETÀ
Prima della prima Da trent’anni sul piccolo schermo. Tv Atri, fra le prime tv libere sorte in Italia, iniziò in un sottoscala. Oggi è arrivata all’auditorium il 1975 quando ad Atri Domenico Muscianese Claudiani, esperto in telecomunicazioni (è progettista e fornitore di apparecchiature elettriche ed elettroniche a tutti i Ministeri civili e militari) fa nascere in seno ad una associazione di volontariato senza finalità di lucro, denominata Carta (Club Amatori Radio Televisione Atriani) la prima emittente televisiva in Abruzzo. All’epoca solo la Rai era autorizzata a trasmettere via etere. Tv Atri inizia le sue trasmissioni nel sottoscala della famiglia Muscianese Claudiani, con immagini fisse dei monumenti della città ducale trasmesse sui canali 81-88 banda prima, libera e non utilizzata da “mamma Rai”. L’emittente nasce in via sperimentale; successivamente si costituisce un’associazione che, in un primo momento, prende il nome di “Club Amatori Radio Televisione Abruzzo”,poi cambiato con “Atriani”, in sigla Carta. L’organizzazione Carta con Tv Atri è stata ed è soprattutto palestra per tanti giovani che hanno potuto acquisire notevoli esperienze attraverso una formazione professionale gratuita nel settore della informazione e della comunicazione di massa. Con assoluto disinteresse, l’associazione no profit di Tv Atri ha garantito e garantisce pluralismo, democrazia, confronto e ha consentito la libera
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espressione del pensiero con totale imparzialità a quanti hanno utilizzato questa struttura. Tv Atri ha offerto straordinarie possibilità per una più attenta lettura e valorizzazione della realtà locale, attraverso la divulgazione di avvenimenti sociali e culturali come le sedute del Consiglio comunale, seminari scientifici, concerti, manifestazioni folcloristiche, tutte le manifestazioni sportive, feste religiose e tradizioni popolari, andando anche oltre il “campanile”per trasmettere grandi eventi sociali, religiosi e politici (nazionali e internazionali), veicolati attraverso i collegamenti con la Camera dei Deputati e Senato e Sat 2000 per il sociale. I programmi, privi di pubblicità, hanno rivolto particolare attenzione alle persone anziane, ai malati, ai diversamente abili e ai bambini con assoluto rispetto del codice di autoregolamentazione per la “tv dei minori”. Questa storica emittente con enormi sacrifici ha redatto 6000 telegiornali, trasmessi quattro volte al giorno; sono stati realizzati oltre 220 servizi sui consigli comunali; immortalate più di 700 manifestazioni e 1000 eventi sportivi con dibattiti e trasmissioni di approfondimento; inoltre grande attenzione è stata rivolta ai programmi a tema medico e sociale. La particolarità di questa emittente è quella di non aver mai trasmesso pubblicità,
svolgendo esclusivamente un pubblico servizio gratuito recuperando ed esaltando i caratteri, le radici e i valori di un patrimonio di civiltà legata al territorio. È con notevole sforzo economico dunque, che questa piccola ma coraggiosa emittente nel 2002 ristruttura ed amplia la propria sede, creando uno spazio culturale e sociale, denominato “auditorium Carta”con oltre cinquanta posti a sedere ed una nuova regia-studio più capiente da dove vengono divulgati i vari quotidiani d’informazione. Nel 2004 due importanti riconoscimenti hanno suggellato il lavoro di questa televisione con la visita dell’allora Ministro delle Telecomunicazioni, l’On. Maurizio Gasparri, il quale ha avuto parole di compiacimento e di elogio per il servizio quotidiano fornito alla comunità ed in particolare per quello indirizzato ai cittadini più deboli. Nel giugno 2004 inoltre una troupe del Tg3 Abruzzo ha realizzato un servizio su Tv Atri con tanto di interviste al direttore tecnico e ai soci fondatori. Il 2005 segna i trent’anni di attività di questa emittente, tra enormi sacrifici e tante soddisfazioni che laureano con il massimo dei voti la prima televisione in Abruzzo. Luigi Di Marzio
Se Ortona tenesse lu cinema... ’era anche l'Onorevole Franco Corleone, alla riunione dello scorso 18 ottobre, per ottenere il risultato del ritorno del cinema nel centro cittadino. Si chiama Un cinema per Ortona ed è la campagna promossa dall’Associazione Culturale “Nuovo Cinema Odeon”presieduta da Paola D’Aloja. Nella Sala Rotary del Convento di Sant'Anna, alla presenza di una vasta rappresentanza della cittadinanza ortonese, il Sindaco Nicola Fratino, l'Assessore all'Urbanistica, Remo Di Martino e l'Assessore allo Sport e Cultura del Comune di Guardiagrele, Rullo, hanno dibattuto a lungo la storia controversa del Cinema Odeon, fatta di concessioni e di ritiri, di amministrazioni che cambiano e di promesse non mantenute. L’Associazione Nuovo Cinema Odeon
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preme sulla funzione sociale e culturale della presenza di una sala cinematografica nel centro di Ortona: punto di aggregazione e polo culturale, struttura a disposizione dei cittadini e del Comune. «Ortona si prepara a diventare una città della cultura», ha affermato l'Onorevole Corleone. «Ci sono tasselli che portano in questa direzione, la riapertura del Teatro Vittoria, il restauro del Castello… Bisogna pensare di dare un nuovo progetto culturale alla città, un progetto che unisca i linguaggi delle diverse generazioni». L’Associazione tende a un intrattenimento che sia differente da quello della programmazione delle multisala, come spiega Lorenzo Seccia, vicepresidente dell'Associazione: «Il nostro modello di riferimento sono le esperienze del Cinema Garden di Guardiagrele e del Cinema Asterope di Francavilla, che riescono a dare una programmazione diversa dal solito, incontrando il favore del Fabio Ci mi ni era pubblico». Nella foto: Nicola Fratino, Franco Corleone, Lorenzo Seccia e Paola D’Aloja
Il signore dei capelli l manager, gli artisti, le persone comuni che, anche nella nostra regione, vogliono curare il più antico problema estetico del maschio –la calvizie– hanno un serio punto di riferimento: un affermato professionista abruzzese che vanta risultati almeno pari a quelli ottenuti dal premier Silvio Berlusconi nell’ormai noto intervento celato lo scorso anno sotto la celebre bandana e svelato, impietosamente, dagli obiettivi delle telecamere. «Chiariamo subito –precisa il dottor Donato Zizi, 40 anni, laurea in medicina alla G. d’Annunzio e corsi di perfezionamento a Milano, Svizzera e Gran Bretagna– per quanto concerne l’intervento del premier non conosco il problema e in medicina ogni caso va valutato a sé. Certamente si vede che chi ha fatto l’intervento è stato molto bravo». Per la cronaca, chi ha fatto l’intervento del premier, a Reggio Emilia, è stato il dott. Piero Rosati, medico tra i più preparati ed anche lui abruzzese doc, originario di Atri. Zizi, nel proprio centro medico a Scerne di Pineto, da anni effettua trapianti dei capelli e si divide tra la cittadina teramana e le più titolate cliniche
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di Londra dove ogni mese trascorre un paio di settimane intervenendo sulle più esclusive pelate dei londinesi. Collabora, infatti, con la Transform Medical Group, 10.000 interventi annui all’attivo ed unico centro estetico riconosciuto dal sistema sanitario inglese. «Ovviamente nomi non ne faccio –sottolinea con un sorriso sincero– ma certo a Londra capita di mettere mano a capigliature di artisti, nobili e manager noti. Proprio la scorsa settimana ho trattato un aristocratico molto vicino alla Casa Reale ed un famoso artista rock». Insomma, anche nelle ovattate cliniche di Harley Street, tra un delizioso pasticcino e le esclusive fragranze di Penhaligans, Donato Zizi –un abruzzese verace– porta alta la nostra laboriosità e maestria anche nella clinica dermatologica (e, aggiungiamo, nello sport: vista la medaglia d’argento nella corsa conquistata nello scorso luglio ai giochi Mondiali della Medicina). Ma in Abruzzo cosa chiedono i nostri corregionali? Qual è l’intervento più diffuso? Cosa fanno i maschi nostrani per apparire più giovanili?
«Indubbiamente –aggiunge il dottor Zizi– il fenomeno dell’auto trapianto dei capelli (probabilmente, l’unica modalità seria di affrontare la calvizie) ha preso piede anche in Abruzzo e, statisticamente, i dati sono molto interessanti. Così come sono numerosi i nostri vip che sono intervenuti sulle proprie chiome per rimodellare il look. Del resto tale tecnica ormai è consolidata e sia clinicamente che economicamente è alla portata di molti. Ovviamente siamo noi stessi a consigliare i pazienti a desistere se il quadro medico non permette un intervento adeguato». Che dire: se non sarà vero che si riacquistano le forze con i capelli né che la calvizie è correlata ad un surplus di …mascolinità, certo è che i maschietti abruzzesi, come le femminucce per altri interventi, tengono al proprio aspetto e, perché no, un ritocchino che può aiutare se non altro a piacersi e ad accrescere la propria autostima, non esitano a darselo! Francesco Cocco
Donato Zizi.
Associazione per la mente
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l Sé, questo sconosciuto. Eppure ce l’abbiamo dentro, tutti quanti. Sviluppare la consapevolezza e l’espansione del Sé è l’obiettivo dell’associazione culturale Avalon, un punto di incontro per migliorare la qualità della propria vita attraverso attività di auto-conoscenza. Incontri culturali, corsi, seminari e sedute individuali per il riequilibrio psichico e bio-energetico, sempre operando in maniera solistica, questo è il percorso proposto da Avalon per sviluppare l’abilità di auto-indagine –il Conosci te stesso– per espandere e integrare la propria personalità. «Nutrire in egual misura corpo, mente ed emozioni –spiega Zuleika Fusco, responsabile dell’Associazione, che ha sede in via di Sotto, 120, a Pescara– permette una crescita integrale. Imparando ad amare e rispettare se stessi, ci si riscatta dallo stress e dai condizionamenti della vita quotidiana a favore di un sano equilibrio psico-fisico e di un’agevole capacità di relazionarsi con il prossimo e con l’ambiente». Avalon si colloca nel settore socio-educativo, e opera, come erogatore di servizi e come ente formatore riconosciuto dal Ministero della Salute (per il Piano dell’Educazione Continua in Medicina). Tra le molteplici ispirazioni dell’attività di questa associazione occupa un posto importante il pensiero di Gibran, e quanto espresso nella sua opera Il Profeta: “Abbiate fiducia nei sogni, perché in essi è la chiave dell’immortalità”. E infatti grande rilievo viene dato all’esplorazione ed interpretazione della dimensione onirica, fondamentale per l’auto-conoscenza, in quanto ci consente di vivere a stretto contatto con il nostro inconscio, scoprendo quella parte, spesso rimossa poiché vera, estremamente sincera e, dunque, dolorosa e scomoda. «Eppure –conclude Zuleika– in quella parte così intima e profonda di noi risiede la nostra saggezza, foriera di doti quali l’Intuito e la Creatività in grado di rendere speciale la nostra esistenza». P.F.
Sabato 26 Novembre avrà luogo il Linux Day, evento organizzato da ILS (Italian Linux Society, associazione no profit che si occupa di sostenere progetti relativi allo sviluppo di GNU/Linux e del Software Libero in Italia, nonchè di favorire il coordinamento tra i vari gruppi di utenti del “pinguino”). L'evento è curato nelle diverse città dal rispettivo LUG (Linux User Group); il PeLUG curerà dunque la seconda edizione del Linux Day a Pescara presso il pub Orange (via Nazario Sauro, 15 - tel.0854554451), locale in cui è già predisposto un internet cafè “libero”, sia nel prezzo che nel sistema operativo. Quest'anno si è deciso di porre maggiormente l'accento sul significato politico del Software Libero; gli interventi della mattina riguarderanno appunto questo tema, mentre nel pomeriggio si susseguiranno seminari più “tecnici”: installazione passo-passo della distribuzione Mandriva, dal partizionamento fino alla configurazione di scanner, stampanti; creare una radio in streaming; reti locali, browser, client di posta elettronica, wireless; connessione a Internet tramite GPRS; GIMP (software di fotoritocco)… Il programma potrebbe subire delle modifiche pertanto siete invitati a consultare il sito www.pescaralug.org. L'evento inizierà alle 10 e terminerà alle ore 19. L'ingresso è gratuito. F.P.
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MUSICA
CHIETI,SI FA FESTIVAL l neoeletto Sindaco di Chieti Francesco Ricci, presentando il Chieti Festival il 21 agosto scorso in un affollatissimo Supercinema, aveva commentato: “L’essenza di questa manifestazione è l’incontro fra culture diverse, scambio di ricchezze inestimabili quali possono essere la musica e le arti in genere, proposta e fondamento di pace. Credo che il Mediterraneo, epicentro dal quale convergono nella nostra amata città gli artisti e tutti gli altri testimoni di queste giornate, possa essere da oggi il punto di riferimento della pace, dopo anni di tribolazione, guerre e ingiustizie”. La prima edizione del Chieti Festival si annuncia quindi come un evento, che nelle intenzioni del suo curatore ha il compito «di fare produzione, di non essere una semplice rassegna, di andare oltre il mettere insieme dei gruppi musicali». Sono le parole di Tony Pancella, virtuoso pianista noto e apprezzato in ambito nazionale ed internazionale, che ha legato il suo nome a tanti grandi del jazz. Pancella è anche il promotore e il direttore artistico del Chieti Festival, una serie di eventi musicali improntati al tema dell’interculturalità –con particolare riferimento, in questa edizione, all’area balcanica e mediorientale– che animeranno le serate teatine dal 30 novembre al 4 dicembre prossimi. «Tutto è nato dalle mie esperienze all’estero, che mi hanno portato a considerare quanto importante fosse, avendo la disponibilità delle amministrazioni locali, organizzare qualcosa che non fosse solo un concerto o una mera esibizione di gruppi, ma che avesse un senso al di là della manifestazione stessa. Il tema, oggi scottante, della multiculturalità, della contaminazione, che costituisce poi l’elemento portante della musica contemporanea e del jazz in particolare, mi è sembrato ideale per cominciare. Un colloquio informale col Sindaco di Chieti Francesco Ricci ha fatto il resto». L’esperienza di Pancella come musicista lo ha portato a conoscere tanti artisti di caratura mondiale, che hanno accettato il suo invito e che faranno di Chieti, per cinque
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giorni, la capitale della musica contemporanea. «Il Festival non si limita al jazz, ma copre varie esperienze musicali come la world music, la musica sinfonica, quella popolare e quella colta. Ci sarà anche un evento speciale, che vedrà l’incontro della musica antica con l’improvvisazione jazzistica». La manifestazione ha anche un altro scopo, quello di avvicinare la città al territorio e l’Università alla città. È quanto ci ha detto Gaetano Bonetta, Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Ud’A : «Spesso si pensa che quanto avviene nell’Università non sia qualcosa di fruibile da parte della cittadinanza, ed anche che sia difficile far partecipare gli universitari ad eventi cittadini. Ateneo e città sono come due realtà distinte, anche per la mancanza di collegamenti; vogliamo aprire l’Università alla città e viceversa, e per far questo la Facoltà di Lettere ha sottoscritto un protocollo d’intesa con l’Amministrazione comunale, che ci consentirà di organizzare degli eventi musicali, e degli eventi collaterali, come seminari e proiezioni, proprio nel Campus della d’Annunzio. Del resto questa consonanza di intenti è ampiamente dimostrata dal fatto che nella nostra Facoltà, già da più di un anno, è stato attivato un corso di laurea specialistica in Civiltà e Società del Mediterraneo». RIBALTA
«Più in particolare –aggiunge ancora Pancella– abbiamo trovato la collaborazione di un agguerrito gruppo di stagisti che provengono dal Master di Music Management, e la generosa disponibilità delle attrezzature della Web Agency dell’Ateneo diretta da Nicola Di Nardo». Al centro del progetto c’è la partecipazione giovanile: «Molta attenzione è stata posta, oltre che al pubblico universitario, anche alle scuole cittadine, i cui studenti speriamo di portare in massa a vedere i concerti e gli altri eventi collaterali. C’è bisogno di mostrare ai ragazzi cosa c’è dietro un concerto, dietro un evento di questo genere, perché l’educazione musicale scolastica italiana versa in uno stato che rasenta il ridicolo». Il programma del Chieti Festival prevede, per la serata inaugurale, una “prima”europea: l’esecuzione di una suite per trio jazz e orchestra sinfonica composta dal grande pianista Larry Willis, che sarà presente sul palco insieme ad Al Foster alla batteria (è stato il batterista di Miles Davis) e Buster Williams al contrabbasso, accompagnati dall’Orchestra Sinfonica del Teatro Marrucino diretta dal Maestro italoamericano Arthur Pranno, che ha già eseguito la suite negli Usa. Altri protagonisti del Festival saranno i Lothlorien, gruppo bulgaro dal nome tolkieniano, notissimi in Europa ma mai stati in Italia, autori di una folk music RIBALTA
molto contaminata; il fisarmonicista teramano Renzo Ruggieri con il progetto H@rmonic World Noiser che vede coinvolto un sassofonista israeliano: Yaron Herman, che si cimenterà nell’esecuzione di un tipico songbook in cui confluiscono altre influenze musicali, anche grazie alla presenza di un sax parigino; gli Zadranke, gruppo popolare dalmata, composto da quattro voci femminili e da un trio jazz, e per finire la Roma Jazz Ensemble Big Band con ospite il sassofonista Dick Oatts, che presenteranno in anteprima il loro nuovo cd appena pubblicato dalla Sony. Insomma, un programma succulento che non si limiterà ad accontentare gli appassionati di jazz ma cercherà «di restare nella memoria, di mettere radici, di mostrare alla cittadinanza, cioè, che un’altra Chieti è possibile» dice Andrea Catena, giovane vice sindaco di Chieti. «L’amministrazione comunale conta molto sulla manifestazione per rilanciare le attività culturali di ampio respiro, e anche la Provincia ha investito risorse nell’evento». Sarà la prima volta che Chieti vivrà momenti culturali di dimensione europea, e nelle intenzioni del Sindaco Francesco Ricci questo Festival è solo l’inizio. Paolo Di Matteo
Nella pagina a fianco: la Roma Jazz Ensemble Big Band; sotto il titolo: Larry Willis, pianista e compositore americano. Qui sopra, Tony Pancella, direttore artistico del Chieti festival. Tutte le informazioni sull’evento sono disponibili sul sito www.chietifestival.it che, grazie anche alla traduzione in inglese, ne darà la massima diffusione nazionale e internazionale.
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MOVIEMENTI
Dino Viani el 1989 un film girato in economia fece molto parlare di sé e del suo autore. «Era il mio primo lungometraggio, raccontava di un brigante delle mie parti che aveva rubato una giacchetta ad un piemontese e la indossava, facendosi chiamare “generale”. Giravamo d’estate, solo nei weekend, con masse di persone che non era facile mettere insieme. Per me averlo finito e presentato al paese era già un gran risultato.L’inatteso clamore e l’interesse dei media mi travolsero. Dal ’90 al ’98 mi sono nascosto, ho studiato». Il film si chiama Il generale e il suo autore è Dino Viani, classe ‘61, un’infanzia trascorsa ad Ari, il paese dei nonni, nella contrada chiamata “Lu quarte ‘llà”. «Il mio primo lavoro era stato un piccolo documentario, nell’85, dal titolo Ari mon amour. Volevo descrivere la vita in un piccolo paese come il mio, apparentemente tranquillo ma all’interno animato da violenti contrasti, come le faide di carattere politico. Volevo dimostrare come quelle energie non fossero usate per crescere, ma per implodere». Fortemente critico verso se stesso, Viani ha fortunatamente ripreso la sua attività, che lo ha portato a lavorare spesso in Argentina, dove tra documentari e cortometraggi ha stabilito legami importanti con quella terra e con la gente che la abita: «C’è una serie di coincidenze strane nella mia vita: tutto porta
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a qualcosa. Il nonno di mio nonno era un brigante. I piemontesi lo catturarono e lo condannarono a morte. La sua figura carismatica mi ricorda molto l’Aureliano Buendia di Marquez. La leggenda vuole che, sfuggito al plotone d’esecuzione, abbia cominciato a correre, per giorni interi, e che sia arrivato a Napoli dove si sia imbarcato clandestino su una nave diretta in Argentina. Dopo una latitanza di quindici anni, chiamò a sé i due figli ormai maggiorenni, contribuendo con loro alla costruzione della stazione ferroviaria di Rosario. Tutta la mia vita si è svolta a metà strada tra sogno e realtà, quel che cerco e vedo è sempre in questo limbo, in questa sospensione quasi irreale, onirica». L’abc del cinema lo impara a Bologna: «Frequentavo il Dams, ma invece di andare a scuola andavo al cinema. Il cinema è la più grande meraviglia mai inventata, un linguaggio così complesso nella sua semplicità… La mia bisnonna è morta a cent’anni, lei è stata la mia prima insegnante di cinema: le favole, le fiabe, i “riferi” (i fantasmi, in dialetto arese) le “pantàfiche” (gli antenati che tornavano nella notte di Ognissanti), l’inverno, la neve, il camino e il fuoco sono il più grande cinema che sia mai esistito. Con il cinema mi sono ritrovato, il rapporto col buio per me è fondamentale». RIBALTA
UN SOGNO CHIAMATO CINEMA Nella pagina a fianco, un ritratto di Dino Viani. In questa pagina, in alto, due foto di scena dal film Il Segreto ispirato dal “rito delle Verginelle” a Rapino. Qui a lato, da sinistra: una rara immagine de Il Generale e Carmine Viani in Desarraigo, un poetico film sull’emigrazione.
Viani si infervora, quando parla di cinema. «Il cinema attuale non fa altro che raccontare storie, specialmente quello italiano, con questo minimalismo… C’è un manierismo involutivo allucinante. Credo che il cinema abbia detto talmente tanto che oggi è difficile fare cose nuove, lo capisco benissimo. A volte penso che sarebbe meglio fermarci e studiare il passato. Anche perchè manca un’alfabetizzazione, l’educazione al gusto cinematografico. Il cinema è un time-out poetico che sospende il tempo per condurci in un altro tempo. Ci fa vedere e, soprattutto, rivedere con quella stessa meraviglia che abbiamo avuto quando da bambini, per la prima volta, abbiamo visto la nostra immagine riflessa nell’acqua del pozzo». La sua idea di cinema è legata a qualcosa di ancestrale, di innato: la capacità di restare bambini è ciò che ci permette la “visione“: «Il bambino è un portatore sano di cinema. Ho lavorato per anni nelle scuole, quasi gratis, esperienze meravigliose. «Quel che mi piace è raccontare ”la befana”, l’attesa: il mondo di oggi non si aspetta più niente perché ha tutto già pronto. Faccio cinema solo se ha qualcosa a che vedere con l’immagine, l’immaginazione, il sogno. Vivo perennemente in questo stato tra sogno e realtà, e per me quello è il cinema». RIBALTA
Oggi Dino Viani sta terminando un film sul tradizionale rito delle Verginelle a Rapino: «Da anni, ormai, faccio film su cose che accadono dalle nostre parti. Mi lascio molto guidare dall’istinto, cerco di creare armonia tra me e le cose che osservo». La sua vita professionale si è divisa, negli anni, tra l’indagine antropologica e quella sociopolitica. In Abruzzo ha girato Storie di terra - The room, Saluti Marxisti, Lu foche di Sant’Antonije, Francavilla, Dalla terra, Il vino di nonno Rocco, Sguardi: incursioni poetiche nelle tradizioni popolari e nel mondo legato alla vita dei campi. In Argentina, Italiani d’Argentina, Feliz Navidad, Desarraigo, Un mondo migliore e sta ultimando il montaggio di Argentina today, un viaggio dentro l’Argentina post-crisi economica. Grazie a Desarraigo (sradicamento) ha conosciuto Mempo Giardinelli, scrittore italoargentino di origine abruzzese, che gli ha regalato i diritti di un suo romanzo, El cielo con las manos, dal quale Dino trarrà un film in 35mm. «È la storia autobiografica di un giovane scrittore argentino che fugge in Messico al tempo della dittatura. Il ricordo di un amore giovanile lenisce in lui il dolore dell’esilio. La parte che nel romanzo è ambientata in Messico nel film sarà trasportata in Abruzzo». F.G.
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MOVIEMENTI
PREMIATA DITTA BALDACCI & BATTIATO Daniele Baldacci, 35 anni, abruzzese, è definito tra i direttori fotografici più innovativi del cinema italiano. Sempre in pieno fermento artistico, la sua collaborazione all’ultimo film di Franco Battiato Musikanten ne conferma le qualità. Da oramai tre anni lavora in stretto rapporto con Battiato: «È difficile lavorare con lui, è un regista molto esigente. Ti mette sempre alla prova affinché tu possa oltrepassare le convinzioni ed attingere al tuo potenziale artistico senza costrizioni di sorta ma accrescendo la creatività». La collaborazione tra Baldacci e Battiato nasce nell’estate 2003 quando quest’ultimo lo invita in Sicilia nella sua villa sull’Etna. Incuriosito da “voci di corridoio ” che definivano Daniele Baldacci come un innovatore, che al momento sperimentava le varie tecniche dell’alta definizione nel cinema, Franco Battiato puntò su di lui per Musikanten, il film sugli ultimi anni della vita di Ludwig van Beethoven; una collaborazione che non ha certo deluso le attese del regista. «Ho voluto usare, per girare le scene ambientate nel passato –racconta Baldacci– solo luce completamente naturale tirando la pellicola fino a 8000 asa ed utilizzando più di mille candele per la scena dell’orchestrazione della nona sinfonia, girata al teatro dei Rozzi di Siena». Tra modernità e tradizione, o meglio tra pellicola e digitale, questo film è stato presentato all’ultimo festival cinematografico di Venezia nella sezione Orizzonti, tra i film sperimentali. Una critica ed un pubblico divisi tra entusiasmo e malcontento non intaccheranno l’intesa tra i due artisti che stanno già preparando un nuovo film, le cui riprese cominceranno in primavera. «Non posso dirvi molto sul prossimo film di Battiato ma rappresenterà di certo un vero passo avanti verso la digitalizzazione del cinema. Stiamo sperimentando al momento una macchina digitale di nuova generazione». L.D.L.
DA ZERO A DIECI
Dagli 800 posti del Teatro Auditorium Supercinema (a lungo rimasto chiuso) ai 1.926 delle nove sale del Multiplex Giometti Cinema nel nuovo Centro commerciale Megalò a Santa Filomena, Chieti vive il suo salto di qualità nell’offerta cinematografica. Il Multiplex è composto da nove sale dotate dei più sofisticati sistemi
tecnologici: proiezione in digitale 2K, audio dts, dolby digital ed ex surround, traduzione digitale simultanea in lingua, un sistema per audiolesi oltre a un moderno sistema di climatizzazione e posti riservati a portatori d’handicap. E la risposta del pubblico non poteva che essere positiva fin dalle prime proiezioni: di particolare gradimento l’ottima qualità audio, la grande comodità delle poltrone disposte in platea e la buona visibilità dello schermo. Chieti, con il suo cinema storico e la nuova multisala, si configura così come un’importante realtà cinematografica nel panorama abruzzese. P.D.M.
K COME KUBRICK Dall’8 al 14 ottobre Pescara ha ospitato, presso il Museo delle Genti D’Abruzzo, una mostra-convegno su uno dei più grandi registi della storia del cinema: Stanley Kubrick. Il “grande miracolo” è stato realizzato grazie alla passione di una piccola associazione, la “Overlook” guidata da Pino Bruni, curatore della mostra, con il contributo di Provincia e Comune di Pescara, e della Regione Abruzzo. In anticipo su Roma, che ospiterà una mostra itinerante dedicata al regista che sta girando grandi metropoli come Berlino, Melbourne e Francoforte, Pescara è stata per una settimana un palcoscenico di rilevanza nazionale in cui i visitatori hanno potuto ammirare numerosi oggetti di scena, abiti utilizzati nei film, documenti o foto inedite scattate dallo stesso Kubrick, e soprattutto hanno avuto la preziosa opportunità di ascoltare i racconti di chi Kubrick l’ha conosciuto molto bene.Tra i presenti, infatti, la moglie del regista, Cristiane Kubrick (la sua ultima presenza ufficiale in Italia risale al 1999, in occasione della presentazione, al Festival di Venezia, dell’ultimo capolavoro del Maestro, Eyes Wide Shut), del sig. Emilio D’Alessandro (braccio destro del regista per oltre trent’anni) e di Jan Harlan (cognato e produttore esecutivo dei suoi ultimi film). «Obiettivo di questa mostra –afferma Pino Bruni– era indagare non solo il Kubrick cineasta, ma il lato meno noto: il suo carattere, le sue prerogative umane, sfatando così luoghi comuni e miti che sono nati intorno al lavoro e alla vita del regista».Tra gli eventi speciali della mostra, la lettura di alcune parti significative della sceneggiatura del Napoleon (il film mai realizzato) e una dimostrazione dell’uso di una steadycam. «Questa mostra –tiene a sottolineare Bruni– è stata un’occasione ghiotta per una città come Pescara, che aspira a superare i confini dei propri tradizionali ambiti culturali permettendo così una valorizzazione e una promozione del territorio che può compiersi anche attraverso eventi culturali e artistici di rilevanza internazionale e i progetti che questa associazione ha intenzione di promuovere si muovono tutti in questa direzione ancora irta di ostacoli». Giulia Cocciante
IL PARCO DEL CINEMA Da oltre 50 anni è il più grande set d’Italia, scenario naturale per il lavoro delle star del cinema. Il Gran Sasso e i suoi paesaggi sono al centro di una Rassegna di cinema nel parco, curata dall’Ente Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga e tenutasi nella suggestiva cornice del Convento di Santa Maria delle Grazie a Calascio, lo scorso 29 ottobre. Michele Placido ha tenuto a battesimo la prima edizione della rassegna come protagonista del recital teatral-musicale La Ballata dell’Arte
tra cinema e poesia di Davide Cavuti, musicista, scrittore e regista. Sulle immagini del film Tra cielo e terra, parzialmente girato nel convento e interpretato dall’attore e regista, Placido ha recitato accompagnato dai Solisti dell’Orchestra da camera della MuTeArt e dalla soprano Federica Carnevale, emozionando il pubblico e regalando al Parco del Gran Sasso una serata indimenticabile.
OTTO MATITE PER GUARDIAGRELE Anche quest’anno Guardiagrele ha confermato la sua vocazione per il cinema d’animazione, ospitando dal 22 al 25 settembre il consueto appuntamento del “Matita Film Festival”. Giunta alla sua ottava edizione, il festival si riconferma come spazio internazionale per un genere di cinema, quello d’animazione, che non ha visibilità sul piccolo schermo e nelle sale cinematografiche. Camillo D’Alessandro, direttore artistico del MMF, ci spiega l’obiettivo del festival: “mostrare che il cinema d’animazione non si rivolge solo ai bambini, ma contempla una molteplicità di sottogeneri che spesso restano sconosciuti al grande pubblico. Il cartone animato è solo una fra le tante scelte stilistiche attuate dai diversi autori”. Tema ricorrente è stato il viaggio nel cinema ungherese, che
sebbene oggi non figuri più tra i grandi paesi di cinema d’animazione, annovera comunque giovani talenti da apprezzare. Tra il pubblico esperto in sala è stato presente Sandro Del Rosario, affermato autore cinematografico in California ma di origini abruzzesi, che ha lodato la qualità delle pellicole proiettate e sottolineato l’importanza del MMF come unica vetrina nazionale di cinema d’autore di animazione. Alla domanda perché un piccolo centro come Guardiagrele ospiti un appuntamento di rilevanza internazionale D’Alessandro ribadisce la scelta di collocare un festival di nicchia come il MMF fuori dall’area metropolitana per attirare la curiosità del pubblico limitrofo verso una affascinante realtà artistica degna di considerazione e ancora da scoprire. P.D.M
UN FIAMMIFERO ILLUMINA TERAMO Un libro e un film. Un sogno nato a metà strada tra Teramo, luogo di partenza del giovane regista Marco Chiarini, ed Amsterdam, terra d’elezione dello sceneggiatore Giovanni De Feo. Tra questi due epicentri si dirama l’avventura fantastica che potete leggere e vedere sulle pagine del libro, L’uomo fiammifero, e ritrovare successivamente nel film che è stato girato durante l’estate con i proventi del libro che qui presentiamo. Acquistando il libro si diventa sostenitori del film, permettendo ai suoi autori di portare sullo schermo il mondo immaginario che popola il libro. Il libro si basa su una semisconosciuta leggenda metropolitana di Teramo, quella di un misterioso uomo dei boschi altissimo, che mastica cortecce e sputa fuoco, e accorre sempre quando lo si chiama alla luce di un fiammifero, dei cui avvistamenti si parla fin dalla fine degli anni sessanta. Lo spunto documentario del lavoro di Chiarini e De Feo è stato appunto il vero diario di un ragazzino, ritrovato due estati fa. Il libro è quindi strutturato come se fosse il diario del protagonista in cui egli ha appuntato, in un’estate, le prove dell’esistenza dell’Uomo Fiammifero e la storia della sua avventurosa ricerca. Leggenda e diario, film e libro, ma anche diario di lavorazione, libro illustrato, L’uomo fiammifero, edito dal Cineforum Teramo, è innanzitutto uno straordinario viaggio di colori, forme, disegni, costellato di dettagli infinitesimali e determinanti, figure buffe (come l’uomo sdoppiato o che parla al contrario), zaffate di fuoco, case oblunghe, notti catra-
mose rischiarate dal baluginare di un cerino o agghiacciate dal ghigno che tutti i bambini si portano dentro. Ma è proprio la trasmutazione dal libro al film l’avventura più grande, la scommessa più temeraria del duo Chiarini-De Feo. Il libro finanzia il film, un film ovviamente a basso budget ma con una troupe di professionisti; ogni cittadino che acquista una copia del libro contribuirà alla riuscita del film, che è l’obiettivo finale, il punto di arrivo dell’avventura. È il ribaltamento voluto, e quasi provocatorio, delle normali tecniche di promozione dei prodotti culturali, che di solito rilanciano un libro a seguito o in concomitanza con l’uscita del film, e ancora più radicalmente è l’ennesima prova della capacità del nostro cinema di inventare una maniera per vivere al di fuori, sopra e sotto allo stesso tempo, dei normali circuiti produttivi, ridotti in Italia a pochissimi nomi di istituzioni e privati. Inventare una maniera di fare cinema significa in questo caso anche radicalizzare la propria appartenenza coinvolgendo una cittadinanza e un luogo, che si fanno concretamente sostenitori di un progetto visionario e concretissimo che allo stesso tempo, grazie al gusto immaginario degli autori, riesce a non cadere nel localismo. Dimitri Bosi
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TEATRO
Claudio Di Scanno
POUR EN FINIR… Il Drammateatro di Popoli riceve il prestigioso Premio Enriquez per lo spettacolo tratto da Artaud. Claudio Di Scanno, regista e fondatore della compagnia, racconta la sua esperienza tra teatro e impegno civile. ove finisca la scena e dove cominci Popoli è difficile dirlo. Quell’accenno di Appennino che incombe sul centro storico del maggiore comune dell’hinterland pescarese, potrebbe essere già un anfiteatro, un loggione naturale affacciato sulla porta della Valpescara. Abita in un palcoscenico nel palcoscenico il Drammateatro di Claudio Di Scanno, vent’anni sulla breccia, gli ultimi dieci ospite di una cittadina che gli ha consegnato le chiavi del suo Teatro Comunale ricevendone in cambio lustro e cittadinanza nei salotti buoni del teatro nazionale. Ultimo esempio il 30 agosto scorso, a Sirolo, nelle Marche, dove il gotha del teatro italiano ha insignito il regista (pescarese di nascita ma ormai popolese di adozione) e la sua interprete, Susanna Costaglione ,di un premio intitolato alla memoria del grande, indimenticato regista Franco Enriquez, nel venticinquennale della sua scomparsa. In giuria l’elite dell’intellighenzia teatrale italiana. Quando ci ripensa, a Claudio, gli vengono i brividi: «Gli sperticati elogi di Giorgio Albertazzi, il ricordo di Valeria Moriconi (scomparsa pochi mesi prima, ndr) che aleggiava su tutta la serata, poi vedersi premiato un lavoro su Artaud, un autore così difficile, sul quale quasi nessuno osa cimentarsi, tutto sembrava irreale». Pour en finir…, lo spettacolo premiato, teatro della crudeltà, come viene chiamato quello di Artaud. Crudeltà resa senza edulcorazioni in questo lavoro concepito nel 2000, tratto da Per farla finita col giudizio di Dio, opera radiofonica datata 1947 composta (ma censu-
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rata dalla stessa committente, la radio nazionale Francese) negli ultimi mesi di vita dal reinventore del teatro moderno, aspro e dolente contestatore di tutti i sistemi organizzati. I giurati del premio Enriquez ci hanno visto una sincera e rigorosa espressione di teatro civile. «A rileggerlo –spiega Di Scanno– penso a quanto potesse essere inconsapevolmente profetico. Una critica che oggi si può indirizzare all’egemonia politico-culturale degli Stati Uniti e a come l’uomo stia inquinando, guastandoli, i frutti della terra. Un testo atemporale, che in Italia ha sorpreso tutti quelli che ne hanno constatato il successo di pubblico e critica». Per essere teatro della crudeltà è crudele, non c’è che dire. In scena Susanna Costaglione, attrice feticcio di Di Scanno, compare imbardata da un costume che la fa assomigliare ad un bambolotto amorfo, una mummia fasciata di garze, seduta, come su un trono, sulla tazza di un water. Suoni grotteschi, parole disarticolate, un atmosfera di dolore espressa da una vocalità straniante, e che sconfina nella coprofagia. Grande coinvolgimento da parte del pubblico in ognuna delle 40 repliche, dalla fine del 2000 all’inizio del 2003, in tutti i maggiori spazi italiani, dal Vascello di Roma alla Galleria Toledo di Napoli. Artaud, Grotowsky, Brooks, Brecht, Bulgakov, non c’è autore, tra i semidei del ‘900, che Di Scanno non abbia scomodato, da quando si è insediato a Popoli, unico esempio abruzzese di rapporto tra una compagnia e un ente locale per la gestione di un teatro pubblico. «Dopo dieci anni di apprendistato
e di spazi precari –ricorda Di Scanno– l’arrivo a Popoli ha coinciso con una nuova presa di coscienza del mio lavoro. Il teatro che si confronta col suo tempo, che reagisce al suo tempo e che attinge temi dal quotidiano. Logico, una volta constatato che tutto, o quasi, è stato detto e fatto, rivolgersi al nostro presente, compromettersi con la contemporaneità, come abbiamo fatto con Pour en finir…. Già, la contemporaneità. Hic et nunc, qui e adesso, ovvero il teatro in Abruzzo. Di Scanno è nella rosa dei papabili alla direzione del Teatro Stabile Abruzzese. «Questa regione, così dotata di belle energie creative, di tanti gruppi teatrali coraggiosi e di persone che scelgono, molto più che in passato, di dedicarsi totalmente al teatro, dovrebbe sostenere di più queste realtà. Oggi c’è uno stallo. Il TSA deve ridisegnare la propria funzione, proponendosi come stimolo e confronto con le realtà più autorevoli. Riacquistare energia propulsiva, intraprendenza, fare dell’Abruzzo un luogo di ricerca, di sperimentazione, di produzione di spettacoli di spessore, di organizzazione della cultura teatrale». Non solo suggerimenti di principio, ma anche di dettaglio: «Occorrerebbe un lavoro di mappatura delle realtà che si dedicano interamente al teatro, definirne la geografia, per poi sostenerli. Il teatro è testimonianza di una realtà, della realtà che lo ospita, in questo senso è patrimonio importante e meritevole di maggiore interesse da parte di chi sovrintende alle politiche culturali di un territorio».
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Nella pagina a fianco, il regista Claudio Di Scanno. In questa pagina, alcuni suggestive immagini di Susanna Costaglione in “Pour en finir…” . Nella foto in alto a destra, Massimo Balloni. Qui a sinistra, Emanuela Marulli.
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LETTERATURA
Il profumo della vittoria
Loredana Ranni Io, viva di tumore Una storia vera Proedi editore, 2004, pp. 95, Euro 8,00 di cui 1 devoluto all’Admo
Io, viva di tumore è una storia vera, quella di una donna che non si sente un’eroina, ma che ha voluto guarire per vivere: fosse anche per un mese, una settimana, un giorno ancora. Un racconto che fa riflettere. di Daniela Peca
oredana è una giornalista, ma soprattutto una donna che a soli trentun anni si è trovata a dover lottare per vivere. E ha vinto. Di questa vittoria ha voluto far partecipi tutti, raccontando a dieci anni di distanza la storia della sua malattia, diventando “scrittrice di se stessa”. Nel suo libro Io, viva di tumore descrive tutte le tappe del male, le cure, le sensazioni, i momenti di sconforto e di paura, le riflessioni, la forza di reagire, i rapporti con gli altri e con il futuro. Loredana li ha messi nero su bianco con puntualità e dovizia di notizie come solo una brava giornalista sa fare, cercando di guardarsi dentro e fuori, analizzando scrupolosamente ogni episodio, ogni frase che potesse essere utile a trasmettere il dramma, ma soprattutto la speranza. È questa la parola chiave del suo racconto, speranza. È il senso e il fine stesso del libro, è il messaggio che la scrittrice ha voluto racchiudere nelle tre parole del titolo che rappresentano la conclusione della sua storia vera Io, viva di tumore. Sì, perché di tumore si può anche vivere. Una certezza
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che si fonda su solide basi scientifiche, che nel libro la scrittrice non ha mancato di accennare in maniera semplice e diretta, e su una ferrea volontà di guarire. È questa forza di volontà, è questo amore del quale è stata circondata, è questa speranza che Loredana vuole infondere negli altri, e il successo del suo libro (6.500 copie vendute, già in ristampa) dimostra che la strada scelta è quella giusta. Loredana Ranni, abruzzese di origine, vive a Milano ed è caporedattore del mensile Cipria. Ha maturato la sua esperienza professionale nei diversi mezzi di informazione dai quotidiani alla televisione, dalla radio all’agenzia di stampa fino ai periodici specializzati. La sua storia comincia il 12 novembre 1993 quando, tra capo e collo, le cade addosso il risultato di un referto radiologico alla gola: linfonodi. «No, non poteva succedere a me. Certo, conducevo una vita professionale stressante, ma non fumavo, ero particolarmente attenta all’alimentazione, non rinunciavo alle ore serali in palestra e, soprattutto, evitavo di considerare superfluo qualunque malessere che si prolungasse nel tempo»
scrive la Ranni. Dopo una settimana il ricovero nell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, dove Loredana lavorava già da alcuni anni scrivendo per riviste di moda, il primo arresto cardiaco, tre settimane di coma vigile, il primo ciclo di chemioterapia e la riabilitazione: lenta, difficile, dolorosa. Nonostante tutto Loredana ricorda nel suo libro solo esempi di “buona sanità” da parte di medici e del personale paramedico e ausiliario, «forse dovuti al mio atteggiamento positivo e garbato» ipotizza, ma che comunque le hanno dato la forza di andare avanti anche dopo aver avuto la cognizione di quanto stava succedendo. Il suo aspetto era completamente cambiato a causa delle cure alle quali era stata sottoposta. Guardarsi allo specchio e piangere, senza poter urlare: la voce non c’era più. Tuttavia la forza per reagire non manca. «È stupido piangere per questo genere di piccolezze quando c’è di mezzo la lotta per la vita. Ero viva per comunicare con la gente, per essere in mezzo a quanto si muove intorno a me, per ascoltare la musica, per vedere il mare». Durante il tempo RIBALTA
Loredana Ranni
trascorso nel reparto di oncologia medica Loredana realizza che la sua condizione di dolore è comune ad altri e nel libro affronta temi delicati come la solitudine, il rapporto con i familiari, il problema della condivisione della malattia con un compagno o un marito, la fede, l’amore. Da tutte queste analisi emerge, forte e sicura, la volontà di vivere «fosse anche per un mese, una settimana, un giorno ancora…». E da qui il cambiamento, la ricerca costante di “pensare positivo”, una forza necessaria già all’inizio di ogni giornata, la difficoltà di relazionarsi con gli altri. La riabilitazione più dura è stata quella vocale perché al dolore fisico si univa quello dell’anima. Loredana per dieci anni è andata in giro per il mondo cantando in un coro polifonico, poi la sua voce calda cominciò a coinvolgere la gente attraverso le onde della radio e nella presentazione di serate e spettacoli. Voce stupenda, volto bello e accattivante: la televisione era la sua meta, ma «su quel piccolo muscolo della gola erano andati a schiantarsi passato, presente e quanto desideravo diventasse il mio futuro» RIBALTA
racconta. A quel punto i medici misero a disposizione di Loredana la vera arma per sconfiggere il male: l’autotrapianto. «L’artefice della nuova vita che desideravo conoscere con sempre maggiore avidità sarebbe stato proprio il mio stesso midollo osseo: in esso risiedevano le preziose cellule staminali, quelle preposte alla rigenerazione del sangue, le quali dopo essere state “trattate” e congelate sarebbero ritornate nel mio corpo reinfuse». Oggi Loredana è guarita, la sua voce è tornata anche se “nuova”. E non vuole dimenticare «perché soltanto dopo aver rischiosamente camminato sulla lama del rasoio ho scoperto per che cosa valga la pena di vivere, che cosa sia effettivamente di vitale importanza». Per questo motivo ha scritto questo libro che a novembre riceverà il Premio Internazionale “Giuseppe Sciacca” nella sala Nervi del Vaticano e che rappresenta la tappa di un cammino interiore, quello di una donna che ha vissuto in prima persona il dolore della malattia e la felicità della guarigione. Una felicità che per essere vera ha bisogno di essere
comunicata, magari condivisa da quanti potrebbero “vincere” la battaglia come lei che conduce ormai una vita normalissima, «senza alcun limite –spiega Loredana– che non sia quello imposto dal buon senso. Per quanto possa sembrare assurdo, sono arrivata a pensare che il tumore non è stato poi così negativo, perché mi ha intimato un cambiamento della vita che, diversamente, non avrei avuto il coraggio di compiere… non mi limito a trascorrere una giornata dopo l’altra, ma m’impegno per rendere densa ognuna di esse, come se fosse l’ultima». Una scrittura fluida, un racconto che “prende”, una storia che si legge tutta d’un fiato. Un regalo che Loredana ci ha fatto per aiutarci a comprendere quanto valga la pena vivere e in che misura, un’iniezione di fiducia e di speranza per tutti coloro che si trovano ad affrontare la stessa malattia. L’idea del libro fu di una sua compagna di stanza purtroppo più sfortunata, Silvana, alla quale le parole dell’amica servirono per restituire serenità e dare conforto. A lei è dedicato il racconto. «Ecco, Silvana, ho mantenuto la promessa». VARIO56
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LIBRI
ORDINARIA ROARING TWENTIES, A SUON DI JAZZ Mauro Orletti, Canto l’Equatore Libuk-Lampi di stampa, Euro 9 STORIA opo tre anni dal successo di Mr Dedalus, Mauro Orletti Dtorna sulla scena con un nuovo e avvolgente romanzo, D’AMORE
Canto l’equatore. Nato a Chieti ma residente a Bologna, Orletti permette al lettore di rievocare l’atmosfera unica dell’America degli anni Venti, quella del mito del “sogno americano”, del proibizionismo, del crollo della borsa, delle guerre tra bande rivali, dell’esodo dei negri nelle campagne del sud, della minaccia bolscevica, delle agitazioni anarchiche e delle manifestazioni per Sacco e Vanzetti. Per la precisione siamo a Chicago, città dalle mille contraddizioni sociali e “dall’aspetto infernale”, dove vive il protagonista Wambly Bald, realmente esistito, come reali sono i riferimenti alle folli notti della 35esima. Colonna sonora di tutto il romanzo è il jazz, quello che nasceva dal ragtime del decennio precedente, il jazz delle note del primo grande solista bianco di cornetta Bix Beiderbecke, che Orletti chiama Leon Bismark e che ne fa un amico di sventure del suo Wambly. Il libro rivela la dedizione che l’autore nutre per un grande nome della letteratura mondiale: Henry Miller. In verità i riferimenti di questo parallelismo sono anche piuttosto evidenti: prima di tutto la scelta del titolo Canto l’equatore che fu scartato dallo stesso Miller per Tropico del cancro, e poi nel Wambly di Orletti si può chiaramente riconoscere il Van Norden di Miller, preso in prestito per reinventare la vita di un uomo semplice e modesto, attraverso il quale il lettore si avvicina ai sogni, alle difficoltà e alle speranze della gente più comune. Paolo Di Matteo
Alessandro Di Zio, Il veliero di metallo Ed. MEF, Firenze 2005, pp. 60, Euro 6,70 Una storia d’amore. Anzi, un amore che finisce. Meglio ancora, un inizio che è una fine. La fine di una storia. “Flash di vita quotidiana”, recita la nota in quarta di copertina: e in questo senso il libro, un breve racconto di 60 pagine, non delude. E non delude neanche il suo autore, al suo esordio come scrittore di libri, già noto al pubblico per aver firmato i testi di molte delle canzoni del suo amico e compagno di lavoro Giò Di Tonno. Un racconto, questo Veliero di metallo, fresco e intriso di sentimenti, di sensazioni, che indulge in una scrittura “sentimentale” dove è più importante il contenuto che la forma, dove l’atmosfera la fa da padrona e i personaggi sono tratteggiati con poche, sobrie e significative pennellate. www.alessandrodizio.it
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ROCCARASO AL SUOLO Ugo Del Castello, Roccaraso kaputt! Michele Biallo editore, 2005, pag. 160 el nome i fonemi di un’atroce destino. E poco importa se il termine Roccaraso affonda le sue origini nel lontano XII secolo per una crasi tra Rocca e Rasine, il fiume che l'attraversa. A distanza di otto secoli quel sostantivo si sarebbe rivelato profetico. Quella città, tanto rinomata tra i salotti dei “kapitalisten” italiani, divenne suo malgrado protagonista di una delle tante e traumatiche pagine di storia della II guerra mondiale. Fine novembre 1943. I genieri della I Divisione paracadutisti del generale Richard Heidrich, temendo lo sfondamento da parte degli Alleati della direttrice stradale che attraversa il valico del paese dell’Aquilano, minano le case e i palazzi della città. Gli echi goderecci di una della località turistiche più blasonate del novecento ora risuonavano labili tra i fumi e la polvere delle macerie, sepolti dal dolore dello sfollamento, dall'orrore degli eccidi (come quello della frazione di Pietransieri) e dal terrore dell'occupazione nazista. Una pagina del passato rispolverata dal libro di Ugo Del Castello, Roccaraso Kaputt (Michele Biallo editore), che con uno stile essenziale e un racconto dinamico e coinvolgente traghetta il lettore nel dramma di una cittadina che in pochi mesi passò dalla voluttà alla pena, stritolata dai severi ingranaggi della storia. La popolazione civile fu avvolta da un climax ascendente di paura che ebbe il suo apice il 3 novembre 1943 quando al grido di “Raus Kapitalisten“ iniziò lo sfollamento della città. Il primo tragico capitolo di una storia locale scritta anche con l’eccidio di Pietransieri e soprattutto con un ordine .
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STORIA DI UNA TRADIZIONE
LA LETTERATURA OLTRE LA SCUOLA
La festa del narciso dalle origini al nuovo mlillennio A cura di G. Cocciante e L. Di Sano - Rea Edizioni, Luglio 2005
Lucilla Sergiacomo, Dalle origini all’età comunale.
Conservare le tradizioni della propria terra, impedendo che si dissolvano nel tempo, significa contribuire a costituire l’identità del proprio popolo, significa rafforzare il sentimento di se stessi e quindi vivere con più sicurezza. È quello che fa il Consorzio per lo Sviluppo Culturale delle Rocche di Rocca di Mezzo, quando pubblica il libro La festa del Narciso dalle origini all’inizio del nuovo millennio. I narcisi, quei fiori delicati che a primavera inoltrata imbiancano il verde dell’altopiano aquilano, hanno interpretato il bisogno di un popolo che, passati i disagi dell’ultima guerra, voleva tornare alla gioia di vivere. Carri agricoli totalmente ammantati di narcisi, attorniati da ragazze in abito tradizionale, sfilavano per le vie del paese creando una giornata di allegria e di festa, alla fine del mese di maggio. Lo sviluppo di un sano spirito competitivo ha portato a gareggiare ed a premiare il carro più bello. E come il narciso ha vita breve, anche la festa finisce presto ma, al pari del narciso, si ripresenta puntualmente l’anno dopo. La tradizione si fa sempre più partecipata (arrivano spettatori e competitori dai paesi vicini) e più curata. I buoi ormai hanno lasciato il posto ai trattori e le creazioni che ricoprono i carri si fanno sempre più ricche, fantasiose e impegnative. Ottima la pubblicazione del libro: è un gradevole album di ricordi per i meno giovani mentre per i giovani è la documentazione dei modi di vita del passato. A.C.
Dalle origini all’età comunale di Lucilla Sergiacomo è il primo di sette volumi, una monumentale opera delle Edizioni Paravia, I v olti della letter atura, coordinata dalla stessa autrice e realizzata insieme a Costantino Cea e Gino Ruozzi. Partendo dall’analisi delle condizioni economiche, politiche e sociali dell’epoca, l’autrice conduce all’individuazione degli ideali di quella cultura e solo successivamente ne presenta le espressioni letterarie che necessariamente ne sono il riflesso. Le prime notizie di ogni periodo storico si traggono da scritti dell’epoca, da una breve cronologia degli eventi e da un utile glossario. Alla ricca documentazione storico-geografica si aggiungono interessanti “Fili rossi”, rubrica che collega personaggi del tempo con personaggi posteriori. A completamento dell’esame di ogni periodo storico, si aggiungono pagine dedicate all’arte, queste in carta patinata e con caratteri tipografici invoglianti. Il libro ha una sicura valenza didattica in quanto lo studente è agevolato nella comprensione e nella memorizzazione dei contenuti dalla presenza di riassunti e di esercizi. E alla didattica dello scrivere è dedicato un libretto allegato, “Strumenti”, ispirato alla svolta riformatrice dell’educazione linguistica, portata avanti dal russo americano Roman Jakobson. Unico auspicio del lettore non più studente: nella prossima edizione i caratteri siano più inchiostrati anche perché l’utilizzo dell’opera va anche al di là della scuola; degnamente essa può figurare nella biblioteca di famiglia. A.C.
LUCCI, IN GENERE Gabriele Lucci, Western Electa/Accademia dell’Immagine, 2005, pp. 351, Euro 19,00 Dall’Assalto al tr eno di Edwin S. Porter a Terra di confine di Kevin Costner, passando per Ombre rosse e Soldato blu , cent’anni di western raccontati, analizzati e illustrati con competenza e leggerezza, senza inutili accademismi, da Gabriele Lucci, fondatore dell’Accademia dell’Immagine. Primo volume di una collana che l’Electa dedica ai generi cinematografici, (è già uscito anche il secondo, Animazione, sempre a firma di Lucci) ha tra i suoi punti di forza la ricchezza di immagini (più di quattrocento fotografie), la semplicità strutturale e il linguaggio chiaro e diretto. Una prima sezione è dedicata alla storia del genere, alle “parole chiave”, per passare poi all’esame di novanta pellicole e all’analisi di dieci registi e film di culto (ciascuno con una sua “storia illustrata”, a ricordarci che il cinema, anche quando entra in un libro, è soprattutto arte visiva). Duello al sole , Il massacr o di F ort Apache, Sfida all'O .K. Corral, Piccolo grande uomo, Pat Garrett e Billy the K id, Balla c oi lupi, e i capolavori Mezzogiorno di fuoco, Il cavaliere della valle solitaria, Johnny Guitar, L'uomo di Laramie, Sentieri selvaggi, Un dollar o d'onor e, C'er a una v olta il W est, Il muc chio selv aggio, I cancelli del cielo. Tutti insieme, appassionatamente. F.G. RIBALTA
Ed. Paravia, 2005, pp 696+126, euro 20,00
LA POESIA BRUCIA Alessio Di Giulio, Fuoco di spine Editino edizioni, 2005, pag. 70, Euro 7,20 Passioni che seminano dolore, magma di emozioni che mettono a nudo un cuore ambiguo e misterioso, Fuoco di spine è un rovo, più che un libro. Esordio editoriale per un trentenne di Pescara, salutato universalmente da plausi convinti. Vena espressiva surreale fantastica che avvolge il senso fuggevole e tenace dell’amore, la sua precaria condizione, avvalendosi di un largo dispiego di metafore, incisi riflessivi, illuminazioni, ma anche un lessico minuto e limpido. Alessio Di Giulio si misura con il dolore e l’insensatezza dell’esistenza. “Parole come lame invisibili che cercano il varco della speranza al limite della tragedia” scrive di lui Benito Sablone, che aggiunge: “Di Giulio tocca i misteri che la scienza cerca di decifrare: la nascita, la vita, la morte. Cose di cui tutti parlano e hanno sempre parlato. Ma egli ha una sua voce, un suo preciso itinerario”. Paolo Ferri
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ARTISTI
StefanoSchirato
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BENTORNATO
l reportage è morto. Viva il reportage. E viva i reporter, ovvero i fotografi che narrano con le immagini gli eventi di cui sono testimoni. Stefano Schirato si puo permettere questa professione non facile: il mercato è ridotto allo zero per assenza di domanda visto che la grande stampa tanto più è piena zeppa di fotografie tanto meno utilizza le immagini per comunicare, raccontare, spiegare. E visto che a decidere non è il mercato le scelte di Schirato sono tutte dettate da un sano rigore, da una intima ricerca. L’ultima, in ordine di tempo, è quella sulla disabilità, e il risultato, fino al 22 settembre, è stato sotto gli occhi di tutti. Per la precisione, di tutti coloro che si sono recati
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al Museo delle genti d’Abruzzo, a Pescara, ad ammirare le splendide immagini di Up, una serie di scatti che documentano le gare di nuoto per disabili mentali svoltesi nella piscina provinciale di Pescara lo scorso agosto. Realizzato per il Venerdì di Repubblica, il reportage fa parte di un lavoro sulla disabilità mentale che Schirato sta conducendeo insieme al Comune di Roma, e che tocca tasti dolenti come la schizofrenia e l’Alzheimer. Up è stata realizzata in collaborazione con l’istituto Don Orione e col Cip, il Comitato Italiano Paraolimpico, e ha goduto della presenza del regista spagnolo Francisco Fernandez, da anni residente in Abruzzo, che ha
inaugurato la mostra con la proiezione del suo film Ti voglio bene Eugenio. «La mia collaborazione con il Venerdì –racconta Schirato– è nata all’indomani di un workshop cui partecipai nel ‘98, tra i cui promotori c’era l’agenzia di Grazia Neri. In quell’occasione presentai un lavoro sui ghetti neri in Sudafrica, e fu il mio passaporto per cominciare una collaborazione con loro». Per Grazia Neri e il Venerdì Schirato ha realizzato anche Né in terra né in mare (2001), sulla assurda condizione dei marinai che vivono per anni sulle navi poste sotto sequestro nei porti italiani, e Gli occhi della Cambogia, sulle mine antiuomo, in collaborazione con Emergency. F.G. RIBALTA
REPORTAGE In alto e nelle due foto al centro, alcune immagini tratte da Up, la mostra fotografica di Stefano Schirato recentemente ospitata dal Museo delle Genti d’Abruzzo a Pescara. Qui sotto, il fotografo con Giuseppe Tornatore, che ha anche scritto la prefazione a Né in terra né in mare, data la similitudine della condizione dei marinai con il “suo” Novecento, Gli occhi della Cambogia
Né in terra né in mare.
Ritratto dei fratelli Taviani.
80 p.; 35 foto bicr. - Euro 19,63
Navi sequestrate.
Questo è uno dei ritratti che il fotografo
Ed. Silvana Editore, 24x29 cm,136 pp
pescarese sta realizzando da due anni
60 foto in B/N, Euro 25,00
con personaggi del mondo dello spettacolo e della musica.
RIBALTA
il pianista sull’oceano.
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RGEOMETRICO ibalta ARTE BIONDO La geometria è la cifra che contraddistingue le opere del secondo periodo artistico di Alessandro Biondo. La finitezza delle figure, pur nel barbaglìo dei colori acrilici, impressiona bene l’osservatore. La fantasmagorìa delle tinte squillanti, tutte nette e contrastanti, gli trasmette una sensazione gradevole, quasi di festa. Ma non è solo la geometria a dominare, anche la filosofia. Dagli anni Sessanta, da quando nell’arte si rifiuta la mimesi, si è affermata la poetica informale per cui il segno ha superato il disegno e sulla tela domina l’idea, anzi il concetto. Il segno quindi allude. Chi osserva le opere di Alessandro Biondo, (recentemente protagoniste di una bella esposizione al Museo Vittoria Colonna di Pescara) se è appagato dall’effetto colore, è anche stimolato a scoprire le intenzioni dell’artista, a individuare il senso della precisa concettualità sottesa. Dall’autore stesso viene a sapere che egli si è ispirato alla pittura semantica di Luciano Lattanzi (anni Sessanta) e agli studi di Rhoda Kellogg sui venti segni ancestrali che ogni bambino, di qualsiasi latitudine, porta con sé e che esegue spontaneamente già prima di imparare a scrivere. Segni che
Alessandro Biondo riporta in molti suoi quadri. Quindi preminente è in lui il tema del linguaggio anzi della difficoltà della comunicazione, oggi. Un altro tema è quello della congestione di avvenimenti caotici e tragici nella società attuale, e l’autore crea l’opera Stop al caos, caos che si avvita sempre più intorno all’uomo. Nelle opere successive viene meno la caleidoscopìa dei colori e le figure si fanno rarefatte. L’opera La bella collana che nasconde la metafora della società attuale tesa all’apparire e schiava delle “luci del consumo”, si completa con l’altra La bella collana si è spezzata che rivela la condanna dell’Autore per la fatuità dell’oggi e la speranza nella sua fine e quindi in un ritorno ai valori essenziali. Chi osserva tutta la produzione di Biondo, se è catturato dalle opere geometriche e da quelle astratte, non disdegna quelle del primo periodo. Sono opere che riproducono ciò che si vede e che non sollecitano nessuna partecipazione interpretativa: sono le belle marine di Pescara. Anna Cutilli
UN MANDALA PER GODART Si chiama Il sorriso di Milarepa ed è un bel documentario che Antonio Lucifero ha realizzato durante l’ultima edizione di Godart, la giornata dedicata ai bambini presso il Museo Laboratorio (Ex Manifattura Tabacchi) di Città S.Angelo. In quell’occasione, che serve ad avvicinare i più piccoli al mondo dell’arte contemporanea, gli alunni del Circolo Didattico di Città S. Angelo hanno realizzato un mandala (opera tipica de composta di vari materialiispirato al pensiero del noto mago e lama buddhista, vissuto nel Tibet poco dopo l'anno 1000, e la sua creazione (e successiva distruzione, come d’uso nel mandala) è stata documentata dal regista che, tra l’altro, sta preparando una personale di videoinstallazioni che sarà ospitata proprio dal MuseoLab, a marzo del 2006. F.G.
LA FORTEZZA DI FIONA Nell’incantevole cornice della Fortezza di Civitella del Tronto sono state accolte, nel mese di settembre,una trentina di opere pittoriche accompagnate da due sculture policrome di un metro circa di altezza dell’artista abruzzese Fiona Liberatore, nota da tempo in Italia ed all’estero. Specchi frantumati, titolo dell’esposizione, ha per tema centrale la donna contemporanea, rappresentata attraverso dei nudi come nel dipinto In una bolla di sapone, il cui filo conduttore diviene “il disagio della donna d’oggi, che a scapito di una sua indipendenza interiore, arriva a perdere spesso il rispetto di se stessa”, sottolinea così l’artista. I dipinti di Fiona Liberatore hanno in sé la forza dell’emozione di un diario intimo e la capacità di colmare la vista grazie all’uso di colori vivaci realizzati con la tecnica dell’acrilico su cartone e su tela. La mostra esplora la donna e le sue contraddizioni sociali, morali e sentimentali, rappresentate da strutture che la ingabbiano, di cui lo spettatore percepisce l’angoscia anche se, dopo un’attenta osservazione, si fa avanti una speranza di cambiamento, possibile solo grazie ad una rivoluzione interiore del tutto femmininile. Per conoscere meglio l’opera di Fiona Liberatore visitate il sito www.fionaliberatore.com. Livia De Leoni
LEARDA, UNA DESIGNER PER L’ARTE Learda Ferretti è una giovanissima pittrice pescarese, diplomata al Liceo Artistico, che si affaccia ora alla scena dell’arte contemporanea d’Abruzzo, facendosi immediatamente notare già dalla sua prima ed unica personale, tenuta a Settembre presso la Galleria Contemporanea di Pescara. La sua è una figurazione ripetitiva d’aggregazione di massa, ed i suoi individui, rappresentati in serie orizzontali e posizioni frontali e laterali, assumono volumetrie deformate in inquiete immagini, come in una sala “degli specchi”, e rimandano ad una complessa e severa componente ascetica. Il segno prettamente contemporaneo, in linea con la sua attività di designer, pur controllato da una sintesi astraente talora severa, si tempera in linee morbide e raffinate di rara valenza timbrica. Le sue composizioni denunciano il difficile rapporto comunicativo nell’odierna società e l’insofferenza del singolo, annullato nella sua identità dalla massa. Ma ad un occhio attento i suoi ominidi sono “individui” singoli che conservano piccole proprie caratteristiche differenziali, come pure le sue faccette ingabbiate in sequenza di negativi in fila, ma l’una diversa dall’altra. L’uomo quindi può e deve recuperare la sua identità. L’appiattimento psicologico della massa viene evidenziato nella scelta di un monocolore dalle raffinate tonalità di nero-grigio ed avana-seppia. Una pittura da rincontrare. Annamaria Cirillo RIBALTA
LA DONNA, CHE ARTE! Da Boldini a Vanessa Beecroft, 43 artisti e 68 opere in mostra al Museo d’arte moderna “Vittoria Colonna” di Pescara per illustrare un viaggio attraverso il “mistero rosa” dal primo Novecento ai nostri giorni.
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uanto è mutata nel tempo l’idea di bellezza femminile? E qual è il rapporto tra il pittore e il soggetto rappresentato? Ad occuparsene è una bella mostra aperta fino al 23 gennaio 2006 nelle sale del Museo d’arte moderna “Vittoria Colonna” di Pescara (Piazza I Maggio): Donna. Immagini al femminile da Boldini ad oggi . Il luogo non sembra scelto a caso, vista l’importanza che la nota poetessa cui è intitolato il Museo ha rivestito non solo nel campo letterario ma anche nella lotta per l’emancipazione femminile. In esposizione, 43 artisti che, con le loro 68 opere, dai primi del Novecento ad oggi, si sono interrogati sull’idea di immagine, sull’idea di rappresentazione del “mistero” femminile e sull’idea della bellezza. Testimoniando un mutamento non solo personale, ma sociale. Perché l’immagine della donna si trasforma al pari del mondo che la circonda, o meglio si trasforma lo sguardo e il gesto di chi la rappresenta su tela. Così la nostra Lei da elemento di contemplazione e di desiderio, si eleva ad emblema del rinnovamento. «Questa mostra, per la qualità degli artisti e dei temi che racconta, colloca Pescara nel grande circuito degli eventi culturali italiani di questo autunno –spiega l’Assessore comunale alla Cultura Adelchi de Collibus– e offre una serie di altri spunti di grande interesse come quello che anticipa le celebrazioni del 2006 dell’anniversario del referendum che ha visto il primo voto delle donne. Il tutto inserito nell’attualità del dibattito in Italia e in Abruzzo per un ruolo più incisivo delle donne nella vita pubblica». Ciascuno degli artisti presenti alla mostra è un pezzo di questo percorso. Boldini, Balla, Boccioni, Severini, Baldessari, Fillia fino ad arrivare a Modigliani, De Chirico, Sironi, Levi, Gentilini, Guttuso, e ancora Baj, Fiume e le sculture di Greco, Messina, Manzù, Vangi. La mostra poi lascia spazio a giovani talenti che si sono dedicati a ritrarre la donna e le sue potenzialità quali Margherita Manzelli e Vanessa Beecroft che attraverso le sue modelle esalta una nudità asettica opportunamente gestita per recitare il trionfo dell’apparenza in grandi stampe digitali. Dunque l’universo femminile negli ultimi cento anni, uguale e diverso, nella sensibilità dei testimoni attenti a cogliere le immutabili caratteristiche dell’animo muliebre e quelle variazioni di contegno dettate soprattutto dalla volubilità RIBALTA
delle mode e dei tempi. Ma il mistero della donna, gelosamente custodito nelle statuette paleolitiche, lo si ritrova intatto nelle immagini tecnologiche dei nostri tempi, e si riproporrà nelle interpretazioni degli artisti in un prossimo futuro. L’evento è promosso dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Pescara, con il contributo della Presidenza del Consiglio e dell’Assessorato alla Cultura della Regione Abruzzo, con il sostegno di Abruzzo Promozione Turismo, Dayco s.r.l. e Bluserena s.p.a., con la collaborazione del consorzio Adventurage.
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LA MEMORIA
L’insurrezione di Lanciano di Marco Patricelli
6 ottobre 1943: una data che nella città frentana è simbolo della resistenza all’oppressore tedesco, bagnata col sangue di 23 eroi.
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e avesse solo sospettato qualcosa, avrebbe avuto ben poco di cui compiacersi “il sorridente Albert” del bel ricevimento al Caffè Modernissimo di Lanciano, in quell’ingrato autunno del 1943 che già lasciava presagire un durissimo inverno di guerra. Il Maresciallo Albert Kesselring si trovava nella città frentana per gli ultimi preparativi della Linea Gustav, che secondo i suoi piani doveva bloccare l’avanzata degli Alleati con la complicità del fango, della pioggia e della neve dell’Abruzzo. Nessuno, tra i tedeschi, sa che a Lanciano si riunisce presso la sede di via Montegrappa della Confederazione fascista degli agricoltori un gruppo di reistenti che annovera il soldato Amerigo Di Menno, il medico ungherese Carlo Schönheim, un internato politico, l’avvocato Avvento Montesano, Edoardo Di Rocco, Trentino La Barba, ufficiali e soldati del Regio Esercito, che si sono fusi all’Unione antifascista nazionale, coagulata sin da aprile attorno a Federico Mola, l’avvocato Guido Di Giorgio, il dottor Guerino Fanci, Riccardo Beggiato, Alfredo Bontempi, Mario Bosco, Roberto Campana, Claudio Caroselli, Achille Castaldi, Giovanni Cocucci, Alfredo Croce, Giosué Di Micoli, Valerio Germino, Licio Marfisi, Fernando Mercadante, Tommaso Miscia, Pietro Pasquini, Vincenzo Sargiacomo, Vittorio Siniscalchi, Mimì Trozzi. Il vice podestà, l’avvocato Antonio Di Jenno, si adopera alacremente e con intelligenza per nascondere beni di prima necessità e sottrarre alla caccia all’uomo scatenata dai nazisti ex internati, sbandati, ex prigionieri. I tedeschi non fanno nulla per placare gli animi esacerbati da ruberie, soprusi, violenze, terrore. Si sono insediati a Lanciano dal 13 settembre, e sono occupanti sotto ogni aspetto. Per le vie e le case frentane circola clandestinamente un volantino fatto stampare a Casoli dal Comitato d’azione: “Cittadini lancianesi, l’ora della “riscossa” nazionale è suonata! Il nemico secolare della nostra Patria: il tedesco, calpesta ancora una volta le nostre
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contrade devastando e saccheggiando. In armi! Difendiamo i nostri casolari, le nostre famiglie, le donne, i vecchi, i bambini minacciti [sic] di morte e sterminio. Sabotate il nemico con qualunque mezzo: nascondete i viveri e tutti i generi alimentari. Distruggete tutto quanto può essere utile e servire ai tedeschi. Seguiamo l’esempio dei nostri padri che fecero l’Italia libera e unita al grido di “Italia o morte!”. Viva l’Italia libera! Morte agli oppressori!”. Nella notte tra il 2 e il 3 ottobre alcuni lancianesi penetrano nella caserma della Milizia attraverso il campanile della chiesa di Santa Chiara, e sottraggono moschetti 91, un fucile mitragliatore, munizioni e granate. Il 4 ottobre il generale Genesio Mercadante, veterano della Grande guerra e decorato di medaglia d’argento al valor militare, non sa trattenersi e di fronte al saccheggio delle stoffe del negozio della Ditta Ammirati, pretende dai tedeschi di essere condotto al comando di Villa Paolucci per protestare. I passanti che intravedono la sagoma del generale in un automezzo tedesco credono che sia stato arrestato e alcuni cittadini, accompagnati dall’avvocato Saverio Basciano, (anch’egli eroe della prima guerra mondiale), reclamano le armi alla caserma dei carabinieri. Tutto si muove ormai in una sola direzione. Il dodicenne Eustachio Giovannelli sottrae un mitragliatore ad alcuni soldati tedeschi e i carabinieri devono faticare non poco a inventare una spiegazione di comodo. Le armi portate via dalla caserma della Milizia sono state nascoste in una grotta nella zona di Pozzo Bagnaro e in parte distribuite. Nella serata del 5 ottobre una piccola colonna tedesca che sta rifornendo di munizioni le truppe schierate sul fronte del Sangro, è fermata a Pozzo Bagnaro da due uomini armati di fucile, i quali temono che la Wehrmacht abbia individuato il deposito. I soldati vengono fatti allontanare senza aprire il fuoco, tre camion dati alle fiamme. Gli occupanti di una camionetta attirata sul posto agli scoppi delle munizioni ingaggiano una sparatoria con RIBALTA
i lancianesi. Un giovane tedesco ferito è pietosamente soccorso da alcune donne che lo trasportano su un carretto all’ospedale, ma senza riuscire a salvargli la vita. A Pozzo Bagnaro scatta il rastrellamento, e nella rete cadono Trentino La Barba e Antonio Memmo. Questi riesce fortunosamente a fuggire, La Barba no: condotto a Villa Paolucci è interrogato e torturato. Neanche un nome esce dalle labbra del modesto funaio. Allora i nazisti lo legano a un albero di viale Cappuccini, dove con sadismo criminale gli cavano gli occhi con la lama di una baionetta e poi lo giustiziano. All’alba del 6 ottobre i lancianesi insorgono. Nei combattimenti cadono il marinaio Remo Falcone, abbracciato all’unica mitraglia in possesso dei rivoltosi, i giovanissimi Nicolino Trozzi, Giuseppe Marsilio e Achille Cuonzo, Adamo Giangiulo e Raffaele Stella. I soldati della Wehrmacht si vedono bersagliati dalle pallottole, dalle pietre, dalle tegole, cui rispondono con raffiche di mitragliatrice e bombe a mano, il cannoneggiamento e la distruzione sistematica delle case date alle fiamme, la rappresaglia senza pietà: Giuseppe Castiglione è ucciso a sangue freddo così come Guido Rosato che è stato e messo al muro quando non impugna più armi. Dodici civili sono sommaramente fucilati. Il calare delle tenebre smorza le fiamme della rivolta, non quelle degli incendi appiccati alla città. I patrioti si disperdono nelle campagne, dove in seguito si riorganizzeranno sotto la guida di Di Menno come Banda La Barba. Il 7 ottobre il vescovo Tesauri, per impedire ulteriore spargimento di sangue e la distruzione della città, assume l’iniziativa e guida una delegazione di cui fa parte il vice podestà Di Jenno, col segretario don Francesco Basciano e con Amalie Schneider (una donna tedesca moglie del lancianese Francesco Paolo Carlini) al comando di Villa Lanza di Castel Frentano. Il capitano Föltsche è il ritratto della rabbia tedesca; punta l’indice contro Di Jenno accusandolo di essere il capo della rivolta, al che il vice RIBALTA
podestà replica gelidamente: «Se fossi stato davvero io, l’avrei fatta sicuramente meglio». La Schneider si guarda bene dal tradurre alla lettera e alla fine la mediazione di Tesauri ottiene dall’incollerito ufficiale una tregua senza altre rappresaglie. Nel rapporto del LXXVI Corpo d’armata corazzato, sotto la voce “eventi particolari”, si registra che sono stati soffocati alcuni “disordini” a Lanciano con l’uccisione di “50-100 italiani” e la distruzione di “diverse abitazioni”. Nel dopoguerra i dati dell’ANPI fisseranno in 47 le perdite della Wehrmacht nel corso dell’insurrezione, ma il numero appare sovradimensionato. Lanciano ha pagato col sangue di Trentino La Barba, Remo Falcone, Nicolino Trozzi, Vincenzo Bianco, Giuseppe Marsilio, Giovanni Calabrò, Giuseppe Castiglione, Achille Cuonzo, Adamo Giangiulio, Guido Rosato, Raffaele Stella, e con quello dei civili passati per le armi per rappresaglia: Maria Auricchio, Alberto Cicchetti, Luigi Cioppi, Giovanni De Chellis, Gaetano Di Campli, Giuseppe Jacobitti, Dora Manritti, Giuseppe Orfeo, Francesco Paolo Piccirilli, Leopoldo Salerno, Pierino Sammaciccia, Camillo Trozzi. Alla memoria di Trentino La Barba sarà assegnata la medaglia d’oro al valor militare; medaglia d’argento a Nicolino Trozzi, il partigiano ragazzino, a Remo Falcone, ad Americo Di Menno Di Bucchianico; medaglie di bronzo al marinaio Vincenzo Bianco, al quindicenne Giuseppe Marsilio, a Guido Rosato. Il 25 settembre 1952 il presidente della Repubblica Luigi Einaudi conferisce al gonfalone della città “di nobili tradizioni patriottistiche e guerriere”la medaglia d‘oro al valor militare: “insofferente al servaggio, reagiva ai soprusi della soldataglia tedesca con l’azione armata dei suoi figli migliori”e “per nove mesi di dure prove la popolazione di Lanciano forniva valorosi combattenti per la lotta di liberazione, sosteneva la resistenza, dava nobile esempio di patriottismo e di fierezza”.
Nelle foto, Trentino La Barba, Medaglia d’oro al valor militare, e un momento dell’insurrezione. Sopra, un soldato davanti alla Chiesa dell’Iconicella a Lanciano.
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STORIE DAL VOLONTARIATO
Roger Mendy «Con il passare degli anni ho imparato di Pierluigi D’Angelo e Piergiorgio Greco foto Silvia Jammarrone
che la generosità fa parte del popolo abruzzese».
hi tu, chiediti sempre il senso di quello che fai!”. C’è un allenatore sui generis a Montesilvano, che non si limita a spiegare questo o quello schema,come si tira un rigore o come si stoppa di petto. C’è un tecnico che ai ragazzi della scuola calcio di Montesilvano, di fronte ad una splendida rovesciata o a un goal segnato di testa, ripete spalancando gli occhi e sorridendo: “Bravo! Ma ricordati di chiederti sempre qual è il senso di quello che hai fatto!”. Lui, Roger Mendy, il senso di tutto se l’è chiesto con insistenza sin da bambino, da quando, nel suo Senegal immerso nella povertà più estrema, era costretto anch’egli a sperimentare cos’è la miseria, cos’è la mancanza, in una famiglia povera tra le migliaia di famiglie povere di una Dakar popolosa e caotica. E non ha smesso di domandarselo anche quando la vita ha cominciato a sorridergli, facendolo diventare un giocatore forte, famoso e ben pagato: astro del plurititolato Monaco, pilastro della nazionale del Senegal, e beniamino acclamato di un Pescara che –era il 1992: decisamente altri tempi– provava per la terza volta nella sua storia l’ebbrezza della serie A. Da qualche mese Roger Mendy, oggi 45enne atletico e simpatico, ha riscoperto con entusiasmo qual è il senso di quello che fa: «La gratuità e l’altruismo –dice sorridente, spalancando gli occhi come due finestre luminose– sono la cosa più bella che possa esistere, ciò che da significato ad ogni cosa». Da qualche mese l’ex difensore biancazzurro, rimasto negli annali del calcio italiano come il primo africano a segnare un goal nel nostro massimo campionato, la gratuità e l’altruismo li vive ogni giorno al Banco Alimentare dell’Abruzzo, la realtà che raccoglie le cosiddette “eccedenze” della grande distribuzione (alimenti perfettamente integri e commestibili ma comunque destinati allo smaltimento per ragioni più impensabili come l’errore dell’etichetta o la fine di una promozio-
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ne) per poi ridistribuirle quotidianamente a circa 30 mila indigenti della nostra regione mediante l’apporto decisivo di centonovanta enti caritativi convenzionati come mense, associazioni, asili. Da quando ha incontrato il direttore del Banco Mimmo Trivisani, Mendy si reca tutte le mattine nel magazzino di Pescara, in via Saffi, a due passi dalla sua abitazione dove dal 1995 vive con sua moglie e due figli: «Il Banco è la mia seconda famiglia, ci vengo davvero con entusiasmo.E poi Mimmo,per me,è più di un amico:è un vero e proprio fratello» dice nel suo simpatico accento mentre, seduto alla scrivania, dà uno sguardo al direttore intento a dare indicazioni ad alcuni degli altri trenta volontari che animano un’opera di carità grande ed umile. Vista la sua grande disponibilità, così come le sue indubbie capacità organizzative, Trivisani ha deciso di assegnargli sin da subito una responsabilità ben precisa: il coordinamento del “banco di solidarietà”. «Ogni giorno –racconta Mendy– preparo pacchi con generi alimentari che distribuisco direttamente alle famiglie bisognose che passano qui da noi». Olio, zucchero, pasta, latte: ci sono nuclei che, a fianco alla Pescara dinamica, (apparentemente) ricca e mondana, a una città che cena ogni sera al ristorante e compra scarpe costose non hanno di che vivere ogni giorno. «Sinceramente non mi aspettavo –dice quasi rabbuiandosi– questa povertà diffusa in una regione come l’Abruzzo e, in particolare, a Pescara: sono almeno quindici le famiglie che ogni settimana passano in via Saffi per prendere i pacchi che preparo per loro. E solo alcune, a differenza di quanto normalmente si crede, sono famiglie di extracomunitari». Sono famiglie a volte umili, a volte appartenenti a quello che, un tempo, era il tanto osannato “ceto medio”, e che oggi farebbero volentieri a meno di passare al Banco ma che poi, alle prese con conti che non tornano più, troROGER MENDY
vano una dignità coraggiosa per prendere questa decisione. Con loro, Mendy ha la possibilità di scambiare qualche chiacchiera fugace:«Non sempre hanno voglia di parlare.Spesso vengono,prendono il pacco e vanno via, magari limitandosi a dire: avrei bisogno di più latte, lo zucchero ce l’ho ancora, e via dicendo. E io, con discrezione, mi limito a offrire loro anche un sorriso. Insomma, per me che sono nato in una famiglia povera, dove addirittura mia madre si vergognava di chiedere aiuto,poter aiutare liberamente oggi chi vive nella stessa situazione di bisogno è la cosa più bella che possa esistere.Grazie al Banco, sto riscoprendo ciò che davvero vale: la gratuità e l’altruismo». E Pescara? Si rende conto Pescara di questa “città parallela” fatta di miseria e di stenti, ma anche di persone che della solidarietà fanno la loro ragione di esistere? «Con il passare degli anni ho imparato che la generosità fa parte del popolo abruzzese e pescarese. Qui al Banco ho avuto la conferma che in città non manca chi dà il suo aiuto, chi si dà da fare, anche economicamente, in favore degli ultimi. Ma siccome si può e si deve fare di più,non perdo occasione per invitare la gente a venirci a trovare per toccare con mano la dignità e il valore di chi non ce la fa ad arrivare alla fine del mese ma si dà da fare per sfamare la sua famiglia». Un invito che Mendy rivolge in modo specifico alle istituzioni: «Da quando ho iniziato questa bella avventura –dice un po’ sconsolato– non ho visto uno passare da queste parti un solo assessore, un solo esponente di questo o di quel partito, non certo per ritirare viveri ma almeno per un saluto…». In realtà la politica il suo ruolo l’ha svolto, e –una volta tanto– lontano dai riflettori. A breve, infatti, il Banco Alimentare dell’Abruzzo avrà la sua nuova sede di ben 1.500 metri quadrati, non lontano dal nuovo tribunale di Pescara,che andrà a sostituire i magazzini di via Saffi e l’altro in affitto a San Giovanni Teatino. Una struttura STORIE DAL VOLONTARIATO
nuova, più efficiente e funzionale, capace di servire al meglio le esigenze del Banco. «Il terreno sul quale sorgerà il magazzino –spiega Trivisani– è stato messo gratuitamente a disposizione dal comune di Pescara, grazie all’interessamento del sindaco Luciano D’Alfonso, mentre parte delle spese di costruzione sono state coperte mediante un finanziamento regionale stanziato dalla precedente giunta di centrodestra». Uno splendido quanto insolito accordo “bipartisan”, insomma, che rende onore ad una classe politica di norma più avvezza alle sterili polemiche che non a dare una mano a fatti concreti e opere che funzionano come il Banco. «Il nostro obiettivo –aggiunge Trivisani– è quello di inaugurare la nuova struttura entro la fine del 2005, a ridosso della Colletta alimentare, la raccolta straordinaria di prodotti che come ogni anno si svolge in tutta Italia, e quindi anche in Abruzzo, l’ultimo sabato di novembre». In quell’occasione ci sarà, ovviamente, anche Mendy: «Come sempre sarò al fianco di Mimmo –annuncia mentre abbraccia affettuosamente il direttore– per aiutarlo e ribadirgli la mia amicizia anche in quella giornata!». Una giornata dove tutti sono chiamati a dare una mano concreta a chi ha bisogno, con spirito di altruismo e gratuità. Che, poi, è lo stesso spirito che Mendy insegna ai ragazzi della scuola calcio di Montesilvano: «Questo sport resta sempre la passione della mia vita, al punto che sto per iniziare il master di Coverciano con un obiettivo ben preciso: allenare la nazionale del Senegal! Ma oggi –si affretta ad aggiungere– prima ancora che dare lezioni tecniche ai ragazzi cerco di insegnare loro cos’è la vita, di dare loro una testimonianza di vita. Perché il problema della vita, e quindi anche del calcio di oggi, è che mancano allenatori capaci di dire ai ragazzi: ehi, tu, chiediti sempre il senso di quello che fai!”
Roger Mendy
Fondazione Banco Alimentare viale Abruzzo 1 65015 Montesilvano (PE) Sede operativa e magazzino: via A. Saffi 26 65123 Pescara Tel. e fax 085-205.6097 e-mail: bancoalimentarepe@tiscali.it
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LETTURE PER PENSARE/2
di Laura Grignoli*
on i capelli dritti e la pelle d’oca, vediamo cosa prediceva la Zingara letteraria solo qualche decennio fa. Noi, scritto da Evgenij Zamjàtin nel 1922, ci racconta della fine dell’individualismo e della libertà, attraverso il fallimento del protagonista, il numero D-503: questi è alle prese con una crisi che lo fa momentaneamente risvegliare dal torpore in cui lo Stato Unico, una organizzazione sociale scientificamente perfetta, ha calato tutti gli uomini. Tenterà di capire in quanti la pensano come lui e scoprirà un mondo sotterraneo incline alla fantasia, retaggio ormai di antiche speranze; proverà un sentimento ormai ammuffito: l’amore; ma capitolerà sotto il peso di una visione comune ormai radicata, di un ottuso silenzio impossibile a rompersi, di una scienza esatta il cui unico vero progresso è l’invenzione di nuovi recinti e di nuove barriere. La prima pagina del Giornale Statale che D-503 è costretto a leggere ci può dare un’idea: «...arrossite! - I Guardiani sempre più spesso vedono in voi questi sorrisi e odono questi sospiri. E –nascondete gli occhi– gli storici dello Stato Unico, chiedono di andare a riposo per non registrare avvenimenti vergognosi. Ma questa non è colpa vostra - voi siete malati. Il nome di questa malattia è: Fantasia. È questa un verme che scava sulla fronte le nere rughe. È questa una febbre che vi spinge a correre sempre più lontano - nonostante che questo “più lontano” cominci là dove finisce la felicità. Questa è l’ultima barricata sulla via della felicità. Rallegratevi: essa è stata già fatta saltare in aria. La via è libera. L’ultima scoperta della Scienza Statale è che il centro della fantasia è un misero nodo cerebrale nel campo del ponte di Valoriev. Una triplice applicazione di raggi X a questo nodo e voi siete liberati dalla fantasia. Per sempre. Voi siete perfetti, siete uguali alle macchine, la via della felicità al cento per cento è libera. Affrettatevi tutti –vecchi e giovani– affrettatevi a sottoporvi alla Grande Operazione». Non è finita… Un altro ribelle si chiama Winston, ed è il protagonista, insieme a Julia, di 1984 di George Orwell. Nel romanzo, del 1948, sono di nuovo organizzazioni totalitarie a farla da padrone ed il pianeta è diviso in tre grandi superstati perennemente in guerra tra loro, anche se –secondo i princìpi del bispensiero che afferma e nega tutto e il contrario di tutto– simultaneamente il vero scopo di questi scontri è quello di “consumare i prodotti della macchina senza migliorare il generale livello di vita”. Un’entità infallibile, onnipotente e invisibile, il Grande Fratello (non quello della rete berlusconiana!Non ancora almeno!), è il regista e capo indiscusso di ogni azione svolta dai membri del Partito Interno… Un controllo esasperante vige su tutti i membri di questo partito, le loro emozioni essendo osservate, archiviate, punite quando è necessario con la vaporizzazione del reo. Spettrali teleschermi installati in tutte le abitazioni sono il mezzo per questa coercizione, ma da essi arrivano pure incessantemente notizie, propaganda; un vero e proprio lavaggio del cervello. La Psicopolizia, i Due Minuti d’Odio, il Ministero dell’Amore, i bambini Spie e la Lega Giovanile Anti-Sesso, sono soltanto alcune delle creature terrorizzanti inventate da Orwell per rendere veramente oscuro ed angosciante lo scenario in cui si svolge l’impotente azione di chi vorrebbe reagire a quello stato di cose (abbiate pazienza per le citazioni, questi romanzi l’avrete letti tutti, sicuramente). «Non appena tutte le correzioni che si rendevano necessarie a ogni numero del Times erano state messe insieme e verificate, quel numero veniva ristampato di nuovo, la copia originale distrutta, e la copia corretta veniva collocata nelle collezioni al suo luogo. Tale processo di continua trasformazione era applicato non soltanto ai giornali, ma ai libri, ai periodici, agli opuscoli, ai manifesti, alle circolari, ai films, alle colonne sonore, alle illustrazioni, alle vignette umoristiche, alle fotografie… a qualsiasi genere di roba stampata e comunque documentata che potesse avere un significato politico o ideologico. Giorno per giorno, minuto per minuto, si può dire, il passato veniva messo al corrente. In questo modo qualunque previsione fatta dal Partito si sarebbe potuta dimo-
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strare, con prove schiaccianti, perfettamente corretta; né alcuna notizia, ovvero alcuna opinione che fosse in contrasto con le esigenze del momento, era concepibile che venisse affidata a un documento». E ancora in 1984 si può leggere qualcosa! Ma che dire di una legge che vieti la lettura in quanto tale? È quanto accade in Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, del 1951. Tutta la carta stampata deve essere data alle fiamme. Un corpo di vigili del fuoco “all’incontrario” è istituito per bruciare ogni pagina rinvenuta nelle case degli uomini. Uno stato mentale da incubo riempie la storia di Bradbury, in cui il pompiere Montag, altro rivoluzionario ormai in ritardo, si desta quando comprende l’assurdità del proprio lavoro. Egli dovrà fuggire perché macchiatosi dello stesso reato in cui già tanti sono caduti: leggere libri, conservarli, farne tesoro (devo cominciare a vivere nell’anonimato o scappare su un altro pianeta?). L’unica soluzione per chi come lui non vuole abbandonare la fantasia è l’utilizzo della memoria (io non potrei, ormai… questa qualità non mi appartiene!), così da poter tramandare a voce i libri imparati e lasciar sopravvivere l’ultimo residuo di un passato dimenticato in cui la parola libertà faceva ancora parte almeno dei dizionari. «A misura che le scuole mettevano in circolazione un numero crescente di corridori, saltatori, calderai, malversatori, truffatori, aviatori e nuotatori, invece di professori, critici, dotti e artisti, naturalmente il termine “intellettuale” divenne la parolaccia che meritava di diventare. Si teme sempre ciò che non ci è familiare. Chi di noi non ha avuto in classe, da ragazzini, il solito primo della classe, il ragazzo dalla intelligenza superiore, che sapeva sempre rispondere alle domande più astruse mentre gli altri restavano seduti come tanti idoli di legno, odiandolo con tutta l’anima? Non era sempre questo ragazzino superiore che sceglievi per le scazzottature e i tormenti del doposcuola? Per forza! Noi dobbiamo essere tutti uguali. Non è che ognuno nasca libero e uguale, come dice la Costituzione, ma ognuno vien fatto uguale. Ogni essere umano a immagine e somiglianza di ogni altro; dopo di che tutti sono felici, perché non ci sono montagne che ci scoraggino per la loro altezza da superare, non montagne sullo sfondo delle quali si debba misurare la nostra statura! Ecco perché un libro è un fucile carico, nella casa del tuo vicino. Diamolo alle fiamme! Rendiamo inutile l’arma. Castriamo la mente dell’uomo». L’assenza di uomini “senza qualità”magari non porterà a tutto questo, ma certamente giustificherà in misura sempre maggiore l’avvento della stupidità, l’abbrutimento dell’intelligenza, la morte del pensiero. Chi non vuole che ciò accada, è sempre più amareggiato di fronte all’inevitabilità di tale processo. Chi spinge perché non si abbia più una scelta, è sulla buona strada. Tanto per tirare su il morale, rileggiamo un breve passo tratto da La Nausea di JeanPaul Sartre che ben rappresenta la sensazione di fastidio fisico che qualcuno come me prova: «Tutta la mia vita è dietro di me. La vedo tutt’intera, vedo la sua forma e i suoi lenti movimenti che m’hanno condotto fin qui. C’è poco da dirne: è una partita perduta, ecco tutto […] Avevo perduto la prima mano. Ho voluto giuocare la seconda ed ho perduto anche questa: ho perduto la partita. E nel tempo stesso ho appreso che si perde sempre. Ci son solo i porcaccioni che credono di vincere. Adesso farò come Anny, mi sopravviverò. Mangiare, dormire. Dormire, mangiare. Esistere, lentamente, dolcemente, come questi alberi, come una pozza d’acqua, come il sedile rosso del tram. La Nausea mi lascia un breve respiro. Ma so che ritornerà: è il mio stato normale». Non ho abbastanza qualità per aggiungere altro. Non so se ho scelto i brani giusti per l’analisi di questa inversione di rotta che subdolamente, ma non troppo, virano la società verso nuovi valori (?) alla ricerca di nuove “qualità”. Mi piacerebbe convenire con qualcuno che la pensasse come me sul fatto che il valore dell’esistenza trascende ogni qualità che non si inscriva nel vivere e basta. Così come si può. *Psicologa e psicoterapeuta, Viale Alcione 137g, Francavilla al Mare (CH). lauragrignoli@hotmail.com TABÙ
LE PAROLE PER DIRLO
di Giovanna Romeo
Come madri avete lavorato per anni pur di rendere possibile il fatto che il vostro unico figlio potesse andare a studiare in una città diversa da quella dove abitate, ora ce l’avete fatta: è partito. Da poco assaporate il gusto di avere un figlio autonomo, finalmente siete libere di stare male o bene senza il terrore di influenzarlo. Per anni avete sognato di poter essere libere di tornare a casa quando volete, di non dovervi preoccupare della spesa, del pranzo, della camera del figlio da riordinare (nel poco tempo in cui il veto d’entrata cessava), ora avete tutto il tempo che volete. Da tempo non rimproverate più vostro marito perché non vi aiuta, e avete sostituito le robuste lamentele di moglie con
quelle di madre, arrabbiata per la mancanza di rispetto e collaborazione in casa. Ora non avete più un interlocutore. Avete recentemente superato la fase del sonno che non arriva: il vostro pargolo (uscito con il motorino) non è ancora tornato alle quattro del mattino. Strano, non dormite ugualmente, pur sapendo che potete evitare di aspettarlo. Solo da qualche mese eravate riuscite ad entrare nella stanza di vostro figlio senza farvi venire un infarto nel cercare di raccogliere, con disinvoltura, la montagna di maglioni ai piedi del suo letto (per prevenire un’eventuale epatite) ed ora rischiate di farvi venire una sincope perché all’improvviso avete davanti un
SESSO E FUTURO
di Giuseppe Capone
remetto che per quanto riguarda l’oroscopo sono piuttosto scettico. Lo sono ancora di più per quanto riguarda gli accoppiamenti proposti dagli oroscopi. Come si fa a dire che questo mese è adatto per le donne scorpione e gli uomini toro? Io penso che se una donna acquario è incazzata, non c’è uomo scorpione che tenga. Fatte queste premesse però propongo una ulteriore classificazione dei segni: intanto ogni donna, a prescindere dal segno, può avere tre ascendenti: fidanzata, moglie, amante; se una donna acquario può essere nella normalità una donna calma, serena, cristallina, nella variante moglie si trasforma in una serial killer assetata del sangue del marito; poi aggiungiamo l’ascendente iena o vipera, e se amante con ascendente iena o vipera sarà possibile calmarla con una pelliccia o un diamante. Se ascendente fidanzata nella variante iena o vipera, basterà accarezzarla e farle un po’ di coccole ed istantaneamente ritirerà i denti avvelenati, sarà possibile avvicinarsi e perfino toccarla, anche senza un domatore nei paraggi. E gli uomini, direte voi? Prendiamo uno scorpione, ascendente marito, che “lascia i calzini in giro” oppure “la tavoletta del water sempre alzata” oppure che “fuma in camera da letto”, e
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COS’È LA CREATIVITA’? el nostro primo articolo dedicato alla creatività, nello scorso numero, avevamo lasciato in sospeso interrogativi cruciali come che cosa sia la creatività, e se l’azione creativa sia frutto del pensiero e quindi di una natura più propriamente razionale oppure figlio di un sentire più conosciuto come emozione? Perché se fosse esatta la prima ipotesi allora siamo tutti creativi: essendo l’uomo un essere pensante i conti tornano. Ma se la risposta esatta è la seconda, allora siamo tutti ugualmente creativi perché l’uomo è un essere dotato di sentimenti, che gli permettono di vivere nel mondo e goderne grazie ad un sentire più intimo e profondo. Come si può notare, ciò che è facile dimostrare è che la creatività è una risorsa ed un’abilità posseduta da tutti: sotto ogni latitudine; in
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luogo ordinato. Da poco che vi eravate accomodate a quel modo di relazionarvi ad intermittenza che avevate con lui, le poche volte che usciva dalla sua stanza bunker, ascoltando i suoi muggiti mentre, spettinato e con il pigiama, preparava il caffè alle tredici e trenta. Adesso in tutta la casa c’è silenzio. Ora dovete adattarvi ad un ritmo di vita che sicuramente vi renderà più libere, ma che è nuovo rispetto a tutti i periodi della vostra esistenza di donna adulta. Meno responsabilità, meno scelte da fare, pochissimi impegni per la vostra casa. Perché allora avete quell’irrefrenabile voglia di piangere?
fatelo incontrare –dopo che ha saputo che il suo conto in banca è andato in rosso– con la donna toro, variante moglie ascendente iena, lasciateli soli in una stanza a mani nude, senza arbitro, e “mortal kombat”vi sembrerà un’omelia di Ratzinger. Oppure prendete un uomo ariete, variante “che si arrapa quando vede ventidue upmini in boxer che corrono dietro una palla con un uomo vestito di nero con una moglie di dubbia moralità”, e con un oroscopo che lo avverte che conoscerà la donna della sua vita, proprio nel weekend in cui c’è la partita Juve-Milan… ma quando cazzo l’incontrerà la donna della sua vita? E se si mettesse tra lui e il televisore sarebbe capace di sfraganarla di mazzate con una mazza da basball al grido di “L’amore cancella tutto: quando esci dall’ospedale videochiamami!”. E la variante “suora”o “prete”con l’oroscopo che annuncia che avranno una torrida estate di sesso? E la variante “Albano-Lecciso”? Quelli hanno bisogno di un oroscopo personalizzato, con tutti i casini che hanno combinato… E la micidiale triade “amante-fidanzatamoglie” vale anche per le coppie omosessuali? Meditate, gente, meditate…
di Galliano Cocco
tutte le età, sesso, ceto sociale ed in ogni epoca storica. Risorsa che permette di affrontare situazioni e risolvere problemi in modo efficace e che ognuno di noi, di fatto, utilizza tutti i giorni nelle più diverse situazioni legate alla quotidianità. La questione è in che cosa consiste e come considerarla: innata (…io non sono nato creativo!…io sono troppo creativo!) o passibile di essere sviluppata ed appresa? Prima di affrontare tale questione occorre, però, definire al meglio l’atto creativo insito nell’uomo. Lo facciamo osservando subito che, come molti studiosi hanno sottolineato, l’innovazione non sta solo nel numero di processi fisiologici attivati –le sinapsi del nostro cervello– ma anche e soprattutto nell’ascolto autentico delle idee degli altri. Per cui non a caso per
uno studioso come J. Powell la creatività è una combinazione di elasticità, di originalità e di capacità di accettare con prontezza le idee che permettono di abbandonare gli schemi di ragionamento abituali per schemi diversi e produttivi. Da questa definizione consegue che è da sfatare lo stereotipo del “creativi si nasce”. In realtà è indubbio che qualcuno abbia maggior inclinazione di altri verso la creatività e riesca con più facilità ad attivare soluzioni e meccanismi creativi. È anche vero però che le capacità creative si possono acquisire e/o migliorare con specifiche tecniche di agire mentale e comportamentale. Tecniche e strumenti che analizzeremo e suggeriremo dopo che, nel prossimo numero, avremo visto qual è il processo in cui si sviluppa e si elabora la creatività. VARIO56
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SALUTE&BENESSERE
CURIAMO LE INFIAMMAZIONI di Fabio Trippetti*
na delle nuove frontiere U della ricerca medica è rappresentata dallo studio dei meccanismi che intervengono nel complesso rapporto tra sistema immunitario ed infiammazioni, ed Alberto Mantovani, immunologo al Mario Negri ed all'Università di Milano, afferma che le sue ricerche stanno evidenziando una significativa relazione tra molte patologie (tra cui infarto, diabete, tumori, malattie autoimmuni, neurodegenerative) e forme infiammatorie croniche. Rimandando agli studi e pubblicazioni adeguate il lettore interessato ad un approfondimento di natura professionale, mi limito invece a riflettere sul concetto espresso. Quelle infiammazioni di cui parla Mantovani, prodromi di patologie gravi e spesso mortali, sono presenti nel nostro organismo con molta frequenza, e pensare che qualcuna di queste cronicizzi e poi degeneri, sfuggendo alla nostra attenzione di individui stressati e distratti, non mi sembra ipotesi così astratta. Come difenderci? Tornerà sulla cresta dell'onda l’onnipresente aspirina, antinfiammatorio per eccellenza, ma con il pericolosamente noto rischio emorragico. L’ingrediente principale dell'aspirina, l’acido salicilico, SALUTE E BENESSERE
è però contenuto in diverse piante, in primis nel salice, da cui il nome stesso della sostanza, ed assunto nella forma naturale non produce effetti emorragici. In quali prodotti troviamo i salicilati? Corteccia del salice in primis, nelle varietà alba, cinerea, fragilis, nigra, pentandra, purpurea, ma il genere Salix conta circa quattrocento specie tra alberi ed arbusti, di cui antiche popolazioni facevano largo uso. È lo stesso Mantovani a ventilare l’ipotesi che l'uomo in passato fosse più “resistente” a certe patologie oggi purtroppo sempre più diffuse, perché si alimentava con molte erbe selvatiche contenenti il salicilato. Gaulterie, tuberose, acacie, poligale, spiree, betulle, sono alcuni generi di piante contenenti acido salicilico in diverse forme, ma nessuna di tali piante è commestibile, perlomeno per l’uomo moderno abituato alla fresca e dolce lattughina sterilizzata ed imbustata. Per assumere la preziosa sostanze ed evitare di ruminare quelle che riterremmo ignobili erbacce amare e coriacee, possiamo invece inserire nella dieta il miglio, le fragole, i lamponi, l’aloe. Inoltre, con la corteccia del salice, reperibile in erboristeria oppure da raccogliere in estate, essiccare e tritare, si prepara il seguente infuso
dagli evidenti effetti antinfiammatori conosciuti dall’antichità: un cucchiaio in una tazza d’acqua fredda da portare ad ebollizione, lasciare a riposo circa mezz’ora, filtrare e bere una volta al dì per una decina di giorni, più volte all’anno, ma sempre dietro consultazione medica e seguendo i consigli del fitoterapeuta e dell’erborista. Da evitare nei casi di lesioni renali, arteriosclerosi, gravidanza, terza età e comunque in quei casi in cui sia in atto una qualche patologia incompatibile con l'acido salicilico. Poiché tutti abbiamo avuto una qualche forma infiammatoria, non vorrei allarmare fuori misura il lettore che, scorrendo queste righe con gli occhi, cominci a tastarsi quà e là, rintracciando doloretti, arrossamenti o pruriti: perché un’infiammazione degeneri in una forma patologica più grave, occorre che cronicizzi, e prima che ciò accada l’organismo emette segnali inequivocabili (dolore, febbre, debolezza ecc.). Tra le discipline olistiche utili all’individuazione di eventuali forme infiammatorie latenti e subdole, quali ad esempio i granulomi dentali, oltre a tutte le analisi mediche tradizionali è molto efficace il Vega-test, un rilievo medico computerizzato, cui
segue una cura omotossicologica e/o omeopatica disintossicante, i cui risultati si vedranno nel tempo, ed occorre pazienza e costanza. Poiché l’infiammazione riconduce ai concetti di calore, rossore, esplosività, è inevitabile associarla, sul piano psichico, alla condizione di stress e disordine. Utile allora “Olive” dei fiori di Bach (quattro gocce sotto la lingua quattro volte al giorno), vestirsi e circondarsi di verde, colore equilibrante in cromoterapia, ed ascoltare composizioni musicali in una successione che vada da musica molto agitata e veloce verso brani sempre più tranquilli e lenti, non importa il genere, purché di vostro gusto.
*Dottore in Psicologia, Direttore della Libera Università Medicine Naturali e Artiterapie, Professore a contratto Facoltà di Scienze Sociali, Università “G. D'Annunzio” di Chieti. (Tel. 328 4463456)
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L’innovazione passa attraverso
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Inchiesta GENTE DI SPORT
Giada Colagrande novembre 2005
IL CINEMA, LA MIA VITA
Ben Pastor SWEET, MY SWEET ABRUZZO Fabrizia D’Ottavio, campionessa mondiale di ginnastica ritmica
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