Marzo 2006 n. 57 • EURO 3.50
Sped Abb. Post. GR. IV(70%)•Taxe parçue-Tassa riscossa•Uff.P.T. Pescara Italia
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VIOLANTE PLACIDO
Inchiesta GENTE DI PENNA
Abruzzo valley FONDAZIONE MIRROR
Speciale PARCO GRAN SASSO LAGA
Amarcord CARA MIRIAM, CARO NEVIO
55 Vario 55 • estate 2005 • Euro 6,00
Sped Abb. Post. GR. IV(70%)•Taxe parçue-Tassa riscossa•Uff.P.T. Pescara Italia
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Estate 2005
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in copertina Violante Placido fotografata da Claudio Carella (abiti: Fornarina)
marzo 2006
Direttore responsabile
Claudio Carella Redazione
Antonella Da Fermo (grafica), Fabrizio Gentile, Silvia Jammarrone (foto) Hanno collaborato a questo numero
Maurizio Anselmi, Michele Camiscia, Alessandra Campanile, Stefano Campetta, Giuseppe Capone, Michela Ciavatta, Fabio Ciminiera, Annamaria Cirillo, Galliano Cocco, Anna Cutilli, Sergio D’Agostino, Giacomo D’Angelo, Pierluigi D’Angelo, Livia De Leoni, Paolo Di Matteo, Miriam Di Nicola, Francesco Di Vincenzo, Nevio Felicetti, Paolo Ferri, Sandra Fioravanti, Laura Grignoli, Mimmo Lusito, Miriam Mafai, Marcello Maranella, Cristina Mosca, Marco Patricelli, Patrizia Pennella, Franco Potere, Giovanna Romeo, Franco Soldani, Fabio Trippetti, Ivano Villani. Editing AB Puzzle Pescara Progetto grafico Ad. Venture - Compagnia di comunicazione Stampa Publish - Sambuceto (Ch) Fotolito Publish srl - Sambuceto (Ch) Allestimento Legatoria D’Ancona - Cepagatti (Pe) Claudio Carella Editore Autorizzazione Trib. di Pescara n.12/87 del 25/11/87 Abbonamento annuo (sei numeri) Euro 19, estero Euro 36 Vers. C/C Post. 13549654 Rivista associata all’Unione Stampa Periodica Italiana Redazione Via Puccini, 85/2 Pescara Tel. 085 34296 Fax 085 27132 www.vario.it redazione@vario.it
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di Sergio D’Agostino e Cristina Mosca ha collaborato Fabrizio Gentile Foto Silvia Jammarrone, Antonella Da Fermo
na volta dovevi sudare le proverbiali sette camicie, in libreria, per farti indicare lo scaffale giusto. Per non finire solo dalle parti dei D’Annunzio e dei Flaiano, dei Silone e dei Fante. Adesso no. C’è il caso che, ormai, nell’ultimo libro di qualcuno di loro si possa inciampare direttamente in vetrina. Che il nome di un altro lo si scorga ai piani alti delle classifiche di vendita. Che, infine, la conquista di significative fette di mercato (scusate il burocratese) per molti sia realtà. Persi di vista i santi per via dell’evidente crisi delle vocazioni, spariti quasi del tutto dall’orizzonte ottico i navigatori (solitari, della domenica, d’altura o velisti per caso che fossero), all’Abruzzo sono rimasti loro: i poeti. O meglio, tutti quelli che con la scrittura hanno a che fare, e magari di scrittura campano, certe volte sbarcandoci appena appena il lunario: saggisti e narratori, scrittori per l’infanzia e neristi, giallisti, internauti, sperimentalisti, dialettali ed ermetici. Affrancatasi dal complesso di Edipo verso i padri famosi, la scrittura abruzzese vive il suo insospettabile momento magico. L’Abruzzo ha smesso di piangersi addosso, ha attaccato la spina che accende la fantasia e illumina il cervello, ha varcato il suo Rubicone, si è collegato ai circuiti che contano. Con successo. E loro, gli autori? Della penna (o tastiera) sono innamorati. Così come di quella carta bianca che poco alla volta si colora di parole, acquista significati, prende forma. Cos’è per loro la scrittura? Nobile “terapia”, ma anche meno luccicante “lavoro di scarabeo stercorario”. Si fa metafora dell’infanzia come “l’inchiostro bluastro delle elementari” o abbraccio affettuoso come “la cucina materna”, dimensione concettuale di “specchi in cui filtrare la realtà” o “integrazione tra femminile e maschile”. Spesso frutto di “sudore sudato”. Talvolta promessa di “luce ed aria pura”.
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1 Giovanni D’Alessandro 5 Angela Nanetti
8 Luca Pompei
Pescara, I fuochi dei Kelt, Mondadori, 2005 Proust diceva che il lettore, quando legge un libro, scruta sempre in realtà se stesso; lo scrittore è solo colui che gli fornisce lo strumento ottico per farlo. Secondo me, lo strumento ottico è tanto più idoneo alla messa a fuoco di sè attraverso l'altro, quanto più è limpida la lente, cioé la scrittura. Ma non parlo di una limpidezza solo formale. Mi riferisco soprattutto al suo valore artistico, cioé alla sua universalità: alla capacità di far riconoscere, almeno in parte, ogni lettore in ciò che lo scrittore ha prodotto. Il mio libro: è una rivisitazione della guerra gallica vista dalla parte dei vinti, attraverso gli occhi di un auriga celtico di diciassette anni. Per me, oltre alla denuncia dell'orrore della guerra come esperienza in sé, questo romanzo ha avuto come finalità anche una scommessa stilistica, quella di rianimare, da un’ottica opposta, i Commentarii de bello gallico di Cesare, mantenendone l'asciuttezza e la concisione.
Pescara,Leaves – storie quasi tutte figlie di nessun padre, Il Filo, Roma 2005 È per me l’arma più cara che ho: una terapia grazie alla quale metabolizzo ogni più piccolo particolare con cui mi lascio “impallinare” dalla realtà. Il mio libro: è distacco… ma non abbandono.
2 Daniela Musini Roseto, I cento piaceri di d’Annunzio, Nuovi equilibri / Stampa alternativa,2004 Mare e fuoco. Mi vengono in mente queste due immagini: due elementi che per me sono vitali. Il mio bisogno di scrivere è come il mare perché ondivago, misterioso, cangiante e mutevole secondo l’argo mento a cui mi applico, dalla biografia al teatro ad una scrittura più intima. È come il fuoco perché è un bisogno ardente, ancorato alla mia interiorità ed ha a che fare con emozioni forti: non a caso mi attraggono personaggi solari, esuberanti ma anche sinistri. Il mio libro: intrigante, succulento, lussureggiante e sorprendente.
3 Marco Patricelli Pescara, I banditi della libertà, Utet, 2005 Il mondo perfetto, perché unisce il rigore della ricerca alla creatività del racconto. Il mio libro: una storia scritta da uomini comuni che di fronte ai grandi eventi diventano uomini straordinari.
4 Giovanni Di Iacov Pescara, Sushi Bar Sarajevo, Palomar, Bari 2005 Una laboriosa e lunga alchimia, per imprigionare tra la carta e l'inchiostro le proprie emozioni e le proprie visioni. Il mio libro: un romanzo caleidoscopico che si sviluppa intorno ad una colonna vertebrale narrativa che si articola dalla guerra di Bosnia fino all'Occidente di un futuro prossimo.
GENTE DI PENNA
Pescara, Era Calendimaggio, Einaudi Ragazzi – Illustrazioni di Roberto Innocenti, 2005 Non è lavoro d’ape o di formica. È fatica di scarabeo stercorario, che mentre rotola il suo fardello (inutile?), lascia misteriose tracce sulla sabbia. Il mio libro: Si può raccontare Dante con una sensibilità moderna? Si può raccontare l’amore per una donna come filo conduttore di una vita e prenderlo sul serio? Si può raccontare il mostro sacro, si può fare sentire la sua voce? E nel contempo, si può fare sentire la voce segreta di una donna, moglie lontana e non amata, e raccontare un altro sguardo, un’altra storia? Si può farlo per dei giovani lettori e per tutti? Lo scarabeo rotola sulla sabbia la sua pallottola, senza porsi domande: è comandato dalla necessità. Agli altri, se vogliono, chiedergli ragione della sua fatica e seguirne gli arabeschi.
6 Marcello Nicodemo Chieti, Di lì a poco sarebbe piovuto, Oltreleparole.net, 2003 È come una teca di cristallo in cui ripongo tutte le conquiste spirituali più preziose che sono riuscito a conseguire nella vita. Nella quotidianità è tutto rallentato, diluito: nella scrittura invece tutto può essere compresso e risaltare meglio. In que sta cassaforte metto tutto quello che mi dà la spinta per andare avanti, una sorta di benzina per il motore. Il mio libro: è un libro vero, preso dalla realtà.
7 Maristella Lippolis Pescara, Il tempo dell’isola, Tracce, 2004 Scrivere per me è arrivare a toccare il cuoreoscuro delle cose. Illuminare il buio che le circonda. Poi quando l'opera è compiuta è come mettere al mondo un figlio. T u hai fatto la tua parte, ma lui se ne andrà da solo per il mondo e vivrà di vita propria, delle relazioni che nasceranno con i lettori. Non si può sapere in anticipo come sarà la sua vita. È un po' come cucinare: mescoli gli ingredienti e verrà fuori qualcosa che ogni volta ti sorprende. Il mio libro: Mi piace ricordare qui un racconto che amo molto, Confine. Lì il cuore oscuro da illuminare era il rapporto con la malattia e la morte di mio padre, che sapevo sarebbe arrivata presto. Così ho inventato una storia in cui una figlia aiuta inconsapevolmente il padre a scegliere una bella morte. Una specie di esorcismo, un modo per affrontare il dolore raccontando una storia inventata ma radicata nella realtà.
9 Massimo Ballone Pescara, Al di sotto del cuore, Tracce, 2002 Scrivere ha significato mettere un punto fermo nella mia esistenza. Mi ha permesso di creare un mondo tutto mio, che mi ha isolato dall’esperienza frustrante del carcere: davvero tramite la lettura e la scrittura sono riuscito a tirarmi fuori da un buco nero. Quando scrivi scegli il punto di vista più comodo per osservare quello che hai da raccontare, ma non bisogna dimenticare che i fatti restano pur sempre quelli. È come giocare a carte scoperte: non puoi bluffare. Il mio libro: serve a vivere una vita non vissuta… o impossibile da vivere.
10 Angela Capobianchi Pescara, I giochi di Carolina, Piemme, 2006 Per me la scrittura è come la cucina di mia madre: quando ti siedi non sai mai quello che può capi tarti, e quando ti alzi sei felice perchè sei soprav vissuto. Ma io amo la scrittura, malgrado la fatica; e, neanche a dirlo, amo mia madre nonostante la sua cucina. Il mio libro: il mio primo romanzo, nato per scherzo e per scommessa, ha avuto la fortuna del principiante al tavolo da poker . È stato divertente vederlo vincere. Ora, quando scrivo, mi diverto meno: gioco con prudenza, perchè la posta è più alta. Ma, per fortuna, mi capita ancora qualche mano emozionante.
11 Gabriele D’Annunzio
La massima parte dei nostri narratori non adopera ai suoi bisogni se non poche centinaia di parole comuni, ignorando completamente la più viva ricchezza del nostro idioma che qualcuno anche osa accusare di povertà e quasi di goffaggine. La lingua italiana non ha nulla da invidiare ad alcun’altra lingua europea, non pure nella rappresentazione di tutto il moderno mondo esteriore m a in quella degli stati d’animo più complicati e più rari. (da Il Mattino”, 28-29 dicembre 1892)
12 Valeria Di Clemente Pescara, I fiori d’inverno, Tracce, 2005 Per me è luce ed aria pura. Una vera e propria ricerca di senso. Il mio libro: Un salto attraverso il fuoco.
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13 Francesco Marroni Giulianova,Finisterre, Tracce, 2004 Con la scrittura cerco di catturare quelle contraddizioni e quelle illusioni nascoste nella dimensione che fa da interstizio tra i grandi eventi: è uno scavo impietoso del male di vivere, sia sul versante psicologico che su quello sociale. È la ricerca dell’essenzialità nascosta nella parola “essenza”, e del mondo delle piccole cose. Il mio libro: un cammino tortuoso.
14 Alessandro Di Zio Montesilvano, Il veliero di metallo, Mef, Firenze 2003 La cosa più bella del mondo, probabilmente l’unica che si avvicini alla perfezione. Dò le leggi al mondo che vedo e interpreto quello che non si può spiegare. Molto meglio che andare al cinema. Il mio libro: una sorsata di acqua fresca.
15 Franca Minnucci Pescara, Sarah Bernhardt e Gabriele d’Annunzio - La poesia e il teatro, Ianieri, Chieti 2005 Non sono d’accordo con chi considera la scrittura una faccenda elitaria: è un patrimonio di tutti. Per quello che mi riguarda, scrivere è qualcosa che vive e che viaggia con me, una possibilità di esserci, con me stessa e con gli altri: io sono quello che scrivo. Ecco, è una vera e propria prova di forza, perché di fronte al foglio bianco non puoi soccombere. Il mio libro: delicatissimo e forte, come la grande donna di cui racconta.
16 Ennio Flaiano
L’italiano è una lingua parlata dai doppiatori. Io ho poche idee, ma confuse. A vent’anni si tenta la poesia, a cinquanta si pensa che bisognava insistere. Quel che è certo, certissimo anzi probabile è che l’arte è un investimento di capitali, la cultura un alibi.
17 Mauro Smocovich Pescara, Non è per niente divertente, Il Foglio Edizioni, 2002
La scrittura per me è linfa che nutre o infetta la vita. È ciò che si aspetta debba es sere memorabile ma che può essere solo emozione passeggera. Sudore sudato per un attimo di sorriso o lampo improvviso che rimane ad accecare per sempre. È l'impronta calda di un viso nella cera che si rapprende nel tempo. È lavoro di finitura che richiede pazienza e passione. L ’ultimo mio lavoro è lo spettacolo Corpi Estranei, una interpretazione scenica di miei scritti presentata in anteprima nel novembre 2005 a Bologna con la partecipazione e l’interpretazione di Matteo GENTE DI PENNA
Cotugno e Anna Rita Fiorentini dell'Associazione Culturale Pomodoro. Estraneità dentro e fuori di noi, lontana e vicina, che ci spaventa, che ci rende unici, che ci minaccia, ma che con uno sguardo ironico, ci può anche divertire.
18 Daniele Cavicchia Pescara, La malinconia delle balene, Passigli, 2005 Scrivere significa tentare di dare un ordine a quello che avevo da dirmi e che naturalmente abitava la confusione. Ma la parola, è risaputo, è una meretrice distratta e spesso porta notizie di altri amanti. Quindi bisognerebbe trovarne una fedele in grado di tradurre quel pensiero appena enunciato in modo tale che non si instauri, tra autore e testo, un rapporto infedele. Il mio libro: Vi sono cose alle quali si rimane legati più che ad altre, e quasi mai se ne conosce il motivo. Forse perché rimane lo stupore per quello che si è scritto e che ancora gli fa compagnia. Sono ancora legato all’ultimo libro, La malinconia delle balene , e a Il Custode distratto, ma soprattutto a dei versi, ritrovati da poco tra gli appunti, che forse vogliono suggerirmi che tra le varie possibilità vi è anche quella di smettere di scrivere.
19 Angelo De Nicola L’Aquila, Da Tragnone a Fidel Castro, Textus, 2005 Per me che, a 15 anni, sono entrato in una reda zione fumosa di un quotidiano nella quale c’era “il capo” che, in meno di dieci minuti, componeva un editoriale perfetto e senza il benchè minimo refuso ticchettando a dieci dita sulla tastiera di una “lettera 22”, per me la scrittura è tutto. È l’oggi, è il domani. Inevitabile, forse, il salto nella narrativa. Salto senza rete? I lettori, sempre loro, sono i giudici. Di certo, io, non smetto. È tutto. È la mia vita. Il mio libro: il romanzo è una droga ma dei miei libri, quello a cui tengo di più è il saggio Da Tragnone a Fidel Castro perché lì dentro c’è il mio ventennale lavoro (di scrittura) quotidiano di giornalista. E perché c’è una sperimentazione (sulla scrittura) che potesse consentirmi di tentare di guadagnare un mare aperto (il romanzo) dopo aver conosciuto a fondo un porto (gli articoli). Scrivere è sperimentare: se stessi, l’oggi, il domani, la vita.
20 Gianni Macè Roseto, La scheggia, Roma, Sovera, 2004 “L’uomo è fumator” cantava la grande Milly qualche decennio fa... ed anche “creator”. Se è vero che siamo stati creati a sua immagine e somiglianza, in qualche modo, più o meno maldestramente, più o meno coscientemente, cerchiamo instanca bilmente di replicare il Divino. Così, per innata
attitudine, non accontentandoci di vivere esclusivamente del nostro sé, quando arriva la febbrile esigenza, anche noi dobbiamo creare personaggi, situazioni, drammi, vite, coscienze e chissà quant’altro, da far circolare sotto il volere della nostra penna. Per poi riposare, sperando nell’appagamento dell’opera appena eseguita. L ’uomo è fumator ed anche creator, dico io, ma senza troppi acuti. Il mio libro: Tutto ciò che ci circonda ha un’anima ed un’energia, con tutte le conseguenze che ne derivano. Sono stati i miei personaggi che trovandosi in esso immersi sin oltre il collo, mi hanno aiutato a comprendere meglio il principio. È proprio vero che lo scrivere acuisce la consapevolezza (chissà se l’ha detto qualcun altro). Meditate… meditate… meditate!
21 Zuleika Fusco Pescara, Interpretazioni del sogno, Castelvecchi, 2005 L’integrazione perfetta tra il femminile (l’ispirazione) e il maschile (la logica): tra l’essere e il concretizzare. Il mio libro: un processo di crescita, attraverso la via del cuore e dell’intuizione.
22 Alessio Romano Montesilvano, Paradise for all, Fazi, 2005 È un gioco, in cui mescolo libri, esperienze e creazione, infatti la chiamo “la teoria dei tre cerchi”. È un modo per tornare indietro se non hai potuto fare qualcosa: l’importante è divertire, mentre racconti. La cosa più bella è che quando hai finito hai crea to qualcosa che prima non c’era. Il mio libro: un mistero alla “Twin Peaks” che invece di sciogliersi, alla fine si ingarbuglia ancora di più.
23 Nicoletta Di Gregorio Pescara, Il cielo dissolve, Tracce, 2005 È uno specchio con cui filtro e rimando la realtà dopo averla sedimentata, a seguito di un attento lavoro dentro me stessa. Il mio libro: ciò che l’invisibile svela.
24 Ignazio Silone
Scrivere ha significato per me assoluta necessità di testimoniare, bisogno inderogabile di liberarmi da un’ossessione. Lo scrivere diventa per questa via, nella ricerca di una ragione e di una giustificazione al nostro agire, anche la liberazione da un’ossessione e, insieme, testimonianza di una verità acquisita attraverso l’esperienza di vita.
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25 Federica Vicino
29 Benito Sablone
33 Gianni Paris
Pescara, Errore di sistema www.carmillaonline.com È una specie di rifugio, o anche il mio “dark side”. È un luogo molto intimo, nel quale ci sono io, i miei pensieri, le mie fantasticherie e una folla di personaggi (molti dei quali ancora da scrivere); ma soprattutto le parole. È un mondo a parte, con ingresso rigorosamente vietato. Come il laboratorio dello scienziato pazzo. Sto progettando la macchina del tempo; dato che le parole hanno questo magico potere: viaggiano nel tempo.Il mio libro:è una storia a metà fra la fantascienza e il noir (due generi che adoro). V alerio Evangelisti (direttore della web fanzine che ha pubblicato il romanzo) l’ha definita “travolgente e mozzafiato”. E io… che dire? Sono d’accordo con lui. È il lavoro che mi ha dato maggiori soddisfazioni, quello in cui credo di più.
Pescara, L’angelo di Redon, Tracce, 2000 Scrivere per me significa entrare nei pensieri degli altri e liberarsi dei propri. La poesia è uno scopo non raggiunto, qualcosa che si realizza secondo il proposito iniziale ma si compie per proprio conto, in totale incontrollabile autonomia. Il mio libro: vuole rendere conto di una realtà senza illusioni, ogni verso riflette un dubbio anziché una certezza. Non è un libro della felicità. Insieme a La ruota inchiodata che risale al 1982 è quello in cui maggiormente mi riconosco.
Avezzano, Strettamente personale, Pendragon,2005 Per me la scrittura non esiste. Al suo posto c’è una donna di carta, che continuo ad inseguire. Forse è la donna dei sogni, con le sue gambe affusolate e il suo sedere perfetto. Una donna che mi fa respirare il suo odore, senza mai farsi toccare. La scrittura, dunque, è un tormento. Quando sono con lei dimentico tutti i problemi e mi chiamo Andrea, Francesco, Fiona, Claudio… Il mio libro: È un’antologia, da me curata e alla quale ho partecipato, che riunisce racconti di alcuni dei più noti scrittori italiani (tra gli altri, Culicchia, Baldini, Fois, Scarpa, Carraro). Ventisette autori che, di fronte alla mia richiesta di scrivere qualcosa di autobiografico, hanno messo in gioco se stessi e la propria intimità. Ricordi d’infanzia e avventure di gioventù, racconti di vita professionale e affettiva si alternano a riflessioni su vita e morte, componendo uno sfaccettato mosaico di personalità ed esperienze.
26 Pino Bruni Pescara, Dissolvenza uomo, Libreria Universitaria Editrice, 2005 Per me significa tuffarmi in un mondo parallelo, dove l’immaginazione è ancora al potere. Il mio libro: Oggi gli uomini usano i computer per fare cinema; cosa succederebbe se un giorno fossero le macchine ad usare l’uomo per lo stesso scopo? In questo caso il cinema avrebbe un ruolo salvifico per l’umanità. Scrivendo il mio romanzo, mi sono accorto che esistono atei anche tra i robot: non credono all’e sistenza dell’uomo…
27 Luisa Gasbarri Chieti, L’istinto innaturale, Todero, Lugano 2005 È il modo più naturale per appropriarmi del mondo e per poterlo modificare, con l'immaginazione, rendendolo diverso da come me lo vedo intorno. Il mio libro: Un libro che tutte le donne dovrebbero leggere, e poi regalare agli uomini.
28 Stanislao Liberatore Pescara, Il convivium dei Cesari, Ed. Qualevita, 2005 Scrivere per me è sinonimo di libertà. Ma tengo a precisare che “scrittore” è una qualifica che attiene ai sommi, non a chi come me usa la penna per buttar giù idee su un foglio vergine. Sono un giornalista, e mi definisco, tutt’al più, “esploratore letterario”. Il mio libro: rappresenta tutto il mio amore per la storia dell’antica Roma. È un piacevolissimo excursus storico attraverso la società romana all’epoca della dinastia Giulio-Claudia, la più lussuriosa e gaudente della Roma imperiale. Il banchetto, la tavola, era lo specchio di questa società in cui regnavano vizi ed eccessi, non c’erano regole e le poche esistenti erano infrante dagli stessi imperatori. GENTE DI PENNA
30 Renzo Paris Celano (AQ), La croce tatuata, Fazi, 2005 La scrittura è il seme nero della mia vita. Dapprima era inchiostro bluastro, quello delle boccettine nei banchi delle elementari. Poi è diventato l’inchiostro nero della macchina da scrivere. Oggi è anche la scrittura digitale del computer . In queste tre epoche mi sono voluto scrittore. Ho qualche problema a stabilire quale sia stata l’epoca più bella. Il mio libro: Le recensioni che ho avuto su La croce tatuata, il mio ultimo romanzo uscito da Fazi quest’anno, hanno riconosciuto in quest’opera il mio capolavoro. Anche se giunge dopo dieci romanzi, me ne sto convincendo anch’io. Meglio tardi che mai.
31 Loredana Ranni Pescara, Io, viva di tumore, Proedi, 2004 Scrivere è per me rendere straordinarie storie di ordinaria quotidianità, trasformare le emozioni della signora della porta accanto in titoli da prima pagina. Il mio libro: è la radiografia della mia anima, che molte altre persone possono ritirare allo sportello referti” senza alcuna delega.
32 Luciano Paesani Teramo, Una notte con Don Giovanni Praga, Istituto Italiano di Cultura/ Pescara, Campus, 1996 Per me la scrittura è lo spazio temporale che permette alla crisalide di diventare farfalla. Poi resto lì ad immaginarla volare senza sapere dove volerà e quanto tempo durerà quel volo. Il mio libro: Racconta la geniale scrittura di Mozart in una nottata i cui ospiti, a tutti i costi voluti dai posteri, sono in realtà i fantasmi agitati nella sua mente ubriaca di note e di vino dallo stesso demone che visiterà la mente di Beethoven durante la gestazio ne della Sonata a Kreutzer prima di gironzolare nella mente di Tolstoj: a ciascuno i suoi demoni…
34 Nadia Tarantini Pescara, Il Risveglio del corpo, La Tartaruga/Baldini & Castoldi,1996 Entrare nel bosco di castagni, dove andavo con mia madre da bambina. Cercare la pace, il silenzio e i profumi concentrati del sottobosco. Sedersi sotto un castagno molto frondoso, dopo essermi allontanata dagli altri – e dopo aver tolto i ricci e le spine da terra, facendo pulizia. Concentrarmi in un punto profondo di me stessa, cercare e cercare muovendo la mano sul foglio con la stessa attenzione con cui costruivo cappellini e gonnelle con le foglie alla base dell’albero. A vere paura, paura di non riuscire a stare da sola nel bosco. Provare il sollievo di farcela e desiderare di tornarci ancora. Il mio libro: Il più amato resta Il risveglio del corpo, scritto con Maria Teresa Pinardi nel 1995. È un “romanzo della salute”, da tenere a portata di mano, se ne può avere sempre bisogno. Così mi dice chi l’ha letto, e il mio cuore se ne rallegra ogni volta. È una lettura di guarigione persino per me. E non accade spesso con i propri libri!
35 Annarita Petrino Giulianova (TE), Ragnatela dimensionale, Delos Books, Firenze 2004 Un quadro impressionista dipinto con un pennello intinto di fantasia, che esprima emozioni e le cose le lasci solo intravedere. Il mio libro: È la prima delle avventure di una troppo giovane principessa cyborg.
36 John Fante
Ah, se scrivere fosse stato sempre così semplice! Il mucchietto delle pagine saliva, venticinque, trenta, finché mi guardai l’ombelico e mi avvidi che sprofondava in un rotolo di ciccia. (da Chiedi alla polvere)
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Il Parco dalle
di Sergio D’Agostino Foto Edizioni l’Orbicolare
Tra i più grandi d’Europa, costituito da un immenso patrimonio naturale e umano, il Parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga è ricco di natura e tradizione, ma anche terreno di progetti innovativi. Un tesoro da 150 chilometri quadrati, valorizzato e protetto da una amministrazione lungimirante per tramandarlo alle future generazioni intatto nel suo equilibrio.
larghe vedute
n territorio enorme, di 150mila ettari, con uno dei parchi più grandi d’Europa da governare e salvaguardare. Le ruggini di un passato “muro contro muro”lasciate definitivamente alle spalle, grazie a una strategia della comunicazione in grado di trasformare popolazioni un tempo ostili in sostenitori consapevoli di un progetto. La voglia di scommettere su idee innovative, di giocare a tutto campo, di realizzare un modello di area protetta dove lo sviluppo economico e la conservazione della natura marcino alla stessa velocità, trovando le ragioni per far convivere la qualità con l’efficienza, la capacità di progettare con quella di tutelare. Dove il “no” è una necessità, non il biglietto da visita, e perfino attorno ai successi di un formaggio si può costruire un modello economico vincente: sul pecorino di Farindola e il Canestrato di Castel del Monte fiorisce ormai un business che sarebbe difficile immaginare sganciato dal valore aggiunto che la natura protetta conferisce al prodotto. Senza contare il rilancio di interes-
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se intorno a mestieri estinti come la pastorizia. Benvenuti nel Parco nazionale del Gran Sasso - Monti della Laga. E benvenuti sulla strada maestra che ha deciso di percorrere il presidente dell’ente, Walter Mazzitti, che scalando i tornanti non metaforici della gestione dell’ente è riuscito a vincere il suo personale gran premio della montagna, ovvero far lievitare i magri bilanci storici del Parco (3,6 milioni di euro l’anno) fino a quota 10,5. Un’iniezione imponente di denaro, nata dall’accresciuta capacità della presidenza Mazzitti di attrarre finanziamenti da Regione, Ministero dell’ambiente, Unione europea. La strada maestra che Mazzitti percorre, in realtà, non è solo una metafora. È anche il progetto (con la “P” maiuscola) cui l’avvocato teramano con la passione dell’archeologia tiene forse di più. Non foss’altro perché è l’ultimo arrivato: il recupero a fini turistici dell’antica statale 80, quella che un tempo permetteva di collegare la costa adriatica con L’Aquila e Roma. Abbandonata da vent’anni da dio e
«All’inizio, i Comuni vennero a manifestare sotto Palazzo Chigi, ora chiedono di ampliare i confini. Scegliendo la politica della comunicazione due anni di lavoro sono stati sufficienti per ottenere questo risultato» 12
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dagli uomini dopo l’apertura dell’autostrada, finita in naftalina, destinata a morte certa con tutto il suo carico sociale ed economico intorno (un rosario doloroso fatto di scuole e uffici postali chiusi uno dopo l’altro, attività economiche fallite, spopolamento progressivo) l’arteria è rifiorita a nuova vita, ed oggi offre lungo il suo incontaminato percorso di 75 chilometri l’idea di quel che un parco può creare in termini di opportunità ed occasioni per i suoi abitanti. In termini di sviluppo sostenibile. In termini di economia che sposa l’ambiente. In termini di recupero e di rilancio. Così, un qualche senso ce l’avrà il fatto che il primo ristorante (“La casa del cervo”) sorto all’interno di una delle case cantoniere recuperate lungo il suo percorso, sia meta continua di clienti che si spostano anche da centinaia di chilometri, magari da Ancona o da Pescara, per passare qualche ora in compagnia di un ambiente unico e di cibo di qualità. Dice Mazzitti: «Abbiamo scommesso sui progetti, e quello della Strada maestra è il più significativo, perché riguarda ben 40mila ettari su un totale di 150mila dell’intero Parco. Perchè dentro ci sono otto Comuni, le Province dell’Aquila e di Teramo. E
perchè il territorio era quello più disastrato, dunque il terreno di gioco più difficile. Un’area che sarebbe stata destinata alla morte: i boschi avrebbero riconquistato i terreni coltivati, i pochi centri abitati si sarebbero spopolati alla svelta». Adesso, economicamente parlando, l’area desolata sembra un sorta di piccolo nord-est, ma il modello che sposa l’efficienza non ha certo rinnegato il dna del Parco, l’ambiente e le sue creature a quattro zampe: proprio lì, di recente, sono stati reimmessi 200 cervi di razza purissima. «Abbiamo recuperato e ristrutturato le case cantoniere, con 200 posti letto. Abbiamo creato uno slogan (“Settanta chilometri in sette giorni”) che è diventato un forte messaggio di richiamo per i turisti stranieri, abbiamo creato attrattive in tutti i centri: dal barocco all’archeologia, fino alla gastronomia di qualità e al recupero di antichi mulini». Da quelle parti, ormai, con la ripresa della vita fioriscono anche i piccoli miracoli: a Tottea, 440 anime, ci sono 43 imprese attive. Per arrivare a tutto questo, a dieci anni dall’atto di nascita, il Parco ha dovuto lasciarsi alle spalle il momento più difficile: l’avvio. Perché, spiega Mazzitti, «i parchi attraversavano un momento di diffiIL PARCO DALLE LARGHE VEDUTE
Il parco da ammirare «La conoscenza del territorio di un parco è la premessa indispensabile per comprendere le motivazioni della sua istituzione». Parole di Altero Matteoli, ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio, le stesse che presentano «Gran Sasso e Monti della Laga, parco di natura e cultura», il volume con cui il ministero ha voluto celebrare degnamente, con una pubblicazione davvero speciale, il parco abruzzese. Curato delle Edizioni l’Orbicolare, il libro (i cui testi sono stati redatti da Stefano Ardito), più che altro è un’opera d’arte. Lo testimonia il formato decisamente extra size di alcune NATURA
fotografie (120 centimetri per 29, ma si arriva perfino a 180 centimetri per una immagine straordinaria che coglie dentro lo stesso obiettivo l’intero territorio del parco), in grado di fornire al lettore la sensazione di avere davanti a sé, più che la carta, un vero e proprio punto di osservazione panoramico. Un punto visuale da cui ammirare gli scenari più belli che l’area protetta è in grado di proporre, con la sua natura, i suoi borghi, i gioielli dell’arte che custodisce, e che il volume invita a scoprire con il suo occhio speciale: da Rocca Calascio al Tirino, dal Piano di Fugno al Calderone,
dal Monte Camicia al lago di Campotosto, dai Monti Gemelli al Lago Secco, dall’anfiteatro di Amiternum al santuario dell’Icona Passatora.
Qui sopra, il lussuoso volume edito dall’Orbicolare da cui sono tratte le immagini del servizio. In queste pagine, Pietracamela protetta dal Corno Piccolo e dal Pizzo Intermesoli; nelle pagine precedenti, l’altopiano di Campo Imperatore.
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Una forte spinta l’hanno data i progetti, come quello che ha trasformato i 150mila ettari protetti in un puzzle di 11 distretti territoriali divisi per tematiche: così sono nati mini-parchi decisamente più governabili 14
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coltà. Giocavano in negativo le poche informazioni. Non si faceva comprendere la loro funzione. Mancava la comunicazione. Pesava la grande spinta contraria che veniva dal mondo della caccia, la prima a capire che andava incontro a una forte limitazione dell’attività esercitata da sempre. Era passata un’idea negativa, di limitazioni, di restringimento delle autonomie: una situazione di grande conflitto». Per uscirne, Mazzitti e il suo team hanno puntato tutte le proprie chance sulla comunicazione: «Nella fase di perimetrazione e implementazione del Parco, i Comuni vennero a manifestare e protestare con i gonfaloni, a Roma, sotto Palazzo Chigi. Ora chiedono chi di ampliare i confini, chi di entrare: ci sono state 24 delibere di richiesta di adesione, tante rispetto ai 44 comuni che sono già all’interno del Parco. A questo siamo arrivati scegliendo la politica della comunicazione quotidiana: c’è voluto un po’ di tempo, ma due anni di lavoro forte sono stati sufficienti a far ricredere amministrazioni e popolazioni. Chi si sentiva emarginato ora si sente protagonista, grazie a una politica di interazione di interessi, di bilanciamento: vogliamo che l’uomo viva meglio nel territorio, cercando di
far sì che ciò che lo circonda non venga sacrificato, conservando nello stesso tempo il patrimonio paesaggistico, floreale e faunistico». Con la comunicazione, una forte spinta l’hanno data i progetti. Primo fra tutti quello che ha deciso di trasformare i 150mila ettari protetti (una dimensione destinata a renderlo francamente ingovernabile) in un puzzle di 11 distretti territoriali omogenei, che hanno finito per ridurre il mastodonte a più miti propositi, senza per questo attenuare il controllo. Di miniparchi ne sono nati 11, decisamente più gestibili. «All’interno di ognuno abbiamo diverse tipicità, dal turismo all’agricoltura, fino alle antiche abbazie. L’ambito più limitato ha consentito un rapporto più forte e solido con le popolazioni. Nessuna certezza assoluta, solo l’invito a seguirci, a stare in contatto con noi. Abbiamo usato la tv, i giornali, le brochure specializzate per spiegare ogni nostro passo, i progetti, le trasformazioni». Così, a poco a poco, la missione che sembrava impossibile s’è rivelata alla portata. Sono nati progetti di recupero “dal basso”: «A Poggio Umbricchio, 56 persone che non vivono più da tempo in questa zona –tra loro c’è anche un arbitro internazionale di calcio, PaIL PARCO DALLE LARGHE VEDUTE
Presidente per natura Walter Mazzitti è presidente del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga dal gennaio 2002. Lunga e collaudata però la sua esperienza in incarichi di prestigio a livello nazionale o europeo: è capo della Task Force dell’Unione europea sull’acqua per il processo di pace in Medio Oriente, organismo a cui è affidato il compito di favorire il negoziato e la cooperazione per l’equa ripartizione delle risorse idriche nell’ambito del conflitto araboisraeliano. Dal 1994 al 2000 è stato presidente della prima Autorità di vigilanza nazionale sull’uso delle risorse idriche (Legge Galli). È presidente della commissione interministeriale per la Politica dell’acqua nel Mediterraneo. In tale ruolo ha rappresentato l’Italia nelle più importanti conferenze internazionali NATURA
sull’acqua degli ultimi anni. Ha favorito la nascita del Sistema EuroMediterraneo per l’informazione sull’acqua che ha presieduto dal 1997 al 2002. Nel dicembre del 2005 è stato eletto dai 35 paesi membri Segretario generale del Semide. Ha promosso a Torino nel 1999 la Conferenza EuroMediterranea dei 27 ministri dell’acqua che ha approvato il primo Piano d’azione per il Mediterraneo. Collabora con istituzioni ed organismi internazionali sulla politica dell’acqua. Ha coordinato, dal 2002 al 2005, il Comitato tecnico scientifico della Regione Lombardia per le politiche dell’acqua e dell’energia. Dal 1990 è presidente nazionale di Archeoclub d’Italia. È coautore del Codice della legislazione sull’acqua, edito nel 1998 e autore di numerose pubblicazioni. VARIO57
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Sopra, una vedutra della Rocca di Calascio. Nelle pagine precedenti, il Santuario dell’Icona Passatora, istoriato di affreschi votivi del XV secolo.
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squale Rodomonti– hanno tirato fuori i propri soldi per ricomprare un antico mulino, il luogo con più intensità di storia e tradizione. Lo hanno ceduto al Parco perché lo ristrutturasse, e noi a nostra volta abbiamo avuto risorse dal Cipe per ristrutturarlo e farlo ripartire». Allo stesso modo, un enorme patrimonio abitativo, lasciato all’abbandono, è tornato a rifiorire: «Con il rilancio turistico c’è una corsa al restauro delle case, anche perché il valore degli immobili nei parchi è cresciuto del 30 per cento. Ogni anno mettiamo a disposizione 500mila euro per le ristrutturazioni, finanziando circa 100 interventi da 5mila euro. Non sono tanti, ma bastano a mettere in moto 25-30mila euro di lavori per volta, e questo vuol dire creare opportunità per imprese edili, artigiani». E poi c’è sempre da considerare l’effetto “erba del vicino”, l’effetto emulativo: chi non accede al finanziamento, guardando la casa del vicino è spinto a fare altrettanto, ma con i soldi propri, sulla sua abitazione». Sono state combattute e vinte battaglie culturali che un tempo, nella spigolosa mentalità della gente di montagna, avrebbero sollevato sarcasmi e alzate di spalle: «A Valle Vaccaio, frazione di Crogna-
leto, gli abitanti –tutta gente benestante trasferita altrove– prima dell’arrivo del Parco hanno ristrutturato le case mettendo porte e finestre sbagliate, in alluminio anodizzato. Ne abbiamo discusso, ci siamo impegnati a rifare la piazza e le strade, ma a condizione che l’anodizzato fosse tolto di mezzo: entro l’anno quel materiale sparirà, ed è un altro dato del cambio di atteggiamento della gente». Così ora, a parlare con la loro cruda verità, sono soprattutto i numeri: «I rilevamenti dell’Azienda di promozione turistica dicono che quest’anno abbiamo avuto un incremento delle presenze turistiche del 10 per cento, in un contesto nazionale e locale di segno opposto». La cartina del new deal che il Parco sta vivendo trova anche nel versante aquilano ragioni per arricchirsi. È il caso di Santo Stefano di Sessanio: «È un modello di cui tutti parlano, ma che da solo non potrà andare lontano. Per questo abbiamo voluto ragionare in termini di sistema, con Barisciano, Castelvecchio e Carapelle Calvisio, Castel del Monte, Calascio: un’operazione di albergo diffuso da 2mila posti letto, all’interno di un distretto che sia dotato di cinema, teatro, ristoranti e negozi di qualità, luoghi di divertimento. In grado IL PARCO DALLE LARGHE VEDUTE
di competere a tutti i livelli. Lì, in estate, contiamogià presenze straordinarie, nell’ordine delle 3-4mila persone nei fine settimana, gente che va e che viene. Un risultato che però d’inverno deve ancora essere raggiunto. Dunque si dovrà lavorare per far crescere l’offerta: con la neve, visto che ci sono campi per sciare, ma anche con la cultura, perché creeremo eventi per attrarre più gente: a Calascio, con una rassegna di cinema dedicata alla natura; a Palazzo del Capitano di Santo Stefano di Sessanio, dove sorgerà un vero e proprio cenacolo, porteremo premi Nobel e scienziati; a Barisciano, in un convento già ristrutturato ad albergo, faremo una scuola di cucina. Sarà il nostro “Gambero rosso”, quello del Parco…». Se lungo l’ex statale 80 corre il progetto clou di questi primi anni di gestione del Parco, su un percorso di quasi 400 chilometri che si snoda dal vicino parco dei Monti Sibillini, in direzione sud, Parco della Maiella, Mazzitti conta di piazzare il prossimo progetto-obiettivo in grado di fare la differenza nella sfida lanciata: la più lunga ippovia d’Europa. «Esiste la possibilità, dai Sibillini alla Maiella attraverso il Parco del Gran Sasso, di realizzare la prima NATURA
via interamente attrezzata per gli amanti degli sport equestri, ma anche per i cultori di mountain bike o trekking. Un incredibile scenario di varietà paesaggistiche e ambientali, dove si potranno fare investimenti importanti: ci sono edifici abbandonati da recuperare e trasformare in stazioni di posta per i cavalli, punto di sosta per le bici, stanze per bed&breakfast, piccole trattorie, negozi di prodotti tipici. Chi ha interesse si faccia avanti: a Santo Stefano, chi ha investito s’è arricchito». Così, il nuovo corso del Parco è diventato un modello da studiare: «Non abbiamo ancora indicatori tutti nostri che ci diano la misura dei risultati conseguiti, ma sono già tante le università che si interessano al modello che abbiamo costruito, e tra queste la Bocconi che sta curando il nostro piano socio-economico, oltre alla Luiss. Senza contare le decine di tesi di laurea, soprattutto sulla comunicazione, redatte guardando proprio al nostro caso». Nessuna critica, allora? «Ce ne sono. Vengono dalle aree più marginali, dove non siamo ancora arrivati. E quando non si arriva la gente sta lì e ti guarda, si chiede cosa fai. Diciamo però che alle spalle abbiamo solo quattro anni di lavoro, di fronte abbiamo invece decenni».
Sopra, il prezioso Ambone sec. XII, nell’Abbazia di San Clemente (Castiglione a Casauria - Pe)
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La strada i sapori del territorio
n percorso ideale tracciato all’interno di uno straordinario itinerario del gusto, per aiutare il visitatore virtuale a scoprire sapori e luoghi che natura e cultura hanno in serbo e ora possono svelare. Per comprendere meglio, attraverso la tavola, la storia e il carattere della gente del Parco. C’è un filo rosso che collega strettamente gli 11 distretti che il Parco nazionale del Gran Sasso Monti della Laga ha voluto per governare il suo complesso sistema territoriale: la buona cucina. La missione possibile alla scoperta del più singolare biglietto da visita del proprio territorio, il Parco l’ha affidata a Sapori della natura, Sapori della cultura, primo titolo della sua nuova casa editrice, la “Gransassolagapark editore”. Una sorta di ambasciatore «di una terra benedetta da Dio, di un paesaggio di campi aperti, mandorleti, boschi di castagno, alpeggi ricchi di essenze» (come scrive Walter Mazzitti nella prefazione), in grado di illustrare le buone ragioni del Parco, le potenzialità positive del suo futuro. Attraverso 144 pagine corredate dalle pregevoli foto di Maurizio Anselmi il volume racconta un territorio usando la sua chiave di lettura più... gustosa, l’enogastronomia di qualità. Presentato a dicembre nel magnifico scenario di
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Presentato nel magnifico scenario di Villa Dragonetti di Paganica il primo volume della nuova casa editrice “Gransassolagapark“ 18
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Villa Dragonetti di Paganica, il volume si è avvalso di un testimonial d’eccezione come Gianfranco Vissani, lo chef italiano più celebrato. Guida alla preparazione di alcune delle ricette più significative, il libro é pure un prezioso indirizzario dei migliori ristoranti in cui dar fondo alla propria fantasia, o delle aziende dove acquistare carni e formaggi, vini ed olio, insaccati e dolci, conserve e prodotti da forno. Al viandante che si avventuri nei territori della “Strada maestra”, capiterà di imbattersi in menu più unici che rari che portano in tavola piatti “doc” del parco, come la polenta pasticciata e la ciavarra (agnello femmina) in umido, i tonnarelli in bianco con i funghi e la pecora alla brace, la zuppa di ceci e castagne e i bocconotti. Oppure, percorrendo l’area aquilana, di gustare (ahimé, virtualmente) i maccheroni alla chitarra con lo zafferano e le costatine di agnello alla «saffrana», la pasta alla pecorara e le polpette di ricotta, la zuppa di lenticchie, patate e sedano e le rinarciole. E si potrebbe continuare, nella Valle del Tirino, con il trionfo di sapori che trote alla brace, guazzetto di gamberi alla diavola, linguine con gamberi e zafferano, sanno conferire ai frutti di acque incontaminate nella stessa misura in cui la terra gratifica i suoi. LA STRADA DEI GOURMET
dei gourmet
Nelle foto di Maurizio Anselmi, la vallata del Tirino con la sorgente di Capodacqua. e alcuni piatti tipici presentati all’interno del libro.
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Varcando la porta della bella e luminosa casa con le finestre su villa Doria Pamphili,a Roma,la prima impressione è quella di entrare in una galleria: alle pareti, dipinti che si studiano sui libri di storia dell’arte; sui tavolini, in bilico, sculture che si è abituati a vedere dietro spessi cristalli; foto alle pareti dove riconosci i “Giancarlo” o i “Giovanni” che anche a citarli con il cognome non dicono niente ai giovanissimi, perchè a scuola lo studio della storia si ferma prima; e poi libri, tanti libri; e per finire lei, che con gli anni diventa anche più bella. Miriam Mafai ci ha dato appuntamento a casa sua per un’intervista a due, o meglio, una chiacchierata, con Nevio Felicetti per un amarcord sulla loro esperienza di giovani consiglieri comunali della giunta di sinistra di Vincenzo Chiola,nella Pescara del dopoguerra e della ricostruzione. Ma poi una parola tira l’altra, un ricordo richiama l’altro e i due hanno raccontato la loro storia, quella della sinistra e anche la nostra, C.C. nell’Italia degli ultimi 20-30 anni. Dovevamo fermarli?
Cara Miriam, Caro Nevio Miriam Mafai, madre nobile del giornalismo italiano, coscienza critica della sinistra, intellettuale prestata alla politica; Nevio Felicetti, una vita da militante spesa sulle piazze e nelle aule istituzionali, foto sempre viva dell’album del Pci e della sinistra abruzzese. 20
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elicetti: Miriam, è stato un ritorno al passato ritrovarci in quell’aula nel vecchio palazzo comunale… Mafai: Un amarcord emozionante, iniziato vedendo la piazza intitolata a Vincenzo Chiola… Felicetti: Non è stato facile, te lo assicuro… Mafai: Lo so benissimo perchè anch’io scrissi un paio di volte a sindaci di diverse maggioranze, ricordando che l’attribuzione di una piazza a Chiola non sarebbe stato una cortesia fatta a una parte politica, ma il riconoscimento della città a uno degli uomini che più si era impegnato per la sua rinascita. Poi ho salito la grande scalinata, mi sono ritrovata nella sala del consiglio comunale: mi sono sembrate, per uno di quei singolari stravolgimenti psicologici, assai più interessanti dal punto di vista architettonico, assai più belle di quanto mi era parso allora, quando ci ero entrata la prima volta, nel 1951. Felicetti: Forse pensavamo ad altro in quel periodo, data la nostra età, gli interessi ed il momento storico a ridosso della caduta del fascismo. Mafai: Certo fu un’esperienza formativa fondamentale. Io ero assessore all’Assistenza, e per me quella fu una prova durissima; ma anche la conferma della giustezza del mio impegno politico e sociale, dovevamo risolvere i problemi di quella gente che era
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disperata. E poi perchè grazie a Chiola, e a te, ho capito una cosa fondamentale: l’importanza delle scelte urbanistiche di cui, ti confesso, io non avevo il più pallido sentore. Appena usciti dalla guerra, l’idea che si debba ricostruire come che sia, è un’idea che può far presa. Pescara è stata una delle prime città ad avere un vero piano regolatore firmato da un’autorità internazionale come Luigi Piccinato. Fu una eredità dell’amministrazione Giovannucci, un segno dal punto di vista culturale: non ci accontentavamo di ricostruire tutte le casette uguali, volevamo avere un disegno più grande della città. È stato un tema fondamentale in tutt’Italia. Felicetti: Ma Pescara ebbe rilievo nazionale anche in altre occasioni precedenti al tuo arrivo. Ricorderai l’occupazione del Comune. Mafai: Certo. Una vicenda straordinaria, che per certi versi illuse il mondo politico, la sinistra italiana immediatamente prima delle elezioni del 1948… Felicetti: A Pescara, nelle elezioni del ‘46, si era determinata una situazione di parità tra la sinistra e il centro-destra, per cui si arrivò a una soluzione di grande coalizione, come si direbbe oggi. Noi a questa soluzione potemmo dare con convinzione il nostro contributo, senonché la Dc non si rassegnò a vestire i panni di forza non protagonista assoluta. A PERSONAGGI
Nella foto, l’incontro e il saluto tra Nevio Felicetti e Miriam Mafai nella casa romana della giornalista-scrittrice, davanti al grande quadro di Mario Mafai che la ritrae bambina, al piano. Testimoni dell’amarcord fra i due ex consiglieri comunali pescaresi, la signora Andreina Felicetti, Andrea e Claudio Carella autori delle “foto ricordo“
Lo sciopero a rovescio fu una forma di lotta inventata in Abruzzo e più precisamente nella Marsica. I canali di irrigazione del Fucino erano pericolosamente intasati. Il principe Torlonia si rifiutava ostinatamente di sistemarli. I braccianti disoccupati, sostenuti dagli affittuari danneggiati dalla negligenza del principe, decisero di cominciare a lavorare, per poi battersi per il pagamento delle giornate di lavoro, tutte rigorosamente registrate dalle leghe sindacali. Vinsero i braccianti, e il loto esempio fu seguito in tutto l’Abruzzo. Miseria spaventosa, case distrutte, fabbriche chiuse, zone intere della città senza acqua, senza luce. Migliaia di senzalavoro. In tanti vivevano grazie ai modesti sussidi dell’Ente comunale di assistenza.
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un certo punto Giuseppe Spataro, grande manovratore della Dc locale e non solo, fece in modo che il ministro degli Interni, che era Mario Scelba, decidesse lo scioglimento del Consiglio comunale. Noi reagimmo, occupammo il Comune trascinando dietro di noi la città. Mafai: Nello stesso periodo c’era stata l’occupazione della Prefettura di Milano contro la rimozione del prefetto Ettore Troilo (comandante della Brigata Maiella, ndr). Felicetti: Scesero da Penne e Città S. Angelo gli ex partigiani. Da Bussi e da Popoli gli operai delle grandi fabbriche. Per un certo numero di giorni tenemmo il Comune occupato, fu una battaglia che coinvolse la popolazione. E poi, dalla nostra parte c’era anche il parroco di San Cetteo, il vecchio grande don Brandano. Stava fra noi, ci aiutava. Ma ci aiutò anche una grande battaglia parlamentare condotta da Bruno Corbi contro Spataro: denunciò la violenza che si era consumata nei confronti della città, e che portò il governo a indire immediatamente le elezioni. Fu un trionfo per la sinistra, sulla spinta di quel movimento di massa e ci fu la sensazione che quella vittoria locale nel febbraio del ‘48 fosse un segnale, un’anticipazione del risultato nelle elezioni politiche di aprile. Mafai: Quando invece arrivò la sconfitta più dolorosa per la sinistra unita sotto il simbolo di Garibaldi. Felicetti: Dolorosa e inaspettata: ci fu la grande illusione in cui cadde anche Togliatti che in vista del 18 aprile venne a fare un comizio a Pescara. Mafai: Fu un’illusione nella quale cadde gran parte del movimento. Debbo dire onestamente che io in questa illusione non caddi, e sai perchè? Non perchè fossi più sveglia, non lo ero affatto, ma perchè venni mandata a fare quella campagna elettorale in Lucania, a Potenza. Puoi immaginare cosa furono
quei comizi, tra l’altro per una ragazza che veniva da fuori… Ricordo un paese agghiacciante dove venni accolta e festosamente circondata da un gruppo di donne: solo che non capivo una parola di quello che mi dicevano. Ebbi un’illuminazione terribile: ma se io non capisco loro quando parlano, come fanno loro a capire me quando faccio il comizio? Di comizi ne feci anche di fronte a piazze vuote, ma i compagni dicevano “Parla parla, che le donne stanno dietro le finestre”…Quando poi ci rendemmo conto che la sconfitta era stata grave e dolorosa io fui tra i meno sorpresi. Poi non ebbi tempo né di sorprendermi né di commentare, perchè venni mandata in Abruzzo in un’altra situazione difficile, in un tempo in cui queste decisioni si prendevano rapidamente e la scelta era tra Sardegna o Abruzzo. Felicetti: Tu arrivasti nel ‘48.Trovasti una regione in cui le sezioni di partito dopo la sconfitta erano praticamente chiuse, era difficile ritrovare i militanti e ricostruire un movimento. Poi, per fortuna, arrivò il grande dirigente comunista Paolo Bufalini, che ci indusse a buttarci “nel sociale”, come si diceva allora “nelle lotte”. Mafai: La mia prima esperienza in Abruzzo è stata nel Fucino nelle lotte contro il principe Torlonia. Lì i partiti, anche il partito socialista, le organizzazioni sindacali, ripresero un contatto largo con gli strati più poveri della popolazione. Felicetti: Quindi tu hai partecipato proprio alla nascita di quella straordinaria forma di lotta che poi si diffuse in tutta Italia: lo sciopero a rovescio. Mafai: Si, ma la percezione della condizione di miseria spaventosa la ebbi venendo a Pescara: per me che venivo da una grande città come Roma la miseria nelle campagne era una cosa un po’ letteraria, in qualche modo scontata, letta sui libri di Silone e nella famosa inchiesta sul Mezzogiorno. Pescara, PERSONAGGI
invece, era una città piccola, ma sempre città, e la condizione di miseria e abbandono la ricorderò sempre… La caserma Di Cocco, dove c’erano gli sfollati… Felicetti: …Ma anche noi, e tu in particolare, certo non facevamo la bella vita… Mafai: In realtà credo in quel periodo di avere praticamente tentato di cancellare la mia identità di intellettuale. Racconto un episodio, che Nevio forse non sa. Una volta mi ammalai, l’influenza si trasformò in polmonite. Abitavo in un appartamento in corso Umberto, molto malandato, dove l’acqua entrava pure dal soffitto. Chiamammo un medico: quando venne mi diede un’occhiata, poi mi disse cosa dovevo fare. Diede un’occhiata a mio figlio – adesso ha quasi 60 anni– e mi disse:“Guarda che questo bambino bisogna curarlo perchè rischia: è gracilino, un po’ rachitico”. Poi alzò gli occhi –io avevo un solo quadro di mio padre, un mio ritratto che ho portato sempre con me, – guardò quel quadro e mi disse:“Signora, forse lei non lo sa, ma quella tela non è una crosta, vale molto. Perchè non lo vende e prende in affitto una casa più decente?”. Io gli dissi “Ne terrò conto. Però adesso devo guarire”. Ho conosciuto cos’era la miseria nelle città e nelle campagne: per questo, adesso, quando si polemizza contro il consumismo io sono sempre un po’“freddina”. Ho visto a Pescina, Ortucchio e Celano i bambini che non avevano le scarpe, non andavano a scuola e mangiavano la carne non so quando… Se oggi i bambini di quelle zone hanno tutti lo zainetto colorato sarà pure segno del comunismo imperante, beh, meglio questo che il degrado che ho visto in quegli anni… Felicetti: Un lapsus, forse? Hai detto “del comunismo imperante”? Mafai: Del consumismo imperante! ah, ah, ah! Con il CARA MIRIAM, CARO NEVIO
comunismo il problema non ci sarebbe stato! Felicetti: Gli zaini colorati non li avremmo visti. Questa battuta è registrata… e mi fa venire in mente gli enormi ritardi che poi noi abbiamo avuto a metterci in sintonia con la realtà del mondo, pur avendo praticato di fatto una forma di social-democrazia… Mafai: Di riformismo… Felicetti: Di riformismo effettivo. Mi pare che in questi giorni lo stesso Giorgio Napolitano vada sottolineando questo elemento di verità della nostra storia: la lentezza con cui abbiamo preso coscienza della necessità di dare sbocchi politici diversi a questa vicenda sociale che andavamo costruendo in ogni parte d’Italia. Mafai: Io mi ricordo che una volta un mio amico, un compagno che anche tu conosci, Alfredo Reichilin, mi disse “C’è più socialismo in una cooperativa emiliana che in tutta l’Unione Sovietica”. Felicetti: Giustissimo. Ma che conseguenze abbiamo tratto da questa constatazione? Mafai: Questa fu la vera doppiezza nostra. Che ci ha impedito, secondo me, di assumere in tempo quel ruolo di governo al quale assolvevamo in sede locale ma che avrebbe dovuto emergere come la vera fisionomia, la vera sigla di questo partito. Felicetti: Mi chiedo se questa doppiezza, di cui secondo me Togliatti era assai cosciente, fosse percepita dai dirigenti che gli sono succeduti. Le forze riformiste, che pure erano rilevanti dentro questo partito, non hanno avuto mai l’ardire di porre il problema del cambiamento della rotta politica. Fino al ventesimo congresso (del Partito comunista dell’Unione Sovietica, nel 1956, quando Kruscev denunciò i crimini dello stalinismo, ndr), si poteva anche pensare di non potere… Mafai: Esplicitare fino in fondo…
Intellettuale era l’ambiente in cui Miriam Mafai visse la sua infanzia, figlia del pittore Mario Mafai (Roma 1902-1965), che frequentò un ambiente di artisti da quando studiava all’Accademia di Belle Arti. Nel 1915 sposò Antonietta Raphael, da poco giunta a Parigi, dalla quale ebbe tre figlie: Miriam, Simona e Giulia. Nel 1927 Mafai frequenta insieme a Scipione la Biblioteca di Storia dell’arte di Palazzo Venezia, stringe rapporti di amicizia con Ungaretti, De Libero, Sinisgalli, Beccaria, Falqui. Più tardi incontrerà Manzù, Guttuso, Sbarbaro. Nella foto: Ritratto di Miriam che dorme (1928).
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«I grandi valori ai quali siamo stati educati sembrano ormai allentati. Quasi che una tale deriva fosse inevitabile per farsi accettare come “moderni”. Senza passione è difficile fare politica, soprattutto fare politica alta e nobile».
Nella foto in alto, l’aula consiliare del Comune di Pescara il giorno dell’insediamento del Sindaco Chiola (al centro, tra Nevio Felicetti e Miriam Mafai).
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Felicetti: Io ho ricordato recentemente che Giorgio Amendola, che a quel tempo era responsabile dell’organizzazione del partito comunista, fece un giro in Italia consultando i segretari regionali e di federazione per sapere se dopo il XX Congresso fosse opportuno porsi il problema della sostituzione di Togliatti. Io, come segretario della federazione di Pescara, dissi che era opportuno, anzi necessario. Credo che non abbia raccolto la stessa opinione altrove, visto che non se ne fece niente. Mafai: Mi stai facendo una vera a propria rivelazione… continua… Felicetti: Di qui la domanda: Amendola, che è stato il mio punto di riferimento politico e ricopriva quell’importante ruolo, probabilmente non aveva neanche lui, fino in fondo, coscienza della necessità di superare quella doppiezza in cui continuavamo ad attorcigliarci. Mafai: Amendola arriva alla piena coscienza di questo, o per lo meno lo esplicita, subito dopo la morte di Togliatti. Quando già c’è stata la vicenda ungherese. Nel 1964 scrisse un paio di articoli su Rinascita, sostenendo l’opportunità e la possibilità del superamento della tradizionale divisione tra comunisti e socialisti. Divisione che risale alla nascita del Partito Comunista nel 1921, e di una unificazione delle forze. Felicetti: Lo ricordo perfettamente. E quella è stata la grande occasione mancata. Ma perchè si fermò? Mafai: Si fermo perchè non trovò nessun consenso. Giorgio Napolitano, nel suo ultimo libro, ricorda con una certa incertezza il fatto che nemmeno lui, che pure era un amendoliano di stretta osservanza, nemmeno lui ebbe … stavo per dire… il coraggio… insomma, la forza… Felicetti: La consapevolezza diciamo… Mafai: …La consapevolezza di sostenere la linea di Amendola, che venne immediatamente stroncata.
La storia non si fa con i se, ma noi stiamo qui a chiacchierare tra vecchi amici. Se allora quella linea fosse stata assunta, seppur con prudenza, e portata avanti attraverso un dibattito vero, probabilmente la storia del nostro Paese sarebbe stata diversa. E noi avremmo avuto una forza socialdemocratica che avrebbe potuto portare avanti alcune di quelle riforme di cui sentiamo ancora oggi la mancanza. Felicetti: Ma secondo te dopo la morte di Togliatti e la nomina scontata del vecchio Luigi Longo a segretario, se la scelta del vice segretario fosse caduta su Giorgio Napolitano piuttosto che Enrico Berlinguer, chissà se… Mafai: A mio avviso, la storia di quel partito sarebbe stata diversa. Non si ebbe il coraggio di affrontare una terra ignota che avrebbe potuto essere quella di una diversa relazione tra comunisti e socialisti…Diciamo che il partito nel quale ho militato, ha fatto a lungo una politica di tipo riformista. Felicetti: Non c’è dubbio… Mafai: Perchè quello ha fatto, senza però assumersene pienamente la responsabilità e senza convincere a questa linea tutto il partito. Felicetti: Certo, ma senza convincere la gente, che è la cosa più grave. Perchè questo elemento di ambiguità ha finito poi per determinare una serie di vicende a catena che si sono prodotte fino ad oggi, per cui ci è difficile ora proporre come leader, in occasione delle prossime elezioni, un personaggio che venga dalla nostra storia; così siamo obbligati a fare ricorso, ancora una volta, a un personaggio che viene da una storia diversa. Per carità, ci stiamo battendo tutti perchè questa soluzione si affermi, però siamo ancora prigionieri di questa mancata scelta. Mafai: Ricordo che all’epoca - già facevo la giornalista - il termine riformista è stato considerato negativo. Ricordati, Nevio, che a un certo punto si lanciò nei confronti di Giorgio Napolitano e di altri che PERSONAGGI
Affinità elettive A cinquant’anni di distanza Luciano D’Alfonso delinea l’eredità politica di Vincenzo Chiola, il Sindaco della Ricostruzione La sua amministrazione ha intitolato la piazza del Comune a Chiola. Perché? La scelta di intitolare “Largo Vincenzo Chiola” la parte più importante di Piazza Italia, quella su cui si affaccia il Palazzo di Città, è stata presa dalla Giunta Comunale perché la figura di Chiola, Sindaco di Pescara nel periodo 1951/1956, è stata considerata unanimamente come la più emblematica espressione di una classe dirigente all’altezza di tempi nuovi e difficili.Vincenzo Chiola, infatti, rappresenta in maniera straordinaria lo sforzo della città negli anni travagliati della ricostruzione dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale. Prima nella veste di Assessore ai Lavori Pubblici e poi in quella di Sindaco, Chiola si rese conto dell’esigenza di assicurare continuità e organicità tra piano di ricostruzione e piano regolatore della città, con la finalità di rendere Pescara una “città giardino”, ovvero una città a misura d’uomo, in linea con la migliore tradizione mediterranea. Chiola è stato senza dubbio un politico lungimirante e rappresenta una forte figura di riferimento per tutti coloro che si propongono di dare un contributo per la crescita della città. Cosa deve la città a quel Sindaco? Un forte lascito morale per una politica autentica, volta al bene esclusivo dei Pescaresi. È sicuramente questo il segnale più grande che ci ha lasciato Vincenzo Chiola. Nello svolgimento della propria attività, Chiola ha sempre vissuto le problematiche cittadine come fossero le proprie, portando avanti politiche e strategie finalizzate a ricostruire la città nel rispetto del contesto ambientale e nella valorizzazione dell’autentico genius loci di Pescara. E proprio a questo attaccamento e ai valori che hanno ispirato l’attività di Vincenzo Chiola abbiamo fatto riferimento nella delibera con cui abbiamo formalmente intitolato Piazza Italia al Sindaco Chiola, “in considerazione della sua lungimirante ed appassionata attività svolta al servizio della città per rendere possibile la rinascita di Pescara”. E lei, come Sindaco, cosa gli deve? Voglia di fare, ideali, passione per l’attività politica ed amministrativa. Ricordo in particolare una frase di Chiola:“Pescara ha bisogno di risanamento”. Ecco, ancora oggi ritengo questa frase di stringente attualità ed è per questa ragione che fin dal primo giorno del nostro insediamento abbiamo lavorato costantemente per dare un nuovo inizio alla vicenda ecoAFFINITA’ ELETTIVE
nomica, sociale e culturale della città. Chiola, in uno scenario difficile come quello postbellico, ha operato con un’idea ben chiara nella mente: far rinascere Pescara. Le politiche condotte dalla nostra Amministrazione, seppur in uno scenario ovviamente molto diverso, si pongono il medesimo obiettivo: far rinascere Pescara dal suo interno, rinnovandola nell’aspetto e nelle funzioni, e realizzando gli interventi strategici in grado di rilanciare la sua immagine di città-relazionale, ponte ideale fra l’Italia e i Balcani e porta del Mediterraneo verso l’Oriente. Quali sono stati i tratti di modernità di quella esperienza amministrativa? Un segnale di forte attualità lo vedo nella capacità che il Sindaco Chiola dimostrò negli anni travagliati del secondo dopoguerra nell’unire la viva sollecitudine per gli urgenti problemi della quotidianità con la coltivazione del progetto per il futuro. La velocità con la quale la città si è sviluppata, in maniera frenetica e a volte anche disordinata negli anni successivi al mandato di Vincenzo Chiola, non ha consentito l’attuazione puntuale di quel progetto. Ora è possibile rifarsi a quella visione di crescita organica della comunità che la nostra Amministrazione comunale ha scelto fin dall’inizio del mandato di governo. Proprio in questi giorni è partita la seconda fase dell’intervento per il recupero e la riqualificazione integrale della Riserva Naturale Dannunziana, che insieme all’Aurum ormai prossimo alla riapertura, tornerà ad essere il centro pulsante della grande vocazione ambientale della città. Ma più importante ancora è che questo giacimento verde si è come esteso e diffuso in tutta la città, nella quale abbiamo realizzato ovunque nuovi parchi e giardini pubblici. È tutta la città ad essere animata da una nuova sensibilità per la qualità della vita, per la programmazione razionale e relazionale degli spazi, per la salvaguardia del territorio. Questa attenzione ci consente di dare vita a una nuova pagina della vicenda di Pescara, nella quale è facile ricostruire la fisionomia pià genuina del lascito di Vincenzo Chiola. Pescara ha nella testa il futuro e nel cuore l’attenzione verso le persone. Chiola si pose in sintonia con questa anima profonda della città, e per questa ragione la sua esperienza è per noi un riferimento forte per dare piena espressione ai valori e alle potenzialità di Pescara.
Nella foto in alto, Luciano D’Alfonso. Sotto, Vincenzo Chiola tra Nevio Felicetti e Miriam Mafai.
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In alto, da sinistra: Palmiro Togliatti; Enrico Berlinguer alla fiera d’oltremare di Napoli durante il comizio conclusivo della Festa dell’Unità nel 1976; Giovanni Amendola (con Nevio Felicetti): tre leader storici del Pci. Qui sopra: Miriam Mafai durante la campagna elettorale del ‘94, a Pescara.
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sostenevano le sue scelte l’insulto di “migliorista”: come se voler migliorare le cose fosse un dato negativo e non positivo. Questa cosa ce la siamo trascinata per anni e anni, ed è per questo che oggi ancora non possiamo proporre a leader di questo Paese un uomo che venga da quella storia. Mentre ne avremmo le capacità e la forza. Felicetti: Miriam, quando ci furono le prime elezioni regionali io dovevo essere candidato a Pescara per il Consiglio regionale: bollandomi come migliorista fecero eleggere un operaio al posto del riformista, del migliorista Felicetti. Claudio Petruccioli, nella presentazione a quel volumetto che io ho dato alle stampe, lo ricorda facendo autocritica: perchè allora era ingraiano, ricordi? Mafai: Si. Felicetti: E dalla sponda dell’ingraismo, tutto quel che sapeva di riformismo e di migliorismo era considerato eresia. Al mio posto fu candidato Vespuccio Ballone, il compagno Ballone. Mafai: Niente da eccepire però… Felicetti: Un compagno bravissimo, solo che in quel ruolo non era adatto. E infatti la sua esperienza si consumò nel giro di una legislatura. Ma nei suoi confronti davvero niente… Mafai: Beh, questo è chiarissimo… Felicetti: …Per dire del segno dei tempi. Ma anche dell’insufficiente consapevolezza del valore del metodo democratico nella gestione del partito. Quella vicenda è un fatto minore, rispetto alla quale se ne potrebbero rileggere altre, più significative: come la tua. Si poté disporre, in una regione costretta ai margini della vita politica nazionale, di una personalità come te. Decidemmo di candidarti nel ‘94, di eleggerti deputata. Ma poi, immediatamente dopo, finì ogni voglia di valorizzare la tua presenza. Mafai: Nevio, le strutture resistono sempre alla novità: è una legge della fisica. Felicetti: Certo, ma fu un modo di arrendersi alla pochezza. Sentivamo la necessità di una rappresentanza abruzzese in Parlamento meno banale di quelle che si erano succedute… Mafai:Tutte buone…
Felicetti: …Ma senza spicco, senza lucentezza. Di qui anche la marginalità della regione rispetto alla vicenda politica nazionale, che sentivamo come un problema. Per questo volevamo candidare Miriam, che un’esperienza importante l’aveva fatta in Abruzzo, ma che con la sua attività di giornalista aveva sviluppato legami importanti. Era una soluzione che aveva bisogno di essere coltivata in un rapporto dialettico tra Abruzzo e Parlamento, di andata e ritorno tra esperienze. Era quello a cui pensavamo e invece… Mafai: Ci fu però anche una responsabilità mia. Quella fu una legislatura molto breve, una delle più brevi della Repubblica: sentii immediatamente che c’erano in Abruzzo, a Pescara, resistenze e diffidenze anche in parte legittime. Ero stata paracadutata, ero stata richiesta: non sentii il calore e la solidarietà che sarebbero stati necessari per un mio impegno più forte e più continuativo per la città. Felicetti: Certo… Mafai: E allora, di fronte a una situazione di questa difficoltà, mi tirai indietro. Occupandomi alla Camera più di problemi generali e di alcune battaglie femminili –si cominciava allora a parlare della legge sulla fecondazione assistita– anzichè dedicare attenzione alla situazione di Pescara e dell’Abruzzo. Quindi ci fu anche una mia responsabilità… Probabilmente avrei affrontato meglio quell’esperienza se non avessi sentito, se non ostilità, una certa “diffidenza”. Felicetti: Miriam, io capisco quando tu dici “ci stanno anche le mie responsabilità”, ma è difficile fare l’amore se non si è in due. Ma resta la storia straordinaria del nostro partito, del nostro essere comunisti. Mafai: È un elemento che è parte costitutiva del nostro temperamento e della storia del partito nel quale siamo cresciuti.In cui si entrava come in un convento, ma che educava al rispetto di grandi valori… Felicetti: Che sembrano ormai allentati. Quasi che una tale deriva fosse inevitabile per farsi accettare come “moderni”. Senza passione é difficile fare politica, soprattutto fare politica alta e nobile. Che nessuno lo dimentichi ora che si è aperto, seppure un pò confusamente, il discorso sul Partito democratico. PERSONAGGI
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Viola, il colore dei sogni di Fabrizio Gentile foto Silvia Jammarrone e Antonella Da Fermo
Violante Placido: nel Dna ha il cinema, ma la sua seconda passione è la musica. Così, dopo 19 film, un David di Donatello e due Nastri d’argento comincia ora la sua avventura discografica, un sogno realizzato con l’aiuto di un gruppo di musicisti pescaresi. Il suo modello? Marilyn. E scusate se è poco In alto, Viola con i suoi musicisti. A fianco, un ritratto dell’attrice/cantante. Gli abiti di Violante Placido sono di Fornarina.
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l nome Viola l’ha scelto lei. Anzi, lui.«L’abbiamo scelto insieme» dicono alla fine Violante e Giulio. In realtà è così che la chiamano tutti, specialmente gli amici: Violante Placido è un nome (soprattutto un cognome) famoso, che farebbe pensare facilmente ad un’operazione puramente commerciale. Invece, fin dalla copertina del disco, appare evidente l’intenzione di nascondersi o, meglio, di mostrarsi in un’altra veste. «L’idea era di separare i due personaggi, l’attrice e la cantante, perché sono due esperienze diverse che mi rappresentano in modo diverso. Avrei potuto scegliere un nome più fantasioso,ma mi sono detta che era assurdo inventarmi un nuovo personaggio. Viola invece sono semplicemente io». Accarezza il suo cane Léon, un grande meticcio tutto nero che da undici anni la segue dappertutto.Si siede al tavolo e comincia a mangiare distrattamente.Più che mangiare,si nutre.Dall’appartamento al centro di Pescara in cui Violante Placido, anzi Viola, si è sistemata per questi pochi giorni, si gode una bella vista sul mare. «Adoro il mare, la spiaggia è una delle cose più belle di questo posto». E quali sono le altre?«La gente», risponde prontamente, «ho conosciuto loro e sono davvero speciali. Sono persone di cultura, ricche dentro, ma di una semplicità che non riscontro in altri ambienti, dove invece la ricchezza culturale si accompagna spesso all’arroganza». “Loro” sono Giulio Corda e Paolo Bucciarelli, i due inseparabili amici che anni fa diedero vita, insieme ad Andrea Moscianese, al gruppo dei Giuliodorme, una passata a Sanremo e due bei dischi all’attivo.Non poco,nello scarno panorama regionale. Una conoscenza avvenuta nel lontano 1998 e un’amicizia durata nel tempo, che ora si è arricchita di significato diventando anche collaborazione artistica. È con “loro”, infatti, che Viola ha voluto realizzare il suo primo disco, dopo tanti anni di cinema. Il disco in questione si intitola Don’t be shy, è stato registrato tra giugno e settembre dello scorso anno nello studio della Benka, la “factory” voluta dai tre ex Giuliodorme alle porte di Pescara, e ha visto la luce a
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gennaio di quest’anno, distribuito e promosso dalla N3 Music, la stessa del disco di Carla Bruni, che con Viola condivide quasi gli stessi riflettori d’origine. A differenza della “collega” modella, però, nella sua avventura discografica Viola ha dalla sua una freschezza e una spontaneità lontane dagli intellettualismi della top model, le stesse che gli leggi in volto quando ti apre la porta di casa, e ti racconta com’è cominciata. «Da piccolissima volevo fare l’attrice e la cantante. La passione per la musica mi ha sempre accompagnata: avevo il mito di Marilyn, cantavo tutte le sue canzoni… la strada più concreta ad un certo punto è diventata però quella dell’attrice. Ma la voglia di musica era sempre lì, solo che era un tabù: mi vedevo troppo imbranata con una chitarra in mano, mi dicevo che era impossibile. Quando ho conosciuto loro invece la musica era sempre al centro, e io ho iniziato a sentirla più vicina. Mi sono resa conto che non era necessario “essere musicisti” per prendere in mano uno strumento. Cominciai a suonare la chitarra. Se penso che mi sono privata di questa cosa fino ai 22 anni… Quando ci siamo frequentati ci piaceva improvvisare, ci venivano fuori delle cose abbastanza naturalmente, si era insomma creata una affinità, un’empatia vera. Ma mentre loro prendevano concretamente la strada della musica, io presi quella del cinema. Giulio mi aveva detto “se un domani farai qualcosa,ricordati che siamo qui”.Poi vissi un periodo lavorativo molto intenso. Tra un film e l’altro, però, non era sfumata la mia passione musicale: mi ero presa un 4 tracce, la musica e la creazione di canzoni accompagnava e riempiva le mie giornate. Stavo da dio… prima sentivo che mi mancava qualcosa, c’era un vuoto nella mia vita, e quando mi sono data questa possibilità, questa si è riempita, ed è diventata una passione sempre più viva.Tempo fa ci siamo sentiti,Giulio mi ha chiesto se avevo continuato a suonare, io gli dissi che sì, avevo anche scritto delle cose… lui mi disse che aveva finito di metter su lo studio: “vieni”. Per pura coincidenza avevo davanti un’estate PERSONAGGI
intera, e così… mi sono trasferita qui. Ho preso una casa in campagna, ho portato tutti i miei animali con me (l’inseparabile Léon e tutti i suoi gatti), e abbiamo registrato il disco». «Vero –conferma Giulio– tutto è coinciso come per magia. Ma la realtà è stata molto dura: abbiamo lavorato quasi senza preproduzione, il che ha complicato un po’ le cose. Se aggiungiamo il fatto che Viola non parla un linguaggio “da musicista”, le difficoltà raddoppiano». «Ma sto imparando» precisa lei, con quel sorriso sempre a metà tra il divertimento sincero e il rimprovero bonario. Dieci canzoni (in realtà nove: una è una reprise, n.d.r.) di cui due in italiano e le altre in inglese.A proposito di lingua,perchè cantare in inglese? «Oltre a non essere una musicista, non sono neanche una scrittrice, con la scrittura non ho mai avuto un gran feeling. I testi dei miei brani nascono dalla musica, da quei due-tre accordi strimpellati su una chitarra, da un’atmosfera che ho sentito in un particolare momento. E le parole escono da sole, in modo molto spontaneo, ed escono in inglese, che per me è una seconda lingua, avendo frequentato fin da piccola scuole inglesi.Mi piacerebbe tanto scrivere una canzone in italiano –aggiunge– sarebbe per me una soddisfazione ancora maggiore. Nel disco ci provo, con un testo mio, Niente si muove, e uno tratto da un libro di Vera Gemma (Le bambine
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cattive diventano cieche) dal titolo A zero. Ecco, quello è un alibi: non fidandomi di me come scrittrice, ho preferito prendere cose scritte da qualcuno che con l’italiano è più a suo agio. E comunque quel testo mi ha comunicato una musica, un’atmosfera, quindi c’era un collegamento sincero». Il titolo del disco vuol dire “Non essere timida”, tu lo sei? «Sono molto emotiva. Metto molto di me in quello che faccio. Timida no, non direi, ma più che altro mi rendo conto di essere pigra, e per pigrizia spesso ci si priva di cose che ci fanno star bene, come per me la musica». Recensioni sostanzialmente positive (“mi ha sorpreso l’accoglienza del settore”),un video e una buona campagna pubblicitaria, unite all’indubbia popolarità, hanno fatto sì che adesso Viola e i suoi amici (Giulio Corda, chitarre e voce, Massimiliano Leggieri, chitarra, Alessandro Gabini, basso, Luca De Muzio, tastiere e Michelangelo Del Conte, batteria) affronteranno un tour di circa 15 date che li porterà in giro per l’Italia nei prossimi due mesi. Come vi sentite? «Ho bisogno di suonare, di sfogare tutto il lavoro fatto in questi mesi,e ho voglia di sperimentarmi davvero. Per ora ci siamo esibiti solo due volte, alla Fnac di Milano e alle Messaggerie di Roma, in acustico. Ma eravamo pochi… Dopo tanto tempo,tanti sacrifici e qualche momento di tensione (Giulio sorride:la sensazione è che PERSONAGGI
DISCOVIOLANTE VIOLA - DON’T BE SHY (N3 Music/Self ) Viola sarà in tour dall’8 marzo al 23 aprile. Queste le date: 8/3 Sogliano al Rubicone (FO), Teatro comunale; 15/3 Urbino (PS),Teatro Sanzio; 16/3 Bari, Zenzero; 23/3 Arezzo, Double Deuce; 24/3 Pordenone, Deposito Giordani; 25/3 Milano, Rolling Stone (con Marlene Kuntz); 31/3 Napoli, Double beat; 1/4 Roma, Circolo degli artisti; 7/4 Pescara, Miglio Verde; 11/4 Milano, Rainbow; 12/4 Mira (VE),Teatro Villa dei Leoni; 20/4 Torino, Hiroshima mon amour; 21/4 Bologna, Estragon; 22/4 Palermo, Candelai; 23/4 Catania,Teatro Piccolo.
Viola abbia usato un eufemismo, n.d.r.) ora vorrei che il tour ci facesse diventare una cosa sola». Giulio: «Dopo tanti anni di stop esibirmi di nuovo mi emoziona tantissimo. Magari fare cose mie mi farebbe stare più tranquillo, ma suonare i pezzi di Viola è per me importantissimo,prima di tutto perchè mi vede coinvolto in due nuovi ruoli,come produttore e come chitarrista, e poi perchè quello che facciamo ci piace: crediamo tutti in questo lavoro». In tour cosa porterete? Risponde Viola: «Quattordici canzoni: le nove del disco, tre pezzi nuovi e due cover. La prima è Confusione di Battisti, mi faccio un regalo. Mi piace tantissimo cantarla, mi fa stare bene. Anche lì cercavamo una chiave interpretativa, ma alla fine ho preferito farla così com’è, perchè in genere non mi è mai piaciuto nessuno che abbia rifatto qualcosa di Battisti. E poi la differenza sta già nella voce femminile. L’altra cover è Serve the servants dei Nirvana, fatta in un modo che mi piace tantissimo e che rispecchia la mia impostazione fondamentalmente rock». Un critico musicale ha detto che Viola “canta come la compagna di banco”. Che ne dice il suo produttore? «Quando anni fa lei strimpellava qualcosa sulla chitarra, io la incitavo a scrivere; la mia voglia nasceva proprio da lì, dal fatto che la sentivo cantare. La sua voce ha una naturalezza, un sapore, una spontaneità VIOLA, IL COLORE DEI SOGNI
Tracklist: 1.Together 2.Still I 3.How To Save Your Life 4.Skunk 5.Poor Little Girl 6.So Far 7.Together (reprise) 8.Niente Si Muove 9.A Zero 10.With U
che tendo a preservare pur cercando di spiegarle che la tecnica è importante, ti risolve un sacco di problemi, ti aiuta. L’importante è dosare bene gli ingredienti, non lasciare che l’esperienza, il mestiere, sovrastino la genuinità. Mi piace che si canti d’istinto, ma non può durare». Cosa ti piace della Viola musicista? «La sua capacità di ceare melodie che mi sorprendono.Io non mi reputo un musicista,lei ancor meno; ma ha superato i suoi ostacoli,si è lasciata andare e quando lo fai e hai qualcosa da dire, questa capacità viene fuori, è naturale. È assetata di armonia. L’ispirazione può venirle dalla musica, ma è dalla voce che escono le sue invenzioni». E il papà che ne pensa? «Ha fatto un’improvvisata –racconta Giulio– mentre eravamo in studio, alle prove, e ci siamo tutti emozionati, c’è stato come un brivido che ci ha attraversato…» «Sì, ci siamo tutti un po’… congelati! Comunque il suo rapporto con la musica è cresciuto da poco, almeno con questo genere di musica. Non dà giudizi perchè non si sente padrone della materia: dice che gli piace, ma sarebbe più convinto se un amico gli dicesse “sai,Viola ha fatto un bel disco…”» Quanto ha contato l’amicizia in questa esperienza? Giulio: «Tantissimo. Ci siamo gettati a testa bassa in quest’avventura, con le nostre sole forze, ma nonostante le difficoltà che incontravamo nessuno mai ha
Nella pagina a fianco, Viola e la sua band. In senso orario: Michelangelo Del Conte, Giulio Corda, Massimiliano Leggieri, Luca De Muzio e Alessandro Gabini. In questa pagina, Viola e la copertina del suo cd. Nelle foto piccole, alcune immagini della band durante le prove del tour, nello studio Melaesse di Sergio Santarelli, a Pescara.
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Nella foto grande, da sinistra: Alessandro Gabini, Max Leggieri (seduto), Luca De Muzio, Giulio Corda (in piedi) e Michelangelo Del Conte. Sdraiata sul pianoforte, Viola. Qui sopra, l’attrice con l’inseparabile Léon.
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pensato di gettare la spugna. Ci siamo resi conto che era proprio l’amicizia il senso del nostro essere lì, di quel che stavamo facendo». Ti emozionerà di più suonare a Roma o a Pescara? «È come chiedere se vuoi più bene al papà o alla mamma… Beh, a Roma farò venire molta gente che conosco, ma sarò sempre in un locale importante (il Circolo degli artisti, il 1 aprile, n.d.r.) e quindi cercherò di dimostrare di meritare quel palco calcato da tanti grandi nomi. Qui a Pescara (7 aprile, Miglio Verde) sarò comunque emozionata, perchè è un progetto che nasce da qui… praticamente saranno tutti a casa loro, un po’ lo sarò anch’io. Comunque credo che l’emozione l’avrò sempre, anche dopo molti concerti; perché quando recito ci sono cose che posso imputare alla volontà di un regista, di uno scrittore, di un personaggio, ma quando suono sono io che mi metto in gioco, sono più coinvolta».
Rifareste l’esperienza? «Io rientrerei in studio con lei –confessa Giulio– solo se facessimo un lavoro serio di preproduzione. Ma non lo dico per rinnegare l’esperienza, anzi: amo così tanto quello che stiamo facendo che è ancora più difficile scendere a compromessi. Per me è un onore aver fatto questo disco, avere dei pezzi di questo spessore». Viola: «Appena finito, dico la verità, sono rimasta un po’ traumatizzata. Per me è stato faticoso approcciare per la prima volta un tipo di esperienza che non avevo mai fatto. Finire è stata una sorta di liberazione,come quando ho fatto il film di Rubini, L’anima gemella: stare due mesi nel Salento, tutti insieme, con quel caldo… ma le soddisfazioni che mi ha dato quel film le porto dietro ancora oggi. Ecco, non avrei mai voluto fare questo disco in maniera diversa da come è stato fatto. Doveva essere così, un lavoro che nasce dalla nostra amicizia e che potevo fare solo contando su di loro». PERSONAGGI
di Fabrizio Gentile foto Silvia Jammarrone
Dubito, ergo filmo
Il regista di Forse sÏ... forse no racconta l’incertezza dei nostri tempi con la sicurezza di un professionista. E già si cimenta con la nuova avventura cinematografica.
Il giovane cineasta marsicano ha rappresentato l’Italia al Festival di Budapest col suo film d’esordio: una storia sulla precarietà del vivere odierno, senza limiti geografici o di età
vete presente Il deserto dei tartari? E Il fascino discreto della borghesia? Beh, magari il paragone sarà un po’ azzardato, ma il disagio esistenziale e l’atmosfera di stasi che si respirano in Forse sì… forse no, il lungometraggio d’esordio di Stefano Chiantini, rimandano a quei capolavori, e ne tradiscono l’influenza teatrale, i cui riferimenti sono necessariamente Aspettando Godot e le opere di Pinter. Tre amici trentenni, Nicola, Angelo ed Ennio, trascorrono le loro giornate in un appartamento romano, tra partite a scopa e un assurdo fantacalcio, facendo dell’inerzia il loro stile di vita. «È una commedia, venata di malinconia, che racconta di un’attesa per qualcosa che sconvolga finalmente la loro vita». Avezzanese, trentun anni appena compiuti, i capelli lunghi che gli incorniciano un volto simpatico, Chiantini ha in effetti il pallino del teatro: «La mia intenzione, quando sono andato a studiare a Roma, era proprio di lavorare in teatro; ma le scuole di teatro e di recitazione costavano troppo, e io dovevo mantenermi anche l’università… nelle scuole di cinema invece spesso si entra per concorso, quindi scelsi quest’altra strada». E la scelta è stata quanto mai azzeccata: durante un corso di sceneggiatura tenuto da insegnanti come Petraglia, Bruni, Scarpelli, Stefano scrive una storia che suscita l’interesse dei docenti, i quali lo consigliano di mostrarla a qualcuno che possa produrla. «Andai da Nanni Moretti, che mi indicò Arcopinto. Gianluca non poteva produrmi il cortometraggio, ma mi mise a disposizione le strutture della Pablo films (la sua casa di produzione, ndr.) e così cominciai a telefonare a un sacco di gente, spiegando loro che volevo fare un film ma che non c’erano soldi. Parlo di persone come Tullio Morganti, fonico di Pinocchio, Canone inverso, Ovosodo, Nirvana, e Massimo Di Venanzo, figlio del grande Gianni che lavorò con Fellini. Hanno accettato di lavorare al minimo sindacale perché la storia gli piaceva. Era nata una squadra». È il 1999, e con quella squadra Stefano gira il primo corto. Si intitola Dove corri, ma dove corri?, lui ne è anche protagonista (“ma fu un errore…” dice ridendo) e raccoglie consensi unanimi da pubblico e critica in tutti i festival ai quali partecipa. «Il secondo l’ho girato nel 2001, stavolta con attori professionisti: Remo Remotti, Luciano Federico, Ugo Fangareggi, che qualcuno ricorderà nell’Armata Brancaleone… Si intitola
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Io ci provo, e tratta del confronto generazionale fra una coppia di giovani ed una di anziani. Il modo di vedere le cose uguali e diverse, le paure, le ansie, l'ottimismo. La conclusione, la stessa: la necessità di provare e sperare». Con Io ci provo Stefano si aggiudica il primo premio al Mitreo Film Festival di Santa Maria Capua Vetere, uno dei più importanti festival italiani dedicati ai cortometraggi. E da lì riparte per la terza avventura. «Avevo scritto una storia che doveva diventare un documentario, ma poi prese una forma diversa. Realizzai un corto di pura fiction e lo mostrai ad Arcopinto, che volle farne un vero film. Ero indeciso, perché secondo me la dimensione ideale di quella storia era quella del corto. Ma a ventinove anni è difficile che ti offrano la possibilità di girare un film totalmente finanziato, e così colsi l’occasione. Richiamai la troupe e gli attori (Luciano Federico, interprete di Radiofreccia, Malena, Senza filtro e La passione di Cristo, Nicola Siri –attore prevalentemente teatrale ma visto anche in Naja di Angelo Longoni e in Ormai è fatta di Enzo Monteleone–, Alessandro Tiberi, visto in tv e in Ultrà di Ricky Tognazzi, e Cristina Capotondi, recentemente apparsa in Christmas in love, Volevo solo dormirle addosso di Eugenio Cappuccio e nel televisivo Orgoglio, ndr.), scrissi una nuova sceneggiatura e con mille difficoltà girai quello che oggi è Forse sì… forse no, uscito nelle sale alla fine del 2004». Il resto è storia recente: la distribuzione attenta e non “competitiva” permette al film di riscuotere successi in tutta Italia, di conquistare premi in diversi Festival (“soprattutto per la recitazione, il che indirettamente mi gratifica perché vuol dire che gli attori sono stati diretti bene”) suscitando l’attenzione dei critici che paragonano l’opera prima di Chiantini a film “generazionali” come I vitelloni o Ecce bombo. «Naturalmente non dal punto di vista artistico… certo che essere paragonato a certi mostri sacri fa sempre piacere. Ma non volevo fare un film generazionale, solo raccontare di questa fase della vita, di questa precarietà che diventa un modo di vivere, e che vale per i giovani così come per gli anziani, non ha, per così dire, limiti geografici o di età. Basti pensare che quando abbiamo proiettato il film a San Leone Magno c’era un pubblico di settantenni, e molti di loro si sono riconosciuti in quei personaggi». L’ultimo successo di Forse sì… forse no porta la data del 20 novembre 2005, quando è stato presentato al cinema Muvész di PERSONAGGI
Budapest nell’ambito del festival dei giovani registi europei, selezionato tra varie opere prime dall’Istituto di cultura italiana della capitale ungherese. «Questa è stata una grande soddisfazione. Non era un vero festival, solo una rassegna, ma il riscontro è stato più che positivo e ciò significa che la storia raccontata non ha una dimensione solo italiana, ma può essere apprezzata anche all’estero. D’altronde i personaggi del film agiscono come potrebbero fare gli studenti di Budapest o i lavoratori del Belgio. La globalizzazione non è solo economica, sono diventati globalizzati anche i problemi». Da Avezzano a Roma all’Europa, dunque, Stefano Chiantini ha bruciato le tappe, diventando in soli cinque anni uno dei protagonisti della nuova generazione dei cineasti italiani, e perfettamente a suo agio nell’ambiente. «Merito anche della gavetta: sono stato aiuto regista di Vincenzo Marra per un suo documentario, e di Luca Miniero e Paolo Genovese per Incantesimo napoletano. In quell’occasione mi trovai a lavorare con Marina Confalone, e chiaramente per me che venivo dalla provincia, con il sogno del cinema in tasca, l’impatto è stato forte. Poi però ho cominciato a giocare nella Pablo, la squadra di calcio che Arcopinto ha costituito e della quale fanno parte insieme a me lo stesso Gianluca, Edoardo Winspeare, Vincenzo Marra, Matteo Garrone… ci capita di giocare contro Nanni Moretti, Kim Rossi Stuart, Claudio Santamaria, Giorgio Pasotti. Si è creato un clima confidenziale e ora mi sento molto più a mio agio». STEFANO CHIANTINI
E mentre nelle videoteche di tutta Italia arriva il dvd di Forse sì… forse no (con i due corti tra i contenuti extra), Stefano non si riposa un attimo. Negli ultimi mesi è tornato per un momento al suo primo amore, il teatro: «È ancora la mia grande passione: recentemente con Luciano Federico e Alessandro Tiberi ho messo su Persone, una piéce che ho scritto qualche tempo fa, abbiamo fatto due serate, è andata bene, ci siamo divertiti e mi sono levato una soddisfazione. Il teatro mi piace di più del cinema». Stefano ha appena terminato di girare, sempre a Roma, un mediometraggio con Claudia Zanella (Quo vadis, baby? di Salvatores) e Alessandro Tiberi, dal titolo Io e te. «È la storia di una coppia che, pur vivendo insieme, ha smesso di comunicare e i loro dialoghi avvengono tramite dei messaggi che ognuno lascia su un quaderno. Sono due persone che si amano tantissimo ma sono incapaci di vivere questo loro sentimento. Finora ho lavorato sempre in pellicola, e se da un lato è gratificante, dall’altro impone delle limitazioni dovute ai costi molto elevati; per questo Io e te l’ho girato in HD (digitale ad alta definizione, ndr.), perché avevo voglia di sperimentare». Nell’immediato futuro invece si prepara a girare un nuovo lungometraggio «sempre con la Pablo e con attori piuttosto importanti, ma per ora preferisco non dire nulla». Scaramantico? «Forse sì… forse no».
In apertura e nella pagina a fianco, Stefano Chiantini. In questa pagina: il terzetto di protagonisti di Forse sì... forse no: Luciano Federico, Nicola Siri e (di spalle) Alessandro Tiberi; un primo piano di Nicola Siri; la locandina del film.
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Sandro Melarangelo
Il segno dell’ideologia Dalla parte dei deboli, degli oppressi, contro la guerra e la violenza. Dal 1957 la pittura a sfondo sociale racconta le pagine più buie della di Annamaria Cirillo
nostra storia e quelle più nobili della nostra resistenza. n arte l’impegno creativo può essere ideologico e politico. Talora addirittura militante. Se poi si considera il rapido assommarsi di disvalori ed il vacillare di tante certezze esistenziali, l’arte può vocarsi ad assolvere a una precipua funzione di denuncia e provocazione etico-sociale ed è allora la memoria degli eventi del passato a poter costruire il presente e quella futura coscienza di un “esserci” che trova nell’arte la sua proiezione. Tutta la pittura di Sandro Melarangelo, sin dalle sue prime opere giovanili, esposte nel ‘67 alla galleria Il polittico di Teramo, affronta le problematiche dell’ingiustizia sociale gestita con la sopraffazione di potere e la prevaricazione di classe contro le minoranze, i poveri, gli umili. Tali immagini, primaria tematica delle sue tele, scaturite anche dalla fiera consapevolezza di un vissuto paterno di povertà ed impedimenti, per tanti versi lo stesso di tanti Abruzzesi prima e dopo la guerra ed oltre, annunciano e manifestano i sintomi ideologici di una pratica creativa che inizialmente ha quasi disegnato una mappa territoriale regionale degli orrori perpetrati durante l’ultima guerra a danno di civili, giovani studenti, partigiani e minoranze antifasciste ed anti-Hitleriane. Quali sono queste prime trame, luoghi, persone ed eventi che sono entrati nel suo destino d’artista? Se ne seguono le
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prime forti tracce in venti disegni, in bianco e nero, (anche raccolti in un opuscolo, pubblicato a Teramo dal Centro d’Arte e di Cultura Il torchio, che a firma di Riccardo Cerulli riporta la storia della resistenza teramana), portati in esposizione in una mostra itinerante nella regione nel ‘76. Il luogo sono le colline teramane ed il Bosco Martese dove, il 25 settembre del ‘44, le truppe tedesche attaccarono con ferocia i partigiani locali. Gli eventi di cronaca più terribili, temi di guerra narrati nella sua pittura, sono poi le tante fucilazioni e le barbarie avvenute ad opera dei tedeschi e dei fascisti nei confronti della popolazione inerme e dei ribelli, come la fucilazione dei partigiani dell’avamposto o il crudele linciaggio a Teramo, in Piazza del Carmine, di una spia fascista perpetrata da un gruppo di donne teramane, che colpirono a morte la spia armate solo dei propri zoccoli di legno, e poi l’assassinio di Martella ad Atri, e poi… e poi… Tanti e tanti fatti di cronaca, spezzoni di storia ricuciti da un quotidiano di paura, di fame, di rabbia e di morte, i momenti più veri della Resistenza in Abruzzo. Ne ritorna il commento in ben 37 disegni in sanguigna nell’inserto La Resistenza tutta da scoprire e da raccontare. 40° della Resistenza Abruzzo 1943-1983, sulla rivista Regione Abruzzo n°3 e 4, 1983. Tutti temi di forte impatto visivo, PERSONAGGI
oggetti di una figurazione realistica cruenta e senza cedimenti, che non lascia spazio a nessun tipo di filtro buonista o mediazione estetica e che si snoda in una produzione cruda, nel segno di linee figurali fluide ma contenute nella forte sintesi creativa di una fisicità corporea da “combattente”, fatta di carne e sangue, quasi primitiva nella rude essenzialità gestuale di ogni immagine. Nel nome dell’ideologia quella di Sandro Melarangelo è la voce d’arte più forte che si sia finora levata in Abruzzo. Espressa in vari cicli storici-pittorici, talora in una scientificità da schedatura, tale pittura è riconosciuta, riflettuta e seguita fin dai suoi inizi, in un susseguirsi di mostre in tanti posti e note gallerie del tempo. Si ricordano le mostre presso la galleria Le tre Bifore (TE)-1970, L’incontro (Ostiglia, 1974), la Galleria d’Arte Moderna (Teramo,1980), il Palazzo di Giustizia (Teramo 1983), il Circolo Arci, Firenze 1983, e soprattutto quella presso la Facoltà di Magistero dell’Aquila (1988), collettiva di valenza storica, nella quale venne esposta la sua emblematica e coraggiosa opera Dittico della Maestà, disegno a matita, nella cui immagine contrapposta Sandro Melarangelo “…ideologizza il fotogramma disegnato contrapponendo alla decadente ed onnipresente immagine di Gabriele D’Annunzio quella di prostrati cafoni siloniani, SANDRO MELARANGELO
come dire le due anime antitetiche dell’Abruzzo borghese e di quello proletario e contadino…”, (Antonio Gasbarrini, da Dittico - Ed. Angelus Novus, 1988), e poi un continuo susseguirsi di esposizioni in mostre collettive e personali, in territorio regionale e nazionale, sino ad oggi, sino all’ultima denominata Immagini di realtà. Omaggio a Pier Paolo Pasolini, incisiva nella sua completezza storica ed artistica, inaugurata a Teramo il 17 dicembre 2005, nei saloni del prestigioso Palazzo Cerulli Irelli, per conto della Associazione Culturale Collurania. Tale mostra ha avuto un valore di raccolta delle più note opere dell’artista, dalle più identificative del suo percorso pittorico-ideologico, partito dal commento della resistenza regionale sino a quello dei momenti più tragici della realtà nazionale, come l’opera Pasolini: autoripresa dell’uccisione (1997), testimonianza diretta della propria morte da parte del poeta, che nell’arte di Sandro Melarangelo è divenuta simbolo di una storia ricorrente, denuncia irrinunciabile che percorre tracciati crudeli della memoria solo apparentemente rimossi; e poi opere come Capaci (1995) che si rivelano in una impressionante, suscitando drammaticità interrogativi irrisolti e soprattutto scardinando quei rassicuranti schemi di una massa senza identità, dedita al più ottuso consumismo, per giungere poi
Nella pagina a fianco, I grandi schedati (1977); Dittico della Maestà (1988). In questa pagina: Sandro Melarangelo ritratto da Giampiero Marocci. Qui sopra, Pasolini - Autoripresa dell’uccisione (1997).
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In questa pagina, dall’alto: Capaci (1995); Naufragio (2005); Basso a Spaccanapoli - interno (2005). Qui a fianco: l’artista con il figlio Marino Melarangelo.
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alla sua ultima produzione che è commento del sociale attuale, dedicato al dramma dei profughi, degli immigrati ed ai problemi “aggiunti” della globalizzazione e della fame nel mondo, espresse non più con rabbia violenta ma con misurata contemplazione e tonalità monocolori. Forse ricerca di una speranza, un riannodare, nella raggiunta maturità artistica, il filo della grande arte paterna, quale fu quella “…che placa l’anima e a cui non morde la burrasca” (Enzo Rosa), di Giovanni Melarangelo, (Teramo,1903-1978, il pittore degli umili, dei circensi e della non violenza, uno dei maestri innovativi più autentici ed espressivi dell’arte abruzzese del Novecento), e come pare avviata anche quella metafisica e contemplativa del giovanissimo Marino Melarangelo, figlio di Sandro. Una famiglia d’artisti, come altre celebri d’Abruzzo, destinata ad operare nel credo dell’arte e della ricerca in una propria, intima identità. In base a tali considerazioni è dato inserire in piena coerenza l’attualità di quelle atmosfere di evanescente chiarismo che si evidenziano nelle ultime opere di ambientazione sociale di Sandro Melarangelo, opere nelle quali tutto è più suggerito che detto, tessuto di una materia diafana e trasparente e pur a tratti solare che benchè si esprima (ad olio su tela) in grandi dimensioni, come nell’opera Spaccanapoli-Basso Napoletano (2004), e Naufragio (2005), rimanda ad un’arte contenuta nella stessa leggerezza del pastello e dell’acquarello, tecniche anche sperimentate dall’artista in talune opere di rara bellezza, come ad esempio quella delle Lavandaie alla fonte del Tordino, nelle quali più apertamente si evidenzia anche la sottesa fedeltà ai canoni della tradizione figurativa. Linee figurali filtrate poi per le vie più originali ed identificative del proprio processo creativo, capace di ritorni e sviluppi così valenti, attuali, anche in assonanza con le migliori espressioni dell’arte contemporanea. Solo un artista maturo, ricco di vita e di esperienze, può arrivare nella sua pittura all’essenza della verità, alla non violenta conquista dell’immagine, tramite un cambiamento, una rinuncia, che è il grado più saggio, più profondo della storia militante di una ideologia e di un percorso d’arte. PERSONAGGI
A bruzzoValley
PescarAbruzzo,atto secondo: l’impresa. L
o sviluppo di un territorio passa –non è opinione ma certezza– attraverso una molteplicità di elementi, spesso diversi tra loro ma tutti concorrenti alla sua crescita: economici, sociali, culturali. Non è pensabile, oggi, uno sviluppo economico disgiunto da quello sociale, né lo può essere una crescita culturale che non preveda parallelamente una crescita tecnologica; e tutti questi fattori sono tra loro complementari. Tutto questo l’Abruzzo, se non si può dire che l’abbia nel Dna, lo ha imparato soprattutto in questi ultimi decenni di crescita e di apertura. Qualche esempio? Il Mario Negri Sud, che della Val di Sangro è stato il motore (insieme ad alcune aziende) dello sviluppo sostenibile; o i laboratori del Gran Sasso, sede dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, punto di riferimento europeo e mondiale nella ricerca; o nuovi insediamenti come quello della Micron (vedere articolo a pag. XX), azienda statunitense leader nel settore della microtecnologia informatica, che attraverso la costituzione della Fondazione Mirror si propone di affiancare alla produzione di freddi componenti informatici la produzione di knowhow, ossia far viaggiare di pari passo l’economia tout court con l’economia della conoscenza. Stesso discorso per un altro protagonista della crescita di questa “Abruzzo Valley”: la Fondazione Pescarabruzzo, costola di una realtà economica nata nel cuore del territorio pescarese (la banca Caripe), evolutasi ora come una delle più vive realtà regionali nel settore culturale e sociale: si deve ad essa, tanto per fare un esempio, il recupero, il riuso e il rilancio di alcune importanti strutture culturali e di spettacolo della più grande
Bit di Milano
Abruzzo Valley
Turismo, New Chieti Abruzzo in pole position
città regionale, Pescara, come il cinema teatro “Circus”. La Fondazione presieduta da Nicola Mattoscio, adesso, ha puntato la barra del timone verso la formazione e la consulenza a livello nazionale ed internazionale, acquisendo il 72 per cento delle azioni di “Eurobic Abruzzo e Molise” sigla storica nel campo della consulenza alle imprese e agli enti pubblici, controllata fino a poco tempo fa dal gruppo Di Vincenzo. Durante la conferenza stampa tenuta per annunciare il nuovo assetto societario, lo stesso Mattoscio ha espresso il desiderio di fare di Eurobic “una vetrina per l’Abruzzo nel mondo”. Auspicio che si traduce nel rafforzamento del ruolo della società come interfaccia tra la regione e l’Europa: un compito svolto egregiamente anche dalla precedente gestione, con risultati eccellenti, come per l’insediamento sul territorio regionale di grandi aziende (tra le quali la multinazionale Trigano, leader della produzione di caravan) oppure nella più recente gestione di parti importanti di strumenti di sostegno alle imprese essenziali, come il Documento unico di programmazione 2000-2006. Il cambio di gestione, dettato da ragioni interne al gruppo di Di Vincenzo, avrà effetti sull’attività della struttura, che assorbirà così gli intenti della Fondazione, tra i cui scopi figura in posizione tutt’altro che marginale la promozione dello sviluppo economico e sociale del territorio:“Eurobic”, dunque, si appresta a vivere una nuova stagione come interlocutore privilegiato delle piccole e medie aziende, attraverso un’intensa attività di marketing territoriale.
Fondazione Mirror
Universivario/Te
Uno specchio Ricerca e sul futuro qualità, ecco il mio ateneo
Nella foto: da sinistra, Roberto Di Vincenzo e Nicola Mattoscio
Palcoscenico europeo per la Fondazione presieduta da Nicola Mattoscio. Con l’acquisto della quota di maggioranza di Eurobic, è entrata nel campo della consulenza e della formazione
Universivario/Ch-Pe
Laurearsi, che esperienza!
Turismo,
Abruzzo in pole position Reportage dalla Bit di Milano di Sergio D’Agostino foto Claudio Carella
Alla Borsa del Turismo di Milano la regione verde d’Europa riscopre unità d’intenti e potenzialità. E riparte in testa con tre testimonial d’eccezione
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fidare le corazzate del turismo italiano e internazionale si può. A patto di restare coi piedi piantati per terra, fare squadra, aggiungere all’offerta due ingredienti essenziali: qualità e integrazione dei prodotti. E a quel punto, perché no, sarà anche lecito sognare. È il messaggio che arriva dall’edizione 2006 della Bit, la Borsa internazionale del turismo di Milano, manifestazione che da sempre tasta il polso, certificandone lo stato di salute, al mondo vacanziero, e del business che ruota intorno all’industria turistica. Dalla kermesse milanese, conclusa il 21 febbraio scorso, l’Abruzzo esce rafforzato, se non altro per l’immagine che è riuscito a dare di sé in mezzo a tanta concorrenza. Un’idea di regione in pole position, come invita a far pensare la scelta di un testimonial da 300 all’ora come il pilota Jarno Trulli, prima “guida” di un trittico di ambasciatori dell’immagine abruzzese d’eccezione, che porta anche i bei nome delle campionesse dello sport Fabrizia D’Ottavio e Alessandra D’Ettorre. Ma lo fa pensare anche il ruolo che l’assessore al Turismo, Enrico Paolini, è riuscito a ritagliarsi nell’universo nazionale, grazie al ruolo di coordinatore della conferenza delle Regioni: un organismo pronto a giocare un particolarissimo gran premio con il governo, per affermare a suon di milioni di euro quell’”Opera unica” che è l’immagine turistica nazionale, ma anche il nome della campagna che le dovrà dare sostanza e spessore. «Siamo su un’onda molto alta –dice Paolini– l’importante adesso è non cadere giù fragorosamente. Occorre mantenere alto il profilo, ma è un progetto realistico, viste le basi gettate alla Bit: a Milano abbiamo giocato tutti una finale di Coppa campioni con una squadra unita, vestendo tutti la stessa maglietta. Una rivoluzione copernicana, visto che prima ognuno andava per la sua strada, con il risultato di fare tutti scontenti». Il senso del gioco di squadra torna nelle parole del presidente dell’Azienda regionale di promozione turistica, Carlo Costantini: che sta a Paolini come un centrocampista dai piedi buoni a un centravanti di sfondamento. «A Milano è stato dato un evidente segnale di cambiamento, di cui l’Abruzzo aveva bisogno. Ci sono ora tutti i presupposti e le condizioni per promuovere una regione splendida, capace di integrare prodotti diversi forse come nessun’altra. Si doveva fare squadra, creare un metodo di lavoro nuovo che
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TURISMO, ABRUZZO IN POLE POSITION
«Ho scelto l’Abruzzo» Osvaldo Bevilacqua, il giornalista che ha inventato il turismo in tv, ha preso casa sull’Altopiano delle Rocche. E dice la sua sulla promozione turistica «L’Abruzzo? È la mia terra d’adozione, una terra che mi sta a cuore, ma che è anche un punto forte del turismo nazionale. Però, purtroppo, per colpa dei suoi amministratori non ha saputo sfruttare al meglio le sua enormi potenzialità e capacità. Che sono il mare e la montagna, le città d’arte, la campagna: perchè a questa regione cosa manca?». Parola di Osvaldo Bevilacqua, giornalista Rai, il volto che ha dato per primo spessore e sostanza all’idea che un media come la tv potesse diventare il miglior testimonial per il turismo di massa. Insomma, prima che Alle falde del Kilimangiaro proponesse un modello esotico, lui aveva già battuto metro a metro il Belpaese con il suo Sereno variabile: scovando con l’occhio della telecamera scorci e itinerari, bellezze architettoniche e ambienti naturali. Chiaro, così, che nello stand abruzzese alla Bit di Milano un personaggio del genere non potesse passare inosservato, soprattutto ora che in Abruzzo ha preso casa, certificando un amore che non è più solo affare privato: «Che posto ho scelto? L’altopiano delle Rocche, Terranera: un borgo di ottanta anime, pecore comprese, che difendo con i denti». La difesa di un pezzo d’Abruzzo ancora “terra vergine” non impedisce un’analisi realistica: «Questa è una terra da valorizzare, non si possono perdere certe sue potenzialità. Il turismo è un settore trainante, e una regione cuore verde d’Europa ha le carte in regole per competere e per essere trainante, anche rispetto alla concorrenza, perché ha tutto». Insomma, dice Bevilacqua, la sfida al mercato globale e alle sue overdosi comunicative non deve certo spaventare la regione-Lilliput, ma a condizione di usare bene le frecce al proprio arco: «È una terra per tutte le stagioni. Oggi si parla di turismi, parola che io detesto, ma se vogliamo restare nel segno dell’odierna comunicazione del settore, l’Abruzzo è la terra per tutti i turismi che ci sono. Prendete una figura come Celestino V: è nota più all’estero che da noi, ha enormi potenzialità. All’Aquila però la Perdonanza la conoscono quasi solo i suoi abitanti: senza offesa per nessuno, somiglia a una sagra di paese. Quando invece potrebbe essere un evento internazionale di grande livello e prestigio. Come Celestino». TURISMO, ABRUZZO IN POLE POSITION
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Immagini dello stand Abruzzo alla Bit di Milano realizzato dalla BDD di Peppino De Dominicis e Vittorio Sorgi. Sopra, Enrico Paolini, vicepresidente della Giunta Regionale e assessore al Turismo; nella pagina a fianco, Carlo Costantini, presidente dell’Aptr. Nella fascia in basso, da sinistra: lo stand; la presentazione degli Europei di Basket femminile del presidente della Provincia di Chieti, Tommaso Coletti, col vicepresidente Umberto Aimola e Mario Di Marco, presidente del Cus; lo spazio della Provincia di Pescara con il presidente Giuseppe De Dominicis tra i sindaci di Montesilvano e Penne Enzo Cantagallo e Paolo Fornarola; il presidente della Provincia di Teramo, Ernino D’Agostino. Nella fascia verticale, dall’alto: lo stand; l’assessore al Turismo della Provincia dell’Aquila, Teresa Nannarone; l’assessore al Turismo della Provincia di Chieti, Luciano Lapenna.
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rendesse tutti protagonisti, tutti attori delle scelte principali: ora siamo pronti a lanciare la sfida, a far crescere anche i numeri. La nostra economia ha grande bisogno di un turismo che cresce». Assodato il metodo, resta il prodotto da affermare. Alla Bit è tornato in auge quello slogan (“Abruzzo regione verde d’Europa”) che negli ultimi anni altre scelte di promozione del marchio turistico avevano di fatto svuotato di significato. Ancora Costantini: «Ho parlato con colleghi di altre realtà regionali, che fanno del turismo una delle prime voci della propria economia. Mi hanno detto che la possibilità di integrare il mare con la montagna, una fauna straordinaria con i percorsi di qualità enogastronomici in un’ora sola, l’Abruzzo ce l’ha. Gli altri no». Per raggiungere i suoi obiettivi l’Abruzzo ha fretta, ma per questo deve fare ancor più attenzione a non inciampare. Conferma Paolini: «Noi non abbiamo il tempo di realizzare tutto il percorso che hanno fatto altri, come il Trentino o l’Emilia. Abbiamo fretta di poter competere con pubblico e privato. Per questo il fattore “qualità” diventa necessario per integrare le nostre risorse, il mare con i parchi o le strutture agrituristiche. Perché abbiamo di tutto, ma sbagliato è pensare che abbiamo il meglio di tutto». Protagonisti del team turistico abruzzese sono state anche le Province: un anno fa consumarono uno strappo clamoroso con la Regione (separati in casa alla Bit), oggi sono le tessere di uno stesso puzzle dove ciascuna svela le sue eccellenze, gioca le sue carte. Come fa l’assessore al Turismo della Provincia di Pescara, Paolo Fornarola: «Siamo la porta d’ingresso della nostra regione, grazie ai voli low cost, alla rete di infrastrutture come il porto turistico. Vogliamo diventare anche il primo punto di sosta d’Abruzzo in relazione a quel che possiamo offrire, e per questo puntiamo a una diversificazione dell’offerta che conta prodotti più tradizionali come il mare e la montagna, ma anche il turismo del benessere o le mete religiose». Al clima di concorrenza leale si adegua Teresa Nannarone, unica donna (con la dirigente del settore Turismo della Regione, Alba Grossi) a dare le carte nel gotha del turismo abruzzese. La montagna, per la provincia più ad alta quota della regione, diventa scenario e prodotto di punta: «Le nostre montagne rappresentano tanto per noi, e per questo alla Bit abbiamo presentato la guida Emozioni in alta quota, in grado di illustrare tutti i tipi di sci che si possono praticare sui nostri monti. Ma accanto alla montagna,
con pari dignità, vantiamo città d’arte e cultura, siti archeologici e religiosi. Un panorama dove lo sci la fa da protagonista, ma ci sono realtà come L’Aquila e Sulmona dove è possibile fruire di grandi spettacoli, assistere a grandi eventi dell’arte e della cultura». La replica del territorio chietino è affidata all’assessore provinciale Luciano Lapenna: «La nostra è realtà di più turismi, con centinaia di migliaia di presenze l’anno. Chieti è anche la provincia dei mille sapori e profumi: quelli forti della montagna, quelli delicati del mare. Ma abbiamo bisogno di interventi a sostegno degli operatori: «Con il Touring Club lavoriamo a un marchio di qualità specifico per le zone dell’entroterra: o si va in questa direzione o ci saranno problemi seri con una concorrenza sempre più massiccia e agguerrita». A chiudere la carrellata è il presidente della Provincia teramana, Ernino D’Agostino, anch’essa partner del Tci, e sempre per un progetto destinato a incidere sulla crescita di qualità del sistema turistico locale: «Con 18mila posti letto, oltre il 60% del totale regionale, concentrati sulla costa in sette località, di cui cinque insignite delle “bandiere blu”, possiamo a buon diritto considerarci punti di forza dell’economia turistica regionale. Per rafforzare questo dato, puntiamo soprattutto su qualità e integrazione. Con il Tci lavoriamo per dotare le nostre strutture ricettive della certificazione di qualità». Nessun punto debole, allora? Non proprio. Per Paolini c’è molto da fare per migliorare «l’accoglienza pubblica e privata, che non dipende solo da albergatori e baristi, ma dalla segnaletica, dalla pulizia delle strade, dalla sicurezza. Sembra quasi che parlare inglese sia una seccatura, mettere la segnaletica giusta uno spreco». Operatori sotto accusa, dunque? No, per Costantini: «Dieci-quindici anni fa poteva accadere che fossero al di sotto delle esigenze, ma oggi si afferma una generazione concreta e determinata, consapevole del ruolo che riveste nell’economia abruzzese. Piuttosto, toccherà a noi puntare di più su innovazione e promozione: sin qui le iniziative sono state orientate a pubblicizzare l’istituzione che organizza l’evento più che il prodotto. Lavorerò perché gli operatori divengano i protagonisti».
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NEW CHIETI Parte il new deal teatino: finiti i tempi della città camomilla si punta sugli eventi sportivi e culturali per rivitalizzare il capoluogo. Con gli applausi di un noto economista statunitense
di Franco Potere foto Michele Camiscia
Nelle foto, alcune immagini di Chieti e del suo patrimonio culturale. In basso, alcune istantanee del convegno “Chieti, città risorsa”: tra i relatori, il vicepresidente della Provincia di Chieti Umberto Aimola e il professor Robert Wescott.
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’idea? Semplice: a Chieti e provincia le industrie “tradizionali” non mancano (gli addetti al settore sono ancora il 36% degli occupati, una media superiore a quella nazionale) ma gli scricchiolii, i segnali di crisi e le situazioni di sofferenza occupazionale non mancano di certo, in particolare nel capoluogo (vedi la Oliit-ex Telettra), dove c’è, tra l’altro, da rivitalizzare un centro storico desolatamente ammosciato (botte di vita estive a parte) dopo la discesa a valle dell’Università e dell’ospedale. E allora, l’dea qual è? «La cultura e lo sport come fattori di rilancio e di sviluppo», risponde Umberto Aimola, vice presidente della Provincia di Chieti «Puntiamo sul nostro patrimonio culturale: i musei, i siti archeologici, il teatro Marrucino, le opportunità offerte da un centro storico ricco di spazi architettonici e urbanistici di pregio. E poi sullo sport, sui grandi eventi dei prossimi anni: i Campionati europei di basket femminili, in programma a Chieti nel 2007, e i Giochi del Mediterraneo 2009». Detta così, non sembra un’idea tanto originale: non c’è, in Italia, amministrazione locale di un piccolo centro che non faccia affidamento sul proprio patrimonio culturale (inevitabilmente definito “straordinario”, “inestimabile” e via esagerando) e su eventi sportivi, o d’altro genere, di particolare richiamo. Ma a Chieti qualcosa di nuovo, di diverso e di
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concreto lo stanno facendo veramente. Spiega Umberto Aimola: «Cominciamo dallo sport. La Provincia si sta impegnando in prima persona per la migliore riuscita degli Europei di basket femminile, partecipando attivamente ai lavori del comitato organizzatore, di cui sono vice presidente, e contribuendo al budget con cospicue risorse finanziarie. In più, abbiamo predisposto un nutrito piano pluriennale di iniziative ed eventi collaterali, chiamato “Chieti7più” che prepareranno e accompagneranno i due grandi eventi sportivi del 2007 e del 2009. La localizzazione a Chieti del Villaggio Mediterraneo potenzierà ulteriormente il ruolo del nostro territorio nel 2009». Veniamo alla cultura. «A gennaio, come Provincia di Chieti abbiamo organizzato due appuntamenti caratterizzati da una concretezza di analisi e di proposte davvero rara, credo, in questo settore. Il 12, un convegno sulla creazione di una rete museale per la gestione unitaria e integrata dei cinque musei di Chieti e del MuMi di Francavilla a Mare, ai quali si dovrebbero aggiungere altri musei dell’area pescarese, ragionando noi sempre e in modo convinto in termini di area ChietiPescara. Il convegno è stato introdotto dalla presentazione di due studi: il primo sulle istituzioni museali dell’area Chieti-Pescara, sulle loro caratteristiche distintive, sul loro bacino d’utenza attuale ABRUZZO VALLEY
e potenziale, sulle azioni di marketing da attivare per promuoverli e valorizzarli; il secondo studio, di natura giuridica, verteva su una approfondita analisi della legislazione nazionale e regionale in materia di cultura e presentava un ventaglio di possibili forme giuridiche da dare all’organismo di gestione della rete museale. Insomma, abbiamo messo i nostri principali interlocutori, Regione Abruzzo, Direzione regionale dei beni culturali, Comuni di Chieti e di Francavilla, Fondazione Carichieti e Curia arcivescovile, di fronte a ipotesi concrete, non a vaghi seppur nobili propositi». E quali risposte avete avuto? «Tutte positive e di totale disponibilità, pur con la giustificata prudenza che l’attuale limitazione di risorse consiglia». Già, le risorse. Una risposta davvero nuova e originale alla loro deplorata e ormai cronica scarsità è arrivata dal successivo convegno del 24 gennaio, sempre organizzato da Umberto Aimola, con il convinto appoggio del Presidente della Provincia Tommaso Coletti e del sindaco di Chieti Francesco Ricci. Mancano le risorse? È Chieti la risorsa, è stata la risposta venuta dal convegno (non per niente denominato “Chieti città risorsa”). Chieti in senso materiale,“fisico”, immobiliare. La Madruzza & associati, uno studio di consulenza di Padova, ha infatti proposto al convegno una soluzione singolare (per i non addetti ai lavori) ma concretissima per trovare i soldi necessari alle azioni e agli interventi NEW CHIETI
di rivitalizzazione del centro storico: il Comune di Chieti conferisce in un fondo di gestione immobiliare edifici di sua proprietà e utilizza i proventi del fondo e le possibilità di credito garantite dalle sue quote per reperire i soldi necessari. La creazione del fondo e la sua collocazione sul mercato verrebbe condotta dalla Darma spa, una sgr (società di gestione del risparmio) regolarmente autorizzata dalla Banca d’Italia. Un’idea che ha sbalordito, positivamente, l’uditorio, abituato alla fatale inconcludenza pratica (ancorché suggestivi ed utili sul piano delle idee) dei convegni sulla cultura. Una proposta arricchita dall’intervento del professor Robert Wescott, celebre economista americano, già consulente economico di Bill Clinton nei primi e negli ultimi due anni della sua presidenza., che ha perorato la causa delle tre “T”: Talento, Tecnologia, Tolleranza. «Dovete attrarre giovani creativi, non dovete lasciarvi scappare i talenti migliori che escono dalla vostra università, offrendo loro alloggi a condizioni di favore e incentivi vari. Dovete investire in ricerca, in tecnologia avanzata, dovete migliorare la qualità della vita, cambiare mentalità, creare una città aperta alle idee e ai nuovi costumi, tollerante e accogliente».Insomma, dalla vecchia Chieti, una lezione di concretezza e di immaginazione, che fa ben sperare. I chietini, evidentemente, hanno smesso di bere camomilla. VARIO57
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Fondazione Mirror
Uno specchio sul futuro di Sergio D’Agostino foto Claudio Carella
La fondazione, nata da un colosso dell’high-tech come la Micron, punta a fare dell’Abruzzo un laboratorio dell’economia della conoscenza. Dialogando con le Istituzioni In alto, lo stabilimento della Micron Technology Italia ad Avezzano. Nella pagina a fianco,
’è un pezzo dell’Abruzzo Valley che somiglia da vicino a quel laboratorio che in un’altra epoca, e in altre condizioni, portò Adriano Olivetti a fare dell’area di Ivrea un caso unico e virtuoso del rapporto tra un territorio e la sua azienda leader. A scommettere su un modello che somiglia da vicino, ma rielabora con originalità, quello pensato e realizzato da uno dei padri nobili del capitalismo italiano, è una multinazionale leader del settore high-tech, la Micron Tecnhology Italia. Lo strumento che potrebbe (e dovrebbe) dar corpo e sostanza al progetto è una fondazione che si chiama “Mirror per l’impresa della conoscenza”: nella ragione sociale promette di esplorare l’ultima frontiera della società postindustriale, quell’economia della conoscenza i cui mezzi di produzione non sono macchinari e attrezzature, ma cultura, talento, intelligenza, esperienza. Capitali anch’essi, ma particolari e forse poco visibili, perché celati nel dna di uomini e donne, nell’esperienza di un territorio. Capitali spesso sottovalutati, inutilizzati, poco incoraggiati, quasi mai coltivati. Per questo, tra gli obiettivi dichiarati della fondazione figura innanzi tutto
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una rilettura integrale dei principali strumenti che alla cura di questo giacimento si dedicano, o dovrebbero dedicarsi. E il desiderio di dare senso alla sua parola-chiave, formazione, ed ai suoi strumenti tipici: il sistema regionale di istruzione professionale, la formazione continua degli adulti, l’università. Micron ha fortemente voluto la fondazione. Per lei ha messo in campo risorse finanziarie e una prima quota del suo capitale umano che l’ha pensata, progettata, infine varata. Per capire Mirror e la sua missione, occorre insomma capire Micron, la sua filosofia. Sbarcata nella Marsica nel 1998, dopo aver rilevato l’intera divisione “memorie” di un altro colosso del settore, la Texas Instrument, la multinazionale americana che ha sede negli Usa, a Boise (Idaho), ha attraversato un percorso ininterrotto di crescita, fino a fare dello stabilimento abruzzese dove lavorano oggi oltre 1.800 persone, il presidio leader in Europa per la produzione di wafer: che non sono biscotti, ma dischi di silicio di cui si nutrono, voraci, gli oggetti simbolo della società high-tech: microchip, computer, telefonini, sensori, lettori Mp3 e ogni altro ben di dio la tecnologia proponga agli albori
il direttore generale Sergio Galbiati.
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FONDAZIONE MIRRROR
«L’idea è creare un luogo d’incontro dove si possa fare progettualità vera. Gente che, messa insieme, è in grado di progettare quelle cose che sul territorio mancano, si vorrebbero fare e che si resta frustrati se non si riesce a realizzare».
Nella pagina a fianco, foto di gruppo per Sergio Galbiati con il team della Micron Technology Italia.
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del terzo millennio. Un patrimonio di esperienze e conoscenze che ha messo l’azienda di fronte a un bivio e a un quesito sul proprio futuro: solo crescendo insieme al territorio che la circonda è possibile immaginare un percorso comune, e vantaggioso. Sergio Galbiati, direttore generale della Micron Tecnhology Italia, del progetto-fondazione è un po’ il padre, un po’ l’anima, un po’ il regista, oltre che il presidente. Sceneggiatori del progetto, per restare alla metafora cinematografica, sono due specialisti dell’impresa della conoscenza: Giuseppe Giaccardi e Marina Perego, che Galbiati ha voluto accanto a sé per dare al copione corpo e anima. Luogo dell’azione, per quello che sembra davvero un film di ottima produzione, è la Marsica: un territorio al centro di profondi sconvolgimenti che ne hanno trasformato, anno dopo anno, l’antico cuore agricolo d’Abruzzo in una delle fortezze dell’high-tech italiano. Micron Tecnhology Italia veste i panni di un produttore deciso a rompere il modello autarchico delle cittadelle virtuose, ma isolate. Per il ruolo di attori protagonisti si vanno prenotando già in tanti: istituzioni, università, aziende decise a compiere un pezzo di strada assieme ai promotori del progetto. Il finale, tutto da scrivere, prevede la creazione di nuovi centri d’eccellenza del sapere, il riesame attento di strumenti per la valorizzazione di professionalità. Dalla finzione alla realtà il passo è breve: la fondazione è ormai già molto più di una idea. In appena dodici mesi, bruciando le tappe, ha oltrepassato l’emozione della prima (correva il 4 dicembre del 2004) per approdare (e siamo al 25 ottobre scorso) all’avvio della programmazione. La domanda che un tempo Olivetti si poneva sulla missione del capitalismo («Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi fini semplicemente nell’indice dei profitti? O non vi è, al di là del ritmo apparente, qualcosa di più affascinante, una trama ideale, una destinazione, una vocazione?»), la nuova creatura ha finito per applicarla al senso della sua esistenza, interiorizzarla. L’eccellenza coltivata come missione, a buon diritto, finisce per inserire l’ultima arrivata nel novero delle (non troppe) eccellenze che come l’Istituto nazionale di Fisica Nucleare, il Mario Negri Sud, la Fondazione Fonticoli di Penne –solo per citare qualche esempio pescato qua e là– a fatica ma con sicurezza, solcano con i loro progetti il viso corrucciato di una regione in evidente crisi d’identità. Una regione orfana di un processo di
industrializzazione “favorito” dai suoi ex leader politici, che vive più con apprensione che con soddisfazione, la sua condizione di ormai ex area “assistita”. L’agenda di lavoro della fondazione, fittissima, accoppia gli obiettivi a breve termine e le strategia più complesse. Dei primi fa parte l’ormai avviata campagna-acquisti (leggi: adesioni) che procede piuttosto bene: la scommessa di raccogliere intorno a sé anche le attenzioni meno (geograficamente) vicine sembra essere stata già vinta, se è vero che oltre alla Provincia dell’Aquila e al Comune di Avezzano (adesioni forse più scontate) si sono sommate quelle meno ovvie del Comune e della Provincia di Pescara, del Comune di Sulmona, della Honda Italia, della Fondazione Fonticoli di Penne, della Regione Abruzzo, della Carispaq e di altre banche e aziende. Non sarà un caso, allora, se le strategie della fondazione e quelle del governo regionale di Ottaviano Del Turco hanno trovato un trait d’union prestigioso in Alberto Sangiovanni Vincentelli: cioé l’uomo simbolo voluto dal governatore per rappresentare nel mondo il nuovo corso dei palazzi regionali, ma anche fresco componente del consiglio di amministrazione di Mirror. Esaurite le presentazioni, è il turno dei protagonisti. Dice Sergio Galbiati: «L’idea che abbiamo avuto è creare un luogo di incontro, una sorta di totem, dove indipendentemente dal ruolo e dalla funzione di politico o manager, si possa fare progettualità vera. Gente che forse non si incontrerebbe mai, ma che messa insieme è in grado di progettare quelle cose che sul territorio mancano, si vorrebbero fare e che si resta frustrati se non si riesce a realizzare. Un grillo parlante, se l’immagine piace di più». Prima che la nascita della fondazione aprisse una nuova stagione in casa Micron, il percorso aveva conosciuto più di una asperità: «Nei primi anni abbiamo tenuto un profilo volutamente basso: si trattava di capire se avevamo la statura per competere. Fino al 2002-2003 ci siamo concentrati all’interno del nostro mondo, per legittimarci nei confronti degli investitori. Micron aveva messo in campo qualcosa come un miliardo e 150 milioni di euro e rinunciato a un finanziamento Cipe di 500 miliardi di vecchie lire in un Paese, come l’Italia, dove raramente l’industria rinuncia al sostegno pubblico. D’altra parte, all’inizio, c’erano dubbi sul futuro, il timore di un disimpegno che in un settore come questo non avrebbe neanche destato troppa sorpresa. Se da una parte ci
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«La concentrazione di investimento, di intelligenza e di know-how è diventata talmente elevata, che se non c’è sintonia totale con il territorio, con la variabile del saper fare delle persone che del territorio sono un prodotto, a lungo termine cade l’intero meccanismo».
Nella pagina a fianco, Marina Perego e Maurizio Giaccardi, consulenti della Fondazione Mirror.
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dicevamo che sì, avevamo fatto grandi progressi, dall’altra restava il timore che al dunque, di fronte a investimenti strategici per il gruppo, il retro pensiero che l’Italia non sia esattamente il posto adatto per investire sarebbe rimasto. Questo ha fatto riflettere il gruppo dirigente italiano, che sente forte la volontà di sfatare il discorso secondo cui questo Paese sia destinato a scendere progressivamente nella graduatoria della competitività». Il punto di non ritorno data il 2003: «La scelta è maturata all’indomani di un accordo sindacale che ha fatto storia. Una dura fase di contrasti, legata al problema della capacità di competere, si chiuse con la stesura di una dichiarazione d’intenti, nel contratto, che sancì una diversa organizzazione del lavoro. Per la prima volta, ratificò che la competitività nell’azienda è un obiettivo condiviso con il sindacato. Da lì nacque la necessità di giocare un pò di più all’attacco». Il momento del concepimento della fondazione forse è proprio racchiuso in quel passaggio. Lo illustra Giaccardi: «La concentrazione di investimento, di intelligenza e di know-how è diventata talmente elevata, che se non c’è sintonia totale con il territorio, con la variabile del saper fare delle persone che del territorio sono un prodotto, a lungo termine cade l’intero meccanismo. Ma siccome per fortuna non viviamo in regimi dispotici che impongono questa combinazione, essa deve essere il frutto di una crescita sul piano della cultura, della visione, dell’impegno, della sfida. Siamo partiti ascoltando la Micron, poi di lì abbiamo impostato un modello che mette al primo punto la necessità di contribuire alla creazione di una politica industriale di una Paese che non l’ha; che approfitta dell’apertura di mercati e non la vive come una minaccia; che ha la volontà di costruire un capitale umano d’eccellenza, perché l’unica strada che un paese dell’occidente ha per competere é fatta di intelligenza, progettualità, gusto, stile, storia, dei fattori dell’immaterialità che fanno vivere i prodotti materiali e manifatturieri; che ha voglia, infine, di dare un contributo allo sviluppo della regione che ospita l’azienda. Abbiamo impostato un programma e un piano». Piano fondato proprio sulla capacità di indagare e ascoltare nel profondo quel territorio che si vuol fare protagonista. Marina Perego ha vestito i panni della medium: «L’azione di ascolto era necessaria. È stata la raccolta di un valore diffuso molto profondo e radicato in questo territorio,
nelle persone che lo abitano e sono particolarmente interessanti e di spessore». La tecnica usata è stata quella dell’audit, tre le domande poste a un campione di sessanta intervistati (in origine era stata ipotizzata la metà) che ha incluso parlamentari locali e dirigenti d’impresa, opinion leader e manager, operatori del sistema scolastico e docenti universitari, banchieri e professionisti: «Abbiamo chiesto quale fosse l’opinione di questo territorio maturata in chi lo abita e ci vive, ci è nato: la percezione del proprio mondo, del proprio universo, l’idea sulla Micron, l’“attrezzatura” immaginata per quest’area. Sono emerse aspettative, desideri, richieste. Il difficile è stato organizzare il tutto, restituire ciò che avevamo capito: non ripetere, ma rielaborare le interviste. Tentavamo un esperimento, potevamo verificare una partecipazione tutt’altro che entusiastica. Siamo rimasti sorpresi: il seminario di presentazione del dicembre 2004 è stato una scoperta, senza per questo evitare di dover dire cose “sgradevoli”. Non è certo bello sentirsi dire che l’industria in una determinata area rischia di sparire. Però, nonostante questo, nessuno si è arroccato in una posizione difensiva». Come in tutte le sceneggiature che si rispettino, non è mancata la sorpresa: dopo le titubanze inziali, il progetto della fondazione ha finito per convincere in pieno gli americani di casa Micron: «Non sapevo come spiegarmi, avevo dei timori. Invece, ho provato a presentare il progetto nella stessa ottica a loro cara:“Aziende forti in comunità forti, ovunque esse siano”. Facendo leva su questa visione, ho trovato le porte aperte. Ora, una parte significativa delle risorse della fondazione Micron, spese sin qui solo in Usa, 250mila euro, sono state destinate ai progetti della fondazione abruzzese» svela Galbiati. I progetti della fondazione hanno già nome e cognome. Innanzi tutto, un rapporto ancora più forte e saldo con l’università, non certo all’anno zero visti gli eccellenti legami intrattenuti con le facoltà di Ingegneria dell’Aquila o di Economia a Pescara, che al treno della fondazione hanno già agganciato i propri vagoni: «L’obiettivo è realizzare un politecnico moderno, in cui si faccia la migliore didattica, si creino i migliori saperi e le premesse di una fucina dell’imprenditorialità. Un po’ come la Silicon Valley, dove c’è un forte rapporto con l’università. L’ambizione è farlo in una posto con un milione e 200mila abitanti, nella scala locale può aiutare tantissimo» enuncia Galbiati.
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Ancora, secondo Giaccardi, spazio va dato al capitolo dedicato alla «formazione continua degli adulti, utile in una regione dove se è vero che le imprese high-tech rappresentano solo il 2,5% del totale, il problema diventa coinvolgere imprese non high-tech, ma che hanno una componente elevata di sviluppo di elementi immateriali come formazione, marketing, pubblicità, ricerche di mercato». Nello stesso puzzle di proposte entrano l’esigenza di nuove relazioni industriali, di una gestione “educativa” delle risorse, di attrazione di nuovi capitali per lo sviluppo. I nodi finali, se davvero si riveleranno tali, restano l’eccessivo nanismo delle imprese locali e il sospetto (un venticello che potrebbe soffiare nel mondo della politica) che in fondo il progetto rischi di (o voglia?) sostituirsi a compiti istituzionali. Sul primo, Galbiati non ha dubbi: ”Prima di far crescere, per non morire, occorre fare innesti. Un’idea brillante muore perché forse non è diventata componente essenziale di una parte più grande. Associarsi, consociarsi piuttosto che andare per conto proprio è sano, patologico è tirare avanti per la propria strada. Il modello del nord est è riuscito a sviluppare la creatività anche in ambiti molto piccoli. Il problema è che manca un sistema nazionale dell’innovazione come nei
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LA FORMULA E IL LIBRO M3. Ovvero,“emme alla terza”. Ovvero, metodologia Micron per la Marsica. È stato codificato così, come una sorta di formula matematica, il progetto che la fondazione Mirror ha messo a punto per il suo territorio di riferimento: un piano che potrebbe essere sintetizzato come “costruire oggi il futuro di domani, contribuendo insieme per costruire un nuovo modello di sviluppo economico sostenibile”. La formula prevede l’applicazione di un dettagliato crono-programma, che nel triennio 2004-2006 conta di poter affermare una bella fetta della mission, tra passato, presente e futuro: audizione del campione di intervistati; seminario per una prima illustrazione del progetto; creazione della fondazione, con l’assemblea dei soci sostenitori; convegno internazionale sulle tecnologie; progetti editoriali. Proprio quest’ultima parte, di recente, ha preso la fisionomia di un volume dal titolo Mirror, un modello di lavoro nell’economia della conoscenza (edizioni il Mulino, 214 pagine, 18 euro) che Galbiati, Giaccardi e Perego hanno scritto assieme .
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I NUMERI Oltre millecento milioni di euro investiti nello stabilimento marsicano in soli sette anni. Una quota del 15 per cento del totale delle vendite dell’“universo Micron” (27 anni di storia industriale, impianti in 18 paesi del mondo) sfornata nella Marsica. Qualcosa come 1.870 dipendenti diretti, il 90 per cento dei quali –attraverso un meccanismo di azionariato diffuso, lo stock options–coinvolto in prima persona nel finanziamento dell’azienda. Nuove assunzioni per circa 800 unità effettuate nell’arco di otto anni. Una fetta pari al 35 per cento del totale degli occupati nel settore industriale dell’area che lavora all’interno della Micron Technology Italia. Altre 300 persone addette in aziende di
«Sapere una cosa e avere la competenza per farla è l’elemento che accomuna persone di azienda e persone di istituzioni».
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“supporto”. Una cifra pari al 10 per cento della voce “esportazioni” della nostra regione, appannaggio del gruppo di via Pacinotti. Un monte compensi che ogni anno si attesta intorno ai 70 milioni di euro. Si condensa solo in parte in questi numeri il peso indubbio che l’azienda produttrice di sensori “Cmos”, ultima e nuova frontiera dell’universo high-tech destinata a trovare ampia applicazione nella fotografia digitale, nella diagnostica sanitaria, nella telefonia, esercita sul territorio abruzzese. Ma anche altri dati illustrano con ulteriore dovizia di dettagli l’universo Micron. Quali? Soprattutto quelli che servono a specificare il peso che proprio il capitale umano detiene in seno al
paesi dell’estremo oriente, dove i migliori strateghi fanno capire quale sia il disegno, ed educano al fatto che prima o poi ci debba inserire in un grande fiume. Ed è l’appunto che ho fatto sempre a diversi esponenti di governo: perché all’inizio del mandato non vengono identificati quei tre, quattro settori dove non si faranno prigionieri, focalizzando le proprie energie in quella direzione? Questo manca, con la conseguenze di avere solo piccoli imprenditori. Quando vivo dignitosamente a livello individuale, perché devo assumere un rischio in più con le mie tasche, che sono le stesse dell’azienda?». Il secondo nodo, per la Perego è davvero e solo presunto: «Le istituzioni fanno parte di questo territorio, sono attori importanti e non possiamo neanche sognarci di farne a meno. Hanno un ruolo importante da svolgere, e credo che lo vogliano anche svolgere. Però occorre avere la capacità di capire quel che deve essere fatto, avere la competenza necessaria: sapere una cosa e avere la competenza per farla è l’elemento che accomuna persone di azienda e persone di istituzione. Ecco il perché della fondazione». Stesso sentire per Giaccardi, che indica qualche strada da percorrere per trasformare il dire (malattia tipica del politichese) in fare (verbo che le imprese coniugano con più disinvoltura): «Perché un territorio aumenti la sua capacità competitiva non occorrono più come un tempo grandi infrastrutture materiali: l’Abruzzo, semmai,
gruppo Usa. Così è per il piccolo esercito di laureati che ci lavora (in gran parte giovanissimi, visto che oltre il 30 per cento ha conseguito il titolo accademico dopo il 2000); 242 con titoli di studio legati a discipline tecnico-scientifiche come la matematica, la fisica, l’ingegneria; 23 in discipline economico-giuridiche; 22 in discipline umanistiche. Con una bella fetta (138, pari al 13,2%) che porta in tasca anche un master post-laurea. Un campione di tutto rispetto cui si affiancano i 1.432 dipendenti (il 78%) in possesso di diploma superiore.
ha bisogno subito di una buona infrastruttura come la banda larga. È la priorità: molte delle cose di cui stiamo parlando, con la banda larga si metterebbero in moto da sole. E poi il protocollo di Internet 2: occorre essere della partita. L’Abruzzo sarebbe un terreno eccezione per sperimentare un meccanismo di comunicazioni broadcasting: ha un’orografia terribile per i cavi, potrebbe essere questa la strada. Insomma, siamo quelli che fanno proposte: né supplenti né fiancheggiatori delle istituzioni. Avvertiamo una responsabilità sociale, però: vedere un territorio che cresce e che condivide le sfide della sua azienda leader, uniche risorse per creare valore. Non aspettiamoci più i fondi speciali: questo non accadrà più». Un’ultima avvertenza: sbagliato pensare che il progetto che sta trasformando un pezzo d’Abruzzo in un laboratorio dello sviluppo stia a cuore solo a una ristretta elite di iniziati nell’azienda Usa. Perché il 96,2 per cento dei dipendenti Micron, interrogati con un questionario che ha fatto da apripista alle elaborazioni successive, ha detto che sì,“è determinante, per il successo del proprio futuro industriale, sviluppare anche un ruolo sociale nel territorio”. Ed anche questo, se si vuole, è il segno che la sfida, oltre al cuore e al cervello, ha davvero anche le gambe per poter essere giocata con successo.
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U niversivario/Teramo
Ricerca e qualità, ecco il mio ateneo Teramo, svolta “scientifica“: il nuovo Rettore Mauro Mattioli illustra i suoi programmi per rilanciare l’Università. Nel segno della continuità
Qui sopra e nella pagina a fianco, il Rettore Mauro Mattioli davanti al Rettorato dell’Università di Teramo in Viale Crucioli.
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'Università di Teramo ha il nuovo Rettore: Mauro Mattioli, scienziato e ricercatore nel campo delle biotecnologie della riproduzione. Succede a Luciano Russi, che oltre ad essere stato Rettore dell’Ateneo per dodici anni, ne è stato il tutore, tanto è stato il suo impegno nel far nascere questa terza università abruzzese e soprattutto nel seguirne passo passo le fasi della crescita portandola ad essere riconosciuta fra le più prestigiose nell’ambito del sistema universitario nazionale. Forse era inevitabile che il passaggio fosse travagliato: ci sono voluti due mesi di polemiche e ricorsi per arrivare alla ratifica della nomina di Mattioli. Finalmente si è seduto su questa poltrona… Una poltrona rovente… Sono contento che si sia conclusa una fase che è durata troppo, non tanto per me, quanto per l’università, che ne ha sofferto. Lei è uno scienziato, ed è chiamato ad un compito difficile: proseguire l’opera di un rettore “letterario” come Luciano Russi. Quali saranno gli elementi di continuità e quali quelli di innovazione? Luciano Russi ha avuto molti meriti, uno dei quali è stato quello di creare una squadra, che ha lavorato alacremente con lui per costruire quella che oggi è l’Università di Teramo. Tutti possiamo dire di aver contribuito, e la mia è una posizione sostanzialmente allineata al pensiero che ha guidato quello che per me è stato non uno ma “il” rettorato. La continuità con Russi riguarda sicuramente alcune scelte strategiche, come l’attenzione al le esigenze del territorio in cui l’Università opera, non solo il territorio provinciale ma anche quello regionale. Dall’altro lato (ma non si tratta di discontinuità) c’è una precisa esigenza
di certificare la qualità: non basta “dire” che produciamo laureati eccellenti, bisogna verificare che il nostro percorso formativo funzioni e che dia occupazione. Questo tipo di azione prevede che la conoscenza dei nostri risultati non sia più solo epidermica, ma che vada tradotta in numeri, in quantità. Per questo abbiamo investito su un’analisi del processo formativo, e la stiamo spostando dal processo a quello che io chiamo “prodotto”, cioè al laureato. Stiamo esaminando, ad esempio, il grado di soddisfazione dei laureati teramani quando entrano nel mondo del lavoro ma stiamo cercando di misurare anche il grado di soddisfazione delle imprese che li assumono. Pura amministrazione, ma moderna, per qualificare il nostro percorso e garantire sicurezza agli studenti, e alle loro famiglie. Quali saranno i mezzi con cui pensa di ottenere tali risultati? Ci sono due elementi su cui puntiamo per il prossimo futuro: uno è rafforzare ulteriormente la ricerca. L’idea alla base dell’istituzione universitaria è quella di alimentare la propria didattica con la ricerca, e vorremmo che venisse riconosciuta alla nostra Università la capacità di coniugare questi due aspetti. Credo che Teramo sia ormai pronta ad entrare in questa partita: trovare il settore di ricerca e mantenerlo produttivo, vivo, attualizzato. La ricerca di base, poi, ha bisogno di essere finanziata pubblicamente, ma i tagli delle ultime leggi hanno ridotto i contributi, costringendo anche Università piccole come la nostra ad investire risorse proprie in tutte e due le componenti. Una nuova legge sta cercando di regolare il rapporto tra ricerca e finanziamenti, e io credo che il UNIVERSIVARIO TERAMO
«Meno quantità, più qualità» promette Mattioli. «Ovvero: meno corsi di laurea ma una formazione più completa per ogni studente»
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rapporto con la Regione sia fondamentale a tale riguardo: l’Ateneo di Teramo produce, da solo, circa 1300 laureati l‘anno, le altre Università abruzzesi anche di più, quindi credo si possa tranquillamente affermare che siamo noi, come Università, a creare la nuova classe dirigente, e la Regione deve tenerne conto. D’altronde avete Facoltà che si relazionano in modo molto forte col territorio, per esempio Agraria e Veterinaria, che forniscono un notevole apporto tecnologico alle realtà locali... Il trasferimento tecnologico è importante, ma assolutamente inutile se non si implementa il know-how dei settori oper ativi e dei quadri dirigenziali deputati a riceverla. Bisogna aumentare le capacità di gestire la tecnologia. E qui arriviamo al secondo elemento, che è la formazione post-laurea, sulla quale vogliamo puntare molto. Uno degli strumenti è certamente quello dei Master, che per noi sono stati fino ad oggi dei punti di forza e che noi rimodelliamo in funzione dell’evoluzione del mercato. Per questo motivo, il secondo strumento sul quale vogliamo insistere è il cosiddetto long life learning, la formazione permanente. Non è ancora molto sviluppato in ambito accademico, ma abbiamo già una sessantina di progetti approvati dalla Regione per un’azione di tal genere nelle imprese. E vorremmo farlo, selettivamente, coi nostri laureati, così da mantenere un legame con loro per l’aggiornamento costante delle loro conoscenze. Lei è bolognese, ma è qui da diversi anni. Vede un mutamento nei rapporti tra Università e Regione, come Ente e come società? A tutt’oggi l’esperienza con l’Ente è poco consistente. Alcune interazioni Università-Regione
si sono verificate con la Facoltà di Agraria: in questo campo prima, quando si presentava un problema, la Regione istituiva sul territorio dei centri di ricerca; oggi magari dà l’incarico all’Università. Credo che questo sia un processo di fondamentale importanza, ma finora, a discapito dei risultati pur lodevoli ottenuti dagli atenei della regione, è stato messo in atto poche volte. Oggi si avvertono segnali nuovi, ma aspetto i fatti. Rispetto all’attenzione e all’attaccamento della società abruzzese per la propria Università posso dire che esistono zone in cui è vivo il rapporto della società con l’Ateneo, mentre in altre c’è una sorta di distacco. Spesso ci sono manifestazioni che indicano una forte esigenza culturale da parte della società , ma è un fenomeno ancora a macchia di leopardo. La crescita è lenta e diseguale. Come ha ricordato, io vengo da Bologna, dove la situazione è diversa: l’Università per il bolognese è un vanto, anche perché è radicata da novecento anni sul territorio. Qui la cosa non è così evidente, l’istituzione universitaria forse non fa ancora parte del genoma abruzzese, ma il “feeling”, pur se lentamente, cresce. E il genoma dello studente a Teramo qual è? Molto diverso a seconda dei corsi: alcuni provengono dalla provincia e dalla regione altri dal territorio nazionale. Giurisprudenza è la facoltà che registra una popolazione studentesca più composita, anche grazie al prestigio acquisito, così come veterinaria che conta su una forte utenza nazionale. In questi casi la differenza rispetto agli altri corsi è più evidente, perché c’è uno scambio più vivace tra i giovani. Per creare una proposta valida, s tiamo lavorando anche per limitare l’offerta formativa che ora sta tornando ad un livello ponderato, rispetto alla eccessiva moltiplicazione di corsi degli anni scorsi che creava UNIVERSIVARIO TERAMO
confusione e disorientamento nello studente. Noi stiamo cercando, poi, di offrire agli studenti una proposta formativa che, nella sua razionalità, comprenda attività culturali ad ampio raggio, come le esperienze con la musica, la radio e la televisione interne all’Università, attività che anche il Ministero sta inserendo tra quelle curriculari. Quindi assisteremo ad una minor proliferazione di corsi e ad un ampliamento dell’offerta collaterale? Sì: meno quantità ma più qualità, anche con percorsi personalizzati. Questo è un punto sul quale, pur se con molte difficoltà oggettive, stiamo lavorando. Se uno studente non ha tempo per reggere il ritmo imposto dal ciclo di studi, perché magari è uno studente lavoratore o perché ha una flessione sulla resa degli studi, potrà decidere di laurearsi in un maggior numero di anni, personalizzando il percorso formativo secondo le proprie esigenze. Vogliamo evitare cioè che uno studente fuori corso si ritrovi a sostenere esami ad anni di distanza dalla frequenza delle relative lezioni. L’ideale sarebbe che ognuno seguisse le lezioni e sostenesse subito il relativo esame. Tre buoni motivi per invitare un neodiplomato ad iscriversi a Teramo? Un rapporto immediato e più facile con i docenti, una cornice ambientale interessante, la possibilità di entrare veramente “dentro” l’Università: nel senso di prendere parte alla progettazione e alla programmazione e soprattutto di diventare soggetti attivi nella ricerca e nei laboratori, dove si ottengono tra l’altro anche crediti formativi. Lei è appena stato eletto e sarà Rettore per i prossimi quattro anni. Che dovrà accadere per farle dire, alla fine del mandato, “ho raggiunto il mio obiettivo”? Dentro la nostra struttura ci sono colleghi che nei RICERCA E QUALITA’ ECCO IL MIO ATENEO
loro settori rappresentano l’eccellenza. Hanno le ali, e vorrei che volassero. Ecco, mi piacerebbe creare le condizioni affinché chi ha dei numeri li possa spendere al meglio . Questa è la prima cosa. Mi piacerebbe, poi, che Teramo diventasse una sede desiderata per i docenti. Io ad esempio, sono venuto qui perché in tre anni ho pubblicato molto di piùdi quanto facevo a Bologna, grazie a condizioni più favorevoli per la ricerca. In alcuni settori è già così, ad esempio per chi lavora nelle biotecnologie. Vorrei che Teramo diventasse una piccola Bocconi, centrata sulla ricerca. C.C.
Il Rettore, Prof. Mauro Mattioli Mauro Mattioli è stato eletto rettore dell’Università degli Studi di Teramo il 7 luglio 2005. È nato a Castelfranco Emilia (Modena) nel 1953. È sposato con tre figli e vive a Teramo da alcuni anni. Ordinario di Fisiologia veterinaria, nel 1995 è stato preside della Facoltà di Medicina veterinaria. È stato promotore della nascita della Facoltà di Agraria di cui è stato preside nel 1998. Dal 1999 è prorettore dell’Ateneo. Dal 1981 al 1985 Mauro Mattioli è stato ricercatore presso: L’Institute of Animal Phisiology di Cambridge; il National Institute for Research di Dayring (Inghilterra); l’Animal Research Station di Cambridge. Dal 1987 al 1994 è stato professore associato presso il Dipartimento di Embriologia molecolare di Cambridge e presso l’Emory University School of Medicine di Atlanta (Georgia) ed è stato professore a contratto presso l’Istituto di Biologia cellulare della Facoltà di Medicina di Ottawa (Canada). Le attività di ricerca del professor Mattioli –che si sono concretizzate in circa 200 pubblicazioni– si sono concentrate sulle basi fisiologiche della riproduzione con particolare attenzione alla biologia del processo fecondativo.
In queste pagine, da sinistra: Il Campus di Coste Sant’Agostino; due momenti di Pergamene in concerto 2006.
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Laurearsi, che esperienza! iero ha 42 anni, è diplomato, sposato, ha due bambini.È maresciallo della Guardia di Finanza:la mattina si alza alle sette e va in caserma, prende servizio e si mette alla sua scrivania. Il suo compito è indagare sul settore bancario, uno dei più scottanti.Un lavoro che lo impegna fino al tardo pomeriggio. Giovanna, 48 anni, invece è ragioniera in una ditta che vende attrezzature informatiche. Anche lei diplomata, ha lasciato l’università dopo sei esami per dedicarsi al lavoro, al marito, alla sua bambina. Massimo, giornalista affermato, si alza più tardi degli altri, ma la sera è costretto a fare le undici per chiudere le pagine del quotidiano per cui lavora.La sua giornata è dura,certo non come quella del suo amico Andrea, poliziotto, che avrebbe preferito stare a casa con la sua famiglia piuttosto che pattugliare le strade con questo tempaccio. Piero, Giovanna e Andrea hanno vite diverse, ma una cosa in comune: tre sere a settimana si incontrano nell’aula della Facoltà di Scienze Manageriali di Viale Pindaro,dove seguono il corso serale di Economia e Management, studiato apposta per chi, come loro, ha ancora voglia di mettersi in gioco. Massimo invece usa il suo giorno libero, il sabato, per frequentare il corso intensivo di Sociologia presso la Facoltà di Scienze sociali a Chieti. E non sono i soli: con loro tornano in aula i commercialisti, gli impiegati di ogni ordine e grado, ma anche ingegneri, medici e architetti. Se il fenomeno era sporadico fino a qualche anno fa,ora quella degli studenti lavoratori è una fetta cospicua della popolazione studentesca universitaria. L’origine di questo fenomeno sta in primo luogo nella riforma dell’ordinamento universitario (legge 509/99), ma soprattutto in un decreto legge, il 448 del 2001, che consente a chiunque di vedersi riconosciuta l’attività professionale e universitaria pregressa al fine di ottenere
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Qui sopra, l’Aula magna dell’Università “d’Annunzio” a Chieti. Nella pagina a fianco, una panoramica del Campus.
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crediti formativi; il che, tradotto in soldoni, significa avere una corsia preferenziale per ottenere una laurea. «Abbiamo stretto una serie di convenzioni con varie categorie professionali –spiega il Rettore Franco Cuccurullo– ed è una grande sfida di qualità, nel segno della sobrietà. È un progetto solido e socialmente valido».Le categorie interessate sono Polizia di Stato, Polizia Penitenziaria, Guardia di Finanza, Carabinieri, Corpo Forestale, personale civile dei Ministeri e Ordine dei Giornalisti, con il quale è stata stipulata l’ultima di queste convenzioni. Si chiama “Laureare l’esperienza”, coinvolge –per ora– solo le Facoltà di Scienze Manageriali e di Scienze Sociali,ed è la prima convenzione di questo tipo in Abruzzo e la sesta in ordine di tempo sul territorio nazionale, su otto Atenei partecipanti. «A proposito della convenzione con l’Ordine dei Giornalisti –precisa il professor Ezio Sciarra, Preside della Facoltà di Scienze Sociali– va chiarito che non c’è un numero fisso di crediti riconosciuti ai professionisti e pubblicisti che vogliano laurearsi. Ma si può comunque considerare un quantitativo congruo, e che può consentire, a volte, l’iscrizione ad anni successivi al primo». Il progetto “Laureare l’esperienza” è però solo l’ultimo tassello di un programma di avvicinamento al mondo del lavoro iniziato, per l’Università italiana, con la ormai celebre riforma Moratti. «La legge 509 del 1999 –continua il professor Sciarra– dividendo il ciclo di studi in due tronconi (il famoso 3+2) ha cercato di rendere più produttiva l’attività dell’Università, aumentando la spendibilità del titolo triennale con un più veloce inserimento del laureato sul mercato del lavoro». Al professor Sciarra fa eco il professor Giuseppe Paolone, Presidente del corso di laurea in Economia e UNIVERSIVARIO CHIETI/ PESCARA
Qui sopra, il Rettore della “d’Annunzio” Franco Cuccurullo. Nella pagina a fianco, il preside della Facoltà di Scienze Sociali, professor Ezio Sciarra, e il presidente del corso di laurea in Scienze Manageriali, professor Giuseppe Paolone.
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Management della Facoltà di Scienze Manageriali: «L’Università italiana è sempre stata distante dal mondo del lavoro. Oggi le cose sono cambiate, lo scollamento si è ridotto notevolmente,ed è un processo inarrestabile. Prima della riforma universitaria i rapporti con il mondo del lavoro erano circoscritti ad alcuni esperti chiamati a svolgere docenza presso vari atenei, tra i quali, in particolare, quelli privati della Luiss e della Bocconi,da cui anche gran parte del loro successo. Vedere un esponente dell’imprenditoria,ad esempio,o della Pubblica Amministrazione insegnare in un Ateneo statale era una cosa rarissima. Oggi invece non solo quella del docente esterno a contratto è una pratica diffusa, ma è il primo passo verso un’integrazione sempre più stretta tra le due realtà, accademia e mercato del lavoro». Il decreto sul riconoscimento crediti risponde ad una triplice esigenza: quella del Ministero, di incrementare il numero di laureati; quella dei lavoratori, di ottenere una laurea senza dover ricominciare da zero; quella dell’Università, di aumentare il numero di iscrizioni al fine di potersi sostenere, dato che i finanziamenti statali sono sempre meno. «Lo stato dei fatti –conferma il professor Paolone– è questo. Ma bisogna stare attenti a non confondere uno studente lavoratore con uno studente di serie B, una specie di strumento per acquisire risorse. Comunque un numero elevato di iscritti consente di contenere la tassa d’iscrizione, che nel caso della “d’Annunzio”risulta essere tra le più basse d’Italia. E poi lo studente lavoratore è una persona che ha maggiori competenze di un normale giovane che si
iscrive ad un corso di laurea. Ho sempre pensato che l’università italiana sfornasse dei “semilavorati”, piuttosto che “prodotti finiti”, ossia che lo studente che si laureava in cinque anni con il vecchio ordinamento avesse bisogno di un ulteriore approfondimento delle sue competenze in senso pratico per potersi correttamente inserire in una qualsiasi realtà lavorativa. Oggi non è più così per i giovani iscritti, quindi figuriamoci per chi queste competenze le ha già acquisite sul campo». Questo nuovo assetto provoca mutamenti anche nel modo di insegnare: formazione a distanza (teledidattica), corsi serali e corsi intensivi sono gli strumenti a disposizione degli Atenei per garantire un corretto apprendimento delle materie di studio: «Noi finora non abbiamo attivato corsi serali –spiega il professor Sciarra– ma lavoriamo molto con la teledidattica e i corsi intensivi. E ovviamente anche i programmi subiscono variazioni sostanziali. Per fare un esempio pratico, un dipendente del Ministero dell’Interno che deve sostenere un esame di Statistica avrà un programma ben diverso da quello di un laureando del biennio specialistico, perché, dato il carattere professionalizzante della laurea triennale e date le esigenze del professionista, imparare la Statistica in funzione della ricerca e dell’alta formazione non ha senso. Ma se lo stesso impiegato in un futuro avesse voglia di conseguire la laurea specialistica, si troverebbe davanti una materia di ben diverso spessore». «Noi invece –risponde il professor Paolone– puntiamo molto sulle lezioni serali. Abbiamo un gran numero di studenti da tutta Italia, e offriamo condiUNIVERSIVARIO CHIETI/ PESCARA
zioni molto vantaggiose, fruibili ovviamente da chi risiede in Abruzzo: lezioni dalle 20 alle 23, esami il sabato, tutorato e programmi personalizzati». Una presenza massiccia, quella degli studenti lavoratori nell’ultima nata delle Facoltà della “d’Annunzio”:circa mille tra questi, laureati e laureandi, in tre anni, da quando cioé è in vigore la legge 448/01. «Abbiamo poco meno di seimila iscritti, e il numero di studenti lavoratori da noi è quindi molto elevato. D’altronde le nostre discipline sono utili a tutti coloro che lavorano nell’impresa, sia pubblica che privata, a vari livelli: e il numero di crediti riconosciuti, pur variando da caso a caso, può essere molto alto, tanto da consentire di laurearsi anche in un anno». «Va sottolineato –precisa Sciarra– che questo stato di cose non significa che regaliamo lauree a chi ne faccia richiesta.È vero che a volte il percorso formativo e professionale pregresso consente di ottenere un cospicuo numero di crediti, e che i programmi sono concepiti “ad hoc” per ogni singola categoria, ma è pur vero che le competenze vengono verificate: cerchiamo sempre di ottenere la qualità. Un laureato incompetente non serve a nessuno». Che l’Università non sia diventata un “laurea shop” è dimostrato dai numeri: tante iscrizioni (per Scienze Manageriali si può parlare di un raddoppio, con 2100 nuovi iscritti su 5200 totali), ma anche tante presenze in aula,e con una caratteristica principale, l’entusiasmo. «I nostri corsi serali –continua Paolone– sono molto affollati. Ci sono persone che lavorano otto-dieci ore al giorno e quando arrivano a lezione la sera sono svegli e attenti, interagiscono con i docenti e tra di loro, il clima è sereno e la sodLAUREARSI CHE ESPERIENZA
disfazione è palpabile, da entrambe le parti. Tra di loro so che si vedono anche al di fuori dell’ambito universitario,quindi è positivo che si stringano relazioni tra diversi ambiti professionali. E sono qui tutti per lo stesso scopo,cioé consolidare ed aggiornare le loro competenze». L’identikit del nuovo studente lavoratore è quello di un professionista, libero o dipendente, fra i trentacinque e i cinquant’anni. Benché tutti possano accedere al riconoscimento crediti, la maggior parte della popolazione studentesca lavoratrice è costituita, per Scienze Sociali, da Polizia di Stato, personale civile del Ministero dell’interno e giornalisti; per Scienze Manageriali «da commercialisti, ragionieri commercialisti, e in genere da tutte le figure professionali legate al mondo dell’impresa pubblica o privata, nonché giornalisti (per i quali è stato parificato il quantitativo di crediti riconosciuti tra pubblicisti e professionisti) ma anche categorie come ingegneri, architetti e medici: ad esempio un medico può conseguire la laurea specialistica in Economia e Management per diventare Manager sanitario. Avere competenze manageriali non fa parte del loro bagaglio formativo accademico, e se le hanno si tratta di conoscenze derivanti dall’attività professionale, quindi non strutturate. Queste categorie avvertono la mancanza di managerialità nell’espletamento delle loro funzioni ordinarie. Un medico può essere bravo a fare il medico ma non conosce gli strumenti manageriali per gestire grandi realtà come una Asl o una clinica, o anche piccole realtà come un semplice ambulatorio» F.G.
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Ribalta Tutto quanto fa Ribalta: cercate un modo raffinato di arredare la vostra casa? Soluzioni originali che durino nel tempo? Visitate con noi l’atelier di Ferri arredamenti, a pagina 66. Nella terra del vino nasce una novità: la birra. Si chiama Almond ‘22 ed è completamente artigianale, assaggiatene un bicchiere a pagina 68. Non dimenticate di fermarvi con noi a visitare alcuni locali in Abruzzo, che troverete a pagina 69.C’è una festa molto particolare a L’Aquila che non mancherà di interessarvi: guardate di che si tratta a pagina 70. Sono venute a trovarci una brava attrice, una scrittrice, e anche una cantante: si chiamano tutte Daniela Musini! Sentite cosa ci ha raccontato a pagina 72. Si comincia a parlare di un’ensemble musicale dal nome altisonante: Fidelio. Se volete conoscerli, sono a pagina 73.Tanta musica a pagina 74: un ragazzo che promette di diventare cantautore, il nuovo disco di CUBA e Dj Dsastro e, per la prima volta sulle nostre pagine, anche il mitico Lou Reed, protagonista del Winter Festival di Teramo. Poi a pagina 76 conoscerete un regista che, malgrado la sua giovane età, vede tutto... Nero. E ancora Moviementi nelle pagine seguenti: occhio ai lupi, ai Carboni, all’agave e soprattutto a non farvi venire la… febbra! L’Aquila è stata teatro di uno spettacolo speciale: lo scoprirete a pagina 80. La verità su Cesare e i Galli? Ve la racconta il libro di Giovanni D’Alessandro, a pagina 82. E poi tanti libri per tutti i gusti da pagina 84 a pagina 86. Artisti e luoghi alternativi per l’arte? Li trovate a pagina 88. Che storia, quella raccontata a pagina 90: guerra, amori e amicizia nel XV secolo. Abbiamo conosciuto una gran bella persona: si chiama Luciana Orsatti, fa la psicanalista e ve la presentiamo a pagina 92. Tutto il resto, come al solito, è Tabù.
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POSTI GIUSTI
Complimenti d’arredo esign uguale arte uguale cultura. Quest’equazione vi suona strana? C’è un luogo a Pescara dove invece è normale avere voglia di sdraiarsi placidamente sul divano Bubble Rock di Piero Lissoni, o di mangiare sul tavolo in cristallo di Renzo Piano, mentre si ascolta un attore recitare poesie o si incontra l’autore di un libro, o mentre si ascolta un quartetto d’archi. È un loft in pieno centro, un luogo dove si incontrano passato e futuro in forma di oggetti preziosi, espressioni di un gusto intramontabile destinato ad una lunga vita. Sono i lineamenti di uno stile, i tratti di un arredo in cui il design diventa arte vissuta nel quotidiano. Non di rado infatti in questo angolo di Pescara vengono organizzate mostre tematiche, esibi-
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Ferri Arredamenti Srl Corso V. Emanuele,17/19 65121 Pescara tel. 085 4211651 fax 085 2058084
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zioni musicali, readings e presentazioni di libri: «Sono occasioni culturali –raccontano Aida Ferri e Angela Molinari, la sua preziosa collaboratrice– in cui cerchiamo di trasmettere ai clienti una proiezione della loro possibile dimensione di casa che sia in grado di coniugare le scelte dettate dalla passione con la razionalità e la funzionalità che un ambiente domestico deve avere». Non un vezzo, quindi, non un’idea per rendere “diverso” uno spazio espositivo, ma anzi una marcia in più per mostrare ad un cliente come potrebbe essere la sua futura casa. «Il servizio al cliente non è orientato all’obiettivo della vendita fine a se stessa, ma ad un percorso di partecipazione e condivisione di uno stile d’arredo capace di conciliare, al
presente e nel tempo, gusto e funzionalità». Nello spazio espositivo nulla è lasciato al caso; è chiara la filosofia che informa l’attività ormai ventennale di Aida e Angela: «I nostri spazi definiscono un ambiente armonico e coordinato al centro del quale vive e si muove il nostro cliente che è il destinatario finale del nostro impegno e della nostra ricerca». Una ricerca che ha come risultato la scelta di un habitat sobrio, piacevole ed originale, mai eccessivamente audace: «Evitiamo con cura condizionamenti dettati dalle tendenze che vivono una sola stagione», ribadisce Aida. Stessa passione e stessa filosofia sono sottese anche alle scelte riguardanti l’arredo di un ambiente non casalingo, come ad esempio quello di un ufficio: «Il
luogo dove trascorriamo una parte importante della nostra quotidianità –continua Aida Ferri– è un nostro ambiente, e come tale merita, accanto alla necessaria funzionalità, di essere arredato con sobrietà, originalità, eleganza e raffinatezza. In questo percorso di design anche piccoli oggetti nati originariamente per la casa possono rendere più accogliente un ambiente istituzionale –meno ancorato così a rigidi schemi che appartengono al passato– senza che questi risultino ad esso estranei». Un sogno, un desiderio, una passione, possono tradursi in un design elegante e raffinato. A Pescara, senza andare lontano. Michela Ciavatta
Nella pagina a fianco, Aida Ferri (seduta nella poltrona Ball Chair di Eero Aarnio) e Angela Molinari. Nelle altre foto, alcuni degli oggetti che popolano lo spazio espositivo di Ferri Arredamenti. In alto, una panoramica del loft. Sopra e a fianco, alcuni esempi di ambienti arredati da Aida e Angela: due uffici, una camera da letto e un’aula universitaria.
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COSE BUONE
Birra dal nome di mandorla alla terra del vino, l’Abruzzo, oggi nasce anche… la birra. Si chiama Almond ‘22, e il suo creatore è Jurij Ferri, 37 anni, un simpatico e intraprendente insegnante di inglese appassionato di cucina: «Il mio sogno era fare il cuoco, ma non sono riuscito a realizzarlo. Così ho trasposto la mia passione per la cucina nella produzione della birra». Svedese di origine, trapiantato a Pescara, Yurij ha studiato chimica, e ha sempre avuto l’hobby della distillazione: «Oltre ai classici liquori casalinghi, qualche anno fa mi sono cimentato con la birra, dopo che avevo conosciuto la tecnica da un altro mastro birraio. Ho cominciato a farla assaggiare agli amici, e la reazione è stata tanto positiva che sono stati proprio loro a spronare me e mia moglie ad allargare i nostri orizzonti». E così, due anni fa, i coniugi Ferri hanno preso possesso dello stabile in via Colle di Mezzo, e lì hanno dato il via alla produzione con un primo impianto autocostruito: «Adesso ho quello che nelle industrie si chiama impianto pilota,che serve a fare esperimenti di produzione. Per ora è sufficiente –racconta Jurij– ma la domanda è tanta e stiamo pensando ad allargarci». La produzione mensile si aggira intorno alle seicentoottocento bottiglie, di cui il sessanta per cento va ai ristoranti e alle enoteche della
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ALMOND ‘22 Microbirrificio artigianale Via Colle di Mezzo 25, Pescara tel. 3923330333 www.birraalmond.com info@birraalmond.com
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zona, che «Si mostrano molto interessate al prodotto. Alcuni ristoranti hanno incluso le Almond ‘22 nella carta dei vini, e la nostra popolarità è in crescita. Il resto viene venduto al pubblico. Abbiamo attualmente quattro tipi di birra diversi: la bionda Irie, la Grand Cru ambrata, la Fredric rossa e la Nigra, la nostra proposta stout». Le birre Almond sono prodotte con il metodo champenoise: sottoposte a fermentazione, vengono poi rifermentate in bottiglia, per cui il sapore si evolve a distanza di tempo. «Per preservare le qualità organolettiche, non sono sottoposte a filtraggio e pastorizzazione. Qui arriva l’acqua di Farindola, particolarmente idonea per questo tipo di lavorazione, e usiamo solo le migliori materie prime reperibili sul mercato nazionale ed internazionale, soprattutto quelle del mercato Equo e Solidale. A seconda della birra che voglio ottenere, utilizzo poi varie spezie: buccia d’arancio dolce, fiori d’arancio, boccioli di rosa selvatica, miele biologico abruzzese, lo zucchero integrale». Il birrificio è aperto al pubblico per degustazioni il sabato pomeriggio, e presto si arricchirà di una nuova creazione: «Ho in mente una nuova birra che presto si aggiungerà alle quattro già commercializzate. Inoltre sto lavorando con Giovanni Del Giudice (il noto imprenditore del settore caseario) per produrre formaggi stagionati con le trebbie, cioè i resti della lavorazione. Conferiscono al formaggio un aroma eccezionale».Visti i risultati, c’è da credergli. F.G. RIBALTA
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SOSTE GOLOSE
EMPATIA E ALTRE STORIE e la cultura fosse un bicchiere di vino sorseggiato davanti a un libro o davanti alle “onde” del web, avrebbe un nome: Empatia ed altre storie. Dislocato su tre superfici, arredate da scaffali di libr i e computer, Empatia ed altre storie nasce come locale di incontr o e confronto culturale. Al progetto hanno ader ito artisti, editori, cr itici letterari, scrittori e g iornalisti, contr ibuendo alla cr eazione di uno dei centri pulsanti del sapere teramano. Stabilire un rapporto empatico tra l ’artista e il pubblico è all ’origine dell’organizzazione di eventi quali la presentazione di libri e mostre d’arte. Ma non manca la possibilità di instaurar e un rappor to empatico, anche fra conoscenti, durant e le frequenti degustazioni di vini o mentr e si sorseggiano gli aperitivi a tema offerti dagli amici di Empatia. Oltre alla consumazione, nel caffè-wine bar si possono acquistare libri e saggi e, per tenersi aggiornati sugli eventi, è disponibile l ’iscrizione alla newsletter su www.empatia.net. Alessandra Campanile
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EMPATIA via G. Milli 4, Teramo
ROMANTICO E CHIC el cuor e della città, in una delle vie del centr o or mai conosciuta come l’altra faccia della vita nottur na pescarese, sorge un’ elegante quanto graziosa caffetteria – così ci t engono a sott olineare le due pr oprietarie, le sor elle M arcella e P atrizia Nobilio– ispirata al classico stile nordeuropeo. Un luogo accoglient e, do ve
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poter gustare prodotti ricercati, di qualità: vari caff è ar omatizzati di lor o in venzione, cioccolata ar tigianale modicana, il tutt o sapientemente accompag nato dall ’altra punta di diamante, la pasticceria fresca siciliana. Ma non solo: per gli amanti dell ’aperitivo, Le Cafè offre, insieme alle migliori etichette di vini abruzz esi e non, alcune tra le più par ticolari bir re in bottiglia bel ghe e alla frutta. C ura dei particolari e originalità, sono le cr edenziali di un ottimo servizio. Miriam Di Nicola
LE CAFÈ Via Piave 14, Pescara
MUSICA SÌ, MA SOLO DOC tufi di vagare per i “soliti locali del centr o storico” di Pescara? Annoiati dalla poca vivacità che in inverno regna sulla costa? Desiderosi di un buon concerto rock (e non solo)? Allora prendete la macchina e pr eparatevi ad una scampag nata in quel di San Valentino, dove è d’obbligo fare un salto al Sans Papier, “senza documenti”, come i clandestini francesi. Marcello Natarelli e Andrea Di Giambattista, due musicisti noti del “giro” (vi dice niente il nome M alaerba?) hanno battezzato così il lor o locale, per dare l’idea di un luogo do ve ognuno possa sentirsi libero e senza restrizioni. Nato alla fine del 2004, il Sans Papier si caratterizza soprattutto per un’offerta musicale davvero notevole: sul piccolo ma confortevole palco si sono esibiti Moltheni, L’aura, Santo Niente, Rumorerosa, oltre a band int ernazionali come The Russian F uturist o Landmine Spring. E naturalment e la pr ogrammazione live è accompag nata dai D j set più in voga: Horobi by Mamakillers, Umberto Palazzo, Ilcontemax sono solo alcuni degli “stimolatori musicali” che trascinano i clienti in serat e ad alto tasso di adr enalina. E non è solo la musica a far da protagonista: il bancone del bar ospita l ’ottima birra anglo-belga John Martin e la scura praghese Krusovice; in cucina si preparano piatti a base di alimenti del Commercio Equo e Solidale, a testimoniare una volontà di impegno sociale che i due soci por tano avanti anche nel loro piccolo. E scusate se è poco. F.G. Lou Reed
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SANS PAPIER Via Trieste 14, San Valentino in Abruzzo Citeriore (PE)
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DIECI DOMANDE A…
DANIELA « Compirò 50 anni a novembre, mi dicono che ne dimostro 40, me ne sento 23. Siccome credo di arrivare a viverne 100, me ne restano solo altri 50, quindi non perdiamo tempo». Curiosa, instancabile e torrenziale, Daniela Musini si è data al bel canto. Mancava questa passione al suo carnet, dopo la musica (diplomata in pianoforte) il teatro (attrice prima, poi autrice) e la letteratura (I 100 piaceri di D’Annunzio e Vita di Lucrezia Borgia i lavori più recenti). A sentir lei, un appuntamento rimandato: «Dovessi definirmi con due parole, direi pathos e affabulazione. Il primo mi viene da nonno Mimì, la seconda da nonna Maria. Il canto lirico unisce questi aspetti, mi completa. Adoro avere un pubblico, emozionarlo: che c’è di meglio di un’aria di Puccini?». Così, due anni fa, si presenta da Valentina Giammarino, allieva di Emma Valentina Raggi (maestra di Renato Bruson e Luciano Pavarotti), e comincia a prendere lezioni. «Quando ho detto alle mie figlie che avrei iniziato un altro percorso artistico, si sono preoccupate. È la cosa più faticosa che io abbia fatto, anche la più bella. Un’ora e mezza di lezione mi distrugge, ma l’affronto con grande umiltà, mi dispongo ad apprendere come una sedicenne. Ho la sindrome dell’allieva, forse perché sto in cattedra tutti i giorni. Sono “di dannunziana immodestia e francescana umiltà”, anche se alla seconda parte non crede nessuno». Di recente è tornata in tv, per uno speciale di “Passaparola”, il popolare quiz condotto da Gerry Scotti, di cui è stata campionessa nel ‘98, per sfidare altri campioni. Le abbiamo posto alcune domande sulla sua vita artistica, professionale e privata. Saggistica o narrativa? Ho scritto solo saggi e per i prossimi cinque anni scriverò solo saggi. Riguardo alla narrativa dico che non mi piace che mi vedano dormire. Veder dormire una persona è entrare nella sua intimità, una violazione dell’intimità che si riserva solo a quelli con cui vuoi condividerla. Inevitabilmente sarei autobiografica in un romanzo. Sono estro-
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MUSINI
versa, ho un ego cotonato come i capelli di Moira Orfei e mi piace stare sotto i riflettori, ma non così. Non mi addormenterei in treno a costo di mettermi gli spilli sugli occhi. Quindi per ora il romanzo è escluso. Il rapporto con la morte? Sicuramente esorcizzo le mie paure vivendo intensamente. “Vivere ardendo e non bruciarsi mai”, diceva D’Annunzio; io non è vero che non mi brucio, anzi mi sono bruciata tante volte… e mi piace.“La fiamma è bella… la fiamma è bella” è l’ultima frase de La figlia di Jorio. Il fuoco è un elemento primario. Amo i paesaggi desolati, l’autunno non mi mette tristezza. Potrei essere tristissima in una luminosa giornata di primavera, di un’azzurra felicità durante una giornata nuvolosa. Più Duse o più D’Annunzio? Di primo acchitto direi Duse, ma più
profondamente D’Annunzio: quella di dannunziana è una cifra che contraddistingue la mia attività teatrale, di narratrice e scrittrice. La Duse non si amava abbastanza, non aveva capacità di difendersi, era smarrita, non aveva l’ironia che invece mi salva. C’è molto D’Annunzio in me, abbiamo una forte empatia, altrimenti avrei scelto Silone. Ma forse è lui che mi ha scelto. Sono egocentrica quanto lui, amo stupire, reinventarmi, accendo e spengo l’interruttore degli interessi (anche in privato) prima che mi facciano male… Questa poliedricità è la mia caratteristica principale. Più Luna o più Sole? Agli altri faccio credere di essere più Sole. Più donna o più bambina? Una donna che però è molto bambina, per la capacità di stupirsi, meravigliarsi, conoscere. Le mie figlie temono che a sessant’anni mi metta a ballare sulle punte. Invece vado a lezione di tango argentino, la summa di quel che io sono come donna e del rapporto tra uomo e donna. Sono tradizionalista. Cinema o teatro? Assolutamente teatro. Ho bisogno, ho voglia del pubblico, devo sentirlo, vedere gli occhi della gente, dissetarla, loro devono berti. A Istanbul ho recitato La pioggia nel pineto: gli spettatori avevano la traduzione, ma quando ho cominciato guardavano solo me, ascoltavano la mia voce. Jim Morrison o Einstein? Jim Morrison: viscerale, eccessivo: amo la sregolatezza perché devo condurre una vita regolare. Roma o Milano? Rrrroomaaaaaaaaaa! Destra o sinistra? Destra. Sono un’anarchica di destra, anomala e ipercritica, fondamentalmente di destra. Prosa o poesia? Prosa, senza dubbio. Se vado a comprare un libro, prosa o saggi, senz’altro. Ma poesie… le interpreto, le recito, le leggo. Ma la mia scelta è sempre prosa. (F.G.)
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FIDELIO, IDEE E MUSICA Siamo giovani, abruzzesi, siamo animati da grandi ideali, vogliamo offrire un prodotto di alta qualità e abbiamo la passione e l’energia per farlo». Sono le parole con cui Andrea Gallo e Daniele Orlando, animatori dell’associazione musicale Fidelio, spiegano le motivazioni del loro progetto. «Fidelio non è a scopo di lucro e questo, per noi, è un lavoro sicuramente meno redditizio rispetto all’attività concertistica: tutto il lavoro lo facciamo noi, dalla parte organizzativa a quella artistica». Il progetto dell’associazione, però, non è solo quello di “vendere un prodotto”, in questo caso quello costituito dall’indubbio talento dei suoi membri, musicisti giovani, ma già affermati, che hanno avuto la necessità di emigrare da Pescara, dopo gli studi del Conservatorio, per la mancanza di punti di riferimento e per la necessità di continuare a studiare e lavorare: «Il nostro –spiega Andrea Gallo, vicepresidente dell’associazione–è un obiettivo filosofico: far sì che i cittadini vogliano cultura. Ci siamo accorti, studiando e lavorando in altri contesti, che molte città anche più piccole possiedono un’Orchestra Stabile, composta in massima parte da musicisti locali. Organismi che diventano un vanto per la città e creano, per così dire, la domanda culturale. Come dice anche Nicola Mattoscio, (presidente della Fondazione Pescarabruzzo, e al quale vanno i nostri più vivi ringraziamenti per la sensibilità dimostrata), si parla tanto di costruire il teatro, di dove costruirlo e via dicendo, ma il vero problema è riempire, poi, il teatro di persone: una compagnia teatrale, un corpo di ballo, un’orchestra e, soprattutto, un pubblico affezionato e interessato. Un teatro deve essere una fabbrica di cultura e non un edificio a sé stante, vuoto». Il concerto d’esordio dell’associazione Fidelio, che si è svolto proprio nella sala convegni della Fondazione Pescarabruzzo, è stato caratterizzato da una partecipazione di pubblico decisamente incoraggiante. «Se i musicisti sono di alto livello e preparati, noi crediamo fortemente che la musica arrivi a tutte le persone. Spesso si sente dire che per capire la musica si deve
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essere preparati, ma non siamo d’accordo. La musica ha un potere intrinseco: se viene ben interpretata, riesce a coinvolgere. Fidelio è un’associazione che prevede la partecipazione responsabile di tutti e che vuol fare un discorso più completo sulla musica, già al suo interno, imparando dal confronto e, perchè no, anche da una sana competizione». Dal mese di Febbraio fino al 28 maggio partirà una piccola stagione concertistica: sedici appuntamenti pomeridiani ad ingresso gratuito, il sabato alle 18, presso la sala convegni della Fondazione Pescarabruzzo in Corso Umberto 83 a Pescara. L’ensemble, costituito per ora da 18 musicisti, si esibirà in formazioni sempre diverse, così da offrire un programma variegato. «Il nostro organico è aperto, e si fonda su criteri assolutamente meritocratici, come in tutte le orchestre dondividere il palco con il nuovo venuto». Idee chiare, sostenute dall’intraprendenza e dall’amore per la musica: «Anche in momenti di crisi culturale come quello che viviamo, l’arte non va dimenticata, perchè sono le aspirazioni alte che ci spingono a vivere meglio». Fabio Ciminiera
SPOTLIGHT Che fosse una giovane promessa lo sapevano tutti,ma ora Ludovica Conti,la bella violinista pescarese, sta facendo sentire la voce del suo strumento anche all’Europa: è infatti stata ammessa –unica italiana– al corso di violino dell’Accademia Internazionale di Imola, tenuto dal M° Pavel Berman. L’Accademia, diretta da Franco Scala, è uno dei più importanti Istituti musicali internazionali. Chiamarsi Conti e fare il musicista deve portare fortuna: Diego Conti (peraltro violinista anche lui,ma senza legami di parentela con la bella Ludovica) sta recitando e suonando nella piéce Soldier’s Tale, tratto dalla Storia di un soldato di Ramuz e Strawinsky del 1918,che il regista 23enne Andrew Steggal ha riproposto RIBALTA
in chiave moderna (e bilingue,in arabo e inglese) ambientandola durante il conflitto iracheno.Lo spettacolo è andato in scena per dieci repliche all’Old Vic,il famoso teatro londinese il cui direttore artistico è Kevin Spacey (l’attore di American Beauty e I soliti sospetti) e si appresta a sbarcare negli Usa ad aprile.È prevista anche una tournée italiana in estate. Massimo D’Anolfi, dopo aver ricevuto il Premio Solinas per Al di sotto del cuore,la sceneggiatura liberamente ispirata all’omonimo libro di Massimo Ballone, ha diretto e presentato alla Facoltà di Lettere di Palermo Play, un filmato che documenta una lezione di direzione d’orchestra del maestro Ennio Nicotra (uno dei più famosi insegnanti di direzione d’orchestra al mondo),con un protagonista d’eccezione come Antonio Ballista (pianista, clavicembalista e direttore d’orchestra). Girato in una cappella sconsacrata a Perugia, dove Nicotra insegna, il documentario sarà programmato da Sky il 15 marzo prossimo. VARIO57
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SOCIETA’
LINGUE IN CONFRATERNITA Non ha l’aspetto del classico club inglese, ma la sera del 21 gennaio è, se possibile, ancora più esclusivo. Sì, perché dal 1975 è intorno ai tavoli del ristorante San Biagio che si riuniscono, dopo la chiusura del Macallé, i componenti della Confraternita dei Devoti di Sant’Agnese, la più antica della città. Non sono ammesse le signore, che hanno formato una congrega a parte e che, ogni anno, ricevono un cavalleresco omaggio floreale. I “Devoti” sono i rigidi custodi della tradizione agnesina: assegnano una sola carica, quella di Priore, al termine di una dura battaglia verbale, rigorosamente senza colpi bassi. Sì, perché non va mai dimenticato che in questa sorta di tutti contro tutti, non si insulta e non si offende, si può colpire ma non ferire. È un confronto che, in passato ha avuto i suoi grandi ed indimenticabili artisti, come Alfredo Properzi, Manlio Marinelli, Gaetano Bellisari, Mario Lolli, taglienti, arguti, brillanti. Ed è rammarico di molti che i “verbali”
delle antiche serate, che pure venivano impietosamente stilati, con tanto di nomi e cognomi, siano andati, da quel che si sa, tutti perduti. Ma sono tanti i gruppi che si riuniscono nei vari ristoranti cittadini e nelle case private, per assegnare i riconoscimenti tradizionali di questa “accademia” tutta aquilana: c’è un Presidente, con relativo vice, la Mamma deji cazzi deji atri (carica che non ha bisogno di spiegazioni), ju Zellusu, rognoso e rompiscatole, la lima sorda, che svolge la sua “attività” in cauta riservatezza, la Recchia fredda, con consolidata abitudine a raccogliere informazioni origliando, e la Lavannara che tra fonte e stenditoio, taglia e cuce dei panni altrui. In condizioni di particolare e comprovato “prestigio”, come l’elezione ripetuta per più anni, la carica può essere assegnata a vita.
S.AGNESE O DELLA MALDICENZA Se siete permalosi o poco realisti, se non vi piace sentire il vostro migliore amico che, senza peli sulla lingua, vi fa presente che non siete esattamente quello che credete, L’Aquila, per un solo, esclusivissimo giorno, non è posto per voi. Sì, perchè ogni anno, il 21 gennaio, la città paludata e austera celebra una sua festa antichissima, quella di Sant’Agnese. Una festa laica, nonostante il riferimento, dedicata alla nobile arte della maldicenza. Alle “lingue lunghe” per dirla con parole franche. E se a Carnevale ci si mette su la maschera per abbandonarsi a scherzi liberatori, all’Aquila il 21 gennaio si fa l’esatto opposto: senza copertura e senza rete. Regola vuole però che in questo giorno si parli, ma non si sparli: non pettegolezzo, dunque, ma storie e personaggi “ridisegnati” con arguzia ed ironia, rigorosamente autentici. Magari illuminati da colorite opinioni. Alle confraternite storiche (la più antica, sulla base dei documenti ufficiali finora reperiti è
LINGUE NELLA TRADIZIONE L’Aquila è città facile da conoscere:lo splendore delle basiliche,la rete dei vicoli,i portoni che si aprono come scrigni sull’incantesimo di insospettabili cortili,costituiscono punti di riferimento inestimabili.Capire L’Aquila è un’altra cosa,significa lasciarsi conquistare da uno spirito agrodolce,sospeso tra le arguzie ereditate dal Regno delle Due Sicilie e il silenzio della montagna, uno spirito che affina il pensiero con l’ironia e l’orgoglio con la libertà.In una parola: è l’“aquilanità”,traccia genetica impressa da una città nobile prima, borghese poi, mai incline a “subir tacendo”.La festa di S.Agnese è figlia di questa strana sensibilità.Sono tante le storie sulla nascita di una tradizione unica al mondo, due quelle che si confrontano in un dibattito a distanza, frutto della ricerca e degli studi di due “agnesini”illustri, Luigi Marra e Amedeo Esposito. Tracciano un percorso diverso per arrivare alla stessa conclusione: la radice di questa ricorrenza, che nulla ha di religioso e molto di terreno, va cercata nel quattordicesimo secolo, in una città ancor giovane, ma ricca di fermenti.Soprattutto poco amante dei potenti, fossero gover-
a cura di Patrizia Pennella
quella dei “Devoti di Sant’Agnese”) si sono aggiunte via via negli anni gruppi più “moderni” formati da categorie professionali (come quella dei giornalisti), uffici (Regione, Carispaq), quartieri, o semplicemente comitive di amici. Un’occasione come un’altra per ritrovarsi a tavola, con il valore aggiunto della piena libertà di parola, tra una portata e un bicchiere di vino.Tradizione vuole che ci si alzi, a turno, per “declamare” le proprie considerazioni, o, in maniera più attuale, per “attivare il confronto”, ma anche simpatici bigliettini, depositati in un’urna o fatti circolare possono supplire alla bisogna, soprattutto quando si tratta di compagnie molto numerose. Alla fine l’elezione delle cariche: anche quelle, come i commendatori, si sono andate un po’ moltiplicando nel corso del tempo. In fondo, nemmeno Sant’Agnese può mancare di pagare il suo pegno alla modernità. nanti o padroni di casa.Eccole allora le due ricostruzioni.Per Amedeo Esposito la festa di S.Agnese è femmina: nasce dall’abitudine delle servette, molte delle quali “malmaritate”e ospitate nel convento intitolato alla Santa, che il 21 gennaio, giorno di festa, godevano della libertà di incontrarsi nelle osterie e di far chiacchiera, stendendo al vento, anzi ai quattro venti, i panni sporchi dei loro padroni.Tutta maschile la storia raccontata da Gigi Marra che ricorda come il 21 gennaio sia stato il giorno del rientro in città di un gruppo di nobili linguacciuti, esiliato per aver messo a ferro e fuoco, a suon di pesanti giudizi la città.La “grazia” fu subordinata alla promessa di silenzio e discrezione “intra moenia”. Promessa mantenuta e aggirata, perché “quelli di S.Agnese”come furuno chiamati, spostarono il punto di ritrovo in un’osteria fuori porta, dove la garanzia offerta cessava di avere valore.Queste le posizioni, in sintesi: chi per curiosità, o per prendere parte, volesse approfondire può farlo sul sito www.maldicenza.it, dove troverà la documentazione di Amedeo Esposito e molti altri spunti, o leggendo Fatti di Lingua, di Luigi Marra, edizioni Hobbit.Male che va scoprirà che fatti e storie di 700 anni fa riescano ancora a strappare un sorriso.
LINGUE IN TAVOLA È vero, la festa di Sant’Agnese si consuma a tavola, ma in settecento anni di storia, ufficiale e non, un pasto tipo non si è mai formato.«Ed è normale che sia così» spiega Luigi Marra, delegato aquilano e componente del consiglio nazionale dell’Accademia Italiana della cucina, oltre che agnesino doc.«La festa –continua– si svolgeva nelle cantine, tra un tiro di dadi e un bicchiere di vino, con usanze completamente diverse da quelle attuali». È dal dopoguerra che le congregazioni si riuniscono in ristoranti e trattorie e oggi si sta lavorando all’elaborazione di un menù che poi i ristoratori possano, se vogliono, proporre. Un’operazione attuata in collaborazione con l’Istituto alberghiero aquilano: sono i ragazzi, infatti, a inventare i piatti che diventeranno tradizione. Nella scorsa edizione è stato scelto il dolce, la “Treccia di S.Agnese”; quest’anno è
LINGUE FAMOSE Chissà se tra vent’anni o giù di lì ci troveremo a parlare di Sant’Agnese come della madrina della comunicazione. In fondo, sarebbe giusto. La ripagherebbe, forse, di anni passati a guardare dall’alto il gran da fare che, tra una portata e l’altra, gli aquilani si danno nel giorno a lei dedicato. Dal 2003, questa strana tradizione ha deciso di uscire fuori dalle mura della città per presentarsi al mondo. Con orgoglio e un pizzico di vanità, ma raccogliendo consensi illustri. Nel 2004 nasce il festival “Pianeta Maldicenza”, primo ospite un presidente della Repubblica emerito, Francesco Cossiga: ad organizzarlo è l’Associazione culturale dei “Devoti di S. Agnese”, nata dall’omonima congregazione, che ha deciso di dare al rito una visibilità più attuale. Che non abbandona, però la tradizione, perpetuata
stata la volta del primo, le “Malelingue”,il prossimo anno sarà la volta del secondo piatto, che completerà le scelte di base.«È interessante –secondo Marra– che si arrivi alla creazione di un corpo di ricette, in un momento storico in cui la gastronomia è diventata un fatto assolutamente ineludibile».E fino ad ora? Ovviamente è stata la lingua a farla da padrone, un po’in tutte le salse, alimento difficile da reperire e che spesso non incontra il gusto dei commensali.«Poi –dice ancora Marra– tutti i piatti legati al maiale, visto che siamo ancora in pieno periodo della macellazione».
attraverso un appuntamento teatrale, in cui vengono declamati componimenti in lingua e in dialetto, rapidi sketch da tre minuti. Difficile è stato scrollarsi di dosso la fama di pettegoli tout court e spiegare la festa come un fatto di valenza sociale. Ma in tanti hanno capito. E così, dopo aver riacquisito alla tradizione un aquilano purosangue come Bruno Vespa, le porte degli agnesini si sono aperte per Antonio Caprarica: nell’edizione 2006 ha portato il suo aplomb, spaccato di quell’english style così vicino allo spirito della festa. Il giornalista Rai, insieme al senatore a vita Giulio Andreotti, è stato ospite di punta della manifestazione tenuta a gennaio. Esattamente una settimana prima dei festeggiamenti ufficiali: ciò, naturalmente, per consentire a cittadini e organizzatori di godersi in santa pace il loro appuntamento rituale.
SOCIOLOGIA DELLA MALDICENZA Cos’è questa esclusiva e strana festa aquilana? Le chiavi di lettura che le scienze umane ci offrono di questa particolare forma di relazione sociale che va sotto il nome di maldicenza –ma che comprende forme in un continuum alquanto complesso: arguzia, diceria, mordacità, invettiva, calunnia, pettegolezzo, beffa, lazzi, stalking– sono plurime e riassumibili in cinque principali significati. Modalità di risoluzione e/o conquista del potere. Laddove non ci si può permettere forme violente di tenzone si surroga alla persuasione ed influenza che il linguaggio saccente, ironico e maldicente può fornire. Forma di affermazione della gerarchia sociale. Quando la gerarchia formale (legata a classe e/o casta) è molto rigida, spesso si afferma quella informale legata alla capacità del singolo individuo; in modo da scaricare l’aggressività che, non incanalata opportunamente, potrebbe sfociare in disordine sociale. Tecnica di controllo sociale informale mediante la pressione sociale: la maldicenza è anche una forma di controllo in quanto può annientare la serietà di un evento, di un’azione o di una persona: si tenga conto che all’estremo, nelle piccole comunità, una campagna denigratoria può concludersi col suicidio o con l’omicidio! Forma di narcisismo soggettivo e/o sociale: divenendo, spesso, una modalità che assume la valenza di autoaffermazione del sé. Al punto che, non a caso, l’Arcivescovo metropolita, monsignor Giuseppe Molinari, ha di recente sostenuto che “ci sono modi più evangelici per raggiungere un’autentica liberazione interiore”. Funzione di socialità e di svago, nel senso di relazione sociale fine a se stessa; differenziata sia dalle relazioni di lavoro che dai rituali formalizzati. Dalle possibili funzioni descritte si intuisce che nelle varie forme di maldicenza si annidano aspetti positivi e negativi: ben venga se ha funzione di socialità e di critica costruttiva; ma se è solo critica distruttiva essa inquina e/o demolisce le relazioni interpersonali e sociali per cui è una vera e propria piaga da sradicare, sia a livello micro che macrosociale. G.C.
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MUSICA
GIOCHI DI TANGO and au neon, Oltretango: giochi di parole che raccontano la musica di Paolo Russo, Fabrizio Mandolini e Francesco Calì. In primo luogo, il bandoneon: Paolo Russo ha imbracciato lo strumento che colora il tango, la musica argentina, folgorato dal lirismo nervoso del bandoneon. In Oltretango si aggiunge la fisarmonica di Francesco Calì: i suoni diventano più lunghi, le atmosfere cambiano con l’aria che passa attraverso i mantici dei due strumenti, i sassofoni completano, con voce sognante, il suono originale della formazione. Oltretango... il tango è una necessaria conseguenza del bandoneon e dei soggiorni in Argentina di Russo; e al tango si uniscono le danze popolari e gli elementi romantici, le atmosfere mediterranee e la luce della Danimarca, dove Russo e Calì vivono.Seguendo il titolo, entrano nella musica del trio il pathos del tango,ma anche la malinconia,la passione,il divertimento:una maniera personale e suadente di interpretare la musica e le proprie emozioni. F.C.
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UN DSASTRO PER CUBA opo viaggi e concerti tenuti da C.U.B.A. Cabbal in Iraq nasce questo progetto con l’aiuto di Dj Dsastro (già collaboratore di Assalti Frontali) The Dervish Made Me Do It (Me l'ha ordinato il derviscio). Contatti con la Tariqua sufi di Baghdad,ritmi e cerimonie,musica e parole come liberazione consapevole. Il disco è una colonna sonora dei giorni d’oggi dove
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mescolanze etniche e ritmiche fanno da ponte sonoro per abbattere i muri mentali e materiali eretti dalla tirannia imperiale. Campionamenti di artisti iracheni trovati nella penombra di un souk, ritmi arabi che si intrecciano a grooves hip hop, scratches, tablas, kora, darbuka, canti e flauti suonati da musicisti di diversa estrazione musicale. Testi diretti al bersaglio che raccontano lo scempio iracheno visto con i propri occhi descrivendo sfumature che a volte non si colgono nei telegiornali nazionali.
FESTA D’INVERNO CON SORPRESA chi l’avrebbe mai detto? Quel simpatico vecchietto di Lou Reed, proprio lui, l’anima dei Velvet Underground di warholiana memoria, si esibirà a Teramo il prossimo 5 marzo, al Teatro Comunale, riproponendo 40 anni di carriera in un’unica e sicuramente indimenticabile notte. Accompagnato dal suo fedele trio, che ormai lo segue da più di vent’anni (Mike Rathke alla chitarra, Fernando Saunders al basso e Tony Smith alla batteria), l’artista newyorchese ha in programma ben 12 date italiane, di cui l’ottava è quella teramana. Schivo come sempre rispetto alle leggi di mercato, l’arzillo sessantaquattrenne imbraccia di nuovo la chitarra senza alcun obbligo promozionale, ma solo per regalare ai suoi fans una serata di buona musica. Il concerto di Reed è l’evento clou del Winter Festival, una rassegna di sei eventi che hanno come protagonisti grandi nomi della musica, del teatro e del cabaret nazionale ed internazionale. Organizzato non senza notevoli sforzi dalla Provincia di Teramo tramite l’associazione Musica e Parole e la Service Time, con il contributo della Regione Abruzzo e dei Comuni di Teramo, Giulianova e Alba Adriatica, il Winter Festival propone dunque sei grandi serate: dopo Lou Reed si esibiranno nell’ordine: Marco Paolini (a Giulianova, giovedì 9 marzo) che presenterà al teatro Ariston Song 32, un nuovo spettacolo che ha per tema le risorse idriche; la P.F.M, che regalerà ad Alba Adriatica, sabato 18 marzo, uno show di quasi tre ore dedicato a Fabrizio De Andrè; poi sarà il turno di Max Giusti e la sua band (venerdì 24 marzo, Alba Adriatica), con lo spettacolo Mettete la moviola in campo! cui seguirà, sempre ad Alba Adriatica, il concerto di Vinicio Capossela, previsto per sabato 1 aprile, unica data abruzzese (per ora) del suo nuovo Ovunque proteggi tour. A Paolo Hendel, il compito di chiudere in bellezza il Festival, martedì 4 aprile a Giulianova, al teatro Comunale con lo spettacolo Non ho parole!. Per ulteriori informazioni su prezzi e prenotazioni telefonare allo 0861787258 o al 3397236045.
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WONDER(FUL) COCLITE assimiliano Coclite interpreta le meraviglie del repertorio di Stevie Wonder con swing e partecipazione. Nel rendere omaggio al grande soul-singer americano, il cantante e pianista si pone come obiettivo la canzone e lavora su brani celeberrimi con l'intenzione, precisa e costante in tutto il disco, di mettere in risalto la melodia, la morbidezza, il sentimento che ognuna di queste canzoni porta con sé. Canzoni che vengono eseguite con un organico che varia di volta in volta: l'orchestra e la piccola formazione, il duo chitarra e voce e la soluzione particolare a capella di Isn't she lovely, fino alla chiusura, Whereabouts, eseguita da Coclite, da solo, voce e pianoforte. Coclite canta e improvvisa con gusto, sovrasta con potenza le esplosioni dell'orchestra e accarezza i momenti melodici, in una prova che non ha nulla da invidiare alle produzioni più acclamate del genere. Alle sue spalle c'è un organico di musicisti abruzzesi, tra i quali Fabrizio Mandolini, Luca Bulgarelli e Marcello Di Leonardo, nomi affermati nel panorama jazzistico italiano, con l'ausilio di un solista come Fabrizio Bosso. F.C.
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UN TOCCO DI ROCK l disco d’esordio dei Sunflower dimostra che c’è la possibilità, anche in Abruzzo, di fare un buon rock, una musica che viene dal cuore. Questo Invisible, il loro disco d’esordio dopo l’Ep My Language, ha dentro cuore e polmoni, sangue e sudore; riferimenti “alti” come Blonde Redhead, Smashing Pumpkins, Pearl Jam; testi non banali e ben costruiti (speriamo anche, in futuro, in italiano…); una produzione sapiente (Andrea Di Giambattista) e un packaging accattivante. Se ciò non bastasse a farvi venire voglia
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di comprarlo, sul curatissimo sito della band di Tocco da Casauria, www.sunflower.us, si possono ascoltare spezzoni dei dodici brani che compongono la tracklist. E se volete di più, ci sono anche i free download dal sito della Midfinger che ha prodotto il disco. E se volete ancora di più le cose sono due: 1) siete incontentabili; 2) dovete smetterla di ascoltare musica fatta da cervelli elettronici e dedicarvi di più alle cose del cuore, lasciarvi scaldare da un raggio di sole. Proprio come un…girasole.
32 DICEMBRE 1986 uanti di voi possono dire “a diciannove anni avevo già scritto un libro e inciso un disco”? Pochi, sicuramente. Beh, ecco un diciannovenne che brucia le tappe: ha scritto un libro di poesie (a quattro mani con l’amico Giorgio d’Orazio, che firma anche il testo di Cosa vuoi che sia...) l’anno scorso, e quest’anno mette in circolazione il suo primo cd. Il giovane in questione si chiama Adolfo De Cecco, e coltiva la passione per la scrittura ancor prima di quella musicale, ed ecco spiegata la propensione ad un genere, quello cantautoriale ispirato a De Gregori, De Andrè, Lucio Dalla: «Oggi nessuno scrive più testi poetici, la canzone è diventata canzonetta. Si preferisce una melodia pop alla poesia musicata, e non sono d’accordo: i personaggi a cui mi ispiro hanno dato molto alla musica italiana, e ancora oggi si cantano le loro canzoni. Chi può dire se sarà lo stesso di un brano radiofonico di oggi?». Idee chiare, dunque, che spingono il giovane De Cecco “in direzione ostinata e contraria”, come il titolo della recente raccolta dei successi di De Andrè.
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Il titolo del suo disco, invece, è Per chi vive e muore il 32 dicembre: «Otto brani ispirati a tutti quelli che vivono fuori dagli schemi, in maniera veramente alternativa, senza piegarsi a nessun volere, neanche alle convenzioni più banali come quella di un calendario. In copertina c’è un pescatore croato che conosco: lo ammiro, perchè vive solo del mare, e non è facile». Personaggi reali, che vengono modellati nella sua fantasia prima di vivere nelle sue canzoni. «Ma anche figure e situazioni che voglio ricordare nella loro autenticità, come mio cugino, scomparso qualche tempo fa, al quale è dedicata una canzone del disco». Un lavoro autoprodotto, realizzato dalla Smr di Pescara, che Adolfo ha stampato in 1000 copie per farsi conoscere. Ci riuscirà, con la forza dei sentimenti.
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CINEMA
IL CINEMA IN
on è da tutti girare un film con Roberto Herlitzka. Ma se ti chiami come il diavolo e abiti in convento, alle stravaganze ci sei abituato. Il film in questione si chiama Nero, ed è un ambizioso esper imento orchestrato a quattro mani dal regista pescarese Antonio Lucifero, pronipote di Francesco Paolo Michetti, e dal famoso attore torinese, che ha accettato con entusiasmo la proposta di trarre un film dallo spettacolo che lo stesso Herlitzka aveva rappresentato anni fa, Ex Amleto, una riduzione della tragedia shaekespeariana. Un incontro fortuito (Lucifero stava realizzando a Roma dei video per uno spettacolo teatrale) e un’empatia inattesa. Due incontri preliminari, poi otto giorni di riprese (dieci-undici ore al giorno) in una stanza dell’ex Convento Michetti, a casa del diavolo, (pardon: del regista) in un giugno infernale (ancora pardon: tra i più caldi che si r icordino) e mesi di postproduzione. Il risultato è un’opera visuale affascinante, ricca di invenzioni, concettualmente immune da qualsiasi attacco, semmai di difficile vendibilità, «cosa della quale sono ben consapevole –afferma Lucifero– e non ho mai pensat o di farne un film da grande distribuzione. Ma quel che mi ha dat o fastidio è che alla 61a mostra del Cinema di Venezia il film è stato scartato da alcuni critici della commissione selezionatrice, che lo
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hanno giudicato “non un film”, con evidente errore di valutazione estetica». Non ha davvero paura, lui, di dire le cose come stanno. «È una libertà, questa, che mi sono conquistat o col lavoro. Posso dire tranquillamente che il sistema è corrotto, che il cinema indipendente viene ucciso da chi si compor ta così. Un film è un film in quanto viene presentato come tale, e soprattutto è un film italiano, che si basa fortemente sulla sua italianità, sulla lingua, perché ha per soggetto non una trama, ma una performance». Dopo Venezia nel 2004, altro tentativo di presentazione, all’ultimo Festival di Locarno, e altra bocciatura «stavolta per ripicche interne tra la Bignardi, curatrice del Festival svizzero, e Marco Muller che dirige quello di Venezia. Un atteggiamento inspiegabile». Accettato, invece, al Festival di Bellaria e successivamente presentato alla Casa del Cinema a Roma, il film ha mietuto successi oltralpe, a Granada, Strasburgo, Berkeley, in Portogallo e a Biarritz. Ma cos’è Nero? «Nero è un film sperimentale, per due motivi. Uno è strettamente tecnologico: ho usato una DVcam Standard Definition lavorando con un’illuminazione insolita, molto bassa, e con un bluescreen che mi ha permesso, in fase di RIBALTA
Antonio Lucifero Un film sperimentale, un’opera ambiziosa con un attore di razza. L’anima nera del cinema.
di Fabrizio Gentile foto Silvia Jammarrone
postproduzione, di eliminare il segnale video per poter ottenere il nulla, cioé il nero. Se riprendi un fondo nero, vedrai un fondo nero. Ma il nulla è diverso. Io ne avevo bisogno, per poter focalizzare solo l’attore. È un film sperimentale in senso artistico, poi, perché appunto sposta l’attenzione non sulla trama o sull’azione, ma sull’interpretazione. Herlitzka non ha mai interpretato Amleto come attor giovane, così ha realizzato questo desiderio tramite il suo spettacolo, e poi col mio film. Che è fondamentalmente un monumento a lui». Nero ha per sottotitolo “Ex Amleto”. Che vuol dire? «È semplicemente latino: “Ex Amleto” cioé “dall’Amleto”. Viene dall’Amleto di Shakespeare ogni parola che costituisce il testo della sceneggiatura di Nero. Ma vuol dire anche “un Amleto che fu”. Nella sua straordinaria carriera Roberto Herlitzka non ha avuto l’occasione di interpretare una versione canonica di Amleto. Lo ha fatto in età avanzata e nella più felice maturità d’interprete, operando drammaturgicamente sul testo originale come si è accennato: riducendolo ad un lungo monologo. A recitarlo è l’attore che è stato Amleto nel suo desiderio insoddisfatto, e gli presta ora la sua maschera, forse incongrua all’idea canonica del personaggio, certamente congrua alla MOVIEMENTI
recitazione della sua memoria. Il corpo dell’attore è la sola rappresentazione plastica della parola, su un nero fondale. È il corpo la sola fonte di luce, immerso in un buio dal quale v erbo e gesto fanno frammentariamente emergere la chiarezza, o l’oscurità, del pensiero. La voce monologante di Amleto ingloba in sé quelle degli altri, la sua maschera ne assume le fatt ezze, riduce alla propria dimensione i conflitti intersoggettivi e li spinge al loro destino inesorabile. Tuttavia, alla recita del testo, l’impressione finale è che la r iduzione non sia riduttiva, che l’opera venga restituita alla totalità del suo senso». Quale sarà il futuro di Nero e il tuo futuro come regista cinematografico? «Proverò a contattare alcuni canali satellitari per vendere Nero. E la strada dei festival, soprattutto all’estero, è ancora buona. Ma ora voglio confrontarmi anche col cinema tradizionale: st o scrivendo insieme ad un mio amico, Sergio Vecchio (sceneggiatore di Sostiene Pereira, n.d.r.), una commedia nera italiana vecchio stile, un progetto a cui tengo molto. E sul fronte artistico in senso stretto mi dedicherò alla realizzazione di videoinstallazioni, ho in programma una mostra al MuseoLab di Città Sant’Angelo per la prossima primavera». VARIO57
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MOVIEMENTI
UNA STORIA DI LUPI a cominciato a lavorare giovanissimo come disegnatore di fumetti d’autore per la Granata Press, la storica casa editrice di Bologna.Tanino Liberatore lo ha scelto per l’ideazione dei personaggi per la serie televisiva francese The G-Shifters. Registi cult come Martin Scorsese e Ridley Scott si sono affidati al suo talento per realizzare le scene di grandi capolavori come Gangs of New York e The Kingdom of Heaven. Tornato in Italia Cristiano Donzelli collabora a diversi progetti televisivi e cinematografici per la RAI ed apprende le tecniche di lavorazione al fianco di uno dei registi televisivi più rappresentativi come Alberto Negrin. Con queste esperienze di alto profilo professionale il giovane Storyboard Artist è tornato nella sua Teramo indossando i panni del regista per ultimare le riprese del suo primo corto cinematografico ambientato attorno al Gran Sasso. Racconta di Una storia di lupi ispirata ad antiche credenze popolari sui lupi mannari evocate nei racconti dei pastori e dei contadini davanti al focolare nelle fredde notti di luna piena. «Quando in una storia di fantasia bisognava inventare una figura che rappresentasse il malvagio o il mostro
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contro cui il protagonista doveva combattere o confrontarsi, spesso si creavano creature metà uomo metà bestia, quasi a stimolare il lato negativo presente in ognuno di noi»: Così il neo regista sintetizza la trama del film preannunciando un finale a sorpresa,mentre prepara alcune scene presso il vecchio mulino di Poggio Umbricchio attorniato da giovani operatori e da un Franco Nero entusiasta dell’idea che condivide insieme ad altri attori selezionati dalla Compagnia teatrale Spazio Tre diretta da Silvio Araclio. Scene veramente suggestive girate tra le meraviglie del Parco accompagnate dalle musiche di Gianluca Piersanti, altro giovane talento teramano formatosi nel firmamento hollywoodiano. Finanziatore del film è. naturalmente, l’Ente Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga. Un logo di sicuro successo considerato che proprio qualche mese fa il Parco ha inaugurato a Rocca Calascio la prima edizione della Rassegna del Cinema di Montagna con la partecipazione di Michele Placido in omaggio al film su Padre Pio girato dall’attore in quei luoghi. Marcello Maranella
IL CINEMA È UN FIORE MALEDETTO i chiama La maledizione dell’Agave la fiction realizzata nell’ambito del programma didattico del biennio di specializzazione dell’Accademia dell’Immagine dagli allievi della Scuola, che hanno partecipato a tutte le fasi del prodotto, dall’ideazione alla sceneggiatura alla preparazione delle riprese, per realizzare, infine, il filmato. Sono stati guidati in questo percorso dal regista Riccardo Milani, autore di La guerra degli Antò (1999), Il posto dell’anima (2003) e reduce dal successo della mega-produzione televisiva Cefalonia. La troupe degli allievi è stata seguita nelle diverse fasi del progetto anche da altri professionisti: il direttore della fotografia
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Paolo Carnera (La bella vita, Ferie d’agosto), il tecnico del suono Gianluca Costamagna (Appassionate, Terra di Mezzo), il montatore del suono Benni Atria (La stanza del figlio, Malèna, Così ridevano, La vita è bella). Le musiche originali sono composte da Piernicola Di Muro. Le bellezze naturali, storiche e paesaggistiche dei comuni di Santo Stefano di Sessanio e Calascio sono le ambientazioni della fiction, che ha visto il
coinvolgimento –oltre all’interprete principale, Emanuela Grimalda– di oltre cento comparse. La voce off è quella dell’attore Omero Antonutti. Il video è stato girato in alta definizione digitale, con videocamere SONY Camcorder Digitali HDV ed il Videoregistratore SONY Digitale HD. La maledizione dell’Agave è stato presentato a febbraio presso la Casa del Cinema di Roma, diretta da Felice Laudadio.
DOTTORE, HO LA FEBBRA
iamo prossimi ad un nuovo cult. Originali espressioni linguistiche, recenti tormentoni che gli spettatori televisivi di Italia1, conoscono già. “Cosa accadrebbe se il male si formerebbe dentro di te?”oppure “Ma anche no!”e poi ancora “Ho la febbra”. Qualcuno ha già capito di cosa, o meglio di chi, stiamo parlando. Da Chieti a Milano Enrico Venti e Marcello Macchia, ventisettenni abruzzesi, s’impongono in Italia come già Verdone o Guzzanti avevano fatto con i loro “Un sacco bello”o “Te lo sai a che ora mi sono svegliato stamattina? Alle sette meno un quarto”, proponendo al pubblico televisivo gli ormai famosissimi trailers girati per la trasmissione “Mai dire gol”. A sentirli parlare si ha l’impressione che il sogno sia diventato realtà, materializzandosi a Milano, la città dove realizzano i primi “corti”grazie ai quali cominciano a farsi conoscere; Enrico è all’organizzazione e co-produzione e Marcello, oltre ad essere co-produttore, è sceneggiatore, regista, attore e si occupa persino della post-produzione. Nel capoluogo lombardo, i due fondano insieme (nel 2002) la Shortcut Production (http://www.shortcut.it/) alla quale si unirà un paio d’anni dopo Santi Prestigiovanni. Comincia così un lungo
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cammino che li porta al successo grazie alla collaborazione con la Gialappa’s e ad alcuni spot pubblicitari. «Se vuoi fare qualcosa devi crederci e provarci. Non ha senso lamentarsi dei limiti e dei problemi che s’incontrano lungo la strada. Il nostro successo deriva proprio da questo modo di affrontare la vita». È Enrico a parlare. «D’altra parte –aggiunge– è vero che se vuoi realizzare qualcosa che abbia a che fare con la pubblicità o la tv in generale, purtroppo devi allontanarti dall’Abruzzo. E te lo dice uno che ama la sua città, anche perchè è lì che ci sono i miei amici e la mia famiglia, visto che torno spesso a Chieti». Attorno alla Shortcut Production ruotano oggi una trentina di attori professionisti, catturati dall’estro e dalla verve di Marcello. Oltre a una quindicina di clienti fissi (compresi big quali Bulgari, Banca Woolwich, All Music). Ma quale dei suoi lavori preferisce? «Anche se La Febbra è quello che ci ha reso più noti, il mio preferito rimane Un attimo al bagno; mi sono ispirato ad un cartone che guardavo da bambino il cui protagonista era alla ricerca disperata della madre. Ho cercato di caratterizzarlo rispetto agli altri, sia a livello di regia (tempi lunghi) che a livello di fotografia (colori desaturati)». Marcello ha una forte carica artistica e quasi
tutto ciò che ha girato è nato spontaneamente e altrettanto spontaneo e naturale è il suo modo di recitare. «Spesso molte cose escono fuori da sole, o direttamente sul set. Penso ad esempio a La Febbra e mi viene in mente mia nonna che mi strilla “Marcè, attend ca ti vè la febbra!”».È chiaro che nella Shortcut Production si stia puntando molto sulla naturalezza con la quale Marcello Macchia da sfogo alla propria creatività. Progetti per il futuro? Scopriteli direttamente seguendo il nuovo programma prodotto dalla Shortcut, in onda tutti i giorni su All Music alle 22 dal 6 marzo prossimo. Condotto da Pamela Rota, sarà “un insieme di pillole comiche”, così lo definisce Enrico, una successione di cortometraggi (tra il minuto e i due minuti e mezzo) che analizzano i format televisivi ai quali siamo esposti quotidianamente e ne ripropongono una parodia: si va dalle soap opera alle real tv, passando per i maghi da 166. Stefano Campetta
CARBONI INQUADRA SILVIO
arà r iuscito il g iovane benestante Kurtz ad uccidere Silvio Berlusconi? Potremo saperlo solo, secondo quanto ci racconta il regista Berardo Carboni, dopo le elezioni del 9 apr ile prossimo, quando il film Shooting Silvio verrà distribuito nelle sale, perché ovviamente di fiction si tratta. D opo quattro settimane e mezza di la vorazione, Carboni si sta dedicando al montaggio. «Sono molto soddisfatto di come sono andat e le cose . Tutto è andat o oltre ogni più r osea previsione» racconta il giovane regista. Shooting Silvio, per chi non lo sapesse, è il primo film finanziato dagli spettatori: l’idea è proprio di Carboni, che per mantenere un controllo pressochè totale sul film si è messo ad organizzare feste di autofinanziamento, durante le quali i partecipanti pot evano acquistar e oggetti di mer chandising (magliette, cappellini, spillette a costi minimi, dai 5 ai 15 Euro) oppure diventare stakeholders (lett. “consegnatari”, cioè azionisti) versando una quota minima di 690 uEro. «Le feste hanno fruttato circa un quarto del budget, ma se non sono state particolarmente produttive dal punto di vista economico, lo sono state per la visibilità, facendoci guadagnare le prime pagine dei quotidiani e facendo conoscere l’idea alla gente». Finanziatori politicamente schierati? «Niente affatto. Addirittura il pr incipale pr oduttore, un a vvocato di Bene vento, appartiene ad un’area politica assolutamente moderata» precisa
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Carboni. «Tengo a sottolineare che il film non ha alcun taglio politico: è solo il ritratto di una società che in questi dieci anni è ofondamente pr cambiata. Silvio Berlusconi e Kurtz sono due simboli che all’interno del film non r ivestono alcun ruolo in senso ideolog ico». A d interpretare Kurtz è un giovane attore, anche lui pescarese come Carboni, F ederico R osati (vist o in Paz, e Ma l’amore sì). C on lui Alessandro Haber, Giovanni Visentin, Antonino Iuorio, Melanie Garren, Sofia Vigliar, e il dj del gruppo scandinavo dei Kings of Convenience Erlend Øye che, venuto a conoscenza del progetto di Carboni, ha insistito per partecipare. Sarebbe stato lo stesso se il soggetto non fosse stato Silvio Berlusconi? «Certamente no. Oltre al fatto che era importante simbolicamente nella vicenda, è un elemento di tale potenza mediatica che sape vo a vrebbe dat o una f orte spinta pubblicitaria all’operazione». Ci sarà una “prima” pescarese? «Non so ancora cosa decideranno i distr ibutori, ma cer tamente v oglio privilegiare la mia terra d’origine». E in futuro? Pensi di utilizzare ancora questo sistema per finanziare i tuoi lavori? «Credo di sì. Oggi il pubblico finanzia film senza saperlo, e quel che è peggio, senza vederli. Questo sistema invece incoraggia la fruizione del film. Ma c’è un’altro aspetto: credevo che la gente avrebbe finanziato il film perchè simpatizzante per la parte avversa a Berlusconi, e invece non è stato così: c’è stato, da F.G parte di tutti, l’entusiasmo di fare cinema».
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TEATRO
L’Uovo
L’EPIFANIA DI CELESTINO Da un testo di Angelo Di Nicola, una messa in scena fantasiosa e appassionante, carica d’atmosfera e piena di sorprese. Con dei protagonisti davvero molto particolari. di Livia De Leoni foto Franco Soldani
In alto a destra: foto di gruppo per il cast dello spettacolo. Qui sopra, dall’alto: Vincenzo De Masi e Stefano Pallotta; Massimo Casacchia e Angelo De Nicola; la regista Maria Cristina Giambruno.
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osa ci fa il celebre “padre Nike” su un palcoscenico accanto al presidente dell’Ordine dei giornalisti Stefano Pallotta, all’andrologo Sandro Francavilla, allo psichiatra Massimo Casacchia o al noto scrittore e giornalista Angelo Di Nicola? È evidente: stanno recitando. Il merito di aver riunito personalità così diverse, ma attive e generose, professionisti affermati, rappresentanti tutti della comunità aquilana è dell’Uovo - Teatro Stabile d’Innovazione, compagnia solitamente dedita alla produzione teatrale per ragazzi, e stavolta impegnata a trasportare sulla scena l’ultimo romanzo di Angelo Di Nicola, La maschera di Celestino, per uno spettacolo di beneficenza in favore della lotta contro il cancro. Tra le tante facce note del capoluogo abruzzese gli oltre 2600 spettatori hanno potuto riconoscere inoltre Vincenzo Masi, Amedeo Esposito, Massimo Gallucci, Rinaldo Torder, Valter Marola. La “mise en espace” di L’epifania di Celestino (questo il titolo dello spettacolo) è andata in scena il 6 gennaio scorso al Teatro San Filippo, a firma di Maria Cristina Giambruno, presidente dell’Uovo. Punto di partenza di questa grande avventura è la Perdonanza Celestiniana, evento di secolare tradizione aquilana, su cui s’incentra l’intrigo del romanzo appassionante di Di Nicola, edito da Textus nel 2005. Rinomato scrittore (suo anche il saggio Da Tragnone a Fidel Castro), Di Nicola ha elaborato un giallo in chiave moderna, ricco di suspense, dove varie strade, tra cui quella spirituale, s’intrecciano al fine di rendere ancora più vivo il messaggio di pace della Perdonanza. Questa Bolla venne elaborata da Celestino V, noto eremita incoronato Papa all’Aquila nel 1294, unico pontefice nella storia della Chiesa a –come dice Dante– “fare il gran rifiuto”, ossia dare le dimissioni. Il romanzo ambientato ai nostri giorni, che gode della prefazione di Dacia Maraini, s’incentra intorno ad una minaccia di attentato al Papa che, in occasione di questa memorabile manifestazione
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abruzzese, viene a rendere omaggio a Celestino V. L’azione si svolge nello splendido scenario della basilica di Collemaggio e prende inizio il 28 agosto, giorno d’apertura della Perdonanza, durante il quale si celebra, tra l’altro, la lettura della Bolla emanata da Celestino V nella quale si concedeva un’indulgenza plenaria ed universale a tutta l’umanità, evento di straordinaria importanza visto che fino allora il perdono era legato al denaro. La regia di Maria Cristina Giambruno rende omaggio alla Bolla di San Pietro Celestino che introduceva i concetti di pace, solidarietà, riconciliazione. La Giambruno, fondatrice del Teatro Stabile d’Innovazione L’uovo, grazie a quest’allestimento è riuscita a raccogliere 2600 euro, devoluti all’associazione L’Aquila per Vita Onlus che supporta l’Unità Ospedaliera di Oncologia medica presso l’Università dell’Aquila. «Un evento cittadino in cui gli interpreti del momento che vivono e costruiscono tutti i giorni il capoluogo abruzzese si sono riuniti contro il cancro», racconta la regista. L’Epifania di Celestino, della durata di poco meno di due or e è da considerarsi un invito alla lettura del romanzo dello scrittore aquilano. A teatro l’epilogo non viene rappresentato, il giallo rimane in sospeso proprio sull’attentato al Papa: ci sarà o non ci sarà? P er saperlo si dovrà leggere la storia scritta da Angelo Di Nicola. «In tutti i lavori della compagnia l’Uovo –spiega Maria Cristina Giambruno– la fantasia dello spettatore ha sempre avuto un grande spazio. Lasciare in sospeso l’intrigo ne è una prova. Dopo la rappresentazione non c’è stato un solo spettatore che abbia chiesto la fine del giallo. Probabilmente tutti abbiamo già letto questo magnifico romanzo». L’Epifania di Celestino ha riscosso un notevole successo, lasciando purtroppo oltre un centinaio di spettatori a bocca asciutta, che potranno r ifarsi il 4 febbraio alle 21 al teatro San Filippo in occasione della replica di quest’ultima creazione dell’Uovo.
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IL SIPARIO DEL TEATRO MARRUCINO di Chieti, raffigurante il trionfo di Asinio Pollione, è tornato a splendere grazie alla ditta Grazia De Cesare (e a sessantaquattromila euro, tanto è costato il suo restauro). Fu acquistato dal comune nel 1875 al pr ezzo di cinquemila lire, con un risparmio di millecinquecento lire rispetto al prezzo richiesto dall’artista. Il sipario rappresenta un’opera di grande pregio artistico e un pezzo importante della storia della città teatina. Nei suoi settantadue metri quadrati di superficie (otto metri di altezza per nove metri e trenta di larghezza) il pittore napoletano Giovanni Ponticelli ha scelto di raffigurare una scena di grande celebrazione della memoria nazionale (Pollione trionfante che si dirige verso il Campidoglio dopo esser passato sotto un arco allestito per l’occasione e ornato di ghirlande), come era in voga dopo il 1870. Il primo bozzetto dell’opera risale al 1873 e attualmente è conservato nell’ufficio del prefetto di Chieti. Paolo Di Matteo
GLENGARRY GLEN ROSS lo spettacolo teatrale scritto da David Mamet nel 1989 e portato a Pescara dalla compagnia Teatro Immediato diretta da Edoardo Oliva, andrà in scena dal 7 al 12 mar zo presso il teatro della stessa Compagnia, a Pescara (sarà inaugurato il 4 marzo e si chiamerà proprio Teatro Immediato) per poi trasferirsi a Biella (due serate in programma), prima di approdare al Politecnico di Roma per dodici giorni di repliche, dal 25 aprile al 7 maggio. Successivamente la compagnia proporrà un
L’ASSOCIAZIONE TEATRO DI GIOIA e la scuola nazionale di drammatur gia diretta da Dacia Maraini hanno indetto un Corso sulla scrittura teatrale. Il laboratorio, con sede presso l’Ostello di Gioia dei Marsi (AQ) è condotto dal noto drammaturgo Giuseppe Manfridi; al suo fianco interverranno alcune fra le personalità più rappr esentative del teatro italiano quali Piera Degli Esposti, Ugo Chiti, Vincenzo Cerami. «In Italia ci sono molte scuole per aspiranti registi, per aspiranti attori, per aspiranti scenografi, per aspiranti organizzatori teatrali, –osserva la grande scrittrice– ma incredibilmente non ci sono scuole per aspiranti drammaturghi. Forse perché il nostro mondo teatrale non crede nella drammaturgia italiana e dà per
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cartellone di spettacoli fino a magg io: il primo sarà Il Calapranzi di H. Pinter con Ezio Budini (in programma anche al Teatro Comunale di Atessa il 23 marzo); seguirà Enzo Spirito con Esse e iss in vari…età, spettacolo in vernacolo napoletano; Prove d’autore di Harold Pinter, con tutta la compagnia; Amores, amandi, un recital di Milo Vallone tratto dalla letteratura d’amore di Ovidio; Frammenti di teatro I e II di S. Beckett con Edoardo Oliva e Vincenzo Mambella. Per informazioni su date e biglietti: 3803312666.
scontato che non abbia niente da dare o da dire». Dacia Maraini ha inaugurato il corso con una lezione iniziale e seguirà le ultime fasi del montaggio del testo che verrà rappresentato in agosto durante la VI edizione del Festival Nazionale Teatro di Gioia. Per informazioni: http://www.teatrodigioia.it E-mail: info@teatrodigioia.it.
WILLIAM ZOLA, noto regista teatrale per anni a capo dello Spoltore Ensemble, ha messo a segno un colpo grosso: il suo spettacolo Gli occhiali del professor Caffé, ispirato alla scomparsa del celebre economista abruzzese, ha tenuto banco per due settimane al Teatro Olimpico di Roma, riscuotendo ampi consensi.
FIORENZA TORNA AL TSA Franco Ricordi si è dimesso il 27 gennaio, e al suo posto alla direzione del Teatro Stabile d’Abruzzo è tornato Federico Fiorenza. La nomina è stata accolta con il plauso delle maggiori personalità del mondo teatrale italiano. La nuova direzione restituirà al TSA la credibilità che merita, grazie ad una voce interna all’ente, capace di camminare con sicurezza e lungimiranza nella purtroppo drammatica situazione in cui versa il settore culturale nel nostro Paese. A Fiorenza vanno i nostri migliori auguri.
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LETTERATURA
Giovanni D’ALESSANDRO
Dalla parte di Vercingetorige Ne I fuochi del Kelt uno scrittore di razza rilegge il De bello gallico con impietoso realismo, affrontando la verità storica senza partigianesimo e facili preferenze. Un libro appassionante, avvincente, di terribile attualità di Giacomo D’Angelo Foto Antonella Da Fermo
on ama il minimalismo delle mode nordamericane, né il noir alla Camilleri mescidato di pigmenti vernacoli. La scommessa di Giovanni D’Alessandro è più ambiziosa. Nel suo primo romanzo, Se un dio pietoso (Ed. Donzelli), aveva scelto un tema alto di passione e di interiorità, di fiducia nella parola scritta e di fede nella Grazia, l’uscita di sicurezza da una condizione umana, “piena di furore e di vento”, per dirla con lo Shakespeare di Macbeth. Anche in questo secondo romanzo, I fuochi dei Kelt (Mondadori, 2005), il tema è impegnativo, all’ombra dei modelli di Omero: le guerre galliche di Giulio Cesare nientemeno. Un’impresa avversata da quel rompiscatole moralista di Catone, esaltata da Cicerone, ma esecrata in un «libro nero», forse il primo, da Plinio il Vecchio, che denunciò 1.200.000 morti, massacrati da Cesare per sottomettere la Gallia. Altri storici –Velleio Patercolo, Plutarco, Appiano– ridurranno la cifra, ma Cesare, precisissimo negli altri dati, la occultò: «Io non posso porre tra i suoi titoli di gloria –dice Plinio– un così grave oltraggio da lui arrecato al genere
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umano». Compare per la prima volta, nella storia dell’uomo, l’offesa all’umanità. Cesare verrà eternato come condottiero da Napoleone III e dimenticato come macellaio, prima che Goethe («Siamo diventati troppo umani per non dover sentire ripugnanza ai trionfi di Cesare»), Simone Weil, Bertolt Brecht, Camille Julian, storico della Gallia, e i recenti scavi di Bibracte mettessero in luce i suoi crimini: la vecchia talpa della storia è lenta ma arriva. D’Alessandro narra l’impresa imperialistica di Cesare, anzi di Kaisar (Cesare è stato l’archetipo di Napoleone, di Hitler, di Stalin, di Pol Pot, lo è in sedicesimo di Bush: inutile girarci attorno), la pulizia etnica che egli compie della galassia di popoli bretoni armoricani, scozzesi, irlandesi, belgi, dei Paesi Bassi, alleati infidi di Roma o doppiogiochisti, utenti di lingue ostiche ai romani, ma appartenenti allo stesso ceppo indoeuropeo. L’autore non ha l’assillo ideologicopoliziesco di Brecht che indaga sugli affari del signor Giulio Cesare, né ha simpatie per Marx o per Umberto Bossi. Il suo fine è «impolitico», alla Thomas Mann: narrare la
scomparsa di popolazioni strutturate per classi e caste, come quella che le cancellava dalla storia, e far rivivere dialetti etnie e alveari di vita, inabissati nell’Erebo degli oblii dalla Realpolitik espansionista, come è avvenuto nel Nuovo Mondo dopo gli stermini dei conquistadores o altrove per altri popoli (indiani d’america, armeni, cambogiani, ecc.). Non è l’ansia neorevisionista o altro prurito storicista a muovere il narratore, che non parteggia né per i vincitori né per i vinti, ma, con parnassiana impassibilità, descrive e racconta, al di là di qualsiasi giudizio politico o etico. L’insensatezza della guerra, l’orrore dei lutti, le atrocità degli eventi (torture, antropofagia,ecc.) sono squadernati al lettore perché sia lui a giudicarli. Quando rievoca carneficine, tratteggia usi e costumi che venivano etichettati barbari, accende la concupiscenza delle serve sbavanti per il maschio auriga, ricostruisce con sguardo da entomologo i fatti, senza sovrapporre commenti o preferenze. Ambigua e fuorviante quindi la dedica finale del libro (Ai morti senza nome di tutte le guerre). Una RIBALTA
Giovanni D’Alessandro I fuochi dei Kelt Mondadori 2005, pp. 276, Euro 17,50
«dissimulazione onesta», quasi una captatio benevolentiae. Come un certo uso del politically correct: ad esempio, nelle scene degli stupri collettivi, si legge di “umiliazione dell’offesa al pudore”(ma in che consisteva il pudore dei celti e dei romani?). Sono trascurabili sviste in un romanzo che impressiona per la precisione fiamminga delle ricostruzioni. La vicenda al centro del libro è la storia d’amore di un auriga, Hocham, con Harud, entrambi al servizio di Werkasswellauns, cugino di Werkinkerix. Il rapporto tra Hocham e i cavalli sorprende per cura del particolare e per scioltezza narrativa: «Solo montando –è scritto nel libro– li si conosce». Sarà mai salito su un cavallo, il criptodinzeo D’Alessandro, come d’Annunzio che li cavalcava, nudo come un verme, sulla spiaggia di Castiglioncello? Un romanzo storico dunque? Di storia ribolle ma senza la cartapesta, i trucchi, la cosmesi artificiosa di questo genere letterario: il mondo scomparso che lo scrittore rappresenta risalta con limpida attendibilità, al riparo dalle gonfiezze del mito. Con il contrappunto e la guida del LETTERATURA
De bello gallico che Cesare scrisse dopo l’eccidio dei celti, D’Alessandro scrive un dettagliatissimo reportage giornalistico, illustra in corpore vili un trattato di arte militare che sarebbe piaciuto a Clausewitz, innalza una foresta ramificatissima di voci, di suoni, di paludi, di sangue, di triangoli (con il sogghigno del Poeta che così chiamava l’organo femminile), di fuochi. Un mare ora maestosamente infuriato ora addolcito dalla bonaccia. Il modello di Omero, per curiosa poligenesi, ricorre anche nel libro Omero, Iliade di Alessandro Baricco, che così ha motivato la scelta: “…dire e insegnare che la guerra è un inferno e basta è una dannosa menzogna. Per quanto suoni atroce, è necessario ricordarsi che la guerra è un inferno: ma bello”. Un alone estetizzante che circola anche nel libro di D’Alessandro, pur catafratto di orrori e di eroismi: di diverso c’è nel suo libro la presenza degli dei, cancellati da Baricco (ma è credibile un Omero senza dei?), calata panteisticamente con un filo che richiama il libro dei libri, in cui viene chiesto di combattere Sodoma e Gomorra annientando “la prole e la stirpe”.
In tempi di chiasso pacifista, D’Alessandro e Baricco vanno controcorrente, con il loro “istinto a non smettere mai di raccontare le guerre”(Baricco). Un istinto che durerà fino a quando la guerra non sarà un tabù, come auspicò Moravia. Dopo la Grande Guerra, nel 1918, uscirono le Considerazioni impolitiche di Thomas Mann , ma il libro non piacque al fratello, Heinrich, perché, a suo giudizio, rischiava di affogare in un’aura di “croce, morte e sepolcro”, di cupa sorgiva nicciana, quella vita che i morti dell’immane conflitto mondiale avevano affermato cadendo sui campi di battaglia. Anche Giovanni D’Alessandro, nel suo libro più sepolcrale di quello di Mann, ha parlato di morte, di idiomi sepolti, di popoli sterminati da altri popoli nella breve parabola che ad essi concede l’eternità. Lo ha fatto con impeccabilità formale, ma con emotività blindata, senza che la ragione semplice e perenne della vita dia un possibile senso alla cecità degli uomini, pronti ad amputarsi del bene più grande che hanno. Dalla Bibbia a I fuochi dei Kelt a Falluja è sempre stato così. VARIO57
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PAROLE D’AMORE Stefano Avino, Ledere, WK Edizioni, 2005, pp. 56, Euro 10,00 L’intenzione è lodevole: pubblicare i propri diari (anzi, le proprie agende) così come sono, riprodurre fotograficamente le pagine scritte in maniera spesso confusa, a v olte più razionale, così da “potersi leggere”, mettere a nudo la propria anima e la sensibilità che affiora dalla scrittura improvvisa, e improvvisata, da giorni che racchiudono ricordi, emozioni, impressioni. Stefano Avino, giovane artista/cantante pescarese (è leader del gruppo rock Dog bisquits) ha dovuto rinunciare al suo progetto iniziale per motivi economici, e ha r ipiegato su una formula di trascrizione, fedele nella riproposizione della frammentarietà dello scritto, che salva la sostanza a scapit o dell’estetica. Ma è la sostanza che gioca un ruolo da protagonista: i pensieri, la scrittura, gli argomenti trattati in Ledere ne fanno un ritratto sincero e emozionante dei ventenni innamorati, innamorati di tutto, di una donna, della vita, della musica. Sar ebbe sbagliato considerare questo libro (il primo di quattro, secondo le intenzioni di Avino) come l’esordio di uno scrittore. Va letto per capire un po’ di più, dall’interno, i F.G. nostri figli. E per ricordare quello che eravamo.
TRIANGOLO PESCARESE re voci, due storie d’amore, una città (Pescara) come fondale, palcoscenico e pubblico, in un libro che sta a metà tra il romanzo breve, il racconto lungo e il copione teatrale. Alla regia Cristina Mosca, 26 anni, laureata in Lingue, futura insegnante e oggi collaboratrice di quotidiani e riviste. Chissà se verrà alla mia festa è il suo esordio letterario, pubblicato per i tipi di Schena Editore di Fasano, in virtù della vittoria del premio Valerio Gentile.
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Cristina scrive di un triangolo amoroso tra vite del giorno d’oggi, colte nel loro barcollare tra le inquietudini sentimentali e gli snodi esistenziali, irrimediabilmente suoi (autobiografismo o meno) e della generazione cui appartiene. Brioso e scanzonato, come si conviene ad un esordio, ma con guizzi di originalità strutturali che fanno di questo libro veloce un qualcosa da non sottovalutare né liquidare come romanzo giovanilistico tout court. P.F.
Cristina Mosca, Chissà se verrà alla mia festa, Schena editore, 2005, Euro 6,00.
LA BELLEZZA DELLA PAROLA lsa Bruni, insegnante e dottoranda di ricerca presso la Facoltà di Lettere della “d’Annunzio”, ha una predilezione per le lingue classiche, oggetto dei suoi continui studi nonché delle sue pubblicazioni. La più recente di queste è La parola formativa, uno studio che nasce «dal progetto di ricerca sulle lingue classiche, e individua la parola (il logos) come la prima, vera forma di educazione attraverso la quale la cultura g reca ha organizzato il processo formativo. In pratica, è una forma di educazione preesistente alla figura dell’insegnante». La sua passione ha prodotto in precedenza uno studio attento e puntuale dal
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Elsa Maria Bruni, La parola formativa. Logos e scrittura nell’educazione greca, Rocco Carabba Editore, 2005, pp. 87, Euro 11,50
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titolo Greco e Latino: le lingue classiche nella scuola italiana (1860-2005), pubblicato per i tipi di Armando editore; successivamente la Bruni ha curato il libro Cultura classica e scuola, di Filippo Morgante, “icona scolastica” del ventesimo secolo, figura di riferimento per insegnanti ed educatori di oggi e di domani. All’autrice abbiamo chiesto, vista l’importanza riconosciuta alla parola e alla lingua, cosa sia per lei la scrittura: «Per me è un modo di rappresentare l’esistenza, è come un mappamondo: attraverso la scrittura, superando l’oralità, si esprimono concetti sui quali è possibile ritornare, è riflessione, significa uno scavo psicologico. Dietro un testo ci sono momenti profondi, e come un mappamondo è per un verso chiuso, per l’altro infinito». Ti dedicherai mai ad un romanzo? «Ne ho uno pronto, ma non ho il coragg io di dare alle stampe me stessa». F.G. RIBALTA
IL TRENO DEI RICORDI Enrico Pietrangeli, In un tempo andato con biglietto di ritorno Proposte editoriali, 2005, pag. 210, Euro 9,00 uesto bel libro di Enrico Pietrangeli è un viaggio nel tempo. Il biglietto di andata, di seconda classe, è per l’epoca turbolenta degli anni Settanta. Quello di ritorno è per l’anno 2000, sempre in seconda classe, ma con significative differenze: qualche comodità e qualche divieto in più. L’immagine di quel passato che emerge dal racconto di Pietrangeli è quella di un periodo caratterizzato dal culto del viaggio e della musica, dal desiderio di emancipazione perseguito anche attraverso la provocazione e la trasgressione, ma anche da impegno, partecipazione e responsabilità. Questo romanzo ci parla “di una generazione e di una cultura… che si caratterizza per una intelligenza del sentire aperta alla considerazione del bene comune, nonostante i pochi soldi, le violenze sociali e tutte le insicurezze personali e collettive inevitabilmente subite”. Lo sguardo del ventenne di allora oscilla attraverso l’evoluzione del M.C. protagonista verso l’oggi che di quel passato continua fortemente a risentire.
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POESIA AL NATURALE Sofonìa, Canti d’amore, Medealibri 2005, pp. 46, Euro 10,00 una esperienza sentimentale, un po’ melanconica e dal vago fascino adolescenziale entrare nel mondo poetico di Sofonìa (Berardinucci, in arte semplicemente Sofonìa) che pare voler catturare nelle sue
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VIAGGIO NEL SUD Rolando D’Alonzo, Estate, Orient-Express, 2005 ttraverso quest’ultimo testo, Rolando D’Alonzo si avvicina al “mondo delle periferie”, quello dei nomadi e degli extracomunitari, ancorando questa condizione esistenziale alla realtà abruzzese. I racconti che formano il libro sono ambientati nel tratto di costa sud dell’Abruzzo, in particolare tra Ortona e San Vito. Il filo conduttore del testo è il tema del viaggio, che diventa
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metafora del viaggio interiore, nel proprio inconscio, dove le speranze sono sempre tangibili. D’Alonzo, inoltre, si accosta al mondo dei bambini e degli adolescenti. I bambini, secondo l’autore, vedono il mondo con stupore e non distinguono bene la realtà oggettiva da quella soggettiva come invece avviene per gli adulti. Rolando D’Alonzo è nato a Chieti. Ha, inoltre, scritto e diretto un cortometraggio sul disagio e la solitudine degli adolescenti tratto dal suo racconto Osman il turco e realizzato grazie al finanziamento P. D. M. ottenuto dalla Regione Abruzzo.
PER REDIMERE L’UOMO Bartolo Iossa, Le betulle di Friedrich, La città del sole, Napoli 2005, Euro 8,00 artolo Lossa ha pr esentato la sua ultima fatica come prosecuzione di una r iflessione maturata nei lavori precedenti. Le betulle di Friedrich nasce come tentativo di uscire dalle conclusioni del libr o precedente, Aborto. Quest ’ultimo si chiude va con l’idea che l ’uomo odier no si tr ova di fr onte a una desertificazione della r ealtà, mentr e ora Iossa intende aprire uno spiraglio di uscita a questa condizione contemporanea. Nel 1900, secondo l ’autore, abbiamo assistito alla caduta nel mondo dell ’utile da par te dell ’uomo, alla per dita dell ’utopia e alla sfiducia nella speranza. Iossa definisce l ’uomo odierno come l ’uomo “post-dialetico”, mentr e oc corre che egli accetti al più presto di trasformarsi in “uomo dialog ico”. S olo in quest o modo , continua Iossa, l’individuo potrà superare la dimensione tra gica della storia per rispondere alla sete di rinnovamento etico e religioso che sta inaugurando l ’epoca del post -secolarismo. Nel mostrar e il suo punt o di vista, Iossa traccia anche uno stretto parallelismo
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tra la filosofia e la religione. mostrando molti punti di contatto tra i due ambiti, come la critica all ’idolatria e il rifiuto dei miti del la cont emporaneità. Il titolo del libro trae spunt o dall’arte nor d-europea e soprattut to dalle oper e del pitt ore t edesco C aspar Da vid Friedrich, di cui Iossa ha compiut o att enti studi. Nella cultura nor d-europea, infatti, le betulle simboleggiano la r isurrezione e F riedrich usava dipingerle all’uscita dei cimiteri (come raffigura il suo dipinto scelt o a coper tina del libr o) per assumer e il significato della redenzione. P.D.M.
rime sciolte tutti i ricordi d’amore per riviverli e fissarli in una realtà perenne ed immutabile. Sciolta e chiara è la ritmica dei versi che pare rimandare alla freschezza delle rime del Petraca. Ottimi gli apprezzamenti, tra cui quello di Benito Sablone, di questa poesia istintiva, “sussurrante”, fatta di emozioni e stati d’animo che riaffiorano e quasi rivivono ad “occhi chiusi” catturando i ricordi. Talora questi si affollano e si sovrappongono, così tanti nella fretta di riemergere, che quasi sopraffanno la sequenza del verso. E sorprende la sciolta leggerezza del ritmo, condotto in un nostalgico sottofondo da cui si eleva, acuto, il battito forte, incidente, della passionalità. Anna Maria Cirillo
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LIBRI ROSATO, DOVE LA POESIA E’ DI CASA Tonia Giansante, Sotto al ponte c’è tre conche, Orient Express, 2005 pp. 87, Euro 10,00 iocare con la memoria e aver memoria del gioco è la preziosa esperienza che ci regala l’ultimo libro della Giansante. Il ricordo appassionato di un certo modo di stare insieme e di divertirsi ci riconduce ad un tempo lontano fatto di emozioni e della loro felice condivisione. L’“eterna fanciulla viaggiante ancora in un universo incantato”, come la definisce Antonio Allegrini, ci ricorda come siamo stati e come, forse, potremmo ancora essere. Lo spirito che animava i giochi e le filastrocche di una volta, infatti, riemerge integro da queste pagine a destare, qui e adesso, il senso dimenticato della spontaneità. Come leggiamo nella prefazione di Eide Spedicato: “Quanto propone… inscrive, senza indugio, in contesti già vissuti quasi fossimo stati noi (che leggiamo) e non gli altri (che raccontano) ad essere i protagonisti delle storie qui proposte. Insomma, in queste pagine, ci si riconosce.” Michela Ciavatta
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Giuseppe Rosato, L’inguardabile vero, Tracce/Fondazione Pescarabruzzo, 2005 pp. 75, Euro 9,00 ’autore affronta con inquieta lucidità, attraverso la poesia, una riflessione sulla morte che è, appunto, l’inguardabile vero che dà il titolo a questa silloge organica e coerente. La tematica, complessa e ricca di possibili fermenti culturali, viene prrò considerata soprattutto in chiave esistenziale, e trova rispecchiate nelle sfumature espressive le diverse articolazioni di un pensiero arguto, che supera la dimensione autobiografica della lirica per una scrittura essenziale ma non rarefatta. La forza icastica delle immagini, la profondità dei simboli, l’accortezza lessicale, la musicalità dei versi testimoniano uno stile incisivo e modernissimo, una scrittura che si impone nel panorama complesso e variegato della poesia contemporanea. Ubaldo Giacomucci
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Tonia Giansante e Giuseppe Rosato fotografati nella loro casa di Lanciano
SILONE, VIAGGIO A BAGHDAD usio De Iuliis,che dal 1998 ha iniziato un lungo cammino di collaborazione e scambi culturali con la società civile irachena,ha recentemente fatto pubblicare in arabo,a Baghdad, un’edizione di Viaggio a Parigidi Ignazio Silone.Il lavoro,a cura del prof.Ahmed N. Mustafa,docente di italiano presso la Facoltà di Lingue,segue la realizzazione,sempre a Baghdad,della Sezione di italiano della biblioteca della Facoltà di Lingue,dedicata proprio allo scrittore di Fontamara.L’idea della traduzione del libro è nata alla fine di aprile del 2005,in
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occasione della visita a Pescina (AQ),città natale di I.Silone,della delegazione irachena dell’Università di Baghdad,composta dal dr.prof. Dhia Aldin N.Hasan,Preside della Facoltà di Lingue;dal dr.prof.Ayad Hussein Abd,Direttore dell’Accademia di Belle Arti e dal prof.Ahmed N. Mustafa.Un percorso necessario ed assolutamente indispensabile per andare oltre il semplice ma non meno importante volontariato umanitario;un tracciato fondamentale,un nuovo esperanto capace di andare oltre i“governi”e i“leader”,che attraverso la Cultura e l’Arte, partecipa con il suo linguaggio inconfondibile e universale,al dialogo tra i popoli e alla costruzione di un nuovo mondo di pace e giustizia.
le tue idee,il tuo spazio.
Via Verrotti, 13 Montesilvano (Pe) tel. 0854452642 e-mail: LACITTÀDELMOBILE.191.tin.it
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L’ARTISTA CHE INVENTÒ IL MARE i guardi, quei corpi e quei volti dipinti da Mario Masciarelli: tratti distorti, appena suggeriti da ruvide e rapide pennellate di blu e di rosso e di nero, (di nero soprattutto:“Con il nero spennello sul bianco lo spirito, i miei ricordi, il silenzio, l’irrequietezza e lo splendore dell’attimo che mi appartiene ma che già è passato”), ribellione dei colori contro le costrizioni del disegno e del verosimile e rivendicazione del nero (del bianco e nero) come diritto alla malinconia e all’ombra di sé contro l’illusorio vitalismo del mondo “a colori”. Li guardi, quei volti e quei corpi dai tratti colorati e scuri e dolenti, sempre sommari, talvolta brutali, mostruosi e t’accorgi d’una loro grazia scomposta, d’una bellezza furente, altra, ribelle d’ogni regola di buona creanza estetica.Li guardi e ci vedi Basquiat, il rutilìo pop dei suoi graffiti violenti e teneri, mostruosi e fantastici, che dai muri di Brooklyn e dalle lamiere dei vagoni della metropolitana (prima, insomma, delle gallerie di Manhattan) urlavano la disperata, irriducibile vitalità dei ghetti americani. Fa pensare a Basquiat, l’arte di Mario Masciarelli, a Jean-Michel Basquiat, il grande artista pop degli anni ’80,morto d’overdose a 28 anni, ma il professor Masciarelli è
un tranquillo (tranquillo?) insegnante di disegno, abita a Chieti, s’è diplomato all’Aquila quando all’Accademia di belle arte circolava gente come Marotta e Ceroli.È tranquillo Mario Masciarelli, capace d’allestire un idilliaco mare con un po’di sabbia, un foglio di plastica, acqua colorata e qualche ciotola (l’ha fatto di recente in una sua mostra di pitture e installazioni, alla Bottega d’arte di Chieti); un mare che più tranquillo e calmo di così non si può: acqua immobile, calma piatta dentro ‘ste scodelle perfettamente allineate finché l’azzurro intenso delle prime file non sfuma nel pallidissimo ciano delle ultime. Con altre scodelle d’acqua il colore del mare sarebbe morto; e con esso il mare. Perché, già, l’immaginate un mare senza colore? Ergo, è il colore che crea il mare, e se crea il mare può creare (inventare, almeno) tutto, anche corpi e facce e sogni e incubi.È tranquillo e pieno di risorse e d’eclettico talento, Masciarelli: da qualche anno s’è dedicato con ottimi risultati al cinema d’animazione: prima disegna,poi anima al computer le sue creazioni.Premiato in più occasione per i suoi corti animati: a Pescara (Scrittura e immagine),a Guardiagrele (Matita Film Festival), a Udine (Favolando) e segnalato al Festival d’Annecy, il più famoso dei festival del cinema d’animazione.In un suo video (“Generare”), davvero bello, Masciarelli appare con ali d’angelo. È tranquillo e modesto, Masciarelli: lui, non la sua arte. Francesco DI Vincenzo
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UN PELAGO DI CHINA rogettata per il Museo d’Arte Moderna Vittoria Colonna di Pescara (dal 15 febbraio all’8 marzo 2006) la mostra Donato Di Zio dentro il pelago è esaustiva già nel suo titolo, dell’interiorizzazione esistenziale della sua tematica, peraltro commentata in catalogo da un testo critico che porta la prestigiosa firma di Gillo Dorfles, storico e critico d’arte novantacinquenne, luminare indiscusso della storia dell’arte contemporanea internazionale. Ben 108 disegni a china, in bianco e nero, prodotti tra il 2000 ed il 2005 con una tecnica segnica di impronta calcografica, nonchè di strutturata creatività “Escheriana”, a tratti gestita in un informale estetizzante.
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Donato Di Zio, giovane artista abruzzese emergente, dopo aver frequentato il Liceo Artistico di Pescara e per alcuni anni l’Accademia di Urbino si è diplomato (con 110 e lode) alla Accademia delle Belle Arti di Macerata, sez. Scenografia. Oltre alla pittura, da tempo esercita la professione di scenografo per le produzioni di opere liriche, prosa e musicals di noti t eatri italiani a Firenze, Bologna, Roma, Macerata, Urbino collaborando ripetutamente anche con il Florian di Pescara. S.C.
SPAZIO AL LEGNO l Fez living, wine bar noto per la sua eleganza e raffinatezza, si trasforma: “spazio di immagine, luogo di idee, alchimie di suggestioni”è lo slogan che accompagna la sua metamorfosi in “Spazio Albanese”, spazio espositivo per idee ed eventi che ben si accostano al consueto servizio di ristorazione ed intrattenimento. Recentemente il locale è stato “plasmato”, secondo una felice intuizione, per ospitare la mostra dello scultore Italo Di Domenico, curata da Francesca Del Boccio. Privo di una specifica formazione artistica, Di Domenico crea per pura “ispirazione”le sue opere che riflettono un percorso di crescita personale. L’artista originario di Beffi si esprime attraverso il legno, materia ideale a tessere la sua trama ricorrente: il forte e inquieto rapporto che lega l’uomo alla natura. Tale rapporto che nelle prime opere viene interpretato in termini drammatici e conflittuali M.C. assume connotati più sereni e armoniosi nelle opere più recenti.
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RIBALTA
ART + FOOD + MUSIC = ECOTECA olto più che un locale, molto più che un luogo, Ecoteca è un tempo, il presente. Il presente che si mostra, che suona, che naviga, che si gusta. È qualcosa che ti fa sentire di abitare nella città giusta. Semplificando (operazione ardua): ogni mese una mostra, rigorosamente arte contemporanea (tra gli altri, noti e meno noti, recentemente ospiti delle pareti del locale: Claudio Di Carlo, Barbara Agreste, Tina Saric, Andrea Di Cesare e Sergio Camplone) in una logica di locale/globale che apre sia ad artisti residenti sia provenienti da fuori regione quando non dall’estero. Le suggestioni artistiche del presente declinate in forma pittorica, musicale, istallativa e performativa, disseminate in tutto l’anno, confluiscono in quello che è l’evento più dirompente che Pescara abbia mai ospitato e, per lungo tempo, c’è da giurarci, ospiterà. Il Peam (Pescara electronic art meeting), già tre edizioni alle spalle, artisti elettronici provenienti (o non provenienti) da tutto il mondo, schegge frastornanti di puro futuro, un evento che non ha eguali in Italia. Direttore artistico, o piuttosto padre, di Peam ed Ecoteca, Luigi Pagliarini, vero e
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Claudio di Carlo
proprio guru in materia di contemporaneità artistiche, in particolare quelle percorse da corrente elettrica alternata. All’Ecoteca si beve e si mangia solo biologico, all’Ecoteca si naviga solo con Linux, all’Ecoteca si tengono corsi, laboratori, seminari, incontri, concerti, dj set. All’Ecoteca il venerdì e il sabato da mezzanotte in poi non si riesce proprio ad entrare. Gli si fa un torto, ma non ci si sbaglia a definirlo un locale di tendenza. Attualmente, fino al 19 marzo, Note a Margine, mostra di Roberto Paolo Ferri Battestini. Roberto Battestini
ECOTECA via Caboto n.19 65126 - Pescara - Italy tel. & fax (+39) 085 67 341 e-mail: info@ecoteca.org
VATE RIDENS ra i tanti commenti riguardanti la vita del poliedrico d’Annunzio, una collocazione di rilievo merita la serie di 14 disegni caricaturali che costituiscono la “D’Annunzio story” delineata dal pittore Francesco Di Lauro. Non acredine né sarcasmo ma una delicata ironia ha ispirato l’autore. Anzi la forma burlesca serve per mascherare e nascondere, in maniera pudica, l’amore incontenibile del pittore per il grande Compaesano. Francesco Di Lauro, era pescarese d’elezione, autentico abruzzese nato a Guardiagrele. Espatriato negli Stati Uniti, a Detroit ha svolto anche il lavoro di figurinista e designer. Pur di carattere riservato e schivo, ha ricevuto apprezzamenti anche internazionali e gli si va riconoscendo il ruolo di notevole artista della seconda metà del Novecento. Le sue caricature, tratto sicuro segni robusti ricchezza di particolari, iniziano con “Il
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galante” e “Il romantico” lumeggiando il capriccio di d’Annunzio per le belle dame dell’aristocrazia. Significativo è “Il folcloristico” che evidenzia come la tragedia de “La figlia di Jorio” abbia nutrito la fama di d’Annunzio, qui rappresentato lattante, in un cesto al braccio di Mila. Ne “Lo sportivo”, Di Lauro immagina d’Annunzio ciclista che saluta due dame dai larghi
cappelli, venute a Pescara in un’auto sportiva. E poi “L’eroe” del volo su Vienna: d’Annunzio già con un occhio di vetro, lancia i volantini. Ne “Il comandante” si evidenzia che il re sciaboletta e d’Annunzio certo non hanno l’altezza dei granatieri. E ancora, “L’ammiraglio” d’Annunzio che invece di scrutare la nave in vista, si lascia attrarre dalle sirene. E poi è vasta l’opera pittorica di Francesco Di Lauro. La sua pittura è popolata da una numerosa umanità impegnata in uno sforzo si direbbe muscolare di realizzazione. Egli glorifica l’opera del popolo senza i toni politici di Guttuso, al quale per certi riguardi, può essere affiancato. Francesco Di Lauro è da considerarsi un cantore di Pescara: commuovono i suoi grandi dipinti raffiguranti la città negli anni Trenta e le barche cariche di pesce. Anna Cutilli
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LA MEMORIA
La sventura del Capitano di Marco Patricelli
Correva l’anno 1424 quando il Pescara in piena travolse il condottiero Muzio Attendolo Sforza diretto verso L’Aquila assediata dalle truppe di Braccio da Montone. Una storia di guerra e amicizia ricordata da un’iscrizione tanto grande quanto ignorata.
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na scritta scolpita su una sponda del fiume Pescara, in una delle zone più trafficate della città, che spesso non accende di curiosità neppure uno sguardo distratto. Eppure dietro le parole di quell’epigrafe è racchiusa una pagina di storia vecchia di secoli, in cui si intrecciano le vicende dei grandi capitani di ventura che incrociarono le lame negli Abruzzi. Correva l’anno 1424. Muzio Attendolo Sforza è uno dei più celebri condottieri italiani. Verso la fine di ottobre, alla testa di 4.000 cavalieri, e affiancato dal figlio Francesco e dal cugino Micheletto, è sceso negli Abruzzi per spezzare l’assedio dell’Aquila da parte di Braccio da Montone. Il tempo è inclemente e la marcia di avvicinamento avviene lungo la costa. Il 3 gennaio il fiume Pescara è in piena, ma lo Sforza non si fa distogliere dal parere degli astrologi che sconsigliano l’attraversamento all’altezza della foce, dove lui ha stabilito che ci sono le condizioni migliori per portare l’esercito dall’altra parte ed evitare uno scontro con il presidio braccesco della città. Il capitano è davanti a tutti anche nel guadare il fiume, però pochi uomini hanno avuto il suo stesso coraggio nello sfidare le acque; allora torna indietro, per dimostrare che se l’ha fatto lui possono farlo tutti. Nel secondo guado un suo scudiero perde l’equilibrio e cade nel Pescara; il condottiero non ci pensa due volte e si precipita per aiutarlo, ma il suo cavallo, già pesante per la bardatura, scivola e lo disarciona. L’armatura si rivela una trappola mortale. Muzio Attendolo Sforza scompare nelle acque limacciose nonostante i suoi uomini si prodighino per salvarlo. Nato a Cotignola il 28 maggio del 1369, a 13 anni Giacomuzzo Attendolo fugge di casa per diventare paggio di un cavaliere della compagnia di Boldrino da Panicate, capitano al servizio del Papa, che batte la campagna romagnola per arruolare i giovani. Secondo una leggenda avrebbe scelto di fare il soldato mentre era al lavoro nei campi, affidando la decisione al caso e lanciando la zappa contro una quercia: se fosse rimasta infissa sarebbe partito, altrimenti avrebbe fatto il contadino. Dopo l’apprendistato, per un diverbio uccide un caposquadra di Panicale e –assieme ai fratelli Bartolo, Bosio e Francesco e ai cugini Lorenzo e Micheletto– entra nella compagnia di Alberico da Barbiano in cui milita anche Andrea di Montone, col quale divide in alternanza anche i colori d’arme. Si è già guadagnato il soprannome di Sforza, che indica la sua virilità in
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battaglia, o probabilmente il suo vigore fisico: sempre secondo una leggenda, sarebbe stato capace di raddrizzare un ferro di cavallo a mani nude. All’alba del nuovo secolo l’imperatore gli concede di aggiungere un leone rampante alla sua insegna, dove campeggia un forte ma assai poco nobile melo cotogno. Le sue imprese hanno per scenario la Toscana fino al 1408, poi è in Emilia, Lazio e Umbria. È quindi al fianco di Andrea di Montone, che ha conquistato sul campo il soprannome di Fortebraccio –o semplicemente Braccio– per il vigore con cui nel 1390 si è sbarazzato dei componenti di una famiglia perugina. In passato ha litigato con lo Sforza, quando ambedue militavano nelle compagnie del Barbiano, per la divisione di un bottino, ma poi tra i due si è cementata l’amicizia. Assieme a Braccio da Montone, Sforza sostiene Luigi II d’Angiò e l’antipapa Giovanni XXIII, Baldassarre Cossa, che i due scortano nel solenne ingresso in San Pietro dopo aver battuto a Roccasecca il re di Napoli Ladislao (detto anche Lancillotto). Nel maggio del 1412 passa nel campo di Ladislao, che lo nomina gran connestabile del Regno, e inutilmente l’antipapa gli invia 36.000 fiorini per non averlo contro; quindi lo fa raffigurare impiccato per il piede destro, con in mano una zappa. Braccio, nonostante le offerte del re di Napoli, resta nel campo di Giovanni XXIII. Giovanna d’Angiò, per procurarsi una protezione, aveva nominato nel 1421 erede Alfonso V d’Aragona, che però aveva provato subito a salire sul trono di Napoli con la forza delle armi. La regina aveva allora chiamato al suo servizio Braccio da Montone, arruolato con 200.000 ducati in contanti e la promessa di elevarlo a gran connestabile e signore di Capua e dell’Aquila. A giugno il condottiero, a capo di 3.000 cavalli e 1.000 fanti radunati in Umbria, conquista Teramo ed entra a Castiglione, riporta all’obbedienza verso la regina i conti di Popoli e Loreto, prende Pacentro e Sulmona. Riduce a ferro e fuoco, massacrandone la popolazione, il feudo di Jacopo Caldora, alle cui truppe sottrae Castel di Sangro. Si allea a Capua proprio con Caldora, grazie a un cambio di schieramento, e insieme sbaragliano i soldati dello Sforza nei pressi di Santa Maria Capua Vetere. È lui a entrare a Napoli al fianco del re d’Aragona, mentre Muzio Attendolo Sforza è costretto a riparare ad Aversa. Nell’aprile del 1422 il siniscalco Giovanni Caracciolo lo invita a congiungersi allo Sforza per sostenere la regina Giovanna contro Alfonso d’Aragona, e i capitani raggiungono un accordo a RIBALTA
Selva dei Saccomanni; Montone resta gran connestabile e per dieci anni sarà vicerè (governatore) degli Abruzzi. È nominato principe di Capua e dell’Aquila a Perugia, dal signore di Foligno Corrado Trinci, nel gennaio 1423, su delega della corte. La marcia verso gli Abruzzi, su incarico dei fiorentini, è interrotta dalla sollevazione degli aquilani, fedeli alla regina. Il Montone in pochi giorni fa cadere nelle sue mani tutta la valle dell’Aterno. Barisciano è messa a ferro e fuoco e le donne sono inviate seminude all’Aquila a titolo dimostrativo. Ma la città non cede neppure agli assalti alle mura. Giovanna revoca allora a Braccio la nomina a vicerè, il Papa Martino V manda in aiuto dell’Aquila Pietro Navarrino, ma la spedizione è intercettata e sbaragliata a Stiffe. Un nuovo assalto alle mura viene respinto da Antonuccio dell’Aquila a Porta Barete, e allora in luglio il Montone lascia che l’assedio venga proseguito da Piccinino e Gattamelata, e muove su Rocca di Cambio e Rocca di Mezzo. Intanto a Napoli, nel giugno del 1423, Caracciolo è stato arrestato e la regina Giovanna d’Angiò è sotto assedio aragonese nel castello di Porta Capuana. Alle testa di 600 cavalieri e 300 fanti Sforza a Formello tiene testa per sei ore a 4.000 aragonesi e cattura lo stendardo reale e numerosi nobili catalani che libera in cambio del siniscalco Caracciolo; è lui stesso a prelevare la regina dal Castel Capuano. Fallito il tentativo di prendere Napoli, dove è sbarcato un forte contingente aragonese, alla fine di ottobre muove verso gli Abruzzi, dove Montone era tornato ad assediare L’Aquila ricorrendo anche alle armi della corruzione: le spie scoperte dagli aquilani erano state fatte a pezzi a Porta Paganica. Il condottiero ha occupato San Valentino in Abruzzo Citeriore, Lanciano, Francavilla e Chieti che viene fortificata. Muzio Attendolo Sforza guida un esercito di 4.000 cavalieri. Combatte a Torino di Sangro, Ortona, Lanciano, ma non può puntare direttamente verso L’Aquila, stretta d’assedio da Gattamelata. Il destino lo porta verso Pescara, ma gli negherà lo scontro finale con Braccio che, appresa la notizia, piange la morte dell’amico e avversario. La battaglia per L’Aquila si svolgerà a giugno. Nel frattempo gli aquilani hanno respinto gli attacchi a Sant’Annese, intrappolando dentro le mura numerosi bracceschi passati per le armi o precipitati dai merli. In soccorso della città sta ormai arrivando un esercito angioino-pontificio. Montone, Gattamelata, Brancolino Brandolini e Niccolò FortebracLA MEMORIA
cio attaccano sulla piana dell’Aterno le avanguardie di Ludovico Colonna e Menicuccio dell’Aquila. Fortebraccio non ha voluto seguire il piano di Gattamelata di attaccare le schiere nemiche mentre sono in marcia e ha optato per far presidiare a 2.000 fanti i passi dei colli di Ocre. Confida sulla forza d’urto di 4.000 cavalieri, 300 fanti veterani e circa 1.300 fanti abruzzesi. Dopo una serie di scontri e di manovre, l’arrivo della cavalleria di Federico da Matelica fa flettere i bracceschi e segna le sorti della battaglia. Fortebraccio irrompe allora con 200 fedelissimi cavalieri riuscendo nell’impeto a scompaginare le fila avversarie; resistono le sole squadre di Francesco Sforza, contro cui il Montone ordina di indirizzare l’attacco della fanteria aragonese, che però resta sulle sue posizioni; i pontifici e gli uomini di Caldora, invece, no. È la svolta. Lo stesso Gattamelata cade prigioniero, così come Niccolò Fortebraccio, mentre sulla fine di Braccio fioriscono diverse versioni. È di sicuro gravemente ferito alla testa, quando secondo alcuni decide di arrendersi al capitano generale Jacopo Caldora, ma mentre tenta di raggiungerlo cade nelle mani di alcuni cavalieri, tra i quali i perugini Ludovico e Lionello dei Michelotti, Armaleone Brancaleoni, che lo colpiscono più volte. Il suo corpo esangue è portato al cospetto di Caldora (oppure, secondo altri, di Francesco Sforza). Dopo tre giorni senza parlare e senza assumere cibo, muore, forse per un errore del chirurgo che lo opera alla testa, oppure a causa di Francesco Sforza che gli avrebbe spostato la mano durante l’intervento; oppure finito da Caldora; oppure per vendetta di Andreasso Castelli (al quale aveva sterminato la famiglia). Il cadavere è portato a Roma, tra grandi festeggiamenti, da Ludovico Colonna; Martino V fa gettare il corpo del condottiero in un terreno sconsacrato fuori San Lorenzo dove fa erigere una colonna simbolo della famiglia e della sua vittoria. Solo nel 1438 Eugenio IV concederà di benedire i resti, poi riportati a Perugia. Gattamelata muore nel 1443 a Padova ed è sepolto nel duomo di Sant’Antonio, di fronte alla piazza dove sorge il monumento equestre di Donatello. La tomba di Muzio Attendolo Sforza, il cui figlio Francesco succede ai Visconti come signore del Ducato di Milano, è nelle acque del Pescara: il suo corpo, infatti, non è mai stato ritrovato. Appena una scritta, tanto grande quanto ignorata, per ricordare il condottiero ritenuto «in Italia il primo capitano dell’arte militare».
Sopra, una stampa raffigurante la morte di Muzio Attendolo Sforza e un ritratto del condottiero. Nelle foto, l’iscrizione commemorativa sul lungofiume di Pescara. Il testo recita: “Nella lotta braccesca, sovvertito l’Abruzzo in esperimento grezzo d’unitario assestamento nazionale, il 4 gen 1424 Muzio Attendolo Sforza ne l’urto contro le barre fluviali periva affogato animoso valicando a cavallo e salvando un suo cavaliere. Il Comune pone l’anno delle celeb. stor. MCMXLIX”
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STORIE DAL VOLONTARIATO
Luciana Orsatti «Imparare a sopravvivere è arduo ma possibile, di Pierluigi D’Angelo foto Silvia Jammarrone
dopo la scomparsa di un figlio tutto parla di lui».
el 2001 l’Italia si commosse davanti ad una storia, quella di uno psicanalista e della sua famiglia sconvolta dal dolore per la scomparsa improvvisa del figlio sedicenne. Era la storia di una perdita, di una elaborazione e di una ricostruzione, perfettamente orchestrata e diretta sullo schermo da Nanni Moretti nel suo film La stanza del figlio. Un anno dopo, nel dicembre del 2002, la dottoressa Luciana Orsatti, psicologa e psicoterapeuta, battezzava la sua neonata associazione di volontariato con lo stesso titolo del film, in nome delle evidenti affinità tra la sua attività e l’argomento trattato nell’opera del regista romano. «In realtà il mio lavoro come psicologa in questo settore è cominciato nei primi anni ‘90 –racconta– quando facevo tirocinio presso il reparto di Oncoematologia del S.Spirito di Pescara. Mi trovai a contatto con un universo strano, terribile e meraviglioso, che mi spinse a continuare in quella direzione». Laureata in Lingue e letterature straniere, insegnante di inglese per 24 anni presso un Istituto Tecnico pescarese, Luciana Orsatti decide durante la sua carriera di conseguire anche la laurea in Psicologia, il suo vecchio sogno. «Fare l’insegnante, per quanto gratificante, non mi bastava. Per questo mi rimisi sui libri e decisi di iscrivermi a Psicologia, che quando scelsi Lingue ancora non esisteva. Mi laureai a Roma e feci il tirocinio qui. Dovevo restarci sei mesi, mi trattenni un intero anno». Un anno di grandi esperienze emotive. «La mia era una condizione molto particolare. Ero mamma e psicologa, e vedevo genitori entrare in reparto con i loro figli, accudirli con la massima cura, e uscire, il più delle volte, senza di loro. Era terribile. Mi sono chiesta cosa facessero una volta a casa, come si svolgessero le loro vite distrutte. Mi dissi che dovevo fare qualcosa per aiutarli. Cominciarono loro a chiamarmi. Ero diventata un punto di riferimento sia per i pazienti
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(bambini, ragazzi, adulti) che per le famiglie, che mi consideravano la depositaria degli ultimi segreti dei figli, molti dei quali mi spiravano praticamente tra le braccia. Una volta una madre mi disse che conoscevo suo figlio più di lei stessa». Cominciano così le prime visite a domicilio, su desiderio dei genitori: «La prima mossa non posso farla io, è sbagliato da un punto di vista umano e terapeutico. Chi ha perso un figlio non vuole essere aiutato, per due ragioni principali: la prima è che credono che nessuno possa aiutarli, la seconda è che temono, grazie alla terapia, di dimenticare il figlio. Per questo quando vengono qui la prima cosa che dico loro è che il dolore non glielo toglierà nessuno, è una ferita aperta e tale resterà per tutta la vita. Ma c’è una soluzione, che consiste nel trovare un posto a questa sofferenza, in modo da riattivare le altre aree della nostra esistenza che sono quelle che ci fanno vivere. Imparare a sopravvivere è arduo, ma possibile. Bisogna capire che l’altro non scompare, non svuota lo spazio della sua presenza, anzi lo pervade ancor più intimamente. Dal momento della sua scomparsa, infatti, tutto parla di lui. L’assenza diventa una modalità d’esperienza». Il tam tam è il mezzo principale con cui il gruppo di utenti dell’associazione si allarga. «Quando ho aperto lo studio assistevo cinque o sei famiglie, prelevate direttamente dal cimitero di Sambuceto. Questo è interessante: in tutti i cimiteri si creano gruppi di persone, generalmente mamme, che vanno un paio di volte a settimana al cimitero, e si ritrovano lì regolarmente, come se andassero a prendere il té da un’amica. Stanno lì al freddo, e parlano tra di loro. Una donna che avevo aiutato e che dopo alcuni anni è riuscita a superare il suo stato di prostrazione, si interessò della condizione delle sue amiche e cominciò a portarle da me. All’inizio erano un po’scettiche, poi si RIBALTA
affiatarono e hanno cominciato a venire da me ogni sabato pomeriggio. Oggi assisto un gruppo di circa ventitrè persone». L’attività di Luciana Orsatti è praticamente a tempo pieno: ogni giorno ha appuntamenti con singole famiglie o genitori; la terapia di gruppo si svolge il sabato pomeriggio, e il giovedì è dedicato all’appuntamento con i figli. «Spesso si pensa che ad essere colpiti maggiormente dalla morte di un figlio siano i genitori. Ma anche i fratelli degli scomparsi hanno subìto un trauma, e ne risentono in modo particolare. C’è chi reagisce allontanandosi fisicamente dalla famiglia, magari scappando, altri rischiano la tossicodipendenza… sono molteplici le situazioni di disagio in cui vengono a trovarsi, e così abbiamo costituito un gruppo apposito per loro». Dell’associazione fanno parte, oltre a Luciana, suo figlio (che si occupa dell’amministrazione e del sito web www.lastanzadelfiglio.com), un’altra psicoterapeuta, due psicologhe, uno psicologo e un medico, «oltre ad una schiera di amici che mi hanno aiutata all’inizio e continuano a farlo. Sembra strano, ma ho grosse difficoltà a far emergere questa struttura, la gente non vuole parlarne. Persino i miei colleghi mi dicono che mi sono imbarcata in un’attività troppo dolorosa. E la chiesa, poi, mi ostacola tantissimo. Io sono cattolica, ma credo sia difficile accettare che tuo figlio è morto per volere di Dio». Proprio per aiutare l’associazione e per raccogliere qualche contributo, Luciana Orsatti ha scritto un libro, Quando i sogni si colorano d’azzurro. Voci dalla Stanza del figlio, che ha diffuso su tutto il territorio nazionale: «Non sono una scrittrice, ma l’ho fatto perchè speravo di smuovere le acque. Molti non sanno che esiste questa associazione, non sanno cosa facciamo. In Italia non ne esiste una simile, salvo qualcuna di tipo religioso. Del resto il fatto che non sia STORIE DAL VOLONTARIATO
un’organizzazione a scopo di lucro crea scetticismo. Quando ne parlo mi viene chiesto se io abbia subìto quel tipo di perdita, come se ogni associazione di volontariato che si muove in un certo settore debba essere retta da una persona che ha conosciuto direttamente il problema. Ma per quanto in molti casi sia questa la normalità, secondo me ciò facilita la convivenza col problema, non il suo superamento. Un tecnico esperto, che è fuori dal problema, può lavorare in questo senso. Ma lo scetticismo iniziale resta: per giustificare il mio lavoro ho dovuto addirittura tirare fuori dal cassetto la mia laurea ed appenderla in salotto, dove ricevo i pazienti». Anche nella storia di Luciana, come in tutte le storie umane, ci sono successi e fallimenti: «I fallimenti consistono in coloro che abbandonano la terapia: mi capita spesso con i genitori dei suicidi, che sono persone che praticamente girano con un cartello appeso con su scritto “mio figlio è morto suicida”. In questi casi avviene che sia difficile iniziare la terapia, e altrettanto difficile è fargliela proseguire. Ma anche quando abbandonano, io non recido mai i fili, non perdo mai le speranze. Per fortuna i successi sono in numero maggiore. Di sicuro ricorderò sempre la prima donna di cui mi sono occupata fuori dall’ambiente dell’ospedale… Fu un’amica a portarla da me, dieci anni dopo che aveva perso suo figlio. Il problema era molto grave: il ragazzo era morto, accidentalmente, per mano del padre. Entravano in gioco dinamiche familiari pesantissime ed estremamente dolorose. Lei aveva reagito apparentemente bene, continuando a vivere normalmente; ma dieci anni dopo era scoppiata: vestiva di grigio, non si curava più del marito, dell’altro figlio, non mangiava e non dormiva. Si stava lasciando morire. L’aiutai. Dopo due anni di terapia ha superato il problema ed è diventata anche un punto di riferimento per gli altri utenti dell’associazione».
La dottoressa Luciana Orsatti. Qui sotto, il suo libro.
Associazione di volontariato “La stanza del figlio” via Milano 75 65100 Pescara Tel. 3474315301 www.lastanzadelfiglio.com e-mail: la_stanza_del_figlio@yahoo.com
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BASTANO TRE COSE PER ESSERE INFELICI E MOLTE MENO PER NON ESSERLO Credo che io potrei vivere tra gli animali / che sono così placidi e pieni di decoro. Li ho osservati tante volte e a lungo. / Non s’affannano, non gemono sulle loro condizioni, / non stanno svegli al buio, / per piangere sopra i loro peccati, non s’indignano discutendo / i loro doveri con Dio. / Nessuno è insoddisfatto, nessuno ha la manìa infausta / di possedere le cose, nessuno si inginocchia innanzi all’altro, / né ai suoi simili vissuti migliaia di anni fa. Nessuno è rispettabile tra loro, / o infelice, sull’intera terra. Walt Whitman e non ti godi la vita e pensi di affannarti per inseguire la felicità, se non ti trovi su un’isola deserta come Robinson Crusoe alla ricerca di qualcosa per sfamarti, se non conosci le cause della tua insoddisfazione, potresti essere affetto da una delle tre cause di infelicità, di cui Russell ci parla in un suo brevissimo saggio Tre cause dell’infelicità, appunto. Pare che l’affanno per vivere dipenda da almeno tre cose: la competizione, l’invidia e la mania di persecuzione… Scusate se è poco! La radice del primo mal di vivere risiede nell’eccessiva importanza attribuita alla riuscita di una competizione con i propri simili. Non che il successo sia necessariamente fonte di felicità, ma per la maggioranza è un buon ingrediente. Competere ha molti risvolti, purtroppo negativi se la competizione non va a buon fine. Dopo l’ansia e la competizione (che vanno spesso a braccetto) la seconda causa di infelicità è l’invidia, passione umana universale che merita qualche commento in più perché è la più precoce. La scopri già in un bambino quando una lieve parvenza di diversità di trattamento a favore del fratellino o della sorellina provoca un forte risentimento. Ma qui siamo più sul versante della gelosia. E che dire quando il bambino strappa letteralmente di mano la bambola alla sorellina? Lui ignora questo tipo di giochi ma se è in mano a qualcun altro quel giocattolo diventa irresistibile. Allerta, dunque. Se vi occupate di bambini, fate appello ad una giustizia distributiva, assoluta e invariabile. Questa emozione è forte nei bambini tanto quanto negli adulti. Nella maggior parte delle donne l’invidia gioca un ruolo importante. Mettete che sale sul treno una donna elegante e bella, che fa girare la testa ai maschi presenti. L’uomo la guarda con ammirazione, la donna ,tempo cinque minuti, riesce abilmente a trovare il neo, farà subito qualche commento poco lusinghiero, un “sì, però…”. Un uomo esprimerebbe un giudizio così solo se si trattasse di un uomo che fa la sua stessa professione. Avete mai provato a lodare un artista ad un altro artista? O un politico ad un altro politico? L’invidia invece di farci provare felicità per quello che abbiamo, ci fa provare infelicità a causa di quello che non si ha e che,però, ha qualcun altro. Per fortuna esiste un’emozione compensativa: l’ammirazione.
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di Laura Grignoli*
Se desiderate la felicità ,accrescete l’ammirazione e diminuirà automaticamente l’invidia. Esiste una cura per l’invidia? Per i Santi la cura è nell’altruismo, per noi “normali” sta nella felicità. Ma come? Non è l’invidia che provoca infelicità? Come uscire da questo circolo vizioso? Forse il solo fatto di rendersene conto ci aiuta a passare da invidiosi a… invidiabili. Francamente invidierei (vedete come è facile caderci?) chi non soffre di questo inconveniente dell’animo umano. Inutile ricorrere alla modestia, che pare sia più ambigua dell’invidia. Ma cosa invidiamo? Nella nostra epoca l’invidia occupa un posto di primo piano, pur se opportunamente mascherata : il povero invidia il ricco, le nazioni povere invidiano le ricche, le donne virtuose invidiano le impunite…la Destra invidia la Sinistra (boh, che c’avranno loro da invidiarsi…). Insomma è sempre il malcontento a far germogliare l’invidia. Ai tempi dei miei nonni si invidiavano solo i vicini, perché poco o niente si sapeva degli altri. Ora sappiamo tutto di tutti in tempo reale. Manco il tempo di abituarsi a invidiare un fidanzamento che c’è già da invidiarne la rottura! Ma nociva che voglia essere e per quanto esiziali possano essere i suoi effetti, non è poi così terribile: è espressione di dolore eroico di chi cammina nella notte per inseguire un luogo migliore. Stavo per dimenticare un accenno al terzo problema: la mania di persecuzione. Ce l’abbiamo un po’ tutti. Qualcuno cade in questo vittimismo solo raramente, quando è reale il problema di cui ci si sente prigionieri. Chi non ha un amico o un’amica che ha da lamentare sempre qualcuno che gli ha fatto del male? La richiesta di compassione è l’obolo richiesto. Ma di esso non ci si accontenta mai. Ci sarà una ulteriore richiesta e il vittimismo non ha soluzione. Se non gli crediamo…costituiremo un altro da allegare alla lista dei persecutori, se gli crediamo ,il racconto si farà sempre più dettagliato e verosimigliante per carpire dosi massicce di compassione in concentrato. Chi sono le persone che cadono in questa mania? Di solito chi irrazionalmente ha un concetto troppo esagerato dei propri meriti. Chi è vittimista, infatti, pensa che gli altri passino la vita a pensare a loro, a escogitare trappole e pettegolezzi su di loro, che lo sport preferito dagli altri è perseguitarli e criticarli. Non pensate che tipi così se la credono un po’ troppo? Il rimedio? Capire che l’attenzione la si può catturare con mezzi meno asfissianti per il prossimo. Magari dicendo a chi ci chiede ‘come va? Meravigliosamente bene!’. Oddio, e se gli faccio scatenare invidia? Ridiamoci su.
* Psicologa e psicoterapeuta Viale Alcione 137G Francavilla al mare lauragrignoli@hotmail.com
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LE PAROLE PER DIRLO
di Giovanna Romeo
ttendere il momento giusto. Apparentemente facile, ma spesso il fatto di percepire che una cosa non si può fare in quel momento induce a sfidare la sorte, ad accanirsi per ottenere ciò che difficilmente porterà a qualcosa di buono. Saper aspettare è un’arte che s’impara. Prendiamo ad esempio alcune iscrizioni premature a scuola: esse provocano malessere profondo nei bambini; pur essendo soggetti sani, normalmente intelligenti, i piccoli iniziano a vivere la scuola con forte disagio, sentendosi giustamente inadeguati. Si rende così obbligatorio magari il ricorso ad un’insegnante di sostegno (pena la bocciatura) che non sarebbe stata assolutamente necessaria. In più questi piccoli instaureranno probabilmente, con la scuola, un pessimo rapporto quantomeno per altri tredici anni della loro vita. In amore le cose non sono certo diverse: avete mai amato una persona nel momento sbagliato? Quando il lui o la lei sta magari vivendo un’altra storia d’amore o sta investendo sul lavoro? In genere ci si scoraggia, ma può essere solo il momento sbagliato; raramente ci si riprova lottando per ottenere ciò che s’intuisce può andare bene. Quanti adolescenti o giovani adulti, inoltre, appena iniziano un lavoro vorrebbero raggiungere subito i vertici dirigenziali senza possedere competenze, senza
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SESSO E QUALCOSA alvolta mi chiedo che succederebbe se introducessero la poligamia in Italia: i risultati sarebbero pari all’effetto di un’epidemia di aviaria, strage di uccelli e sterminio di parte della popolazione attiva. In altre parole una devastazione. Provate ad immaginare una famiglia italiana con cinque mogli, alle prese con le scadenze che ci attendono nella vita quotidiana. Primo evento terrificante: i saldi. Immaginate un pover’uomo che torna a casa, incazzato nero, per il traffico, le tasse, le bollette e si trova di fronte cinque mogli, che gli annunciano allegramente che l’indomani cominciano i saldi, guarda le televisioni e, su tutti i canali (ogni moglie ha un suo canale preferito) vede un
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esperienza, senza aver attraversato tutte quelle tappe tipiche di chi si accinge a conoscere il proprio lavoro, di chi riesce a gestirlo, a conoscerne i trabocchetti e le insidie. I giovani apprendisti si offendono se qualcuno fa notare loro che dovrebbero osservare, darsi da fare, riflettere e aspettare. Non sono loro forse bravi? Non hanno il pezzo di carta richiesto? Niente umiltà tipica di chi inizia a conoscere una cosa nuova. Persino i genitori che si buttano giù perché paragonano il figlio ad altri ragazzi “brillanti” o si esaltano per gli ottimi risultati a scuola del pargolo corrono questo rischio: ciò che i figli diventeranno sarà il tempo a dichiararlo, nulla ci può assicurare la loro felicità, né tantomeno la loro tranquillità. Di sicuro se una persona investe con passione le sue energie in qualcosa che ama, i risultati arriveranno. Non subito: nulla si ottiene immediatamente. Bisogna saper aspettare e possibilmente trasmettere ai propri figli che nulla ci é dovuto, nulla è casuale o fortuito come in Match Point di Woody Allen, ma è all’interno di una vita che sgorga da noi, dall’energia che riusciamo a mettere nel vivere.
di Giuseppe Capone
tizio che su un canale dice di essere Gesù Cristo, su un altro napoleone, su un altro ancora che tutto va bene e quindi l’unico morto di fame che arranca è solo lui; oppure torna a casa e le mogli gli annunciano, a turno, che dovrà andare a parlare con i professori dei figli, altra esperienza devastante: dovete sapere che mentre le madri, quando vanno a parlare coi professori, ricordano tutto (vita, morte e miracoli non solo dei professori, ma anche dei compagni dei figli, ecc. ecc.) mentre il marito, pover’uomo, non ricorda neanche la classe e la sezione, per cui vagherà nella scuola, alla ricerca disperata di uno sherpa che lo accompagni dai professori giusti, moltiplicate il tutto per almeno un figlio
LE FASI DELLA CREATIVITA’ opo aver visto che cos’è la creatività proviamo a ragionare sul fatto se sia possibile una sorta di codifica del processo di creatività. In effetti, anche se sembra paradossale per una tematica in sé così poco codificabile e strutturabile, molti studiosi hanno evidenziato come anche un processo creativo debba essere articolato in alcuni fasi e non a caso il noto sondaggista Nicola Piepoli (uno dei primi ad occuparsi in Italia di creatività applicata ai contesti lavorativi) afferma l’utilità di scomporre il processo creativo in fasi organizzate “a formare un autentico percorso psicologico che conduce progressivamente l'individuo alla messa a punto di un'espressione creativa”. In questo senso, allora, torna utile ricordare la suddivisione che ne fa J. Wallas allorchè scompone il processo creativo in quattro momenti: preparazione, incubazione, illuminazione e verifica. Intendendo per preparazione il momento preliminare, durante il quale l'individuo raccoglie dati, pensa in modo libero, cerca e ascolta suggerimenti, vaga con la mente. L’incubazione è, invece, quel momento che intercorre tra la preparazione e l'illuminazione; esso può durare da pochi minuti a mesi o anni. “L'inventore - sottolinea Wallas - cova le sue idee in germe come la gallina cova le sue uova o come l'organismo cova i suoi mi-
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per moglie ed avrete un pallido quadro della sua sciagurata esistenza. E se deve scegliere l’auto? Rigorosamente il pulmino, ma il modello, il colore, gli optionals e l’ordine dei posti? E se arriva l’invito a un matrimonio o ad una cresima? Avete idea di quanti vestiti nuovi ci vorranno? E al mare basterà una palma sola a contenere il mucchio selvaggio? E gli anniversari e i compleanni? E magari per svagarsi accenderà il televisore e ci sarà il solito tizio che dirà che osserva la castità, poi cammina sulle acque, che ha diviso quelle del mar Rosso e che vincerà le elezioni, e capirà di aver raggiunto il nirvana.
di Galliano Cocco
crobi prima dello scoppio della febbre”…. Come si intuisce, l’illuminazione è invece il momento in cui si assiste allo scoppio della febbre fulminante e dirompente. Poco prima vigeva la confusione e l'oscurità, ora le soluzioni e le idee appaiono e affluiscono con chiarezza, può essere ”un'intuizione improvvisa, o una visione chiara, o una sensazione, qualcosa tra un'impressione e una soluzione, altre volte invece è il risultato di uno sforzo prolungato”. La verifica, infine, è la fase che chiude questa sequenza. Essa è necessaria affinché la soluzione possa superare la valutazione critica dell'innovatore, o anche di un gruppo o di un pubblico. Nel concreto dello svolgersi della creatività delimitare e capire meglio ciò che caratterizza le diverse fasi è, a volte, impresa ardua in quanto, per definizione, la creatività non…si pianifica! Ci preme, però, sottolineare, con questo articolo, come anche un processo creativo deve avere –per offrire risultati utili e non frustranti– una chiara metodologia operativa; un percorso nel quale l'analisi (corrispondente alle fasi della preparazione e della verifica) si intrecci alla sintesi (che avviene nel momento dell'incubazione e della illuminazione) in modo da realizzare un compiuto processo creativo che, ricordiamolo, è cosa ben diversa dalla… fantasticheria! VARIO57
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ARIA AI POLMONI di Fabio Trippetti* hiedendo ad una persona cos'è importante per sopravvivere, istintivamente questa parlerà di cibo, acqua, magari di soldi, salute, amore. L'atto respiratorio è così fondamentale, così vitale e così continuo, l'aria così invisibile, che ne dimentichiamo l'essenzialità. Eppure senza cibo si può sopravvivere mesi, senz'acqua giorni o settimane, senz'aria circa tre minuti, salvo particolari doti ed allenamenti. La respirazione coinvolge molti organi ed apparati, ma focalizzerò l'attenzione su polmoni e bronchi. Dalle fastidiose tossette alle bronchiti, polmoniti, pleuriti, le affezioni di questi organi sono molte e pericolose, fino alle forme tumorali, che quando investono i polmoni sono spesso incurabili. E non trascuriamo i danni da fumo che, ricordiamolo, fa sempre e comunque male. Inoltre l'inquinamento atmosferico non aiuta, e molte forme allergiche sono in continuo aumento. Tante quindi le cause meccaniche e biologiche che insidiano tali organi, ma aggiungiamo che in psicosomatica, così come nella tradizione dei chakra, tutta l'area toracica rappresenta simbolicamente il mondo della relazione affettiva, intesa prevalentemente in senso familiare, ossia l'affetto che si sviluppa (o meno) tra genitori
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e figli e tra figli e genit ori. Conseguenzialmente le carenze o gli eccessi, le problematiche, i traumi che sviluppano all'interno del sistema familiare, possono essere somatizzate su polmoni e bronchi. Dal punto di vista della psiche, per salvaguardare la salute di polmoni e bronchi, dedichiamoci alla cura dei nostri affetti, risolviamo le incomprensioni, abbracciamo ed intensifichiamo i contatti fisici con i nostri figli e genitori. C'è chi sublima l'affetto non dato o non ricevuto con un gatto, un cane, un canarino. Amare gli animali va bene, ma non sostituisce quell'affettività specie-specifica che solo un essere umano sa dare e ricevere da un altro essere umano. Se poi la sostituzione affettiva avviene con Internet, non so più cosa dire. La paura del rifiuto, di non essere degni di affetto, è forse la più profonda tra tutte le paure, ma non resta che rischiare mettendosi in gioco, poiché la solitudine è tra le pegg iori malattie. Lo psicoterapeuta e psicosomata Thorwald Dethlefsen, nel caso di disturbi di qualsiasi natura all'apparato respiratorio, consiglia di interrogarsi su cosa non si voglia accettare, non si voglia dare, con cosa e chi non si voglia entrare in contatto e se sia presente la paura di fare un passo verso una nuova libertà. Rispondersi motiva a
cambiare, ed il cambiamento porta alla guarigione. Per quel che riguarda la fitoterapia e l'erboristeria, c'è veramente l'imbarazzo della scelta per rimedi adeguati a bronchi e polmoni. Per bronchiti croniche e tosse, Kneipp consiglia un cataplasma di foglie fresche di farfara da applicare sul petto. Anche l'infuso di foglie e fiori di farfara giova nei casi di faringite, pleurite, raucedine. L'erborista Maria Treben garantisce effetti "grandiosi" della tisana di piantaggine e serpillo su asma polmonare e bronchiale. Si prepara portando ad ebollizione una tazza d'acqua con dentro uno spicchio di limone e un cucchiaino di zucchero di canna. Il bollore va alzato quattro o cinque volte, e soltanto dopo aver spento il fornello va aggiunto un cucchiaino colmo di piantaggine e serpillo divisi in parti uguali. Bere dopo circa mezzo minuto, e ripetere l'operazione tre o quattro volte al giorno. A metà tra fitoterapia e alimentazione curativa, l'assunzione di aglio crudo è un ottimo ausilio a mantenere efficiente l'apparato respiratorio e fonatorio, pazienza per l'alito poco profumato. Anche cipolla, scalogno, crescione, peperoncino, zenzero, miele grezzo sono alcuni degli alimenti che concorrono al benessere di bronchi e polmoni. E' mio dovere
ricordare sempre che nessuna delle medicine naturali va sostituita alla medicina ufficiale, e bisogna farne uso rivolgendosi al medico ed a professionisti qualificati. Per un intervento innanzi tutto preventivo, forse nessuna disciplina naturale dedica tanta attenzione alla respirazione quanto lo yoga, che riconosce in questa attività fisiologica dell'organismo la base di una vita sana. Attraverso le tecniche del pranayama, si riconquista quella respirazione addominale profonda, con la pancia che entra ed esce seguendo le spinte diaframmatiche, tipica del neonato, ma che lo stress ci porta a sollevare in una respirazione toracica, meno profonda e sana. Ovviamente lo yoga è anche un modo di pensare, e non cambierete nulla del vostro vivere se non lo apprenderete e praticherete nella sua totalità, seguiti da un buon maestro. Sono molti coloro che restano delusi dal "fai da te": medicina naturale non vuol dire automaticamente medicina facile e banale.
*Dottore in Psicologia, Direttore della Libera Università Medicine Naturali e Artiterapie, Professore a contratto Facoltà di Scienze Sociali, Università “G. D'Annunzio” di Chieti. (Tel. 328 4463456)
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Inchiesta GENTE DI PENNA
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