77 marzo/aprile 2012 n.77 • € 4.50
Cantina Bottari: Il medico del vino / Luciano Passeri: Pizza Marzolina
Le stelle polari del gusto Casadonna e Feudo Antico
marzo - aprile 2012
Sped. abb. postale Art.1 comma 1353/03 aut. n°12/87 25/11/87 Pescara CMP
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Blowcar Il successo è nell’aria
Sangritana CENTO ANNI IN MOVIMENTO Attilio Di Mattia Sarà lui il nuovo d’alfonso Speciale ARCHITETTI
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marzo/aprile 2012
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Rubrica BreVario
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Attilio Di Mattia S’io fossi sindaco
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Galaad Edizioni Quei libri sono un balsamo
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Iacopo Pasqui Verba volant, negativa manent
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Rizziero Di Sabatino Spazio all’arte
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Serena Di Gregorio Con l’Abruzzo nel cuore
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Blowcar Il successo è nell’aria
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Sangritana Cento anni in movimento
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Cciaa Pescara Programmare la crescita
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Poli d’innovazione Matrimonio di eccellenze
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VarioArt 2012 Talenti da collezione
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Speciale Architettura
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Ribalta Teatro/Libri/Arte/Musica/Eventi
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Dino Di Vincenzo Il Cavaliere gentiluomo
La città sostenibile / Dal ventre dell’architetto / L’identità smarrita / Perdersi (e ritrovarsi) a Pescara
VARIOGUSTO
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Casadonna e Feudo Antico Le stelle polari del gusto
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Cantina Bottari Il medico del vino
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Luciano Passeri Pizza Marzolina
Direttore Responsabile Claudio Carella Redazione Fabrizio Gentile (testi), Enzo Alimonti (grafica), Alessio Di Brigida Hanno collaborato a questo numero Gianni Biondillo, Michele Camiscia, Christian Carano, Andrea Carella, Simone Ciglia, Piero Cipollone, Annamaria Cirillo, Alessio Di Brigida, Maura Di Marco, Francesco Di Vincenzo, Oksana Egorova, Franco Feliciani, Massimo Palladini, Aldo Giorgio Pezzi, Alessio Romano, Germano Scurti, Giorgia Tobiolo
Stampa, fotolito e allestimento AGP - Arti Grafiche Picene - Via della Bonifica, 26 Maltignano (AP) Claudio Carella Editore Aut. Trib. di Pescara n.12/87 del 25/11/87 Copia singola Euro 4,50 Abbonamento annuo (sei numeri) Euro 24, Vers. C/C Post. 13549654 Rivista associata all’Unione Stampa Periodica Italiana Redazione: Via Puccini, 85/2 Pescara Tel. 08527132 - redazione@vario.it
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BREVario MICHELE, FORTE COL PIANO Che Michele Di Toro sia un talento eccezionale ormai l’hanno capito in molti. E col suo ultimo lavoro, Echolocation –da marzo in tutti i negozi di dischi e nei principali stores digitali– dimostra di avere straordinarie qualità anche compositive: le tredici tracce del cd –il primo “piano solo” di inediti registrato in studio– sono infatti completamente farina del suo sacco. Echolocation, “il punto in cui si forma il suono” secondo il suo autore, è stato presentato in anteprima a Pescara con un grande concerto al teatro Massimo e ufficialmente l’11 marzo al Blue Note di Milano. La title-track è anche il brano composto da Di Toro per accompagnare le immagini del film “Un cuore rosso sul Gran Sasso” di Sandro Visca, di cui abbiamo raccontato le vicende nello scorso numero di Vario.
GIADA E LE ALTRE Un film che è uno spot, o meglio: datemi uno spot e ne farò un film. È l’abruzzese di nascita –e ormai statunitense di adozione– Giada Colagrande la regista del terzo cortometraggio commissionato da Miuccia Prada per il lancio della nuova collezione Miu Miu, presentato a New York lo scorso 14 febbraio, giorno di San Valentino nella consueta cornice glamour-chic alla presenza di numerosi personaggi dello star system. The woman’s dress vede la bella Maya Sansa trasformarsi letteralmente nel suo oggetto del desiderio, un abito rosso sangue, grazie ai riti magici di un terzetto di streghe. «Mia madre era una femminista –spiega Colagrande– sono cresciuta in un ambiente di donne e faccio film sulle donne. Quando mi hanno contattata per fare questo film, tutto sulla femminilità, mi è sembrato di essere in paradiso. Il cinema è un mezzo potente per portare la moda ad un’altra dimensione: prendendo una singola immagine, come un abito, per creare tutto un mondo intorno ad essa».
I POESAGGI del Parco I paesaggi del Parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga in questo splendido calendario rivelano inconsuete visioni. Le montagne innevate al plenilunio, i boschi in cui indugiano le prime foglie primaverili appena ghermite dalla pioggia, le albe e i crepuscoli come pennellate di luce, le nebbie che si disciolgono in volute. Meraviglie della natura che mirabilmente si fanno poesia generando immediate assonanze con la parola dei poeti. Il calendario 2012 vuole offrire così suggestioni segrete e inedite del parco affidando alla forza delle immagini il compito di evocarne il fascino e la bellezza senza tempo.
RITRATTO DI UN ITALIANO L’anno scorso era toccato alla direttrice dell’Istituto di Fisica Nucleare del Gran Sasso l’onore di rappresentare l’Abruzzo nello speciale di Sette, il magazine del Corriere della sera dedicato a “Un giorno nella vita dell’Italia”. Simone Cerio, autore della foto (vedi Vario n.74) ha scelto Dario Febbo, direttore del Parco nazionale d’Abruzzo, per l’edizione 2012 dello speciale pubblicato lo scorso 9 febbraio. Febbo è ritratto insieme all’orso bruno marsicano Laura, uno degli orsi salvati dall’Ente parco. L’Abruzzo è presente anche in altri due scatti: quello di Fabio Fiorani, che ritrae un tecnico all’opera nello stabilimento della Micron di Avezzano, e quello di Alvaro Deprit che mostra Harbi, un giovane curdo ospite di una casa famiglia a Montesilvano.
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BREVario EDIMO, LO SVILUPPO TARGATO L’AQUILA Basterebbero i lavori che gli hanno commissionato gli aeroporti di Malpensa, Linate, Fiumicino e Orio al Serio a farne un nome d’eccellenza nella nostra regione. O quelli per la Stazione centrale di Bologna, per la metro C di Roma, per la Motorizzazione civile di Bolzano o per l’Interporto d’Europa a Marcianise. Ma la Edimo, gruppo imprenditoriale con sede a Poggio Picenze, appena fuori da L’Aquila, guarda oltre. Per la precisione, oltre i confini nazionali, spingendosi fino a Novi Sad, in Serbia, per realizzare il nuovo ponte sul Danubio, e in Nigeria, per la realizzazione di importanti infrastrutture destinate a rilanciare lo sviluppo in un Paese in crescita. In particolare, la Edimo Nigeria Limited, società a capitale misto italo-nigeriano creata ad hoc, ha siglato un primo protocollo con l’Authority incaricata dal Governo per la modernizzazione infrastrutturale del Paese, per la preparazione e la successiva esecuzione delle infrastrutture principali, comprendenti strade e ponti, sistemi di drenaggio della acque piovane, impianti di scarico e drenaggio delle acque nere, illuminazioni delle strade e cavidotti per le telecomunicazioni, di distretti della Capitale Federale Abuja. «Sono risultati importanti –spiega Carlo Taddei, alla guida del gruppo– anche alla luce degli sforzi compiuti dalla Edimo per reagire al disastroso terremoto del 2009». Che, al contrario di altre aziende, non li ha spinti ad abbandonare la regione, anzi. «Sono nato qui a Poggio Picenze, da famiglia contadina. Lavoravo negli stessi campi che oggi ospitano il mio stabilimento. Sono molto legato a questi luoghi e non ho mai perso il rapporto con la mia terra e la mia gente» spiega Taddei, che dopo aver iniziato la sua attività nel 1969 alle dipendenze di una società artigiana di coperture industriali, è oggi a capo di un gruppo che conta oltre 600 dipendenti e ben sei aziende impegnate in diversi settori dell’edilizia: la Edimo Prefabbricati, azienda leader nel settore della prefabbricazione in cemento armato ad armatura lenta e precompressa; la Edimo S.p.a., ai vertici nella produzione di carpenterie metalliche pesanti e medio leggere; la EM969, specializzata nella produzione di facciate continue, serramenti, pareti ventilate, rivestimenti, portoni industriali; la Taddei Costruzioni, che opera nel settore degli appalti pubblici e privati, e infine la Italnove S.r.l., con sede a Bucarest (Romania), centro di produzione di carpenterie metalliche.
L’AZIENDA DEI DUE MONDI
Insieme per le pmi
Dalla Russia al Sudamerica, il nome della Walter Tosto –l’azienda leader nei grandi impianti di caldareria per petrolio, gas e Gpl– non conosce confini. L’azienda teatina guidata da Luca Tosto si è aggiudicata importanti commesse che la vedranno impegnata nella fornitura di tubi e serbatoi per una raffineria in costruzione nella repubblica russa del Tatarstan e per l’ammodernamento e il rilancio di un’altra raffineria a Cartagena, in Colombia. A sostegno di entrambe le operazioni è l’italiana Sace, società finanziaria-assicurativa che opera nell’export credit e supporta le aziende italiane nei grandi progetti di sviluppo industriale dei mercati emergenti: la compagnia ha garantito un fondo di 144 milioni di dollari alle aziende italiane coinvolte nel progetto russo e uno di 210 milioni per quello sudamericano.
L’obiettivo comune è il continuo sostegno allo sviluppo delle piccole e medie imprese che rappresentano la struttura portante del sistema produttivo abruzzese. Per questo Confindustria Teramo e Banca dell’Adriatico proseguono insieme sulla strada del sostegno alle Pmi con un accordo che prevede un plafond di 600 milioni di euro. L’accordo è stato presentato e siglato a Teramo lo scorso 9 marzo da Salvatore Di Paolo, presidente di Confindustria Teramo, e da Salvatore Immordino, direttore generale di Banca dell’Adriatico, nell’ambito dell’incontro “Obiettivo crescita” organizzato nella sede degli industriali con la partecipazione di una larga platea di imprenditori. I punti decisamente innovativi dell’intesa sono tre: la valorizzazione delle risorse umane con il sostegno alla formazione dei dipendenti e allo sviluppo occupazionale, gli interventi di finanza straordinaria e razionalizzazione organizzativa (Lean Management), i finanziamenti e la consulenza per una maggiore efficienza energetica ed ecosostenibilità dell’azienda. «In questo momento –ha affermato Salvatore Di Paolo, presidente di Confindustria Teramo– il credito rappresenta l’emergenza e la priorità più importante da affrontare nell’immediato. Quest’accordo rinnova un rapporto di partnership già avviato, ma rafforza gli interventi per la crescita, puntando su soluzioni in grado di supportare le imprese e favorirne investimenti, crescita, patrimonializzazione e sviluppo».
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BREVario LES PAILLOTES tandem di stelle Sono Davide Pezzuto (ai fornelli) e Andrea La Caita (alla direzione) le nuove stelle del ristorante Les Paillotes di Pescara. Che di stelle (Michelin) ne ha già una, conquistata nel 2009 sotto la guida di Andrea Zana, direttore e Antonio Strammiello, chef, anche loro formatisi alla prestigiosa scuola del ristorante La Pergola di Heinz Beck come il nuovo acquisto Pezzuto. «Ho lavorato a Roma per cinque anni –racconta Pezzuto– dopo una lunga gavetta che mi ha portato in giro per il mondo tra alberghi, ristoranti stellati di carne e di pesce e stagioni al mare e in montagna. Non conoscevo Pescara ma mi sto già ambientando tra mercati e pescatori per trovare i prodotti d’eccellenza da utilizzare nella mia
cucina». Una cucina che proporrà «un connubio di antico e moderno: prodotti territoriali e specifici della regione che in abbinamento ad altre materie prime di qualità daranno vita ad un menù alternativo che si affiancherà ai piatti tradizionali del ristorante». Il trentunenne chef ha idee precise su come “coccolare” i suoi clienti: «Mi piace conoscere chi viene a mangiare qui, girare tra i tavoli, parlare con i commensali. Per questo abbiamo preparato delle schede per i clienti affezionati in cui sarà scritto ciò che hanno mangiato per proporre, nelle occasioni successive, piatti diversi». Un metodo condiviso e sostenuto da Andrea La Caita, trentacinquenne romano già direttore del ristorante –stellato, ça va sans dire– di famiglia a Tivoli e ora felicemente trapiantato nel capoluogo
costiero, dopo l’infanzia e l’adolescenza trascorse in montagna a Ovindoli e al mare a Roseto: «Dell’Abruzzo ho scoperto la grande qualità dei prodotti, e soprattutto dei suoi vini. Il ristorante Les Paillotes ha una selezione invidiabile nella quale vorrei aggiungere qualcosa di sfizioso, come i vini biodinamici».
spadone, tour orientale Bangkok, Hong Kong e Manila sono le tappe lungo le quali si è articolato il tour enogastronomico che lo chef abruzzese Marcello Spadone, titolare del ristorante La Bandiera di Civitella Casanova recentemente insignito della prestigiosa stella Michelin, ha realizzato tra Thailandia, Cina e Filippine su invito della Wine Depot, una delle principali società di importazione e distribuzione di vini del Sud-est asiatico. Affiancato e supportato come sempre dalla moglie Bruna, lo chef del consorzio Qualità Abruzzo ha dato vita ad una serie di gustose e coinvolgenti Master Class grazie alle quali ad una platea entusiasta ed attenta sono state proposte autentiche prelibatezze, come l’uovo croccante su vellutata di formaggio, patate e tartufo nero, i raviolini di pecorino e pistilli di zafferano dell’Aquila, fracchiata di cicorielle e baccalà, porchetta abruzzese, capretto al tegame, crema all’Aurum con millefoglie, millefoglie al cioccolato con spuma di pere. Showcase culinari che hanno rappresentato una suggestiva vetrina promozionale anche per alcuni prodotti regionali di eccellenza, quali ad esempio i vini dell’azienda vinicola Talamonti, il pecorino delle aziende agricole Martinelli e Del Proposto, le farine di legumi del Molino Cappelli.
I vini di tollo nel celeste impero Nuovi importanti riconoscimenti dall’Asia per i vini di Cantina Tollo. Al China Best value Wine & Spirits 2012 di Hong Kong, prestigioso contest con importanti ricadute economiche sul mercato cinese, ben 3 vini targati Tollo sono saliti sul podio con risultati di tutto rispetto: Double Gold Medal al Valle d’Oro Montepulciano d’Abruzzo Dop 2009; Gold Medal al Cagiolo Montepulciano d’Abruzzo Doc Riserva 2008; Bronze Medal all’Aldiano Montepulciano Doc Riserva 2008. Tre medaglie davvero importanti per Cantina Tollo, che possono aprire la strada del mercato asiatico: i 90 giudici che fanno parte della commissione esaminatrice valutano infatti ogni vino in base alle potenzialità del prodotto di poter conquistare i palati dei consumatori cinesi. La premiazione si è svolta lo scorso 24 febbraio presso la magnifica sala da ballo del Mira Hotel’s di Hong Kong dove oltre 300 ospiti tra addetti ai lavori, importatori, sommelier e giornalisti, hanno festeggiato i vini premiati.
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Gener
Attilio Di Mattia
S’io fossi sindaco Sulla scena politica abruzzese s’affaccia un nuovo protagonista: un giovane economista con solide esperienze all’estero e con il gusto delle scelte forti e coraggiose. Temerarie, a volte. Dopo aver vinto le primarie del centrosinistra ha buone possibilità di diventare sindaco di Montesilvano. Sarà lui il nuovo D’Alfonso con l’aiuto di D’Alfonso (e con la benedizione di Costantini)? Per ora pensa solo al programma migliore per rilanciare la sua città. Con progetti originali e innovativi ma con i piedi ben piantati per terra. Anzi, sui pedali. di Francesco Di Vincenzo Foto Claudio Carella
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o, lui non è il solito politico abruzzese stracittadino che già dopo il Tronto si spaesa e langue per astinenza da arrosticini. Lui, Attilio Di Mattia, vincitore delle primarie del centrosinistra ed ora candidato sindaco di Montesilvano, è un cittadino del mondo. Padre italiano (Quintino), madre americana (Linda), moglie finlandese (Maria Annika), doppio passaporto (italiano e americano), Attilio il Giovane (36 anni) è suo agio a Philadelphia come a New York e Los Angeles, a Parigi come a Siviglia e Ginevra. Per non dire di Vienna, dove ha vissuto e lavorato come analista finanziario dal 2007 al settembre scorso. Parla benissimo l’inglese e lo spagnolo e, bene, il francese. Oltre alla laurea in economia aziendale conseguita alla “G. d’Annunzio”, vanta un MBA (Master in Business Administration) alla Saint Joseph’s Uni-
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versity di Philadelphia (roba seria, dei gesuiti, dove ti obbligano a studiare, pensa un po’ , anche “etica finanziaria”).
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poi, ci sono quelle storie con la La Stampa, Il Giornale, Dagospia, Radio 24, Il Fatto Quotidiano. Ricordiamole. Gennaio 2010. Sulla Stampa di martedì 12, il grande Massimo Gramellini riprende una pasticciata notizia dall’Abruzzo e incappa in una clamorosa cantonata. “Il consigliere provinciale di Pescara Attilio Di Mattia, di Italia dei Valori –scrive il giornalista nella sua rubrica di prima pagina sul quotidiano Fiat–, risiede a Vienna, ma ogni anno riceve 130 mila euro di rimborsi spese per partecipare alle riunioni del Consiglio”. Poche ore dopo l’uscita in edicola, l’articolo di Gramellini viene ripreso pari pari da Dagospia, il sito di gossip politico-mondano di Roberto D’Agosti-
• Alfredo Paglione nella sua casa in viale dello Splendore a Giulianova, dove ha trasferito la porta in legno della sua galleria d’arte “32” di via Brera a Milano.
• Qui sopra: la presentazione del libro di Di Mattia con Luciano D’Alfonso e Carlo Costantini; nella pagina a fianco, Di Mattia guarda la sua Montesilvano
no. Il giorno successivo, la notizia gongola anche sul Giornale del duo Sallusti-Feltri, ai quali non pare vero di sputtanare sul piano morale un uomo dell’odiato Di Pietro. Ma tutti, nel giro di ventiquattr’ore, sono costretti ad un avvilente marcia indietro, dovendo pubblicare la smentita di Di Mattia che ha facile gioco nel chiarire come, in realtà, i 130 mila euro citati da Gramellini costituiscano l’ammontare annuo dei rimborsi per le spese di viaggio di tutti i consiglieri provinciali di Pescara, e che lui ne incassa sì e no 200 al mese. La notizia e il chiarimento di Di Mattia vengono dati con rilievo anche da Radio 24. Novembre 2011. Martedì 22, Il Fatto Quotidiano, bibbia degli incazzatos nazionali, pubblica un servizio sulle turbolenze del centrosinistra a Montesilvano che si conclude con questo clamoroso pronunciamento (endorsement, per gli snob) a favore del nostro: “Ma la base ribolle e guarda con speranza ad Attilio Di Mattia, 35 anni, candidato per il partito di Di Pietro. Il ragazzo spera di spaccare, sull´esempio De Magistris a Napoli. Sai allora che risate, da destra a sinistra?”. Da scompisciarsi.
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nsomma, Attilio ‘o Spaccatore sembra avere la singolare dote di calamitare, pur quando con intenzioni non benevole, l’interesse di importanti testate nazionali. Come se quella, la nazionale, fosse la sua dimensione predestinata. Quasi che la sua consuetudine con città e lingue e culture del mondo denoti una vocazione, prima ancora che un’ambizione, a guardare, pensare e pensarsi oltre la dimensione locale. Consuetudine e vocazione che fanno di Attilio Di Mattia una figura singolare, inconsueta, nuova della politica abruzzese. Il primo ad accorgersene è stato Carlo Costantini, leader dell’Idv abruzzese, scopritore e mentore politico di Di Mattia. Fiutò il giovane talento anche Antonio Di Pietro, parlata grossa ma cervello fino, che non ci pensò due volte, quando conobbe Di Mattia, a nominarlo responsabile nazionale mercati e finanza del suo partito. Più di recente, a sorpresa, agli estimatori di Di Mattia s’è aggiunto Luciano D’Alfonso, indirettamente omaggiando il fiuto politico del suo acerrimo amico Costantini. Questi, dal canto suo, ha accolto di buon grado l’inattesa convergenza sul suo pupillo. L’ex sindaco di Pescara ha dunque appoggiato Di Mattia alle primarie del centrosinistra di Montesilvano contro i candidati del Pd, il suo partito. Perché? Per aggiungere un altro link al suo personalissimo network di teste pensanti, panze pelose, imprenditori devoti e politici speranzosi? Può darsi. Ma non si escluda un’altra ipotesi, meno politica, forse, ma più realistica e, in fondo, più umana. Di Mattia, s’è visto, è un politico la cui attitudine a “guardare oltre” sembra naturale come una vocazione,
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una predestinazione. Come D’Alfonso. E, nel suo piccolo, ha già dimostrato, alle provinciali e alle primarie, d’essere un bell’acchiappavoti. Come D’Alfonso. Che però ha i suoi guai. E allora: ha forse l’ex sindaco di Pescara visto in Di Mattia un fortunato se stesso con dieci anni di meno e senza problemi giudiziari? Si sarà forse convinto che, non potendo più, forse, essere re, fare il king maker non è poi così male? Insomma: Di Mattia nuovo D’Alfonso con l’aiuto anche di D’Alfonso? E Costantini? A lui andrebbe di lusso, naturalmente: nulla di meglio, per il leader Idv, di un nuovo D’Alfonso a lui molto legato e di molto debitore. Ma Di Mattia che ne pensa? «Francamente non so che dire. Per quanto riguarda l’atteggiamento di D’Alfonso nei miei confronti, forse bisognerebbe chiedere a lui, non a me. Penso che ci sia fra di noi più una simpatia umana che una vicinanza politica. Lui ha dichiarato di essere incuriosito dalla “quantità” della mia passione civile. Comunque, Luciano è molto orgoglioso e non si aspetta mai nulla dall’impegno degli altri, poiché ritiene che la competizione politica sia un combattimento da condurre in prima persona, in modo esclusivo, contando solo sulle proprie idee e sulle proprie capacità di realizzarle. Forse ha visto in me la sua stessa determinazione».
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ttilio Di Mattia ha lavorato negli USA per la ING, prima a New York poi a Philadelphia, infine a Los Angeles, dove è diventato Portfolio Manager della multinazionale. Dal 2005 al 2006, a Ginevra, ha rivestito il ruolo di responsabile per la strategia d’investimento, trading e sviluppo modellistica finanziaria della Avendis Capital. Nel 2007 l’Aurelius Capital Management lo ha chiamato a Vienna nel ruolo di ABS Portfolio Manager con uno stipendio di 7.000 euro al mese. Nel settembre scorso, Di Mattia ha mollato il lavoro e se n’è tornato a Montesilvano per “spaccare” tutto, secondo l’auspicio del Fatto Quotidiano, e diventare sindaco della sua città. Scusi, Di Mattia, ma chi gliel’ha fatto fare? «Prego?» Il vecchio sindaco di sinistra sotto processo, l’attuale di destra pluri indagato, mare e Saline inquinati, situazione urbanistica lasciamo perdere, turismo in crisi, disoccupazione crescente, traffico da nevrosi, vita culturale comatosa e via disgraziando. Lei se ne stava bello tranquillo e ben pagato nella sua Vienna felix: perché mai è venuto a impelagarsi in questo casino di Montesilvano? «Amo le scelte forti e amo la mia città. E poi non sono “venuto”, io sono di casa a Montesilvano. Qui sono cresciuto, qui ho frequentato le elementari, le medie, le scuole superiori. L’università l’ho fatta a Pescara. Fino a 25 anni suonati sono rimasto nella casa dei miei,
a Montesilvano. Insomma, voglio mettere le mie competenze a disposizione della mia città». Per fare che cosa? «È presto per parlare di programma. Io sono candidato sindaco di una coalizione molto ampia ed è mio dovere e intenzione discutere e decidere i contenuti programmatici con le forze politiche e civiche mie alleate. Però, un’anticipazione mi piace darla: intendo sfruttare il vecchio circuito automobilistico pescarese il cui tratto più spettacolare era proprio a Montesilvano. Come? Lasciamo un po’ di suspense».
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elle le anticipazioni con suspense. Allora eccone qualcun’altra. Cancellare un tratto di lungomare che costeggia la pineta, adeguare le vie parallele per assorbirne il traffico e spostare la pineta in avanti, a ridosso della spiaggia, creando così una fascia di verde che cambierebbe radicalmente l’aspetto troppo “urbano” dell’arenile di Montesilvano, accrescendone la qualità ambientale e, di conseguenza, l’appeal turistico e la resa economica. Un’idea applicata di ambientalismo “forte” ma chiaramente orientato all’utilità sociale ed economica. Altra anticipazione. Chiedere a quei 30.000 pensionati della provincia di Pescara che hanno in media 12.000 euro ad appassire in conti correnti bancari, di investire, con equo interesse, almeno una parte dei loro risparmi nel finanziamento della ristrutturazione e riconversione della Stella Maris. Un’idea a dir poco originale che, tra l’altro, esprime un punto di vista, come dire, asimmetrico rispetto alla vulgata piagnona sullo stato dei pensionati: mica tutti sono alla fame. Ultima anticipazione. Rendere ciclabile l’80 per cento della viabilità cittadina, facendo propria la campagna “Cities fit for cycling”, lanciata in Inghilterra dal Times ai primi di febbraio, per rendere le città europee fit, cioè adatte, agli amanti della bicicletta che oggi muoiono a migliaia sulle strade d’Europa (oltre 2.500 in dieci anni solo in Italia). Il beneficio che ne deriverebbe per la vivibilità e lo snellimento del traffico è evidente. Idee brillanti, coraggiose, all’avanguardia, di respiro europeo, applicazioni concrete di quel concetto di glocal (pensare globalmente, agire localmente) che pare una sintesi twitter del Di Mattia-pensiero. L’aspirante sindaco di Montesilvano parla con grande convinzione e con pari cautela di queste sue idee. E si capisce: accetteranno i suoi alleati di inserire nel programma elettorale progetti tanto radicalmente innovativi? Questa è la vera suspense.
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proposito di idee coraggiose, sentite quest’altra di Attilio il Temerario. «Non un mattone in più a Montesilvano». Sarà dura convincere i leoni a diventare vegetariani. «Non permetterò che si continui a costruire dissennatamente in questa città. Sa quanti appartamenti vuoti, invenduti ci sono qui?». Un migliaio? «Duemilaseicento. Si è costruito a dismisura, spesso con dubbio rispetto delle regole, facendo diventare ordinario lo straordinario, consumando tutti gli spazi. Risultato? Oggi Montesilvano dal punto di vista urbanistico è una città martoriata, mentre c’è un importante patrimonio immobiliare comunale e a partecipazione privata da rivalutare e valorizzare. In più, si possono abbattere vecchie piccole abitazioni fatiscenti e fonderle in un unico edificio, liberando spazio per creare vuoti urbani e ridare vivibilità e bellezza a Montesilvano».». Tutta colpa del centrodestra, i guasti urbanistici? «No, anche il centrosinistra ha le sue responsabilità e gli ha fatto bene perdere le ultime elezioni».
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el corso delle primarie lei ha sollecitato i cittadini a dire la loro con la formula “S’io fossi sindaco”. Negli slogan delle campagne elettorali la parola più ricorrente è “insieme”. Insomma. da candidati tutti dicono di volere la partecipazione dei cittadini. Poi, però, ad urne chiuse, gli eletti si rinserrano nei loro uffici con pochi fidi e chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori… «Io voglio rovesciare questa logica. So che non è facile, ma voglio ragionare e operare in termini di piramide rovesciata, affinché contino di più i cittadini, quelli che stanno alla base, coloro che sono il vero motore per far ripartire Montesilvano. Io non sarò uno di quei sindaci fin troppo “visibili”, sempre sotto la luce dei riflettori a magnificare il proprio operato. Metterò insieme una squadra preparata ed efficiente, anche perché voglio avere tempo per ritagliarmi un ruolo forse oscuro ma prezioso: essere una sorta di ambasciatore di Montesilvano, per incontrare e convincere a venire da noi non solo i turisti ma anche gli operatori economici e finanziari nazionali e internazionali che in una Montesilvano risanata e rilanciata troverebbero grandi opportunità di investimento e di business». Se sarà eletto, lei vivrà solo con la indennità da sindaco o cercherà, in qualche modo, di continuare il suo lavoro? «Mi farò bastare l’indennità da sindaco. Tante persone vivono con molto meno». Sua moglie Maria Annika condivide le sue scelte? «In tutto e per tutto». Avete figli? «Ci stiamo lavorando».
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Galaad Edizioni
Quei libri sono un balsamo A Giulianova ha sede una casa editrice con in catalogo autori come George Eliot, Henry James e Rudyard Kipling. Ma anche Andy Summers, chitarrista dei Police, e presto Cristina Donà, star della musica indipendente italiana
• A destra Paolo Ruggeri e Paola Vagnozzi, ovvero gli editori Galaad. Qui a fianco la copertina della loro ultima pubblicazione, la biografia di Cristina Donà “Parlami dell’universo” a cura di Michele Molina
di Alessio Romano Foto Claudio Carella
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rendi una giovane coppia di Giulianova: lui, Paolo Ruggeri, una laurea in economia, procuratore sportivo FIFA, cura i rapporti con l’estero di calciatori e verifica contratti in inglese; lei, Paola Vagnozzi, insegna Diritto Privato all’Università e corregge bozze per l’editoria tecnica giuridica. Metti insieme la loro passione comune per la letteratura (libri, romanzi e poesie) con la voglia di cambiare vita, mettersi in gioco e rischiare. Nasce così nel settembre 2006 la casa editrice Galaad, attività a cui si dedicano a tempo pieno da sei anni. «Il balsamo di Galaad è ricavato da un albero del Libano ed è citato nel Vecchio Testamento per le sue proprietà curative. L’abbiamo scelto come simbolo perché per noi la letteratura non è soltanto un piacere estetico e intellettuale, ma anche una forza terapeutica sia per chi legge sia per chi scrive». Le prime opere, nella collana Lumina Mundi, partono dall’idea di recuperare classici dimenticati o di cui sono reperibili solo pessime edizioni. Gli autori scelti non lasciano dubbi sulle ambizioni editoriali: George Eliot, Henry James e Rudyard
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Kipling. Tutti riproposti al pubblico con nuove traduzioni o con il recupero di buone già esistenti. E con in più una vera e propria chicca mai tradotta nel nostro paese: Il mistero di Ken di Julian Hawthorne, figlio del celebre Nathaniel (autore de La lettera scarlatta), che vede in scena, per la prima volta nella storia della letteratura, una donna vampiro. Per abbattere i costi decidono di usare la stampa in digitale dei testi. All’epoca sicuramente una scelta innovativa, ma che nel frattempo è diventata la norma anche per i grandi editori nazionali: permette di stampare solo le copie effettivamente richieste, con rapide “minitirature” che permettono di diminuire i costi di magazzino. All’inizio, per la distribuzione tutto si basa sul rapporto diretto con i librai e ci si fa conoscere grazie alle fiere specializzate per editori indipendenti: Pisa, Pavia, Belgioioso, Treviso. Le collane si moltiplicano tra saggi di letteratura e opere di esordienti italiani. «Non abbiamo fatto in tempo a mettere in rete il nostro sito che subito siamo stati inondati di manoscritti: una vera e propria patologia del sistema. Non osiamo immaginare cosa succede nelle case editrici
più grandi!». Nasce anche un malinteso: dato che Galaad è pure il nome di un cavaliere della Tavola Rotonda, quello che nel ciclo bretone ritrova il Santo Graal, la casa editrice è stata subissata di manoscritti fantasy. Nonostante questo genere non fosse nell’immediato interesse ne arrivano due considerati buoni e che, alla fine, vengono pubblicati. «Un editore finisce per pubblicare i libri che vorrebbe leggere. E inevitabilmente il gusto personale influenza le scelte. Una tematica che ci è interessata da subito è quella del rapporto uomo, arte e natura». Da questa sensibilità nasce la collaborazione con Davide Sapienza, critico musicale, traduttore e curatore italiano di Jack London, che con loro pubblica il libro ecologista La strada era l’acqua. Anno dopo anno il catalogo si irrobustisce. «Nel 2011 sono usciti diciassette nostri libri e ormai abbiamo una consolidata distribuzione nazionale». Ma molti ordini arrivano dal web, da portali di vendita come IBS. È un vantaggio che azzera i costi di distribuzione. «Ormai i lettori forti sono diventati anche grandi fruitori di internet; cercano sempre più
spesso i libri in rete e li ordinano direttamente on line». Per la promozione hanno un ruolo fondamentale i social network, che aiutano a farsi conoscere in tutta Italia. Anche perché Galaad è, sì, una realtà imprenditoriale tutta abruzzese, ma con un catalogo assolutamente slegato dal territorio. «La maggior parte dei manoscritti che ci arrivano sono del nord, da Firenze in su, e anche la maggioranza degli ordini arriva da fuori regione». In Abruzzo manca una reale sensibilità alla promozione di attività culturali innovative da parte delle istituzioni. «Per noi è stato più facile farci conoscere fuori. Anche per organizzare eventi o semplici presentazioni, c’è più disponibilità altrove». Uno dei best seller in casa Galaad è l’autobiografia di Andy Summers, chitarrista dei Police intitolata One Train Later. E sulla musica la casa editrice vuole continuare a puntare: il prossimo libro in cantiere è la biografia della cantante Cristina Donà, Parlami dell’universo, scritta da Michele Molina: un ibrido tra saggio e romanzo. Musica, natura, letteratura: ecco il segreto di un balsamo che cura l’anima.
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Iacopo Pasqui
“Verba volant, negativa manent!” La fotografia tra tecnica e istinto
di Simone Ciglia
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2.567 partecipanti, 3.528.451 visitatori unici, 7.300.894 visite totali, 37.611.826 pagine viste: sono i numeri del concorso Leica Talent Italia, indetto dall’omonima casa produttrice. Il concorso ha selezionato il lavoro di 24 fotografi da tutta Italia cui è stata affidata in comodato una macchinetta Leica X1 per realizzare un progetto a loro scelta. Uno dei due finalisti di origine abruzzese è Iacopo Pasqui, classe 1984, di Pescara. Quale progetto hai pensato di sviluppare per il concorso Leica? Ho intitolato il progetto Uncommon Time: si tratta di una sorta di diario quotidiano che racconta i luoghi del mio vissuto. Sto girando tutti i giorni con la macchina fotografica, il che secondo me è anche l’utilizzo più adeguato del tipo di apparecchio che ci hanno messo a disposizione. Il concorso infatti è mirato a far conoscere la macchina: è piccola e pratica, adatta per un tipo di fotografia di strada per cui c’è bisogno di immediatezza e velocità. Essere stato selezionato mi ha dato grande soddisfazione, ma sento anche la responsabilità di mettere il mio nome a servizio di un marchio che ha fatto la storia. È un compito difficile, anche per il fatto di dover decidere dall’inizio un progetto senza poi poterlo modificare, e per il poco tempo a disposizione. Ho avuto delle interessanti occasioni di confronto con gli altri fotografi selezionati, la cui diversa provenienza si ripercuote in visioni e approcci differenti. Com’è nato il tuo interesse nei confronti della fotografia?
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Non posso dire che sia nato per caso, perché sentivo di avere qualcosa da esprimere. Avevo iniziato studi di giurisprudenza che fin dal principio non mi avevano interessato particolarmente, anche perché mi costringevano alla staticità. Cresceva in me un istinto di dire delle cose, come una voce interiore che poi si è formalizzata nella fotografia. Questa –per come la intendo io– è un mezzo puramente meccanico per restituire, in parte, il tuo sguardo (tralasciando le implicazioni filosofiche e sociologiche che quest’atto comporta). Serve quando il tuo sguardo si focalizza su qualcosa e la tua mente va oltre, per fermare quello che stai guardando: un passaggio cromatico, una variazione di luce, una scena, un cambiamento sociale. Penso che si possa studiare e apprendere la tecnica, ma la fotografia resta una questione di puro istinto. Per quanto mi riguarda non ho mai frequentato una scuola: non credo sia fondamentale, perché ritengo che le scuole diano un’impostazione rigida, mentre da autodidatta si ha la possibilità di trovare ciò che realmente interessa. Ho iniziato un filone di ricerca incentrato sul colore, e sui suoi diversi significati all’interno dei differenti contesti sociali. Lavoro infatti esclusivamente a colori. Pur avendo intrapreso numerosi viaggi, il contesto in cui ti trovi quotidianamente a vivere è quello di Pescara. Qual è la tua opinione su di esso rispetto ai tuoi interessi? Nel contesto abruzzese in cui mi trovo è dura per chi ha una concezione della fotografia come ricerca. Qui infatti è assente
• Alcuni lavori di Iacopo Pasqui. Nella foto qui sopra, un suo autoritratto
un riscontro ai vari livelli: intellettuale, di pubblico, di committenza, di gallerie, di istituzioni. Questo per diverse ragioni: non c’è interesse, c’è la crisi, non c’è la mentalità. C’è attenzione solo per ciò che può dare un riscontro nell’immediato. Oggi il comune concede spazi per eventi dalla dubbia caratura. Le poche iniziative intraprese da qualche privato coraggioso non sono sufficienti per fare il punto sulla fotografia contemporanea. Io mi ritengo fortunato perché ho il piacere di collaborare con fotografi come Massimo Camplone e Sergio Camplone, che mi hanno insegnato molto. Insieme facciamo parte dell’associazione Euritmi, che sviluppa progetti per la fotografia. A quali progetti ti sei dedicato finora? Ho iniziato con il reportage, guidato da una grande attenzione al contesto sociale. Successivamente, forse perché ho capito che indagare il sociale non scalfisce le coscienze, il mio interesse nei suoi confronti è un po’ diminuito. Farà eccezione un prossimo progetto in Iran. Il primo progetto che ho sviluppato è stato Lultimakasta, realizzato in Nepal nel 2008 e dedicato ai bambini di strada di Kathmandu. Poi sono stato in Libano, in occasione di un festival di teatro itinerante nei campi profughi palestinesi. Quindi nel 2009 ho deciso di concentrare la mia attenzione proprio sui campi profughi, scegliendo quelli di Sabra e Chatila e il Gaza Hospital di Beirut. L’anno seguente mi sono recato nell’estremo sud dell’Algeria per realizzare un lavoro sui Saharawi, un popolo che ha una storia simile a
quella dei palestinesi, ma nel contesto totalmente diverso del deserto. Sempre all’inizio del 2010 ho avviato Hotel Riviera, un progetto sul paesaggio marino in cui ho cercato di ritrarre tutta la costa abruzzese. Spinto da un desiderio d’evasione, m’interessava lavorare sul mare. L’ho ritratto da un’unica prospettiva: frontalmente, anteponendo tra l’obiettivo e l’infinito quelle poche cose che si alternavano nei tratti di spiaggia. Il tutto nei mesi invernali, perché in quella stagione il mare si mette a nudo. Ho deciso di purificare lo sguardo e concentrarmi sull’orizzonte. Forse si tratta più di un lavoro concettuale che di documentazione. Nella fase di cancellazione del paesaggio in cui viviamo, il mare resta l’unico a non essere intaccato. Tra il 2010 e il 2011 ho realizzato per l’Università di Teramo un lavoro su L’Aquila, SUPERMARQUET. Era teso a indagare, a quasi due anni dal sisma, i nuovi centri di aggregazione sociale. Quando manca l’ossatura urbanistica a una città, i suoi abitanti si sentono persi. L’Aquila è stata dirottata sui centri commerciali, realtà spettrali e vuote: una cosa terribile che si porta dietro tutta una serie di conseguenze di cui non si parla. Adesso sto lavorando sul paesaggio, per il quale oggi a mio parere c’è poca attenzione: è qualcosa che non si può fare a meno di guardare, e che cambia giorno per giorno. Ho iniziato a raccogliere fotografie fatte nel corso del tempo sull’Abruzzo, che non raccontano la regione secondo i classici connotati, bensì attraverso cose banali, che però secondo me funzionano più di quelle spettacolari.
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Rizziero Di Sabatino
Spazio all’arte
Dopo trent’anni di attività la galleria Rizziero inaugura una nuova sede a Pescara: pensata per le esigenze dell’arte contemporanea di Simone Ciglia
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opo alcuni anni dalla chiusura del vecchio spazio, nel dicembre 2011 è stata inaugurata la nuova sede della galleria Rizziero di Pescara, in viale Regina Elena 65 Da allora si sono succedute una mostra del fotografo Ansel Adams e una personale dell’artista spagnolo Prudencio Irazabal. Il titolare, Rizziero Di Sabatino, racconta il nuovo spazio. Quali sono stati i criteri che hanno guidato la scelta del nuovo spazio? Quali sono le sue caratteristiche? Abbiamo scelto lo spazio quattro anni fa quasi casualmente, dopo parecchi anni di ricerca di una sede più grande. Lo spazio attuale è vicinissimo a quello precedente ed era inutilizzato da molti anni. La più recente sezione posteriore dell’edificio era stata costruita negli anni Sessanta come garage e adibita a uso magazzino, ma l’opera non era stata completata. È iniziato quindi un lavoro di ristrutturazione molto lungo. Lo spazio è congeniale per una galleria in quanto è dotato di due volumi piuttosto ampi: il primo misura circa 11 metri per 6, il secondo (che abbiamo deciso di utilizzare come ufficio e magazzino) 14 per 5. La parte vecchia dello stabile ha invece soffitti con le volte, che si prestano ad un impiego sia come spazio espositivo che uffici. Anche la metratura, che si attesta sui 400 metri quadrati, rispondeva alle nostre esigenze. Lei ha scelto la città di Pescara come sede della sua galleria. Qual è la sua opinione sulla realtà artistica del territorio? La scelta di stabilire la sede a Pescara risale al 2003 ed è stata dettata da varie ragioni: da una parte il desiderio di avere
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una galleria nella regione dove sono nato; dall’altra il fatto che Pescara è la città più grande dell’Abruzzo e quella con la maggiore tradizione nel campo dell’arte contemporanea, assolutamente straordinaria rispetto alla sua dimensione. Mi riferisco alla storia iniziata negli anni Sessanta con personaggi come Ettore Spalletti, Mario Pieroni, Lucrezia De Domizio, Cesare Manzo. Anche se successivamente molte di queste gallerie si sono trasferite altrove, hanno tuttavia lasciato una traccia fortissima. Ancora oggi, quando parlo con gli artisti, il ricordo che si conserva della città è straordinario. Questa storia oggi trova spazio ancora nella galleria di Manzo, e nella mia e quella di Benedetta Spalletti. Tornare a Pescara è stata quindi una scelta obbligata. La politica espositiva della sua galleria si basa su artisti consolidati, quelli che vengono ritenuti i maestri dell’arte contemporanea. Ha intenzione di proseguire su questa linea anche per il futuro? Sì. Il programma sarà incentrato principalmente su autori contemporanei già affermati e artisti storici del Novecento, mettendoli in alcuni casi a confronto. Come abbiamo fatto in passato, ci occuperemo anche di alcuni artisti giovani. Quest’ultimo è un mercato che non seguo tanto come gallerista ma piuttosto come collezionista. La galleria Rizziero è in attività da più di trent’anni, essendo stata fondata nel 1977. Lei si occupa di arte dal 1996. Com’è cambiata a suo avviso la professione nel corso di
• Rizziero Di Sabatino nella sua Galleria. Nelle altre foto, gli allestimenti delle mostre di Ansel Adams e Prudencio Irazabal
questo arco di tempo? Già durante il liceo e l’università ho fatto esperienza in galleria lavorando part-time e seguendo le fiere. Successivamente ho iniziato ad occuparmi dell’arte a tempo pieno dal 1997 con l’apertura della galleria No Code a Bologna, dopo aver fatto un po’ di anni di lavoro all’estero in un settore diverso. In questo arco di tempo il lavoro è cambiato moltissimo. Oggi prevale un sistema nel quale fanno la parte del leone alcune grandi gallerie internazionali, soprattutto anglosassoni. Quelle italiane contano abbastanza poco, e non possono fare altro che ritagliarsi delle nicchie dove fare delle cose di grande specializzazione e qualità, differenziandosi dal lavoro più massificato dei grandi player del mercato. Questi spesso rappresentano artisti di fama internazionale per un pubblico di collezionisti composto ormai in larga parte da miliardari dell’est, che comprano sostanzialmente blue chip dell’arte perché trattate da certe gallerie. In questo contesto l’Italia purtroppo conta poco sia per la cronica assenza di istituzioni sia per la scarsità di musei prestigiosi sul territorio nazionale. Le gallerie private fanno del loro meglio per sostenere l’arte contemporanea italiana, ma spesso le loro piccole dimensioni non permettono di ottenere grandi risultati. All’interno del più “casalingo” mercato italiano ci sono tuttavia bellissime realtà e piccole eccellenze, in cui esiste ancora un rapporto diretto tra artisti e galleristi. Come si declina questo discorso in un contesto ancor più
periferico come quello abruzzese? Le gallerie abruzzesi di oggi devono seguire la tradizione degli anni ‘70 e riconquistare un ruolo internazionale con delle proposte di grande qualità, che riaccendano nel miglior collezionismo internazionale il desiderio di venire a Pescara. C’è ancora spazio per un lavoro con artisti veri. Ci sono sempre artisti di grandissima qualità –sia italiani che stranieri– attratti dalla possibilità di fare una mostra a Pescara. Tuttavia è un mondo che dal punto di vista dell’economia dell’arte conta sempre meno, ma da cui spesso viene fuori l’intellettualità del lavoro degli artisti di oggi. La possibilità di Pescara risiede in questo; è evidente che non può che essere una periferia nelle economie dell’arte internazionale, come lo sono l’Italia e l’intera Europa. Il mercato maggiore sarà sempre più nell’area del Pacifico. Ciò non toglie che possano esistere –e speriamo che continuino– piccole realtà, in Italia come in altri paesi. Qual è a suo parere l’importanza dello spazio espositivo per una galleria di arte contemporanea? Lo spazio è fondamentale: spesso proprio dalla qualità di uno spazio si decide la possibilità di fare una mostra; frequentemente gli artisti vengono attratti da questo piuttosto che da un gallerista. Si tratta di un elemento di primaria importanza, soprattutto per una generazione –quella che viene dall’Arte Povera– che vi si rapporta in maniera privilegiata. Un artista può decidere di non fare una mostra in una galleria se non ne apprezza lo spazio.
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Serena Di Gregorio
Con l’Abruzzo nel cuore Giovane ma dal curriculum già prestigioso, l’attrice abruzzese è tornata a lavorare nella sua regione dopo anni di formazione e di attività a Milano e Udine. E si prepara alla sfida del cinema di Simone Ciglia
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ella vicenda dell’attrice Serena Di Gregorio è rappresentato un copione in scena molto spesso nella nostra regione: quello di un’artista che, dopo la formazione maturata fuori, è tornata a fare i conti con il proprio luogo d’origine. Dopo gli studi di danza a Pescara per otto anni con Annino Di Giacinto, l’attrice decide di intraprendere la carriera teatrale dopo aver visto il maestro giapponese Kuniaki Ida al Maurizio Costanzo Show. Si iscrive quindi alla sua scuola a Milano, seguendo il metodo francese di Jacques Lecoq.Terminato il corso biennale avverte l’esigenza di lavorare sulla parola, e per questo si sottopone ai provini per accedere all’Accademia d’Arte Drammatica “Nico Pepe” di Udine, dove rimane per 3 anni. La sua formazione si completa con un anno al corso di Teatro Danza all’Accademia“Paolo Grassi”a Milano. Quali sono stati gli incontri per te più significativi nel corso di questi anni? Al termine degli studi ho preso parte a molti laboratori teatrali, dove ho avuto modo di incontrare persone che hanno contribuito ad arricchire il mio bagaglio artistico. A questo proposito posso fare i nomi di Claudio Collovà, Abbondanza/Bertoni e Serena Sinigaglia. Uno degli incontri che mi ha maggiormente arricchito è stato con Andrea Collavino, un artista sensibile e profondo, attento al passato. Altri artisti che mi hanno illuminata sono Giuseppe Battiston e Francois Kahn, attore e regista francese della compagnia di Grotowski e grande pedagogo. Un altro grande incontro è stato con Emma Dante: è la regista che amo di più al momento, il suo lavoro
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mi emoziona. Quali sono state le tue principali esperienze teatrali? In occasione del festival estivo Mittelfest a Cividale del Friuli ho lavorato allo spettacolo Il Sogno di una cosa di Pasolini, per la regia di Andrea Collavino, e con questo spettacolo sono partita per la prima tourneé. Ho partecipato inoltre a due progetti di Massimiliano Speziani, uno degli attori e registi più bravi che abbiamo in Italia. Ho recitato anche per un altro regista milanese che apprezzo molto, Massimiliano Cividati, in The soft transition between warm and cold. Si trattava di uno spettacolo particolarissimo, muto e con accompagnamento musicale di un’orchestra; era incentrato sul rapporto amoroso tra un uomo e una donna che, come racconta il titolo, da caldo va raffreddandosi. Io interpretavo un’entità che manovrava l’animo dei due personaggi agendo sul loro corpo. In alcuni momenti lo spettacolo era acrobatico: gli attori recitavano come se non sentissero il loro peso. Si è trattato di un’esperienza impegnativa, per la quale bisognava trovare l’essenza dei movimenti, senza usare la parola. Successivamente ho lavorato con l’attore Giacomo Guarneri, con cui ho realizzato uno spettacolo sulla tragedia di Marcinelle, Danlenuar. Per me è stato progetto importantissimo: in questa occasione sono tornata infatti per la prima volta nella mia terra, per condurre una serie di interviste ai superstiti e i familiari delle vittime. Abbiamo costruito lo spettacolo in tre mesi nei centri sociali di Palermo, dove ci sono molti spazi a disposizione gratuitamente per le prove. Grazie a questa politica la città pullula di artisti
e soprattutto di attori eccezionali. Guarneri si è occupato della scrittura del testo, con cui poi ha vinto il premio “Enrico Maria Salerno”. Io invece ero in scena e improvvisavo, e questa parte mi è valsa il premio per la migliore interpretazione al concorso “Nuovo Teatro che verrà” al Teatro Monteverdi di Palermo. Successivamente hai deciso di fondare una tua compagnia. Nel 2009, dopo aver collaborato spesso con la drammaturga Sangalli, decidiamo insieme di fondare a Milano la compagnia Giove 15. Vinciamo un bando messo in palio dalla Cariplo, che per due anni ci ha aiutato a produrre le nostre iniziative. Il primo spettacolo che mettiamo in scena è MIDIA. L’uomo medio attraverso i media (che abbiamo portato anche al Teatro Immediato di Pescara), che ci è valso molti riconoscimenti: il premio “Giovani realtà” a Udine (Premio della critica dei giornalisti), i premi come migliore spettacolo al “Premio Art Teatro Indipendente” a Roma e “Teatro Autogestito” del Quirino di Roma. Dato il successo produciamo anche il seguito, Ri-Midia, che ha debuttato a “La Cometina” di Roma nel 2010. Il successivo lavoro che ci vede insieme è Mitigare il buio, in parte finanziato da FederSerD (la federazione che riunisce i Sert). La droga è infatti il tema dello spettacolo, che abbiamo portato in giro per i licei a Trento e alla sezione maschile del carcere di Rebibbia, un’esperienza toccante. Lo scorso anno infine con la compagnia abbiamo lavorato allo spettacolo Passi affrettati con Dacia Maraini, presentandolo allo stabile di Genova.
Quali sono i nuovi progetti cui ti stai dedicando? Ho sempre voglia di lavorare a nuovi spettacoli e con nuovi registi. In questo periodo sto scrivendo un mio spettacolo che mi piacerebbe provare in Abruzzo, senza essere costretta ad andare fuori. Sto conducendo una ricerca sugli anziani, che mi interessano particolarmente. Quest’anno poi sento il desiderio di avvicinarmi per la prima volta al mondo del cinema. Sento la necessità di provare anche nuove strade. A proposito dell’Abruzzo, qual è la tua opinione sulla realtà teatrale nella nostra regione? Ciò che mi fa rabbia è il fatto che mentre le altre regioni appoggiano gli artisti per far emergere nuove realtà, qui sembra invece che ti mettano i bastoni tra le ruote. Per ignoranza si dà per scontato che l’arte non porti a niente. Ci sono molti artisti bravissimi in Abruzzo che per lavorare sono costretti ad andare fuori. Non esiste nemmeno uno spazio per provare. I problemi quindi sono sia di ordine pratico che intellettuale. Qui non c’è una cultura teatrale: trovo grave che una città come Pescara non abbia un teatro stabile e i teatri che avevamo siano stati ridotti a cinema. Qual è il tuo rapporto con la tua regione d’origine? Non dimentico mai da dove vengo. In Danlenuar ho recitato per la prima volta in abruzzese e mi ha portato fortuna. Un conto però è ricordare le proprie origini, un altro è accettare che qui ci sia ben poco da fare. Secondo me i pochi finanziamenti non dovrebbero essere spesi per divi di piazza, ma per le cose che valgono.
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Blowcar
Il successo è
L’innovativa auto gonfiabile progettata da Dario Di Camillo e completamente Made in Abruzzo ha sbancato al Motorshow di Bologna. Le sue doti: maneggevolezza, bassi consumi, contenimento dei costi di produzione. E, soprattutto, sostenibilità ambientale di Fabrizio Gentile Foto Oksana Egorova
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o è nell’aria
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C
’è una ventata di freschezza che attraversa il mondo dell’auto: è l’aria dell’innovazione, il respiro verde dell’ecosostenibilità. Il 2012 sarà l’anno della Blowcar, la piccola grande vettura completamente made in Abruzzo che ha incantato il pubblico dell’ultimo Motorshow di Bologna: un’idea rivoluzionaria che ha trovato terreno fertile proprio nel tessuto produttivo abruzzese, grazie a persone come Luigi Di Giosaffatte e Enrico Marramiero di Confindustria, Nicola Mattoscio della Fondazione Pescarabruzzo, Fioravante Allegrino della Domal Company e Sergio Pino della Proma Spa, che ne hanno individuato le potenzialità e ne hanno fatto il simbolo della capacità abruzzese di proporsi sul mercato in modo competitivo. La nuova nata promette di rivoluzionare il settore delle microcar (quello, per intenderci, dominato fino a qualche anno fa dalla Smart e oggi assediato da vetture dagli occhi a mandorla) e non solo, grazie a una tecnologia innovativa mutuata dal settore aerospaziale. E di innovazione non si parla a caso, dato che il papà del progetto Blowcar è Dario Di Camillo, architetto e designer nativo di Collecorvino, volato a Torino in tenera età ed entrato nell’industria automobilistica: ha ricoperto per tredici anni il ruolo di responsabile della progettazione degli interni delle autovetture e design dei motori al Centro Stile della Fiat, e con la sua società Concept Inn dal 1991 si occupa di innovazione, non soltanto per il mondo dell’auto. «La Concept Inn ha dato vita all’Officina dell’Innovazione: una struttura in cui favoriamo l’inserimento nel mondo del lavoro di giovani laureati, realizzando i loro progetti e sottoponendoli alle Pmi interessate. Ma lavoriamo da sempre per l’automotive con progetti di un certo rilievo, come il camion Iveco realizzato per il mercato cinese o il nuovo Lincione, un mezzo militare che abbiamo progettato per Iveco Defence. Siamo piccoli ma agguerriti». Il mondo dell’automobile, dice Di Camillo, «è un settore affascinante in cui sono entrato per caso e non ne sono più voluto uscire,
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perchè presenta sfide sempre più complesse e articolate. E questa della Blowcar è stata solo l’ultima sfida, nuova e stimolante, che mi ha coinvolto negli ultimi quattro anni». Proprio quattro anni fa, infatti, Dario Di Camillo viene, metaforicamente, folgorato da uno scivolo gonfiabile, di quelli che si utilizzano in aeronautica per far scendere i passeggeri dagli aerei in avaria. «È stata un’illuminazione, un’idea che mi ha attraversato il cervello in un lampo. Ho pensato che dovevo applicare quella tecnologia al settore automobilistico per creare un’auto ecologica, leggera e rivoluzionaria». Il nome Blowcar deriva appunto da questa particolare tecnologia che utilizza una speciale gomma ad altissima resistenza chimicomeccanica che viene gonfiata per creare strutture complesse. «Addirittura avevamo cominciato a parlare anche di edifici “blow”, hotel a basso impatto ambientale, temporanei e rimovibili. Poi ci siamo concentrati sull’automobile, per creare un prodotto che fosse davvero innovativo e che rispondesse a una delle esigenze principali del mercato, cioè quella di ridurre il peso dell’auto (e di conseguenza i consumi) e soprattutto di ridurre i costi di produzione. Infatti per costruire le carrozzerie vengono utilizzate presse che lavorano a cicli piuttosto complessi, con un costo energetico notevole. Eliminando la lamiera nella carrozzeria, il gioco è fatto». E la caratteristica principale della Blowcar è proprio il suo “vestito”, ovvero la carrozzeria: «Il telaio è in metallo, quindi tradizionale. Ciò che è nuovo è il rivestimento esterno, costituito appunto da pannelli sui quali viene applicata la gomma speciale che, una volta gonfiata, rende l’auto simile a un grande airbag stabile. Questa soluzione, oltre ad alleggerire l’auto (che pesa circa 350 kg contro i 700 di una Smart) ha un impatto positivo anche sul fronte della sicurezza, perché in caso di incidente ammortizza meglio che una lamiera. E considerando che il target delle microcar è prevalentemente giovanile è un vantaggio non da poco». Inoltre, spiega ancora Di Camillo, l’auto è completamente
personalizzabile: «Sulla carrozzeria esistono delle interfacce di fissaggio che rendono i pannelli facilmente smontabili –e quindi sostituibili– da chiunque, andando a risparmiare notevolmente anche sui costi di manodopera e su quelli dell’assicurazione. E poi la gomma è totalmente riciclabile, quindi è una macchina che rispetta le tendenze del mercato ecosostenibile. Insomma, questa Blowcar è ecologica, economica e innovativa, e può davvero essere il primo passo verso una nuova era della mobilità in una direzione di sostenibilità mai raggiunta finora». E la carta vincente della Blowcar è proprio la sostenibilità, nelle due direzioni: quella della produzione e
«Un’auto non è un’opera d’arte, ma un prodotto industriale che va pensato in tutti i suoi particolari» • Nelle pagine precedenti la presentazione della Blowcar nella Maison Des Artes della Fondazione Pescarabruzzo. Da sinistra l’imprenditore Fioravante Allegrino, il progettista, l’ingegner Dario Di Camillo, il presidente della Fondazione Pescarabruzzo Nicola Mattoscio e l’industriale Sergio Pino. Nella pagina a fianco la presentazione della Blowcar alle autorità cittadine e regionali. In questa pagina, Dario Di Camillo col suo gioiello
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• A sinistra: il presidente della Fondazione Pescarabruzzo Nicola Mattoscio sulla Blowcar. A destra l’ingegner Dario Di Camillo con la sua famiglia al completo
quella del mercato. «La differenza rispetto alle altre autovetture del genere è che la Blowcar si configura come un’effettiva seconda macchina. Si inserisce nel segmento minicar ma ha un’abitabilità pari alle sue concorrenti di segmento A; il quadriciclo pesante, destinato a un pubblico dai 16 anni in su, è omologato per 4 posti mentre il quadriciclo leggero, per ragazzi da 14 a 16 anni, è biposto, ma può essere guidata comodamente da chiunque: per il 14enne c’è bisogno del patentino, per il 16enne della patente A. Le sue caratteristiche di sicurezza e i bassi costi di manutenzione, il design accattivante e la possibilità di “cambiare abito” la rendono appetibile da quella larga fascia della popolazione che non può permettersi un’auto di categoria superiore ma che non vuole rinunciare ad un prodotto che abbini qualità e stile. È un prodotto destinato a evolversi, certamente, ma anche a durare nel tempo, perché segue la “logica dello Swatch”: emozionare a basso costo. Quando progettiamo un’auto non è mai frutto di intuizione, di genialità, ma di studio e di preparazione. Non è un’opera d’arte, anzi va accuratamente pensata, perché si tratta di un prodotto industriale, che deve quindi inserirsi in un mercato e deve essere possibile produrla con dei vantaggi». Vantaggi immediatamente colti dal bacino imprenditoriale abruzzese, che ha, per così dire, sottratto la produzione della Blowcar a quello laziale. La storia è semplice e Di Camillo la racconta così: «La Concept Inn ha sede a Moncalieri e a Roma, dove il progetto della Blowcar aveva riscontrato un discreto entusiasmo sia dal Ministero dell’Industria che da una larga rappresentanza di industriali laziali. Poi il caso mi ha portato di nuovo in Abruzzo, a Collecorvino, dove sono nato e dove ho deciso di far crescere mia figlia, per garantirle una qualità della vita che la stressante Roma non è in grado di offrire. Ho parlato del progetto con il mio amico Donato Di Marcoberardino, ex sindaco di Penne, e lui mi ha aperto la strada in Confindustria, dove ho incontrato l’entusiasmo di Luigi Di Giosaffatte. È stato lui a cominciare a stabilire una serie di
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relazioni industriali nel tessuto imprenditoriale abruzzese coinvolgendo Fioravante Allegrino. A loro si è aggiunto poi il Presidente della Fondazione Pescarabruzzo, Nicola Mattoscio, una persona che sa vedere lontano». «Ho letto un articolo che riguardava questo progetto –spiega Mattoscio– e ne ho subito compreso le potenzialità. È del resto nella mission della Fondazione il sostegno allo sviluppo del territorio e della ricerca applicata, e ho immediatamente stabilito un canale di comunicazione con Di Camillo per lavorare insieme alla realizzazione della sua idea». Prosegue Di Camillo: «Con Mattoscio iniziammo a parlarne a dicembre dell’anno scorso, e successivamente ne parlai con un mio carissimo amico, Sergio Pino della Proma Spa, grande azienda dell’automotive, che si è unito al progetto. Il 21 giugno abbiamo costituito la società Blowcar e abbiamo realizzato il prototipo in due mesi e mezzo –un tempo record– per presentarlo al Motorshow. Anche in questa fase ci sono venute in soccorso le maestranze abruzzesi: il telaio è stato realizzato da un fabbro di Cappelle sul Tavo, Germano Valloreo; in un capannone che abbiamo affittato a Moscufo vi sono state montate le meccaniche grazie a un altro bravissimo artigiano, Gabriele Paoletti, che ha una rivendita di trattori e ha sempre lavorato nel mondo delle microcar. Poi per montare le parti esterne avevo bisogno di maestranze specializzate, così ho preso tutto e l’ho portato su a Torino in uno stabilimento dove costruivano Lamborghini, Rolls Royce… e in dieci giorni era tutto pronto. Abbiamo finito di lavorare il 30 mattina alle 7; alle 12 eravamo a Bologna, alle 14,30 aspettavamo la Rai per l’intervista». E al Motorshow, finalmente, il successo. «È stato un momento di verifica molto importante che ci ha confermato che eravamo sulla strada giusta. Avevamo proprio a fianco lo stand della Smart, e tantissima gente veniva da noi chiedendoci di poter acquistare una Blowcar. È stata dura dover dire loro che dovranno attendere la fine del 2012 per vederle nelle concessionarie».
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Ferrovia Adriatico Sangritana
Cento anni in movimento “Il nostro futuro ha un cuore antico”. È questo lo slogan del centenario di Ferrovia Adriatico Sangritana. Una frase che racchiude in sé tutta la storia della società di trasporto regionale di Claudio Carella
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illenovecentododici - Duemiladodici: uno sguardo rivolto al passato per pensare al futuro. E mentre nell’officina di Torre Madonna a Lanciano si sta lavorando con passione e precisione certosina al restauro (i tecnici direbbero revampizzazione), dei 776 locomotori diesel dal cuore coriaceo, a Saletti, in Val di Sangro, si pensa principalmente al cargo, non disdegnando l’idea di poter fare manutenzione anche per conto terzi. Sotto la presidenza di Pasquale Di Nardo, il trasporto merci ha registrato un importante incremento in linea con gli obiettivi fissati dall’Unione Europea, secondo cui, entro il 2030 il 30% delle merci dovrà viaggiare attraverso la ferrovia ed il mare, per arrivare al 50% nel 2050. Percentuali, queste, ben lontane dalla realtà del nostro Paese così come ha evidenziato anche il Ministro dell’Ambiente Corrado Clini. «Il 5% del trasporto merci viaggia su ferro», ha precisato il ministro, il quale ha definito questa condizione «una cosa ridicola per un’economia avanzata». Ne consegue una movimentazione su gomma di oltre l’80% delle merci. Le problematiche sono due: la prima di carattere ambientale (emissione di Co2 nell’aria), la seconda economica: i costi della congestione che ha effetti
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sulle nostre imprese che producono e devono muovere velocemente i loro prodotti nel mercato europeo ed in quello internazionale. «Per ragioni ambientali ed economiche», ha rilevato il Ministro Clini, «abbiamo bisogno di lavorare urgentemente sulle modalità alternative di trasporto delle merci». Facendo un breve excursus, nell’estate 2010, Sangritana ha integrato il cargo effettuando due nuovi servizi: viene sottoscritto il primo contratto di trasporto merci internazionale, gestito interamente dalla Ferrovia Adriatico Sangritana, con la WalterTosto di Chieti, per il trasporto di lamiere di acciaio da Salzgiter (Germania) a Chieti Scalo. Subito dopo, nell’arco di circa un mese, Sangritana garantisce a Eurofer 80 treni per trasportare barbabietole da zucchero dall’interporto di Jesi allo zuccherificio di Termoli. Nel 2011, le sinergie della Sangritana con Nord Cargo (trasporto dei furgoni Ducato della Sevel), con Crossrail e Ferrotranviaria confermano ed aumentano le commesse dell’azienda di trasporto abruzzese, che viaggia sulla dorsale adriatica, superando i confini regionali sia verso nord sia in direzione opposta. In questo anno, Sangritana ha movimentato quasi 1000 treni, con una percorrenza, solo
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sulla tratta nazionale RFI, di circa 270mila km. Forte dell’esperienza maturata, ora il Presidente Pasquale Di Nardo ha deciso di investire su questo ramo d’azienda. Ricordiamo che la Ferrovia Adriatico Sangritana è l’unica azienda regionale di trasporto ad avere una sua infrastruttura sulla banchina nord del porto di Ortona. Un patrimonio, questo, di non poco conto se si considera che offre la possibilità di caricare e scaricare merci direttamente sul molo, creando una sinergia tra il trasporto merci su rotaia con quello via mare. Da poco, inoltre, è stata espletata la gara per l’acquisto di due locomotori che consentiranno alla Sangritana di garantire una valida offerta ad una domanda che il mercato vede sempre più in crescita, quello del trasporto merci su rete ferroviaria. L’appeal di Sangritana, unica azienda regionale ad essere specializzata anche nel trasporto su ferro, cresce. Marche e Molise la corteggiano come una bella donna il cui fascino non è stato offuscato dall’età: 100 anni che si appresta a compiere proprio nel 2012. L’arrivo della Sangritana nelle Marche, con l’apertura di una sua sede nell’interporto di Jesi, è stato deciso ormai da tempo. Le recenti ed abbondanti nevicate, però, hanno causato il rinvio dell’inaugurazione, posticipata ad Aprile.
Un posizionamento, questo, strategico sia come impresa ferroviaria sia come gestori della movimentazione all’interno dell’interporto. Le prospettive di mercato sono buone per Sangritana. Resta solo l’incognita rappresentata dalla riforma regionale dei trasporti, dalla divisione del trasporto su gomma da quello su rotaia e dagli effetti che la stessa avrà sulle singole società di trasporto della Regione Abruzzo. Di certo sarebbe anacronistico e contrario a qualsiasi legge di mercato rinunciare ad una società di trasporto su ferro in una regione, come l’Abruzzo, dimenticata da Trenitalia che sopprime fermate e cancella collegamenti, magari poco vantaggiosi per il colosso nazionale, ma che, al contrario, risultano determinanti per la sopravvivenza di intere aree della nostra regione.
• Nelle pagine precedenti: sotto il titolo, una foto d’epoca di un convoglio della Sangritana che si inerpica sulle montagne abruzzesi; a destra il presidente della Sangritana Pasquale Di Nardo davanti alla sede storica a Lanciano; in basso, un moderno treno merci della Sangritana trasporta i furgoni Ducato prodotti nello stabilimento della Sevel in Val di Sangro. Nella pagina a fianco: un disegno mostra l’arrivo del treno nella stazione di Lanciano; uno dei modernissimi locomotori in dotazione alla Sangritana.
UN SECOLO DI STORIA abruzzese maggio 1853 Il barone Panfilo De Riseis, presidente del Consiglio Provinciale di Abruzzo Citra, propone la realizzazione di una ferrovia abruzzese che colleghi Napoli con l’Adriatico. 17 gennaio 1854 Il progetto, curato dagli ingegneri Vincenzo Antonio Rossi e Giustino Fiocca, riceve dal Re delle Due Sicilie Ferdinando II una “promessa di concessione”. Il progetto non sarà mai realizzato. 12 marzo 1899 Dopo altri tentativi non andati a buon fine, il sindaco di Casoli Pasquale Masciantonio coinvolge 63 Comuni del comprensorio affinché sollecitino vibratamente la realizzazione di una ferrovia a trazione elettrica a servizio della Valle del Sangro. 3 giugno 1905 L’ingegnere Ernesto Besenzanica presenta al Ministero dei Lavori Pubblici il suo progetto definitivo della linea ferroviaria Sangritana e relativo piano finanziario. 31 maggio 1906 Il progetto viene approvato dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. 21 settembre 1906 Nasce la Società per le Ferrovie Adriatico Appennino (FAA) la cui presidenza è affidata all’ingegnere Ernesto Besenzanica. 27 febbraio 1909 La Società FAA ottiene la concessione per la costruzione e l’esercizio della Ferrovia Sangritana a scartamento ridotto e con trazione a vapore. 11 agosto 1909 Con Decreto Reale n. 669 a firma di Vittorio Emanuele III viene definitivamente approvato il progetto
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esecutivo della Ferrovia Sangritana. 10 febbraio 1911 Iniziano i lavori di costruzione della Ferrovia Sangritana. 1 agosto 1912 Apertura all’esercizio della prima tratta ferroviaria Marina San Vito - Lanciano. 10 novembre 1912 Apertura della tratta Marina di Ortona - Guardiagrele 4 settembre 1913 Inaugurazione della tratta LancianoCrocetta Guardiagrele 7 dicembre 1913 Apertura all’esercizio della diramazione Archi-Atessa sino a località San Luca 29 giugno 1914 Inaugurazione della tratta Archi-Villa S. Maria 17 ottobre 1914 Apertura della tratta Villa S. Maria - Ateleta 1 agosto 1915 Inaugurazione dell’ultima tratta Ateleta Castel di Sangro. maggio 1923 Iniziano i lavori di elettrificazione della linea Sangritana affidati alla Società Tecnomasio Italiana Brown Boveri (TIBB) 9 ottobre 1924 Inaugurazione del nuovo tipo di trazione elettrica su tutto il tracciato della Ferrovia Sangritana. 1 febbraio 1929 Ampliamento della tratta Archi - Atessa da San Luca a Atessa centro. 5 ottobre 1943 Distruzione della linea ferrata da parte
delle Forze Armate tedesche 2 aprile 1945 I ferrovieri della Sangritana si costituiscono in “Cooperativa di Lavoro” e si dedicano volontariamente alla ricostruzione della ferrovia. 25 aprile 1946/1 novembre 1948 Riapertura all’esercizio di tutte le tratte ferroviarie della Sangritana. 7 marzo 1956/18 giugno 1959 Trasformazione da scartamento ridotto a normale della Ferrovia Sangritana gennaio-agosto 1956 Entrata in esercizio dei nuovi mezzi rotabili TIBB 14 marzo 1973 Sospensione del servizio ferroviario sulla tratta Archi-Atessa a causa di uno smottamento del binario giugno 1976 Nasce il Dopolavoro Ferroviario Sangritana 8 luglio 1980 Con Decreto Ministeriale n. 645 il Ministero dei Trasporti assume la gestione diretta della Ferrovia Adriatico Sangritana a mezzo di un Commissario Governativo. 11 agosto 1980 Passaggio di consegna tra la Società per le Ferrovia Adriatico Appennino e la neo Gestione Governativa 1 febbraio 1982 Sospensione del servizio viaggiatori sulla tratta Ortona Marina – Crocetta 1 aprile 1982 Sospensione totale dell’esercizio sulla tratta Archi-Atessa 31 maggio 1982 Sospensione del servizio ferroviario sulla tratta Lanciano-Archi 18 ottobre 1982 Sospensione dell’esercizio ferroviario sulla tratta Archi-Castel di Sangro 10 aprile 1983 Riattivazione dell’esercizio ferroviario a
trazione elettrica sulla tratta Lanciano-Villa S. Maria 31 maggio 1987 Riapertura all’esercizio ferroviario della tratta Villa S. Maria - Castel di Sangro ed inaugurazione de “Il Treno della Valle” 28 settembre 1990 Stipula di convenzione tra la Sangritana e il Consorzio Area di Sviluppo Industriale del Sangro per l’attivazione e gestione del raccordo ferroviario del Nucleo Industriale Sangro febbraio 1992 Inizio interventi di ristrutturazione del materiale rotabile marzo 1997 Affidamento della gestione e della ristrutturazione della Gestione Governativa Sangritana alle FS Spa febbraio 2000 La Regione Abruzzo recepisce il conferimento alle Regioni da parte del Governo delle funzioni e compiti in materia di trasporto pubblico locale 11 aprile 2000 La Sangritana si trasforma in Società di Capitale 1 agosto 2002 Inaugurazione dell’Agenzia “Sangritana Viaggi & Vacanze” 27 maggio 2004 Inaugurazione nuovi elettrotreni 15 marzo 2008 Inaugurazione nuova tratta ferroviaria Lanciano-Marina San Vito con l’arrivo del primo treno nella nuova stazione di Lanciano 20 dicembre 2009 La FAS assume la gestione dell’impianto di risalita di Prati di Tivo 1 agosto 2011 La FAS assume la gestione dell’impianto di risalita di Campo di Giove
Camera di commercio di Pescara
Programmare la crescita Valorizzazione delle eccellenze, formazione, credito alle imprese ed infrastrutture: i 4 punti del programma camerale per il 2012
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ono soltanto trascorsi due mesi dall’inizio dell’anno che già la Camera di Commercio di Pescara porta a casa i primi risultati: un brindisi a Vita, Vite, il progetto organizzato in collaborazione con l’Associazione Italiana sommelier che ha radunato, a Berlino, ben 200 operatori tedeschi intorno alle eccellenze vitivinicole abruzzesi e ben tre corsi, rivolti agli imprenditori, che hanno fatto centro nel campo della formazione aziendale. Sono quattro gli assi strategici della politica camerale che fissano il diagramma della ripresa cercando di livellare la curva del credit crunch e della disoccupazione. Il primo asse riguarda la valorizzazione delle eccellenze del territorio: il già citato Vita, Vite ed il nuovo bando dell’Isnart hanno l’ambizione di portare Pescara e provincia alla ribalta delle scelte turistiche ed enogastronomiche nazionali ed internazionali. Vita, Vite si alimenta da ormai due anni, prevedendo un incoming di buyers del settore vino che, a maggio prossimo, avranno l’opportunità di conoscere a fondo le nostre cantine, dal processo produttivo alle strategie di vendita, dagli abbinamenti ai gusti e sapori della terra fino alla commercializzazione all’estero. Sempre a maggio 2012, è prevista la cerimonia di assegnazione del Marchio Ospitalità Italiana Isnart 2012 alle strutture ricettive (alberghi, agriturismi, ristoranti e country house) che si siano distinte per gli elevati standard di accoglienza e di servizio ed un giusto rapporto qualità prezzo. Il bando per poter partecipare è disponibile sul sito www. pe.camcom.it: alle aziende selezionate verrà data la massima visibilità dall’Ente camerale e dal circuito nazionale
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dell’Isnart. Il secondo asse è quello della formazione: secondo le ultime indagini dell’Istat non soltanto il nostro paese conta un disoccupato su tre ma si sta diffondendo, a macchia d’olio, il fenomeno dei neet, i giovani che non solo non hanno un lavoro ma né lo cercano nè studiano. Per incentivare loro, collocare gli aspiranti imprenditori o ricollocare i dipendenti, la Camera di Commercio di Pescara ha organizzato tre corsi di formazione: il primo rivolto alle imprenditrici od aspiranti tali sui temi dell’organizzazione aziendale, le nuove tecnologie e la gestione delle risorse umane; il secondo, nell’ambito del progetto “PuntoZero. Cultura digitale e business solution”, sull’utilizzo delle soluzioni web per la gestione dei processi aziendali, il commercio elettronico, il marketing e la comunicazione on line; l’ultimo, organizzato in collaborazione con Confindustria Pescara, sul tema delle reti d’impresa, una nuova forma sociale a tutto vantaggio degli imprenditori. Con il terzo asse, invece, si cerca di dare credito al sistema economico attraverso la concessione di contributi per i confidi, i consorzi di garanzia collettiva fidi che agevolano le imprese nell’accesso ai finanziamenti, e per le aziende che abbiano attivato un sistema di controllo di gestione e di certificazione di qualità. Il totale stanziato, già distribuito tra coloro che ne hanno fatto richiesta, è pari ad € 393.756,42. Un ultimo punto, tra i più caldi del programma del 2102, riguarda l’asse delle infrastrutture. Su di esso, la Camera di Commercio di Pescara sta lavorando già da tempo attra-
• Il Presidente della Camera di Commercio di Pescara Daniele Becci. In basso un’immagine dall’evento berlinese Vita,Vite.
verso il Forum dell’economia e dello sviluppo, affinché l’emergenza porto, il rilancio dell’aeroporto, la questione della viabilità e degli altri nodi strategici del territorio non passino mai in secondo piano. In primo piano, anche, per l’Ente, il tema della banda larga e della connessione wi-fi: con il progetto PuntoZero verranno installate, su strutture già esistenti, 50 hot spot per internet gratuito un’ora al giorno: un sistema che non risolve il problema della banda larga (da un’indagine condotta dalla Camera ben 27 comuni su 46 sono in uno stato di digital divide pesante) ma che può rappresentare la chiave di volta per un aumento della domanda di servizi legati ad internet da parte dell’utenza (info sul progetto su www.puntozeropescara.it). A.C.
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Poli d’innovazione
Matrimonio di eccellenze Industria, agricoltura, ricerca e Università insieme per lo sviluppo: un accordo tra il Polo d’Innovazione Agire e il Distretto It.QSA pone le basi concrete di una collaborazione destinata a segnare una svolta decisiva nel rilancio dell’economia regionale
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iconsegnare il territorio a chi lo vive, questo lo scopo dei Poli d’Innovazione secondo Alfredo Castiglione, Assessore Regionale allo Sviluppo Economico. E che la strada tracciata per rilanciare l’economia –unire il comparto industriale a quello della ricerca– sia quella giusta lo dimostra il recente accordo raggiunto e siglato lo scorso 29 febbraio tra il Polo d’Innovazione Agire (acronimo di Agroalimentare, Industria, Ricerca e Ecosostenibilità) e il distretto It.QSA (Innovazione Tecnologica, Qualità e Sicurezza degli Alimenti). Le due società consortili abruzzesi –la prima istituita alcuni mesi fa in seguito al bando regionale POR FESR 2007-2013 per promuovere l’innovazione attraverso la costituzione di una rete tra le imprese del settore agroalimentare e che conta tra i suoi associati nomi d’eccellenza come l’Amadori di Mosciano e la De Cecco di Fara S.Martino, e la seconda istituita anni fa su iniziativa della Regione soprattutto per stimolare la ricerca scientifica nel medesimo comparto con l’apporto delle Università e dei centri di ricerca del territorio regionale, come il Crab– hanno sottoscritto un accordo che prevede una collaborazione tra le rispettive attività, evitando le sovrapposizioni e favorendo così una più incisiva azione di sviluppo della ricerca a beneficio delle imprese abruzzesi del settore. Alla firma erano presenti il presidente del Polo Agire Salvatore Di Paolo e l’amministratore del Distretto Luigi Bignardi, ex rettore dell’Università dell’Aquila, oltre all’assessore Castiglione e all’assessore regionale all’Agricoltura Mauro Febbo. «Questa nuova geografia industriale che stiamo disegnando attorno ai Poli d’Innovazione –ha affermato l’assessore
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Castiglione– comincia a prendere corpo proprio grazie ad accordi come questi, che mettono al centro il valore della sinergia tra il mondo che produce e quello della ricerca. Un’unione che permetterà a tante aziende che fanno parte delle due realtà di poter intercettare più facilmente finanziamenti promossi da ulteriori bandi». Un’opinione condivisa da Salvatore Di Paolo, presidente del Polo Agire, tra i più vivaci degli otto Poli finora costituiti dalla Regione: «Il nostro obiettivo, oltre a quello di aggregare quante più imprese possibili in un unico contenitore –spiega– è proprio la ricerca: e fare in modo che il Distretto sviluppi la ricerca e il Polo la applichi mi pare il modo migliore di evitare sprechi di denaro». Per effetto dell’accordo si garantisce al Distretto “un ruolo centrale nelle attività di coordinamento e di sviluppo della ricerca scientifica nel settore agroalimentare per il miglioramento della qualità e della sicurezza degli alimenti e dei processi produttivi”, mentre al Polo quello di “animatore e promotore di attività concernenti l’innovazione nel settore agroalimentare, agroindustriale e dell’ecosostenibilità, svolgendo anche il compito di catalizzatore dei fabbisogni”. «Finora il mondo della ricerca e dell’università era da considerarsi una realtà completamente separata dal mondo delle imprese. Questo accordo va in senso contrario, realizzando un connubio positivo con ricadute tangibili per le imprese, che potrebbero concretizzarsi anche nell’ampliamento dello spettro dei finanziamenti». Della stessa opinione l’assessore Mauro Febbo, che ribadisce l’importante risultato raggiunto nel far dialogare tra loro mondi apparentemente inconciliabili, e aggiunge che «oggi senza la ricerca e l’innovazione non
• Il tavolo della conferenza stampa di presentazione dell’accordo: da sinistra Alfredo castiglione, Luigi Bignardi, Salvatore Di Paolo e Mauro Febbo.
possono andare avanti né l’industria né l’agricoltura. Quel che è stato fatto traccia uno spartiacque tra il modello di sviluppo che ha caratterizzato il passato e quello del futuro, è una strada necessaria e ineludibile per ottenere dei risultati in termini di competitività». Il protocollo d’intesa prevede anche la nomina da parte di ciascuno dei due consorzi di un proprio componente nel comitato tecnicoscientifico dell’altro. Inoltre, quando si tratterà di valutare progetti di ricerca ed affidamenti di incarichi riguardanti attività scientifiche, le due società consortili sono obbligate reciprocamente ad acquisire il parere consultivo da
parte dei due comitati tecnico-scientifici. Chi è socio del Distretto, poi, può anche essere socio del Polo e viceversa. «Noi non abbiamo bisogno di un enorme numero di imprese –spiega Luigi Bignardi, amministratore del Distretto– ma di un numero di aziende che sia sufficiente a creare delle aree di competenza: nel vitivinicolo, per esempio, o nel caseario, nell’olivicolo. Saranno loro, tramite gruppi interni di lavoro, a definire i contenuti della ricerca. Ecco perché si parla di restituire il territorio a chi lo vive».
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Gruppo bancario Tercas
La Banca Bella La crisi, il ruolo delle banche, la politica della Tercas in questa intervista con Lino Nisii, Presidente del maggior istituto di credito regionale di Claudio Carella È senza alcun dubbio tra i massimi e più autorevoli protagonisti della scena politica, professionale ed economica dell’Abruzzo negli ultimi quarant’anni. Da sempre su posizioni politiche moderate con una decisa venatura progressista, celebre avvocato ferratissimo nelle questioni economiche, da trent’anni l’impegno pubblico di Lino Nisii si esprime e si realizza nel ruolo chiave di Presidente della Cassa di Risparmio di Teramo, e oggi –dopo la fusione con Banca Caripe– del Gruppo bancario Tercas, il maggiore istituto di credito regionale con sedi in tutta Italia. Gli abbiamo posto alcune domande. La Cassa di Risparmio della provincia di Teramo fu fondata nel 1939. Uscito dalla terribile crisi del 1929 il mondo stava per entrare nell’ancor più terribile catastrofe della seconda guerra mondiale. Tra le cause di fondo del conflitto, alcuni storici includono i guasti economici e sociali prodotti dal crack finanziario americano del ’29. Oggi, il timore è che i durissimi provvedimenti chiesti dall’UE e adottati in alcuni Paesi europei, come Italia e Grecia, per risanare i conti pubblici e far ripartire la crescita economica, possano provocare una vera e propria “guerra sociale” dalle inquietanti prospettive all’interno dei singoli Paesi interessati. Lei considera fondate o troppo pessimistiche le analogie e i rischi ipotizzati? «La depressione del ‘29 ebbe inizio con una crisi finanziaria simile a quella che abbiamo vissuto negli ultimi anni. Allora, tuttavia, la rigida applicazione di politiche economiche e monetarie di stampo classico contribuì ad aggravare la situazione causando nelle economie occidentali una contrazione del prodotto superiore al 10% ed il prevalere di tassi di disoccupazione anche superiori al 20%. Finora i costi economici e sociali della crisi sono stati, anche se notevoli, molto inferiori a quelli del ‘29 grazie all’applicazione di politiche fiscali e monetarie anticicliche e più efficaci. Dalla dolorosa esperienza della Grande Depressione è maturato il pensiero economico moderno, da Keynes ai neomonetaristi, che riconosce più compiutamente il valore delle aspettative e della psicologia
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umana a scapito dell’applicazione di regole rigidamente deterministiche. Il processo di stabilizzazione e di riequilibrio dell’economia globale è iniziato, agevolato dalla spinta dei Paesi emergenti. Anche il nostro Paese sta dimostrando un alto, e per certi versi inatteso, grado di consapevolezza riguardo alle sfide che lo attendono. Nel complesso credo che stavolta ce la caveremo meglio». Le banche, di questi tempi, non godono di grande favore popolare. Negli USA la responsabilità del sistema bancario nella crisi esplosa tre anni fa è stata evidente. In Italia i nostri istituti finanziari si sono dimostrati solidi e affidabili. Lei pensa che abbia un qualche merito, nella tenuta del sistema bancario italiano, l’esistenza di una rete diffusa di banche locali di rispettabile ma non grande entità? Oppure, al contrario, lei pensa che le “piccole” banche debbano raggrupparsi, come hanno fatto Tercas e Caripe, per dare vita ad organismi di maggiore entità e competitività? «A dire il vero le Banche non hanno mai riscosso grandi simpatie da parte dell’opinione pubblica. Si stenta a comprendere il ruolo dell’intermediazione del credito, che non è l’esercizio arbitrario di un potere monopolistico nei confronti degli operatori economici, ma la prudente allocazione delle risorse finanziarie raccolte dai risparmiatori verso le iniziative imprenditoriali ritenute più meritevoli. Tutto ciò in un mercato sempre più competitivo. Questo ruolo, comune a tutte le banche, ha assunto un carattere peculiare negli Usa, dove vi era il problema dell’elevato indebitamento privato che ha causato instabilità nel sistema creditizio. In Italia l’instabilità è stata generata dall’elevato livello di debito pubblico, essendo il debito privato più contenuto. La migliore tenuta del sistema bancario italiano lo attribuisco, pertanto, alla sua differente struttura. Struttura che, con la sua capillarità, ha contribuito a contenere l’emotività dei risparmiatori ed a rimanere vicino agli imprenditori locali. Credo, in questo contesto, che il Gruppo Tercas abbia ora le dimensioni ottimali per svolgere in maniera efficace ed efficiente il suo ruolo di banca».
• L’Avvocato Lino Nisii, presidente del gruppo bancario Tercas. Qui sotto, la sede teramana del gruppo.
Il Gruppo Tercas ha recentemente definito un accordo con Confagricoltura, Coldiretti e Confederazione Italiana Agricoltori per interventi speciali per il settore agricolo, da erogare attraverso i Confidi. Gli interventi consistono nella concessione di credito alle imprese agricole sia con finanziamenti ordinari per soddisfare esigenze finanziarie di breve termine, sia con finanziamenti a medio e lungo termine, finalizzati al ripristino della funzionalità aziendale. Ci sembra un caso esemplare di sostegno concreto all’economia reale da parte di una banca. È questa la linea sulla quale intende muoversi il Gruppo Tercas? «Quest’accordo rappresenta bene la politica creditizia che Tercas e Caripe intendono adottare. Rimanere vicini al tessuto economico locale dando impulso a quei settori, come la filiera agricolo-alimentare allargata, che possono rappresentare, ed in parte già rappresentano, una prospettiva di sviluppo notevole per l’Abruzzo. Seguiranno altre iniziative, differenti nella struttura, ma tutte volte a riaffermare il ruolo di Tercas e Caripe in Abruzzo come interlocutori prevalenti di aziende, cooperative, artigiani e professionisti attraverso l’utilizzo dei Confidi, un utile strumento per attenuare il rischio di insolvenza in capo alla Banca e, conseguentemente, per praticare condizioni più vantaggiose». In questa situazione di crisi il credito è vitale per le imprese ma anche per le persone, per le famiglie. Qual è la vostra politica di credito al consumo? «Come accennavo, in Italia non abbiamo un problema di indebitamento privato; ciò deriva da una precisa concezione che le famiglie hanno del debito, come strumento cioè per far fronte a delle necessità temporanee o per l’acquisto della casa in cui vivranno e non per il sostenimento di uno stile di vita artificiosamente elevato. Tercas sposa questa concezione sostenibile dell’indebitamento privato e la promuove con prodotti molto competitivi sia per quanto riguarda i mutui immobiliari sia sul credito al consumo, comparto nel quale siamo presenti con i prestiti personali che con la cessione del quinto».
Lei, attraverso il suo impegno professionale, politico e imprenditoriale, è da oltre quarant’anni un protagonista della scena pubblica abruzzese. Alla luce della sua esperienza, c’è la possibilità che questa crisi si riveli un’opportunità per la crescita della nostra regione? Che cosa bisognerebbe fare, secondo lei, affinché questa eventuale opportunità venga colta e sfruttata al meglio? «L’Abruzzo è una regione stupenda. L’ho vista cadere e risollevarsi ancor prima che esistesse come entità amministrativa. Da regione povera del Mezzogiorno, serbatoio di braccia cui i flussi migratori hanno attinto generosamente, è diventata dal ‘70 al 2000 un esempio di sviluppo per tutta l’Italia. Da oltre dieci anni assistiamo però ad un stallo, a livello sociale, economico e di conseguenza politico, tanto più pericoloso in quanto lento ed impercettibile. Ne siamo tutti testimoni ed in vario grado responsabili. Restiamo fermi, più timorosi di perdere quello che abbiamo che di affermare le nostre idee. Le ricette che economisti e politici continuano a proporre (internazionalizzazione, flessibilità, infrastrutture, conoscenza) sono tutte valide, ma diventano solo parole, estranee all’indifferenza di una coscienza comune sopita. Che questa crisi, allora, sia veramente tale, un cambiamento del nostro modo di vedere il futuro, che trasformi onestà, equità, merito, progresso in qualcosa di più di semplici parole: in prospettive». Nell’incontro con la stampa per la presentazione del nuovo direttore generale di Tercas, Dario Pilla, sia lei che Pilla avete affermato di voler fare di Tercas una “banca bella”. Che cosa intendete con “banca bella”? «La presentazione del direttore Pilla è stata l’occasione per rilanciare l’identità che Tercas vuole tornare ad affermare. Di fronte ai suoi azionisti, ai suoi dipendenti, ai suoi clienti. Una Banca Bella ha una struttura organizzativa semplice, un profilo finanziario robusto, una redditività adeguata ai rischi che assume, è trasparente, rapida, offre soluzioni e non prodotti. Questa è la Tercas del futuro».
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Vario ART 2012
Talenti da collezione La Fondazione Pescarabruzzo e Vario proseguono il viaggio alla scoperta dei giovani artisti abruzzesi. Il terzo cofanetto contiene le monografie su Antonio Lucifero, Alessandro Di Carlo, Alessandro Gabini e Marco Antonecchia
Testi Fabrizio Gentile foto Piero Cipollone
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orna l’appuntamento con VarioART, la collezione di monografie sui giovani artisti che esplorando i nuovi territori dell’arte contemporanea si affacciano alla ribalta nazionale e internazionale. L’istituto presieduto dal professor Nicola Mattoscio ha selezionato per questa terza edizione quattro emergenti che col loro approccio del tutto originale spaziano all’interno delle arti visive affrontando di volta in volta la grafica, la pittura, l’installazione, la videoarte: mezzi (media, appunto) scelti in funzione del messaggio da comunicare, non per se stessi. E i messaggi, come i mezzi, sono molteplici: il mare osservato da Lucifero nel suo Ulisse Scatenato invita a un nuovo modo di considerare il paesaggio e gli oggetti che ci circondano, per scoprirne e comprenderne l’essenza; il
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tratto crudo, secco, ironico delle opere grafiche, delle sculture e delle installazioni di Alessandro Gabini proviene dalle subculture urbane ed è fortemente intriso di cultura musicale; la musica viaggia di pari passo anche con le opere di Alessandro Di Carlo, che comunica e registra nella pittura gli impulsi più basilari della sua esistenza; pittura, fotografia, scultura, installazione –e una medesima varietà tematica– sono i mezzi con i quali Marco Antonecchia getta il suo sguardo irriducibilmente ironico sulla società. I protagonisti di questo nuovo appuntamento con l’arte contemporanea –che si aggiungono a quelli delle precedenti edizioni: Lorenzo Aceto, Emanuela Barbi, Enzo De Leonibus, Daniela d’Arielli, Matteo Fato, Learda Ferretti, Paride Petrei, Lucio Rosato, Gino Sabatini Odoardi, Sergio Sarra,
L’EDIZIONE 2012 La nuova edizione del cofanetto pubblicato dalla Fondazione Pescarabruzzo contiene quattro monografie con testi critici in italiano e inglese e quattro poster d’autore, riprodotti in questa pagina. Dall’alto, in senso orario, le opere di Alessandro Gabini, Alessandro Di Carlo, Marco Antonecchia e Antonio Lucifero. Nella foto di apertura, da sinistra: Alessandro Di Carlo, Alessandro Gabini, Nicola Mattoscio, Claudio Carella e Antonio Lucifero
Connie Strizzi e Simone Zaccagnini– sono stati presentati alla stampa durante una cerimonia tenutasi lo scorso 12 dicembre nei locali della Fondazione in Corso Umberto I a Pescara, alla quale hanno partecipato il presidente della Fondazione Pescarabruzzo Nicola Mattoscio, il direttore di Vario Claudio Carella, il critico d’arte Simone Ciglia (che ha curato i testi di tre delle monografie, mentre quella su Antonio Lucifero è corredata di un intervento di Daniela Garofalo) e i quattro artisti, che hanno consegnato un’opera ciascuno; la collezione permanente della Fondazione Pescarabruzzo si arricchisce così di altre quattro opere. «Abbiamo voluto dare seguito –ha commentato il professor Mattoscio– all’iniziativa editoriale condotta in collaborazione con Vario, visto il successo riscontrato negli anni scorsi.
L’Abruzzo è stato ed è ancora oggi un bacino artistico estremamente fertile, nel quale crescono e si distinguono giovani talenti destinati a portare alto il nome della regione in campo nazionale e internazionale. La Fondazione Pescarabruzzo, da sempre attenta alla conservazione e al recupero del patrimonio culturale abruzzese, ha tra le sue finalità anche la promozione e valorizzazione delle arti visive contemporanee, ed è con questo spirito che la stessa ha voluto proseguire questa proposta editoriale di altissima qualità, che ambisce ad allargare il pubblico degli appassionati di arte contemporanea offrendo un poster d’autore unico nel suo genere». Nelle pagine che seguono (e nel prossimo numero di Vario) troverete le interviste ai protagonisti di questa nuova edizione.
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Vario ART 2012
ALESSANDRO
DI CARLO Il fanciullo che guarda il mondo degli adulti
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l suo è lo sguardo di un bambino: uno sguardo innocente su un mondo pieno di contraddizioni, ma anche di passioni che si riflettono nella sua pittura. Alessandro Di Carlo, costruttore per lavoro di giorno e dj/performer di notte (tra i più coreografici e noti della sua Pescara) nasconde –e per la prima volta rivela– il suo volto segreto, quello di pittore. «La mia pittura nasce da un’urgenza interiore. Trasferisco sulla tela le mie passioni e le mie emozioni. I miei quadri nascono dalla rabbia, dalla gioia, dalla solitudine, dall’allegria provata in un determinato istante, in un preciso momento della mia vita. Sono tutti legati a situazioni, eventi, o semplicemente a sensazioni che ho provato». Una pittura istintiva non priva di influenze –la steet art, il graffitismo, la pop art– ma dai tratti originali e interessanti. «La pittura per me è sempre stata sottopelle, rappresenta la mia parte più nascosta, e per chi la sa leggere dice di me molto più di quel che faccio trapelare io, e quindi è anche stata riservata ai miei amici più stretti. E poi è catartica: serve a liberarmi quando ho qualcosa dentro di bello o di brutto. Infatti mi è difficilissimo separarmi dai miei quadri». La musica entra tantissimo nei tuoi dipinti. «Nella mia pittura entrano le mie passioni: i soggetti sono spesso cose che mi piacciono, come i giocattoli o i dischi. Ho realizzato una serie di quadri in cui ho riprodotto a modo mio le copertine dei dischi che mi sono piaciuti, quelli che ritengo fondamentali nel mio percorso esplorativo della musica. Mi sono anche reso conto che lo stile della mia pittura era condizionato dal modo di mettere i dischi, dalla selezione che facevo. Ogni passaggio, ogni fase della mia crescita musicale si è riflesso in un cambiamento nello stile della pittura. E quando dipingo ascolto sempre musica, adesso per esempio ascolto molto i Radiohead». L’opera che hai scelto per il poster della tua monografia rappresenta un topo… «I topi mi piacciono, sono animali speciali per me. Questa però è la riproduzione di una nutria di gomma che ho comprato anni fa e che ho voluto regalare a una mia amica. Non so perchè, ma me l’ha restituita (ride, ndr). Da allora me la sono portata appresso durante le serate, la mettevo sul tavolo insieme alla consolle, le ho fatto un sacco di fotografie e alla fine mi è sembrato doveroso ritrarla».
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Un altro quadro rappresenta un puffo, però non è blu. «Vivendo in provincia spesso è facile cedere all’omologazione. A volte invece ci si sente diversi, come un puffo nero in mezzo a tanti puffi blu. È un quadro che ha in sé la rabbia per ciò che vedo, vorrei che questa città fosse diversa e invece non lo è». Qual è il tuo rapporto con la città in cui vivi? «Vivo qui solo per il lavoro e per quei pochi amici, altrimenti me ne andrei subito. Sono esausto dal continuo confronto con leggi vecchie e amministrazioni miopi, servi e burocrati di ogni genere. E quel che mi dà più fastidio è di essere messo nel mucchio dei “costruttori”, intesi come categoria di speculatori; io sono il puffo nero, sono diverso, voglio essere considerato per quel che faccio e non per quello che hanno fatto –male– altri. Non dico che questo non accada anche altrove, ma questa città spesso si caratterizza proprio per certi atteggiamenti tipicamente provinciali, come se si compiacesse dei suoi difetti. È assurdo, per esempio, che si protesti contro un mio progetto di restauro di un edificio esistente (e peraltro abbandonato) ma privo di alcuna valenza storica o architettonica quando poi si permette ai soliti palazzinari di edificare ex novo palazzi orribili che non fanno altro che procurare soldi a chi li costruisce e un immenso danno d’immagine a una città già abbastanza disastrata. E pensare che io adoro tutto ciò che è vecchio: colleziono vinili d’epoca, amo circondarmi di oggetti del passato. Ho una collezione di dinosauri e robot». Sembra che tu abbia il desiderio di restare bambino… «Mantenere lo sguardo del bambino è importante anche perchè un bambino è libero, anche di essere maleducato. È sincero, a volte ingenuo ma sincero». Cosa ti piacerebbe cambiare della tua pittura? «Vorrei essere più bravo, avere maggiore sicurezza. Io non ho una formazione scolastica di settore, sono soddisfatto di quel che faccio, ma mi piacerebbe poter padroneggiare l’arte del disegno, saper disegnare come Michelangelo. Non userei mai quella tecnica, ma mi piacerebbe saperlo fare». E di te stesso cosa cambieresti? «So cosa non cambierei mai: la sincerità e la spericolatezza. E perchè no? La bontà». F.G. •Alessandro Di Carlo
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Vario ART 2012
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LUCIFERO Il suo mito è l’uomo dal multiforme ingegno, ma nella sua dimensione creativa non vi sono certezze. Ecco l’artista che vuole diventare un dilettante
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el curriculum di Antonio Lucifero balzano subito all’occhio due cose: la prima è che il suo è un percorso professionale sterminato. In 43 anni di vita, 26 dei quali passati a lavorare, ha accumulato tante esperienze da far invidia a personaggi di ben più lunga e paludata carriera. La seconda è che queste esperienze sono diverse, e lo accreditano di volta in volta come regista (teatrale, televisivo e cinematografico), come musicista, e come artista eclettico in grado di spaziare dalla videoarte alla pittura, dalla fotografia all’installazione. Ciononostante, la sua più grande ambizione è quella di diventare “un dilettante”. «Nel dilettante c’è la libertà, c’è lo sgomento dell’incertezza, del “non sapere cosa succederà”: e puoi permettertelo perchè sei un dilettante. E il dilettante non ha committenti. C’è chi sceglie di fare l’artista prestando le sue doti a una professione, ma alla fine –secondo la mia esperienza– quelle doti si corrompono, specialmente a causa della committenza, perchè tutti, oggi, si sentono legittimati a metter bocca nel tuo lavoro, anche tecnicamente. Ma lentamente sto raggiungendo il mio scopo, separare l’arte dal lavoro e fare ciò che desidero, ciò che mi dà piacere. Il che è proprio del dilettante, cioè di chi fa qualcosa “per diletto”». Coltivi tantissimi interessi e utilizzi un gran numero di mezzi espressivi. Un eclettismo che ti accomuna al tuo illustre antenato Francesco Paolo Michetti. «Mi accomuna a lui ma anche a tanti uomini del passato, quando non esistevano le “specializzazioni”. Per fare un esempio recente, Picasso era pittore ma anche fotografo, scultore, non aveva problemi a spaziare da un mezzo artistico a un altro. Anche Michetti, il mio bisnonno, è passato alla storia come pittore, ma era fotografo e scultore; ha scritto di astronomia; aveva una falegnameria in casa, era appassionato di meccanica, ha costruito perfino un’automobile, che si trova esposta al museo dell’auto di Torino. Le specializzazioni sono qualcosa di molto contemporaneo e spesso nascondono l’incapacità di fare altro. E purtroppo, chi fa una sola cosa difficilmente fa ricerca, che è la cosa che mi inte-
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ressa di più». Tutti i tuoi lavori “artistici” sono infatti delle sperimentazioni di volta in volta su mezzi espressivi diversi. L’opera “Ulisse scatenato”che hai scelto per la tua monografia è una composizione di 365 inquadrature dello stesso tratto di mare. «Quell’opera nasce dalla considerazione della cecità: volevo evidenziare come oggi i nostri occhi siano talmente assuefatti a ciò che ci circonda da non riuscire a “vedere” veramente, siamo ciechi davanti al quotidiano. Il riferimento all’Ulisse Incatenato di Tennyson non è stata la base di partenza, è una semplice citazione. E poi ora sto cercando di uscire dalla schiavitù del testo». Sarebbe a dire? «Sto lavorando a un progetto basato sul Riccardo III: non un quadro, non un film, non una videoinstallazione, ma tante cose insieme, stampe, installazioni e perfino testo, ma non come significato bensì come significante quasi musicale, come se fosse una colonna sonora. In questo modo non sei più tu al servizio del testo, ma è il testo ad essere al servizio dell’opera. Vorrei che l’audiovisivo (tutto ciò che comporta il coinvolgimento di suoni e immagini) si svincolasse dalla schiavitù del testo, lo distruggesse e lo ricostruisse per creare qualcosa di completamente diverso». La sperimentazione ha un rischio: che il mezzo prenda il sopravvento sul messaggio. Ci hai pensato? «Certamente, ma sono giunto alla conclusione che quel che faccio è ignoto perfino a me stesso. Io non so dove mi porterà l’avventura che inizia ogni volta che comincio a dedicarmi a un nuovo progetto. Torniamo allo sgomento dell’incertezza: è il non sapere che mi affascina. Mi serve sapere cosa sto facendo, ma il mio è il punto di vista di un osservatore/creatore, in modo da poter lasciar andare la creatura e vedere che cosa diventerà. Ho perso molte delle certezze che avevo quand’ero più giovane, e anzi ora so di trovarmi in una dimensione limbica, in cui la ricerca serve solo a scoprire di volta in volta nuovi ambiti in cui non ci sono certezze. E non le voglio». F.G. • Antonio Lucifero
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Accordi (e disaccordi) In merito al recente accordo tra l’Amministrazione comunale e la Facoltà di Architettura, l’Ordine degli Architetti di Pescara manifesta le sue riserve sull’opportunità del coinvolgimento accademico in alternativa a quello della categoria. Il concetto di progettazione implica complessità e non si risolve in operazioni d’immagine mentre resta scoperto il vasto campo della ricerca di base e della conoscenza del territorio
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a Grecia classica ci consegna il mito di Crono che, timoroso di perdere potere, mangia i suoi figli (ma con Zeus non ce la fece); questo motivo ha attraversato la nostra cultura fino alle favole gotiche dei fratelli Grimm dove i genitori abbandonano i figli nel bosco per disfarsene. Non vorremo che ne rivivessero gli echi nelle ultime mosse della Facoltà di Architettura di Pescara. Dopo aver laureato migliaia di professionisti per diffondere gli effetti del sapere tecnico sui territori, da tempo le università si muovo su terreni professionali o paraprofessionali, generando dannose ambiguità e prestandosi ad operazioni di immagine nel rapporto con gli Enti Locali, scarsamente incisive sulle trasformazioni. Dopo la incerta paternità di Piazza della Rinascita a Pescara, il recente massiccio impegno nella ricostruzione post-terremoto, assunto senza competizione, remunerato e accompagnato da numerose collaborazioni subordinate, si giunge al vasto accordo tra la Facoltà e l’Amministrazione Comunale di Pescara per fornire “idee progettuali” su importanti parti della città. Vedremo meglio i dettagli dell’accordo ma, nelle dichiarazioni riportate dalla stampa, emergono numerosi elementi su cui esprimere riserve. In primo luogo la continua ambiguità tra i concetti di “ricerca” e “progetto” che toglie al secondo il carattere di lavoro tecnico competente ed ordinato, finalizzato alla realizzazione di un piano o di un’opera, e al primo il carattere di sperimentazione affrancata dal vincolo dell’utilità immediata. In secondo luogo i concetti di “risparmio” per l’Amministrazione e di “occasione“ per i giovani talenti. Quanto al risparmio (si parla di un rimborso di 10mila euro), delle due l’una: o si tratta di lavoro finalizzato alla produzione di strumenti urbanistici in concorrenza sleale o la prestazione è priva di valore operativo e quindi nemmeno di quello indicato, essendo prodotto dell’attività ordinaria della Facoltà. Quanto all’“occasione”, non si ravvisa finora nella politica degli incarichi pubblici una visibile apertura all’esterno né il coinvolgimento ampio delle professionalità disponibili sul territorio ed ora, bypassando un’intera categoria, si ricorre addirit-
tura alle professionalità in formazione. Crediamo francamente che si sottovaluti il ruolo decisivo del progetto nei processi economici e di trasformazione territoriale, che trova riscontro, anche a livello nazionale, nell’espulsione della cultura progettuale dalle ricette per uscire dalla crisi e rilanciare l’economia: da un lato società di ingegneria e progettazione sempre meno legate al territorio e collegate ai centri di potere; dall’altro esercitazioni accademiche con funzioni di immagine. Sullo sfondo, la scarsa comprensione della specificità del lavoro intellettuale e la confusione tra le attività volte a didattica e ricerca e quella dell’“amministrare l’urbanistica” (Campos Venuti). Non ci attenderemmo infatti accordi con Economia e Commercio per la contabilità; con Medicina per le visite scolastiche; con Giurisprudenza per il contenzioso delle Amministrazioni. Oltre a questo c’è un obiezione di merito sulle strategie urbanistiche per la città: da tempo denunciamo un deficit di pianificazione urbana ed indichiamo modelli propositivi. La città ha bisogno di un Laboratorio permanente di urbanistica, con professionalità interne ed esterne e con l’apporto degli specialismi che si rendessero necessari, capace di tracciare per sistemi le linee portanti dello sviluppo e definire, in modo partecipato, il senso della città multipolare e della rigenerazione urbana; in questo schema anche le università possono dare un contributo, fornendo (se le hanno) o elaborando analisi di base, scenari, connessioni con l’area vasta. Cio è possibile rimettendo al centro il lavoro e l’ordinaria fatica di gestire l’urbanistica. Riteniamo che non si esca dalla crisi che tutti viviamo affollando disordinatamente lo spazio economico e culturale, ma cooperando ognuno con la propria specificità e ruolo ad immaginare il territorio delle nostre comunità. Il Consiglio dell’Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Pescara
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La città sostenibile Il piano d’azione che può diventare risorsa di Franco Feliciani Esercita a Pescara dal 1981. Titolare dello studio “Energiasensibile” svolge anche attività di Energy Manager e Consulente di Amministrazioni Pubbliche per lo sviluppo sostenibile e la promozione di fonti rinnovabili di energia. Dal 2009 è Vice Presidente dell’Ordine degli Architetti della provincia di Pescara.
Le fasi del S.E.A.P. Fase
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Attivazione
Commitment e firma del Patto Adattamento delle strutture amministrative Sviluppo del supporto degli stakeholders
Pianificazione
Valutazione della situazione attuale Definizione della visione a lungo periodo Redazione del Piano Approvazione del Piano
Implementazione
Implementazione delle Azioni previste
Monitoraggio e Reporting
Monitoraggio Invio del report sull’implementazione del Piano Review
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a sottoscrizione del “Patto dei Sindaci” (Covenant of Mayors) su iniziativa della Commissione Europea proietterà diversi Enti Locali al raggiungimento degli obiettivi del pacchetto “Energia-Clima 20-20-20”, che si propone di ridurre le emissioni di CO2 del 20% entro il 2020, aumentare del 20% la quota delle fonti di energia rinnovabile, aumentare del 20% l’efficienza energetica degli edifici. La sottoscrizione del Patto ha impegnato i Sindaci all’approvazione di un Piano di Azione per l’Energia Sostenibile (S.E.A.P.) ed a presentare un Rapporto biennale sulla sua attuazione. Dalla Conferenza mondiale di Rio del 1992, che ha fatto compiere i primi passi all’attuazione dell’Agenda 21, gli appuntamenti internazionali si sono susseguiti nel tentativo di trovare soluzioni per un futuro sostenibile. In occasione della conferenza in Giappone nel 1997, la Conferenza delle Parti ha approvato il “Protocollo di Kyoto, proposto come atto esecutivo con le prime decisioni e gli impegni più urgenti: la riduzione complessiva del 5% delle emissioni di CO2 ripartita tra Paesi dell’Unione Europea, Stati Uniti e Giappone. La quota di
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riduzione fissata per l’U.E. è dell’8%, tradotta poi dal Consiglio dei Ministri dell’Ambiente in obiettivi differenziati per i singoli Stati membri; per l’Italia è stato stabilito l’obiettivo del 6,5%. Il 19 dicembre 2009 a Copenhagen, la Conferenza delle Parti alla Conferenza dell’ONU sul clima ha trovato un accordo, non vincolante, per limitare il riscaldamento climatico attraverso una massiccia riduzione delle emissioni di gas serra. Ulteriore passo è stato fatto nel 2010, nella Conferenza dell’ONU sul clima di Cancun, durante la quale sono stati approvati due diversi documenti: uno sul “futuro del Protocollo di Kyoto” e l’altro su un più ampio trattato sui cambiamenti climatici, da negoziare ed adottare in un futuro summit. L’Italia ha proposto un Position Paper: “Energia: temi e sfide per l’Europa e per l’Italia” che contiene la posizione del Governo italiano sul potenziale massimo di fonti rinnovabili raggiungibile dal nostro Paese. Ha inoltre presentato a Bruxelles il proprio “Piano di azione nazionale sull’efficienza energetica” per ottenere il 9,6% di risparmio energetico entro il 2016, più di quanto prevede la direttiva europea 2006/32 (9%).
MISURE /AZIONI Il Piano si può articolare in Settori con alcune Azioni Strategiche (schema indicativo): Settore
Azione Ipotizzata
Pubblica Illuminazione
Efficienza energetica degli impianti di illuminazione pubblica Impianti semaforici: sostituzione delle lampade tradizionali con LED
Edilizia Pubblica
Efficientamento energetico degli edifici pubblici Ottimizzazione dei contratti di fornitura dell’energia degli edifici pubblici Audit energetici su edifici scolastici
Edilizia Privata
Incentivi ed agevolazioni per l’efficienza energetica degli edifici privati Valorizzazione della Certificazione energetica degli edifici
Mobilità
Parcheggi di scambio con “car-sharing” elettrici e “bike-sharing” Rinnovo del parco veicoli comunale Zone a Traffico Limitato - Limitazione dell’accesso a veicoli efficienti Promozione della mobilità sostenibile Piste ciclabili
Energia da Fonti Rinnovabili
Impianti Fotovoltaici e Solare Termico su edifici scolastici e pubblici esistenti Impianti Fotovoltaici e di Solare Termico per edifici privati esistenti e nuovi Impianti Fotovoltaici e di Solare Termico di iniziativa comunale Incentivazione di Gruppi Acquisto Solare
Cogenerazione e Teleriscaldamento
Sviluppo di sistemi di cogenerazione/trigenerazione e teleriscaldamento Cogenerazione a biomassa di iniziativa comunale
Public Procurement
Acquisto energia elettrica verde Procedure per acquisti verdi
Pianificazione Urbanistica
Nuovi insediamenti residenziali energeticamente sostenibili Azioni pilota ad Energia “quasi zero”
Informazione e Comunicazione
Sportello “Energia” sul portale web del Comune Campagna promozionale sul Patto dei Sindaci Sensibilizzazione “energetica ed ambientale” nelle Scuole
Con La legge n. 99/2009 ha varato gli strumenti operativi previsti: promozione della cogenerazione diffusa, autoproduzione di energia per le piccole e medie imprese, titoli di efficienza energetica, nuova edilizia a risparmio energetico, riqualificazione energetica del patrimonio esistente, incentivi e promozione di nuovi prodotti altamente efficienti. IL “PIANO DI AZIONE” PER L’ENERGIA SOSTENIBILE (Sustainable Energy Action Plan) Il S.E.A.P. è uno strumento operativo estremamente importante in quanto è uno dei pochi che permette di affrontare in maniera globale la “questione energetica” interessando trasversalmente tutti i settori. Nel percorso che porterà alla realizzazione delle azioni previste, ogni Amministrazione si è posta obiettivi di breve e di lungo periodo: Obiettivi di breve periodo (1-3 anni): - ridurre la bolletta energetica - individuare delle criticità specifiche attraverso “audit” dettagliati - coinvolgere gli “stakeholder” (portatori di interesse) privati
- favorire gli investimenti privati, per la realizzazione delle opere Obiettivi di medio-lungo periodo (4-8 anni): - raggiungere la riduzione delle emissioni di CO2 almeno del 20% al 2020 - creare nuove competenze e sviluppare attività - migliorare la qualità della vita in termini di comfort negli edifici Il piano rappresenta un documento “in progress”, che a seconda dei risultati ottenuti e divulgati nelle fasi di monitoraggio, potrà essere ricalibrato per il raggiungimento dell’obiettivo finale. Il monitoraggio: si dovranno “misurare” gli impatti positivi o negativi delle azioni con metodologie “bottom-up”, attraverso dati specifici espressi in kWh; qualora non dovesse essere possibile un approccio di questo tipo, si potrà fare ricorso al metodo “top-down” utilizzando dati aggregati. La verifica dei risultati attesi è un principio cardine del Patto dei Sindaci, perché le idee non restino belle parole scritte sulla carta ma si traducano in una nuova condizione di equilibrio delle città e dei territori circostanti, virtuosa e sostenibile.
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Dal ventre dell’architetto Mario D’Urbano, tra i più noti progettisti pescaresi, riflette con passione sulla condizione urbanistica del territorio e sulle difficoltà legate alla propria professione, ieri e oggi. Ma con il cuore proiettato al futuro
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more e odio: i sentimenti di Mario D’Urbano (nomen omen, verrebbe da dire) per la sua città si possono, con una sommaria reductio, sintetizzare così. Le sfumature però sono obbligatorie, malgrado le parole forti e la vigorosità del tono con cui si pronuncia l’architetto. Che da più di vent’anni opera tra l’Italia e l’Europa, disseminando i suoi lavori a Pescara e in Abruzzo, a Perugia, Roma, San Benedetto, Palermo, Terni, Legnano, e poi Londra, Saint-Tropez, Berlino, Francoforte, Stoccarda, Colonia, Zagabria, Ljubljana, Malta. «A guardare Pescara viene da pensare che le cose che si sono fatte potevano esser fatte diversamente e meglio», esordisce l’architetto. «Oggi non partiamo da esigenze primitive legate a necessità di sopravvivenza; le attuali necessità hanno altre peculiarità, chiare, esprimibili, progettabili, ma che spesso sono totalmente inespresse dal risultato finale». A cosa si deve questa incongruenza? «Ci sono responsabilità da più parti: a cominciare dall’Università, con uno scollamento del percorso teorico dalla pratica quotidiana, nella quale si viene catapultati in condizioni di totale disarmo. Da parte degli architetti poi c’è l’incapacità di ribellarsi al brutto. Contano molto poi anche le scelte della classe politica, la cui mancanza di organizzazione e la cui incapacità di guardare oltre il proprio tornaconto hanno gettato la città in un caos difficilmente comprensibile, senza uno straccio di programmazione». Eppure Pescara è stata, per l’edilizia e per gli architetti,
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una sorta di laboratorio, un luogo nuovo, dinamico, che poteva essere (e forse a volte è stato) un posto dove il “nuovo“ poteva crescere senza le difficoltà che si possono riscontrare in altre città, dove il “passato” è più ingombrante… «Infatti: Pescara è stata terra di sperimentazione ma senza un progetto. La sua natura di “luogo in divenire” è stata un vantaggio e un handicap. Per anni non abbiamo colto la grande opportunità che questo luogo ha dato a noi progettisti: l’essere un luogo ove anche i soggetti ispiratori/ speculatori dello sviluppo della città, potevano avere una valenza positiva, non un fine che giustifica i mezzi, ma il perfetto contrario, cioè il mezzo giustificato dal fine. Su questo devo ammettere la nostra sconfitta: il mestiere dell’architetto nella nostra città è poco visibile. La città costruita non ha elementi caratterizzanti e gli elementi naturali -il mare, il fiume, le colline, la pineta- non hanno influito positivamente sulle trasformazioni. Unico elemento degno di nota degli ultimi venti o trent’anni è il Ponte del mare, che non a caso è diventato simbolo della città e che ha effettivamente un ruolo architettonico importante: collega due zone della città, permette la vista del fiume, del mare e delle montagne; ne valorizza insomma tutti gli aspetti naturali senza dimenticare di essere una grande infrastruttura fortemente caratterizzante». Veniamo al ruolo dell’università. «Il problema è generale: al contrario di altri Paesi i nostri ragazzi svolgono un percorso teorico completamente svin-
•Nella pagina a fianco l’Architetto Mario D’Urbano. Qui sopra, una veduta di Pescara
colato da quello pratico, quindi non sanno applicare il loro bagaglio di nozioni. Questo comporta che, una volta terminata l’università, ci si ritrovi in un mondo governato da regole (peraltro vecchie e bisognose di revisione accurata) che limitano la creatività dell’architetto e gli impediscono, sostanzialmente, di poter creare il bello. E a questo si aggiunga che per vivere del proprio lavoro in una città dove ci sono 1500 architetti uno non può certo permettersi di fare lo schizzinoso…» Quindi la colpa è dei costruttori? «Solo entro certi limiti. Nella nostra città erano –e sono– i nostri maggiori interlocutori; qualcuno, con qualche ragione, li ha definiti speculatori. Ma anche noi architetti abbiamo le nostre responsabilità: non abbiamo saputo cogliere il “mezzo” per il nostro fine di costruire una città migliore, più vivibile e di qualità. Non prendiamoci in giro: da sempre l’architettura ha veicolato interessi. L’aspetto speculativo perciò non è da demonizzare, ma da incanalare entro limiti non soggettivi. Potevamo essere più intransigenti di fronte alle richieste più inaccettabili, comunque da noi non rifiutate, ci si poteva comportare da architetti. È un obbligo morale, di sensibilità, ove noi siamo mancati, con colpe non scaricabili ad altri». Ma come concilia questo mea culpa con il suo lavoro? «Non voglio assolutamente dire che bastava fare qualche bell’edificio e la situazione sarebbe stata migliore, della serie “chi si accontenta gode”; semplicemente, le cose che realizziamo non possiamo legarle esclusivamente al presente,
tutto va rapportato ad un periodo più lungo, ove tutti possono “usare” le esperienze degli altri. Bisogna realizzare cose che possono resistere al passare del tempo, anche semplici, ma contenenti caratteri di sintesi, elementi di riferimento. Il mio convincimento rispetto al mio personale lavoro, ed in senso più lato alla professione dell’architetto, è che quando una attività presuppone delle alterazioni/cambiamenti del paesaggio, costruito e non, il nostro operare deve essere sapiente e meticoloso, non subalterno, non conservatore a prescindere, ma propositore ed interprete sia della contemporaneità che della storia. Avevamo la possibilità di fare, abbiamo fatto e male. Potevamo confrontarci, controllarci a vicenda e migliorare il nostro habitat, potevamo costruire il paradiso di cui parlava Rykwert e saperlo curare nel tempo, coscienti del suo bisogno continuo di attenzioni». Qual è secondo lei la strada da percorrere per uscire da questa situazione? «Bisogna ripartire calandosi nella realtà, avere la forza di un bagno di umiltà; riappropriamoci di noi stessi, del nostro sapere, coscienti che non possiamo più fare errori. Il tempo gira con una velocità superiore, soprattutto per i mezzi a nostra disposizione, dobbiamo ritrovare coraggio e pretendere rispetto, fare le cose semplici e razionali, collocando oggetti sapienti capaci di farsi amare non solo da chi li usa o pensa, ma da tutti quelli che vivono questi luoghi».
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L’identità smarrita
Il paesaggio è un elemento della città quanto lo sono i suoi palazzi, ma spesso viene “dimenticato” dai pianificatori, come nel caso di Pescara di Aldo Giorgio Pezzi
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n linea di principio, è da tempo acquisita la consapevolezza che la tutela e la valorizzazione del paesaggio, nella sua presente, più ampia accezione, non sia più attuabile attraverso azioni condotte da singole istituzioni per proprio conto. Questo perché l’obiettivo della conservazione del paesaggio non attiene più soltanto ad ambiti territoriali d’eccellenza (da tempo individuati in maniera puntuale attraverso lo strumento della dichiarazione di notevole interesse pubblico, adottato dagli anni Cinquanta del secolo scorso ad oggi). Dalla stipula della Convenzione Europea del Paesaggio (2000), vera e propria pietra miliare nell’evoluzione concettuale del termine, ogni paesaggio che costituisca espressione tangibile della società che lo abita –e in cui ovviamente esistano caratteri immediatamente percepibili e significativi di tale espressione– è meritevole di salavaguardia. Ne discende che le politiche di tutela non possono attuarsi con l’impiego dei singoli vincoli paesaggistici, limitati anche per le oggettive difficoltà di farne rispettare i precetti ma, come in effetti lentamente e con diverse difficoltà sembra stia avvenendo, per mezzo di una dinamica pianificazione paesaggistica attuata a più livelli, capace di cogliere anche le molteplici dinamiche di mutamento dei differenti paesaggi, tanto più complesse quanto più antropizzato appare l’ambito territoriale di riferimento. Nel caso di Pescara, il costante adeguamento funzionale della città (reti infrastrutturali, nuovi servizi e complessi architettonici) è andato quasi sempre a scapito dei valori fisici e figurativi degli spazi urbani storici. La visuale ricorrente di Pescara, a torto consi-
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derata esclusivamente moderna, nuova, ha portato a intendere la città come costante banco di prova per la sperimentazione di nuovi progetti della città, dimenticando che qualunque intervento deve muovere dalla conoscenza e corretta lettura del paesaggio urbano consolidato. Ciò a favore di un processo di costruzione di un nuovo immaginario urbano, che solo in parte e per limitati ambiti è legittimo riferire a Pescara. Sul pretesto di Pescara città nuova, priva di un centro storico importante e dunque disponibile a sostenere progetti di ampia trasformazione, sono state attuate massicce politiche di rinnovamento della sua struttura urbana. Mi ha sempre colpito, per limitarmi ad un solo caso, la maniera in cui in un arco di tempo relativamente breve si sia stravolto un ambito paesaggistico fra i più identitari, ossia quello fluviale, con particolare riferimento al tratto compreso tra il ponte della ferrovia (dove il fiume crea un’ampia ansa e si consegna in sostanza alla città) e l’inizio del suo bacino, dove comincia l’attracco continuo delle barche da pesca. Si tratta di un luogo di notevole rilievo testimoniale, intorno al quale ha preso avvio l’espansione della città. Fino al 1970 circa, questo tratto di fiume era contenuto da due lungargini pedonali e ciclabili sistemati a verde, come testimoniano diverse foto d’epoca; nell’arco di pochissimi anni, in successione, questo contesto urbano di straordinaria forza paesaggistica è stato stravolto prima a nord dalla realizzazione di una strada adiacente alla sponda del fiume (l’attuale via Spalti del Re) che ha di fatto cancellato la fruizione pedonale del lungofiume, spezzando anche il rapporto tra il fiume stesso
• Prospettiva del progetto di Cesare Bazzani per il nuovo ponte Littorio. Nelle foto piccole dall’alto: la vista dell’area golenale fra i due ponti, anni Trenta ; canottieri lungo il Pescara, anni Cinquanta
e l’importante edificio storico del Circolo Canottieri “La Pescara” (dallo scorso anno riconosciuto come bene culturale, ndr); poi a sud dalla realizzazione del cosiddetto “asse attrezzato”,che oltre ad incombere come opera del tutto alloctona al contesto, fa perdere l’apprezzamento visivo del Bagno Borbonico nella sua interezza. Al di sotto dell’arteria sopraelevata, il degrado e la marginalizzazione dello spazio di sedime è totale: il lungargine è usato come parcheggio diffuso, peraltro in aperto contrasto con le norme che regolano l’uso delle aree golenali (nel caso di Pescara, in meno di 60 anni si sono registrate 3 ingenti esondazioni; la prima, del 1934, aveva spinto l’illuminato progettista del Circolo Canottieri, l’ing. Pompeo de Pompeis, a realizzare una fabbrica sospesa su pilotis). Ma non è tutto: in tempi recentissimi, non si è tenuto conto di una grande potenzialità insita anche in questo spazio che, in linea generale, da tempo è riconosciuta dalla cultura paesaggistica: la caratteristica di determinati luoghi di costituire, oltre che beni paesaggistici di per sé stessi, punti privilegiati di apprezzamento del paesaggio circostante: non a caso, negli anni Trenta del secolo scorso, l’architetto di regime Cesare Bazzani, cogliendo tale valore nell’area fluviale, ideò per il nuovo ponte Littorio due sceniche balconate in mezzeria lungo i camminamenti pedonali per poter ammirare verso valle il mare Adriatico e verso monte i due massicci del Gran Sasso d’Italia e della Maiella. Perso per la guerra il ponte originario, mortificato negli anni Ottanta il suo surrogato dalla realizzazione dell’asse attrezzato, che incombe sul ponte dall’alto e ne impedisce da ogni punto la percezione del suo sviluppo
complessivo, si è da poco smarrita anche la suggestiva vista verso monte, interrotta dalle costruende torri Camuzzi. Il solo esempio citato, credo, conferma come il paesaggio della città attuale paghi passate politiche di pianificazione piuttosto superficiali (o meglio, che la prospettiva storica fa valutare oggi tali, e sempre riferite al parametro critico del presente, come noto soggetto a mutazioni nel tempo). Anche a scala architettonica, recenti progetti di riqualificazione o “abbellimento” –attuati e non– sembrano mancare di quell’approfondimento della vicenda urbana della Pescara del Novecento (che richiederebbe in fondo uno sforzo relativo) penalizzando i vari ambiti paesaggistici della città, la cui identità, forte in passato, tende così sempre più a smarrirsi. Lo sforzo futuro dei pianificatori deve essere rivolto ad una maggiore attenzione nella lettura dei processi evolutivi di Pescara, delle sue valenze paesaggistiche d’insieme, essendo peraltro oggi disponibili adeguati strumenti conoscitivi frutto del notevole sforzo di ricerca storica attuato nell’ultimo ventennio in più sedi, non ultima quella accademica, costituita prevalentemente dagli studi condotti all’interno della facoltà di Architettura dell’Università “G. d’Annunzio”.Esiti efficaci discenderanno solo da scelte progettuali concertate fra più attori (amministrazioni, ordini professionali, Università, Soprintendenza), ognuna capace, per le proprie specifiche competenze, di offrire un apporto significativo ad un tema che può essere validamente affrontato solo senza omettere alcuna delle sue numerose declinazioni.
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Perdersi (e ritrovarsi) a Pescara Gianni Biondillo, giallista di fama, rivolge il suo sguardo di scrittore e di architetto sul capoluogo adriatico e sulla sua conformazione urbana di Gianni Biondillo*
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Pescara mi perdo, tutte le volte. Non ha senso, me ne rendo conto. È una città piccola, mai avuto problemi a Roma, o New York, eppure, vengo a Pescara e mi perdo. La mia natura peripatetica quasi s’offende: ma come? Io, che ho fatto del camminare una teoria, una strategia d’indagine del territorio, vengo qui e mi perdo? Ora, non abbiate paura, poi mi ritrovo quasi subito, uso i soliti trucchi del mestiere: il mare a est, le montagne all’orizzonte, verso il tramonto, ed ecco che ritrovo la strada. Ma questo dover usare l’orografia al posto della logica insediativa urbana un po’ mi disturba. È che le città in Italia, hanno un senno, una tradizione in un certo senso prevedibile: il centro, i quartieri ottocenteschi, le periferie urbane. Ma dov’è il centro a Pescara? Certo, ora lo so, a furia di andarci, che Pescara è una città inventata, d’emblée, un regalo al Vate da parte del regime. Un po’ come Imperia, che ancora oggi fa fatica ad essere Imperia (senti che nome magniloquente!) ed è, per chi la abita o Porto Maurizio od Oneglia. Al punto che la parte fisicamente al centro del comune sembra vuota, ancora da riempire. Ecco, con Pescara è lo stesso. Il fiume non attraversa la città, come è naturale, ma la divide. Da una parte l’enorme stazione degna di una metropoli, uno spiazzo antistante esagerato, irrisolto, il passeggio di Corso Umberto, la monumentalità tronfia di tutta quell’edilizia del Ventennio, bella e impossibile, che si può vedere il Piazza Italia –che per inciso piazza, alla fine, non è, ma svincolo automobilistico– dall’altra un crocicchio di case, tre strade, che di giorno sonnecchiano e di notte esplodono di vita, e via via la Cattedrale, le magioni borghesi e giù giù la pineta (parola che subito rimbalza nelle nostre memorie scolastiche. D’Annunzio pare quasi una condanna per questa città). A rimarcare la divisione come una ridondanza segnica, l’incomprensibile viadotto che sottolinea ancora di più la cesura. I due volti della città sembra a momenti non vogliano dialogare, ognuno si fa i fatti suoi. Nessuno attraversa a piedi i ponti che collegano le due parti. Pescara non è, secondo i canoni triti, una bella città. Eppure ci torno, tutte le volte, sempre volentieri. Perché? Non certo per quella passione malata per i monumenti grevi di Cascella, né per una edilizia diffusa mediocre, senza slanci, senza inventiva. Certo, ci torno per il paesaggio antropologico, per la gente ospitale che la abita (dimostrando quanto sia stupida l’idea che per essere una bella persona occorra vivere in una bella città), ma ci torno anche perché m’incuriosisce: mi sembra una città che non ha ancora compreso davvero il suo potenziale. Essere
difforme, essere irrisolta è, in un certo senso, la sua occasione, non la sua maledizione: Pescara potrebbe, in questo senso, essere uno straordinario laboratorio di rigenerazione urbana, un modello da esportare. Ci ha provato, spesso con slanci utopici a basso impatto ambientale. Spesso fallendo. Penso alla sfortunata esperienza del monumento di Toyo Ito. Io non conosco la storia in tutte le sue declinazioni cronachistiche, ma non faccio fatica ad immaginarmela: un comitato che spinge per avere una grande firma internazionale, un sindaco –non ho la minima idea se di destra o sinistra, cambia poco– che abbraccia l’idea, le polemiche demenziali suoi quotidiani locali, una esecuzione non proprio impeccabile, le controversie sulla spesa da parte dell’opposizione – di destra o sinistra, non importa. Il teatrino italiota è sempre lo stesso. Era giusto farlo? Era sbagliato? Quanto c’è di giusto nella voglia di sprovincializzare un ambiente sonnacchioso e allo stesso tempo di sbagliato nel farlo attraverso una strategia (l’archistar che di Pescara nulla sa) di suo inevitabilmente provinciale? Quello che mi lascia interdetto è aver deciso di lasciare nascosto questo slancio utopico dietro transenne provvisorie (non c’è nulla di più eterno del provvisorio in Italia). Nascondere dietro pannelli pubblicitari l’opera crepata di Ito è un errore di comunicazione enorme. Non basta nascondere la polvere sotto il tappeto. Sembra l’incarnazione di un rimosso. Un grande artista tedesco, Joseph Beuys, intitolò una sua installazione:“mostra la tua ferita”.È da lì che occorre partire. Non nascondere ai nostri occhi le ferite, ma trasformarle in occasioni. A pensarci bene, col nuovo ponte pedonale che scavalla il fiume sulla spiaggia, ormai a tutti gli effetti una vera passeggiata urbana sui generis, l’opera di ricucitura è già iniziata. Suturare il territorio, renderlo coeso, esaltare l’incredibile patrimonio naturale del lungo mare, puntare sui giovani talenti che studiano nella facoltà di architettura. Pescara può farlo. Ne ha il talento. Gianni Biondillo, classe 1966, è un architetto e scrittore milanese, autore di romanzi, testi per il cinema e la televisione. La sua fama letteraria è legata al personaggio dell’ispettore di polizia Michele Ferraro. Nel 2011 ha vinto il premio Scerbanenco con il suo ultimo lavoro, I materiali del killer (Guanda, 2011). Ha partecipato a Pescara all’inaugurazione del premio di architettura “G. Masciarelli” e all’ultimo Festival delle Letterature.
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L’attenzione per le vicende storiche dei mesi successivi all’otto settembre non diminuisce col passare degli anni, anzi. Crescono le iniziative tese a ricordare il sacrificio dei tanti partigiani che sacrificarono le loro vite in nome della libertà (come lo spettacolo teatrale allestito da Claudio Di Scanno di cui diamo notizia nelle pagine seguenti), facendosi carico “del destino di una popolazione che non aveva nessuna intenzione di stare a guardare le sevizie di un esercito in fuga e di un altro che non riusciva a sfondare”: È il caso di un nuovo libro che narra le gesta della Brigata Maiella, una delle formazioni partigiane più importanti, che operò anche oltre i confini regionali spingendosi fino in Emilia Romagna e liberando Bologna tre giorni prima dell’arrivo delle truppe alleate. Un romanzo appassionante, quello di Pia Cilli Tosti, che prende l’avvio dalle celebrazioni, tenutesi proprio nel capoluogo emiliano, per i sessant’anni della liberazione di Bologna, il 21 aprile del 2005: “ascoltavamo i relatori raccontare l’epopea di giovani e di ragazzi abruzzesi che con slancio e naturale impulso avevano voluto e saputo superare l’indifferenza verso la libertà, la democrazia, la pace. Avevano voluto regalare la loro giovinezza, persino la loro vita, per provare a se stessi e alle future generazioni che un uomo è un uomo e, se tale, non può prescindere dal rivendicare per se stesso e per gli altri l’inestimabile valore dell’onore e della dignità”. Quella storia, spiega l’autrice, non può svanire come neve al sole, occorre che le orme restino oltre la neve. Una ricostruzione appassionata e fedele di quell’autunno nero di un Abruzzo mai combattivo, un romanzo corale fatto di caratteri forti e decisi, anche contro i pregiudizi di chi non si fidava. Storie semplici di ragazzi divenuti eroi spontaneamente, raccontati con un’eleganza e un candore che, forse, solo vicende così pure possono donare. Pia Cilli Tosti Orme oltre la neve. Nuove transumanze: dalla Maiella ad Asiago Albatros 2011, pp. 416, € 19,90
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Brigata Maiella una Storia che resiste
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• Domenico Troilo, comandante militare della Brigata Maiella.
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EVENTI
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L’oro dalla tradizione all’innovazione
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Teatro
La Storia di Mingo Claudio Di Scanno mette in scena l’esaltante vicenda della Brigata Maiella e di Domenico Troilo di Germano Scurti
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l tempo del racconto e della memoria è un tempo circolare, in qualche modo misterioso, che ci mette in relazione con eventi e generazioni precedenti, con persone sconosciute. Esistono oggetti, luoghi, forme per il ricordo intimo e personale, ed esistono pratiche e artefatti per la memoria di avvenimenti che appartengono a una intera comunità. Entrambi rendono visibili, ovvero conoscibili ed esperibili, storie, sentimenti, valori, altrimenti vissuti solo nell’intimità di singole esistenze. Ma tra memoria e oblio siamo noi stessi a scegliere le strategie del racconto. Al Teatro Comunale di Gessopalena il 18 dicembre 2011 Claudio Di Scanno ha messo in scena uno spettacolo che si misura con il valore di questa scelta e con una specifica funzione civile e culturale.“Fino a scalfire le pietre”,questo il titolo, vede protagonista Susanna Costaglione. All’attrice, dalla tecnica e vocalità superlativa, il regista affianca la partecipazione di Maurizio Melchiorre e Massimo Leone, il contributo musicale di Angelo Valori e la regia video di Enrico Monaco. Si tratta di una pièce teatrale sull’esperienza partigiana abruzzese. Una storia di Liberazione che ha avuto luogo principalmente tra la massa pietrosa della Maiella e lungo una fascia di “terra bruciata” che si pone tra il Sangro e l’Aventino. La storia della Brigata Maiella appunto. Una vicenda particolarmente esemplare, dato il carattere spontaneo e popolare della formazione partigiana abruzzese, con una ispirazione ideale tipicamente laica che oggi definiremmo “patriottismo repubblicano”. Ma chi erano quei partigiani-ragazzini? Più o meno ventenni, che dopo aver contribuito a liberare l’Abruzzo risalirono le Marche, entrarono a Bologna, tra le prime truppe liberatrici, per arrivare il primo maggio del 1945 fino ad Asiago in Veneto. Su un testo di Federica Vicino, in una dimensione intima, pro-
fondamente emotiva, quasi personale, Claudio Di Scanno dà del tu a questa grande storia: l’incarna nella figura di Domenico Troilo che scava tra i suoi ricordi per rivelarsi nelle tracce di una umanità autentica, quasi il rovescio speculare, lo specchio rovesciato, delle declamatorie figure retorico-commemorative. Nella finzione scenica il vice comandante Domenico Troilo (Mingo, per gli amici) ci appare con un volto bifronte: un partigianoragazzino e un vecchio che ingaggia un corpo a corpo con la Memoria, reale protagonista della pièce. Il suo è il volto intimo di una storia che, nella precarietà del ricordo, domanda una prossimità con la nostra attualità. Il volto di una umanità che ci reclama e ci ri-guarda, nel suo infaticabile tentativo di evitare che i valori e l’esperienza della Liberazione possano diventare un significato in disuso, una memoria dismessa. Ecco allora che il tempo del racconto ancora una volta manifesta la sua circolarità e diviene la resa di una parola che ci interpella direttamente. Un plauso particolare va alle Fondazioni Pescarabruzzo e Brigata Maiella, che, nel contribuire alla realizzazione dello spettacolo, hanno voluto raccogliere questa domanda di prossimità. Ma un riconoscimento che vogliamo rimarcare va soprattutto a Claudio Di Scanno, che nel corso di una carriera trentennale ha conquistato una autorialità stilistica quanto mai personale e originale. Indubbiamente, Di Scanno, con il Drammateatro, rappresenta un’esperienza teatrale unica nella nostra regione. I suoi spettacoli sono sempre in grado di sorprendere per la forza e l’intensità espressiva, il movimento cinetico e l’attenzione alla qualità e all’efficacia iconica. Un regista di grande spessore che si colloca tra le figure di spicco del teatro indipendente italiano.
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VARIO Libri
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rancesco De Collibus, giovane satirico pescarese, trasferito a Milano, con due lauree, prima Filosofia, poi Informatica (“Mi sono laureato una seconda volta perché con la prima laurea umanista c’erano troppe richieste di lavoro!”) adesso lavora per IBM e ha scatenato il popolo dei social network riuscendo in un’impresa davvero eccezionale: fare satira sulla figura così sobria e grigia del tecnico e austero primo ministro Mario Monti. Un centinaio d contributi spontanei danno vita al libro “Monti ha fatto pagare l’IVA a Chuck Norris” per Aliberti editore. “Tutto nasce dalla mia passione per la scrittura, che non è mai passata con gli anni.” Dopo l’esperienza come autore di testi per il cabaret si è unito al collettivo del blog Spinoza.it, un vero e proprio laboratorio di scrittura satirica collettivo, tra i più seguiti e premiati della rete, spesso al centro anche di polemiche che non mancano mai quando la satira è autentica e sa dove colpire. Per noi di Vario ci regala delle pillole di satira, tutte abruzzesi: “Sempre più poveri in Abruzzo: la regione dei parchi.”“Il Pescara potrebbe tornare in A. Un’ottima notizia, se fosse il nostro rating.”“Senza pace il destino di Piazza Salotto. Ma ci sono dei progetti: non bisogna essere pessimisti, cerchiamo di vedere il bicchiere mezzo rotto.”“Scandalo in Regione: tangenti, corruzione, favori illeciti, arresti. Poco mossi gli altri mari.”
Romanzi Consiglio
Fantasy Cilli
Ragazzi Melchiorre
Curioso, certamente frammentato (il sottotitolo è “romanzo a pezzi”) ma anche scorrevole e leggibile, il romanzo di questo siciliano che vive a Lanciano riflette la personalità del suo autore: scrittore, giornalista, artistoide, agente immobiliare. Di tutto un po’, insomma. Tra meta-letteratura e romanzo giallo, tra autobiografia e saggio sul mestiere di scrivere, Consiglio accompagna il lettore alla scoperta di un linguaggio in cui l’ironia la fa da padrona e niente è come sembra.
“Un fantasy fuori dall’ordinario, dove il male regna sovrano e dove la protagonista non è la solita eroina dal cuore puro e impavido, ma una creatura malvagia e terribilmente seducente, una tentazione oscura e ardente come la passione che trasmette in chiunque la osservi”. Chiara Cilli, pescarese classe 1991, dalle idee chiare e dalla fantasia sfrenata nutrita con letture di genere, descrive così il suo romanzo, primo di una serie di quattro volumi dedicati alla Regina degli Inferi. Copertina illustrata da Vincenzo Bosica.
Seguendo le rocambolesche avventure di Manga, Alice e Nutella, Roberto Melchiorre narra la storia dell’Abbazia di San Clemente a Casauria, recentemente restaurata dopo i danni subiti in seguito al terremoto del 2009. Un libro fresco e scorrevole che permette di imparare l’arte e la storia divertendosi. Illustrazioni di marta Monelli.
Francesco Consiglio Qualunque titolo va bene Iacobelli, 2010, pp.245, € 12,00
Roberto Melchiorre Manga e il fantasma dell’abate Leonate Ianieri, 2011, pp.80, € 9,50
Chiara Cilli Il risveglio del fuoco Tabula Fati, 2012, pp.272, € 18,00
Daniela Musini, diplomata in pianoforte, due lauree. Attrice, pianista, autrice teatrale, scrittrice: così si può riassumere la sua molteplice attività artistica. L’hanno vista applauditissima interprete dell'opera di d'Annunzio e della figura di Eleonora Duse al Vittoriale degli Italiani, al Teatro Bibiena di Mantova, agli Istituti Italiani di Cultura di Berlino, Istanbul, Ankara, Kyoto, Colonia, San Pietroburgo e Lione, all'Ambasciata d’Italia a Cuba, all'Accademia musicale di Bielorussia, al Teatro dell’Opera di Varsavia. Suoi nove testi teatrali, tra i quali il pluripremiato Mia Divina Eleonora (Ianieri Editore) e la biografia Lucrezia Borgia. Misteri, intrighi e delitti (Stampa Alternativa). Riconoscimenti conseguiti: il Premio Internazionale “Adelaide Ristori”, consegnatole al Campidoglio di Roma in qualità di "Dannunziana"; il Premio Internazionale Donna dell'Anno 2008 per la Cultura, assegnatole al Palacongressi di Lugano per la sua straordinaria versatilità artistica e per la sua opera di divulgazione della Cultura Italiana nel Mondo e il Premio Letterario Nabokov 2011.
Daniela Musini
i 100 piaceri di d’Annunzio Passioni, fulgori e voluttà
“Sento nelle fibre più profonde il bisogno imperioso del piacere, della vita carnale, del pericolo fisico, dell’allegrezza”. Qui è racchiusa gran parte dell'esistenza di d'Annunzio: una fulgida sequenza di amori travolgenti e gesti eclatanti, di fulgori eroici e opere immortali. Un personaggio scomodo e sicuramente discutibile, l’Imaginifico. Fu il più geniale, irriverente, poliedrico artista italiano del suo tempo: creò capolavori assoluti come poeta, narratore e drammaturgo, fu giornalista ineffabile e arbiter elegantiarum, “eroe e mascalzone” (secondo la celebre definizione dello scrittore inglese E.M.Forster), amante insaziabile e protagonista carismatico della sua epoca. Il godibilissimo libro di Daniela Musini illustra, con una scrittura fluida e accattivante, gli aspetti più clamorosi e segreti del “vivere inimitabile” del Vate, in una sorta di “dizionario dei piaceri” che parte dalla A di Alcova per giungere fino alla Z di Elena Zancle (una delle sue ultime amanti/ muse). Il risultato è un malizioso, ironico e intrigante glossario punteggiato di colti rimandi, aneddoti inediti, peccati sussurrati all’orecchio. Un libro che si legge tutto d’un fiato… un libro che vi stupirà. Euro 12,00 ISBN 889558371-X
E. Lui Editore
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Poesia La Rovere
Thriller Gentile
Saggi Musini
“La poesia accende micce, illumina percorsi dell’anima e del corpo, la poesia è una forma rapida e saettante con cui percepiamo il mondo, è l’unica assicurazione disponibile contro la volgarità del cuore umano”, scrive Renato Minore nell’introduzione alla nuova silloge di Bibiana La Rovere, poetessa, performer e critico letterario la cui passione per le arti l’ha condotta a seguire percorsi diversi e sfaccettati, con collaborazioni illustri e importanti riconoscimenti. 36 componimenti in cui Bibiana La Rovere “ha voluto dire ciò che è impossibile, e non solo, da dire”.
Il titolo, semplice e un po’ old-style, può confondere le idee: quello di Fabrizio Gentile, dirigente chimico all’Agenzia per l’Ambiente di Teramo, è un romanzo avvincente e ricco di colpi di scena, tutto giocato sul rapporto di amicizia tra i due protagonisti in costante competizione. Un esordio che ha ottenuto riscontri più che positivi e ha portato il suo autore alla ribalta televisiva.
“Sento nelle fibre più profonde il bisogno imperioso del piacere, della vita carnale, del pericolo fisico, dell’allegrezza”. In questa frase di d’Annunzio è racchiusa gran parte della sua esistenza: una fulgida sequenza di amori travolgenti e gesti eclatanti, di fulgori eroici ed opere immortali. Il godibilissimo libro dell’attrice e scrittrice Daniela Musini, insignito del Premio Letterario Nabokov 2011, illustra con una scrittura fluida e accattivante gli aspetti più clamorosi e segreti del “vivere inimitabile” del Vate, in una sorta di “dizionario dei piaceri”: dalla A di Alcova alla Z di Elena Zancle. Un libro che si legge tutto d’un fiato.
Bibiana La Rovere Quando verrai da ogni cosa Tracce 2011, pp.130, € 11,00
Fabrizio Gentile Omicidio a mezzanotte Gruppo Albatros, 2011, pp.175, € 14,90
Daniela Musini I 100 Piaceri di D’Annunzio E.Lui, 2012, pp.320, € 12,00
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VARIO Libri Romanzi Tornar
Fotografia Parere
Romanzi D’Alessandro
Saggi Spinelli
La vena romantica di Marco Tornar esplora in questo romanzo l’affascinante permanenza italiana di Mabel Dodge Luhan, mecenate dalla vita intensa ed emozionante, trascorsa in parte nella medicea Villa Curonia presso Firenze dal 1905 al 1912. Il romanzo racconta le esperienze sentimentali di Mabel, fatte di uomini e donne idealizzate, irraggiungibili, ma allo stesso tempo fortemente carnali e sensuali, narrate con la consueta sensibilità del poeta e scrittore pescarese.
Trentasette anni fa Tani parere sbarcava in Africa per la prima volta. Da allora ci è tornato un’infinità di volte, rapito dalla magia di un continente vastissimo, ricco di fascino e di mistero, spinto dal desiderio di conoscere. Le fotografie raccolte in questo volume testimoniano le emozioni colte durante i suoi viaggi, “immagini di un dilettante fatte con tanto amore e interesse per ciò che ha visto e vissuto in Africa”.
Luca e Manuela, docenti di Storia dell’arte medievale, vengono rinchiusi per errore nell’oratorio di Monte Monaco, in Abruzzo, dove stanno studiando un importante ciclo di affreschi. Dopo otto giorni, ormai allo stremo delle forze, vengono ritrovati e si salvano, ma quell’esperienza ha sulle loro vite un’influenza inattesa. Il nuovo romanzo di D’Alessandro non è solo un avvincente psicothriller, ma anche una feroce critica sul mondo universitario italiano.
Una storia del popolo Rom, dalle migrazioni originarie alla situazione contemporanea, che racconta la cultura e i valori sociali, le espressioni artistiche e le organizzazioni politiche di uno dei gruppi etnici più misconosciuti d’Europa. Santino Spinelli, in arte Alexian, è musicista, compositore, poeta, saggista e docente di Lingue e Processi Interculturali (Lingua e cultura romanì) all’Università di Chieti.
Marco Tornar Nello specchio di Mabel Tracce 2011, pp. 166, € 11,00
Tani Parere Parere africano Lo Svincolo, 2011, pp. 157
Storie Sigismondi “Vorrei volare ma non posso”, cantava il grande Eugenio Finardi nell’ultimo Sanremo. E perché mai? Volare si può, e non solo trasportati dai potenti motori di un aereo, ma anche enza alcun motore, in modo libero, portati dal vento con l’aiuto di un attrezzo elementare, una sorta di armoniosa protesi del corpo umano: il parapendio. Che cos’è? È un adattamento del paracadute pilotabile che consente, per l’appunto, il volo libero, Cioè: libero da motori. Più semplice e meno ingombrante del deltaplano, il volo con parapendio ha visto crescere vertiginosamente il numero degli appassionati. Pino Sigismondi, 47 anni, artigiano a Chieti nella vita di tutti i giorni (bravissimo elettrauto), è uno di questi. E non degli ultimi: è un campione che può vantare numerosi e prestigiosi titoli sportivi, e che ora ha scritto un libro per raccontare la sua esperienza con il parapendio. Una storia d’amore, e non solo per il volo, ma anche per una donna, e le due storie si fondono in un racconto tenero e appassionato. Un bel libro,
Giovanni D’Alessandro Soli San Paolo Edizioni, 2011, pp.336, € 12,00
semplice ed emozionante, scritto, insieme, con il cuore e con la testa, ricco di episodi narrati con linguaggio di toccante poesia ma anche ricco di preziosi consigli tecnici e comportamentali. È semplice volare con il parapendio ma non è facile: occorrono nozioni tecniche e meteorologiche (nel libro si trova anche un utilissimo glossario di termini tecnici), passione e prudenza, disciplina e spirito di sacrificio, conoscenza perfetta della pur semplice attrezzatura che, comunque, la tecnologia ha reso sempre più sicura. E se si sceglie di fare agonismo con il parapendio, si tenga a mente queste parole di Pino Sigismondi, che pure vanta un invidiabile palmarés sportivo: «Il volo con il parapendio, proprio perché “libero”, non può essere condizionato da moduli troppo rigidi e dal continuo stress che l’agonismo comporta. Io l’ho sempre considerato un gioco, anzi un’arte, e tale lo riterrò sempre». F.D.V.
Santino Spinelli Rom, genti libere. Storia, arte e cultura di un popolo misconosciuto Dalai, 2011, pp.384, € 17,50
Giuseppe Sigismondi Il segreto dell’uomo che imparò a volare Ipersegno, 2011, pp. 101, € 11,00
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Iolanda Di Bonaventura
Tanto nero che fa luce
La giovane artista aquilana mostra una vena espressiva densa di emozioni. Tra letteratura e fumetto
di Annamaria Cirillo
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ella, giovanissima e ricca di un talento artistico che predilige il linguaggio introspettivo del fumetto, la giovane studentessa del Liceo Artistico dell’Aquila Iolanda Di Bonaventura, già nel 2007, a soli 14 anni, si è imposta all’attenzione regionale quale terza classificata al Premio Letterario Nazionale “Scriveredonna 2007”, indetto dalla Casa Editrice Tracce di Pescara, con Maria Luisa Spaziani in giuria e pubblicazione in corso. È questo l’inizio di un percorso creativo che si arricchisce poi nei meandri di una sensibile introspezione psichica, matrice dell’amore per l’arte e di una crescente determinazione all’indagine di un graffiante segno grafico in bianco e nero che predilige il fumetto. In Ottobre 2010 pubblica il suo primo fumetto, Tre Giorni (edito da Arkhè S.a.s - L’Aquila), che viene presentato al pubblico nel contesto della Fiera dell’Editoria all’Aquila, con vendita totale delle copie pubblicate. Eppure questi Tre giorni, come narrati da Iolanda Di Bonaventura nell’ispirazione di un rapporto di vicinanza ad un padre che si ama ma che c’è e non c’è e non si sa bene perchè, sono di non immediata e facile lettura, ma di certo identificano profondamante la matrice più profonda della sensibile personalità dell’autrice. L’arte del fumetto di Iolanda Di Bonaventura, nel supporto di un personalissimo segno grafico e di un valido contesto tematico si connota di pretta valenza contemporanea ed esprime e denuncia l’ampio raggio di un dilagante disagio giovanile sempre più esteso. Ogni vignetta realizzata dall’artista per la storia di questi importanti Tre giorni mostra in assoluto l’inobbedienza ed il rifiuto di ogni tecnica formale di facilizzazione ad un’un’ottica visiva d’immediata comunicazione dei testi e delle gestualità. Nel contempo si evidenzia anche il rigetto a seguire un’organica dinamica narrativa retta da regole di spazialità e dimensione delle immagini corporee ed ambientali. Quasi una rivendicazione resa in forma apparentemente criptica e caotica di una totale libertà aperta al proprio segno grafico e ad un tuttodire fuori da qualsiasi schema di sintesi esteriore ed interiore dell’io, ma urli lanciati dall’anima,
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tra sprazzi su carta invasivi di nere sofferenze d’inchiostro, tra griglie e maglie emozionali di un’angosciata violenza da dipanare tra corpo ed anima. È forse l’essere se stessi dell’oggi. E certo questa vita non ha e non dovrebbe avere, per Iolanda ed i suoi lettori, stereotipi e filtri, se non quelli della consapevolezza e dell’amore. A Maggio 2011 la giovane artista ha pubblicato la sua seconda graphic novel dal titolo L’esistenza degli altri, edita dalla casa editrice Arkhè, presentata all’Aquila nel contesto della Fiera dell’Editoria “Volta la carta”. L’ambiente appare non più tormentato e tetro ma solare luogo interiore in cui osservare se stessi, le proprie fragilità e la propria bellezza, quella dell’anima e del corpo. Chiusi in una stanza, davanti ad una finestra “…dove tutto il mondo è fuori…” e siamo contemporaneamente spettatori e protagonisti passivi. Molto belle le immagini a colori, alcune quasi fotografie in posa. “…Anche la qualità tecnica è cambiata, non più il nero senza via d’uscita ma una scelta stilistica più morbida, ammiccante, dove la luce ed il colore predominano…” (Valentina Spagnolari - Hollywood), inoltre “…La grafica suscita emozioni ed apprensioni, sposandosi perfettamente con lo scritto e l’opera invita il lettore al coinvolgimento totale” (Elena Gaddini, Londra, critico d’arte). Iolanda Di Bonaventura ha successivamente partecipato a varie esposizioni tra cui, a maggio-giugno 2011, la “Rassegna 2011 Dinamiche contemporanee”, articolata in varie sezioni d’arte (con circa 50 artisti partecipanti), presso la struttura Aurum di Pescara. L’artista è stata l’unica invitata per la sezione “Fumetto”, una novità espositiva che le ha reso ammirazione e consensi per la sua arte e tantissima attesa dei suoi prossimi fumetti. È al riguardo già in programma, per l’estate 2012, la pubblicazione di un nuovo fumetto in bianco e nero. Si aggiunge inoltre, a fine anno anno, la produzione del cortometraggio Tre giorni, diretto da Iolanda Di Bonaventura, basato sull’omonima graphic-novel e prodotto dalla Locomotion Film di Roma.
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Mario Moscadello
Artista per noia Per 365 mattine ha impresso sulla pellicola la stessa scena, poi riportata in bellissimi acquerelli esposti da fine aprile all’Ex Manifattura Tabacchi di Città S.Angelo. Un’occasione per riparlare di un singolare pittore che ha cominciato a dipingere perché non aveva niente da fare. A cinque anni.
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ui, i suoi inizi di pittore li racconta così: «Non avevo niente da fare, e allora…». Allora c’è chi, non avendo niente da fare, s’innamora, come nella canzone di Gino Paoli, e c’è chi inizia a dipingere. «Un giorno in cui mi annoiavo più del solito, ho aperto la scatola di pastelli Fila che mi avevano appena regalato per il mio compleanno ed ho cominciato a tracciare figure , case, alberi». Be’, innamorarsi non poteva, Mario Moscadello, avendo appena compiuto cinque anni. E così, dovendo aspettare ancora un po’ per innamorarsi, il piccolo Mario scoprì la pittura. «Mi ci dedicai subito con passione. Crescendo, mi accorsi che mi piaceva più disegnare, dipingere, anziché giocare a pallone con gli amici. Non ero un musone, anzi, però appena potevo me ne stavo in casa con i miei pastelli e i miei acquerelli». Una passione mai venuta meno, quella degli acquerelli… «Mai, e non è una tecnica facile, come molti credono». Comunque, non è l’unica tecnica che lei abbia sperimentata… «Posso dire di averle provate quasi tutte, e quasi tutti i materiali: tempera, olio, acrilico, resina, stucco, cartone, compensato. Materiali che hanno accompagnato l‘evoluzione del mio linguaggio artistico». Lei ha cominciato con uno stile classico, figurativo... «È vero. Ma poi sono passato ad uno stile diverso, minimale, astratto, basato sulla scomposizione della figura o sulla sua riproposizione ironica, astratta, decontestualizzata, con una presenza forte, centrale del colore, pur se spesso monocromo». Chi l’ha influenzata in questo cambio di linguaggio? «Gerhard Richter, artista tedesco oggi ottantenne. Il suo uso delicato eppure “eversivo” del colore mi ha profondamente colpito e influenzato. L’acquerello è rimasta la mia tecnica preferita anche perché mi consente più di altre quella “eversiva delicatezza” che ho ammirato in Richter.». Per tutti i 365 giorni dell’anno 2000 lei, ad ogni suo risveglio, ha fotografato la stessa scena e poi ha riportato il contenuto delle foto nei suoi acquerelli. Insomma, lei ha fotografato e poi dipinto lo scorrere del tempo… «L’intenzione era quella». Descriva quella scena.
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«Dalla cucina di casa mia si vede l’intero panorama a sud di Chieti, tra la Maiella e l’Adriatico: l’ultimo scorcio urbano della città, le colline prospicienti, la montagna, il mare… La prima inquadratura includeva solo il panorama, cioè l’esterno, ma la cosa mi sembrava banale. Così ho arretrato il punto di vista ed ho inquadrato, insieme, parte della cucina e parte del panorama, in un gioco interno-esterno, culturanatura, che mi è subito piaciuto e che non ho più cambiato dal primo gennaio del 2000 fino alla fine di quell’anno». Si è ispirato a qualche precedente? «Sì, al film “Empire” che Andy Warhol realizzò nel 1962 riprendendo per 24 ore di seguito l’Empire State Building di New York con un’unica inquadratura dal basso». Lei ha esposto in molte gallerie importanti: a Roma, Bologna, Milano, Ascoli Piceno, Trevi, Macerata, L’Aquila, oltre che a Chieti e a Pescara, naturalmente. Qual è stata la mostra più importante per lei, per la sua crescita artistica? «Ne voglio ricordare tre. La prima, nel 1986, all’Ex Manifattura Tabacchi di Città Sant’Angelo, perché mi ha fatto conoscere uno splendido spazio espositivo e, soprattutto, il suo direttore, Enzo De Leonibus, un artista ed operatore culturale di grandissimo valore e merito…». Tra l’altro, fra poco più di un mese all’Ex Manifattura Tabacchi lei esporrà molti dei suoi acquerelli tratti dalle foto del 2000… «Sì, sarò ospitato in una mostra sul tema del tempo denominata “Mira”, cioè “guarda” in spagnolo. Saranno esposti i miei acquerelli inediti e le foto di Antonio Lucifero, noto artista abruzzese». Diceva delle mostre importanti della sua vita… «Sì. La seconda si tenne, sempre nell’86, presso la Galleria Manzo di Pescara. In quell’occasione iniziai una lunga collaborazione con Cesare Manzo che mi consentì di conoscere artisti importanti come Pistoletto, Schifano, Cucchi, Spalletti. La terza è più recente, ancora a Città Sant’Angelo, nel 2003: la mia personale “Antologia” che ospitò i miei acquerelli sul mese di gennaio 2000. In quell’occasione ebbi l’onore di un lungo testo critico sulla mia opera di Maurizio Coccia, uno dei più noti ed importanti critici d’arte italiani». Rileggiamo, allora, un brano particolarmente significativo di quello scritto di
• Mario Moscadello. Sotto, i suoi acquerelli.
Coccia, un passaggio in cui il critico parla dei suoi acquerelli: “L’arte non è in grado di offrire una realtà certa, però riesce a dare una forma alla precarietà del mondo. Per colmo di provocazione, Moscadello sceglierà il mezzo più diafano per dare consistenza strutturale al suo moto di approssimazione all’effimero: l’acquerello. All’inizio, con reticenza, sperimentando velature, corrispondenze coloristiche, frequenza e ampiezza delle pennellate. Poi, in modo più sistematico, precisando
la collocazione tonale di ogni sensazione, affinando le tematiche, infine verificando la coerenza filosofica della sua riflessione, intesa come pensier-in-atto”. Che effetto le fanno, oggi, queste parole, a distanza di quasi dieci anni? «Lo stesso di dieci anni fa». Cioè? «Ma Coccia sta proprio parlando di me?» Francesco Di Vincenzo
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VARIO Mostre Sandra Peraglie
Valeria Ricci
Keith Haring
Essere “donna nella contemporaneità” è il tema dell’indagine pittorica di Sandra Peraglie. Diplomata al politecnico di Milano in Visual Design nel 1980 sotto la docenza di Bruno Munari, laureata in Scultura all’Accademia di Belle Arti dell’Aquila, grafica, fotografa e pubblicitaria, dal 2008 va assommando premi e riconoscimenti (basti citare il recentissimo premio “Leone d’Oro per l’arte” di Sirmione del 2011). La sua recentissima mostra, tenuta presso la galleria “Rosanna D’Adamo” di via Ravenna a Pescara, ha focalizzato riflessione, coinvolgimento ed emozione di fronte alle sue grandi tele così rappresentative di forti e multipli stati d’animo esistenziali, patrimonio di una vita propriamente al femminile. In un intimo e disinvolto seriarsi di pose ed atteggiamenti corporei, condotti ad un frangente allusivo avvertibile all’istante, si snoda infatti la saga figurativa dell’artista che fissa nella contemporaneità i suoi punti nodali, connotati di una sensibilità raffinata e di una duttile mansione di segno e colore. Interessante anche la sintesi ideativa delle sue sculture realizzate in marmo, legno e metallo. Una mostra veramente da ricordare.
Traendo ispirazione dalla natura e dai suoi colori iridescenti, le opere di Valeria Ricci rievocano terre e paesi lontani dove tutto è ancora, apparentemente, incontaminato. Una mostra personale allestita lo scorso febbraio a Pescara fornisce un’ampia panoramica del potenziale evocativo di questa artista capace di manifestare sulla tela il suo desiderio di evasione dalla realtà circostante.
Trenta metri di lunghezza per due metri e mezzo di altezza: il murale di Milwaukee di Keith Haring ha trovato per oltre due mesi il suo spazio nelle ampie sale del museo La Civitella di Chieti, dove è stato ammirato da oltre ventimila visitatori. Le cifre stilistiche del grande artista statunitense (bambini, cani e breakdancers) riempiono le due pareti della gigantesca opera, realizzata nel 1983 in occasione dell’apertura del Museo Haggerty di Milwaukee.
Annamaria Cirillo
• Da sinistra e in senso orario: la mostra di Sandra Peraglie; Valeria Ricci, Green Crystal, acrilico su tela, 50x70; il Murale di Milwaukee di Keith Haring alla Civitella di Chieti; Bruno Di Pietro, Confini (olio su tela, 92x120, 2006) e Sì, noi possiamo - A (olio su tela, collage e tecnica mista, 52x83, 2010).
Bruno Di Pietro “Ai confini del creato” delinea il percorso e gli eccezionali traguardi di Bruno di Pietro che celebra la sua lunga carriera con una mostra, presentata da Raffaella Cordisco a gennaio 2012, negli spazi dell’Aurum di Pescara. Nel prestigioso catalogo, tra testi critici e testimonianze, per mezzo di un ricchissimo corredo fotografico, le sue opere sono divise e raggruppate in ben 7 periodi di produzione artistica (dal 1965 al 2010). Espressione tematica e segnica di un vivacissimo “animi motus” che appare sempre più aperto a tutte le opposizioni e differenze della contemporaneità, divenuta anche teatro di linguaggi subitanei e simultanei, a cui Bruno Di Pietro pare volersi dirigere coraggiosamente “senza pentimenti”, al fine di afferrare una libertà espressiva totale, priva di condizionamenti nel lasciare le sue “impronte”, anche oltrepassando i perimetri deputati alla lettura dell’arte già prodotta. Esperienze e ricerche quindi di una sperimentazione a tutto campo, tematiche iperspazialiste incluse: ”Di Pietro spazia dall’iniziale fase figurativo-paesaggistica al personale Impressionismo-Espressionismo del secondo periodo, alla poetica interpretazione del mito omerico, fino ad immergersi nella dimensione cosmica dei più recenti lavori dal tema iperspazialista…” (Nicola Mattoscio, presidente della
Fondazione Pescarabruzzo, dalla presentazione del catalogo). Un pensiero finale va alla considerazione della positiva, liberatoria espressività di tali nuove ricerche ma di contro anche alla perdita di una identità artistica di grande riscontro e valore che sin dall’85 e per un decennio (terzo periodo 1985-1995) è stata conquistata da Bruno Di Pietro con durevole e colta creatività e con personalissimo segno e colore, in tutte le varie tematiche dedicate alla rivisitazione poetica-figurale del mito di Omero (Iliade). Alla produzione pittorica si affianca anche una notevole produzione scultorea sullo stesso tema (quarto periodo 1995-2005), resa con assemblaggi di materiali vari e di riciclo, tra cui il metallo, (veritiere tracce di un vissuto reale), testimonianze di una sopraffina tecnica artigianale e di creativa fisionomia storico-concettuale della scultura. Un ventennio quindi dedicato ad approfondimenti ricchi di storia, mito, classicità divenute opere d’arte. È certo che anche una specifica creatività profondamente innata può divenire scenario di nuovi percorsi di conoscenza ed ansia di libertà verso nuove mete da raggiungere e nuove procedure espressive da utilizzare, sempre alla ricerca dell’interiorità e del successo. In questa ottica vivissimi auguri a Bruno Di Pietro. A.M.C.
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VARIO Eventi
Chietinstrada Buskers Festival
Street-show nell’antica Teate Mancano quattro mesi alla rassegna teatina ma la macchina organizzativa della settima edizione è già al lavoro. E il massimo esperto del settore dice: «La rassegna di Chieti è tra le prime quattro in Europa”.
di Franco Potere Il dottor Giovanni Di Paolo non è un acrobata né un illusionista. È un medico, direttore del servizio veterinario della ASL di Chieti-Lanciano-Vasto. Eppure, il dottor Di Paolo è uno dei personaggi più conosciuti e stimati nello stravagante ed affascinante mondo degli artisti di strada. Lo è dal 2006, l’hanno in cui inventò dal nulla (il nulla del ferragosto teatino) il Chietinstrada Buskers Festival, la rassegna internazionale di artisti di strada che in sole sei edizioni (quest’anno si svolgerà la settima) s’è affermata tra le maggiori in Italia e in Europa, secondo l’autorevole parere di Gigi Russo, massima autorità italiana del settore, presidente della Federazione nazionale dell’arte di strada, consulente della stessa manifestazione chietina: «In pochi anni, il Chietinstrada Buskers Festival è diventato una grande rassegna internazionale di arte di strada, sicuramente tra le prime quattro in Europa». Un’affermazione pienamente suffragata dallo strepitoso, davvero straordinario successo di pubblico, un pubblico di anno in anno più numeroso. Ecco i numeri (desunti da dati ufficiali delle forze dell’ordine, assicurano gli organizzatori). 2006: 25.000 presenze (in questa prima edizione la manifestazione si svolse in una sola serata), 2007: 100.000 presenze, 2008: 120.000, 2009: 130.000, 2010: 150.000, 2011: 170.000. Numeri impressionanti. «La grande affluenza di pubblico proveniente da molti Paesi esteri, da tutta Europa e da tutta Italia–dice con motivato orgoglio il dottor Di Paolo, presidente di Chietinstrada, l’Associazione che, con la compartecipazione del Comune di Chieti, organizza
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l’evento- è la migliore dimostrazione che la nostra scommessa è stata vinta». Una scommessa difficile: «Molto difficile, perché da sempre i giorni di ferragosto, a Chieti, fino al 2006 erano sempre stati un autentico mortorio. La città si svuotava e chi rimaneva non aveva altro che la passeggiata e il gelato alla villa. Oppure, in alternativa, andare fuori città. Con Chietinstrada, il nostro ferragosto (la manifestazione si svolge sempre il 14, 15 e 16 agosto, ndr) ora è sinonimo di città strabocchevole di folla giunta da ogni parte, bar e ristoranti in piena attività, musei aperti e affollati. Far vivere la città anche in quei giorni: era questa la scommessa che, com’è sotto gli occhi di tutti, abbiamo vinto alla grande». Qual è il segreto di tanto successo? Risponde Di Paolo: «Credo che esso consista nel fatto che siamo riusciti a organizzare una manifestazione che è, nello stesso tempo, una grande rassegna internazionale di alta qualità artistica ed una festosa kermesse popolare, il tutto nella cornice di un centro storico ricco di testimonianze artistiche, archeologiche e architettoniche dell’epoca romana e di tutte le altre epoche successive. Strade, piazze, edifici storici, teatro, musei che fanno da palcoscenico per gli artisti e da platea per gli spettatori. Insomma, uno show nel cuore della storia». Gli artisti arrivano al Chietinstrada da tutto il mondo: dall’Europa, dagli Stati Uniti, dall’America Latina, dall’Australia, dall’Asia, dall’Africa. Sono centinaia i buskers partecipanti: musicisti, teatranti, acrobati, danzatori, mimi, clowns, mangiatori di fuoco, illusionisti, funamboli,
giocolieri, gruppi folk. Grandi artisti delle più diverse etnie e culture. Uno spettacolo multietnico e multiculturale che ha pochi eguali in Italia e in Europa. Mancano quattro mesi al prossimo ferragosto ma la macchina organizzativa, formata in massima parte da volontari, è già al lavoro per l’edizione 2012. «Lavoriamo soprattutto in due direzioni –dice Di Paolo–: garantirci la presenza dei migliori gruppi e artisti singoli, molti dei quali hanno già manifestato il loro desiderio di tornare o di venire per la prima volta al Chietinstrada, grazie all’immagine di prestigio che la nostra manifestazione ha maturato e meritato in questi anni; in secondo luogo stiamo lavorando al fund raising, cioè al reperimento di fondi da partners e sponsors privati, non essendo sufficiente il solo sostegno del Comune di Chieti. Devo dire che se il buon giorno si vede dal mattino, quest’anno ci saranno altri importanti sponsor che si aggiungeranno alle aziende e alle istituzioni che già nei scorsi anni non ci hanno fatto mancare il loro sostegno. Certo, la crisi c’è per tutti, ma ogni bravo imprenditore capisce che è proprio in questi momenti che bisogna investire in una comunicazione intelligente ed efficace». Quest’estate si svolgerà la settima edizione di Chietinstrada. Ci saranno grosse novità? «Molte, ma ora è prematuro parlarne. Dico solo che avremo, tra l’altro, artisti mai visti prima in Italia che hanno accettato di venire da noi proprio perché attirati dalla fama del Chietinstrada che ormai ha da un pezzo travalicato i confini nazionali».
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VARIO Musica
Musica di una tigre bianca Orlando Ef, cantautore pescarese, lancia il nuovo disco da solista “YOR11”. L’album è nato su Facebook, e contiene tutto un mare di persone a navigarci dentro di Christian Carano
Fabio Orlando Ciarcelluti è una tigre bianca. Negli ultimi anni la fruizione di musica in Italia, a causa della crisi di vendite e del download illegale oltre che l’assenza di una adeguata educazione all’orecchio, è diventata a tutti gli effetti un bene accessorio, marginale e facilmente rinunciabile; un bene che, denudato del suo valore artistico, ha visto poi ridimensionato in un secondo momento anche il suo valore monetario. I musicisti nostrani emigrano verso Londra e Berlino in cerca di stimoli e fortuna, ma spesso il biglietto di ritorno è il risultato delle difficoltà incontrate in terra straniera. Fabio Orlando Ciarcelluti, musicista d’origine abruzzese, è una tigre bianca. Anche lui, trovando stretta la nostra penisola per le sue ambizioni di compositore, vola via verso la Gran Bretagna a fine anni Novanta, si stabilisce a Londra e fonda i “Lorien”, band con cui vede prodotto nel 2002 “Under the waves” dalla Sony Uk. «Londra mi ha mostrato il mondo e la vita fuori le “mura italiane” e mi ha insegnato molto umanamente e professionalmente. Lasciare tutto ciò a cui ero abituato e vivere lontano da “casa” mi ha messo davanti a molte difficoltà ma anche tante scoperte meravigliose». La crisi delle etichette discografiche colpisce anche l’Inghilterra e rende impossibile il proseguimento dell’esperienza londinese, così Fabio decide di tornare in Abruzzo. Nasce cosi Orlando Ef, lo pseudonimo con cui Fabio realizza due album, progetto di cui cura ogni singola fase, dalla registrazione alla produzione. Fabio è una tigre bianca perché ascoltando un suo disco ci si ritrova immersi in un qualche sottoscala di Hammersmith, immaginandosi un cantautore inglese con grossi occhialoni neri a trascrivere con forza, su carta, ogni istante del suo fervore creativo. YOR11, suo terzo disco solista, non tradisce il bisogno costante di Fabio per il rinnovamento. Il titolo del disco (le vostre undici) svela la particolare natura dei pezzi presenti al suo interno: scritti di volta in volta avvalendosi della collaborazione di alcuni amici che attraverso facebook rispondevano al suo messaggio “batti un colpo, il primo colpo e scriverò una canzone per te”. Il booklet interno al disco è frutto della mano di Cesc Gragnè, disegnatore di Barcellona che ha ritratto i volti dei partecipanti e che sono poi diventati la copertina per una bellissima edizione limitata costruita con
un cofanetto di legno su cui sono stati impressi a caldo i disegni. «È stato un progetto totalmente diverso dai precedenti, stimolante e appagante –dice Fabio– grazie ai partecipanti e al loro modo di concepire la musica. Io stesso ho appreso qualcosa di nuovo, sono molto fortunato, spero di poterlo continuare a fare». YOR11 è un disco evocativo e sognante. Fabio dimostra di possedere molti colori a cui attingere e in questo disco la malinconia lascia spazio all’euforia di un viaggio fatto in compagnia, in cui la condivisione è di per sé motivo di gioia. Fabio è una tigre bianca, perchè mentre le grandi etichette continuano a sfornare prodotti seriali e preconfezionati, lui continua a produrre canzoni che suonano come gioielli. Sulla sua bacheca Fabio ha scritto una frase che rievoca alla mente le melodie di YOR11 e, come il disco, resta scolpita nella memoria: “Al giorno in cui ci basterà camminare a piedi scalzi per essere felici”. Ce ne fossero di più di tigri bianche.
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VARIO Musica
Umberto l’Antò Il celebre musicista ispiratore del best seller di Silvia Ballestra festeggia l’uscita del suo primo album solista. E ricorda quando a Bologna, trent’anni fa… di Alessio Romano foto Giorgia Tobiolo Nella Bologna dei primi anni Ottanta un abruzzese punk tendente al dark, originario di Vasto, frequenta studenti, artisti e musicisti. Sembra una pagina di un romanzo di Silvia Ballestra. O meglio, lo è davvero. Umberto Palazzo, mentre studia Giurisprudenza, inizia a muovere i primi piedi nel mondo della musica e diventa amico della Ballestra, anche lei studentessa fuori sede di poco più giovane e, per un breve periodo, sua coinquilina. Molte delle caratteristiche degli Antò, i mitici personaggi dei suoi long seller e di un fortunato film, sono riprese proprio dagli amici abruzzesi che frequentava la giovane scrittrice marchigiana. «Nella Guerra degli Antò Silvia ha preso in giro quello che eravamo ai tempi: pessimi punk di provincia ignoranti e grezzi, totalmente velleitari e chiaramente avviati al fallimento: non sapevamo fare niente, non capivamo niente e ci comportavamo malissimo». Umberto arriva a Bologna da Vasto, con in testa le strisce a fumetti delle riviste cult Frigidare e Il Male. «Le atmosfere che ho trovato a Bologna erano quelle della vignette fulminanti di Andrea Pazienza che leggevo da ragazzo». L’ultima estate prima dell’università è stata un’esperienza formativa fondamentale: una visita ai parenti a Bristol, periferia proletaria di quella Gran Bretagna dove tutto sembrava nascere. «Guardai tutti i concerti che riuscii a vedere e me tornai a casa con la valigia piena di tutti i dischi che ero riuscito a trovare». Ma è a Bologna che Umberto inizia a frequentare amici destinati a diventare importanti esponenti della cultura italiana. «Chi poteva saperlo? Ai tempi eravamo i massimi esponenti della sfiga studentesca!». La prima persona con cui Umberto ha costruito un progetto musicale, tramite il classico annuncio appeso sui muri delle bacheche, è Amerigo Verardi, figura storica e carismatica della musica indipendente italiana con cui la collaborazione dura tutt’ora. «Ci siamo appena rincontrati dopo quindici anni per registrare insieme una cover che farà parte di una compilation tributo alla scena
degli anni Ottanta». Umberto è la mente degli Ugly Things e degli Allison Run, gruppo psichedelico. Ma è l’incontro con una ragazza americana, il vero shock culturale per Umberto. «Era una super groupie della musica americana anni ‘80, nel senso che si era fatta tutti i principali musicisti. Nel periodo in cui l’ho frequentata ho scoperto tanta nuova musica e ho capito che in Italia stavamo suonando musica obsoleta». Negli anni Novanta nascono nuovi progetti: insieme al coinquilino Emidio Clementi, anche lui scrittore e amico della Ballestra, nasce il gruppo dei Massimo Volume con un approccio alla realtà più vicino al rap. Dopo arrivano i Santo Niente, il cui nome deriva dall’eufemismo abruzzese usato per non bestemmiare. La Bologna degli anni Novanta è destinata a essere l’ambientazione di un altro best seller, letto per Transeuropa in prima battuta proprio dalla Ballestra: è la Bologna di Enrico Brizzi e del suo best seller Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Proprio a Umberto toccherà realizzare parte della colonna sonora del film. Ma Bologna sta cambiando, sulle strade spuntano i punkabbestia e nei centri sociali il rock inizia a lasciare il passo alla techno legata a un consumo sempre più smodato di droghe. Nel 2000 Umberto Palazzo si trasferisce a Pescara, lavora come dj, organizzatore di eventi e direttore artistico per la Lampara e per lo storico locale Wake Up, contribuendo a fare in modo che Pescara trovi un posto nella geografia degli eventi musicali della musica indipendente internazionale. Oggi le cose sono molto diverse, Umberto ha scritto e registrato tutto il suo ultimo album –Canzoni della notte e della controra, un successo di critica e di pubblico (vedi Vario n.76, ndr)– a casa, fa conoscere la sua musica attraverso i social network, e ha collaborazioni via mail. Forse per un giovane ragazzaccio abruzzese, oggi, non è più necessario andare via di casa. Ma volete mettere l’importanza di certi incontri? Soprattutto, ovviamente, se si tratta di super groupie.
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Dino Di Vincenzo
Cavaliere e gentiluomo
Con la scomparsa del grande imprenditore è venuto meno un protagonista della ricostruzione e della crescita dell’Abruzzo e dell’Italia. Un personaggio fuori dal comune, un uomo di forte personalità e rara capacità di intraprendere e costruire. Schietto e gentile. Con una costante attenzione al bene comune.
Vario ha incontrato più volte il cavaliere Dino Di Vincenzo per raccogliere dalla sua viva voce i ricordi di una vita esemplare. La vita lunga, operosa fino all’ultimo, di un grande abruzzese: tenace, intelligente, coraggioso, innovatore, capace di competere ai più alti livelli imprenditoriali, in campo regionale, nazionale e internazionale. Un grande esempio per le giovani generazioni. Questo articolo è una sintesi delle nostre conversazioni con il cavaliere Di Vincenzo. È l’omaggio di Vario a un uomo di cui l’Abruzzo può andare fiero. (Claudio Carella)
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iovanni Agnelli (auto), Guglielmo Marconi (radio), Alessandro Martini (liquori), Ernesto Breda (meccanica), Giovan Battista Pirelli (gomma), Ercole Marelli (elettromeccanica), Giorgio Enrico Falck (siderurgia), Luigi Lazzaroni (dolciaria), Angelo Salmoiraghi (strumenti di precisione). Che cosa accomuna questi grandi, mitici imprenditori italiani? Sono stati tutti, in epoche diverse ed insieme ad altri di pari grandezza, nominati Cavalieri del Lavoro. Già Commendatore della Repubblica dal 1989, il 1 giugno 2002 Dino Di Vincenzo si è aggiunto a questo club esclusivo di mitici imprenditori: quel giorno, infatti, viene nominato Cavaliere dell’Ordine al Merito del Lavoro dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Il riconoscimento pubblico più prestigioso per un imprenditore italiano. «È una onorificenza che m’ha fatto molto piacere, anche perché arrivata quasi inaspettata. La sollecitazione mi venne dall’allora prefetto di Pescara Andrea Gentile, che mi ha stimolato, mi ha spinto a raccogliere la documentazione necessaria per la candidatura. Man mano che insieme la documentazione mi rendevo conto che tutto sommato avevo dei titoli e cominciai a sperarci. Perciò, quando mi è arrivata la notizia della nomina, la soddisfazione è stata ancora maggiore, come sempre quando si consegue un risultato contando solo sui propri meriti e capacità».
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Una fortuna di nome Maria Cavaliere Di Vincenzo, qual è la persona più importante della sua vita? Il cavaliere ripete la domanda come se volesse pensarci un po’. «La persona più importante della mia vita?». Un attimo, poi: «Mia moglie Maria». E da come lo dice, dal suo tono di voce, si capisce che nessuna incertezza ha ritardato la risposta, bensì una profonda commozione, un breve, intenso turbamento. Come se in quel nome («Maria»), già di per sé potentemente evocativo per un credente come lui, si condensi un tumulto di sentimenti, emozioni, ricordi. «Mia moglie è una persona straordinaria, meravigliosa. È tosta, non ha un carattere facile, come tutte le persone di valore, del resto. Ha superato difficoltà indicibili quando io mi sono ammalato piuttosto seriamente. Ha dimostrato bravura, abnegazione, generosità e mille risorse per superare difficoltà di ogni genere. È stata, e lo è ancora, una madre e una moglie affettuosa, sempre vicina a chi più ha avuto bisogno, e non solo ai suoi famigliari più stretti. Lei mi ha consentito di dedicarmi totalmente al mio lavoro. Io ho avuto un’esistenza piena e intensa, faticosa ma ricca di soddisfazioni. Ma so di dovere tutto a lei, a Maria. Quando i miei figli erano piccoli ed io tornavo a casa distrutto dalla fatica e avevo solo la forza di mangiare un boccone e buttarmi sul letto, qualche volta mi meravigliavo della quiete che regnava in casa. Certo che questi bambini, mi dicevo, sono proprio buoni e tranquilli. Solo dopo parecchi anni, quando i figli
• Dino Di Vincenzo riceve dalle mani del Presidente della Repubblica Ciampi la nomina a Cavaliere. Sotto immagini della famiglia Di Vincenzo, a destra Maria e Dino Di Vincenzo.
erano ormai grandicelli, scoprii che Maria aveva assolutamente proibito loro di fare chiasso e soprattutto di piangere quando io tornavo a casa la sera. “Vostro padre è stanco e deve riposare”, diceva ai figli, “perciò guai se strillate o frignate”. Per fortuna che c’era, e c’è, Maria».
La famiglia Di Vincenzo Dino e Maria Di Vincenzo hanno avuto quattro figli, tutti nati nei primi anni cinquanta: il maggiore, Gianni, ingegnere, oggi a capo delle aziende di famiglia; Marinetta (Maria Antonietta), medico; Roberto, fondatore e patron di Carsa, una società per azioni che opera con successo nei settori della comunicazione integrata e dell’editoria; Valerio, laureato in medicina con la passione dell’informatica. «Sono molto contento di loro, tutti hanno studiato e lavorato sodo, riuscendo ad operare con successo nei rispettivi settori». I problemi, come in ogni famiglia, non sono mancati. «Negli anni intorno al ’68 qualcuno di loro ha scalpitato un po’ troppo, almeno per un periodo, ma poi hanno pensato soprattutto ad impegnarsi nella propria professione». Con il primogenito Gianni il rapporto conosce momenti particolarmente vivaci, come quando il Cavaliere si sente dire dal figlio che vuole iscriversi a ingegneria chimica non edile. A Dino Di Vincenzo la cosa non fa piacere ma senza batter ciglio replica: «Guarda, Gianni, che la fregatura te l’ho data io: ho appena vinto l’appalto per la costruzione di un grande depuratore, perciò un ingegnere chimico è quello che ci vuole, è proprio la professionalità di riferimento». Evidentemente, però, nel giovane Gianni la voglia di “emanciparsi” dal padre era forte. Perciò, una volta laureato, l’ingegner Gianni Di Vincenzo dice al padre che non vuole lavorare nelle aziende di famiglia, peferisce seguire un proprio autonomo
percorso professionale. «Beh, non mi fece piacere. Cercai di dissuaderlo. Discussioni su discussioni che non approdavano a nulla, finché gli feci una proposta: “Vieni con me a fare un periodo di prova di tre mesi, alla fine se non ti piace te ne vai”. Lui accettò la mia proposta e alla fine dei tre mesi venne da me e mi disse: “Papà, resto con te”». Di Vincenzo, ovviamente, ne fu felice. Anche la famiglia d’origine ebbe una funzione decisiva per assicurare al bambino, al ragazzo e poi al giovane Di Vincenzo un percorso di crescita e di formazione basato su sani e saldi principi morali che l’educarono allo studio, al lavoro, alla rettitudine ed al rispetto degli altri.
Il Cugino Il nome non ha importanza: chiamiamolo, semplicemente, il Cugino. «Era il mio incubo. Un bravo ragazzo, mio cugino, ma ai miei occhi aveva un difetto: era troppo bravo a scuola. Bravissimo, sempre il primo della classe. Io me la cavavo, ma non è che mi ammazzavo sui libri. Lui, invece…». Lui, il Cugino, andava così bene a scuola che fu mandato a Roma, alla fine degli anni Trenta, ai Ludi Juveniles dove risultò tra i migliori e ricevette dalle mani di Benito Mussolini in persona l’ambitissimo premio di ben mille lire. Erano gli anni in cui Gilberto Mazzi cantava “Se potessi avere, mille lire al mese”. «Già, era una bella sommetta per quei tempi. Da quando vinse quel premio, mio cugino divenne, senza volerlo, il mio tormento. I miei genitori non la finivano più di sbattermi in faccia il suo esempio: vedi tuo cugino quant’è bravo, vedi come si applica, come studia e sa farsi voler bene dai professori, prendi esempio da lui, quello sì che farà strada nella vita». Avrebbero avuto modo di ricredersi ampiamente, e con grande soddisfazione, papà Giovanni e mamma Antonietta, piccoli proprietari terrieri che conducevano in proprio, con l’aiuto di
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manodopera stagionale, un ampio appezzamento di terreno nella campagna di Chieti, in contrada Madonna delle Grazie, dove coltivavano grano, ortaggi, frutta e accudivano diversi bovini da latte nella grande stalla annessa alla loro rustica ma confortevole abitazione.
frequentava le scuole elementari di Porta Sant’Anna, allora come oggi ospitate nel bell’edificio di primo Novecento all’inizio di via Arniense. Ma com’era lo scolaro Dino Di Vincenzo? «Abbastanza discolo ma andavo bene».
Una casa “affollata”
Dopo le elementari nella scuola di Porta Sant’Anna e le medie nella “Giovanni Chiarini”, nell’anno scolastico 1938-1939 Dino Di Vincenzo si iscrive all’Istituto Tecnico e per Geometri “Ferdinando Galiani”. Il diploma arriva nel 1943, nel pieno della guerra, tant’è vero che la classe di Dino è composta solo da cinque giovani, a causa della chiamata alle armi. «Io, per mia fortuna, evitai il servizio militare perché essendo l’unico figlio maschio fui esonerato». Già prima del diploma il giovane Di Vincenzo fa delle piccole esperienze professionali come studente-lavoratore. Nell’immediato dopoguerra ottiene un incarico di particolare importanza per il suo futuro professionale.
La situazione di serenità ed armonia della famiglia Di Vincenzo non viene seriamente turbata neanche dalla guerra. «Nella nostra contrada i tedeschi avevano installato una grande cucina da campo. Con loro instaurammo un buon rapporto, ci passavano roba da mangiare e si comportavano abbastanza civilmente. Poi si sparse la voce che Chieti sarebbe stata bombardata, così ci preparammo per sfollare ma per fortuna, grazie all’opera del nostro arcivescovo monsignor Giuseppe Venturi, Chieti fu dichiarata “città aperta” e così potemmo rimanere». Certo, la vita durante la guerra non è facile. La casa della famiglia Di Vincenzo per alcune settimane deve ospitare molte famiglie di sfollati. «Demmo asilo a una quarantina di persone, ma ce la cavammo ugualmente». Papà Giovanni e mamma Antonietta hanno le idee chiare sul futuro del loro Dino: «Pur essendo coltivatori benestanti mi spinsero sempre a studiare, a crearmi le basi per una vita diversa. Volevano per me un futuro da geometra. Sono contento di avere seguito la loro indicazione».
A scuola col “trenino” A scuola il piccolo Dino ci arrivava con il mitico “trenino” elettrico (in realtà un semplice tram a due vagoni) che fino agli anni Quaranta collegava Chieti Scalo con Chieti alta, partendo dal piazzale della stazione e arrivando a piazza San Giustino. Dino
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Studente-lavoratore
Un lavoro gratuito ma prezioso Nella provincia di Chieti la guerra aveva causato il danneggiamento di una gran numero di chiese e di edifici religiosi, oltre ad aver distrutto interi paesi. Finita la guerra, lo stato si adopera per risarcire la Chiesa dei danni subiti dagli edifici di sua proprietà. Il geometra Di Vincenzo viene chiamato a far parte del Comitato tecnico dell’Arcidiocesi che cura le richieste per i risarcimenti degli edifici di culto distrutti o danneggiati nella provincia di Chieti. «Quel lavoro non mi portò soldi, ma fu molto utile per la mia immagine professionale: non capita a tutti, a venticinque anni, rappresentare la Curia di Chieti presso il Genio
• Immagini dall’album del Cavaliere Dino Di Vincenzo.
Civile, il Provveditorato alle Opere Pubbliche, il Ministero dei Lavori Pubblici e l’Ufficio Tecnico del Vaticano, allora diretto da monsignor Giovanni Battista Alfano». Monsignor Alfano, una originale figura di prete-scienziato, geologo e sismologo, prende in simpatia quel giovane geometra abruzzese così serio, preparato e accurato nel suo lavoro. Per Dino Di Vincenzo si rivela una conoscenza preziosa, ricca di insegnamenti.
Nascita di un imprenditore A venticinque anni Dino Di Vincenzo decide di fare il gran passo: iniziare la carriera del costruttore. Nel 1948, con l’aiuto di Gaetano Di Pasquale, un esperto costruttore di Atessa che l’anno dopo sarebbe diventato suo suocero (era il padre di Maria), il giovane neo-imprenditore si aggiudica prima l’appalto per la costruzione di alcune case popolari a Fossacesia, poi la ricostruzione in cemento armato di un ponte sul fiume Alento. Gli inizi non sono facili. «Si lavorava duro, non meno di 12-15 ore al giorno, ma la voglia di fare non mancava, né a me né ai miei collaboratori».
Un problema trasformato in opportunità Gli anni Cinquanta sono un decennio di sviluppo per l’attività imprenditoriale di Dino Di Vincenzo. «Nel 1956 a Chieti ci fu un movimento franoso che interessò la nuova chiesa di Madonna degli Angeli che io stavo costruendo. Per i lavori di consolidamento avevo chiamato una ditta di Roma che si serviva come consulente di un professore universitario, un geologo, che mi prese in grande simpatia. Grazie a lui capii molti “segreti” di quel lavoro e così, con il suo aiuto e i suoi consigli, fondai la SIPES, una società il cui oggetto sociale era, appunto, l’attuazione di impianti e scavi per l’edilizia».
In quegli anni e nei successivi, l’attività di Dino Di Vincenzo si allarga in altri settori. «Costruii acquedotti rurali finanziati dalla Comunità Europea e laghi collinari». I problemi non mancavano. «Per avere i tubi bisognava pagare un terzo all’ordine, un terzo alla consegna e un terzo all’approntamento. In pratica, si pagava quasi tutto anticipato. Io, spesso, oltre alla difficoltà di trovare i tubi, non avevo i soldi necessari per versare gli anticipi e i successivi acconti. Feci presente le mie difficoltà a un importante rappresentante della Falck, che all’epoca era uno dei maggiori produttori di tubi per acquedotti e irrigazione. Quel signore mi aveva preso in simpatia, e così si informò sul mio conto presso il Credito Italiano, la banca con cui lavoravo, poi mi telefonò e mi disse: “Puoi prendere quello che ti pare, mi pagherai quando incassi”». I tubi arrivano ma Di Vincenzo non sa dove metterli tutti. Allora si fa camminare il cervello e trasforma, come sanno fare gli imprenditori di talento, il problema in una opportunità. «Feci una mossa azzardata che, per fortuna, andò a buon fine e mi fruttò anche un cospicuo guadagno accessorio. Quei tubi mi costavano 1000 lire al metro, li rivendetti in parte a 1200 lire e feci il lavoro con quelli rimasti, comprandone man mano gli altri necessari a 1000 lire».
Un dubbio lungo sessant’anni Dino Di Vincenzo conosce in quegli anni il commendator Arrigo Chiavegatti, una figura chiave nel dopoguerra abruzzese: a Chieti è Presidente dell’Unione Provinciale Industriali, Presidente della Camera di Commercio e Presidente dell’Ente Provinciale per il Turismo, oltre che dirigente di un ente nazionale che si occupava dei danni di guerra. Per alcuni anni è anche Vice Presidente della Cassa per il Mezzogiorno. Il ricordo di Chiavegatti riaccende in Dino Di Vincenzo la vecchia riconoscenza
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• Il Cavaliere premia l’onorevole Remo Gaspari. L’inaugurazione del nuovo centro espositivo della Camera di Commercio di Chieti. Sotto con Luca Cordero di Montezemolo e Sergio Marchionne, e con il presidente della Regione Chiodi all’inaugurazione dell’interporto.
e un vecchio dubbio. «Lui mi diede sempre preziosi consigli. Mi spinse anche a cercare di prendere i lavori per l’insediamento della SIV, ma la cosa si rivelò complicata. Forse in quell’occasione sono stato troppo prudente, forse dovevo essere più spericolato, lanciarmi di più, seguire il consiglio di Chiavegatti che mi spingeva a cercare di prendere a tutti i costi il lavoro della SIV. Aveva ragione lui? Ho sbagliato io a non provarci perché mi sembrava un impresa troppo grande per le mie dimensioni di allora? Oppure ho fatto bene ad agire con cautela? Ho ancora molti dubbi».
Le grandi realizzazioni I dubbi e la cautela, segni, in realtà, di saggezza personale e di grande coscienza professionale, non hanno certo impedito a Dino Di Vincenzo di infilare un successo dietro l’altro, una lunga serie di ammirate realizzazioni in tutti i settori dell’ingegneria civile: dalle grandi opere pubbliche all’edilizia abitativa e direzionale, dai complessi industriali (fu lui a costruire la SEVEL in Val di Sangro), commerciali ed alberghieri a quelli ospedalieri e di ricerca scientifica, dalle opere idrauliche ed impianti di depurazione alle grandi infrastrutture di collegamento. Basti ricordare, per limitarci alle realizzazioni dell’ultimo venticinquennio, il centro di ricerca Mario Negri Sud, il porto turistico di Pescara, la Civitella di Chieti, gli edifici alberghieri e religiosi in Albania, l’ipermercato Centro d’Abruzzo di S.Giovanni Teatino, la Sixty di Chieti, l’ex Aurum e l’ex Gaslini di Pescara, la centrale turbogas di Gissi, le numerose ristrutturazioni nel nord Italia: stazioni ferroviarie, zone industriali dimesse, infrastrutture di diversa tipologia. Per chiudere questo breve e lacunoso, ancorché significativo elenco, ricordiamo l’Interporto d’Abruzzo, a Manoppello, che ha visto
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impegnato Dino Di Vincenzo non solo come realizzatore ma anche come presidente della società che gestisce l’importante infrastruttura. A questa ricca articolazione di settori operativi, agli inizi degli anni ’90, si aggiungono nuovi campi d’azione della “Di Vincenzo Dino & C. spa”: telecomunicazioni, project development, gestione servizi gas e acqua. A metà degli anni ’90 il Gruppo si riorganizza: nasce la holding industriale IGEFI srl e si riorganizza il Gruppo collocando i diversi business nell’ambito di autonomi contesti societari. Esemplare il successo della società CEIT che ancora opera nel settore impiantistico e telecomunicazioni. Oggi è tra le prime cinque società italiane del settore con oltre 100 milioni di euro di fatturato e 1000 dipendenti. Nel momento in cui scriviamo, in17 regioni italiane su 20, è presente un cantiere del Gruppo Di Vincenzo. Un dato che da solo testimonia il livello professionale, la capacità competitiva e la forza espansiva del gruppo imprenditoriale costruito da Dino Di Vincenzo.
Il “segreto” Di fronte a questo impressionante elenco di grandi realizzazioni, la domanda d’obbligo è: qual è il segreto? Questa la risposta del cavaliere Di Vincenzo: «Non ci sono segreti ma solo una riflessione da fare: se il tuo lavoro non soddisfa pienamente il committente, privato o pubblico che sia, puoi trovare le più argomentate motivazioni per spiegare che qualcosa è andato storto, ma la verità è una sola: hai fallito. Punto e basta». E aggiungeva: «Bisogna fare quotidianamente tesoro di ogni esperienza, soprattutto di quelle più innovative, senza impigrirsi nelle vecchie consuetudini e convinzioni».
• Alcune opere realizzate dall’impresa Di Vincenzo. Con L’archietetto Mario Botta e l’arcivescovo di Chieti Bruno Forte. Il passaggio delle consegne della presidenza della Camera di Commercio di Chieti a Silvio Di Lorenzo. Con i figli Gianni e Roberto. La consegna del premio al pilota Iarno Trulli.
Alla guida della Camera di Commercio di Chieti: dieci anni memorabili Il 22 febbraio 1999, Dino Di Vincenzo viene eletto all’unanimità alla Presidenza della Camera di Commercio di Chieti. Nel 2004 è riconfermato per acclamazione per un altro quinquennio. Dieci anni densi di impegni, spesso gravosi e complessi, ma portati a termine con risultati davvero esaltanti: Di Vincenzo si rivela davvero l’uomo giusto al posto giusto. «Il mio obiettivo è stato costantemente la valorizzazione delle eccellenze della provincia di Chieti. Un obiettivo perseguito e realizzato attraverso piccole iniziative e grandi interventi che hanno avuto come tratto comune la volontà di fornire servizi innovativi e nuove opportunità di sviluppo alle 48.000 imprese che compongono il nostro tessuto imprenditoriale». Il Centro Espositivo e di Servizi, a Chieti Scalo, è stato il fiore all’occhiello della sua presidenza. Una struttura che dimostra lo “sguardo lungo” dell’imprenditore capace di guardare oltre l’impresa, verso quel “bene comune” che dovrebbe essere oggetto di attenzione costante anche da parte di chi, giustamente, si dedica innanzitutto a sviluppare imprese sane, competitive e redditizie. «Con il Centro Espositivo e di Servizi ho voluto mettere al concreto servizio della comunità una struttura moderna, polivalente, attrezzata per ospitare manifestazioni promozionali e attività congressuali e convegnistiche, in grado di qualificare ulteriormente il sistema economico e produttivo non solo della nostra provincia ma dell’intera area metropolitana Chieti-Pescara». Ma il Centro Espositivo non è stata l’unica realizzazione importante. Nel centro storico di Chieti, nella bella palazzina bianca in stile Rinascimento (un “falso” architettonico che
piace molto ai chietini ed ai visitatori), sede storica della Camera di Commercio, sotto la presidenza Di Vincenzo vengono attuati interventi di ristrutturazione e conservazione che restituiscono alla città due ulteriori spazi: nel 2003, dopo un lungo periodo di chiusura, viene riaperta la Bottega d’Arte, storica e prestigiosa sala espositiva per mostre d’arte figurativa; nei primi mesi del 2009, si inaugura l’Expo Room, ricavata nei locali a pianterreno della sede, destinata ad eventi di promozione dei prodotti e delle imprese della provincia e ad altre iniziative. Insomma, un decennio di Presidenza esemplare, memorabile.
Un uomo di fede, un gentiluomo Uno degli ultimi impegni pubblici assunti da Dino Di Vincenzo è stata la guida del comitato promotore per la costruzione della nuova chiesa di San Rocco, a Sambuceto, progettata dal famoso architetto svizzero Mario Botta e fortemente voluta da monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti. Da uomo di fede, Dino Di Vincenzo si è adoperato in prima persona per risolvere problemi, convincere persone, stimolare partecipazione ed entusiasmo per una chiesa che non sarà solo un luogo di preghiera e di relazioni comunitarie, ma anche un laico landmark, un’opera architettonica che darà identità e visibilità al territorio. Il cavalier Di Vincenzo capiva bene queste cose, anche se talvolta preferiva dissimulare la sua profonda conoscenza ed esperienza degli uomini e del mondo, mostrandosi incuriosito, anzi, all’interlocutore che sicuramente ne sapeva molto meno di lui. Un atteggiamento da gran signore; anzi, da cavaliere e gentiluomo.
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Ho avuto un’esistenza piena e intensa, faticosa ma ricca di soddisfazioni. Mi considero una persona fortunata e la mia fortuna più grande è stata di avere al fianco una donna straordinaria come mia moglie Maria, la persona più importante della mia vita
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Sped. abb. postale Art.1 comma 1353/03 aut. n°12/87 25/11/87 Pescara CMP
marzo - aprile 2012
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Cantina Bottari: Il medico del vino / Luciano Passeri: Pizza Marzolina
Le stelle polari del gusto Casadonna e Feudo Antico
Blowcar Il successo è nell’aria
Sangritana CENTO ANNI IN MOVIMENTO Attilio Di Mattia Sarà lui il nuovo d’alfonso Speciale ARCHITETTI
VarioGusto
Coltivare il futuro Lo sviluppo dell'economia regionale passa per il rilancio dell'agricoltura. Lo confermano i dati Istat, che mostrano la notevole crescita dell'export rispetto al 2011, e il dinamismo degli imprenditori del settore
È
l'agroalimentare a trainare l'economia regionale. Come risulta dai dati Istat diffusi nei giorni scorsi, l'export abruzzese ha compiuto un balzo in avanti del 14,7% rispetto al 2011, raggiungendo il terzo posto in classifica dietro Puglia e Sicilia. A guidare la crescita è –insieme al settore leader, quello dell'automotive– proprio l'agroalimentare, che fa registrare un incremento del 20,3%. Dati che, sebbene ancora lontani dai valori precrisi, sono comunque confortanti e indicano in maniera ancora più precisa una strada da percorrere. In questa direzione va senz'altro anche la politica regionale sui Poli d'Innovazione (vedi servizio in questo numero di Vario, a pag. 32), in attesa dei risultati di Vinitaly e Sol che, come ogni anno, mostrano una tendenza al segno più delle aziende vitivinicole e olivicole abruzzesi. E che quella dell'agricoltura –della sua rivitalizzazione, della sua valorizzazione– sia l'occasione per l'Abruzzo di riacquistare competitività sui mercati nazionali e internazionali lo afferma anche Nunzio Marcelli, alfiere del movimento denominato "Pastoralismo", che attraversa tutta l'area mediterranea dell'Europa (Francia, Spagna, Italia) coinvolgendo anche Svizzera, Austria e Germania: un movimento nato dal basso, in opposizione ad alcune norme europee tese a marginalizzare i prodotti della pastorizia e a trasferirli in produzioni industriali. Marcelli, che già anni fa con la sua iniziativa "adotta una pecora" aveva travalicato i confini regionali e portato i prodotti agropastorali di qualità in tutto il mondo, è oggi in prima fila nella difesa delle produzioni tipiche, e sostiene le ragioni della categoria contro la linea dettata dall'Unione Europea. «L'operazione –spiega Marcelli– ha avuto due conseguenze gravi: la prima è quella dell'abbassamento dello standard qualitativo dei prodotti, che estrapolati dal loro contesto artigianale spesso non riescono a garantire il risultato finale; e la seconda, e ben più preoccupante, è che intere zone geografiche si sono svuotate, consegnando all'abbandono territori la cui economia si reggeva sull'attività pastorale. Ulteriore conseguenza è il maggior costo a carico della popolazione, sia in termini di attrattiva turistica sia in termini occupazionali». Insomma, il lavoro –per chi lo cerca– è nei campi, che offrono una duplice occasione: quella occupazionale, appunto, e quella di rilanciare anche turisticamente zone oggi depresse a seguito dell'abbandono di tradizioni necessarie alla sopravvivenza di luoghi e persone. «Pensiamo –prosegue Marcelli– alla tosatura, che oggi è in mano a squadre di Maori (proprio quelli neozelandesi) che si spostano rapidissime in tutta Italia ovunque ci sia un gregge da tosare. È significativo che quest'anno un gruppo di giovani del Potentino abbiano rotto il monopolio Maori proponendosi per effettuare loro la tosatura».
• In alto Nunzio Marcelli. Qui a fianco un indigeno Maori
Casadonna e Feudo Antico a Castel di Sangro
Le stelle pola
• Andrea Di Fabio, a sinistra, e Niko Romito a Casadonna
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lari del gusto
Dallo chef abruzzese pi첫 celebre e da un'azienda votata all'innovazione nasce un polo di eccellenza destinato a indicare la strada dell'enogastronomia Testo e Foto Andrea Carella
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• Niko Romito nella nuova struttura Casadonna a Castel di Sangro.
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e stelle abruzzesi brillano sempre più luminose nel firmamento dei prodotti di qualità. L’enogastronomia, uno dei vanti regionali, diventa il perno attorno al quale ruota la valorizzazione di un territorio tra i più belli e incontaminati d’Abruzzo: quello di Castel di Sangro, paese situato alle porte del Parco nazionale d’Abruzzo, a 800 metri di altitudine, ricco di storia e di tradizioni, in cui Celestino V cominciò la sua vita da eremita otto secoli fa. E proprio nell’antico convento che ospitò il monaco eremita oggi Niko Romito –il più celebre chef abruzzese, insignito di ben due stelle Michelin– ha dato vita a Casadonna, un progetto che unisce in una formula originale e innovativa accoglienza, ristorazione e ricerca. Casadonna infatti non è semplicemente la "nuova casa" del ristorante Reale dove gustare le specialità preparate dal giovane e famoso Romito, ma anche un resort elegante e minimal-chic e un laboratorio-scuola di alta cucina destinato a forgiare nuovi talenti e a costituire un polo di eccellenza della gastronomia regionale. Proseguendo la strada che lo ha reso celebre Niko Romito ha basato l’offerta gastronomica del Reale a Casadonna sulla qualità delle materie prime, sull’eccellenza dei prodotti della terra. È per questo che la tenuta è circondata da un grande orto-frutteto nel quale vengono coltivate le materie pri-
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me che poi si trasformano in succulenti piatti serviti sulla tavola del ristorante, e che sono i libri su cui studiano gli allievi del laboratorio, nell’ottica di condurre una ricerca sul gusto che da sempre contraddistingue l’operato del celebre chef. È anche per questa ragione che all’interno della tenuta Casadonna trova posto un altro esperimento, quello che Feudo Antico –la casa vinicola produttrice della Doc Tullum– sta conducendo su alcuni vitigni autoctoni e su altre uve assolutamente innovative per queste montagne. «Il progetto –spiega Andrea Di Fabio, alla guida di Feudo Antico– ha incluso la messa a dimora di uve autoctone come il Pecorino e di altre quali Pinot nero, Riesling renano, Sylvaner verde, Traminer e Veltliner». La ricerca condotta dal professor Attilio Scienza dell’Università di Milano, che sta coordinando personalmente il team di studio su questi vigneti, servirà per confermare la qualità del vino prodotto ad altitudini montane. «La vera scommessa –prosegue Di Fabio– è rappresentata dal Pecorino: trattandosi di una varietà autoctona, la buona riuscita del progetto rappresenterà un opportunità di non poco rilievo per tutto l’Abruzzo». L’obiettivo dichiarato è rendere la viticoltura di montagna un elemento di valorizzazione culturale e paesaggistica, recuperando al tempo stesso un importante patrimonio turistico
abruzzese. Quella che viene anche definita come “viticoltura eroica”, è infatti caratterizzata da difficoltà strutturali permanenti come la forte pendenza o le condizioni orografiche difficili (pendenze del terreno maggiori del 30%, altitudine superiore ai 500 mt). Si tratta quindi di una viticoltura marginale, che rappresenta meno del 5% della superficie viticola totale europea, ma che ha delle implicazioni importanti sull’economia, la società, l’ambiente e la cultura di molte regioni e nazioni. L’esperimento di Feudo Antico è dettato dai mutamenti climatici che hanno portato i vini prodotti in zone collinari a perdere quelle caratteristiche organolettiche che li hanno resi famosi e pregiati, e che possono essere recuperate a quote più elevate. La viticoltura “eroica”,come dimostrato dal Cervim, rappresenta in Europa 39 aree viticole, 17 regioni interessate, 500.000 operatori coinvolti, 200.000 aziende presenti su questo territorio. «Ci aspettiamo risultati qualitativi che forse sorprenderanno chi non conosce i vini di alta montagna –precisa Di Fabio– ma su cui avevamo puntato. Abbiamo studiato bene questi territori, selezionando solo le tipologie più adatte a questo tipo di viticoltura: la scelta di impiantare i vigneti a quasi 1000 metri di altitudine in una regione, l'Abruzzo, in cui i limiti altimetrici sono di 800 metri può infatti sembrare un azzar-
do, ma nelle nostre intenzioni risiede in maniera decisa l’idea di fare ricerca in zone dove la vite può dare sorprese inaspettate soprattutto nel valorizzare i nostri vitigni autoctoni». E il connubio con Casadonna può diventare, in un’ottica di sviluppo territoriale e soprattutto in quella turistica, un modello da seguire. «È stato facile –spiega Niko Romito– condividere questo percorso con Feudo Antico: siamo mossi dagli stessi principi, ci basiamo sugli stessi valori. E tutti e due ricerchiamo l’eccellenza in ciò che facciamo». Niko e sua sorella Cristiana hanno realizzato con Casadonna una struttura di rara bellezza, capace di diventare un punto di riferimento per la cultura enogastronomica abruzzese e nazionale. Il restauro mirato dell’antico convento ha permesso di ampliare le cucine del ristorante e di creare una sala ariosa e luminosa, minimale e assoluta. I tavoli sono diventati più grandi, la luce è stata studiata nel dettaglio e il pavimento ha reso l’insieme unico. La pietra bianca a terra si incontra con le pareti porose, con il legno grezzo e il ferro arrugginito delle finiture, creando un insieme accogliente e di design. A ridosso delle cucine si sviluppa l’area laboratorio-scuola dove si tengono cicli di formazione professionale di alta cucina. La scuola si avvale, per lo svolgimento dei propri corsi, oltre che del personale di staff e dei collaboratori,
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• Alcuni interni di Casadonna. A fianco, Niko Romito
di professionisti dei settori di riferimento, produttori di rilievo operanti nel territorio abruzzese e docenti dell’Università di Scienze Gastronomiche di Slow Food. «Non solo una scuola tecnica e pratica per giovani chef –spiega Romito– ma un laboratorio attivo che interagisce con la cucina adiacente, con il lavoro quotidiano del ristorante, costituendo un cantiere di prove, di sviluppi, varianti e variazioni. Grazie all’uso di computer, di telecamere e al wi-fi in tutta la struttura, il laboratorio diventa un polo di condivisione di alta cucina in rete capace di utilizzare tutte le tecnologie utili per lo sviluppo di network e piattaforme di lavoro e studio». Oltre alla formazione professionale la scuola organizza corsi amatoriali di cucina e laboratori di degustazione. Casadonna è inoltre un piccolo hotel di charme e design, sei stanze dove la comodità e il bello sono protagonisti con colori tenui, arte e luci. E tutt’intorno, il grande orto di proprietà: «Per il jardin à potager adiacente a Casadonna abbiamo recuperato antiche varietà vegetali locali, piante da frutta e semi». Il ristorante punta così ad avere una produzione diretta e privata, che garantisca una freschezza assoluta del prodotto, segno dell’attenzione maniacale per le colture e le varietà più interessanti. Oltre alla verdura, Casadonna è un grande frutteto distribuito su tutta l’area del podere. Meli, peri, mandorli e ciliegi antichi sono stati impiantati e si integrano con le produzioni della vigna e dell’orto. Oltre alla presenza
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Chi è Niko Romito
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iko Romito, 37 anni, è uno chef autodidatta che ha imparato innanzitutto dal padre e in famiglia il cucinare e la ricerca attenta di sapori. Deciso a rilevare la trattoria di famiglia, ha esplorato le cucine di molti stellati italiani, spagnoli e francesi. Per affinare la sua tecnica, ha svolto stage da Valeria Piccini (ristorante Caino – Montemerano, Grosseto), da Salvatore Tassa (ristorante Colline Ciociare - Acuto, Frosinone) e da Joan Roca (ristorante El Celler, Girona, Spagna). Da quando nel 1996 il ristorante Reale ha aperto, Niko è stato protagonista in pochi anni di un’accelerazione professionale impressionante: nel 2005 è il primo abruzzese a entrare nell’Associazione “Jeunes Restaurateurs d’Europe”; nella Guida Espresso 2006 Niko riceve il titolo di migliore giovane dell’anno ed è considerato tra i migliori emergenti per la guida Gambero Rosso; nel 2008 il Reale diventa miglior ristorante d'Abruzzo sia per l'Espresso che per il Gambero Rosso, e Niko viene nominato dalla Federazione Italiana Cuochi (FIC) ambasciatore della cucina abruzzese nel mondo. Guadagna le tre forchette sulla guida del GR nel 2009, contestualmente alla conquista della seconda stella Michelin (dopo aver ottenuto la prima nel 2007). A luglio 2009 organizza il pranzo delle first ladies al G8 dell'Aquila. Nel 2010 è entrato –unico in Abruzzo– anche nella guida Le Soste.
Feudo Antico, ovvero la ricerca
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eudo Antico è un’azienda agricola nata dal sogno di un gruppo di uomini per dare nuova dignità e immagine all’enologia abruzzese. L’azienda si trova a Tollo, in provincia di Chieti, in Abruzzo, cittadina conosciuta sin da epoca romana per la qualità dei propri vini, che dal 2009 ospita una delle più piccole doc d’Italia, Tullum. Venti sono oggi i produttori di Feudo Antico, uniti dalla passione per il territorio e dalla rigida disciplina in vigneto. Quindici sono gli ettari di vigneto in produzione, rigorosamente composti dalle varietà locali. Un ruolo di particolare importanza è dato a Pecorino e Passerina, autoctoni considerati fino a ieri “minori”, oggi ritenuti a tutti gli effetti preziose risorse del territorio. La regia di Feudo Antico è affidata ad un pool di giovani: in vigneto è l’agronomo Antonio Sitti a seguire ogni fase, dalla potatura alla vendemmia, in cantina è Riccardo Brighigna a interpretare le uve e vinificare separatamente le masse per ottenere i migliori blend. Alla guida dell’azienda è Andrea Di Fabio, soli 37 anni ma con idee molto chiare. Feudo Antico ha l’obiettivo di rendere la viticoltura un’attività perfettamente in linea con le esigenze del XXI secolo, capace di proteggere ambienti fragili, offrire alla comunità locale un forte orgoglio di appartenenza e, ovviamente, remunerare in modo equilibrato i produttori.
Feudo Antico
Via Perruna, 35 - Tollo (CH) tel. 0871969128 www.feudoantico.it - info@feudoantico.it
• Andrea Di Fabio e Niko Romito nel vigneto di Feudo Antico a Casadonna
distribuita di molte piante aromatiche, Casadonna sta costruendo il suo Giardino delle Erbe progettato, curato e gestito dal laboratorio-centro di formazione di alta cucina. E dove Romito sviluppa le sue creazioni, svolgendo un lavoro di ricerca sul gusto che giustifica pienamente le due stelle attribuitegli dall’autorevolissima guida Michelin: «Grazie alla collaborazione con Mieli Thun, Casadonna da giugno 2011 ha un suo alveare d’altura. Grazie alla ricchissima varietà di fiori a ridosso del convento e grazie ai boschi circostanti, puntiamo alla creazione di un blend unico di miele d’altura, in terra d’Abruzzo». Immaginarsi il progetto due anni fa non era facile, conclude Romito: «Il posto era abbandonato da tempo, ma abbiamo trovato nel paese di Castel di Sangro un grandissimo appoggio per il recupero di questo ex convento che ospitò Celestino V. Oggi Casadonna rinasce divenendo anche un centro di formazione dove trasmettere una filosofia a ragazzi che apprenderanno le arti gastronomiche di un paese straordinario come l’Italia».
Casadonna Ristorante Reale - Resort - Centro di Alta formazione culinaria C.da Santa Liberata - Castel di Sangro (AQ) tel. 086469382 www.casadonna.it - info@casadonna.it
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Cantina Bottari
Il medico del vino Con lo stesso impegno con cui avrebbe curato un paziente un andrologo pescarese ha riportato in vita la Cantina Bottari, insieme alla moglie, anche lei medico. Il risultato? Vini di straordinaria qualità che quest’anno debutteranno al Vinitaly Testo di Alessio Romano
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l professor Andrea Ledda, nato in Sardegna nel 1948, è uno stimato professionista con uno studio di andrologia in pieno centro a Pescara e un impressionante elenco di pubblicazioni scientifiche all’attivo. Ma la cura dell’uomo non è la sua unica passione. Negli ultimi cinque anni si è dedicato a un paziente davvero singolare: un vigneto di sedici ettari nella zona del vastese. L’attività era antica, esisteva dal 1890, creata da Francesco Paolo Bottari, il bisnonno della moglie, Angelica Bottari, medico anche lei e titolare della cantina. Nel '99, causa la scomparsa degli ultimi eredi, era rimasto tutto incolto, con le piante completamente malate, non trattate e da tre anni non si raccoglieva più niente. Ma il richiamo della campagna, il fascino della scansione delle stagioni e dei mesi ha avuto la meglio e tra un convegno e una cartella clinica, il dottor Ledda si è dedicato a reimpiantare il vigneto con nuovi filari. Tre ettari all’anno con cloni pregiati di diversi vitigni: Sangiovese, Montepulciano d’Abruzzo, Merlot, Chardonnay e Aglianico del Vulture. Nel 2006 si è finalmente arrivati alla prima vendemmia e all’imbottigliamento di tre annate. L’obiettivo: produrre un vino di qualità estrema. La prova di esserci riusciti: il debutto, quest’anno, al Vinitaly.
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Tutta la lavorazione del vino è fatta nel vigneto secondo un rigido protocollo di autoregolamentazione ecologica. Per il “medico vignaiolo” Andrea Ledda i concimi chimici sono come “antibiotici prescritti a sproposito” e mai li aggiungerebbe alla sua terra. Perché l’esperienza di medico è utile anche nella cura della terra. E il desiderio è di fare un vino che sia riconoscibile, per odore e sapore, grazie alle qualità del territorio da cui proviene. La passione per il vino è antica, precedente anche agli studi di medicina, perché da ragazzino, in Sardegna, il prof. Ledda era vignaiolo già a nove anni, seguendo il lavoro del padre che gli ha insegnato a riconoscere le uve dal loro profumo. Una famiglia attiva nell’agricoltura (il Mulino Bottari oggi è fornitore anche della pasta De Cecco) che gli ha trasmesso tutto l’amore per dedicarsi al lavoro più bello del mondo: quello di chi coltiva l’uva e vende vino. È proprio la consapevolezza della medicina, pur nella conoscenza dei rischi che l’abuso di vino può portare, a invogliare a trattare il meno possibile, perché un vino non mescolato con altre sostanze è un prodotto vantaggioso per l’uomo anche da un punto di vista medico. Sotto questo aspetto il Montepulciano
• Nelle foto il professor Andrea Ledda e i vigneti della Cantina Bottari.
d’Abruzzo è un vino straordinario, che, se lo si sa lavorare può dare grandi soddisfazioni. «Il mio maestro ideale è Gianni Masciarelli. La sua è stata una perdita immensa: era uno dei grandi artisti abruzzesi dell’uva. Ho imparato più dalle poche visite che ho fatto da lui che in dozzine di viaggi nelle cantine più blasonate del mondo. Perché non ti dava mai una risposta banale e perché gli piaceva insegnare e condividere il sapere, era lontano anni luce dall’invidia e dalla stupida rivalità che può esserci tra produttori di vino confinanti». Una caratteristica, questa, tutta abruzzese che ha impedito ai nostri produttori di fare un “cartello” e diventare più forti tutti insieme. «Come un medico che cerca una nuova cura, Masciarelli continuava a sperimentare, esattamente come un ricercatore scientifico. Tanto che prima di morire aveva immaginato un concorso per giovani enologi che ora la moglie, Marina Cvetic, sta realizzando». Perché innovazione e tradizione devono andare a braccetto. «La chimica per esempio può dare grandi risultati se usata nella diagnostica e non nella lavorazione, dove a volte è come una disastrosa chemioterapia preventiva, costosa e inutile». Perché il vino può fare bene, se è buono e assunto con moderazione. «Il vino è vita. Tanto che, per
esempio, il vino cotto non è vero vino, ma la sua negazione. Anche dentro la bottiglia continua la sua trasformazione». Bisogna stare attenti al fenomeno commerciale e in questo momento il Consorzio di Tutela del Montepulciano d’Abruzzo presieduto da Tonino Verna (guarda caso, anche lui medico) sta facendo un ottimo lavoro. Ma l’impegno per un’opera di sensibilizzazione deve essere sempre maggiore. «Bisogna portare sempre più spesso la gente nei vigneti. E accanto all’ottima operazione di organizzazione di eventi in tutto il mondo, bisogna aumentare la consapevolezza dei consumatori anche qui in Abruzzo». E bisogna anche arrivare a una più equa situazione di prezzi per i vini d’Abruzzo che non hanno ancora un giusto rapporto qualità/ prezzo. Troppo spesso sono svenduti e non è la strada giusta se si vuole andare verso una regione che sia orientata a una produzione di estrema qualità. Anche le istituzioni potrebbero fare di più. «In Australia il governo dà un euro al produttore per ogni bottiglia che vende all’estero». Fortuna che gli australiani non hanno le nostre terre, le nostre uve e la passione di uomini come il dottor Bottari. Altrimenti saremmo spacciati!
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Posti Giusti
Pescion
Via dei Pretuzi 19, Pescara (nei pressi della Caserma di Cocco) Tel. 085.62942 Cell. 335.6105679 e-mail - info@pescion.it
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di scampi, un carpaccio di astice con kiwi scottato al Marnier». Non mancano i dolci (tra i tanti segnaliamo un semifreddo di pecorino e miele con polvere di liquirizia e una deliziosa crostatina monoporzione con scrucchijata), tutti di produzione propria come anche il pane e la pasta. La selezione dei vini propone un'ampia varietà di bianchi e rossi, soprattutto delle migliori cantine locali, con la presenza di alcuni eccellenti vini extraregionali. Di tanto in tanto, il locale propone anche un "crudo day", per gustare al naturale tutto il sapore del mare. E la passione, ne siamo certi, è destinata a crescere.
artiamo dal nome: Pescion, ironico pastiche di pesce e passione. E, nel logo, il richiamo a quel personaggio che del nome –di battesimo– fece un brand: Eriberto, decano dei balneatori pescaresi, vulcanico inventore di un modo di essere e di lavorare (come direbbero oggi i cultori dell'economia, di "fare impresa") che era il papà di Luca. E del quale Luca, oggi, ha orgogliosamente voluto omaggiare la memoria, mantenendo nello slogan del suo ristorante il solo cognome: Mastromattei interpreta il mare. E infatti Luca è l'unico della famiglia ad aver intrapreso una carriera dietro i fornelli: formandosi sul campo (nella cucina degli stabilimenti paterni) poi a scuola (all'istituto alberghiero) e successivamente perfezionandosi in anni di lavoro nelle cucine stellate d'Europa (Tra la Spagna, l'Inghilterra e la Francia) e "laureandosi" come ambasciatore della cucina abruzzese organizzando sontuose cene di rappresentanza in tutto il mondo per vari enti e istituzioni, eventi di cui conserva i ringraziamenti, incorniciati e disposti su una parete del locale. Insomma, a Luca Mastromattei l'esperienza non manca di certo, così come la passione per il suo lavoro, per il mare e la sua città. E da queste esperienze e da questa passione è oggi nato Pescion, il primo ristorante di Luca, titolare insieme alla compagna Piera Lanotte: un locale elegante, di dimensioni ridotte (40 coperti), dall'atmosfera accogliente e familiare. Le proposte variano tra piatti ispirati alla tradizione e creazioni estemporanee, inventate dall'estro del giovane chef che libera la sua creatività componendo il menù giornalmente, in base agli ingredienti –rigorosamente freschi– a disposizione, come un pittore fa con i colori. «Il menù non è mai lo stesso», spiega Luca. «A volte rivisito ricette tradizionali come lo scorfano in zuppa con gli "spizz", piatto teramano, i rigatoncelli all'uovo con i granchi e la cicoria, tipici del Vastese, e panocchie con le rape strascinate; altre volte ho proposto creazioni originali come le trigliette di scoglio con salsa al pistacchio, la razza dell'Adriatico sfilettata con olive taggiasche e chips di cipolla, lo scalogno caramellato al forno con battuto
• Nelle foto Luca Mastromattei e alcune immagini del suo ristorante Pescion
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Luciano Passeri
Inforna
Pizza Marzolina Arriva la primavera con i suoi profumi e le sue primizie che il campione del mondo della pizza accosta con fantasia e utilizza per dare gusto e sapore alla sua creazione. • Luciano Passeri e il suo staff nella Pizzeria Milù
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er uno come Luciano Passeri le sfide non finiscono mai. Mentre scriviamo quest'articolo il campione del mondo di pizza –titolo conquistato nel 2005 a Salsomaggiore– è in giro per il mondo, tra concorsi di ogni genere, pronto a competere con i migliori e a inventare sempre nuove combinazioni per le sue creazioni. Una passione, quella per la pizza, nata per gioco nella cucina del miniautodromo del padre, sostenuta dalla madre di origini partenopee –che lo ha introdotto nel giro delle pizzerie napoletane– e sfociata nell'apertura del primo locale nel 1999. Oggi il tempio di Luciano Passeri si chiama Pizzeria Milù, a Sambuceto, alle porte di Pescara, dove il vulcanico chef propone una ampia varietà di pizze, calzoni e focacce dai gusti rivoluzionari. Il segreto della pizza, spiega Passeri, «non sta tanto negli ingredienti ma nell’amore e nel tempo che si impiega a farla. Non è solo la lievitazione che rende buona la pizza, ma la maturazione, cioè un processo di scomposizione molecolare di elementi complessi in semplici, che avviene solo col trascorrere delle ore. In poche parole, bisogna fare la pasta della pizza e servirla dopo alcuni giorni, non bastano poche ore; questo permette agli enzimi di scomporre lo zucchero complesso (l’amido) in zucchero semplice (glucosio), le proteine in aminoacidi e così via». Oggi accanto al ristorante Passeri ha aperto anche una pizzeria da asporto, permettendo così alle originali creazioni del campione del mondo di entrare nelle case di tutti.
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La primavera suggerisce a Luciano Passeri una pizza che riprende la tradizione abruzzese del periodo: quella di gustare un buon piatto di fave accompagnate da pane, olio e pecorino. Ecco la "ricetta" della Pizza Marzolina: «Sulla pizza mettiamo una base di crema di fave, aggiungiamo mozzarella, pomodorini Pachino, gamberi di Sicilia o mazzancolle (secondo la disponibilità di prodotto fresco) marinate agli agrumi, ovvero con olio, sale, pepe e un po' di arancia; dopo la cottura, all'uscita dal forno aggiungiamo delle scaglie di Pecorino di Farindola e una guarnizione di foglie di fave».
PIZZERIA MILÙ Viale Amendola 19/21 Sambuceto-CH (lungo la Tiburtina, da Pescara in direzione Chieti, dopo il centro commerciale Auchan) Tel. 0854409031-3408436051 www.pizzeriamilu.it
m qu sta
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La pasta usata dai migliori chefs del mondo
...................................................................................................................... LAVORAZIONE ARTIGIANALE DAL 1924 SEMOLA DI GRANO DURO TRAFILA DI BRONZO ESSICCAZIONE A BASSA TEMPERATURA UN SAPORE E UNA NATURA DA SCOPRIRE
www.rustichella.it
Posti Giusti
Arbiter Bibendi
Via Conte di Ruvo 40, Pescara Tel. 085 8673592
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resce in Abruzzo il consumo di birra, soprattutto tra i più giovani. Ma si sviluppano anche gusto e consapevolezza: i pub si sfidano nel proporre birre sempre più ricercate e particolari. Dal maggio 2010 a Pescara c’è un modo nuovo di tuffarsi tra i piaceri della schiuma di una pinta. Nel vocabolario italiano non esiste un termine per definire l’Arbiter Bibendi in Via Conte di Ruvo, tanto che Andrea e Vito, i due giovani titolari, hanno coniato il neologismo di “enobirroteca”. Un negozio con ben quattrocentocinquanta tipi diversi di birre artigianali di qualità da oltre duecento produttori da tutto il mondo. E che ogni fine settimana rimane aperto di sera, dando la possibilità ai clienti di scegliersi la birra, versarsela da soli in un bicchiere e ascoltare pillole di nozioni sul prodotto prima di berlo. In più c’è tutto il necessario per la birrificazione casalinga (sono sempre di più quelli che la birra se la fanno a casa), con manuali e corsi, oltre che serate di degustazione con abbinamenti gastronomici. Non mancano i produttori abruzzesi: il Birrificio Maiella di Casoli, che arricchisce il suo aroma con spezie, erbe e grano dalla Maiella; l’Almond ‘22 di Spoltore il cui primo birrificio era un ex mandorlificio sui colli pescaresi; l’Opperbacco di Notaresco nella zona Docg delle colline teramane e il Birrificio Grignè di Corropoli, birra agricola così chiamata perché “grignè” è l’appellativo della famiglia che la produce.
La Taverna di Posidone E
ntri nella Taverna di Posidone e subito vieni avvolto nella luce mediterranea dell’azzurro splendente delle sue pareti e nei mille profumi della più schietta e varia cucina marinara. Alfredo, il cortese proprietario, è un Papponetti, nome di famiglia dall’antica storia marinara. «Anch’io –dice Alfredo– prima di dedicarmi alla ristorazione ho fatto le mie esperienze sul peschereccio di famiglia». In cucina opera un bravissimo cuoco che si chiama, quando si dice la predestinazione, Maretto, anche lui figlio di pescatori. «Per me e soprattutto per i miei affezionati clienti è davvero una fortuna averlo in cucina –dice Papponetti–, Maretto è un genio, un artista. I suoi piatti, dal più semplice al più elaborato, sono una vera delizia per gli occhi e per il palato». Insomma, almeno nel caso di “La Taverna di Posidone”, il nome del dio del mare
non è stato scomodato invano per intitolargli un ristorante di pesce. Le prove sono lì, nelle specialità marinare del ricco menu, che ogni giorno s’impreziosisce del migliore pesce dell’Adriatico pescato in giornata. Si comincia dagli antipasti: impossibile elencarli tutti, ma una citazione è d’obbligo almeno per le Mazzarelle con funghi e peperoni, le Polpettine di cernia al pomodoro, le Frittelle di scampi in pastella. E se leggete nella lista “Rospetti fritti”, non spaventatevi: si tratta di piccole, deliziose Pescatrici dell’Adriatico che si squagliano in bocca. Si passa poi alla lunga lista dei primi piatti: Sagne e ceci ai frutti di mare, Chitarrina allo scoglio, Paccheri con scampi, pachino e zucchine, Orecchiette con broccoli e panocchie, Spaghetto del marinaio (con peperone secco), Lasagna alla Maretto, e via deliziando. Ottima la lista dei vini, soprattutto abruzzesi, della piccola ma ben fornita cantina. I prezzi? Quelli di una volta, davvero. Insomma, se vi trovate a Pescara, non tralasciate l’occasione di sedervi ai tavoli del Posidone. Il vostro palato avrà un trattamento da dio. Via Perugia 17, Pescara - tel. 085 6921990
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