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ABRUZZO IN RIVISTA 87
richiedono un metodo.
Noi di De Cecco difendiamo da sempre il valore di una pasta fatta a regola d’arte. Solo semola di grana grossa impastata a freddo con acqua purissima, essiccata lentamente e trafilata al bronzo, così come vuole la tradizione. Un saper fare che siamo orgogliosi di aver mantenuto vivo nel tempo e che altrimenti sarebbe andato perduto. Un metodo antico e sapiente che potete ritrovare ogni giorno nel sapore unico della pasta De Cecco.
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agosto / settembre 2015
Anche le opere d’arte
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Testi di Lucia Arbace e Plinio Perilli Foto Luciano D’Angelo
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agosto/settembre 2015 Spedizione A.P. Art.1 comma 1353/03 Aut. n°12/87 25/11/87 Pescara CMP
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ABRUZZO IN RIVISTA 87
agosto - SETTEMBRE 2015
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EDITORIALE
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VARIOAPPUNTI di Lilli Mandara
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VARIOidee Pierluigi Visci, Pier Luigi Cervellati, Jan Bock, Francesco Paolucci, Anna Maria Giancarli
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AMBIENTE COSTA DEI TRABOCCHI, ULTIMA FERMATA
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MILANO 2015 ABRUZZESI IN EXPOSIZIONE
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AMBIENTE ABITARE LA TERRA
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TUA REGIONE VERDE E COLLEGATA D’EUROPA
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ROBERTO DI VINCENZO UN (ex) RAGAZZO METROPOLITANO
Direttore Responsabile Claudio Carella
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RIBALTA EVENTI UN’ALTRA MUSICA
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RIBALTA EVENTI SREBRENICA, L’ULTIMA VERGOGNA
Redazione Fabrizio Gentile
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RIBALTA Libri
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RIBALTA mOSTRE
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RIBALTA MUSICA
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RIBALTA cinema
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RIBALTA Teatro
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FABRIZIO CAMPLONE Il SAPORE DEL BELPAESE
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BERARDO AL CENTRO DEL GUSTO
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TRATTORIA DAI PAESANI MONDO CHE GIRI ABRUZZO CHE TROVI
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AGRIVERDE IL VINO, NATURALMENTE
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MOODITALY L’HAUTE COUTURE DELLA TAVOLA
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LA RICETTA
In copertina: Vista mare, 2015 (Ph. Claudio Carella)
GRAFICA Giorgio De Angelis Hanno collaborato a questo numero Lucia Arbace, Jan Bock, Andrea Carella, Pier Luigi Cervellati, Bruno Corà, Bruno Cortesi, Anna Cutilli Di Silvestre, Luciano D’Angelo, Giorgio D’Orazio, Tommaso Di Biase, Luciano Di Tizio, Francesco Di Vincenzo, Anna Maria Giancarli, Cristina Legnini, Lilli Mandara, Pina Manente, Francesco Paolucci, Clori Petrosemolo, Plinio Perilli, Edvige Ricci, Sandro Visca, Pierluigi Visci Stampa, fotolito e allestimento AGP - Arti Grafiche Picene Via della Bonifica, 26 Maltignano (AP) Claudio Carella Editore Aut. Trib. di Pescara n.12/87 del 25/11/87 Rivista associata all’Unione Stampa Periodica Italiana Redazione: Via Puccini, 85/2 Pescara Tel. 08527132 - redazione@vario.it
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In questo numero in omaggio il primo raccoglitore dei 6 fascicoli sull’Arte Monumentale. Sul prossimo numero in omaggio il secondo
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raccoglitore degli inserti sulla fotografia I fascicoli arretrati possono essere richiesti
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alla nostra redazione inviando una e-mail a redazione@vario.it
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[EDITORIALE]
A
CLAUDIO CARELLA
IMMAGINA un bel mare
bruzzo, dove i monti si specchiano sul mare. È il leit motiv che da anni promuove la regione, a livello turistico e non solo. Ma lo slogan, che per attrarre usa un’immagine di per sé contraddittoria, in realtà sembra puntare più che sugli elementi geografici e naturalistici, sull’idea di “finta contraddizione” come accadeva con l’altro storico stereotipo sull’Abruzzo: “forte e gentile”. Dualismi e contraddizioni, del resto, ci caratterizzano: da tanto non ci chiamiamo Abruzzi, anzi ci offendiamo se qualcuno usa ancora questo nome d’altri tempi, per poi non riuscire a vederci –e soprattutto pensarci– come un unicum (ospitiamo, in proposito, una lettera dell’associazione Amici di Pescara che interviene sul nostro articolo “Ma alle 3,32 non erano crollati tutti i campanili?” pubblicato sul precedente Vario n. 86). Il vero rischio è che crolli tutto, non solo i campanili. Ma quante sono le contraddizioni di una gestione del dopo-terremoto e della ricostruzione forse non impeccabile? Il tema che abbiamo scelto di trattare nella sezione Vario Idee (da pagina 7) è: a sei anni da quel dramma cosa è stato fatto, cosa non è stato fatto e soprattutto cosa si potrebbe e dovrebbe fare? Ci siamo rivolti a personalità che stimiamo, diverse per professione, esperienze ed età. E poi: il mare dell’Abruzzo o i mari degli Abruzzi? Anche qui assistiamo a mille contraddizioni, incertezze e incapacità di adottare una strategia comune per l’interesse comune, con il rischio di sfasciare quello che a fatica si costruisce (servizio da pagina 16). Ottima idea, ad esempio, quella di istituire un parco marino, ma oltre ad essere un progetto che per realizzarsi richiederà perlomeno 5 anni, ci si domanda perchè questa idea può partire solo se si annulla l’altra del “parco della costa dei trabocchi” che, avviata più di 5 anni fa, è finalmente una realtà? E tanto per sottolineare ancora le contraddizioni, il mare in genere lo si vede dalla costa; e pensando di salvaguardare il primo non si può non pensare alla seconda, soprattutto quando ci impedisce anche la sola vista della distesa blu come accade in molti tratti urbani del litorale. In copertina, quindi, abbiamo deciso di pubblicare un’immagine della riviera pescarese. Con vista mare. P.S. Questa copertina non è stata vista e discussa, come accadeva spesso da 25 anni, dal mio caro fraterno amico, prezioso collaboratore e grande appassionato di fotografia, di cavalli, di vita Alessio Di Brigida. Una perdita dolorosissima. Così va la vita. Grazie Alessio.
S
ì, come dice la brava giornalista Lilli Mandara, quella notte d’aprile di sei anni fa erano crollati tutti i campanili, con una straordinaria gara di solidarietà che coinvolse Pescara, la costa teramana e chietina e tutti gli altri capoluoghi, città e paesi che si strinsero attorno al capoluogo di Regione nel momento del dolore e della distruzione. Ma la vita, poi, è ripresa a scorrere in tutta la regione, che però ha rallentato il passo per aiutare l’Aquila, ma il capoluogo, forse perchè drammaticamente colpito, non se ne è reso conto e ha continuato a camminare per conto proprio, senza più preoccuparsi della maggior parte del territorio abruzzese. Perchè un capoluogo di regione, se non pensa alla regione, a cosa serve? Perche da sempre l’Aquila non ha svolto il suo ruolo di capoluogo di regione? Se l’industriale Paolo Primavera ha avanzato delle istanze, un motivo ci deve essere. Tutti sappiamo che esiste un problema regione, in cui l’Aquila continua, inopinatamente, ad essere lontana da Pescara, Chieti, Teramo, Sulmona, Avezzano e dal sud dell’Abruzzo e dalla sua economia, che a causa della crisi non può più aspettare che l’Aquila si rialzi, con tempi che sono divenuti troppo lunghi. Appena si parla di Pescara e del “saccheggio” che ha subito in questi anni, a favore dell’Aquila (Tar, sede Banca d’Italia, Corte d’Appello, INPS etc.),
subito si grida puerilmente al campanilismo. Come se fosse una colpa coltivare gli interessi, la cultura, l’economia di una città, che perde le sue istituzioni e che l’Aquila raccoglie, senza preoccuparsi di ridistribuirle, trovando così una soluzione per uno sviluppo che non sia solo il proprio. Non c’è nanismo, non c’è rabbia; i pescaresi sono generosi e tolleranti; tutto ciò si chiama semplicemente amministrare una città e crearne la crescita. Si teme il referendum perchè l’orgoglio abruzzese si sta risvegliando, stanco di dover muovere piccoli passi verso il progresso e la modernità. È offensivo scrivere che ci sono élite inadeguate ed immature. Anche perchè sino ad oggi nessuno si è lamentato del lavoro svolto a Pescara per difenderla dagli attacchi continui di inefficienza e di città di frontiera. L’Aquila ha ottenuto la legge per il capoluogo. Una scelta che politicamente va rispettata, a condizione che ciò significhi l’adempimento del proprio ruolo. Anche se non sarà una legge a fermare il cammino di Pescara e dell’Abruzzo. Diversamente l’Aquila rischia di fare come fanno i bambini che, stanchi del giocattolo, lo buttano via. Paola Marchegiani e Carla Tiboni - Associazione “Amici di Pescara”
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[VARIO APPUNTI]
LILLI MANDARA
QUELLI CHE LA REGIONE ABRUZZO IN MOSTRA ALL’EXPO DI MILANO
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astrogiurato, sbandieratori e chiarine. L’Expo targato Abruzzo a Milano è un flop, però non si può dire. La Regione ha stanziato due milioni di euro di fondi Par-Fsc e li ha consegnati alla società in house Abruzzo sviluppo per la gestione dell’evento Expo. Non solo: se nella società lavora la moglie del sottosegretario Camillo D’Alessandro, la stessa società ha affidato una consulenza come responsabile della comunicazione a due esperti, uno è Nello Bologna e l’altra Cristiana Canosa, storica segretaria dell’ex presidente della provincia di Chieti Tommaso Coletti e ora fedelissima segretaria di D’Alessandro. Lo sforzo abruzzese a Milano consiste nell’inaugurazione di Casabruzzo in via Fiori Chiari a Brera, che si è tenuta il 2 maggio scorso con grande spolvero di TV locali, tutte finanziate da Abruzzo sviluppo. E in una mostra sulle Regioni, che capiscono solo loro. Infatti il tema è: potenza del saper fare, potenza della bellezza, potenza del limite 1, potenza del limite 2. La storia comincia sei mesi fa: la smania degli expottimisti per l’Expo (si sono auto-definiti così i dalessandro boys), è tale che a ottobre 2014 la Regione approva la rimodulazione dei fondi statali destinandone due milioni all’esposizione milanese. Altri soldi in cassa non ce ne sono, ma i fondi Fsc servirebbero per la verità al riequilibrio economico e sociale tra le diverse aree del Paese. Insomma è un fondo per le aree sottoutilizzate, da destinare soprattutto al lavoro, vera emergenza della Regione. Non solo: essendo fondi statali dovranno essere rendicontati e se il loro utilizzo per l’Expo non dovesse essere approvato, l’Abruzzo si troverebbe con due milioni di debito in più. Alla vigilia di Expo, il team degli expottimisti regionali decide di investire in pubblicità perché è giusto che il resto d’Italia conosca le meraviglie d’Abruzzo. E lo fa comprando mezza pagina sul Sole 24 ore (e ci può stare, è il terzo giornale italiano per copie vendute e primo sul web, ma questo alla Regione è sfuggito), e una pagina sul Foglio di Claudio Cerasa. Il fatto è che il Foglio non è rilevato da Ads (l’organismo che certifica la diffusione dei quotidiani), e vende meno di 10 mila copie. E potrebbe andare tutto bene, se Casabruzzo funzionasse: il fatto è che in gran parte della settimana l’ambasciata abruzzese all’Expo resta chiusa (e l’insegna, di carta, appiccicata con lo scotch come nelle sagre di paese, anzi peggio). E che due simboli della cultura regionale, i trabocchi e le virtù, sono rimasti fuori. Ignorati dagli expottimisti. Il trabocco ha fatto la sua comparsa all’Expo grazie a Dante Ferretti, scenografo di fama internazionale tre volte premio Oscar: così lui ha illustrato a Milano il mercato del pesce. E le virtù, celebrate dal presidente di slow food Carlo Petrini come piatto simbolo della tradizione culturale e antropologica abruzzese, completamente ignorate. Con due milioni di euro si poteva fare di più. Anzi, si poteva fare.
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uanta fatica, ma dove corri, dove vai. Scappano tutti. I dirigenti della Regione targata centrosinistra messi in fuga da una misteriosa tarantola. Saluta Gabriele Gravina, a un mese dalla nomina a commissario del Consorzio Chieti-Pescara, dice addio Carmine Cipollone, che lascia senza colpo ferire il Bilancio. Ancora prima il ciao era arrivato da Vittorio Di Biase, capo dipartimento opere pubbliche e dal direttore generale della Saga Piero Righi. L’imbarazzo della giunta tocca le stelle. Tocca a qualcuno metterci una pezza, tentare di giustificare l’esodo di massa. Ci prova Silvio Paolucci, assessore regionale alla Sanità per Cipollone, il secondo direttore a dimettersi in pochi mesi: “È comprensibile che la quantità e qualità del lavoro che si svolge oggi in Regione abbia determinato queste due rinunce, un fatto che prima non accadeva e del quale tocchiamo con mano i risultati”. La stessa giustificazione che fornisce per conto terzi, e cioè per Gravina, il sottosegretario Camillo D’Alessandro: “Troppo lavoro”. Insomma si sono spaventati. Ma quandomai: e infatti Gravina, abituato a ben più faticose sfide, ha smentito tutto. Pessime figure.
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li economisti se lo spiegano. Anche i profani, con un po’ di logica, ci arrivano. Per gli aquilani e gli abruzzesi, però, continua a essere un rebus dal sapore amaro: ad andare in crisi, simultaneamente, nel cratere del terremoto, sono il cementificio Sacci di Cagnano e la holding edilizia Edimo, praticamente l’intera filiera edilizia interna. A rischio, anzi dal destino segnato, sono almeno 400 posti di lavoro diretti, più il famoso indotto. Gli economisti se lo spiegano con le leggi di mercato –caso Edimo, un colosso cresciuto troppo in fretta proprio a partire dal 6 aprile– e con la cornice di una crisi generale –caso Sacci: il 70 per cento delle commesse dalla ricostruzione aquilana non basta a compensare la crisi del mattone a Roma e nel Lazio–. Ma i cantori del cantiere più grande d’Europa? quelli che “il terremoto può essere anche un’opportunità”? Quante chiacchiere confindustriali al vento, quante coscienze risciacquate con poco: i terremoti, alluvioni e disastri naturali sono e restano una gran fregatura: per chi ci rimette subito vite e affetti e per chi ci rimette dopo lavoro e speranza che tutto possa tornare, esattamente, com’era e dov’era.
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uccede sempre quando le poltrone sono in bilico, o quando tira aria di burrasca. Succede che Nazario Pagano, coordinatore regionale azzurro che viene impallinato un giorno sì e l’altro pure dai suoi, in prima fila dagli ex An, per tentare di riconquistare appeal e credibilità, si butti sulle fotografie anime e core. Così, se i suoi gli fanno il tiro al piccione, lui posta foto in compagnia col lider maximo Silvio Berlusconi. Lo ha fatto due volte: in occasione del suo compleanno a fine maggio, quando ha partecipato alla cena di autofinanziamento di Stefano Caldoro a Napoli, e si è fatto un selfie con la Pascale e poi a tavola con Silvio (come hanno fatto un po’ tutti gli ospiti, a rotazione). Postando le foto su Facebook. E poi qualche giorno fa, dopo la vittoria di Di Primio a Chieti, con tutti che correvano a metterci il cappello sopra, in occasione della riunione dei coordinatori forzisti a Roma con Berlusconi. Con tanto di foto mentre entra a palazzo Grazioli. Ma la foto col lider mica è una debolezza solo di Pagano. Quando, dopo mille annunci, si è capito che pure Matteo Renzi non c’aveva nessuna voglia di venire in Abruzzo, Luciano D’Alfonso ha trovato il modo di farcisi fotografare, un po’ a tradimento, durante un’assemblea Pd a Roma. E poco dopo, ha diffuso un sms in cui Matteo gli prometteva una visita, al più presto. La sindrome del tenente Drogo.
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a che vi brindate? Troppo facile brindare quando si vince. Non le manda a dire la senatrice Federica Chiavaroli di Ncd che con una dichiarazione di fuoco rimette a posto non solo il coordinatore regionale di Forza Italia Nazario Pagano (ormai sparare su di lui è come sparare sulla Croce rossa) ma soprattutto i teatini Mauro Febbo e Fabrizio Di Stefano. Se Di Primio ha vinto è solo merito di Ncd, gli altri lo hanno candidato solo perché credevano che a Chieti si perdesse, altro che storie, sostiene la Chiavaroli. Quindi le carte ora le daranno loro: il partito di Angelino Alfano si candida a rilanciare l’intera coalizione di centrodestra per portare avanti un’opposizione credibile al governo regionale di Luciano D’Alfonso e iniziare a preparare l’appuntamento delle prossime elezioni regionali nel 2019. L’idea è quella di un raggruppamento da chiamare “Identità Abruzzo”. Pagano dal canto suo manco viene nominato. Paolo Tancredi si limita a dire che dentro Forza Italia manca un interlocutore. Ma la guerra è guerra e Fabrizio Di Stefano, focoso di suo, risponde per le rime: “Federica Chiavaroli è troppo presa dall’ambizione per conquistare uno scranno ministeriale e ha perso in lucidità”. Le trattative per decidere il nome del candidato sindaco di Chieti sono state lunghe, secondo il parlamentare ex An, solo per arrivare a una candidatura condivisa, nessuna presa di distanze. E uniti si vince, fa alla senatrice. E se a Pescara e alla Regione hanno perso è solo per colpa di Ncd, che ha fatto correre Guerino Testa contro Albore Mascia, e questo è un colpo basso. E come se non bastasse, ecco la Pelino a correre in soccorso di Pagano: “Liti e polemiche interne, velleitarie rivendicazioni di leadership all’interno della coalizione non vanno nella direzione giusta”, dice rivolta a Ncd. Mica male come pugnalate. 5
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[VARIOIDEE ]
PIERLUIGI VISCI
TERREMOTI DEL CORPO E DELLA RAGIONE L
a sera del 6 aprile 2009 partecipavo alla trasmissione radiofonica di Aldo Forbice, Zapping, dal mio ufficio bolognese di direttore di Quotidiano Nazionale (il Resto del Carlino, La Nazione, Il Giorno). Si parlava, ovviamente, solo del terremoto aquilano. Sul cellulare apparve un sms di mio nipote, giovane medico, all’epoca specializzando in ortopedia alla Cattolica di Roma. Scriveva: “Caro zio, sono tanto triste. Noi abruzzesi non abbiamo mai rotto le scatole a nessuno. Ce la faremo anche questa volta, da soli”. D’istinto la lessi in trasmissione, mentre sentivo una lacrima velarmi gli occhi, una commozione colta dai partecipanti che, unanimi, apprezzarono lo spirito e la fierezza di un giovane che era l’antica fierezza degli abruzzesi, sintesi della dignità che un popolo intero mostrava al mondo in quelle prime, drammatiche, strazianti ore e che per giorni ha connotato cronache e analisi. Nel fondo appena consegnato in tipografia – titolato “Abruzzesi sempre”– avevo scritto d’impeto che l’Abruzzo è una terra “da sempre fiera di una presenza discreta, eredità di millenni di isolamento, tra mare dannunziano e montagna aspra, inospitale se non per lupi e orsi. Davvero forte e gentile, com’è nel suo dna e nei proverbi che la caratterizzano”. Concludevo con un auspicio: “Non facciamo invecchiare i bimbi superstiti di Onna e Paganica, com’è accaduto per il Belice e l’Irpinia”. I lettori perdoneranno autocitazioni e scrittura in prima persona: penso che sia necessario alla narrazione per dare il senso di come quei valori dei quali siamo antropologicamente connotati e connessi, si siano smarriti, lasciando spazio a recriminazioni, fatalismo, rassegnazione, rivendicazioni, con tutti i vizi della peggiore dialettica politica e della più paralizzante e rapinosa burocrazia, con gli auspici rimasti tali se è vero, come leggo nelle cronache del sesto anniversario, che i bambini nati in quei giorni non sanno cosa sia il centro storico della loro città e pensano siano normali le macerie e le scuole a moduli. E che sui balconi delle loro case ricostruite e consegnate con spreco di propaganda, è meglio non affacciarsi perchè già crollano. In questi giorni è stato celebrato anche il terzo anniversario dei terremoti del 20 e 29 maggio 2012 in Emilia. Il bilancio della Regione parla di ricostruzione completata al 60 per cento. Le multinazionali presenti sul territorio erano 38, ora sono 42. Nessun lavoratore è in cassa integrazione causa sisma. L’ad della Mix srl di Cavezzo (Modena) racconta a Panorama che oggi l’azienda ha 70 dipendenti, dieci in più del 2012. Dice che hanno preferito investire in ricerca e sviluppo piuttosto che sprecare tempo e denaro in perizie e burocrazia sui lavori (4 milioni, finanziati da assicurazioni e banche) di ricostruzione dello stabilimento, completato a fine 2013. Tante storie simili, cito l’articolo “Ricostruzione fai da te” di Panorama, in questa terra di “mucche e Ferrari, gnocco fritto e valvole per cuori artificiali”, con una “tensione universale che sprigiona brevetti, cultura e solidarietà, che ti fa sentire l’impresa non come fonte di reddito, ma come sorgente di vita”. Hanno venduto le seconde
case, prosciugato i risparmi, investito i soldi dell’assicurazione o presi in prestito dalle banche, senza attendere la manna dal cielo. In quest’area, si sa, si produce il 2% del Pil nazionale, in termini monetari molto di più di quanto produce l’intero Abruzzo. Impossibile paragonare L’Aquila 2009 –309 morti, 1.600 feriti, 60 mila sfollati, un centro storico collassato per intero, tesori d’arte sbriciolati– con l’Emilia 2012: 27 morti, 300 feriti, 19.000 sfollati, 4 mila tuttora in assistenza, 58 comuni danneggiati, preziosi centri storici, tesori d’arte: valori e qualità totalmente differenti. Solo il grado di intensità Richter, 5,9, è identico, come le polemiche devastanti e le infiltrazioni di malavitosi (camorristi e ndranghetisti), corrotti e corruttori. Per il resto tutto diverso, specie il “dopo”: a L’Aquila, dopo 6 anni, è rientrato a casa il 56% degli sfollati, in Emilia, dopo tre, il 71%. A L’Aquila sono stati spesi poco più di 4 miliardi (40%) a fronte di danni per 10 miliardi, con stanziamenti 2015 per altri 5 miliardi; in Emilia quasi due (15%) per più di 13 miliardi di danni, per un fondo di 7 miliardi. Renato Brunetta, ministro nell’ultimo governo Berlusconi, ha calcolato che il terremoto aquilano ha pesato per lo 0,5% sul Pil nazionale, quello emiliano per l’1,5%. Pesi diversi, perchè in ogni storia contano anche i numeri e i denari, ma non si può dire che l’Italia sia stata matrigna con L’Aquila. Un dato: il costo per gli sfollati dell’Irpinia (1980) fu di 7.889 euro pro capite; per l’Aquila, trent’anni dopo, 23.718 euro. L’urbanista Pierluigi Cervellati svolge analisi autorevoli sulle New Town (ma con quanta determinazione furono all’epoca contrastate?) e le realizzazioni superflue (il teatro di Renzo Piano). Non appaia cinico, ma dopo il dolore e le ferite dei corpi e delle anime, le devastazioni della Natura sono opportunità di rinascita e sviluppo. Nel nostro passato martoriato c’è il nulla del Belice e dell’Irpinia, occasioni sciupate nonostante fiumi di denari affluiti e potenzialmente in grado di risollevare economie e società smarrite nell’arretratezza e condannate con scelte sbagliate ad altra arretratezza. Abbiamo anche l’esempio straordinario del Friuli e quelli comunque non negativi di Umbria e Marche. La ricetta sarebbe semplice: sia il territorio, con le sue identità e specificità, a definire il modello della ricostruzione materiale, senza cancellare storia e tesori, e cogliendo le occasioni per rinnovare. Città di studi e produzioni tecnologicamente avanzate, l’occasione aquilana potrebbe essere anche quella del laboratorio, internazionalmente specializzato, per lo studio dei terremoti e per sviluppare le tecniche della ricostruzione e del restauro. Dai banchi delle elementari al post diploma universitario, dalla ricerca per l’industria ai preziosi, raffinati laboratori artigianali. Attenti a coniugare il territorio (ma ci sono dirigenze politiche e burocrazie all’altezza?), con il mondo di fuori, portatore di solidarietà, contributi (anche economici) e anche esperienza e capacità. Soprattutto: basta piangersi addosso, recriminare, pretendere. Mostriamo la nostra fierezza, siamo abruzzesi. O no?
Giornalista, si è occupato di cronaca giudiziaria (la P2, Tangentopoli, la camorra di Raffaele Cutolo, il maxiprocesso a Cosa Nostra istruito da Falcone e Borsellino) e di politica guidando la redazione romana di il Resto del Carlino, La Nazione, Il Giorno. È stato direttore responsabile di Quotidiano Nazionale, il Resto del Carlino e ilrestodelcarlino.net.Scrive sul periodico di politica e cultura liberaldemocratica Libro Aperto e segue le attività della società di comunicazione ed editoria Musica e Parole, che ha fondato col figlio Lorenzo nel 2012.
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[VARIOIDEE ]
PIER LUIGI CERVELLATI
NEW TOWN CRONACA DI UN DISASTRO ANNUNCIATO L’
Aquila e l’Emilia sono due esempi dell’inadeguatezza dell’attuale classe dirigente (a tutti i livelli: locale, regionale e nazionale) a gestire una situazione di emergenza. Non è una questione partitica, sia chiaro. Tanto a destra quanto a sinistra, chiunque abbia affrontato il post-sisma nell’uno e nell’altro caso ha sbagliato. L’Aquila, a sei anni dal terremoto, è ancora priva del suo cuore: quel centro storico ricco di monumenti, di chiese, di palazzi medievali è ancora oggi vuoto. Certo, ci sono cantieri avviati, qualche palazzo è stato rimesso in piedi, ma perlopiù si tratta di interventi a macchia di leopardo, che non seguono una pianificazione e che accentuano il disagio provocato dalla scellerata decisione di costruire le New Town. Le cosiddette New Town, cioè i nuclei abitativi del progetto C.A.S.E., di fatto baracconi condominiali che attualmente cadono a pezzi, hanno disgregato completamente nuclei familiari e rapporti di vicinato. È stata un’azione costosa di disfacimento, di dispersione dei cittadini, di distruzione della loro identità. Quando il progetto Case fu annunciato, fummo in molti a esprimere, alcuni anche con veemenza, il nostro dissenso, perché la situazione odierna era ampiamente prevedibile. Ma, come spesso accade, le voci fuori dal coro non sono state ascoltate, neanche da chi –come le autorità locali– avrebbe dovuto prendere decisioni avendo per obiettivo il bene comune, che in questo caso è il centro storico. L’Aquila era una bellissima città, con una sua università, che aveva il senso della comunità nella città storica, nel centro, in ciò che la rappresentava. Quel centro ancora vuoto, disabitato, simboleggia il vuoto creato nella popolazione. Sono portato a pensare che tutto sia stato fatto in buona fede, ma il danno provocato è enorme: gli aquilani, privati del luogo che rappresentava la loro identità, sono oggi come un malato di Alzheimer che non ricorda più dov’è la sua casa. L’uomo ha peggiorato il danno causato dalla natura, cancellando in sei anni la memoria di un’intera cittadinanza. Quando Renzo Piano ha costruito l’Auditorium io e altri abbiamo protestato: perché spendere tanti soldi per un nuovo teatro quando ce n’è uno vecchio –anzi, storico– che va semplicemente restaurato? Se la sua funzione è quella di restituire alla città un luogo di aggregazione in centro, cosa impedisce al vecchio teatro di assolvere a tale compito? E ciò che mi preoccupa è che il perverso modello aquilano è stato ripreso qui
da noi in Emilia: alcune Sovrintendenze filogovernative hanno tentato di restaurare e ricostruire “dov’era ma non com’era”, di fatto volevano sostituire campanili e torri crollate con manufatti diversi, cancellando insieme ai simboli del territorio colpito dal sisma, anche la sua memoria, la sua specificità. E anche in questo caso assistiamo a proclami sull’inizio dei lavori, sul loro stato di avanzamento, osservando invece un immobilismo diffuso e un sostanziale sperpero di denaro pubblico che nulla porta sul piano concreto. Il disastro delle New Town aquilane riflette completamente la situazione attuale: ciò che non si doveva fare è stato fatto. I soldi –che c’erano, eccome, bisogna dirlo: basti pensare ai milioni spesi per organizzare il G8 alla Maddalena– sono stati spesi male ed hanno prodotto un danno che secondo me ha raggiunto il punto di non ritorno. Almeno per ora faccio fatica a pensare che si possa recuperare se resta al suo posto una classe dirigente analoga a quella che ha gestito la situazione. Insieme ai palazzi del centro storico sono crollati anche i punti di riferimento politici e religiosi: ricordo che in Friuli, forse l’unica esperienza post-sismica non negativa nella storia italiana, fu proprio la convergenza dell’azione politica locale con quella delle autorità religiose a offrire alla popolazione il sostegno per rialzarsi; all’Aquila è mancato anche questo. Né il sindaco né il suo partito, né tantomeno il vescovo, i parroci, non tutti, si sono dimostrati vicini ai cittadini, alle loro sofferenze, cercando di trovare la soluzione più adatta all’emergenza, ascoltando anche chi era contrario. Forse se il terremoto fosse avvenuto sotto il pontificato di Papa Francesco le cose sarebbero andate diversamente. Ma davanti all’assenza di prospettive, a questa mancanza di pianificazione, di progettualità, sono molto pessimista. Per offrire un futuro all’Aquila servirebbe un leader carismatico, qualcuno che si ponesse dalla parte dei cittadini, che andasse casa per casa a spiegare le ragioni di una programmazione, non a lamentarsi semplicemente che “non ci sono i soldi”. Servirebbe qualcuno in grado di unire attorno a sé la popolazione e che fosse una spina nel fianco di chi governa, in Regione e a Roma. L’unica speranza per il futuro dell’Aquila risiede nella capacità degli aquilani di riappropriarsi della loro storia, della loro cultura, in una parola della loro città.
Pierluigi Cervellati è stato docente di restauro, recupero e riqualificazione urbana presso le facoltà di Lettere dell’Università di Bologna ed Architettura dell’Università di Venezia. Ha contribuito allo sviluppo di ipotesi di recupero, mediante l’inserimento di residenze economico-popolari, dei centri storici di Modena e Bologna, per il quale comune, tra il 1964 ed il 1980 è stato Assessore al Traffico, all’Edilizia Pubblica e Privata e all’Urbanistica. Nell’ambito del restauro architettonico è celebre per il progetto di recupero dell’Ex Oratorio San Filippo Neri a Bologna, devastato dai bombardamenti del 1944. Il progetto fu realizzato negli anni 1998-1999. (Fonte: Wikipedia)
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Jan BOCK
RICOSTRUZIONE UN MIRACOLO? NO, UNA SFIDA T
ra il 2012 e il 2013 ho vissuto per sedici mesi all’Aquila per un progetto di ricerca antropologica presso l’Università di Cambridge. Ho cercato di capire le conseguenze sociali del sisma seguendo diverse iniziative, i comitati, le elezioni comunali, il progetto dell’OCSE, la discussione sull’architettura, il processo alla Commissione Grandi Rischi e tanti altri eventi. Trovavo la stragrande maggioranza degli aquilani disponibili, impegnati e ottimisti nonostante la situazione. Al tempo stesso, però, in tanti di loro viveva la rassegnazione e la stanchezza a causa delle promesse fallite, dei progetti sbagliati e delle speranze distrutte. Personalmente ho apprezzato la possibilità di imparare qualcosa di profondo sulle sfide contemporanee in un’Europa confusa e impaurita e credo che la situazione aquilana sia uno specchio di altri contesti socio-culturali: la distruzione e la disperazione, trasformazioni profonde seguite dalle promesse politiche che cercano ancora di creare sogni, che ultimamente falliscono, con politici condannati da tutti e, al tempo stesso, costretti dai tanti che vogliono ancora credere alla possibilità di una politica di cambiamento. Probabilmente “cambiamento” era la parola più sentita durante la mia permanenza all’Aquila e questo non sorprende date le circostanze di una città dispersa e danneggiata. Però la possibilità di un cambiamento rapido in una democrazia è remota. In un libro recente “Trappola della Confidenza” (The Confidence Trap), il politologo britannico David Runciman analizza la successione delle crisi che hanno minacciato le democrazie dell’occidente dalla prima guerra mondiale. Runciman scrive che la democrazia non è un sistema stabile, rapido, ed efficace – però ha superato le sfide perché è un sistema politico che ultimamente riesce a trovare soluzioni e a cambiare il personale, autotrasformandosi senza la necessità di una rivoluzione cataclismica. Runciman afferma che le nostre democrazie riescono a “to muddle through”– improvvisare e cavarsela. Queste parole mi sembra si adattino bene anche alla ricostruzione aquilana. Un amico mi chiedeva: “Perché il governo italiano dovrebbe darci miliardi di Euro per una piccola città di provincia dove non c’è nient’altro che pecore, sassi e pensionati?” Nella sua frase era visibile la mancanza di un futuro in cui credere e la capacità di fidarsi. Forse, purtroppo, aveva ragione. In parte. La democrazia non si muove rapidamente. A Christchurch, Nuova Zelanda, dopo la distruzione da un terremoto nel 2011, c’è ancora molto da fare. Christchurch non aveva un centro storico come quello dell’Aquila, però tanti quartieri danneggiati
e inagibili rimangono vuoti, senza segni di una ricostruzione. All’Aquila, la colpa non è semplicemente degli “aquilani gufi” (come diceva, ingiustamente, l’ex ministro Fabrizio Barca) oppure dei governi italiani incapaci, ma del processo democratico di bilanciare soldi, interessi, poteri, ecc. Anche in altri paesi i processi di ricostruzione sono lenti e sconcertanti e spesso i sopravvissuti hanno dei periodi in cui non riescono a credere più nel proprio futuro. Questi, però, sono i tempi del “cambiamento” e spero che ci siano delle persone capaci di comunicare quello che, secondo me, gli aquilani già sanno: che la ricostruzione non sarà un miracolo, ma una sfida, un processo lungo, con intoppi e deviazioni. Quando vivevo all’Aquila ero affascinato da tanti che proseguivano piccoli progetti di società civile, creando bacini di attività e vivacità, nonostante tutto: studenti impegnati in progetti di architettura; artisti e attori che creavano occasioni di divertimento per la popolazione dispersa; comitati che organizzavano umoristicamente feste della non-ricostruzione; gli abitanti dell’ecovillaggio di Pescomaggiore che cercavano nuove possibilità dell’abitare; proprietari di bar e pub che cercavano di ricreare spazi di normalità urbana; i parenti delle vittime e le loro iniziative per monumenti alla memoria, la ricostruzione sicura, la verità e la giustizia; gli abitanti che andavano in centro per passeggiare tra le case danneggiate, per non abbandonare le abitudini; i partecipanti alla festa della Perdonanza Celestiniana; gli studenti che tornavano in centro ogni sera; professori che continuavano a insegnare come se l’università esistesse in una città normale; e tanti altri che vivevano la quotidianità; i bimbi andavano all’asilo, mentre la squadra aquilana giocava al rugby. Tutti esempi, e ce ne sarebbero molti di più, che hanno dimostrato la capacità degli aquilani di creare possibilità di recupero. Quindi, quo vadis? Serve un po’ di speranza e di fiducia in sé stessi. Per uno straniero come me, forse, alcune cose sono più visibili. So bene che per tanti aquilani la speranza non basta, dopo le tante delusioni. Abbiate speranza, però, non nella velocità della ricostruzione, ma nella possibilità della democrazia partecipativa di trionfare, trovando soluzioni e maniere di “to muddle through”. Quello che serve non sono sogni, ma valutazioni realistiche che offrono agli aquilani una prospettiva adeguata sul futuro. Gli aquilani si sono già rimboccati le maniche e, piano piano, la città tornerà. Ho sempre trovato gli aquilani un popolo di persone energetiche, giuste e devote e ho tanta fiducia nel loro futuro di “bella città di montagna”.
Jan Bock è nato e cresciuto in Germania e ha conseguito tre lauree dell’Università di Cambridge in antropologia socio-culturale. E’ Junior Research Fellow presso il Woolf Institute, Cambridge (Inghilterra) e il suo progetto di ricerca si occupa di relazioni interculturali e l’importanza della fiducia nelle due comunità di Roma e Berlino.
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FRANCESCO PAOLUCCI
SCARPE SPORCHE DI CALCE N
on è facile scrivere dell’Aquila, a sei anni dal terremoto che l’ha messa in ginocchio il 6 aprile 2009, raccontare ciò che è oggi e immaginarla tra qualche anno. Scarpe décolleté nere impolverate di calce bianca come le scarpe antinfortunistica da cantiere. Questa immagine, forse, può riassumerne l’anima. Non solo gli operai che lavorano nella ricostruzione tornano a casa la sera con le scarpe sporche di polvere, ma anche gli abitanti dell’Aquila che fanno una semplice passeggiata nel centro storico per non perderne la memoria e per continuare a presidiare un luogo nel quale sono state lasciate in sospeso storie, incontri, discussioni, progetti e molto altro. Una città sospesa, piena di operai sospesi sulle impalcature e di bancali sospesi sulle gru che come moderni crocifissi incorniciano la bellezza dei palazzi antichi. Per capire in che direzione sta andando l’Aquila bisogna tentare di descriverla in tutte le sue contraddizioni e particolarità attuali che la rendono unica al mondo. L’odore acre del terremoto, un misto di calce e muffa, legno e ferro, entra nelle narici di chi percorre l’asse centrale del corso che taglia in due la città. Un esercito di operai che ne riempiono le strade e i vicoli durante la pausa pranzo, uscendo dai palazzi freddi ed umidi per andare a scaldarsi, mangiando un panino, al sole della piazza centrale. Nei loro dialetti si sente tutta l’Italia, da nord a sud, alcuni invece parlano a malapena l’italiano, hanno dai diciotto ai settant’anni, ma si fa fatica a dar loro un’età, un po’ perché hanno la pelle scura e rovinata dal sole ed un po’ perché hanno tutti i capelli bianchi per la polvere. Su di una impalcatura di legno una ragazza ha scritto con un pennarello nero “Cercasi nome del muratore bellissimo”. Poi ci sono i turisti che camminano, macchine fotografiche a tracolla, guardando in aria non per ammirare le bifore aquilane o altri pregi sui palazzi storici, ma perché attratti dalle maglie di ferro dei puntellamenti che avvolgono le case; uno stormo insolito di turisti indiani confluisce in una delle piazze preceduti da un cane randagio, sempre il solito, che abita il centro storico e che fa da cicerone. Qualche caschetto giallo indossato da un gruppo di studenti, probabilmente di ingegneria o architettura, in visita ai cantieri
ed il solito plotone di pensionati che, brandendo gli ombrelli, fa la ronda lungo il corso, parlando della ricostruzione e monitorando l’avanzamento dei lavori. Ogni tanto qualcuno supera un varco e decide di entrare dove tutto è sospeso. Tranne la vita. L’assenza di quella che è la quotidianità di un centro storico ha sviluppato negli abitanti dell’Aquila una sensibilità nuova. Percorrendo, infatti, le vie di altri centri storici si viene attratti da particolari che per molti potrebbero sembrare effimeri: l’odore dei peperoni arrosto, quello del detersivo dei panni stesi, il suono della sigla di un tg da una piccola finestra, le voci di donne che discutono. Passeggiando per il centro storico dell’Aquila non è possibile vedere l’immagine di padre e figlio che all’uscita della scuola parlano di come è andata la giornata, non è possibile vedere la tabaccaia che si affaccia sull’uscio del negozio e saluta il macellaio di fronte, non è possibile vedere il panettiere che porta il pane ad un ristorante. Gesti e azioni quotidiane e semplici che adesso non ci sono più e che prima del terremoto facevano di un insieme di case una comunità. Non è facile la vita all’Aquila, ma è autentica e vera perché c’è tutto da rifare. C’è bisogno di scrollarsi di dosso l’estetica della distruzione e del dolore alla quale dopo sei anni si rischia di abituarsi; c’è bisogno di riportare i negozianti in centro storico e rendere viva la città tutto l’anno; c’è bisogno di costruire da zero un rapporto tra il centro e la periferia che è sempre mancato e che ora diventa necessario dopo l’espansione forzata della città; c’è bisogno di resistere e di credere che tra dieci, quindici, venti anni l’Aquila sarà una città nuova, sicura e bella; bisogna fare il possibile affinché i ragazzi non vadano via e possano lavorare nei settori nei quali questa città eccelle: la cultura ed il turismo. Eppure, all’Aquila, è palpabile già da adesso una forte volontà di riscatto: alcuni giovani aprono, con molta difficoltà, attività commerciali nel centro della città (librerie, pub, piccoli negozi di abbigliamento, ristoranti) e in diversi giorni della settimana il centro si riempie di studenti universitari che ridono e bevono vino in una piazza tra un camion di un’impresa, una gru di trenta metri e palanche di legno trasformate in tavoli e panchine. Le scarpe di questi ragazzi sono sporche di calce.
Giornalista professionista, regista e autore satirico ha raccontato il post terremoto dell’Aquila ora in chiave ironica, ora in chiave documentaristica con reportage rivolti soprattutto al mondo del web. Ha realizzato un lungometraggio di finzione sulla disabilità “La mano nel cappello” e ha curato la regia di reportage, cortometraggi, videocliop e spot. Ha collaborato come giornalista per l’Ansa e altri siti di informazione e diversi reportage sono stati pubblicati su testate nazionali come Repubblica, L’Unita e Radio Rai 3. Presidente dell’Associazione Culturale “Ricordo” impegnata in attivita ricreative e di formazione nel campo della scrittura creativa, teatro, musica e audiovisivi.
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ANNA MARIA GIANCARLI
Quando il tempo s’inchioda A
lle 3:32 del 6 aprile 2009 una convulsione incontenibile stringe L’Aquila in una morsa incomparabile, la fa paurosamente ondeggiare, la contorce per trenta interminabili secondi. Non può resistere ad un attacco così mostruoso la città antica, ricca di mirabili opere artistiche ed architettoniche e custode della vita civile ed operosa dei suoi abitanti, in secoli di storia. Si sbriciolano case, palazzi, chiese e cortili, portali e finestre, opere d’arte, organi storici, archivi, biblioteche, uffici, teatri, negozi, affreschi, fontane. Cadono campanili e cupole e le macerie invadono le deliziose vie del centro storico, fra i più estesi d’Italia. Si spezzano, sotto il peso del cemento e delle pietre, trecentonove vite e oltre millecinquecento feriti affollano l’ospedale, eroicamente trasferito e rimontato all’esterno a causa dei danni subiti nella notte famelica. Il tempo si ferma Il tremendo furore scuote anche le menti, lacera vissuti, crea angoscia e smarrimento, rompe i flussi del pensiero e dell’azione, sposta la stessa cognizione del tempo e produce una frattura radicale fra il “prima” e il “dopo”, insieme ad una sovrapposizione di piani esistenziali, percepiti, da quel momento, come mondi separati. Muta radicalmente il paesaggio interiore con il cambiamento sur/reale delle forme, dei vuoti, delle linee, dei volumi, della irriconoscibile composizione dello spazio esterno, lungamente interiorizzato. E cambia passo il tempo Da allora il tempo è un gioco di tragici, a volte affascinanti, ribaltamenti con gemme di prefigurazione del futuro. La città è sospesa, un tempo metafisico l’avvolge e s’impadronisce del suo corpo mutato. Nella memoria fluttuano morti, perdite irreparabili, mentre si intrecciano scambi temporali col presente. Il tempo è realisticamente avvinghiato allo smarrimento ed alla presa di coscienza che una manciata di secondi ha ingoiato il tempo passato ed ha ipotecato il tempo futuro con la sua scia di silenzio.
E danza il tempo vuoto dell’attesa Attesa nel lento esilio dalle proprie case, dalla propria città. Spasmodica attesa di decisioni, di leggi, di norme, di volontà di ricostruzione, di assunzione di responsabilità. L’attesa ora imprime senso al tempo. Si misura la durata dell’attesa, con il tempo della propria vita. L’attesa è lunga, spesso insostenibile. Allora il tempo si srotola all’infinito, appare un lungo nastro che non fa intravedere la fine, uno spazio impercorribile che blocca il respiro, trattiene il passo e genera l’ansia di condensarlo, di accorciarlo, di velocizzarlo nel suo incessante fluire eracliteo. E urge il tempo che dischiude la rosa, che matura il grano, che indora l’uva È il tempo pieno del capire, del fare, del toccare le macerie, del camminare sui sampietrini sconnessi della città, di vedere tutto ciò che ci è stato occultato con l’interdizione ad entrare in zona rossa, cioè in tutto il centro storico. Il dolore segna i percorsi, misto alla rabbia, alla ribellione contro le mani rapinose sulla città, le iene ridentes, i potenti di turno, le complicità della scienza, gli spettacoli mediatici, il cinismo dei profitti, l’indifferenza di troppi, nonostante l’enorme solidarietà dimostrata a livello nazionale ed oltre. Il tempo si contorce La città territorio, fiorita nel verde, è sfigurata anche nel suo paesaggio periferico dalla barbarie di invasioni di cemento a caro prezzo, ideata dal cavaliere in passerella. È il tempo di dissipare le menzogne d’una città ricostruita, di smascherare i furti, di manifestare le verità. Per resistere nel tempo in agonia ci vestiamo di rivolta. È un lungo tempo quello che ci aspetta, tutto da tessere, da inventare, da vivere ad occhi spalancati, da spolverare di utopia, da segnare e con/segnare con decisione in tutta la sua reale contorsione. È il tempo della testimonianza d’un tempo caotico, sfuggente ad ogni presa, d’un tempo denso, immenso nella sua statica fulmineità.
Dopo una intensa attività politica e di docente, si è dedicata completamente alla scrittura, soprattutto poetica. Ha pubblicato undici libri di poesia e varie antologie. Suoi testi sono stati tradotti nelle lingue romena, spagnola, serba ed inglese e, soprattutto, sono stati utilizzati da vari maestri, tra cui Fausto Razzi, per composizioni musicali eseguite più volte in pubblico. È presidente dell’Associazione culturale “Itinerari Armonici”, con la quale realizza iniziative multimediali, tra cui Poetronics (Poesia elettronica, alla sua XVII edizione) e lapoesiamanifesta! (Giornata mondiale della poesia, 21 marzo – alla sua II edizione). Per la casa editrice Tracce di Pescara cura la collana “Segni del suono”, nella quale sono presenti prestigiosi poeti (Spaziani, Sanguineti, Lunetta, Binga, Muzzioli, Pignotti ed altri). Presente in molte antologie, in quotidiani e trasmissioni radiofoniche e riviste nazionali. Ha partecipato a numerosi reading e importanti manifestazioni e festival nazionali ed europei
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COSTA DEI TRABOCCH
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CCHI, ULTIMA FERMATA Il Parco nazionale della costa teatina è finalmente in dirittura d’arrivo e subito viene presentata un’altra proposta: un parco marino, come unico strumento utile a scongiurare insediamenti petroliferi nelle acque abruzzesi. A quando la prossima “tela di Penelope”?
La suggestiva costa teatina vista dal drone foto Azurmuvi - Enrico Di Nenno
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Quando una ferrovia allunga la vita. Il tracciato adriatico, durante la Seconda Guerra ha dato rifugio, sotto la galleria dell’Acqua Bella, agli ortonesi minacciati dai bombardamenti. Negli anni della ricostruzione ha protetto la splendida costa dall’erosione del mare e dagli abusi edilizi di Luciano Di Tizio
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accontiamola tutta: se oggi si può ancora parlare, come un secolo fa, di costa dei trabocchi e si può sperare in un futuro verde per una consistente parte del litorale in provincia di Chieti, il merito è tutto della ferrovia adriatica. I binari, che sino a pochi anni or sono correvano paralleli alla linea di costa, hanno rappresentato una formidabile opera di difesa, dagli assalti del mare e da quelli della speculazione. Altrove, dove la linea ferrata era stata costruita appena un po’ più lontana dalla costa, il mare è stato preso d’assalto. Il Novecento sarà ricordato anche per questo: per una concezione urbanistica basata su una selvaggia occupazione del suolo, senza rispetto per l’ambiente, per la bellezza, per gli interessi della collettività. Proprio in Abruzzo prende corpo un poco lusinghiero neologismo, la francavillizzazione, che sta a indicare–appunto la cementificazione senza freni, spinta sino a cancellare le onde persino dalla vista dei passanti. Per lunghi tratti, a Francavilla “al Mare”, neppure esiste un lungomare, una passeggiata che altrove rappresenta una residuale concessione al buon gusto, utile anche a chi, in virtù del dio denaro, ha di fatto favorito la privatizzazione della costa costruendo o acquistando case persino sulla sabbia. A sud della provincia, tra Ortona e San Salvo, c’era invece il treno. Costruire sui binari non si può, non per ora almeno. Così le bellezze di un paesaggio mozzafiato si sono in gran parte conservate. Alte falesie alternate a costa bassa, con sabbia o ciottoli e con frequenti fasce dunali più o meno estese. Uno scrigno che ora, da quando i convogli non sfrecciano più di continuo a due passi dalla riva e da quando la linea ferrata è stata coscienziosamente rimossa, offre spazi per una graduale eppure rapida riconquista da parte della natura. Piante preziose, sopravvissute in piccole nicchie, guadagnano nuovi siti, animali anche inattesi allargano il loro habitat, la biodiversità avanza e si consolida. C’è chi afferma una sostanziale povertà della costa dei trabocchi, troppo antropizzata –dicono– per poter essere un credibile parco nazionale. Affermazioni prive di sostanza, giustificate solo dal quel singolare fenomeno, così tanto diffuso tra noi abruzzesi, che ci rende pronti a esaltare ciò che è o viene da lontano e non quello che abbiamo sotto casa. Vizio antico. Il poeta dialettale Renato Sciucchi (1912-1974), feroce censore delle vita provinciale, lo denunciava già negli anni 50, quando raccomandava ai suoi concittadini, se volevano essere apprezzati, di andare altrove, magare a lu Giappone. Il nemo propheta in patria dei latini vale insomma
anche per la natura. Un litorale incontaminato ai tropici o almeno sulla riviera sarda ci fa commuovere e siamo disposti a lunghe e a volte scomode passeggiate pur di essere ammessi a tanta bellezza. Il mare di Punta Aderci e la sua spiaggia nulla hanno da invidiare a quelle coste da cartolina illustrata, ma c’è polemica perché in quell’area protetta giustamente è vietato arrivare in macchina sino all’ombrellone! Una splendida geodiversità, con un paesaggio mai uguale a se stesso, boschi planiziali miracolosamente sopravvissuti lungo le foci dei fiumi, sorgenti di acqua dolce che sgorgano a due passi dal mare, piccole cale frequentate da sempre da pescatori-contadini capaci di inventare una particolarissima comunità marino-rurale, fatta di piccola pesca e di agrumeti, unici in Abruzzo, che tuttora incoronano la costa. E insieme una biodiversità ricca e fonte di continue nuove scoperte. È del 2010 la prima citazione ufficiale in una pubblicazione della presenza di un piccolo prezioso anfibio, la salamandrina dagli occhiali, trovata nel Fosso delle Farfalle, a due passi dal mare. Era noto, sul versante adriatico, solo in alta collina e in montagna, ma nei valloni della costa teatina la flora e la fauna d’altura, favoriti da condizioni geomorfologiche non comuni, si affacciano normalmente verso la costa, quasi a voler rimarcare la valenza di quel territorio che rappresenta un patrimonio di tutti, non un susseguirsi di aree edificabili da sacrificare all’interesse di pochi. Questo territorio, del resto, è stato sempre usato dall’uomo, dai pescatori-contadini ma non solo: i resti di insediamenti preistorici, le abbazie e i monasteri sul mare, sono segnali antichi della nostra presenza. Discreta e rispettosa nei secoli andati. Minacciosa, chiassosa, devastante negli anni di quelli che sono passati alla storia come quelli del boom economico, quando sembrava che tutto ci fosse dovuto e che mai e poi mai avremmo pagato il fio dei nostri errori. I cambiamenti climatici, l’instabilità di un suolo troppo caricato di cemento, il sostanziale fallimento di un sistema economico basato solo sul dio denaro ci stanno dimostrando giorno dopo giorno che ci eravamo sbagliati. La sorte, sotto forma di una linea ferrata che ha inibito per oltre un secolo ogni appetito speculativo proprio nel tratto geomorfologicamente più bello, vario e ricco di biodiversità della costa abruzzese, ci offre una seconda possibilità, anche per sperimentare una economia diversa, non impattante e forse con un futuro migliore. Vogliamo davvero sprecare questa occasione?
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L’Adriatico è il “grande malato” di cui prendersi cura prima di ogni altra cosa. Sul mare incombe la minaccia degli idrocarburi, e sulla terraferma l’assenza di una programmazione ambientale e urbanistica sostenibile di Tommaso Di Biase
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l caso, spesso determinante nello sviluppo storico dell’umanità, ha posto il Mediterraneo al centro delle vicende che sono a fondamento della nostra civiltà e della nostra cultura. Una civiltà della quale ci sembra oggi di non riuscire ad essere pienamente consapevoli e degni, e le cui tracce, anche quando sono ancora presenti o vive nella memoria, non riusciamo più a vedere e di conseguenza a seguire. La civiltà della polis, fondata sulla democrazia e la conoscenza, dopo più di duemila anni è lontana dal suo compimento, al contrario è attaccata e messa in crisi proprio nei suoi elementi qualificanti. Ne sono prova la devastazione prima di tutto civile delle città, dello spazio pubblico delle città, sminuite dalla mancanza di coscienza del loro significato da parte della politica e degli stessi cittadini abitanti; caratterizzate dalla permanenza di profonde disuguaglianze urbane e di continui conflitti e dalle sofferenze materiali e psicologiche che ne derivano. Il mare, lo spazio pubblico comune alle regioni che affacciano sull’Adriatico, è il grande malato di cui prendersi cura prima di ogni altra cosa. In particolare, proprio l’Adriatico è una delle aree più a rischio del Mediterraneo per la presenza delle maggiori rotte navali per il trasporto di petrolio verso il nord. Il rischio e la minaccia derivante dal rilascio accidentale di petrolio, o di altre sostanze tossiche e pericolose, può avere conseguenze disastrose
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per il delicato ecosistema e per le attività economiche basate sulle risorse marine. Il più forte dei “No” alla petrolizzazione e a tutte le Ombrine che vogliono piantarsi a due passi dalle nostre coste non sarà sufficiente a salvare questo mare. Come sostiene l’economista Nicola Cipolla: “il passaggio dalle fonti fossili alle fonti rinnovabili è il passaggio epocale da compiere, come l’avvio della rivoluzione industriale basata sul carbone, sul petrolio e sulle altre energie fossili.” Tale passaggio non è scontato e può essere il frutto solo di una nuova consapevolezza globale e soprattutto di una politica che sappia interpretarla. Il territorio abitato costiero, di tutta la costa che affaccia sull’Adriatico, è il risultato di una costante contaminazione. La sua fondazione è però classica. Classica come il sud e l’est. Da lì veniamo, figli in fuga con i propri padri sulle spalle. Le città di fondazione delle nostre coste hanno retto l’impatto di irruenti e sanguinosi conflitti per secoli, fino alla metà del Novecento, poi sono letteralmente esplose e si sono perse nell’urbanizzazione infinita del mondo contemporaneo, il nostro mondo. Le città nelle quali viviamo sono in gran parte aree urbanizzate indistinte, diffuse, senza qualità e senza soluzione di continuità; nella loro espansione incontrollata e continua divorano suolo, energia, risorse. La questione urbana è oggi una questione epocale. Le città, paradossalmente rappresentano non la razionale soluzione ma la fonte principale dei problemi insediativi e relazionali della nostra epoca. Per il nostro futuro sono la sfida – che – comprende – tutte – le – sfide: sociali, energetiche, ambientali, culturali, etniche. Assumere la questione urbana come rilevante tema politico equivale quindi a darsi l’obiettivo della ricostruzione del senso collettivo della città e concretamente dei luoghi civili e comunitari che producono tale senso. Significa porsi nella direzione della piena realizzazione della politica che ha generato la nostra antica cultura. Insieme ai sacrosanti “No” a tutte le Ombrine allora è necessario dire dei “Sì” a concreti progetti sostenibili di rigenerazione delle città adriatiche, per farne delle moderne creative polis.
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ABRUZZESI IN EXPO S Nella straordinaria vetrina nazionale e internazionale sono molti i protagonisti regionali che sono stati scelti per contribuire alla buona riuscita della fiera e dare un’immagine di grande qualità all’Italia. Dalla Proger che ha partecipato alla realizzazione del padiglione Italia a Angelo Fabbrini, che ha fornito e preparato il pianoforte per il concerto inaugurale di Lang Lang in Piazza Duomo, e la Valagro, main sponsor della mostra sull’innovazione nell’alimentare allestita al Museo “Da Vinci”. Per non parlare de Il tesoro d’Italia, l’esposizione curata da Vittorio Sgarbi, in cui spicca la prestigiosa collezione privata sull’8oo italiano di Venceslao Di Persio
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L’arte italiana come nutrimento per lo spirito: è il tema della mostra, curata da Vittorio Sgarbi, che ha aperto i battenti all’interno di Expo 2015 e che annovera parecchie opere di artisti abruzzesi, numerose delle quali provenienti dalla collezione privata di Venceslao e Rosanna Di Persio
di Giorgio D’Orazio
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è anche il prezioso contributo dell’Abruzzo dell’arte nella bella mostra Il Tesoro d’Italia, allestita fino al 31 ottobre all’interno dell’Expo di Milano e aperta tutti i giorni, dalle ore 10 alle 23 con ingresso gratuito. Curata da Vittorio Sgarbi, l’esposizione racconta la biodiversità dell’arte italiana dal Trecento al Novecento, attraverso 200 e più opere, tra pittura e scultura, provenienti da tutte le regioni del Belpaese. Giacomo da Campli, Nicola da Guardiagrele, Saturnino Gatti, Francesco Paolo Michetti e Teofilo Patini sono alcuni dei nomi degli artisti scelti da Sgarbi, con un’opera ciascuno, per rappresentare la nostra regione e il talento artistico dei suoi autori in Expo, ma ci sono anche le opere di Mario de’ Fiori, scelto per il Lazio ma originario di Penne dove nacque nel 1603, e di Nicola Filotesio, alias Cola dell’Amatrice, contemplato nelle Marche ma nato ad Amatrice nel 1480. L’ambizione della mostra, ha spiegato Sgarbi con le note di curatela, è quella di segmentare una materia complessa come la “geografia artistica italiana” per far emergere le peculiarità della produzione di ogni regione, avendo come riferimento il metodo indicato nel secolo scorso dal maestro Roberto Longhi, concentrato sullo studio dell’arte come geografia e storia dell’arte italiana, al fine di riconoscere caratteristiche e peculiarità di ogni parte d’Italia. «Dalla Valle d’Aosta alla Sicilia» ha osservato il curatore «si può così documentare la varietà genetica di alcuni grandi capolavori concepiti da intelligenze, stati d’animo, emozioni che indicano la natura dei luoghi che li hanno generati, restituendo quale immagine dell’Italia un mosaico da cui esce un’unità costruita sulla varietà, perché l’Italia è una e divisibile, e così si mostra in un’esposizione senza precedenti». Ecco che nel percorso si possono allora ammirare capolavori come “Cena in Emmaus” di Agostino da Lodi o “Davide con la testa di Golia” di Tanzio da Varallo, la “Madonna dei Denti” di Vitale da Bologna e il “San Paolo” di Masaccio, la “Virgo advocata” di Antonello da Messina, una “Vergine” di Guido Reni e il “San Girolamo” di Donatello, “Cristo in pietà” di Giovanni Bellini o il “Ritratto di Pietro Aretino” di Tiziano, “Agar e Ismaele” di Mattia Preti o una “Veduta ideale” di Canaletto,
senza contare opere notevoli tra Otto e Novecento di autori come Boldini, Induno, Casorati, de Nittis, Carrà, Balla, Severini, de Chirico, Morandi, Burri, Savinio, Gemito, Boccioni, Sironi e Guttuso. Tutte le opere sono state prestate da importanti musei e istituzioni italiane, dagli Uffizi di Firenze al museo di Capodimonte di Napoli, dall’Accademia di San Luca di Roma alle gallerie nazionali di Urbino e Parma, ma soprattutto sono stati pescati da Sgarbi in giro per l’Italia, quei “tesori segreti”, come ha spiegato il curatore, provenienti da luoghi meno accessibili, come raccolte civiche e chiese di borghi nascosti oppure ricche collezioni private: Molinari Pradelli, Luzzetti, Koelliker, Ricci e non ne manca una abruzzese, dove Sgarbi è piombato proprio la notte di Natale del 2014, scegliendo moltissime opere e ottenendo in prestito ben 10 quadri –quantitativamente si tratta della più ingente delle concessioni– firmati da prestigiosi maestri italiani. Si tratta della raccolta pescarese dei coniugi Venceslao e Rosanna Di Persio, nota ai più perché al centro di un annoso contenzioso con la locale Soprintendenza in merito alla realizzazione di un museo nella ex Banca d’Italia di Pescara, acquistata dai Di Persio allo scopo di esporre in permanenza e gestire, tutto a proprie spese, l’ingente raccolta d’arte. Talmente importante da poter concedere in prestito a questa significativa mostra per Expo, capolavori di Guido Cagnacci, Telemaco Signorini, Michele Tedesco, Antonio Mancini, Silvestro Lega, Attilio Pratella, Michele Cammarano, Gioachino Toma, Anton Sminck van Pitloo e del nostro Francesco Paolo Michetti, del quale è esposto un piccolo ma entusiasmante “Autoritratto” databile agli anni ‘70, uno dei tesori abruzzesi in mostra. Gli altri sono una Sant’Anna Metterza dell’Arcivescovado di Chieti-Vasto, scultura in legno del primo XIV secolo, la “Madonna del Latte” di Giacomo da Campli, vivente tra il 1461 e il 1479, tela del ‘400 custodita nella parrocchia di Santa Maria in Platea di Campli, il prezioso “Ostensorio di Francavilla” di Nicola da Guardiagrele (1388-1456/9), che appartenne al Tesoro di San Franco in Francavilla al Mare, le quattrocentesche sculture lignee di San Sebastiano, la prima del Museo Nazionale d’Abruzzo (L’Aquila) di Saturnino Gatti (1463-1518), la seconda proveniente da Lucoli e attribuita ora a Gatti ora a Giovanni di Biasuccio
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(nato intorno 1435); e ancora la “Flagellazione” del Maestro del retablo di Bolea, tela del ‘500 custodita dal Museo capitolare di Atri che è stata attribuita a Pedro de Aponte, “Vico Paradiso” di Teofilo Patini (1840-1906) dall’omonima Pinacoteca di Castel di Sangro, la piccola scultura “La Scannese” di Costantino Barbella (1852-1925), prestata da un privato di Pescocostanzo, la veduta “La Majella” di Michele Cascella (1892-1989), anch’essa del Museo Nazionale, e poi, a latere, la Bolla della Perdonanza celestiniana datata 1294 e storicamente depositata nel Palazzo Comunale a L’Aquila. Fuori mostra non manca una ricognizione, curata sempre da Sgarbi, sulla contemporaneità dalle regioni italiane. Due percorsi espositivi, il primo sugli artisti contemporanei di ogni regione d’Italia con, per l’Abruzzo, Alberto Di Fabio e la sua “Sinapsi blu + Galassie”, e poi il secondo, sull’immagine dell’Italia attraverso la fotografia, in cui la nostra regione è rappresentata da Nicola Smerilli.
Nelle pagine precedenti: Vittorio Sgarbi esamina il catalogo della collezione con Venceslao Di Persio. A fianco, F.P.Michetti, Autoritratto (1870). In questa pagina Sgarbi davanti a La verità di Antonio Mancini, una delle opere della collezione Di Persio esposte nella mostra Il tesoro d’Italia. Qui a fianco, il San Sebastiano di Giovanni Di Biasuccio
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VALAGRO, cibo e ricerca di Clori Petrosemolo
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resce la popolazione, cambiano le abitudini alimentari e il mondo si trova a dover affrontare due grandi problemi: la necessità di un aumento della produzione alimentare e la sostenibilità delle pratiche agricole. Sono i temi al centro dell’Expo di Milano, e sono al centro anche delle attività di Valagro, azienda multinazionale abruzzese leader nel settore dei fertilizzanti che investe in ricerca e sviluppo una considerevole fetta delle sue risorse. È per questo che Valagro ha supportato attivamente, in qualità di main sponsor, la mostra #FoodPeople, allestita a Milano nelle sale del Museo Nazionale della Scienza e Tecnologia “Leonardo Da Vinci” e incentrata sull’innovazione in campo alimentare. «Abbiamo aderito con entusiasmo alla realizzazione di questa mostra, perché affronta con una straordinaria affinità di visione temi che ci stanno particolarmente a cuore e animano la nostra attività» ha dichiarato Giuseppe Natale, CEO del Gruppo Valagro. «Da sempre, infatti, Valagro si impegna nella ricerca e sviluppo di soluzioni innovative ed efficaci per la nutrizione e il benessere delle piante, migliorando la produttività e la sostenibilità delle coltivazioni. I biostimolanti sono un elemento indispensabile perché ottimizzano la produttività in agricoltura, che è ciò di cui il mondo ha oggi sempre più bisogno: la sostenibilità ambientale unita alla certezza dei raccolti. Questo significa utilizzare l’innovazione scientifica per ottenere raccolti più abbondanti e di migliore qualità, utilizzando meno risorse preziose e deperibili e meno mezzi tecnici. Temi che oggi diventano più che mai attuali e di grande rilevanza per il futuro di tutti, perché strettamente connessi al bisogno primario di nutrirci e di nutrire il Pianeta, la sfida globale che condividiamo con Expo 2015». Obiettivo di #FoodPeople è rendere il visitatore consapevole dell’importanza che la scienza e la tecnologia rivestono all’interno del sistema alimentare e quindi nella vita di tutti noi. Articolata in due percorsi che si sviluppano su oltre 700 metri quadrati di esposizione, la mostra esplora nel primo le attività del sistema alimentare e le innovazioni scientifico-tecnologiche che l’hanno attraversato negli ultimi 150 anni, modificando il nostro modo di produrre, trasformare e consumare il cibo; nel secondo getta
lo sguardo sul futuro del cibo a partire da domande che sorgono spontanee in tutti noi e che esperti di diversi settori aiutano a mettere a fuoco. Tre laboratori interattivi su Alimentazione, Genetica e Biotecnologie completano il progetto. In particolare, all’interno del primo percorso, Valagro testimonia, in un’isola tematica dedicata, l’origine e i benefici dei biostimolanti come mezzo efficace per lo sviluppo di un’agricoltura sostenibile, e nell’isola dedicata al tema del Nutrimento delle piante, una giovane ricercatrice in biologia marina è la protagonista di una video-installazione multimediale che racconta la storia di Valagro e accompagna i visitatori alla scoperta dell’alga bruna Ascophyllum nodosum e delle sue straordinarie proprietà, che sono alla base dell’efficacia dei biostimolanti. La mostra, inaugurata lo scorso 22 aprile, resterà aperta al pubblico fino alla fine del 2015 e sarà visitabile negli orari e con il biglietto del Museo. Tutte le informazioni sono disponibili sul sito web del Museo all’indirizzo www.museoscienza.org/foodpeople.
UN ANGELO AL MUSEO
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alagro ha anche sostenuto l’installazione, in una delle sale del Museo “Leonardo Da Vinci”, dell’opera di Angelo Colangelo “Acropoli”, ultima produzione dell’artista abruzzese. Scrive Cecilia Casorati: “La storia artistica di Angelo Colangelo è segnata da una straordinaria coerenza concettuale e, insieme, da una sorprendente capacità di riflettere i mutamenti del mondo. Credo sia impossibile leggere in un’unica opera la felice complessità della sua poetica. […] L’acropoli è il luogo più alto e fortificato della polis greca. Una visione che racconta una gloria remota, immobile, che appartiene al passato, la cui bellezza risiede non tanto nella forma e nell’ornamento, quanto piuttosto nel mistero che racchiude. Acropoli è lo sguardo dolorosamente ironico dell’artista sulla contemporaneità, su una realtà che costruisce colonne fragili, colonne fatte di cenere”. A lato una sala del Museo Da Vinci in cui è allestita la mostra #FoodPeople. Sopra l’opera Acropoli di Angelo Colangelo
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ABITARE LA TERRA C’ erano nel neolitico. C’erano fino agli anni ’60 del secolo scorso anche dalle nostre parti, in Abruzzo, e in Piemonte, Marche, Basilicata, Sardegna. Ci sono ancora oggi nel mondo, in misura tutt’altro che trascurabile: secondo stime dell’UNESCO, un terzo della popolazione mondiale, una bazzecola di 2 miliardi e più di persone, abitano in case tirate su con il più diffuso, economico ed ecologico dei materiali da costruzione: la terra. Le case costruite con un impasto di terra, paglia e acqua fanno dunque parte da millenni del paesaggio abitativo ed architettonico, ed ancora oggi costituiscono in molte parti del mondo una risposta efficace ed economica ai problemi dell’abitare. In alcuni paesi europei (Gran Bretagna, Austria, Germania, Svizzera, Italia), in Sud Africa, Canada e Stati Uniti, l’uso edilizio e architettonico della terra cruda sta vivendo un momento di grande favore, soddisfacendo ottimamente le sempre più diffuse esigenze di economicità e di compatibilità ambientale. Quale che sia la tecnica e la forma scelta (mattoni o blocchi) la terra cruda è traspirante, igroscopica, permeabile al campo elettromagnetico naturale, esente da fenomeni di accumulo di elettricità statica, fonoisolanti (grazie all’elevato spessore e peso), buoni accumulatori di calore e di frescura, molto resistenti. Dal punto di vista ecologico, la terra cruda ha anche il vantaggio di essere una materia prima abbondante e di avere bassissimi consumi energetici nella costruzione degli edifici. Dopo la demolizione può essere riutilizzata o smaltita senza problemi. Insomma, le case di terra cruda sono una cosa seria, tutt’altro che un fenomeno
residuale, e di grande portata storica, sociale ed economica. L’Abruzzo è una delle regioni italiane maggiormente interessate al fenomeno. Il censimento promosso dalla Regione, realizzato tra il 1996 e il 1999, ha documentato l’esistenza di un patrimonio di circa 800 edifici in terra cruda dislocati in oltre 40 comuni abruzzesi. La Regione Abruzzo è intervenuta anche con provvedimenti legislativi, nel 1997 e nel 2001. Per alcuni anni, la Regione ha sostenuto finanziariamente i progetti di ristrutturazione, conservazione e riutilizzo delle case di terra. Poi, da dieci anni a questa parte, assenza totale dell’istituzione regionale, ma negli ultimi tempi qualcosa si sta muovendo. «Oggi, dopo anni di disinteresse, sembra che la “strategia dell’attenzione” della Regione Abruzzo nei confronti delle case di terra, stia riprendendo vigore», dice l’architetto abruzzese Gianfranco Conti, uno dei massimi esperti italiani delle costruzioni in terra cruda, presidente dell’associazione Terrae onlus, coordinatore del CED-Centro di Documentazione sulle case di terra, ideatore e organizzatore della Festa della Terra che ogni anno richiama centinaia di studiosi ed appassionati a Casalincontrada. Nel 2004, l’architetto Conti fu scelto dal Ministero degli Esteri a far parte della task force inviata in Iran, dove mesi prima un tremendo terremoto aveva distrutto la cittadella storica di Bam, famosa per le sue case in terra cruda. Insomma, un esperto di caratura internazionale. Per il suo tramite l’Associazione Internazionale Città della Terra Cruda, di cui Conti è uno dei dirigenti di maggior peso, ha sottoscritto con la Regione Abruzzo un Proto-
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E A SETTEMBRE C’È LA FESTA A Casalincontrada una settimana di workshop, dibattiti, seminari, laboratori, spettacoli, reading e un concorso fotografico “globale”. Tema: la terra cruda.
L’intesa Regione Abruzzo-Città della terra cruda per rilanciare la tutela e la valorizzazione anche turistica di un patrimonio architettonico forse sottovalutato collo d’intesa, presentato pubblicamente lo scorso 3 luglio, per l’attivazione di un programma di collaborazione sui temi dell’architettura in terra cruda. Quali sono i principali punti dell’intesa? «Inserire, tra gli obiettivi dei prossimi bandi regionali, il recupero e la valorizzazione delle case di terra prevedendo misure che vedano come beneficiari privati cittadini, amministrazioni pubbliche e società pubbliche-private. Promuovere studi di fattibilità di valorizzazione del patrimonio in terra cruda in programmi di rigenerazione rurale e progetti incoming per il turismo rurale. Di particolare importanza, inoltre, mi sembra l’ inserimento della tradizione del costruire in terra nei programmi per lo sviluppo sostenibile in edilizia e nei programmi di educazione ambientale, attivando anche programmi di ricerca con le università abruzzesi». Un programma impegnativo. «Ma fattibile. Comunque, questo risveglio d’interesse della Regione è di enorme importanza, e non solo per l’Abruzzo». Avete finalmente trovato interlocutori sensibili al tema… «L’assessore all’ambiente, l’architetto Mario Mazzocca, ha dimostrato grande attenzione e sensibilità. Mi sembra doveroso dargliene atto». Chi avrà la responsabilità di rendere operativo il Protocollo d’intesa? «Sarà costituito un Gruppo di lavoro tecnico composto da esperti indicati dalla Regione e dall’Associazione Città della Terra Cruda sui temi del recupero e riuso del patrimonio edi-
È da quasi vent’anni (19 per l’esattezza) l’appuntamento da non mancare per tutti coloro che s’interessano alle costruzioni in terra cruda. La “Festa della terra” torna puntuale anche quest’anno, dal 14 al 20 settembre, a Casalincontrada, il delizioso borgo collinare dell’entroterra chietino che diede i natali a Cesare De Lollis. Ed è proprio nella bella Villa De Lollis, oggi di proprietà comunale, che si svolgeranno molti degli appuntamenti della Festa: seminari, convegni, workshop, dibattiti, presentazioni, spettacoli. Altra sede delle attività della Festa sarà Borgocapo, una vecchia casa di terra splendidamente restaurata dagli architetti Gianfranco Conti e Stefania Giardinelli, coppia nel lavoro e nella vita. Nel corso della Festa della terra avverrà la premiazione del 13° concorso fotografico “Case di terra, paesaggio di architetture”, cui partecipano decine di fotografi di ogni paese con immagini di edifici in terra cruda scattate in ogni angolo del mondo. L’organizzazione della Festa è dell’Associazione Terrae Onlus per conto del CEDCentro di documentazione sulle case di terra del Comune di Casalincontrada. Un edificio in terra cruda nelle colline abruzzesi. A destra, l’architetto Gianfranco Conti
lizio tradizionale in terra cruda e più in generale sulla pianificazione territoriale, progettazione e costruzione sostenibile». Se dovesse dirlo in soldoni, a quale risultato di fondo mirate? «Al riconoscimento pratico e culturale di un patrimonio di valori naturalistici, architettonici e artistici costituito nel tempo intorno all’edificazione in terra cruda». Può specificare alcuni di questi valori? «Intanto l’uso di tecniche costruttive a basso costo e di materiali a impatto zero dal punto di vista ambientale ed energetico. In secondo luogo, essendo la costruzione in terra cruda un fenomeno storicamente e prevalentemente rurale, la conservazione di quel patrimonio aiuta a meglio definire lo spazio urbano e il suo rapporto con il restante territorio. Infine, ma non meno importante, la definizione e il rispetto degli equilibri ecosistemici». Come si possono valorizzare turisticamente le case di terra? «Un esempio può essere quello del cosiddetto turismo esperienzale. Il turista, cioè, può venire da noi e trascorrere alcuni giorni facendo l’esperienza diretta, fisica, di fare l’impasto di terra, acqua e paglia, sagomare i massoni e tirar su un muro. Questa esperienza di sicuro interesse può essere integrata con visite guidate alle case di terra, itinerari enogastronomici, artigianali e artistico-culturali nel territorio di riferimento. Si tratta comunque di nuove forme di turismo che noi abbiamo già sperimentato con successo». Franco Potere 27
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TUA TRASPORTO UNICO ABRUZZESE
REGIONE VERDE E COLLEGATA D’EUROPA Superare definitivamente lo storico isolamento, vero freno per lo sviluppo dell’Abruzzo, è l’obiettivo dell’Azienda Regionale dei trasporti. Alla guida della nuova “Formula Tua” c’è Luciano D’Amico, magnifico rettore dell’Università di Teramo e progettista, preparatore e pilota del cambiamento di Claudio Carella
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hi si ferma è perduto. In questa fase di “grossa crisi”, e soprattutto in un momento di politica dell’austerità, l’Abruzzo ha puntato su un settore strategico –quello dei trasporti– per il rilancio della regione, non solo da un punto di vista economico. E per una volta il veicolo non è partito in ritardo: il progetto “TUA” (acronimo che sta per “Trasporto Unico Abruzzese”) è stato realizzato con sorprendente rapidità dalla giunta D’Alfonso, che fondendo insieme le tre società regionali di trasporto pubblico (Arpa, Gtm e Sangritana) ha portato alla creazione di un’azienda che, forte di un organico di 1600 dipendenti, 890 autobus e 30 convogli ferroviari per un fatturato di circa 140 milioni di euro, si configura come la sesta in Italia per numero di chilometri percorsi (poco meno di 40 milioni/anno) e si prepara a diventare a tutti gli effetti un player di livello nazionale. E a trasportare l’Abruzzo verso l’Europa. A guidare questo processo è stato designato Luciano D’Amico, uno dei personaggi emergenti della cultura e dell’economia abruzzese, che ha dimostrato sul campo le sue capacità di gestire sistemi complessi: sia nel campo accademico (dal 2013 è Magnifico rettore dell’Università di Teramo) sia in campo amministrativo, come presidente di Arpa. «Università e sistema regionale dei trasporti –spiega D’Amico– sono strutture che devono ripensare se stesse alla radice, per essere più produttive a costi contenuti. E quindi che si tratti di organizzare la ricerca scientifica o un programma di esercizio i criteri che devono guidare le scelte sono esattamente gli stessi».
RAZIONALIZZAZIONE La prima fase da affrontare per la nuova azienda è quella della razionalizzazione dell’esistente, cioé delle strutture, dell’organizzazione, del programma di esercizio. «Il che significa, ad esempio, eliminare le sovrapposizioni e abolire la suddivisione tra servizio urbano e servizio extraurbano, data l’attuale impalpabilità dei confini tra città e territorio periferico in zone come l’area metropolitana Chieti-Pescara». A questi provvedimenti si aggiungono cambiamenti importanti, come il passaggio dall’alimentazione a gasolio a quella a metano. «Attualmente già il 60% della flotta di Gtm è alimentato a metano, così come le linee Chieti-Pescara di Arpa. L’impianto di rifornimento ex Gtm a Pescara garantisce ai mezzi un ampio margine di autonomia, ma abbiamo intenzione di realizzare un altro impianto per il rifornimento di metano entro i prossimi due anni, vedremo se ubicarlo a L’Aquila (in collaborazione con l’Ama) o ad Avezzano, e stiamo valutando –dato che la scelta sarebbe irreversibile– se passare dal metano compresso (quello attualmente in dotazione nell’impianto pescarese) a quello liquido, che assicura al mezzo un’autonomia corrispondente a quella del diesel, con ingombri e pesi delle bombole notevolmente inferiori. Passare dal gasolio al metano consente un risparmio per chilometro di circa 30 centesimi, che moltiplicati per i quasi 40 milioni di km annui percorsi significa un risparmio di circa 12 milioni di euro. Queste scelte, insieme alla razionalizzazione della rete delle officine e dell’esercizio (con la conseguente riduzione del personale
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In queste pagine i treni Sangritana e gli autobus Arpa oggi patrimonio di TUA. Nella foto in basso Luciano D’Amico
viaggiante e il blocco del turnover nelle assunzioni del personale amministrativo) consentiranno nel medio periodo di avere strutturalmente delle riduzioni dei costi. È un primo passo, ma permetterà all’azienda unica di soddisfare il mandato ricevuto dall’azionista, che è la Regione Abruzzo». IL TRASPORTO PUBBLICO LOCALE Ottimizzare i costi è fondamentale per affrontare la vera sfida, quella della modernità: «Il futuro dei trasporti nel terzo millennio si gioca sui concetti di intermodalità e di rotture di carico» afferma D’Amico. «In un momento in cui si ridefinisce il concetto di trasporto pubblico questo comporta la possibilità di immaginare formule alternative, innovative di trasporto. La più immediatamente realizzabile è l’intermodalità gomma-ferro sulla fascia costiera, grazie alla conformazione del territorio che disegna quella che viene chiamata in gergo “E rovesciata”, ottenuta collegando San Vito a Giulianova e Giulianova a Teramo, Pescara a Chieti e San Vito a Lanciano. Sulla costa il tracciato ferroviario di RFI consente di realizzare il sogno del trasporto abruzzese, che vede i mezzi su gomma trasferire i passeggeri dall’interno verso la costa, dove dovrebbero essere presi in carico dai treni che corrono verso nord o verso sud. Questo significherebbe risparmiare, perché ogni treno adeguatamente attrezzato può portare un numero di passeggeri di gran lunga superiore a quello degli autobus, e offrire un ottimo servizio, perché a fronte della cosiddetta “rottura di carico” (il cambio di mezzo) che può apparire scomoda ai viaggiatori, il treno contrariamente all’autobus dà una garanzia maggiore sull’orario di arrivo; senza contare che diminuendo il numero di autobus in ingresso (a Pescara ne arrivano 44 al giorno solo da nord) si avrebbero effetti positivi sull’inquinamento ambientale e sul traffico. Quindi: minori costi e servizio più efficiente, oltre ad un minore impatto sull’ambiente grazie al massiccio impiego di treni». In prospettiva poi c’è anche il completamento del progetto filovia, che con i lotti 2 e 3 dovrebbe estendersi sulla costa dai grandi alberghi di Montesilvano fino all’Aurum, e verso l’interno dal centro di Pescara all’aeroporto: «Considerando che dall’aeroporto a Madonna delle Piane (dove inizia il sistema filoviario di Chieti) c’è una manciata di chilometri, la futura filovia potrebbe rappresentare un sistema di trasporto a impatto ambientale zero e consentirebbe una
seconda intermodalità, diventando un’alternativa al trasporto ferroviario». Più nell’immediato c’è un altra iniziativa che riguarda il Tpl e che verrà avviata in fase sperimentale già dal mese di luglio: «L’Abruzzo rispetto ad altre regioni deve recuperare un po’ di terreno per quanto riguarda piccoli accorgimenti, cose semplici che migliorano e incentivano l’uso dei mezzi pubblici, come la bigliettazione elettronica, i servizi online o il biglietto unico. E quest’estate daremo il via alla realizzazione, sui treni e sugli autobus, di aree attrezzate per lo studio o il lavoro, garantendo spazio confortevole e connettività, così da rendere più produttivo il tempo di percorrenza».
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IL TRASPORTO MERCI L’altra scommessa straordinaria che attende l’azienda è l’integrazione gomma-ferro e il trasporto delle merci su ferro, quest’ultimo settore sviluppato da Sangritana da qualche anno a questa parte, che già oggi consente un fatturato che sfiora i 6 milioni di euro. «Aldilà del fatturato, e in accordo con la vocazione pubblica dell’azienda, che quindi deve offrire servizi di interesse generale ai cittadini abruzzesi, il trasporto merci su ferro avvicina il cuore produttivo della regione al cuore produttivo dell’Europa. Espandere questo settore è il secondo imperativo che l’azienda unica si è data, anche perché si tratta di un’attivitàmercato, cioè non sovvenzionata da contributi pubblici come il trasporto passeggeri, e significa rendere il miglior servizio a una regione a forte vocazione industriale come l’Abruzzo. Ma per coltivare questa vocazione e per assicurare un futuro produttivo alle industrie regionali (che lavorano volumi di entità assai rilevante e che contano molto sulla riduzione dei costi di trasporto) una condizione imprescindibile è la facilità di importazione e esportazione dei prodotti. I convogli Sangritana oggi trasportano furgoni dagli stabilimenti Sevel della Val di Sangro verso Alessandria, dove vengono presi in carico da Captrain (la società di trasporto merci di Sncf, la rete ferroviaria francese), con una riduzione effettiva del numero di bisarche in autostrada impressionante, che oltre a inquinare e a intasare il traffico stradale costerebbero molto di più. Ma non c’è solo l’industria dell’automotive che può trarre beneficio dal trasporto merci su rotaia, ed essendo l’azienda regionale a vocazione pubblica, la priorità è di assicurare un servizio alle imprese e alle industrie del nostro territorio. Quindi il salto di qualità che l’azienda unica staw cercando di fare è proprio di estendere l’opportunità di servirsi dei treni anche ad altri settori importanti come l’agroalimentare o il manifatturiero, con la creazione di una piattaforma logistica in grado di comporre convogli multicliente sia in uscita che in entrata, perché già oggi i treni trasportano materie prime e semilavorati verso le aziende della Val di Sangro, così da soddisfare le esigenze di un più ampio tessuto produttivo. E considerando anche che le regioni limitrofe non hanno società ferroviarie proprie, e che la Puglia, pur avendola (le Ferrovie del Sud-Est) non pratica il trasporto merci su ferro, l’azienda unica abruzzese potrebbe ambire a diventare un player nazionale anche in questo delicato e importante settore». ROMA, NAPOLI E BOLOGNA «Nel programma dell’azienda unica ci sono progetti che potrebbero rivoluzionare il sistema attuale, generando sia benefici di tipo economico che enormi fattori di sviluppo sociale e culturale. Si tratta però di progetti a lungo termine, che dipendono anche da scelte nazionali e che coinvolgono altre regioni. Il primo tra questi è il collegamento con Roma, che oggi avviene di necessità per via autostradale data l’inadeguatezza della linea ferroviaria che attraversa l’Appennino su un tracciato ultracentenario. Immaginate
di scegliere l’autobus partendo dai centri costieri o dall’interno usando l’autostrada fin dopo la Piana del Fucino, dove un hub ferroviario situato a Carsoli potrebbe completare il percorso (pianeggiante da lì in poi) fino al centro della Capitale. Il progetto avrebbe bisogno così dell’ammodernamento della linea ferroviaria solo nell’ultimo tratto verso Roma, un investimento giustificato dalla riduzione dei tempi di percorrenza e dalla certezza dell’orario di arrivo. C’è poi un’altro progetto che prevede il ripristino della vecchia linea ferroviaria che da Sulmona arriva fino a Castel di Sangro, per agganciarsi alla rete di RFI e giungere a Napoli. Raggiungere il porto di Napoli via treno sarebbe una manna per il tessuto industriale e una efficace soluzione di viaggio per i passeggeri; il problema è che quella linea – di montagna e particolarmente tortuosa– non consente al momento il transito di convogli merci ordinari. Sono allo studio diverse soluzioni tecniche che sarà difficilissimo realizzare, ma se riuscissimo a vincere anche questa scommessa avremmo creato un collegamento straordinario. Per affrontare tutti questi progetti inoltre ci sarà bisogno di intervenire anche sulla flotta di treni: i più recenti acquisti di Sangritana, i Lupetti, sono elettromotrici bicabinate perfette per piccole e medie percorrenze e per carichi limitati, ma per le rotture di carico ipotizzate servirebbero convogli a 3,4, anche 5 cabine, e i treni –oltre a costare parecchi milioni– non si comprano dal concessionario, vanno ordinati appositamente». L’azienda unica naturalmente guarda anche a nord, verso Ancona e Bologna. I treni di Sangritana oggi corrono sulla costa insieme ai convogli di Trenitalia, e (limitatamente al trasporto di passeggeri) si spingono fino a Bologna. «L’auspicio è che l’alta velocità possa essere implementata anche sulla tratta ferroviaria adriatica, raggiungendo quindi Pescara. Ma l’argomento dipende da scelte nazionali, e difficilmente si realizzerà in tempi brevi. Non è un progetto prioritario, ma nell’ipotesi che l’alta velocità partisse da Ancona l’azienda non avrebbe alcun problema a collegare l’Abruzzo col capoluogo marchigiano, perché il certificato di sicurezza di Sangritana si estende da Bologna a Taranto». Tra i progetti a lunga scadenza come quelli appena illustrati, quelli a medio termine come la filovia e quelli immediatamente realizzabili come l’intermodalità gomma-ferro sulla costa, l’azienda unica sembra avere parecchie carte da giocare per imprimere una svolta innovativa al sistema del trasporto pubblico locale abruzzese. «Solo un’azienda delle dimensioni oggi assunte da Tua può permettersi queste scommesse: una scommessa tutta intraregionale per collegare le aree interne ai centri costieri, e una scommessa interregionale per consentire al cittadino abruzzese di raggiungere Roma a ovest o Bari a sud e Bologna a nord. Le preesistenti tre aziende, singolarmente, non avrebbero avuto la forza né finanziaria né amministrativa per pensare ad operazioni di questo tipo. Ma sono formule di collegamento che portano tutta la regione all’interno dell’Europa, costituendo quindi per l’Abruzzo e per i suoi abitanti una grande opportunità di crescita».
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ROBERTO DI VINCENZO
UN(ex)RAGAZZO METROPOLITANO Molte idee e tanto attivismo alla Camera di Commercio di Chieti che presto si fonderà con quella di Pescara. Nel vocabolario del nuovo presidente, figlio dell’indimenticato Cavalier Dino, non c’è il termine “campanilismo”, ma quelli di “sviluppo” e “programmazione”, per restituire al capoluogo il ruolo di “città residenziale della cultura”
di Lilli Mandara foto Claudio Carella
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uel giorno lui sorrideva, io me lo immagino così». Quel giorno lì, quando si è insediato e prima ancora quando si è candidato, l’ex ragazzo ribelle, fotografo creativo e irriverente, ha pensato al padre. Succede, quando da grandi si ripercorrono le orme. Soprattutto se sono orme contestate, se sono orme non condivise, se sono orme che appartenevano a uno “sporco borghese”, come da adolescente Roberto Di Vincenzo chiamava il padre Dino, il geometra con pochi soldi in tasca che in vent’anni costruì un impero nell’edilizia. Quel giorno papà Dino, morto tre anni fa, lui se lo immagina che sorridesse. Da dovunque fosse. Contento, ma anche un po’ ironico. Quel giorno Roberto, presidente di Carsa, società di edizioni e comunicazione, è diventato presidente della Camera di commercio di Chieti, con la mission di accompagnare l’ente camerale alla fusione con Pescara. Impresa non facile visto che i campanili teatini in questo periodo suonano a più non posso. Tanto che nel giorno della festa e dell’insediamento, Di Vincenzo ha trovato ad accoglierlo delegazioni politiche e striscioni che sparavano a zero contro il suo collega pescarese Daniele Becci, “il bagnino”. Insomma, una poltrona bollente, almeno in questa fase. La stessa occupata dal padre Dino per dieci anni.
«Ma non mi preoccupano i campanili. Ho avuto la percezione che fossero polemiche molto legate alla campagna elettorale. Le ho risolte con una stretta di mano davanti ai fotografi». Non lo preoccupano anche perché dal padre ha ereditato la capacità di mediare, di guardare avanti con ottimismo, magari di non farsi nemici. E perché fusione a parte, Di Vincenzo ha messo all’ordine del giorno il progetto Chieti. E che vogliono di più, i campanilisti. «Ho invitato a partecipare il Sindaco, il vescovo monsignor Forte, la Regione, l’università e il sistema dei beni culturali di Chieti. L’obiettivo è quello di creare un progetto per far diventare Chieti polo attrattivo per i giovani e gli studenti, per riportare la gente a vivere a Chieti alta, mettendo a punto una serie di iniziative che contemplino in primo luogo la realizzazione di spazi per i giovani a prezzi convenzionati, e poi il potenziamento del sistema dei trasporti tra Chieti scalo e Chieti alta. Nell’ottica dell’area metropolitana, Chieti potrebbe diventare i Parioli dell’area e rappresentare un luogo di residenza ideale per chi privilegia la qualità della vita e per chi ama le residenze storiche e i palazzi antichi. La sfida è quella di dotare Chieti di valore aggiunto, e non fare invece il copia e incolla di Pescara. Penso a un bando, per esempio, per realizzare un caffè
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letterario. E per mettere a disposizione dei giovani il piano terra della Camera di commercio. Se dovessi riassumere in uno slogan il ruolo che immagino per Chieti è “città residenziale della cultura”. Perchè Chieti, diciamocelo, da un punto di vista storico è molto più ricca e affascinante di Pescara». Non è solo strategia, non è opportunismo. È il dna, dice Roberto Di Vincenzo. Nella sua storia, cominciata giovanissimo come responsabile degli studenti di Lotta continua, proseguita come artista-fotografo creativo
Roberto Di Vincenzo, a sinistra, con il Cavalier Dino e il fratello maggiore Gianni, ad un convegno internazionale
(la sua prima foto la comprò Manuel Alvarez Bravo per il museo di Città del Messico), c’è una parentesi come ricercatore (la sua tesi in antropologia culturale sulla condizione degli anziani in Italia fu acquistata dal consorzio socio sanitario di Arezzo per 12 milioni di lire, all’epoca tantissimi), e poi l’invenzione di Carsa assieme agli amici di università, ma ci sono anche tantissimi progetti impossibili andati a segno. Nati dalla caparbietà e dalla capacità di trovare in ogni cosa il punto di incontro, anche questa eredità del padre Dino. «Come quella volta, 20-25 anni fa, che feci incontrare Ermete Realacci di Legambiente col presidente dell’Ance. Era l’epoca in cui costruttori e ambientalisti si azzuffavano tutti i giorni sul cemento. Eppure da quell’incontro impossibile uscì una campagna congiunta contro l’abusivismo edilizio. Una bella soddisfazione. O quando misi intorno a un tavolo Federparchi, Legambiente e Saga, e poi nacque l’Autostrada dei parchi».
A quel punto, i rapporti con suo padre sono migliorati? «Mio padre voleva che io facessi il suo lavoro. Mi vedeva come un eccellente gestore amministrativo della sua azienda, mentre Gianni, il primo dei miei fratelli, sarebbe diventato il tecnico per eccellenza. Naturalmente non l’ho mai accontentato. I primissimi anni, dall’adolescenza agli anni della creatività, sono stati di grandissima turbolenza con la mia famiglia. Ma anche nel conflitto costante, i miei genitori sono sempre stati contenti che i figli pensassero con la propria testa. Diciamo che mi sono riconciliato con lui, per quanto riguarda le mie scelte lavorative e professionali, quando ho deciso di coniugare creatività e lavoro, fondando la casa editrice Carsa». Due mogli, quattro figli, arte e progetti. Cosa ricorda degli anni di Lotta continua? «La guerra anche dentro casa, i conflitti con mio padre che chiamavo “sporco borghese”, ma la cosa che forse mi pesa di più è quando ho fatto a botte con un mio amico. Col quale, per fortuna, anni più tardi, sono riuscito a chiarire tutto». Come giudica l’attività della giunta regionale? «Spero che la Regione amministrata da D’Alfonso si faccia carico della realizzazione di una vera area metropolitana, il cui presupposto è appunto la fusione delle Camere di commercio. Se avrà la capacità di capire l’importanza di questo progetto, che porterebbe alla creazione della più grande città adriatica tra Venezia e Bari, credo che si determinerebbe una svolta economica e strategica di vitale importanza per tutta la Regione». Le sfide impossibili piacciono a Roberto Di Vincenzo. Primo punto del programma la fusione delle Camere di Commercio di Chieti e Pescara, poi il progetto Chieti. Poi? «Al terzo punto c’è la costa dei trabocchi. Da prima che diventassi presidente della Camera di commercio di Chieti mi chiedevo come mai questo tratto di costa meraviglioso e selvaggio non venisse valorizzato. Sono passati anni, persi inutilmente, senza un progetto serio. Credo che lì bisognerà investire coinvolgendo personalità di livello internazionale, con esperienza sul campo, penso a professionisti che abbiano lavorato in progetti simili in altre parti d’Italia e del mondo. La costa dei trabocchi ha una enorme potenzialità turistica e quindi non dovrà né potrà essere solo pista ciclabile, non penso a una semplice valorizzazione paesaggistica». Quindi alberghi e cemento? «Non dico questo. Occorrerà potenziare l’offerta turistica, nel rispetto del territorio e senza stravolgerne i connotati, valorizzando le strutture che già esistono. Anzi, in qualche caso, e penso alle strutture viarie, sarà necessario togliere, invece di aggiungere: come la strada statale, nel tratto di San Vito, che entra direttamente nel mare. Togliere e aggiungere, quando serve. Ecco, non andrò via senza aver avviato il progetto per la costa dei trabocchi: qui voglio lasciare il segno». Per Roberto Di Vincenzo la lotta continua.
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RIBALTA EVENTI L’estate pescarese
UN’ALTRA MUSICA Pionieri nei rispettivi settori (il jazz e il circo), divisi dall’anagrafe, uniti dalla progettualità: i due direttori artistici del neonato Pescara International Arts Festival spiegano l’idea dietro il nuovo cartellone dell’Ente Manifestazioni Pescaresi
di Fabrizio Gentile
L
a parola d’ordine è “contaminazione”. Una necessità tecnica–adeguarsi alle nuove normative che regolano l’erogazione di finanziamenti ministeriali– che in questo caso coincide con l’idea programmatica, con la visione condivisa dai due direttori artistici del neonato Pescara International Arts Festival, Raffaele De Ritis e Lucio Fumo. Il primo, uomo di spettacolo dal lungo curriculum che vanta esperienze internazionali, è il “papà” di quel gioiello che porta il nome di Funambolika, festival di arti circensi che da nove anni costituisce un unicum in Italia, ed è anche il nuovo presidente dell’Ente Manifestazioni Pescaresi, eletto all’unanimità lo scorso dicembre; il secondo, già presidente dell’Ente dal 1999 al 2011, è l’inventore e il direttore artistico del più longevo festival jazz d’Europa, il Pescara Jazz che giunge quest’anno alla sua quarantasettesima edizione. Due pionieri, Fumo e De Ritis, che –cosa rara in un ambiente tradizionalmente competitivo– hanno saputo unire le rispettive esperienze per metterle al servizio di una programmazione che porta una ventata d’aria nuova nel cartellone dell’Ente, conciliando nuove tendenze artistiche con le eccellenze del mondo dello spettacolo italiano e internazionale. «La programmazione –spiega De Ritis– è per me simile a un’operazione di drammaturgia, come scrivere un romanzo o un copione. Bisogna caratterizzare i personaggi (in
questo caso gli eventi) all’interno della narrazione, tenendo conto dei contesti. E il contesto, nel caso di Pescara, è quello di una offerta di eventi e manifestazioni estremamente frammentata e confusionaria, in cui entrano soggetti istituzionali e privati che non dialogano tra loro e spesso si sovrappongono; quello di un festival jazz che (persa nel tempo la leadership nel centro Italia a favore di Umbria Jazz) vede annegare la propria offerta in un mare in cui nuotano ben 58 festival estivi dello stesso genere; e in ultimo la frustrazione di non veder crescere Funambolika parallelamente all’aumento dei finanziamenti e del pubblico. La nostra esigenza era quindi quella di razionalizzare la nostra programmazione inserendola in un contesto multidisciplinare che superasse gli steccati culturali». Il destro ai due direttori artistici l’ha dato il Ministero, che quest’anno ha cambiato le norme per l’erogazione dei finanziamenti, concedendoli a progetti redatti su base triennale. «L’obiettivo del Ministero –spiega Fumo– è di premiare la progettualità, la visione, l’idea dietro la programmazione. E la nostra idea è stata di innovare partendo dall’esistente, senza “rottamare” il passato. Restano infatti tutti gli eventi che già caratterizzavano l’offerta dell’Ente negli anni passati, ma con qualcosa in più, la trasversalità. Ogni spettacolo riferibile a una categoria –teatro, musica, danza e circo– contiene in sé elementi di altre, così da non essere strettamente etichettabile». Una
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Nella pagina a fianco, da sinistra: Kledi Kadiu, Bobby McFerrin e i Peres Brothers, tra le proposte del Pescara International Arts Festival. Qui sopra i due direttori artistici Raffaele De Ritis (a sinistra), presidente dell’Ente Manifestazioni Pescaresi, e Lucio Fumo.
scelta che apre una nuova strada nella storia dell’Ente, creando un modello –ed è bene specificare che solo Pescara, in ambito nazionale, ha partorito una proposta con questi criteri– che guarda al futuro. «Ciò che abbiamo fatto con questo cartellone –sottolinea De Ritis– è un esperimento che getta le basi per un rilancio dell’immagine di Pescara, e che darà i suoi frutti negli anni a venire. Impossibile prevedere cosa accadrà, ma sappiamo quale strada abbiamo intrapreso e puntiamo con ottimismo e fiducia in questa direzione». Vanno in questo senso lo spettacolo –unica data italiana– di Robert Davi, che ripercorre il repertorio di Frank Sinatra con un sapiente mix di narrazione e di musica, e che insieme all’esibizione di Cassandra Wilson celebrerà i cento anni dalla nascita di Sinatra e Billie Holiday, o lo show sulla vita di Edith Piaf (altro centenario: il 1925 fu davvero un anno memorabile), in esclusiva nazionale; e l’esibizione del Circo El Grito, accompagnata dal sestetto di Emanuele Urso in una fusione di circo e musica. Non mancano i grandi nomi come quello di Burt Bacharach, che ha inaugurato il Festival il 10 luglio con la prima delle sue date italiane, o Bobby McFerrin che ha aperto il 17 luglio le serate di Pescara Jazz; o come la star internazionale David Larible, il più osannato clown del mondo (14 luglio), per finire con le stelle di casa nostra Carmen Consoli (3 agosto) e Francesco De Gregori (il 5 agosto). «Il pubblico e la stampa –osserva
De Ritis– si fermano spesso al nome altisonante, al personaggio famoso. Ma chi verrà a tutte le serate si accorgerà che anche i nomi meno noti garantiscono una serata di successo». «E un’altra novità –prosegue Fumo– è costituita dal coinvolgimento di altri attori territoriali, come il Conservatorio di Pescara o i Solisti Aquilani, nella realizzazione di alcuni eventi. Inoltre gli spettacoli di “Teatro in musica” Histoire du Soldat, diretto da Giorgio Barberio Corsetti, e Faust diretto da Flavio Scogna sono il frutto del nostro progetto Backstage, che è in pratica una palestra formativa per i futuri lavoratori dello spettacolo e vede la partecipazione di Regione Abruzzo, Università “G.d’Annunzio”, Università di Teramo, Istituzione Sinfonica Abruzzese, della Riccitelli di Teramo, dell’Uovo - Teatro stabile d’innovazione dell’Aquila e dell’Associazione Flaiano». Le innovazioni hanno investito anche l’estetica comunicativa: il nuovo logo comparso in calce al cartellone mette in risalto il luogo deputato agli spettacoli, il Teatro d’Annunzio, rispetto al nome dell’Ente manifestazioni pescaresi, e gli eventi in programma sono elencati tutti insieme. «Ma in strada si vedono anche i tradizionali cartelloni “separati” di Pescara Jazz e di Funambolika» spiega Lucio Fumo «perché il pubblico va accompagnato nelle trasformazioni. Certe abitudini sono dure a morire».
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RIBALTA EVENTI LA MOSTRA FOTOGRAFICA DI LUCIANO D’ANGELO
SREBRENICA L’ULTIMA VERGOGNA Solo vent’anni fa, solo a pochi chilometri dalle nostre coste, si è ripetuta la tragedia che tutto il mondo non ha voluto vedere distratto dal Pil e dalla new economy. Una barbarie che dopo la fine del nazismo si pensava non più possibile. E oggi? Il bellissimo e amarissimo reportage del celebre fotografo realizzato a cura di Edvige Ricci è stato inaugurato a Pescara dalla Presidente della Camera Laura Boldrini di Edvige Ricci
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e si ha oggi la ventura di arrivarci, nessuno dimentica Srebrenica. Nella pesantezza della sua aria respiri la certezza che la guerra non sia ancora conclusa. Da subito diventa un luogo della tua anima, un tarlo di domande irrisolte sulle vicende umane. Non avremmo forse dimenticato neanche la Srebrenica di “prima della guerra”, città termale bellissima e ricca, piena di fiori e odorose passeggiate per le donne più eleganti di Jugoslavia (così esse amano ricordarsi), con acque ferrose a curar l’anemia e quelle diversamente minerali a curare disturbi oculari. Ma anche se le nuove strategie di politica europea pretenderebbero che il futuro dei nostri paesi venga scelto e scritto insieme, il problema è che quasi nessuno oggi si reca fin là e pochi hanno memoria del suo nome e del suo destino nella guerra balcanica. Luciano D’Angelo, al contrario, ha coscientemente desiderato e scelto di andare a Srebrenica, per testimoniarla. Non sapeva ancora di aver deciso di non separarsene più. 11 luglio 1995 - Vent’anni fa, il genocidio nella guerra balcanica Come se ancora non fosse stata abbastanza la follia bellica che, da anni, si era impadronita delle terre balcaniche a dilaniare popolazioni che per secoli avevano intrecciato amori, famiglie, poesie, lingue… come se l’assedio e il bombardamento continui di Sarajevo non fossero spettacolo quotidiano dei nostri telegiornali, senza che alcuna reazione politica provasse ad interromperli… come se le notizie di stupri orrendi e a catena, sulle donne, non fossero mai arrivate alle nostre orecchie… …alla popolazione musulmana
dell’enclave di Srebrenica, su monti oggi a confine con la Serbia, doveva capitare ancora altro. La Comunità mondiale conosceva il pericolo e, tramite l’Onu, aveva inviato, a valle della città, una postazione militare (soldati olandesi) a evitare il peggio, che non fu evitato. Nessuno si oppose alle truppe serbo bosniache di Mladic agli ordini di Karadzic. Liberamente rastrellarono ed evacuarono la città, riunirono tutti i maschi da 13 anni in su e, sulle montagne attorno, dentro fosse già scavate, ne seppellirono i cadaveri dopo uno sterminio di massa. Nei giorni successivi continuarono a sostenere di non saperne niente e, a brani, presero a trasferire i corpi in altre fosse e così via. Le Madri di Srebrenica Le sopravvissute di Srebrenica, le donne, sotto gli occhi di un mondo molto distratto, si trovano all’improvviso spogliate di ogni cosa, cacciate dalle proprie case, lontane dal paese, con bimbi piccoli e nessun uomo adulto più fra loro. Precipitate nel pianeta del dolore più atroce. Ma, con i bambini in braccio, capiscono che non hanno la scelta di arrendersi, e dalle profondità delle loro viscere aggrovigliate nella disperazione, estraggono l’energia inarrestabile di un urlo di condanna verso il mondo, che copre di vergogna ogni istituzione civile e politica, incapaci di muovere foglia. In nome dei propri figli, mariti, padri, fratelli, nipoti, amici massacrati, chiedono giustizia e, da sole, ottengono il solenne impegno internazionale che almeno quei corpi vengano cercati, trovati e a loro riconsegnati, per seppellirli e piangerli. E da allora, questo ancora avviene, anno dopo anno. Più di 6000 i resti di quegli uomini finora ritrovati nelle fosse, tra gli oltre 8000 dispersi. E si continua. Ogni 11 luglio, nel Memoriale di Potocari, dove quella deportazione assassina iniziò, si svolge una lunga, corale,
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comunitaria, struggente cerimonia di sepoltura di bare verdi, che finalmente consente, a chi ha tanto aspettato, di poter chiudere la fase dell’attesa ed iniziare quella della memoria ed elaborazione del lutto. Alle spalle, il delicatissimo, scientifico e paziente lavoro di altre donne, che a Tuzla, in un apposito centro, riescono ad assegnare un nome e un cognome alle ossa ritrovate. Sono ormai 20 gli anni trascorsi da quel genocidio, ma non si è ancora conclusa per tutte l’attesa. E Srebrenica deve ancora rinascere.
LA MOSTRA Non dimenticare Srebrenica. Mostra a cura di Luciano D’Angelo e Edvige Ricci. 13-24 luglio Pescara, Maison Des Arts, Fondazione Pescarabruzzo, C.so Umberto I, 83 IL LIBRO Ne Zaboravi Srebrenica. Fotografie L. D’Angelo, testi di E. Ricci. Grafica A. Padovani, Ph. editing A. Antonelli. Stampa poligrafica Mancini. LD Editore, 2015
SREBRENICA NEL CUORE di Luciano D’Angelo Srebrenica è un girone infernale, mi ha travolto appena arrivato. La guerra non è mai andata via. La morte non è mai andata via. Guerra e morte le puoi quasi toccare con mano, da quanto sono presenti. Le tensioni etniche e quelle religiose non sono sopite, la rabbia è un mostro affamato che divora quella gente, la voglia di vendetta si stacca dagli sguardi e segue i pensieri, pensieri neri, nerissimi. Fotografare quella gente, quegli occhi è stato difficile. Parlavo e scattavo, nel girone infernale, e mi sentivo fuori dal mondo, ma non da quel mondo, fuori dal mio mondo. Mi chiedevo dove fossi stato fino ad allora, come avessi fatto a non aver capito, forse a non aver voluto capire: troppo orrore per poterlo accettare. Le emozioni dei giorni a Srebrenica si sono accumulate fino a stordirmi. Troppa sofferenza in quei volti, pietrificati fino alla fissità pressochè totale. Statue, statue di sale, testimoni di un male distribuito a piene mani, senza alcuna pietà. Troppe emozioni, troppe storie ascoltate per poter dormire. E infatti non ho dormito per giorni. E certe notti resto ancora sveglio, penso a quei volti, penso a quelle storie. Non mi abbandonano. Sono passati vent’anni. A Srebrenica non è passata neanche un’ora. Città popolata da fantasmi, più che città fantasma. I fantasmi dei morti, i fantasmi dei vivi. Camminano insieme per le strade, si incontrano sul fiume che ha trasportato troppi cadaveri per poter essere ancora soltanto un fiume. Io li ho visti quei fantasmi. E non mi lasciano dormire. Nelle foto di Luciano D’Angelo: nella pagina precedente, Srebrenica, Betko Memic, 37 anni; Potocari, Sehida Abdurahmanovic, 60 anni. Qui sopra: Srebrenica, Muhamed Avdic, 34 anni. A fianco un momento dell’inaugurazione con Luciano D’Angelo e Edvige Ricci insieme alla presidente della Camera Laura Boldrini. I testi di queste pagine sono estratti dal libro “Ne Zaboravi Srebrenica”
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PESCARA - Show room via Spaventa, 36 - angolo via Chiarini (zona stadio) Tel. 085 4517987 - 329 5359306 - 327 7453528 www.ciofani.it - info@ciofani.it
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RIBALTA LIBRI LA POESIA ALL’EXPO
Il seme delLA CULTURA Il cibo d’anima e la fame del corpo di Plinio Perilli
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e una morale lirica si può davvero ricavare da una breve visita all’Expo di Milano 2015, anche solo da un’immediata riflessione su quest’immensa Fiera merceologica che parla di alimenti ma anche di processi di produzione, ed elenca i malanni del pianeta –ahinoi– sottesi alla logica spesso nefasta del capitale, è che i nutrimenti che ci abbisognano riguardano non meno l’anima che il corpo… “Il pane e le rose” – si diceva una volta. Cioè a dire, il lavoro del forno, il frutto della farina – ed il giardino, l’amplesso della poesia… Vengono davvero in mente tanti bilanci, rimpianti o anche auspici dettati in lirica redenzione. Giorgio Caproni raccolse e distillò già nel 1959, a un passo dall’italica illusione del cosiddetto “boom” economico, il contrappasso memoriale de Il seme del piangere… Con eguale vocazione dantesca, un’opera recente di Sandro Visca, Considerate la vostra semenza… raccoglie e ingloria, tra arazzo, quadro e installazione, in tanti sacchettini cuciti di trasparenza, 6x7 = 42 tipi di semi & similia, faville/favelle/semenze della terra, quindi delle colture, della cultura… Questa splendida significazione artistica, che per ciò stesso diventa ammonimento etico, è stata scelta dalla Fondazione Pescarabruzzo come copertina, concreta e ideale, di una bella antologia appunto sui Nutrimenti del pianeta (e dei cuori!), edita per i tipi delle edizioni Tracce, a cura di Nicoletta Di Gregorio. Altissima la posta in gioco, al di là del pregio di molte poesie e poeti qui testimoniati: capire intanto che la crisi del pianeta, l’emergenza alimentare riguarda tutti (“fatti non foste a viver come bruti”); e chiama in causa, vicino o lontano, il nostro egoismo di paesi ricchi, industrializzati – le vituperabili (e strategiche) civiltà opulente… “Dunque non è semplicemente una manifestazione celebrativa delle ‘magnifiche sorti e progressive’ del genere umano, tutt’altro” – avverte e denuncia Nicola Mattoscio, un presidente illuminato che ci ricorda le cifre scomode dei resoconti di (in)civiltà: “se da una parte c’è ancora chi soffre la fame (circa 870 milioni di persone denutrite nel biennio 2010-2012), dall’altra c’è chi muore per disturbi di salute legati a un’alimentazione scorretta e troppo cibo (circa 2,8 milioni di decessi per malattie legate a obesità o sovrappeso)”… Perché l’Expo 2015 è anche questo, un controsenso e un auspicio elevato a sistema – stigmatizza e poi argomenta Nicoletta Di Gregorio, che cerca con dignità e coerenza di specchiare e raccogliere, in queste pagine, “le sintonie e le antinomie di tutte le diverse realtà che ne fanno parte.”
Le poesie e le singoli voci fanno un coro –armonico od ossimorico– di queste critiche e di questi consensi. La poesia, insomma, tiene accesa la luce, la fiamma, come una vestale, e insieme fa la guardia ai silos (di idee o di grano), come una sentinella che difenda, sì, la logica della civiltà, ma attenzione: non certo il nudo marketing del progresso, le crude ragioni detestabili dello sfruttamento, che è patimento dei meno abbienti… Tante le poesie belle, non c’è spazio per elencarle tutte! Non scorderemo certo il mandorlo cui si rivolge Giuseppe Conte, la frutta tentatrice di Rita El Khayat, l’elogio del latte di Pasquale Del Cimmuto, i piatti d’autore di Lamberto Pignotti, “le ampolle di vino rosso” scherza Dante Maffia “per fare amicizia con San Pietro”… Ancora, i “festanti cavalieri gastrolatri” di Tomaso Kemeny, “la ruminazione del cuore” di Davide Rondoni, i gelati di Proust evocati da Renato Minore. E soprattutto le dissonanze denunciatarie: il Cronofagico di Massimo Panio, “La budellona” di Marcello Marciani, la “Ballata della Zuppiera” di Marco Palladini, Milo De Angelis “Nella testa / sbranata da una primavera”, i rifiuti polimerici emersi ed avvistati dal caustico illuminismo di Valerio Magrelli… Ma ogni giorno sfoglieremo quest’indimenticabile menu poematico e ci sazieremo di altri e nuovi sapori d’elegia (che è avverabile, dunque nemica d’utopia, e affratella le genti d’identico!): “mi condusse un angelo di farina–” ritualizza Nina Maroccolo “ne feci pane, oro– lo mangiai…”. “Solo allora” scrive Daniele Cavicchia “la zolla rivolterà il seme”. E giungeremo forse tutti –buoni e cattivi– ci suggerisce Ninnj Di Stefano Busà, a “l’Expoliazione / prima dell’ultimo naufragio.”
AA.VV. Nutrimenti Tracce - Fondazione Pescarabruzzo 2015, 138 p.
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NARRATIVA
Finché c’è speranza c’è vita Il colore dei margini: dodici, impegnativi racconti di Vito Moretti di Francesco Di Vincenzo
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ito Moretti è un intellettuale-letterato (docente di letteratura alla “G.D’Annunzio”, critico, poeta, scrittore) che si professa credente con la stessa fermezza con la quale rivendica la propria laicità di scrittore. Insomma, un cattolico che scrive, non uno scrittore cattolico. Il che non significa che quando scrive metta da parte le sue convinzioni religiose. Nei dodici, intensi racconti di Il colore dei margini tali convinzioni affiorano talvolta in modo esplicito. Nel racconto Il cielo che non teme, per esempio, costituiscono il tema stesso della narrazione, essendone protagonisti due sacerdoti portatori di visioni diverse sul modo migliore di vivere e applicare il Vangelo. Ma tutti i racconti sono percorsi da una sotterranea vibrazione religiosa, da una tensione morale che il passo narrativo disteso, l’uso di una lingua poetica e inattuale (vedremo come e perché), lungi dal dissimulare, rafforzano. E colpisce la capacità di Moretti di praticare una profonda e feconda interazione tra l’urgenza delle idee e le ragioni della letteratura, risolvendo il possibile contrasto in felici esiti narrativi, dove la struttura, le scelte stilistico-formali e lessicali non sono mai semplici rivestimenti delle idee ma spesso ne sono elementi costitutivi. Il racconto che apre la raccolta e le dà il titolo mostra in modo esemplare questa attitudine di Moretti. Protagonista è Andrea che se ne sta alla finestra e guarda fuori, abbandonato al flusso di ricordi e riflessioni innestati da una fugace, forse solo immaginata apparizione, giù in strada, di Martina, suo amore perduto e rimpianto. Non fa altro, Andrea, per l’intera durata del racconto: guarda fuori e riflette sulla sua “lunga e infruttuosa solitudine”, ma lo soccorre la certezza che “si va nella vita non per farsi preda o despota, ma solo per darsi una speranza, una ragione che porti al bene e che non sciupi nulla di sé e dei propri doni”. Scocca così in lui la salvifica scintilla della speranza ribadita, poco oltre, in un pensiero: “Martina forse verrà di nuovo”. E allora, nell’ultimo rigo del racconto, dopo tanto immoto riflettere, ricordare e tormentarsi, Andrea compie l’unica azione del racconto, un gesto banale ma di forte densità simbolica: “Stese la mano sulle chiavi ed uscì”. È la speranza, dunque, che dà la forza di uscire: uscire da sé per andare nel mondo abbandonando la propria “infruttuosa solitudine”. La speranza come virtù cristiana che innesca e sostanzia l’agire pratico e morale contro le tentazioni dell’egoismo e del nichilismo. Ed è la struttura stessa del racconto che dà forza a questa convinzione: il lungo surplace introspettivo di Andrea conferisce, per contrasto, il massimo risalto alla di
per sé insignificante azione finale. Moretti non esita a intervenire sul corpo stesso della lingua, disseminando i racconti di espressioni e termini estranei ai linguaggi mainstream della narrativa contemporanea, siano essi sulla scia del barocco gaddiano o fedeli al canone della scrittura asciutta ed essenziale. Il risultato è una lingua singolare, fortemente personalizzata. Prendiamo i titoli dei racconti: Nel doppio delle acque, Le cifre della luna, Il guadagno dei ricordi, La curva dei singolari, etc. Tutti i titoli sono così: enigmatici e indecifrabili. Ermetici. Perché? E perché nei racconti si incontrano tante espressioni desuete con termini desueti o di lirica ricercatezza come “i fogli delle bollette e dei dazi”, “l’incrocio dei merciai”, “lo sbarattolare delle sue vene”, “a voler proprio rigare sul capello”, “un tinnulo di confetti”, “s’arrestò il brusco dei venti”, “mettere a mansuetudine i propri desideri”? Le espressioni liricheggianti, gli arcaismi lessicali, le espressioni desuete o ricercate, i titoli ermetici sono scintille di poesia che Moretti immette nella lingua corrente per contestarne e, nello stesso tempo, ravvivarne l’opacità espressiva. Perché come la Sara del suo racconto Nel doppio delle acque, Moretti crede, evidentemente, al “dovere di sentire la poesia sempre, ovunque”. E, dove non ci sia, immetterla. Non a caso egli sceglie il versante demodé del vocabolario: non gli piace il linguaggio-mondo di oggi, e ce lo dice non con una neolingua da neoavanguardia, bensì con parole ed espressioni del passato letterario e dell’alterità poetica. Moretti, dunque, manifesta la sua critica alla contemporaneità con l’invenzione di una lingua poeticamente inattuale, prima ancora che con i significati da essa veicolati. Simile a un sacerdote che, nel dire messa, manifesti il suo scontento pronunciando di tanto in tanto parole e frasi latine dell’antica messa preconciliare, Moretti delinea così una sua originale e fiera controliturgia narrativa.
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RIBALTA LIBRI ALESSIO ROMANO
THRILLER ADRIATICO Successo annunciato per il secondo romanzo del giovane scrittore pescarese. I primi a crederci sono gli editor di Bompiani di Cristina Legnini
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l terremoto è l’elemento thriller più spaventoso e tragico che possa essere pensato. Trema la terra, rischi di morire, devi fare i conti con la tua vita, come se ti inseguisse un assassino». Il nuovo libro di Alessio Romano Solo sigari quando è festa inizia con il protagonista che scappa dal sisma dell’Aquila ma la sua intera vita viene “terremotata”. Alessio Romano è di Montesilvano, classe 1978, scrittore. Ha pubblicato il suo primo libro Paradise For All nel 2005 con Fazi Editore e ad aprile è uscito il suo secondo romanzo Solo sigari quando è festa, stavolta con Bompiani. Romano è un fiume di parole, dà la sensazione di qualcuno che potrebbe parlare per ore e ore senza mai perderne la voglia, ascoltarlo è come leggere il suo ultimo libro: coinvolgente. Il protagonista è Nick Mangone che per lavoro studia gli orsi. «È un po’ orso anche lui» ci tiene a precisare mentre racconta che con il protagonista non ha nulla in comune: «Mi piace scrivere del mondo che mi circonda ma non necessariamente di qualcosa legato a me stesso». L’incipit del romanzo è il terremoto del 6 Aprile 2009 che scuote gli animi abruzzesi e quello di Nick che torna a vivere a Pescara dal padre. Su Facebook viene aggiunto da uno strano account, “Il Ragno”, che ha pochi amici, tutti morti tranne una sola, la spogliarellista Tamara. Apparentemente, nessun legame esiste tra gli amici del Ragno, ma quando anche Tamara sparisce Nick comprende di essere in pericolo e, tra le paure, la crisi con la fidanzata e la malattia del padre, verranno fuori i fantasmi del suo passato. Il tutto tra le rovine del capoluogo abruzzese e una Pescara underground, ambienti che per un thriller si prestano più che bene. All’inizio c’era solo un racconto breve, con dentro l’idea del serial killer che si fa strada su Facebook poi, dopo il terremoto, l’autore si è concentrato su quell’angoscia e quell’emergenza che solo un evento così tragico può scaturire. Un lavoro di stesura durato ben quattro anni, tra consigli di amici e vecchi professori della Scuola Holden di Torino, che ha frequentato nel 2003. È alla Holden, la “scuola del libro” fondata nel 1994 da Alessandro Baricco, che Alessio Romano studia e perfeziona le sue tecniche, in un ambiente che è un grande laboratorio di scambio di idee, spunti e giudizi tra studenti e insegnanti. Tra i tanti professori c’è Sandro Veronesi con cui Romano condivide alcune riflessioni e lo ringrazia nel suo Solo sigari quando è festa per aver ispirato il capitolo sullo squalo (per saperne di più della vicenda di uno squalo in montagna vi tocca leg-
gere il suo libro e anche XY di Veronesi). Prima della Holden, però, studia Lettere Moderne a Bologna dove compra il suo primo Mac, funzionante tutt’oggi, e ci scrive il suo primo libro (rimasto inedito). La passione per la scrittura l’ha sempre avuta, fin da bambino. «Già alle elementari, alla domanda “Cosa vuoi fare da grande?” rispondevo “Lo scrittore”. Sono cresciuto tra i libri, mia madre è maestra elementare, mio padre ispettore scolastico. Poi la mia insegnante di lettere alle scuole medie, la scrittrice Angela Nanetti, mi fece appassionare ancora di più alla scrittura grazie ad un corso e ai racconti di Mark Twain». Romano è anche un avido lettore e parlare dei suoi autori preferiti è come parlare dei suoi stessi libri. «Il mio libro si nutre di altri libri» racconta spiegando poi che, ad esempio, i cognomi in Solo sigari quando è festa sono presi da La confraternità dell’uva di John Fante, uno dei suoi scrittori preferiti. Ama soprattutto ispirarsi e leggere gli scrittori contemporanei come Mordecai Richler, Charles Bukowski e, punto fermo, Sandro Veronesi. Ma come fa un giovane scrittore di talento pescarese a essere preso in considerazione da una grande casa editrice come Bompiani? Scorrendo le pagine di Solo sigari quando è festa la risposta è una sola: ha talento e il suo libro è una macchina da guerra narrativa perfetta. Paradise for all lo pubblicò con Fazi, in quel periodo particolarmente attento agli esordienti, molti dei quali provenienti proprio dalla Holden. «Bisogna avere la fortuna di trovare un editore che crede nel tuo libro» risponde. «Aiuta sicura-
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mente non essere più degli esordienti e avere una pubblicazione di successo alle spalle. Prima di inviare il testo alle case editrici l’ho fatto leggere a molti amici scrittori ed editor, ho fatto tesoro dei loro consigli per questo posso dire che è un libro molto lavorato. È stata una fase di contaminazioni, citazioni e inserimento di dettagli pregiati. Poi l’ho inviato alle case editrici e la risposta di Bompiani è stata la più veloce, dopo circa un mese. È arrivata una proposta di contratto e, subito dopo, un anticipo. Quei soldi li ho tenuti da parte per questa fase di promozione in cui sto girando l’Italia. È una grande emozione vedersi pubblicati nel catalogo Bompiani insieme a Moravia, Tolkien, Camus e tanti altri importanti scrittori contemporanei e del ‘900». Poi, nel fiume di parole, confessa di un piccolo “fioretto” «Per scaramanzia ho cercato di contenere l’ansia e la felicità con una sorta di fioretto: non festeggiare, quindi non bere, fino all’uscita del libro. Ma non è servito, da gennaio fino al 2 aprile, data dell’uscita, l’ansia è solo cresciuta. Oltre al libro mi preoccupavo di quanto avrei bevuto io e di quanti bicchieri avrei dovuto offrire agli altri». Ma tra i suoi successi, oltre ai suoi due libri e ai corsi di scrittura, c’è anche il festival della letteratura “Montesilvano Scrive” creato perché «dopo essere tornato a vivere qui volevo animare un po’ la mia città. La risposta è stata ogni anno positiva e crescente». Nella vita del giovane scrittore c’è anche la passione per i viaggi: in particolare il Sud America, ma anche l’Abruzzo con la sua natura e i suoi borghi. Quest’anno però, la priorità è la promozione di Solo sigari quando è festa: Alessio Romano ha messo in pausa qualsiasi altra attività per seguire ed essere presente a tutte le presentazioni e gli incontri con i suoi lettori di tutta Italia. Nel frattempo, Nick Mangone, cercherà di scoprire l’identità del misterioso Ragno e noi, insieme a lui, a riflettere sui terremoti della vita.
Alessio Romano Solo sigari quando è festa Bompiani 2015, pp.208, € 17
Il romanzo di don oreste
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u don Oreste de Amicis, singolare figura di agitatore religioso-politico nell’Abruzzo dell’800, hanno scritto Ennio Flaiano (un breve testo reperibile in Autobiografia del blu di Prussia), Gabriele D’Annunzio (che ne evoca la figura nel Trionfo della morte) e, soprattutto, Antonio De Nino che gli dedicò un saggio in cui riversò le informazioni di prima mano raccolte in una lunga intervista con don Oreste pochi mesi prima che questi morisse, nel settembre1890, all’età di 65 anni. Stefano De Sanctis, poeta e narratore di sperimentate abilità letteraria, dedica ora a don Oreste un bel volume di solido impianto narrativo e fluida scrittura: Il novello messia d’Abruzzo. Pur attenendosi all’ordito dei dati e degli accadimenti certi della turbolenta vita di don Oreste, l’autore tesse una narrazione che è molto più di una biografia romanzata: è tout court un romanzo. Un bel romanzo. A cominciare dalla tecnica narrativa, riconducibile al miglior storytelling, cioè al fluire incalzante degli snodi biografici e psicologici di don Oreste per rappresentarne con vivezza il vissuto umano e il ruolo religioso e sociale. Il risultato è una narrazione serrata e coinvolgente organizzata e ritmata da una scrittura asciutta ed essenziale, ma non povera, di notevole ef-
ficacia espressiva. Mirabile, ad esempio, come sottolinea Eide Spedicato nella sua densa presentazione, è l’incipit del racconto: “Don Oreste De Amicis, parroco della chiesa madre di Cappelle, s’innamorò della cugina Rosalia d’un amore puro e innocente”. Un avvio folgorante, efficacissimo: il primo fatto narrato ci parla di un parroco innamorato come un giovane qualsiasi. Forse è lecito nutrire dubbi sulla purezza e l’innocenza di quell’amore, ma è indubitabile che in meno di venti parole De Sanctis ci introduca con grande capacità di sintesi e vivezza rappresentativa nel cuore della passionale, aggrovigliata personalità di don Oreste, uomo che della contraddizione e dell’insofferenza per l’ortodossia fece regola di vita. Francesco Di Vincenzo Stefano De Sanctis Il novello messia d’Abruzzo Tabula Fati, 2015, p. 145, € 12.00
LA SPOSA DI BARICCO E LA MANO DI TANINO
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i più attenti tra i lettori non sarà certo sfuggita la copertina dell’ultimo (al momento in cui scriviamo) romanzo di Alessandro Baricco, La sposa giovane. A far compagnia al nome dell’autore torinese e al titolo del libro, infatti, è una sensuale figura femminile, disegnata con la consueta perizia da Tanino Liberatore, l’abruzzese più cult che esista. «Ci conosciamo da una decina d’anni –ci ha raccontato Tanino, raggiunto telefonicamente nella sua abitazione parigina– e quando viene qui ceniamo spesso insieme. Mi ha proposto proprio lui, qualche tempo fa, di realizza-
re la copertina del suo libro. Ha voluto vedere alcuni disegni che avessero per soggetto una donna, e gli ho mandato qualche lavoro che avevo nel cassetto e altri realizzati appositamente. Tra i primi c’era una testa di donna che gli è piaciuta moltissimo, allora ho chiesto di leggere il libro. Dopo quaranta pagine ho ripreso in mano il disegno e l’ho ampliato». Il risultato è la splendida, giovane e sensuale “Sposa giovane” che campeggia sugli scaffali delle librerie dallo scorso aprile: una copertina che –piaccia o non piaccia l’opera di Baricco– vale da sola l’acquisto del libro.
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RIBALTA LIBRI MARCO ESPOSITO
SCRIVERE? UNA VIRTù Il primo libro a tredici anni e poi avanti collezionando premi letterari e nuovi titoli. Il segreto è negli ingredienti, come nella famosa ricetta teramana di Pina Manente
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cucinare trecento pagine con dentro una ventina di personaggi, tutti molto caratterizzati, con salti temporali che fanno dialogare Maria Stuarda con una dark vampira che ha paura dei suoi poteri e un protagonista, Jason Woody, cresciuto a latino e magia che manco a dirlo è destinato a diventare un guerriero del bene, si rischia di fare un minestrone indigesto. Marco Esposito a soli tredici anni –tanti ne aveva quando ha iniziato a scrivere il primo libro della trilogia– ne ha ricavato un delizioso piatto di “virtù” quell’alchemica ricetta teramana dove una incredibile quantità di ingredienti stanno insieme conservando profumi e sapori originali. Oggi Marco ha appena compiuto diciotto anni, ha già pubblicato il secondo volume della trilogia fantasy Il Vaso di Pandora, ha collezionato una serie imbarazzante di premi letterari e la settimana scorsa i grandi autori del fumetto, riuniti a Teramo per Heroes e Teramo Comics, hanno tenuto a battesimo il primo dei sei fumetti tratti dalla trilogia, edito, come i libri, da Artemia. Ad illustrarlo Gabriele Schiavoni, anche lui teramano, ma è un caso: insieme a Mirko Di Noia, di Foggia, infatti, ha vinto il concorso nazionale indetto dalla casa editrice per selezionare nuovi “fumettisti”. Hanno risposto cinquanta “matite” da tutt’Italia. Ora, definire Marco Esposito enfant prodige è persino banale: ti guardava quasi sorpreso quando, dopo il primo libro, gli chiedevi: e ora? Lui stava già scrivendo il secondo, raddoppiando le pagine (il primo centocinquanta, il secondo supera le trecento): si può smettere di mangiare? Non sa nulla di scuole di scrittura, non ha mai usato un diagramma di flusso per non far intrecciare personaggi, date e accadimenti, ha capito che esistono delle tecniche di sceneggiatura solo quando la casa editrice –sulle prime un pò sospettosa del tomo tanto grande quanto piccolo il fanciullo– gli ha affiancato una penna di lunga esperienza come quella di Elso Simone Serpentini: “Ma ho dovuto fare ben poco” precisa oggi lo storico-scrittore: “Fra il primo e il secondo volume il mio lavoro di editing si è ridotto al minimo”. A casa raccontano che nel bilancio familiare la voce libri ha avuto un capitolo importante: Marco ha sempre letto e dai libri, dalle trame, dai personaggi amati, dalle introspezioni letterarie, ha ricavato tutto ciò che gli serve. Si chiama talento. Il Vaso di Pandora si svolge tra l’America e l’Europa e parla di un gruppo di persone dotate di poteri e capacità soprannaturali che vengono riunite dall’Antico, un mago che dice di essere il
protettore dell’umanità, per impedire appunto che venga aperto il vaso di Pandora. I dialoghi sono la cosa che più sorprende: fitti e incalzanti. Poi, i personaggi, i quali, soprattutto nel secondo volume, diventano adulti, sensuali, vivono storie che intrecciano passioni tanto forti che pare impossibile siano usciti dalla penna di un giovane appena adolescente, peraltro timido quanto talentuoso. Alla passione per le parole, da sempre, si affianca quella per i fumetti: “Li ho letti per svago ma li ho anche studiati, come fossero dei libri: quel ritmo nei dialoghi, tanti personaggi che vivono in una sola storia”. Nel fumetto, Jason Woody, presentato a Teramo Comics, l’immagine valorizza quegli elementi simbolici ed esoterici –simboli meticci ma non inventati e frutto di accurati studi– molto presenti nei suoi libri, e la sensualità delle due figure femminili Maria Stuarda ed Elisabeth. Quanto a Jason, nuovi nemici da combattere nel nome del Bene in uno spazio temporale che pare contemporaneo ma è eterno con la formula di sempre: FIAT LUX.
Libri e fumetti possono essere richiesti alla casa editrice http:// www.artemiaedizioni .it/home. php e sono in vendita nelle librerie teramane. In questi giorni, Maria Teresa Orsini, la “direttora” editoriale di Artemia, sta studiando nuove forme di distribuzione sul mercato nazionale.
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SAGGI MATTOSCIO
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n coincidenza con il settantesimo anniversario della Liberazione e con la ricorrenza del quarantunesimo anniversario della scomparsa di Ettore Troilo la Fondazione Brigata Maiella pubblica con le edizioni Tracce questo volume collettivo curato da Nicola Mattoscio, presidente della Fondazione. “Un testo –scrive Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm, nella prefazione– che segna uno spartiacque nella ricostruzione di quella storia di cui dobbiamo essere orgogliosi e al contempo gelosi custodi dei suoi valori costitutivi. […] Proprio queste pregevoli pagine –prosegue– dimostrano come la figura di Troilo e le vicende della Brigata Maiella forse necessitano ancora di essere approfondite e arricchite ad opera di una storiografia sempre più attenta alla lettura della Resistenza non più come fenomeno unitario, ma caratterizzato da una complessa serie di componenti variegate di cui la Maiella costituisce uno dei tasselli fondamentali”. Testi di Nicola Mattoscio, Marcello Flores, Costantino Felice, Nicola Palombaro, Enzo Fimiani, Marco Patricelli, Giovanna Tosatti, Piero Nicola Di Girolamo, Maria Alessandra De Nicola e Carlo Troilo.
AA.VV., Ettore Troilo, Brigata Maiella e nascita della Repubblica. Edizioni Menabò-Fondaz. Pescarabruzzo, 2015,302p.
SAGGI CONSOLE
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i Gabriele D’Annunzio s’è detto tutto e il contrario di tutto. Oggetto dei giudizi dai più sommari ai più arditi e sopra le righe, tanto la storia della sua vita si è ripiegata su sé stessa da farci chiedere, con un pizzico di malizia, se davvero la sua opera oltre che studiabile, sia ancora leggibile. Certo è che, ci piaccia o no, Gabriele D’Annunzio vanta una presenza nell’immaginario collettivo con ogni probabilità superiore a quella della maggior parte degli autori notevoli della nostra letteratura. È questo un aspetto ravvisabile anche negli aspetti della sua vita che esulano dai confini italiani. In particolare, il libro di Silvano Console si concentra sul cosiddetto “periodo dell’esilio francese”, uno dei tanti che, vuoi anche in grazia dell’abilità di pubblicitario di D’annunzio, esaltarono alcuni dei suoi tratti umani e letterari tra i più stupefacenti, tanto che il nostro arrivò a comporre ben quattromila versi in francese arcaico, e ad Bruno Cortesi essere chiamato “mon cher ami” da Claude Debussy.
Silvano Console Mon cher ami. Gabriele d’Annunzio e l’esilio francese. Solfanelli, 2015, 216p., € 16
ROMANZI BRANDIMARTE
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sordire letterariamente a ventinove anni, pubblicare il primo romanzo con la Giunti e vincere un premio importante come il Calvino (il più prestigioso concorso per giovani scrittori) non è da tutti. Pier Franco Brandimarte, nato a Torano Nuovo (Teramo), è l’autore di questo romanzo “inusuale, perfetto nel suo genere” (motivazione del Premio), un romanzo-inchiesta che indaga –in un impossibile ma reale dialogo tra due esistenze lontane nel tempo– la vita del pittore Osvaldo Licini, le cui “Amalassunte” sono tra le sue opere più emblematiche. Un libro “magico, leopardiano, che lascia il segno di una prima prova B.C. matura e ricca di suggestioni come di rado accade”.
Pier Franco Brandimarte L’Amalassunta. Giunti, 2015, 185p., € 14
ROMANZI ALBERICO
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a anni il rapporto tra Lea e Stefano narra di quella costellazione di errori e gesti che trama l’esistere. Adagiato in una routine opaca ma rassicurante, esso non è riluttante ad un raro riso né ad una qualche forma di tenerezza. Un casuale incontro con Marco riaccenderà in Lea sensazioni sopite e la porterà a chiedersi: “Ma è davvero tutto qui?”. Tra sensi di colpa e un pizzico di autoironia si troverà a doversi confrontare con un universo di dilemmi che mai sino ad’ora l’avevano sfiorata. Persino quando Marco le confesserà di avere una relazione con un giovane uomo crederà di poter continuare a tenere insieme l’ordito e la trama, la vita vecchia e quella nuova, promessa; presto si accorgerà di quanto ciò che aveva immaginato e, in un certo senso, anche sperato fosse impossibile. Per il tramite di una scrittura misurata e discreta, ma non per questo incapace di cogliere nel segno, la Alberico ci porta a riflettere su quanto sia B.C. tutto, in fondo, una questione di scelte.
Giulia Alberico Un amore sbagliato. Sonzogno, 2015, 176p., € 15
POESIA GIANCARLI
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n lungo itinerario mentale ed emotivo ha preceduto la scrittura e, poi, la pubblicazione di questi testi dedicati all’Aquila, città devastata dal terremoto del 6 Aprile 2009. “Le mie parole, dopo l’evento –spiega l’autrice– si sono dileguate, frantumate e polverizzate. Hanno lungamente stentato a riprendere corpo e senso ed a legarsi fra di loro. Ho voluto, poi, recuperare la giusta distanza dal dolore e raffreddare la mia parte emozionale per raccontare le “perdite” incalcolabili subite da un’intera popolazione e dal suo territorio”. L’Aquila, tuttora, è ingabbiata, buia, silenziosa, disabitata e il suo enorme centro storico è in attesa di veder rinascere le sue bellezze artistiche ed architettoniche secolari. “La città perciò, oggi, rappresenta un’icona del degrado culturale, civile ed umano di tanta parte del nostro Paese che non tutela la sua memoria, la sua ricchezza identitaria, il suo ingente patrimonio artistico, tra scandali, rapine e indifferenza. Le mie parole, pertanto, vogliono essere un caldo materiale ricostruttivo e legarsi a quelle di coloro che ritengono insopportabile tale declino nazionale”.
Anna Maria Giancarli, E cambia passo il tempo. Robin Edizioni, Roma, 2014, 84p., € 10
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RIBALTA MOSTRE ALFREDO PAGLIONE
MECENATE DA 110 E LODE Aligi Sassu e Marc Chagall, Giorgio De Chirico e Pablo Picasso fra gli artisti presenti nella prestigiosa collezione che il gallerista milanese di origini abruzzesi ha donato all’università Gabriele d’Annunzio
di Giorgio D’Orazio
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uello che ha spinto e spinge Alfredo Paglione sul terreno del mecenatismo, per sua stessa ammissione, è l’amore per l’arte e per la sua terra d’origine, quell’Abruzzo dal quale si è allontanato da ragazzo, per cercare e trovare fortuna a Milano come gallerista e collezionista di fama, ma che non ha mai abbandonato tanto da dedicare i suoi sforzi migliori ad arricchire la regione di donazioni d’arte e di motivazioni culturali. Con l’intento di favorire soprattutto la formazione di tanti giovani, tutti i giovani abruzzesi che Paglione dice di aver idealmente adottato dal punto di vista culturale, il collezionista ha collocato negli ultimi 15 anni oltre 2000 opere in varie località d’Abruzzo, in particolare nella provincia di Chieti dove Paglione ha le sue origini, spesso creando anche nuovi musei. L’ultima donazione, in perfetta linea con la visione di Alfredo Paglione, visione condivisa con sua moglie Teresita Olivares, purtroppo scomparsa nel 2008, riguarda 436 opere destinate al Museo dell’Università “Gabriele d’Annunzio” di Chieti-Pescara che andranno a costituire uno speciale fondo per la nuova “Cittadella dell’arte”, una struttura di circa 10.000 mq finalizzata ad accogliere la Biblioteca Regionale e il Museo dell’Arte e della Scienza. Con la stipula dell’atto notorio di donazione di questo importante corpus di opere d’arte, la parte migliore e più preziosa della sua collezione personale, selezionata durante oltre cinquant’anni di attività svolta al centro del mercato dell’arte italiana e internazionale, e poi radunata nelle sue case di Milano, Majorca e Giulianova, Paglione suggella la sua attività di mecenate con l’Abruzzo nel cuore. La scelta di un museo universitario per donare la porzione migliore della propria raccolta privata non è casuale, la
nuova sezione museale è pensata infatti come volano di promozione culturale soprattutto a beneficio degli studenti della nostra regione, una scelta nella quale l’arte viene indicata quale modo e mezzo, quale humus per lo sviluppo delle generazioni future nella direzione di una emancipazione culturale collettiva e condivisa, insomma una auspicata caratteristica dell’Abruzzo di domani, come spiega Paglione. L’Università di Chieti-Pescara, nell’accogliere con orgoglio l’ingente patrimonio artistico messo a disposizione da Alfredo Paglione, che ha sottoscritto l’atto di donazione con il magnifico rettore Carmine Di Ilio, alla presenza del direttore del museo universitario Luigi Capasso, si è così impegnata a renderlo fruibile quanto prima, incrementando le possibilità del Museo e l’offerta agli studiosi e alla cittadinanza, e consolidando anche grazie a questo apporto la vocazione interattiva fra luogo di produzione e luogo di diffusione della cultura nel nostro territorio. In alto: Alfredo Paglione davanti a un quadro di Aligi Sassu. Qui sotto il magnifico rettore dell’Università D’Annunzio Carmine Di Ilio
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BRUNO DI PIETRO
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la Terra, la sua storia e la sua fragilità sono il filo conduttore di EARTH!, la mostra personale di Bruno Di Pietro che la Fondazione Carichieti ospita nelle sale di Palazzo de’ Mayo fino al 13 settembre. Inaugurata il 2 giugno scorso per festeggiare il terzo anniversario dell’apertura al pubblico della prestigiosa sede espositiva al centro di Chieti, la mostra raccoglie quasi 40 tra dipinti e sculture di Bruno Di Pietro (nato a Ripacorbaria nel 1947) che abbracciano vari periodi della sua carriera, dai dipinti ispirati all’Iliade, alle sculture - soldato, frutto di riciclo e assemblaggio di materiale urbano e quotidiano; dalla serie di opere a tema paesaggistico denominate Confini, incentrate sull’universo e il suo caos primordiale, fino alle opere dell’ultimo periodo, che si concentrano principalmente sul tema dell’albero, simbolo per eccellenza della vita sulla terra. Un percorso artistico tra le opere e la vita del poliedrico Di Pietro –pittore, scultore, incisore, poeta– utile per riflettere sul ruolo dell’artista contemporaneo nella società e su come l’arte possa parlare di temi fondamentali quali la difesa dell’ambiente. “Quando si pensa all’opera di Bruno Di Pietro –ha scritto Maria Cristina Ricciardi– ci si richiama immediatamente e inevitabilmente a quel colossale impegno, condotto con grandi esiti e durato quasi venti anni (a partire dagli anni Ottanta), sulla rilettura dell’epica omerica dell’Iliade, laddove egli realizza un’esperienza artistica di straordinaria compiutezza, di originale sintesi espressiva e di intelligente sensibilità poetica. L’Iliade e la leggenda Troiana, a cui egli arriva dopo una lunga esperienza di pittore avviata dalla metà degli anni Sessanta, ha costituito dunque, nel percorso di Di Pietro, una fase importantissima da cui non si può prescindere, catalizzando a lungo tutte le sue attenzioni ed energie, definendosi in un poderoso costrutto poetico evidenziato da lavori di ampio respiro: numerosi dipinti a olio di grande formato, disegni, sculture in marmo bianco di Carrara, in pietra della Maiella, in bronzo e in acciaio, ripetutamente esposti in contesti importanti e significativi, quali il MUMI di Francavilla al Mare, la Mole Vanvitelliana di Ancona, il Castello Cinquecentesco dell’Aquila, l’Università D’Annunzio di Chieti”. Bruno Cortesi
GIANFRANCO ZAZZERONI
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al 5 al 26 maggio Palazzo Medici Riccardi a Firenze ha ospitato una personale di Gianfranco Zazzeroni, costituita da “dipinti e carte che parlano di una dimensione estetica, basata, come per le più potenti avanguardie storiche, sul colore e sull’energia dinamica dei segni” come ne parla la curatrice Anita Valentini. Colore innanzitutto, espressione di un mondo interiore, quello di Gianfranco Zazzeroni, legato a sensazioni e sentimenti personali, ad un diario intimo di riflessione sul proprio io. In tutte le opere del pittore –in bilico fra Vassilij Kandinskij e Jackson Pollock suoi numi tutelari– si incontrano colori forti, vivaci, le tinte della gioia di vivere, della speranza, della positività, riprese e rivisitate più e più volte, a descrivere un percorso costituito da diverse tappe, in cui, dopo una sosta meditativa, egli riparte verso nuove mete. Ma Zazzeroni non vuole imitare i grandi del passato né tantomeno “andare alla guerra”. Anche se spara certe pennellate di colore che sembrano sciabolate. Non chiedetevi però il “messaggio” dei suoi fendenti –è poi obbligatorio averne uno?– che se c’è… è sussurrato; a null’altro essi si apparentano se non con l’intima dirittura d’animo, aliena da spigoli, angoli o curve. Anche nei formati piccoli.
Graziano Martini
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i intitola “Strategie di volo” la bella mostra personale di Graziano Martini allestita lo scorso giugno nella Sala degli Alambicchi all’Aurum di Pescara. Grandi tele, realizzate con tecnica mista, olio e acrilico, per costruire un percorso di riflessione sull’importanza della cultura classica come strategia per comprendere il mondo attuale, complicato dalle istituzioni che dovrebbero regolarlo. Secondo Martini “Una formazione culturale priva di dogmatismi, integrata dalle tecniche di meditazione delle filosofie orientali, può contribuire ad alleviare le sofferenze dell’uomo e gioire delle bellezze della natura”.
STEFANO IANNI
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agli anni ‘60 e per alcuni decenni la pittura fu bandita dall’arte d’avanguardia. Oggi, col ritorno alla pittura, si distingue chi, affascinato dalla resa degli impasti, con entusiasmo si adopera a produrne dei nuovi. È il caso dell’aquilano Stefano Ianni che, infaticabile sperimentatore, si concentra sullo studio dei materiali e sempre con un approccio spirituale verso il lavoro. La sua scrittura pittorica non si definisce in una sola tendenza ma è una libera e sofferta espressione della sua incessante ricerca. Elementi costanti nelle sue opere: un simbolismo più o meno sviluppato, e il ricorso alla forza del colore. Stefano Ianni a lungo si è interessato al concetto di confine dei suoi dipinti, ma il perimetro delle sue opere è anche un limite psicologico. Le opere sono legate al suo immaginario e risentono della sua passione per il mare e per la pesca ma possono essere anche una critica all’uniformità della moda di oggi. E nello stesso tempo rappresentano la condizione ineluttabile della preda. Simbolismo questo non del tutto declinato per cui l’opera vive della novità dei materiali e dell’impasto pittorico sempre denso e ricco. La pelliccia nera utilizzata anche per i paesaggi marini invita alla sensazione tattile. Ben diverse le opere I materiali del sogno. Sono dipinti su carta e di grandi dimensioni e perciò intelate, tecnica caratteristica dei restauratori, che il professor Ianni insegna ai suoi alunni dell’Accademia delle Belle Arti dell’Aquila. Sono opere di una levità particolare. Un omaggio alla Bellezza può essere considerato anche Per fluctus (2004). Stefano Ianni dimostra di essere un artista Anna Cutilli Di Silvestre dai tanti interessi e poliedrico nelle sue realizzazioni.
In questa pagina, dall’alto: Bruno Di Pietro e una sua esposizione a Palazzo de’ Mayo; Gianfranco Zazzeroni, Frammenti di un arcobaleno notturno, 2011, tecnica mista su tela, cm 106 x 130. Due opere di Graziano Martini; Stefano Ianni, Per fluctus, 2004
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RIBALTA MUSICA FEDERICA DI MARCELLO
MARLò Di nome E DI VOCE
Da piccola voleva fare la veterinaria, l’interprete e la guida turistica. Oggi è una cantautrice e ha le idee molto chiare su quello che l’aspetta: «Il mercato musicale è un mondo spietato, ma c’è ancora spazio per chi si impegna» di Fabrizio Gentile
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l nome è corto, raffinato, ha quel tanto di esotico che non guasta. Specialmente se a portarlo è una bella cantante dalla fluente chioma bruna e con una voce da usignolo. «Sono sempre stata restia al nome d’arte, ma mio nonno ha suggerito questo, che mi piaceva», racconta. E da qualche anno il nome Marlò ha iniziato a comparire prima sulle locandine dei locali milanesi, poi nei programmi dei concorsi e dei festival canori di tutt’Italia. A cominciare da Musicultura, il più ambito dei concorsi nazionali per gli artisti emergenti, al quale Marlò è arrivata in finale nel 2013 con il brano La donna di scorta, passando per il premio Lunezia e il premio Bianca D’Aponte (entrambi nel 2014), per approdare infine ad Area Sanremo 2015, in cui la canzone Tu che canti piano è giunta tra i 40 brani finalisti, ottenendo i complimenti di personaggi del calibro di Mogol (“Non avrei saputo scrivere un testo bello come il tuo, è una poesia vera. Un punto di vista femminile, delicato”) e Roby Facchinetti (“Questa canzone è un meraviglioso dipinto. Una storia raccontata benissimo. Lo trovo un brano bellissimo”). Ma chi è Marlò? «È l’alter ego canoro di Federica Di Marcello, cantautrice. Sono nata 25 anni fa a Pescara, dove ho studiato canto e pianoforte. Nel 2009 ho preso armi e bagagli e mi sono trasferita a Milano, dove ho frequentato il Centro Professione Musica di Franco Mussida (lo storico chitarrista fondatore della PFM, ndr). Lì ho trovato insegnanti che mi hanno formata e mi hanno insegnato a scrivere. Dopo il diploma ho trovato lavoro –insegno canto ai bambini allievi dell’Accademia Piccoli Mozart– e ho formato con Michele Cocciardo e Giuseppe Chiara, batterista e chitarrista, il Marlò acoustic trio, con cui abbiamo passato un anno a esibirci a Milano e dintorni con un repertorio costituito essenzialmente di cover. È stato poi Michele a spingermi a scrivere di più, e così ho registrato tre delle canzoni che avevo in tasca –La donna di scorta, Tu che canti piano e Il pozzo nell’anima– realizzando anche i relativi video promozionali. E da allora abbiamo cominciato con i concorsi». A tal proposito, sei abbonata alle finali… «A quanto pare sì. Ma ai concorsi vado senza grandi aspettative, perché conosco il mercato e so che le mie non sono canzoni “radiofoniche”. Ciononostante persevero,
perché credo che ci sia spazio per chi crede in quello che fa. E sto ottenendo grandi soddisfazioni, esibirsi su palchi prestigiosi è sempre una bella emozione. La scorsa estate sono stata anche a Pescara, per il Tenco ascolta». Di cosa parla la tua musica? «È difficile, almeno per il momento, scrivere di qualcosa che non mi appartenga. Forse un giorno raggiungerò la maturità per affrontare argomenti diversi, ma attualmente in tutti i miei testi c’è sempre qualcosa di autobiografico. Credo che scrivere una canzone comporti un certo grado di responsabilità, perché metti in circolo un’idea, e devi essere credibile. Se non parli di qualcosa che conosci è difficile trasmettere emozioni, permettere a qualcuno di ritrovarsi in quello che scrivi. Qualcuno dice che ho la vena malinconica un po’ pronunciata, ma è perché di solito cerco di capitalizzare ciò che mi rattrista, di convogliarlo nella musica e renderlo quindi positivo. Ma nel quotidiano sono ben più allegra. Per fortuna». Quali sono i tuoi musicisti di riferimento? «Damien Rice e Paolo Nutini, per citare i più noti, ma anche Emeli Sandé, Sarah McLachlan, Camille, Emmanuel Moire: tutta gente che conosco solo io, come dice mio padre». In soli cinque anni a Milano ti sei diplomata al Cpm, hai inciso tre brani, ti sei fatta un nome in campo artistico e hai trovato anche lavoro. Un bilancio positivo. «Sì, ma c’è ancora tanto da fare. L’impegno più stringente al momento è la realizzazione di un cd (ovviamente autoprodotto) che conterrà i tre brani già incisi più altre canzoni. Oltre a Michele e Giuseppe suonano con me Raffaele Trapasso (basso) e due pescaresi: Giorgio Labagnara al pianoforte e Simone Pirri, violinista di stanza a Londra dove studia alla Royal Academy of Music».
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L’ABRUZZo, il rock e l’europa
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razie all’Indie Rocket Festival Pescara è stata, per tre giorni, in un contesto europeo. Almeno per quanto riguarda la musica: dal 26 al 28 giugno si sono alternati sul palco nella ex Caserma Di Cocco, location più che collaudata per un festival di questa portata, i francesi Zombie Zombie, i russi Messer Chups, Tubelight (Belgio), Vibravoid (Germania), Populous, Yakamoto Kotzuga e Niagara, gli austriaci Elektro Guzzi (nella foto), Debruit e molti altri. Ma l’estate è rock anche in provincia: dal Maiella Sound Camp, svoltosi dal 19 al 21 giugno a San Valentino, tre giorni di concerti, mostre, installazioni video, dj-set in un particolare connubio fra natura, arte, sport ed enogastronomia, al Rock Your Head Festival, che dal 12 al 15 agosto scuoterà animi e coscienze a Montebello di Bertona cercando di valo-
rizzare le esperienze artistiche del territorio e creare legami con le energie creative provenienti da tutta l’Europa. A suon di rock, naturalmente.
MAURIZIO COLASANTI
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bbado, Celibidache, Muti, Savallish: i direttori d’orchestra più famosi del mondo hanno calcato il podio prestigioso del Politeama di Palermo. A questi nomi se ne aggiunge un altro, quello del Maestro teatino Maurizio Colasanti. Sotto la sua bacchetta l’Orchestra Sinfonica Siciliana, che per l’occasione si veste a festa con un organico completo in tutti i suoi reparti e ottanta musicisti di prim’ordine ha eseguito, lo scorso 29 e 30 maggio, un programma grandioso e
impegnativo: il Concerto n 3 per Pianoforte e orchestra di S. Prokofiev e la Sinfonia n. 1 di Shostakovich. Il direttore d’orchestra teatino, protagonista di quella eccellenza culturale che tanti politici vorrebbero –almeno a parole– valorizzare, può essere considerato a buon diritto ambasciatore della cultura Abruzzese in Italia e nel mondo. Negli ultimi anni ha diretto orchestre in diversi teatri dalla Cina agli Stati Uniti, dalla Germania all’Argentina passando per il Messico, la
Corea, l’Austria, la Finlandia e molti altri Paesi.
CLAUDIO FILIPPINI
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pianista Claudio Filippini pubblica per la Cam Jazz un nuovo album in studio festeggiando così i 10 anni del sodalizio artistico con il suo trio, composto dal contrabbassista Luca Bulgarelli e dal batterista Marcello di Leonardo. Conclusa l’esperienza “nordica” accanto a Palle Danielsson nei suoi due album precedenti, Filippini torna nuovamente sulla scena musicale incastonando una nuova perla discografica. Squaring The Circle è, mai come in questo caso, nomen omen: la quadratura del cerchio nella carriera del pianista abruzzese, che con questo disco dimostra di aver raggiunto quella maturità artistica capace di renderlo uno degli interpreti più raffinati del panorama jazz.
«In quasi tutte le lingue del mondo –spiega Filippini– si usa lo stesso termine per definire i verbi suonare e giocare. Mi sembra che in questo disco questi due elementi si siano fusi perfettamente per la spontaneità con la quale sono nate queste nostre reinterpetazioni di classici del songbook americano». L’album si presenta ricco di sfumature e di suggestioni, nel quale ad emergere è la straordinaria armonia tra i musicisti che, accanto alla padronanza indiscussa dei propri strumenti lasciano trasparire quell’anima ludica e leggera che è così raro scorgere in produzioni di questo tipo.
LE MILLE FACCE DEI SUBSONICA
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n molti oggi si interrogano sull’arte e sulla sua radice mondana, sanguigna. Certo è che molte delle nostre esperienze, oggi più di ieri, coinvolgono (e, talvolta, sconvolgono) ogni senso, si nutrono di terra e carne, di emozioni concrete e tangibili. Chiamare tutto questo “Cultura”? chissà … Parlare della musica dei Subsonica nei termini di una singola sfera sensoriale sarebbe riduttivo: farlo significa riferirsi ad una galassia di ascolti, letture, incontri, avvenimenti. Significa dissezionare un corpo vivo e cangiante, guardare al sole della Giamaica e alle nebbie di Bristol, al pop, al reggae ed alla musica elettronica; ma anche alla cronaca: a tutto quanto andrebbe cambiato e a come cambiarlo. Questo ed altro ancora racconta la musica della band torinese. Il libro narra della collaborazione con registi ed artisti, del gusto per il provocatorio, dell’interesse per la letteratura, dell’attenzione prestata ad ogni singolo dettaglio, di un’umanità varia ed eventuale.
Letizia Bognanni e Roberta D’Orazio, Albe scure. Sguardi sulla cultura subsonica. Arcana editrice, 2015, 191p., € 16,50
50 anni IN CORO
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i strada ne hanno fatta tanta, in Abruzzo, in Italia e all’estero, ottenendo prestigio e notorietà internazionale sia per il repertorio che per l’alto livello delle esecuzioni. Dal 1964 a oggi il Coro delle 9 ha svolto un’intensa attività, suscitando soprattutto in Abruzzo un interesse vivissimo per il canto polifonico, stimolando la nascita di altri cori, favorendo la formazione degli “Incontri Polifonici” di Pescara e la costituzione dell’associazione “Cori dell’Abruzzo”. Per festeggiare i 50 anni dalla fondazione il Coro delle 9 ha organizzato un concerto celebrativo che si è svolto lo scorso 3 luglio all’Aurum di Pescara, ripercorrendo i brani più celebri del suo repertorio –che va dal Rinascimento alla polifonia dell’epoca classica e moderna, fino alla contemporaneità– sotto la direzione attenta del M° Ettore Maria Del Romano. L’evento è stato impreziosito dall’allestimento di una mostra video-fotografica che ha illustrato il lavoro che l’associazione ha sviluppato nel corso dei suoi 50 anni.
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RIBALTA CINEMA SCANNO FUTURISTICA
A SCUOLA DI REPORTAGE
L’AUDACE COLPO DI CALANDRA E LIGUORI
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ornano a Scanno le cineprese: stavolta uno dei set naturali più suggestivi d’Abruzzo è stato scelto dalla produzione di Futuristici, una sitcom ambientata in un recente passato in cui non esistono i social network, ideata da Daniele Prato, che firma anche la regia, e dagli attori e produttori Mauro Meconi e Alessandro Parrello. Nel cast anche Pino Insegno, Francesco Montanari e l’abruzzese Federico Perrotta, che è riuscito a coinvolgere il cast e la produzione intorno a questo innovativo progetto che vede la nostra regione protagonista.
ANDREA ARCANGELI
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i più attenti non sarà sfuggito: nel cast di Tempo instabile con possibili schiarite, l’ultimo film di Marco Pontecorvo, al fianco di Luca Zingaretti e John Turturro compare il giovane Andrea Arcangeli, ventiduenne pescarese ben noto al pubblico televisivo per aver ricoperto il ruolo di Michele nella fiction Fuoriclasse dove recitava al fianco di Luciana Littizzetto. Andrea ha compiuto con Pontecorvo il primo passo nel mondo del cinema di serie A dopo le esperienze televisive e dopo una lunga gavetta sul palcoscenico: anche lui, come altri, è stato allevato nel vivaio della Smo di Giampiero Mancini, che si conferma fucina di giovani talenti.
installazione multimediale L’Aquila, frammenti di memoria, composta di una mostra fotografica, di reportage sonori, video e scritti è stato il primo risultato delle attività della sede aquilana della Scuola nazionale di Cinema - Centro sperimentale di Cinematografia, la cui offerta didattica è volta ad acquisire competenze di alta professionalità nel campo della comunicazione audiovisiva e soprattutto nel reportage. La mostra è stata inaugurata in occasione della presentazione dei risultati del corso di base il 18 dicembre 2014 presso la sede aquilana in via Carabba; è stata esposta successivamente al Liceo Bafile a L’Aquila, e poi a Perugia in occasione del Festival Internazionale del Giornalismo e del Perso Film Festival, per poi essere ospitata a Roma e in altre città italiane. L’installazione è frutto del confronto degli allievi con i docenti che li hanno accompagnati nel percorso didattico, tra cui Daniele Segre (direttore didattico del corso), Goffredo Fofi, Massimo Casacchia, Giuliana Sgrena, Luca Bigazzi e altri. Nel primo trimestre 2015 sono inoltre stati realizzati 20 radio documentari su L’Aquila, con i docenti Daria Corrias e Lorenzo Pavolini, che in occasione dell’anniversario del terremoto del 6 aprile 2009 sono stati trasmessi da Rai Radiotre nelle trasmissioni “Zaza’” e “Tre soldi”. Il secondo trimestre invece vede gli allievi impegnati in una importante ricerca sul mondo giovanile a L’Aquila nei diversi settori del reportage, che sarà presentata pubblicamente alla fine di dicembre 2015, e in un reportage fotografico e filmato sull’Adunata degli Alpini a L’Aquila, 15/17 maggio 2015. Inoltre il diploma rilasciato dal Centro Sperimentale di Cinematografia presto avrà la validità di una laurea, come annunciato dal ministro Franceschini. Il prossimo 22 giugno la sede abruzzese del CSC con una cerimonia pubblica nell’Auditorium del Parco a L’Aquila conferirà i diplomi ai primi allievi che hanno terminato il corso di studi.
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n ingegnere informatico caduto in disgrazia, un centro diurno per senza fissa dimora, un regista impegnato nella realizzazione di un reality “estremo”. Sono gli ingredienti di Il SuperMercato, nuovo film di Francesco Calandra e Maria Grazia Liguori, che dopo l’ottimo La palestra (2011) tornano ad affrontare un tema scomodo, quello dei senzatetto. L’idea del film –un furto collettivo ai danni di un supermercato da parte di un gruppo di homeless– nasce da un’esperienza lavorativa di Maria Grazia Liguori, avvenuta all’interno di un’agenzia che si occupava di antitaccheggio. «Mi sono resa conto –ricorda la sceneggiatrice– che delle svariate persone che rubavano, la maggior parte avrebbe potuto essere mia madre o mio nonno, cioè gente che, onesta da una vita, a un
certo punto si ri trova a far quadrare i conti con modalità mai contemplate. E ha preso forma la storia di un colpo alla Soliti Ignoti, in cui un gruppo di sventurati decide di prendere in mano la propria vita e realizzare il grande colpo al supermercato, come soluzione possibile alla crisi che ci sovrasta». Realizzato con le stesse modalità del precedente (la commistione tra documentario, laboratorio di recitazione e fiction), il film è stato fortemente voluto dalla onlus On The Road, che gestisce il centro diurno Train de Vie nei locali della stazione ferroviaria di Pescara e per terminare il progetto gli autori si avvalgono del crowdfunding, un micro-finanziamento collettivo dal basso. Per chi volesse contribuire: https://www.produzionidalbasso. com/projects/7935/support.
La mano nel cappello
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n una comunità di disabili si cerca di mettere in scena il Don Chisciotte. Volontari e disabili, qui in veste di attori, alternano le attività della comunità e la loro vita quotidiana alle prove per lo spettacolo. I provini, l’assegnazione delle parti, la lettura del copione, la preparazione di scenografie e costumi, i rapporti personali: una giostra rocambolesca e una continua prova per tutti. Nato da un laboratorio teatrale per disabili psicofisici teso a potenziare le abilità specifiche di ciascuno dei partecipanti, La mano nel cappello racconta una storia “comunitaria” nei suoi aspetti quotidiani e straordinari utilizzando un
linguaggio talvolta ironico e talvolta crudo, per affrontare tematiche ancora, forse, considerate tabù. Diretto dal giornalista e filmmaker aquilano Francesco Paolucci, il film –attualmente in concorso in festival italiani e stranieri– è stato prodotto dalla Comunità XXIV Luglio dell’Aquila e realizzato grazie al contributo dell’8 x mille della Chiesa Valdese.
Nelle foto, dall’alto: Daniele Prato, Mauro Meconi e Alessandro Parrello, protagonisti di Futuristici; una foto da Frammenti di Memoria; Maria Grazia Liguori e Francesco Calandra sul set de Il SuperMercato; Andrea Arcangeli; Francesco Paolucci durante le riprese de La mano nel cappello
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RIBALTA TEATRO VA IN SCENA L’IMPEGNO CIVILE
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l Deposito Dei Segni porta in scena il dramma della popolazione palestinese con lo spettacolo Gaza di e con Cam Lecce e Jörg Grünert, liberamente tratto dal libro Restiamo Umani di Vittorio Arrigoni, da versi di Ibrahim Nasrallah e la poesia Gaza di Samih Al Qasim. Lo spettacolo, seguendo la scansione temporale della testimonianza di Arrigoni, racconta i giorni del massacro e dell’assedio subito dalla popolazione palestinese nella Striscia di Gaza, dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009, ad opera delle forze militari israeliane con l’Operazione Piombo Fuso che causò la morte di oltre 1.400 civili. Arrigoni dal suo blog Guerrilla Radio informò in tempo reale il mondo di ciò che accadeva nella Striscia di Gaza, descrivendo l’orrore che la popolazione civile stava subendo da parte delle forze di terra, aeree e di mare dell’esercito israeliano che bombardava case, ospedali, scuole, mercati, università, moschee, villaggi, campi profughi, centrali
elettriche, ponti, strade, campagne, fiumi. I due artisti in scena Cam Lecce e Jörg Grünert, da oltre un decennio impegnati in attività di solidarietà e formazione di teatro sociale, negli anni hanno approfondito il tema dell’oppressione e dei diritti negati ai palestinesi lavorando direttamente con loro nelle difficilissime condizioni di vita nei campi profughi in Libano. Questa conoscenza li rende testimoni diretti della loro sorte e nelle drammaturgie tentano di esprimere una partecipazione a ciò che accade o che è accaduto, diventando corpi emotivi che subiscono la storia coinvolgendo lo spettatore ad una partecipazione non all’orrore bensì ai sentimenti. Un teatro civile per i diritti umani. Musiche di Luigi Morleo e Michelangelo del Conte. Produzione Deposito dei Segni in collaborazione con ISM-Italia e ACS Abruzzo Circuito Spettacolo.
Qui sopra:Cam Lecce nello spettacolo Gaza. Sotto, Susanna Costaglione e Irida Mero in scena a Ussita
LE MONTAGNE DEL CUORE
C’
era anche l’Abruzzo al Convegno Nazionale sull’Escursionismo del Club Alpino Italiano, organizzato a Ussita, nel Parco Nazionale dei Monti Sibillini, al confine tra Umbria e Marche, appuntamento voluto e promosso dalla Commissione Centrale Escursionismo per fare il punto sulla proposta di escursionismo del CAI, oggi, in una epoca di profondi cambiamenti a livello socio-culturale, l’epoca della globalizzazione foriera di nuovi esodi, mescolanze e meticciati. Quindici escursioni in quattro giorni, arricchiti da un programma serale curato da Claudio Di Scanno, regista teatrale pescarese, fondatore, nel 1985, del Drammateatro di Popoli, qui anche in veste di segretario dell’Organo Tecnico Territoriale Operativo del Cai Abruzzo. Eventi speciali come la proiezione del film Un cuore rosso sul Gran Sasso, performance visiva e happening alla Biennale di Venezia del 1975, presentato e commentato dall’autore Sandro Visca, e La Montagna meravigliosa, lettura scenica di Susanna Costaglione –attrice di punta dell’ensemble di Di Scanno– della cronaca della salita al Gran Sasso d’Italia nel 1794 di Orazio Delfico, con musica di Irida Mero. Protagonista dell’ultimo evento speciale l’alpinista Fausto De Stefani, tra i più celebri “conquistatori” degli Ottomila himalayani e impegnato da anni in progetti di solidarietà in Nepal, autore di Un viaggio lungo una fiaba, testo narrato in scena da Susanna Costaglione con musica eseguita dal vivo da Marco Di Blasio. La fiaba scritta da De Stefani –che narra del vecchio Mandelo, che raccontava fiabe ai bambini quando ai bambini i nonni ancora raccontavano fiabe create per parlare di vita– fa emergere l’idea di “estensione delle possibilità” legate all’escursionismo, all’andar per monti con il CAI in maniera consapevole ed evoluta, in modo attuale e moderno. Negli spazi del Convegno Nazionale sull’Escursionismo si sono messe in luce alcune idee forti, come quelle ben chiare del giovane Presidente della CCE Paolo
Zambon, racchiuse nel senso della lentezza della progressione che invita lo sguardo a soffermarsi sulla natura che si attraversa e, per immediato riverbero, a soffermarsi su noi stessi e sulla nostra condizione di viandanti della contemporaneità. O come quelle dell’energico Armando Lanoce pregnantemente orientate al recupero senza nostalgie dei valori fondanti l’escursionismo di ricerca, intensamente contrassegnato da valori certi e fondanti lo spirito e la cultura del Club Alpino Italiano. «Perché ciò che il Club Alpino Italiano può davvero mettere in gioco sul piatto del suo futuro –ha commentato Di Scanno– è l’idea di un’arte del camminare in montagna capace di creare effetti di consapevolezza, relazioni solidali con la contemporaneità. Una dilatazione dei confini che sia presenza autorevole, propositiva e professionale del volontariato CAI. Che sia confronto serrato
con lo spirito del tempo, presenza attenta e altamente dialettica con i territori, cammino come produzione di umanità. Esattamente come fa o tenta di fare l’arte nelle sue ramificazioni identificative, dall’arte figurativa al cinema al teatro alla musica».
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FABRIZIO CAMPLONE
IL SAPORE DEL BELPAESE Il gelato ai gusti dei migliori prodotti provenienti da tutte le regioni d’Italia, in onore dell’Expo
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l successo, per Fabrizio Camplone, è un gusto che assapora da tempo. È la conseguenza inevitabile di un lavoro la cui caratteristica costante è l’innovazione unita alla ricerca dell’eccellenza. L’arte pasticcera di cui il maestro pescarese è alfiere nella nostra regione lo ha portato in cima alle classifiche annuali redatte dagli esperti, nelle pagine delle guide più importanti, sul podio dei più prestigiosi concorsi nazionali e internazionali. Ultimo riconoscimento, il conferimento della prima stella da parte del Gambero Rosso, che dopo dieci anni di segnalazioni a suon di chicchi e tazzine lo ha inserito di diritto nella Hall of Fame dei migliori bar italiani. Lui, con la consueta modestia, ha dedicato l’ambito traguardo al padre Tullio, che nel 1957 aprì il primo bar in Piazza Garibaldi, sul lato opposto rispetto all’attuale collocazione di Caprice, il locale che dal 1989 dispensa dolcezze nel “salotto antico” di Pescara. Gelati, torte e pasticcini che deliziano il palato di quanti, attratti dalle invitanti vetrine, scoprono l’infinita varietà di prodotti partoriti dall’instancabile lavoro di Fabrizio Camplone. Il gelato, in particolare, declinato dal maestro secondo i gusti tradizionali ai quali, negli anni, si sono affiancate le specialità originali create con gli ingredienti della gastronomia abruzzese: dal “Pecorino e miele d’acacia” alla “Presentosa” (basato sul dolce inventato da papà Tullio), dal “Confetto di Sulmona” allo “Zafferano dell’Aquila”, dal “Bocconotto” al “Mostacciolo” e molti altri. Gusti che –avverte il pasticcere– sono disponibili stagionalmente, seguendo cioé la reperibilità delle materie prime, nel segno di una volontà di offrire prodotti genuini (quindi dimenticatevi il gelato alla fragola, d’inverno). La fantasia sfrenata di Fabrizio Camplone non si è lasciata sfuggire la ghiotta occasione fornita da Expo 2015, e ha dato vita a una linea di gusti che la pasticceria propone, fino alla chiusura della fiera mondiale milanese, di settimana in settimana e che si ispirano alle regioni italiane e ai loro prodotti più rappresentativi: si va dalle “Strazzate” della Basilicata al “Grana Padano e Pere” del Veneto, passando per il “Verdicchio” delle Marche, la “Mentuccia Romana” del Lazio, i “Nocciolini di Chivasso” del Piemonte, le “Pepatielle” del Molise, la “Rocciata” umbra e così via, lungo un’Italia tutta da gustare. Fabrizio Camplone gioca con l’immaginazione, si diverte a inventare formule sempre più elaborate (vi sfidiamo a trovare un altro maestro pasticcere che proponga un gelato al gusto di “Anice stellato e fichi caramellati”) per soddisfare le esigenze di un pubblico vasto e diversificato (trasversale, si direbbe oggi) che da Caprice si aspetta sempre qualcosa di originale. Del resto è stata proprio l’originalità il segno distintivo dell’attività di Fabrizio Camplone, fin da quando lavorava come apprendista nel laboratorio del bar di famiglia. Era il 1980 e un allora diciannovenne Fabrizio, desideroso di apprendere i segreti dell’arte pasticcera, si nutriva delle conoscenze del capo laboratorio, «dal signor Giovanni ho imparato quasi tutto, ma ogni volta che la mia curiosità di ventenne mi portava a fare delle domande specifiche, la risposta
che ottenevo era “si fa così”, senza spiegazioni elaborate. Non mi bastava, e così decisi di frequentare delle scuole di perfezionamento. Cominciai nell’‘84, da Lenôtre, a Parigi: era una delle più importanti e rinomate (e costose) scuole esistenti in Europa, e fu un’esperienza entusiasmante. Era un’accademia internazionale, insieme a me c’erano altri due italiani, in mezzo a giapponesi, americani, tedeschi… Ottenni le spiegazioni a tutte le mie domande, imparai a dominare i materiali, gli ingredienti. Mi fornirono, insomma, le basi scientifiche che compensarono le carenze dell’esperienza empirica svolta nel laboratorio di famiglia. E capii che in Francia esisteva già un’equiparazione tra la figura del pasticcere e quella dello chef, cosa che in Italia sarebbe accaduta solo trent’anni più tardi. In quei quindici giorni scelsi il mio futuro. Tornato a Pescara cominciai a mettere a frutto gli insegnamenti ricevuti». Primo risultato fu la comparsa a Pescara del croissant, che non è un “cornetto”: l’impasto contiene pochissimo zucchero, quindi si può farcire dolce o salato. Ma importai anche altre idee innovative». Come i ricercatissimi Macarons, oggi di gran moda, ma presenti tra i prodotti di Caprice fin dal ‘95: «Per apprendere i segreti della lavorazione del cioccolato ho intrattenuto stretti rapporti con diversi pasticceri svizzeri. Durante un viaggio a Lugano rimasi colpito da una vetrina della Sprüngli, in cui erano esposti dei pasticcini colorati e originali, e decisi di realizzarli anche io». Coadiuvato dalla moglie Antonella, esperta di vetrinistica e confezionamento (è stata l’unica donna italiana, finora, a guadagnare il primo posto assoluto al Campionato internazionale della presentazione di Parigi, nel 1996), Camplone ha fatto del suo Caprice un ritrovo elegante e raffinato, in cui fermarsi per bere un caffé, gustare un té o soddisfare desideri ben più sostanziosi: bigné di ogni dimensione e gusto, gelati “al piatto” serviti con professionalità e caratterizzati da un’innegabile gusto estetico che sposa benissimo quello degli ingredienti; torte per ogni occasione (Pasqua, Natale, anniversari, compleanni e matrimoni inclusi) tra cui le originali creazioni che la famiglia Camplone propone fin dagli anni Sessanta: la Presentosa, ereditata dal padre Tullio e ispirata al famoso gioiello tradizionale abruzzese; la Torta Florita, che Tullio dedicò alla moglie; la Dolcemila, inventata da Fabrizio e ispirata alla Figlia di Jorio, la torta al Farro di Caprafico. E non vanno dimenticati i Capricci, i coni a tre punte ricoperti di cioccolato fondente che (forse) hanno ispirato a fabrizio Camplone il nome del suo locale. «L’unica cosa che mi interessa, da quando ho cominciato a fare questo mestiere, è migliorare, sia in termini di prodotti che di conoscenze. La conoscenza –delle materie prime e degli alimenti, delle attrezzature e delle tecniche di lavorazione, dei processi di fermentazione, di cottura, di emulsione– è alla base di tutto. Per questo ho continuato a frequentare corsi di alto livello, in Italia e all’estero e invitare a Pescara i migliori pasticceri: è solo in questo modo che si può alimentare la creatività».
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Fabrizio Camplone con sua moglie Antonella e alcune creazioni del maestro pasticcere
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VARIOGUSTO
BERARDO
AL CENTRO DEL GUSTO Un’offerta variegata come i gusti del gelato che l’hanno reso famoso. Uno dei più celebri locali di Pescara amplia i suoi spazi e si riconferma al vertice delle strutture d’eccellenza della città
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n angolo di paradiso in pieno centro a Pescara, rimasto troppo a lungo in ombra, che oggi torna a vivere e ad animarsi. Dire “Berardo” nella città adriatica fino a qualche anno fa significava soprattutto “gelato”, ma oggi è molto di più. Lo storico bar situato alla fine di Corso Umberto, proprio all’angolo di Piazza Primo Maggio, al piano terra di quello che è stato definito “il più bel palazzo liberty di Pescara”, dopo la riapertura di tre anni fa si è infatti “allargato” fino a comprendere oggi i locali dell’ex boutique Santomo, raggiungendo così dimensioni ragguardevoli (circa 450 metri quadrati) e ampliando l’offerta: non solo gelato ma anche lounge bar, ristorante-pizzeria con cucina a vista, e perfino un angolo con esposizione di prodotti tipici. Il tutto si deve all’energia e alla passione di Adamo Di Natale, un tempo animatore delle notti pescaresi negli anni Ottanta con la sua discoteca Lenny, oggi imprenditore nel settore della ristorazione d’eccellenza, “regista di matrimoni” nelle strutture esclusive che gestisce col suo gruppo Mas, luoghi incantevoli come Parco dei Principi e Tenuta Di Sipio: «Ho cercato di restituire alla città un luogo rappresentativo, storico, ma anche di caratterizzarlo secondo le esigenze della modernità». Una sfida alla crisi, quella di Di Natale, che proprio non sopporta di assistere alla chiusura di negozi e locali nella zona a più alta vocazione turistica della città, dove tra l’altro –a pochi passi da Berardo– si trova anche il suo ristorante Regina Elena. Il mare, la riviera, due piazze, il corso principale col passeggio dal mattino fino a notte fonda: «C’era bisogno, in quest’angolo di città, di un locale capace di offrire qualità e gusto per tutte le tasche. Non potevamo limitarci alla sola attività di lounge bar e gelateria, i turisti vogliono altro» spiega l’imprenditore. E i numeri gli danno ragione: la clientela del locale, da quando ha ampliato servizio e attività «è per il 90%
fatta di turisti. Apprezzano l’arredamento raffinato e minimalista, la buona cucina ispirata tanto alla tradizione locale che alla gastronomia nazionale, la varietà di offerte e la professionalità del servizio. Per ora, in attesa dei mesi invernali, possiamo dire di aver centrato l’obiettivo» afferma Di Natale. La vita da Berardo comincia presto: alle sette del mattino la cucina è già al lavoro per offrire prelibate colazioni a base di yogurt, succhi di frutta e centrifugati accanto agli immancabili cornetti e cappuccini, e appena tre ore dopo i profumi del brunch –un momento ormai classico della giornata lavorativa– si spandono nel locale. Per il pranzo si può scegliere tra la cosiddetta “ristorazione veloce”, da consumarsi con vista sul mare ai tavoli dell’american bar, e la tavola imbandita nel nuovo ristorante che guarda verso Piazza Salotto, il cuore della città. La gelateria –che si avvale di un modernissimo laboratorio con attrezzature all’avanguardia– funziona a pieno regime e garantisce la stessa qualità e varietà di gusti che hanno fatto di Berardo il punto di riferimento per gli amanti del gelato fin dall’apertura, cinquant’anni fa. Quando arriva la sera i tavoli all’aperto si popolano di clienti per il rito dell’aperitivo, ricco di “stuzzicherie” che accompagnano i coloratissimi cocktail, molti dei quali a base di frutta di stagione. All’interno, nel nuovo ristorantepizzeria, la cena offre una vasta scelta di piatti che spaziano tra cucina di terra e di mare, legandosi alla tradizione del territorio ma esplorando anche la gastronomia extraregionale. Fanno bella mostra di sé, in un angolo dedicato, i vini della Cantina Di Sipio di Ripa Teatina, ideali sia per l’aperitivo che oper accompagnare una cena tradizionale. Nelle calde sere d’estate, le passeggiate al chiaro di luna sul lungomare trovano la loro degna conclusione davanti a un drink consumato negli eleganti salottini all’aperto, frequentatissimi fino a tarda notte.
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I nuovi locali del bar Berardo, inaugurati a fine maggio. Qui sopra l’ingresso della Cantinetta Di Sipio 57
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VARIOGUSTO
Trattoria dai Paesani
MONDO CHE GIRI ABRUZZO CHE TROVI La ventricina e non il sushi è il piatto che fa impazzire i numerosi clienti del ristorante alla moda nel centro diTokyo. Parola di chef della scuola di Villa Santa Maria
di Andrea Carella
I
mmaginate un ristoratore che alla domenica si sveglia presto per andare a lavorare nell’orto dietro casa dove coltiva prodotti che stanno quasi scomparendo in Abruzzo; immaginate, poi, che con i prodotti e gli animali del suo allevamento produca delle ottime ventricine; provate ora ad immaginare che questo ristoratore incontri un giovane cuoco, come lui amante dei vecchi sapori, e che insieme aprano un ristorante di cucina tipica abruzzese dove si possono gustare i piatti della tradizione realizzati con molte materie prime autoprodotte. Fate ancora uno sforzo d’immaginazione e pensate che i costi del ristorante siano molto bassi proprio in virtù del fatto che i prodotti sono a “km 0”. Ora pensate che questo posto esiste ma è un pò fuori mano: la “Trattoria dei paesani” di Giuseppe Sabatino e Davide Fabiano si trova infatti nel quartiere di Shinjuku nel centro di Tokyo, la capitale nipponica. Entrambi chietini (uno di Castelguidone e l’altro di Roccaspinalveti) ed entrambi provenienti dalla scuola di Villa Santa Maria, Sabatino e Fabiano hanno incrociato le loro esistenze nella terra del Sol Levante percorrendo strade diverse: Davide Fabiano è cuoco dell’ambasciata italiana a Tokyo, mentre Giuseppe Sabatino viaggia per il mondo dal 1974. Prima in Germania, poi a Chicago e Parigi, dove si ferma per 16 anni; poi fa tappa in Spagna, Grecia e torna in Italia, a Roma dove incontra la futura moglie (giapponese). «A lei mancava il Giappone e quindi ci siamo trasferiti. Dopo qualche anno a me cominciava a mancare la ventricina». E così si è messo a produrla, con ottimi risultati: «Quando ho portato, per la prima volta, mio figlio tredicenne ad assaggiare le ventricine abruzzesi lui ha reagito dicendo: “Papà, abbiamo sprecato i soldi del biglietto, le tue ventricine sono più buone di queste”». Ma gli apprezzamenti non giungono solo dai parenti. La ventricina prodotta in Giappone da Giuseppe e Davide ha una qualità che non ha nulla da invidiare alle migliori ventricine prodotte in Abruzzo. La scapece, le pallotte cacio e ove, i salumi e poi i vini (la cantina ospita più di 300 varietà di vini regionali e i due ristoratori puntano a proporre 200 diversi tipi di Montepulciano) sono un gustoso escamotage che permette di portare la cultura abruzzese a chi non la conosce. Una divulgazione che nasce da un profondo legame con le proprie radici: «Solo chi ama una cosa la può trasmettere agli altri», prosegue Giuseppe. E loro ci riescono perfettamente. Hanno
sicuramente un approccio chiaro e deciso nei confronti della ristorazione, molto distante dalla mentalità monetaria che sempre di più spinge i ristoratori ed i cuochi ad essere imprenditori prima che mestieranti e produttori di merce culinaria prima che divulgatori del gusto per il buon cibo. «Quando pianti un ulivo –spiega Giuseppe– sai benissimo che non ne vedrai mai i frutti, saranno invece i tuoi figli o i figli dei tuoi figli a beneficiarne. Oggi si pretende di piantare un ulivo ed il giorno dopo di mangiare pane e olio». Il loro spirito, insomma, è quello di un progetto gastronomico ad ampio raggio che non si limita al puro profitto, che nel loro caso viene da una affezionatissima clientela di giapponesi, inglesi, tedeschi, italiani (e ovviamente abruzzesi), ma punta alla divulgazione di un prodotto che non è merce, ma cultura. Un clima genuino fatto di parlate dialettali ed oggetti tipici appesi alle pareti, i menu in abruzzese ed il piacere di raccontare della propria regione, fanno di questo ristorante un luogo raro, che riesce ad imprigionare la magia paesana in una delle più grandi metropoli del mondo. Non è stata la necessità a portare i due ristoratori all’estero, ma vicissitudini personali che in qualche modo li hanno allontanati dalla propria regione avvicinandoli alle proprie radici. Si sa che dall’esterno si possono vedere cose che non si notano dall’interno ed è anche questa la loro forza: Giuseppe, infatti, coltiva nel suo orto, a Shiba, spezie, ortaggi e legumi «che nella nostra regione stanno scomparendo definitivamente, perché non più considerati. A volte siamo così abituati (ma sempre meno) ai nostri prodotti culinari, che spesso ne sottovalutiamo l’importanza e la genuinità, tanto da farli scomparire o passare in secondo piano dopo i prodotti commerciali». L’idea di Giuseppe e Davide è quella di immergere i propri clienti in un ambiente amichevole, e dopo avergli spiegato, in giapponese, i piatti del giorno, farli mangiare con delle posate di legno, proprio come facevano i suoi nonni. Vedere la reazione entusiasta delle persone che per la prima volta assaggiano tajarille e ceci o sagne appezzate nghe la saciccia, ripaga i due proprietari di tutta la fatica fatta. Chi sono e da dove vengono queste due persone poco importa, la cosa importante è cosa hanno creato: un luogo che impone la riflessione su come l’onestà, il duro lavoro e la passione pagano sempre a prescindere dalla latitudine e dalla lingua, dalla cultura e dalle differenze sociali.
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Nelle foto: a fianco, Davide Fabiano (a sinistra) e Giuseppe Sabatino, titolari della Trattoria dei Paesani. In alto l’interno del locale. In basso la ventricina prodotta dai due ristoratori.
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AGRIVERDE
IL VINO, naturalmente Alle porte di Ortona si compie la magia che trasforma l’uva in vino. Un processo che l’azienda fondata da Giannicola Di Carlo, pioniere del biologico in Italia, porta a termine con metodi e tecnologie a bassissimo impatto ambientale fin dal 1991
C
hiarezza, trasparenza. Il nome dell’azienda è di per sé specchio di una filosofia, quella di garantire al consumatore un prodotto naturale, limpido. Come il mare che bagna la costa ortonese, come il cielo che sovrasta la Maiella. Il territorio in cui nascono i vini di Agriverde è la culla del vino abruzzese, e l’azienda di Giannicola Di Carlo è la culla del vino biologico. “Vini secondo natura” recita il claim della comunicazione aziendale, e tant’è: non c’è trucco, non c’è inganno. Nessuna magia, a parte quella che la natura stessa opera, guidata dall’uomo, trasformando l’uva in vino. E che vino: il Plateo, portabandiera dei rossi aziendali, avrebbe bisogno di una bottiglia alta due metri per appuntarvi tutte le medaglie vinte nei più prestigiosi concorsi internazionali negli ultimi quindici anni. Seguono a un’incollatura Solarea (Montepulciano, premiato con la medaglia d’oro al Mundus vini e anche all’ultimo Japan Wine Challenge), Riseis, la linea storica dell’azienda e da anni sulle tavole reali di Buckingam Palace, declinato nelle versioni Montepulciano, Pecorino, Passerina e Trebbiano e le linee certificate Bio Vegan, prodotte cioè senza sostanze di origine animale né in vigna né in cantina Eikos (Pecorino e Montepulciano, bronzo al JWC 2014) e Natum (Montepulciano e Trebbiano). «Si tratta –spiega Di Carlo– della naturale evoluzione della nostra ricerca sul biologico, focalizzata al raggiungimento dei massimi standard di salubrità: con la certificazione Bio Vegan garantiamo al consumatore di non ingerire quelle sostanze provenienti da allevamenti intensivi (estrogeni, ormoni…) che non vengono smaltite dai processi di vinificazione». Fra le prime cantine in Italia ad ottenere la rigorosa certificazione Bio Vegan ICEA, Agriverde è protagonista ad Expo 2015 con il progetto di ricerca internazionale sulle produzioni etiche di cui è capofila: «Stiamo sviluppando una rete internazionale di ricercatori e produttori che antepongono la sostenibilità al mero profitto personale –continua Giannicola Di Carlo– per creare un nuovo modello culturale di sviluppo. Il progetto si chiama Accademia della Terra e, non a caso, in questa avventura ci accompagnano anche partner autorevoli del mondo accademico come l’Università di New York e abbiamo ricevuto la richiesta
di coinvolgimento dalla Sonoma University». Dal 1990, da quando cioé la produzione è stata riconvertita al biologico, «cerchiamo metodi e principi agronomici alternativi all’impiego tradizionale di prodotti chimici, come l’utilizzo di tecniche di lotta antiparassitaria per confusione sessuale, ad impatto ambientale zero. Tutti i nostri vini sono prodotti da uve provenienti da coltivazioni biologiche e si fregiano della certificazione I.C.E.A. (Istituto per la Certificazione Etica ed Ambientale); tutti i nostri processi sono volti a ridurre l’impatto ambientale senza compromettere gli standard qualitativi del nostro prodotto». Contrastare gli effetti del cambiamento climatico rappresenta una delle maggiori sfide del nostro tempo, spiega Di Carlo. «Di fronte a tale problematica, in Agriverde abbiamo sempre mostrato sensibilità e ci impegniamo costantemente a contribuire alla riduzione dei gas a effetto serra. L’ultimo passo di questo percorso è stata la ricerca di una soluzione che potesse ridurre l’impatto ambientale senza compromettere gli standard qualitativi del nostro prodotto, e abbiamo scelto quindi di introdurre anche le bottiglie ecologiche, che permettono di ridurre significativamente le emissioni di CO2. Il loro peso notevolmente inferiore riduce infatti l’energia utilizzata per la loro produzione e la quantità di combustibile necessaria per trasportarle. Dopo l’uso, poi, i consumatori possono gettare queste bottiglie negli appositi contenitori di raccolta, contribuendo ulteriormente, attraverso il riciclo del vetro, alla sostenibilità ambientale e alla creazione di nuove bottiglie, poichè il vetro è riciclabile al 100%». Scelte che pagano, non solo in termini economici ma di prestigio: per l’etica produttiva aziendale Agriverde è stata selezionata per la cena della serata di gala della consegna dei premi Nobel 2008; è fornitrice della Casa reale britannica dal 2003, la Ferrari l’ha voluta come partner per il lancio della Ferrari Verde, la 599 Hybrid Kers e la Maserati ne ha scelto le etichette per festeggiare a Dubai il centenario della fondazione: eccellenze italiane che con Agriverde condividono storia, ricerca e innovazione. Per la famiglia Di Carlo, valori di una stirpe che vive da sempre in sintonia con la Natura.
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Nella pagina a sinistra: Giannicola Di Carlo. Qui sopra: l’interno della cantina 61
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MOODITALY
L’haute couture delLA TAVOLA Un’idea imprenditoriale tesa a valorizzare l’eccellenza dei prodotti locali tipici e di alta qualità che raccontano la grande storia dell’enogastronomia italiana. Tradizione, innovazione, creatività e bellezza sfilano sulla tavola in una originale fusione di food e fashion di Fabrizio Gentile
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i accendono le luci, la musica si alza e in passerella sfilano… i prodotti agroalimentari abruzzesi. Proprio così: l’idea si chiama Mooditaly, un sito web (www.mooditaly.it) che unisce moda e gastronomia, fashion e food, con la collaborazione di sarti/chef che realizzano splendidi abiti/piatti in grado di soddisfare chi vuole assaporare il gusto della cucina italiana. Menu che portano nomi evocativi, che alludono alla multisensorialità, e che proprio come una collezione d’alta moda si fanno veicoli di uno stile di vita. Non è un caso che dietro al brand Mooditaly ci sia l’esperienza di Gabriele Planamente, manager che “ha vissuto per anni meravigliose emozioni nel campo della moda, ricoprendo ruoli dirigenziali diversi, dalle tecnologie informatiche all’organizzazione, dalla Consulenza di Direzione fino alla carica di Amministratore Delegato di aziende del gruppo Brioni, il massimo dell’emozione italiana world wide”, come si legge nel suo profilo. “Emozioni” è la parola chiave per comprendere la sua nuova idea imprenditoriale, che apparentemente potrebbe sembrare un comune sito di e-commerce, ma che in realtà si configura come un’assoluta novità nell’affollato mondo del web. «Abbiamo lanciato il sito lo scorso febbraio –spiega il dinamico manager– in sordina, senza campagna pubblicitaria: una sorta di test per verificare le funzionalità dell’architettura informatica. I riscontri del pubblico non si sono fatti attendere e i primi risultati sono andati ben oltre le aspettative. Il punto di forza della nostra proposta è che Mooditaly non è un supermercato virtuale, in cui scegliere tra una gamma di prodotti, ma uno strumento che offre quella che per noi è la definizione di Buon Gusto. Vogliamo rendere protagonista la migliore produzione eno-
gastronomica del “Made in Italy”: l’unica in grado di offrire la sicurezza di far entrare nelle case di tutto il mondo quel gusto prelibato, inconfondibile, prezioso e inimitabile che i prodotti da noi selezionati sono in grado di garantire». Basta un clic e le porte di Mooditaly si spalancano su un mondo fatto di sapori, saperi, profumi e colori che compongono il variopinto panorama dell’enogastronomia italiana. Dalla pasta ai legumi, dall’olio al vino, dai dolci ai liquori passando per formaggi, salumi e spezie, lo scrigno di Mooditaly si apre offrendo alla vista –ma sarebbe meglio dire al gusto, all’olfatto– tutti i suoi tesori. «Entrando nel sito –illustra Planamente– si capisce subito che ciò che ci interessa non è semplicemente vendere prodotti, ma soprattutto trasmettere l’idea che il cibo sia un’esperienza multisensoriale, in grado di comunicare un intero territorio. Ma va vissuta nel modo giusto: come per un abito di alta moda, in cui la qualità è data dal taglio, dal tessuto, ma anche dall’insieme dei dettagli, delle rifiniture, così per il cibo contano gli ingredienti, i metodi di lavorazione, le conoscenze infuse nella preparazione del prodotto finito. Solo se tutti questi elementi sono di qualità si può parlare di “eccellenza”, ed è questa eccellenza che intendiamo portare nelle case di tutti». Le strade che si aprono al visitatore del sito sono due: sciogliere la fantasia e scegliere tra la vasta quantità di prodotti disponibili o affidarsi alle sapienti mani degli chef di Mooditaly, che con quei prodotti creano appositi menu che armonizzano sapori e profumi per regalare emozioni. Un esempio? Il Menu Scarlatto, ovvero Carpaccio di Ventricina Vastese con tartara di Cipolle Rosse sott’olio e Olio Extraver-
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gine d’Oliva al Basilico, Farrotto cotto in Birra Torbata con Guanciale Monumentale e mantecato con Ricottina di Pecora al Fumo di Ginepro, seguito da Medaglioni di Puls di Farro con Pestato di Radicchio e Pecorino Bio spalmabile; per finire, Bocconotti Vastesi. O il Menu Bordeaux: Millefoglie di Prosciuttille di suino, Confettura di Fichi e Caciocavallo Podolico, Zuppa di Ceci di Navelli con Pestato di Carciofi e Olio Extravergine d’Oliva all’Aglio Rosso di Sulmona, Carpaccio di Violino del Sagittario con cuore di Primo Sale di Pecora accompagnati da un’Insalatina di Carciofi e Menta grigliati, e Amaretti Di Scanno per concludere. All’acquirente, spiega Planamente, «arriva un pacco contenente gli ingredienti adatti per preparare il menu scelto, per quattro o sei persone. Si può ordinare il vino a parte o lasciarsi suggestionare dagli abbinamenti proposti dai nostri sommelier, che hanno a disposizione anche una vasta scelta di birre artigianali». I prodotti, per il momento, sono quelli del ricchissimo paniere abruzzese, ma gli orizzonti di Mooditaly sono ben più ampi degli angusti confini regionali. «Io –chiarisce– sono abruzzese e non potevo iniziare quest’avventura senza partire dalla promozione di questo territorio; ma l’idea è di offrire il Made in Italy, non il Made in Abruzzo. Via via esploreremo e promuoveremo altre regioni, altri territori, con l’occhio al mercato interno ma soprattutto a quello estero». La spedizione infatti è in grado di raggiungere il cliente ovunque nei tempi previsti, perché i prodotti non perdano le loro preziose caratteristiche. Che vi troviate quindi a Berlino o a Madrid, non importa: avrete sempre la possibilità di gustare una cena italiana senza dovervi recare in un ristorante che –come accade spesso– può rivelarsi una grossa delusione. «Per lavoro
ho viaggiato tanto –racconta Planamente– e a parte qualche rara eccezione, i ristoranti italiani all’estero si sono sempre rivelati un’esperienza insoddisfacente: piatti adattati al gusto locale, ingredienti di scarsa qualità, metodi di cottura sbagliati… Noi vendiamo tradizione, innovazione, creatività e bellezza: in una parola, il vero Made in Italy».
Nelle immagini di questa pagina alcuni esempi dei piatti e dei prodotti disponibili sul sito Mooditaly.it. Sotto, Gabriele Planamente
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[ VARIOGUSTO - LA RICETTA ]
Filetti di sogliola allo zafferano Sogliole, Patate novelle a pasta gialla, Zafferano dell’Aquila, Crema di Latte, Salvia, Prezzemolo, Olio extra vergine di Oliva, Burro, Sale, Pepe nero
Eliminare la testa dalle Sogliole, incidere la pelle del dorso subito dopo la coda e sollevarne una piccola parte. Afferrare saldamente la pelle con un paio di pinze da cucina ed eliminarla con un movimento rapido e deciso tirando verso la testa. Fare lo stesso per la parte ventrale. Tagliare con un paio di forbici le pinne laterali, sventrare il Pesce e lavarlo in Acqua corrente. Incidere le Sogliole con la punta di un coltello ben affilato lungo la lisca centrale, staccare i filetti dalla lisca con un coltello dalla costa flessibile e metterli da parte. Sbucciare le Patate, tagliarle a rondelle spesse mezzo centimetro e cuocerle in Olio di Oliva girandole con una spatola finché diventino tenere e appena dorate. Sistemare uno strato di Patate in una pirofila imburrata, salarle e peparle leggermente. Scottare in una padella i filetti di Sogliola con una noce di Burro, due foglioline di Salvia fresca e un pizzico di Sale e, appena pronti, adagiarli sullo strato di Patate. Sciogliere lo Zafferano in un mestolino di Acqua bollente, unirlo in un pentolino insieme alla Crema di Latte e fare amalgamare il tutto per qualche istante a fuoco lento. Versare la Salsa sulle Sogliole e mettere la pirofila in forno preriscaldato a 180°C per cinque minuti. Sporzionare nei piatti da portata caldi, cospargere sulle Sogliole un po’ di Salsa avanzata ancora calda, decorare con un ciuffetto di Prezzemolo e servire velocemente in tavola. La Sogliola, Pesce di grande interesse gastronomico, pescato davanti alle nostre coste sabbiose, risulta di piccola misura ma in compenso di eccellente qualità per le sue carni delicate e saporite.
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richiedono un metodo.
Noi di De Cecco difendiamo da sempre il valore di una pasta fatta a regola d’arte. Solo semola di grana grossa impastata a freddo con acqua purissima, essiccata lentamente e trafilata al bronzo, così come vuole la tradizione. Un saper fare che siamo orgogliosi di aver mantenuto vivo nel tempo e che altrimenti sarebbe andato perduto. Un metodo antico e sapiente che potete ritrovare ogni giorno nel sapore unico della pasta De Cecco.
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