Vario 91

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ABRUZZO IN RIVISTA 91

GIUGNO - LUGLIO 2017

EDITORIALE

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VARIOIDEE Fabrizio Masciangioli, Stefano Ardito, Pierluigi Sacco, Pierluigi Visci

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AMBIENTE OCCHIO NON VEDE CUORE NON DUOLE

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NATURA BENTORNATA AQUILA

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PERSONAGGIO GIANNETTA CASCELLA

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PERSONAGGIO GIUSEPPE FIDUCIA

ABruzzo IN riViStA 91 91

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giugno/luglio 2017

L’ANNUNZIATA DI SULMONA

Testo di Paola Di Felice Foto Claudio Carella

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[ VARIO COLLEZIONE ]

LUCIANO D’ANGELO Fotografo

Vario 91 €4,50

giugno/luglio 2017 Spedizione A.p. Art.1 commA 1353/03 Aut. n°12/87 25/11/87 peScArA cmp

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PERSONAGGIO PRIMO DI NICOLA

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IL GRUPPO SGB UN’AZIENDA FONDATA SUL LAVORO

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PENNE LA TERRA DEGLI ARAZZI

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GIOVANNI D’ALESSADRO - KRISTINE MARIA RAPINO IL FASCINO DISCRETO DELLA SCRITTURA

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UNIVERSIVARIO CHIETI-PESCARA

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UNIVERSIVARIO TERAMO

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UNIVERSIVARIO L’AQUILA

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ZOOPROFILATTICO TERAMO

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I VOLONTARI DELLA PROTEZIONE CIVILE DI GIULIANOVA

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RIBALTA MARCO PANNELLA

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RIBALTA NICOLA MARINI

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RIBALTA TEATRO

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RIBALTA ARTE ABRUZZESE DELL’800

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RIBALTA LIBRI

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RIBALTA CINEMA

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LA RICETTA DI SANDRO VISCA

Testo di Claudio Valente

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VARIO coLLezione

In copertina: Collage Abruzzo di Sandro Visca

DIRETTORE RESPONSABILE Claudio Carella HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO Stefano Ardito, Andrea Carella, Enrico Crispolti, Anna Cutilli Di Silvestre, Giovanni D’Alessandro, Luciano D’Angelo, Giorgio De Angelis, Paola Di Felice, Francesco Di Salvatore, Luciano Di Tizio, Francesco Di Vincenzo, Fabrizio Gentile, Giuseppe La Spada, Giovanni Legnini, Tanino Liberatore, Fabrizio Masciangioli, Clori Petrosemolo, Pierluigi Sacco, Marco Tabellione, Claudio Valente, Sandro Visca, Pierluigi Visci, Roberta Zimei STAMPA, FOTOLITO E ALLESTIMENTO AGP - Arti Grafiche Picene Via della Bonifica, 26 Maltignano (AP) CLAUDIO CARELLA EDITORE Aut. Trib. di Pescara n.12/87 del 25/11/87 Rivista associata all’Unione Stampa Periodica Italiana REDAZIONE: Via Puccini, 85/2 Pescara Tel. 085 8428528 - redazione@vario.it

www.vario.it

[ VARIO COLLEZIONE ]

LUCIANO D’ANGELO Fotografo

LUCIANO D’ANGELO Fotografo

L’ANNUNZIATA DI SULMONA

L’ANNUNZIATA di Sulmona

VARIOLETTURE

PUBLIO OVIDIO NASONE “LE TRISTEZZE” Libro primo, Carme terzo

VARIOLETTURE PUBLIO OVIDIO NASONE “Le tristezze” libro primo, carme terzo

Testo di Paola Di Felice Foto Claudio Carella

Testo di Claudio Valente

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Traduzione e nota introduttiva di Giovanni D’Alessandro

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CLAUDIO CARELLA

NON SOTTOVALUTIAMOCI!

L’

inverno è passato, speriamo che passi l’inferno. I mesi trascorsi (i molti mesi) sono stati fra i più brutti che gli abruzzesi ricordano ma a causarli non è stata solo la “natura matrigna”, ci abbiamo messo del nostro. I titoli degli editoriali che pubblichiamo in questa prima rubrica “idee” sono emblematici: Il destino e la colpa; Abruzzo, la montagna ignorata; La regione della sottovalutazione; L’importanza di avere un modello. Riflessioni scritte da personalità diverse, con punti di osservazione diversi, e di diverse sensibilità accomunate, però, dall’interesse nel vedere la nostra comunità crescere senza nascondersi gli attuali limiti. È possibile fare il salto di qualità? È necessario. Le risorse ci sono, soprattutto se si osserva la “società civile” e non solo la classe politica, che non sempre la ascolta e rappresenta al meglio. In questo numero ci siamo molto occupati di arte abruzzese (ma sarebbe meglio dire italiana) e di alcuni dei suoi rappresentanti più illustri, scomparsi ma non dimenticati. I Cascella nel ricordo di Giannetta, una giovanissima (per freschezza e modernità) componente la dinastia, di Giuseppe Fiducia che attende considerazione e consacrazione e dei maestri dell’arte figurativa dell’800.

Le ricorrenze ci hanno spinto ad aggiungere un nuovo prodotto, all’offerta editoriale rappresentata dai Vario Collezione, dedicati al nostro patrimonio storico-artistico e architettonico (in questo numero L’ Annunziata di Sulmona) e alla fotografia attraverso le monografie di autori abruzzesi (in questo numero Luciano D’Angelo). Il nuovo inserto che si intitola Vario Letture pubblica in questa prima uscita uno dei classici del sulmonese-romano Publio Ovidio Nasone in lingua originale e tradotto da uno dei maggiori scrittori contemporanei, Giovanni D’Alessandro (anche lui nato a Sulmona). Nei prossimi inserti pubblicheremo inediti di scrittori locali più e meno giovani, anche se la tentazione di ripresentare i classici (d’Annunzio, Silone, Flaiano, Pomilio ecc. ecc.) è forte e forse anche utile. A voi leggere e giudicare tutti gli altri servizi pubblicati, come al solito abbiamo cercato di dare il meglio che le nostre capacità consentono ma... PS. Vi ricordiamo che Vario non è solo su carta e che sul nostro sito www.vario.it trovate anche i video, in questo numero le interviste a Giannetta Cascella, al direttore del Centro Primo Di Nicola e agli scrittori Giovanni D’Alessandro e Kristine Maria Rapino e nello spazio Vario Week un notiziario aggiornato settimanalmente.

WWW.VARIO.IT 3


TUA è l’azienda regionaledi diTrasporto Trasporto pubblico localelocale nata dalla TUA è l’azienda regionale pubblico nata dalla fusione di ARPA, Autolinee regionali pubbliche abruzzesi, FAS, fusione di ARPA, Autolinee FAS, ferrovie adriatiche Sangritanaregionali di Lanciano, epubbliche GTM, Gestioneabruzzesi, trasporti metropolitaniSangritana di Pescara. di Lanciano, e GTM, Gestione trasporti ferrovie adriatiche Oggi TUA è il sesto metropolitani di Pescara.vettore a livello nazionale: gestisce una flotta di 895 autobus, 16 treni a trazione elettrica per trasporto di persone, e 16 Oggi TUAlocomotive è il sestopervettore livello nazionale: gestiscetrentasei una flotta di trasportoamerci, percorrendo annualmente milioni16ditreni chilometri, con un organico di oltre addetti indigrado di 895 autobus, a trazione elettrica per1600 trasporto persone, e 16 offrire servizi sia in ambito urbano sia in quello extraurbano. locomotive per trasporto merci, percorrendo annualmente trentasei milioni di chilometri, con un organico di oltre 1600 addetti in grado di offrire servizi sia in ambito urbano sia in quello extraurbano.

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FABRIZIO MASCIANGIOLI

IL DESTINO E LA COLPA

“ …E paragono la fortuna a uno di quei fiumi impetuosi che, quando s’infuriano, allagano le pianure,abbattono gli alberi e gli edifici,trascinano masse di terra da una parte all’altra. Ogni essere vivente fugge davanti ad essi e cede all’impeto loro,senza potere in alcun modo opporsi. Il fatto che i fiumi siano fatti così non impedisce tuttavia agli uomini, nei periodi calmi, di apprestare ripari e argini in modo che, quando i fiumi poi crescono, possano essere incanalati e il loro impeto possa non risultare così sfrenato e dannoso” (Niccolò Machiavelli, Il Principe, versione italiana dal testo originale a cura di Piero Melograni)

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n un tempo smemorato e frettoloso che cancella il passato e non guarda al futuro, sembra diventato un insopportabile intellettualismo attingere qualche verità dalle pagine dei “classici” della nostra letteratura. Eppure la metafora machiavelliana del fiume in piena e della costruzione degli argini si carica di bruciante attualità davanti alle numerose catastrofi che hanno colpito il nostro paese anche per una scarsa capacità di governare il territorio da parte del potere politico-amministrativo. Secondo il Segretario fiorentino la fortuna, che comunemente chiamiamo destino, e la ragione si spartiscono a metà l’influenza sulle vicende umane. Un insegnamento che mi è tornato alla mente nei giorni dolorosi di questo inverno spietato quando l’Abruzzo è stato travolto da una micidiale sequenza di eventi naturali ed è ripiombato in una condizione di marginalità che sembrava superata per sempre. Mentre la terra continuava a vibrare al ritmo di 500 scosse in 24 ore e mentre la violenza delle bufere lasciava al buio e senz’acqua decine di paesi, a Rigopiano, in quell’angolo di paradiso ai piedi del Gran Sasso, si consumava una tragedia senza precedenti. Un’enorme valanga di 120.000 tonnellate di neve,ghiaccio e detriti precipitando a folle velocità travolgeva e seppelliva

un lussuoso resort causando la morte di 29 persone rimaste prigioniere di un film dell’orrore. Per dare un’idea di quanta distruttiva potenza avesse quella marea bianca, si è fatto il paragone con l’impatto prodotto da 4000 tir a pieno carico lanciati contro l’edificio dell’albergo . Nel giro di poche, angosciose ore, insieme allo sforzo disperato e generoso dei soccorritori che hanno salvato 11 vite, si metteva in moto la macchina della giustizia per accertare le responsabilità, per rispondere a quel sacrosanto diritto di verità che reclamano i parenti delle vittime insieme a tutta la società abruzzese. La giustizia togata, però, ha bisogno di tempo per verificare i fatti, per rispondere ai tanti interrogativi inquietanti, per individuare eventuali colpe, per arrivare a un giusto processo ai colpevoli. Ma nella società della iper-informazione l’opinione pubblica non ha né tempo, né voglia di attendere e pretende di trovare subito un capro espiatorio da trascinare sul patibolo della pubblica piazza mediatica. Un bisogno di giustizia sommaria che, pur mutato nelle modalità, riemerge ciclicamente nella storia. E figuriamoci se nella corsa affannosa all’untore, si potrà mai far tesoro di quella lontana lezione di Machiavelli sul delicato equilibrio tra “fortuna” e “ragione” nel dispiegarsi delle vicende umane. Dovremmo,invece, fermarci per un attimo a riflettere sull’oggettiva potenza della natura che a Rigopiano si è manifestata in tutta la sua energia devastante e che da troppo tempo, forse per un peccato scientista, abbiamo rimosso pensando di poter piegare gli equilibri ambientali ai nostri bisogni consumistici. Così come dovremmo interrogarci sulle scarse “virtù” delle classi dirigenti degli ultimi decenni, sull’incapacità di gestire razionalmente le risorse del territorio spesso violentato e sfigurato da ruspe e cemento per soddisfare interessi economici di pochi. Solo riconquistando il tempo di un pensiero lungo che scava fino alle radici profonde delle catastrofi, potremo ricostruire un rapporto corretto fra l’uomo e la natura-madre che non sarà più matrigna.

Gornalista del TgrAbruzzo è stato per molti anni consigliere della Federazione nazionale della stampa italiana (FNSI ). Ha diretto il Master di giornalismo dell’Università di Teramo e nello stesso ateneo ha insegnato Comunicazione Politica e Storia del Linguaggio Politico.



STEFANO ARDITO

ABRUZZO, LA MONTAGNA IGNORATA

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na splendida terra di montagne, governata con i piedi piantati sulla spiaggia, e con lo sguardo rivolto verso le aree urbane e la politica. Di solito evito di citarmi, e chi segue quello che scrivo lo sa. Ma questa frase, che ho detto e scritto più volte a gennaio, nei terribili giorni della valanga di Rigopiano, delle scosse di terremoto a Montereale e a Campotosto, dell’incidente all’elicottero del 118 caduto a Campo Felice, continua a sembrarmi drammaticamente giusta. Su quello che è accaduto a Rigopiano indaga dall’inizio la magistratura. Se nella mancata pulizia della strada, e nella mancata risposta alle telefonate e alle mail che chiedevano aiuto ci sono delle responsabilità penali, mi auguro come tutti che vengano individuate e punite. Lo stesso vale per chi ha consentito che l’albergo della strage potesse essere costruito proprio lì, ignorando la relazione nella quale, nel 1999, la guida alpina Pasquale Iannetti indicava come pericolosa la zona. Ma se i pubblici ministeri e poi i giudici vanno lasciati lavorare in pace, c’è un problema culturale che l’Abruzzo deve iniziare ad affrontare subito. Se il sindaco di Farindola, un Comune che arriva a 2200 metri di quota, che include dei canaloni pericolosi, e che ha tra i suoi abitanti molti allevatori e contadini di montagna, dichiara che senza una comunicazione del Prefetto non avrebbe potuto sapere della neve in arrivo, significa che qualcosa si è rotto. E che la classe dirigente dell’Abruzzo non ha più un legame con la montagna. “Se questa mancanza di attenzione per la montagna continuerà, si arriverà allo spopolamento completo dei nostri borghi” ha detto in un’intervista, a fine gennaio, Giampiero Di Federico, il più noto alpinista abruzzese. Non si riferiva soltanto alle valanghe, ma alle condizioni della rete elettrica, che ha lasciato decine di migliaia di persone senza energia per una settimana e più. E alla mancata pulizia dalla neve delle strade, che ha lasciato isolate per giorni e giorni aziende agricole, rifugi e intere frazioni. Perché la montagna abruzzese resti abitata e vitale c’è bisogno di energia elettrica e buone strade, di trasporti pubblici efficienti, di collegamenti a banda larga. Lo stesso, naturalmente, vale per Amatrice, per Arquata del Tronto, per Castelluccio, per Norcia e per tanti altri centri duramente colpiti nei mesi scorsi. Nei borghi di montagna dell’Appennino ci devono essere servizi pubblici e condizioni di vita uguali a quelle dell’Alto Adige, della Valle d’Aosta e del Trentino. In montagna si deve vivere bene, non sopravvivere. La seconda questione riguarda chi frequenta le montagne d’Abruzzo per passione, e il modo in cui viene accolto. Non è una questione secondaria. Oggi, in tutta Europa, la vita delle comunità di montagna è affidata in buona parte al turismo. Lo sci di pista, certamente, dove e quando lo si può praticare, e in estate la villeggiatura classica di chi si allontana poco dagli alberghi. Ma poi ci sono l’arrampicata sportiva e l’alpinismo, il volo libero, la mountain-bike e la canoa, il fondo, lo scialpinismo e le ciàspole, l’osservazione degli animali e il birdwatching. Attività sempre più diffuse, praticate da appassionati fedeli, che si affezionano ai territori che li accolgono. E che si praticano, spesso, in periodi diversi dall’alta stazione. Ogni valle e ogni regione ha il suo mix. In Abruzzo, invece, chi d’inverno fa qualcosa di diverso da sciare in pista viene trattato come un intruso, e non come un cliente prezioso. Nei giorni successivi alla tragedia di Rigopiano, una quindicina di Comuni (tra questi L’Aquila, Roccaraso, Ovindoli,

Pietracamela, Rocca di Mezzo e Scanno) hanno proibito sci fuoripista, scialpinismo e ciàspole. Alcune ordinanze prevedono una denuncia penale. Molte non sono mai state ritirate. “Vietare intere montagne quando il pericolo di valanghe raggiunge o supera il grado 3 (la scala arriva a 5, ndr) è una moda che esiste solo in Abruzzo, che sulle Alpi non c’è, e che oltre a noi danneggia guide alpine, maestri di sci e albergatori” ha scritto Giulio Verdecchia, dell’associazione Abruzzo Freeride Freedom, che difende lo sci fuoripista. “I divieti sbagliati ci sono anche d’estate” aggiunge Pasquale Iannetti, la guida alpina di Teramo, che ha fatto parte della commissione valanghe del Comune di Farindola. “Ci sono valli vietate dopo frane cadute dieci o vent’anni fa. Una guida che ci porta i clienti rischia la galera”. I divieti più assurdi, a gennaio, hanno riguardato le due strade che salgono da Santo Stefano di Sessanio e Castel del Monte verso la parte orientale di Campo Imperatore (Lago Racoillo e Fonte Vetica). Tracciati comodi, che si svolgono tra pendii molto dolci, e che danno accesso a territori ideali per lo scialpinismo, lo sci di fondo e le ciaspole. “La Prefettura ci ha imposto di vietare l’alpinismo (sic) sul Camicia, la Provincia dell’Aquila ha deciso di non aprire le strade. Nei primi giorni era giusto, per solidarietà con le vittime” mi ha spiegato a fine gennaio Luciano Mucciante, sindaco di Castel del Monte, che basa il suo turismo invernale sul fondo. Poi la situazione è migliorata, Mucciante ha chiesto il permesso per aprire anche a Palazzo Chigi e al Quirinale, tra burocrazia e ritardi tecnici la strada della Vetica è stata riaperta a fine febbraio. Le strutture ricettive della zona, una delle poche in Abruzzo dove il turismo legato ai Parchi c’è davvero, hanno perso centinaia di clienti (soprattutto scialpinisti provenienti da Austria, Svizzera e Germania), e minacciato una class action. Impressiona, in tutta questa vicenda, anche il silenzio assordante dei Parchi. Per le aree protette, facilitare un turismo rispettoso e senza motori dovrebbe essere una missione primaria. Invece non lo si è fatto, e non lo si fa, né sul Gran Sasso-Laga, né sulla Majella, né nello storico Parco d’Abruzzo, Lazio e Molise. Il vero problema, però, non è il passato prossimo ma il futuro. Nell’inverno, dopo Rigopiano e le scosse, l’Abruzzo ha iniziato a fare paura, e la paura si è trasformata in psicosi. A febbraio e a marzo gli sciatori hanno iniziato a tornare sulle piste, ma alberghi e bed&breakfast sono rimasti vuoti. Ora, per la primavera e l’estate, si teme il deserto. Le regioni vicine, Umbria e Marche su tutte, hanno iniziato a investire in maniera massiccia in comunicazione, in Italia e all’estero, per invitare i loro visitatori a tornare. Non mi risulta che qualcosa del genere sia stato fatto in Abruzzo. Nel campo della promozione turistica, però, il metodo più sicuro è la comunicazione tra amici, le esperienze positive che passano di bocca in bocca. I primi a tornare, già nelle settimane più difficili dell’inverno, sono stati i frequentatori della montagna al naturale, le migliaia di fondisti, ciaspolatori e scialpinisti che percorrono le nostre montagne con la neve. Nelle prossime settimane, questo “popolo dei monti” lascerà sci, piccozze e ciàspole, per tornare con le pedule da escursionismo, le mountain-bike, le corde dell’arrampicata e dell’alpinismo. Sarà capace l’Abruzzo di accoglierli a braccia aperte, e di utilizzare la loro passione per rinascere?

È una delle firme più note del giornalismo di montagna e di viaggi italiano, ha collaborato con maggiori quotidiani e riviste specializzate; oggi scrive per «Il Messaggero», «Meridiani Montagne», «Qui Touring», «Plein Air». Stefano Ardito è fotografo, autore e regista di documentari, autore di numerosi libri sulle montagne d’Italia e del mondo, escursionista, alpinista, viaggiatore (ha percorso i sentieri delle montagne di tutto il mondo)

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PIERLUIGI SACCO

LA REGIONE DELLA SOTTOVALUTAZIONE

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’Abruzzo viene spesso indicato dai giornali stranieri come “Italy’s most underrated region”, la regione più sottovalutata d’Italia, e chi vive in Abruzzo, oppure lo conosce bene, sa quanto ciò sia vero. L’Abruzzo è una regione affascinante da molti punti di vista, ma allo stesso tempo sembra aver perso la capacità di darsi un progetto di futuro, che purtroppo sembra condividere con gran parte del nostro Paese. La sequenza di eventi sismici che negli ultimi anni hanno colpito a ripetizione la nostra regione hanno poi particolarmente accentuato il già serio problema delle aree interne della regione, una situazione ancora una volta comune ad altre regioni del centro e sud Italia che devono fronteggiare minacce importanti come lo spopolamento demografico, l’isolamento, la carenza di infrastrutture, la marginalità geografica e di conseguenza anche culturale. Ma è proprio da queste criticità che bisogna ripartire, perché le innovazioni che possono fare la differenza nascono spesso da quelli che sembrano essere vicoli ciechi senza uscita. La sismicità di un territorio rappresenta senz’altro un problema, ma allo stesso tempo può diventare appunto uno stimolo forte a definire modelli capaci di dare il via ad un nuovo ciclo di sviluppo territoriale. I tre temi chiave a tale proposito sono: la necessità di sviluppare nuovi modelli di creazione di valore economico e sociale; la messa in sicurezza del territorio dal punto di vista antisismico; la capacità di rifondare le economie locali attorno ad una residenzialità e ad un’imprenditorialità giovane e ad un modello di socialità inclusivo. I tre temi sono, di fatto, profondamente interrelati. Un caso particolarmente interessante di sviluppo locale a base culturale, il cosiddetto ‘modello di Halland’, offre interessanti spunti di riflessione in questo senso. Nella Svezia della metà degli anni ’90, uno shock strutturale aveva colpito l’industria delle costruzioni, facendo passare l’economia locale nel giro di pochi mesi da un livello di disoccupazione inferiore al livello frizionale ad una disoccupazione diffusa. La soluzione individuata è stata quella di utilizzare gli ammortizzatori sociali per la disoccupazione per formare i lavoratori edili disoccupati al restauro degli edifici storici dismessi, costruendo da un lato un nuovo bacino di competenze e dall’altro riavviando l’economia locale senza spiazzare l’impresa privata nei suoi ambiti di attività tradizionali. Questo modello può essere visto come un esempio pionieristico di quello che potremmo chiamare ‘keynesianesimo cognitivo’, ovvero la combinazione di un impulso di spesa anticiclico che però ha anche allo stesso tempo una valenza strutturale in termini di un capability building mirato, unito alla ridefinizione della mappa cognitiva delle interdipendenze settoriali con l’individuazione di un nuovo settore di attività, in questo caso quello del restauro degli edifici storici. Un approccio keynesiano-cognitivo sembra particolarmente indicato in un Paese come l’Italia di questi anni che soffre di un deficit preoccupante sia nella formazione di competenze

specializzate che nella capacità di utilizzarle efficacemente nelle catene del valore. In particolare, esso potrebbe centrarsi proprio sul tema della sicurezza antisismica delle aree interne, unendo così all’impulso di spesa la formazione di un bacino di competenze che potrebbe produrre innovazione tecnologica e sociale, idee imprenditoriali, e allo stesso tempo creare le condizioni per contrastare lo spopolamento delle aree interne. I modelli di keynesianesimo cognitivo potrebbero peraltro applicarsi a molti altri settori, tra cui quelli legati alle forme di produzione artigianale design-intensive che sarebbero indispensabili per un rilancio economico e sociale delle aree interne, nonché per le forme più evolute di agricoltura sostenibile. Allo stesso tempo, tale strategia permetterebbe di accelerare ulteriormente il notevole processo di innovazione sociale a base culturale prodotta dal basso che caratterizza la scena socio-culturale giovanile italiana e ne fa una delle realtà più interessanti e innovative a livello mondiale. Catalizzare queste energie sui temi della sostenibilità delle aree interne, anche attraverso un uso intelligente dei fondi di coesione e un accesso competitivo ai programmi europei, potrebbe creare le basi per una nuova stagione di sviluppo locale nel contesto socio-economico attualmente più critico del nostro Paese. Potrebbe l’Abruzzo, proprio partendo dalle urgenze dettate dalla criticità delle sue aree interne, qualificarsi per diventare un laboratorio di sperimentazione di un approccio di keynesianesimo cognitivo? Le condizioni sembrerebbero esserci tutte. Alle già ricordate criticità potrebbe fare fronte uno dei più articolati sistemi universitari del Paese se rapportato alla popolazione residente: tre università in una regione con meno di un milione e mezzo di abitanti, a cui si è aggiunto il Gran Sasso Institute of Science, una realtà di eccellenza dalla forte valenza internazionale che può contribuire in modo significativo ad una maggiore specializzazione della nostra regione sul versante della socio-economia della conoscenza, e proprio a partire dalla ricerca e dall’innovazione di punta sulle problematiche delle aree interne a forte rischio sismico. Un’economia locale che offre potenzialità notevoli in vari settori ad alto contenuto di conoscenza in cui un’iniezione di capacità potrebbe determinare una svolta importante: dall’enogastronomico di qualità alla produzione culturale e creativa, dalla manifattura ad alto tasso di artigianalità ai nuovi modelli di turismo partecipativo alla ricerca di territori che non hanno perso la loro autenticità. Perché ciò possa accadere c’è bisogno di strategie e quindi di scelte. Forse è arrivato il momento di osare, perché da troppo tempo ormai, rimanendo nel solco di percorsi già familiari ma consunti, la nostra regione segna il passo invece di ricominciare a correre. Forse è arrivato il momento in cui la regione più sottovalutata d’Italia può trovare la forza di far conoscere agli altri, e prima di tutto a se stessa, il proprio valore.

Professore di Economia della Cultura e Prorettore alle reti di ricerca internazionali e ai progetti europei presso l’Università IULM di Milano. È inoltre Direttore Scientifico della Fondazione Campus di Lucca e membro del comitato tecnico-scientifico del MIBACT sull’economia della cultura. Scrive per il Sole 24 Ore e segue a livello internazionale progetti di sviluppo a base culturale. È regolarmente invitato come keynote speaker presso conferenze di livello internazionale sui temi dell’economia della cultura.

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PIERLUIGI VISCI

L’IMPORTANZA DI AVERE UN MODELLO

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soffitti si aprivano. In mezzo alla nebbia si vedevano ragazzi che, senza dire una parola, si dirigevano verso le finestre. Tutto é durato venti secondi, al massimo trenta. Quando la nebbia di gesso si é dissipata, c’era davanti a noi un mondo nuovo”. Rintraccio su Wikipedia questa citazione di Ignazio Silone sul terremoto della Marsica del 1915: 30 mila morti, solo ad Avezzano 10.700 su 13 mila abitanti, l’80% della popolazione. “Mondo nuovo” é immagine di futuro pur in mezzo a tanto sconvolgimento. Quale futuro era possibile immaginare, allora? E quale futuro oggi, dopo questo “inverno spietato”, mirabile sintesi di Fabrizio Masciangioli nel bel testo per “Vario” che riassume la “micidiale sequenza di eventi naturali”, la terra che “vibra al ritmo di 500 scosse in 24 ore”, la “violenza delle bufere (che) lasciava al buio e senz’acqua decine di paesi”. Assieme alle analisi di Stefano Ardito e Pierluigi Sacco, per molti aspetti convergenti. Specialmente sul tema dell’abbandono, dello spopolamento, della marginalizzazione geografica (e culturale). “Come mai - ha scritto Paolo Rumiz su “Repubblica” nel suo recente “Viaggio nell’Appennino terremotato” - un luogo che é il baricentro del Paese é sentito dai governanti come una lontana periferia?” Scrivo queste note mentre le agenzie battono la notizia degli sviluppi dell’inchiesta giudiziaria sulla devastazione prodotta da quella montagna di 120 mila tonnellate di neve, rocce, alberi, detriti, quei virtuali” 4000 tir a pieno carico precipitati sul fragile hotel Rigopiano. Sui 29 morti di quel mercoledì 18, dei sei avvisi di garanzia, delle accuse nei confronti del presidente della Provincia dannunziana, del giovane sindaco della piccola Farindola e degli impiegati che non hanno agito o agito male. E così riparte la caccia ai “colpevoli” che ci ha assillato negli ossessivi talk televisivi, la crocifissione di chi non ha avvertito, di chi ha capito male, di chi non ha riparato gli spazzaneve, di chi autorizzò la costruzione dell’albergo, sotto il costone spettacolare del Monte Camicia, abitato dal Neolitico. Chi, invece, processerà decenni di incuria, silenzi, violenze ambientali, distrazioni amministrative, superficialità politica, affarismo criminale, speculazioni? Chi contesterà l’amnesia lunga 25 anni di amministratori e burocrati che hanno ignorato la legge 47 che imponeva alla Regione di stilare la Carta del rischio valanghe, rimediata solo 40 giorni dopo Rigopiano? Insomma, chi processerà, insieme alla cronaca del 2017, la Storia di questa nostra terra straordinaria e disgraziata, eroica e vigliacca, “forte” e cinica, “gentile” e volgare? Scrive Ardito: “La classe dirigente dell’Abruzzo non ha più un legame con la montagna”. E cita la previsione dell’alpinista Giampiero Di Federico: “Si arriverà allo spopolamento completo dei nostri borghi”. Una bestemmia se pensiamo che il territorio abruzzese é per il 65% montuoso e per il 34 collinare, mentre solo l’1% a ridosso della costa é pianura. Quel “legame” é l’essenza dell’abruzzesità. Come dimenticare che questa é la terra più verde d’Europa, dei quattro parchi (tutti legati anche alle più imponenti montagne appenniniche: Gran Sasso, Maiella, Monti della Laga, Monte Velino), delle 32 riserve e delle 18 oasi che coprono il 36,3 per cento del territorio, un terzo dei 10.794 km2 d’Abruzzo. E dove c’é anche il Calderone, l’unico ghiacciaio appenninico e il più meridionale d’Europa. E i borghi di cui parla Di Federico? Nel club dei più belli d’Italia, l’Abruzzo ne conta 23, il maggior numero. Assieme a 312 castelli, fortezze, eremi, ruderi, palazzi del potere censiti tra i siti medievali del Bel Paese. Cito questi pochi elementi, noti ai più attenti, per riprendere il concetto di “quale futuro” come emerge dai tre temi-chiave indicati dal professor Sacco: “sviluppare nuovi modelli di creazione di valore economico e sociale”; messa in sicurezza (antisismica) del territorio”; “rifondare le economie locali attorno ad una residenzialità e ad un’imprenditorialità giovane e ad un modello sociale inclusivo”. Gli eventi di gennaio hanno offuscato l’immagine turistica dell’Abruzzo e quello spot del “cuore” d’Italia veicolato sulle reti Rai e che chiama gli italiani a tornare in Abruzzo, Umbria, Marche e Lazio é solo un palliativo

percepibile come atto di solidarietà più che precisa scelta turistica. Le bellezze da cartolina che appaiono fugacemente sono solo un pretesto. Ci vorrebbe ben altro. E da tempo perché la congiuntura precede i recenti disastri: nel 2016 l’Abruzzo era al terz’ultimo posto tra le regioni turistiche e fa meglio solo di Molise e Basilicata. Il bilancio arrivi/presenze di turisti stranieri segna meno 7,7 e meno 11,7 per cento. I turisti, dice l’Enit, non tornano, i prezzi medi sono alti, le infrastrutture civili (depuratori in primis) sono carenti e la balneazione é spesso negata. Contraddizioni. Sempre nel 2016 l’ Huffington Post Usa colloca l’Abruzzo al quinto posto della classifica delle regioni dove si vive meglio al mondo, l’unica tra le italiane, una delle tre europee con Algarve (Portogallo) e Pau (Francia). Eppure, “dobbiamo ricostruire l’immagine di questa Regione con una serie di misure straordinarie”, dice Giovanni Lolli, vicepresidente con delega alle attività economiche della giunta D’Alfonso e nell’emergenza anche assessore al turismo. Dunque, sa che il comparto fa l’8% del pil abruzzese, con 45 mila imprese, 2.400 strutture ricettive, 109 mila posti letto. Lolli parte dall’area Vestina, luoghi della tragedia del Rigopiano, per il nuovo piano strategico del turismo. Il turismo dei borghi e dei parchi. Il turismo verde, dei vini, della gastronomia. Il turismo esperenziale. Nei paradisi del cicloturismo e nel piccolo Tibet italiano (il Gran Sasso). Diciamocelo francamente: lo sapevamo. Ora dobbiamo vincere la paura. “Primo il ’60 era il regno dei fiori, ora é il regno della miseria”, sta scritto sulla più celebre “Tavola dei briganti” incisa sulle rocce della Maiella, al Blockhouse, dove si rifugiavano gli oppositori di Re Vittorio Emanuele II. Il nuovo Regno, nel 1861, perseguì le proteste per le misere condizioni di vita del Sud creando di fatto il brigantaggio. Fino al 1867 la repressione fu dura anche in Abruzzo e fu allora che iniziò l’emigrazione, con l’avvio dello spopolamento interno, proseguito prima e dopo le due guerre, soprattutto nel primo dopoguerra. La popolazione cala ancora oggi: il saldo 2015/2016 nati vivi/morti segna meno 5.000, pari al 4,4%; scende anche la presenza degli stranieri e si alza l’età media: 44,9 anni, più vecchi di 2 anni dal 2007. La densità é di 123,4 abitanti per km2 contro la media nazionale di 198,8, con il 20% circa (220.000 su 1.300.000) della popolazione concentrata nell’area Pescara-Montesilvano-Spoltore. Cinquanta dei 305 comuni hanno meno di 400 abitanti e sono collinari e montanari, tra 350 e 1.346 metri, quasi tutti aquilani e chietini. Come Bisegna, con 4,79 abitanti per Km2 oppure Rocca Calascio con 3,47. Il comune meno abitato, Montelapiano, ha 82 residenti per un territorio di 8,27 Km2. Svuotamento drammatico, come l’abbandono di case, terreni, corsi d’acqua, monti. Su “Repubblica” del 2 aprile, Michele Serra scriveva che l’Italia é “scesa in pianura e ha abbandonato vallate, crinali, borghi … Di qui molti dei dissesti, delle omissioni, delle catastrofi”. In Abruzzo, se possibile, anche di più. Studiamo il “caso Riace”, comune della Locride nel cui mare furono ripescati i famosi Bronzi. Nel 1998 era un paese fantasma abitato da 400 anziani. Un giorno sbarcarono 200 profughi curdi, accolti e ospitati nelle case abbandonate del paese. Oggi: 2 mila abitanti, 500 stranieri, 120 stabili. Sono stati riaperti botteghe, laboratori artigianali di tessuti e ceramiche, asili e scuole multilingue, si praticano culti multireligiosi, sviluppato l’agricoltura biologica, rifatto l’impianto di illuminazione pubblica. E i 32 euro giornalieri che il governo stanzia per il mantenimento degli immigrati servono a creare lavoro, non assistenza. Il sindaco Mimmo Lucano, al terzo mandato, é stato inserito dalla rivista “Fortune” al 40mo posto della lista dei 50 leader più influenti al mondo, unico italiano tra Papa Francesco, Angela Merkel e Tim Cook. Modello mondiale di integrazione, Riace ha sviluppato anche una nuova forma di turismo solidale. Wim Wender si é ispirato per il film “Volo”. Un’idea, un modello anche per le deserte montagne d’Abruzzo?

Giornalista, si è occupato di cronaca giudiziaria (la P2, Tangentopoli, la camorra di Raffaele Cutolo, il maxiprocesso a Cosa Nostra istruito da Falcone e Borsellino) e di politica guidando la redazione romana di Il Resto del Carlino, La Nazione, Il Giorno. E’ stato direttore responsabile di Quotidiano Nazionale, Il Resto del Carlino e ilrestodelcarlino.net. Scrive sul periodico di politica e cultura liberaldemocratica Libro Aperto e segue la società di comunicazione ed editoria Musica e Parole, che ha fondato col figlio Lorenzo nel 2012

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AMBIENTE

di LUCIANO DI TIZIO

OCCHIO NON VEDE CUORE NON DUOLE Nella storia millenaria del pianeta rappresentiamo meno di un battito di ciglia ma ci comportiamo come se fosse nostro. Poi di tanto in tanto un evento naturale ci sorprende e ci sveglia, almeno per un po’. Per sopravvivere dobbiamo smettere di consumare suolo. Parafrasando De André: “Dal cemento non nasce niente dalla terra nascono i fior”

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Partiamo da un assunto: non esistono disastri naturali ma solo eventi, normali e abituali nella millenaria storia del pianeta Terra, che si trasformano in disastri per i nostri errori. O, se preferite, per la nostra presunzione che ci porta a pensare che un argine possa sempre e comunque frenare un fiume in piena, che un muro abbia forza sufficiente per impedire uno smottamento, che una pur poderosa costruzione possa resistere a una 12

valanga… In realtà sappiamo, e gli eventi di inizio 2017 lo hanno per l’ennesima volta ampiamente dimostrato aprendo gli occhi anche ai più scettici, che c’è un’unica strategia veramente efficace per contrastare le emergenze, ed è quella della prevenzione. Lo sappiamo ma non facciamo tesoro di questa consapevolezza. Persino il disastro del Vajont non è bastato per scongiurare nuovo cemento a ridosso del fiume nella stessa zona nella quale nel 1963 si


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contarono oltre 1900 morti! Calcoliamo gli eventi con un metro inadeguato, basato sulle poche decine di anni di ogni nostra esistenza. Non funziona così: i 3 secoli trascorsi tra i terremoti che hanno sconvolto il centro Italia nel 1700 e quelli tragici che stanno segnando il terzo millennio sono meno che un batter di ciglia calcolati nella scala dei tempi geologici. Che cosa vuol dire? Che sicuramente prima o poi accadrà ancora e che dovremmo agire prendendo finalmente atto di un dato essenziale; viviamo in una terra che dal punto di vista sismico è a dir poco fragile, che si muove come nessuna altra parte d’Europa. Dovremmo prendere ad esempio Paesi, come il Giappone o la California, che stanno peggio di noi ma che hanno saputo meglio convivere col proprio territorio, a tal punto da minimizzare i rischi. In Italia si continua invece a inseguire le emergenze. Né può valere l’alibi economico. Mettere in sicurezza il Paese richiederebbe impegni economici per 44 miliardi di euro. Una enormità, certamente. Ma appena un quarto dei circa 175 miliardi spesi nell’ultimo mezzo secolo per far fronte alle emergenze! Cambiare si può, ma richiede uno sforzo anche culturale. Una prima soluzione viene, indirettamente, dalla recente iniziativa che quattrocento organizzazioni non governative europee hanno avviato per ottenere una direttiva comunitaria che difenda il suolo, bene essenziale alla vita come l’acqua e l’aria. Sotto la bandiera People4soil è stata avviata una raccolta di firme, con l’obiettivo di collezionarne mille entro il 2017 in almeno sette Paesi europei. In Italia hanno aderito in tanti: il WWF naturalmente, e Legambiente, ma anche le Acli, Coldiretti, il FAI, l’Istituto Nazionale di Urbanistica… L’elenco completo delle sigle è sul sito salvailsuolo.it, collegandosi al quale è anche possibile firmare la petizione on line. Prima di collegarvi tenete a portata di mano la carta d’identità. Niente di impegnativo: neppure cinque minuti e avrete dato un importante contributo per rendere un po’ migliore il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti. L’obiettivo, certamente condivisibile, è il varo di una direttiva europea che valorizzi il suolo e ponga fine al suo scriteriato consumo, nel quale ci stiamo specializzando negli ultimi decenni. Ce n’è davvero bisogno. Ogni anno in Europa spariscono sotto il cemento 1000 kmq di terra fertile, un’area estesa come l’intera città di Roma! L’Italia e l’Abruzzo non stanno meglio. Ancor più se si guarda alla qualità delle costruzioni. Perdonate le ricorrenti autocitazioni (sono responsabile abruzzese del WWF) ma su questi temi l’associazione nella quale mi riconosco è particolarmente attiva. Il WWF dunque ha di recente presentato due inquietanti dossier. Nel primo, redatto a 50 anni dall’alluvione di Firenze e diffuso nel novembre dello scorso anno, si “rivela” che nell’ultimo mezzo secolo la vulnerabilità idrogeologica del nostro territorio è ulteriormente aumentata. Anche il disastro del 1966 evidentemente non ci ha insegnato nulla. Abbiamo continuato come niente fosse a spargere cemento, occupando molte delle aree di esondazione dei fiumi. Il caso più clamoroso è quello della Liguria, dove un quarto del terreno, entro la fascia di 150 metri dagli alvei fluviali, tra il 2012 e il 2015 è stato conquistato dalle costruzioni. Sarà un caso se proprio quella regione è stata in anni recenti al centro della cronaca per disastrose alluvioni? 14

L’Abruzzo viaggia un po’ meno peggio ma la situazione non è comunque confortante: al 2015 la percentuale di suolo cementificato era del 4,8% (media nazionale 7,8%) con un incremento dal 2012 pari allo 0,8%. Se poi guardiamo alla costa, la parte più urbanizzata della regione, il terreno consumato nella fascia dalla battigia ai primi 300 metri verso l’interno tocca il 36,3% con incremento del 3,0% tra il 2006 e il 2012 e dello 0,3% tra il 2012 e il 2015. L’altro dossier al quale facevo cenno porta la autorevole firma, accanto a quella del WWF, dell’Università dell’Aquila e per essa del prof. Bernardino Romano. Riguarda le costruzioni in zone sismiche 1 e 2, quelle a maggiore rischio. Ebbene in 40 anni le case sono più che triplicate, mentre la popolazione diminuiva. Quasi come in un gioco di prestigio: siamo di meno, abbiamo bisogno di meno case e ne costruiamo di più. Darwin ci ha insegnato che alla lunga gli organismi di maggior successo sono inevitabilmente quelli che meglio si adattano all’ambiente, non quelli che si illudono di poter fare il contrario, come noi che vorremmo piegare alle nostre esigenze il mondo che ci circonda. Il grattacielo più alto del mondo, la diga più imponente, la piazza più vasta… soltanto record effimeri che possono gratificarci nell’orgoglio ma non contribuiscono in alcun modo a riempirci lo stomaco. L’aria respirabile, l’acqua pulita, il suolo fertile… checché ne pensi l’UNESCO sono questi i soli “patrimoni dell’umanità” cui veramente non possiamo rinunciare. Dovremmo tenerci di più, sforzarci di conservarli. E, come ulteriore misura cautelare, evitare azioni sconsiderate che ci rendono inermi di fronte ai fenomeni naturali: mai più costruzioni nelle zone di esondazione dei fiumi, sotto il fronte delle valanghe, in zone a rischio idrogeologico; mai più costruzioni fragili in aree soggette a movimenti sismici; mai più inutile avanzata del cemento… Il problema è che, nella limitata prospettiva delle nostre esistenze, abbiamo una errata percezione del rischio: quando diciamo quella zona accanto al fiume è sicura perché negli ultimi 150 anni non si è mai allagata non ci rendiamo neppure conto che abbiamo pronunciato una affermazione del tutto priva di significato: 150 o 200 o anche 500 anni sono un’inezia nei tempi geologici e oggi i cambiamenti climatici in atto hanno accelerato i ritmi e reso frequenti eventi che sino a qualche anno fa potevamo, nella nostra piccola scala temporale, legittimamente ritenere eccezionali. L’esigenza primaria è diventata quella di far fronte, per quel che possiamo, al clima che cambia visto che i nostri incauti comportamenti rientrano certamente tra le cause dell’accelerazione. E fermare o almeno frenare il sin qui dissennato consumo del suolo fertile, l’unico che può darci da mangiare, è diventato un obbligo. In Abruzzo alla conferenza stampa di presentazione di People4soil, accanto a WWF, Legambiente e Coldiretti, erano presenti il sottosegretario con delega all’ambiente Mario Mazzocca, che con il suo settore ha convintamente aderito, e il sindaco di Tollo Angelo Radica che sventolava orgogliosamente la variante al piano regolatore del suo paese con la quale è stato reso inedificabile gran parte del territorio comunale. Cambiare si può. Basta crederci. E volerlo davvero. Luciano Di Tizio


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NATURA

BENTORNATA AQUILA

Avvistamento nella Riserva del Borsacchio di Roseto degli Abruzzi Testo Peppe La Spada foto Davide Ferretti

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n’aquila minore-Hieraetus pennatus è il nome scientifico-ha volteggiato sulle campagne della riserva naturale del Borsacchio, nel comune di Roseto degli Abruzzi. Non è un evento comune,anzi questo rapace è specie rarissima in Italia, con segnalazioni rade per l’intero medio-adriatico, figuriamoci in Abruzzo.Si reca in Italia prevalentemente per passare l’inverno dato che nidifica solo nella fascia centrale e meridionale di Europa ed Asia, nonché in alcune zone dell’Africa nord-occidentale. Il fatto che un’Aquila minore abbia deciso di svernare nella Riserva del Borsacchio è un ottimo indicatore dell’effetto di recupero della naturalità che le aree interne della riserva stanno avendo dal 2010. Con l’istituzione della Riserva Naturale del Borsacchio, avvenuta nel 2005, anche il solo blocco totale delle attività venatorie, potrebbe essere stato già sufficiente per ottenere 16

un miglioramento delle condizioni ambientali. Nelle scorse settimane si è conclusa la fase di commissariamento della Riserva, affidata a Fabio Vallarola che dirige l’Area Marina Protetta della Torre di Cerrano, al fine di promuovere una serie di iniziative che, a oltre dieci anni dalla sua istituzione, avvii il progetto pilota di gestione della Riserva stessa. Nata per proteggere uno dei tratti di costa e terreni rimasti ancora liberi dall’urbanizzazione incontrollata, che ha trasformato in pochi decenni le tranquille coste del mare Adriatico in un ambiente completamente edificato e antropizzato, la riserva del Borsacchio comprende un’area di 1.100 ettari nel territorio del Comune di Roseto degli Abruzzi. Un’area che è caratterizzata per gli aspetti unici di integrità della costa sabbiosa abruzzese, con la presenza di dune embrionali di vegetazione alofita,tipica dei terreni


Nelle foto: L’esemplare di aquila fotografata nella Riserva del Borsacchio; sopra una veduta dell’area protetta; a lato, Davide Ferretti al lavoro

salini o alcalini, con tratti di macchia mediterranea dove si riproducono e sostano rare specie di uccelli legati alle zone umide. Così è facile osservare garzette, aironi bianchi maggiori, piro-piro piccoli e combattenti nonché varie coppie di fratino, piccolo uccello che nidifica sulla sabbia, presente anche alla Torre di Cerrano e protetto dalle Convenzioni di Berna e Bonn sulla conservazione della vita selvatica e delle specie migratorie. Il territorio della Riserva ha restituito anche un tesoro archeologico: nel 1897 nei pressi di Cologna fu rinvenuto un elmo ostrogoto, di particolare significato per la ricchezza della decorazione figurata, per la quale costituisce un unicum, e che dal 1952 è esposto al Museum für Deutsche Geschichte di Berlino. Questo elmo a fasce del tipo Bandenhein e la forte presenza dei goti tra Abruzzo e Marche, fa supporre che la

guerra con i Bizantini (535 – 553 dopo Cristo) si svolse anche in questo territorio. Nel 537 i bizantini, dopo aver conquistato Roma e oltrepassato l’Appennino, devastarono il territorio dell’attuale Alba Adriatica e nel 538 dilagarono nel Piceno da Rimini fino a Ortona. Quell’armatura, i manufatti in bronzo e rame ed i resti equini, recuperati in una specie di ripostiglio nel podere della famiglia Savini, sono verosimilmente da attribuire ad un cavaliere goto, che dovette abbandonare tutto per sfuggire alle schiere bizantine. La Riserva del Borsacchio cela ricchezze ambientali e culturali che i cittadini di Roseto vogliono tutelare e valorizzare con l’avvio di una corretta gestione che migliori la situazione attuale e crei le condizioni per un più attento controllo del territorio.

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GIANNETTA CASCELLA

TESTIMONE D’ARTE I ricordi di una vita affascinante, vissuta con personaggi che hanno segnato la storia dell’Italia, non solo artistica, del secolo passato

di Fabrizio Masciangioli foto Claudio Carella

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a mia è stata un’infanzia felice. Ero la più piccola di una famiglia numerosa, in cui si respirava un’atmosfera di serenità e si mangiava pane e arte. Quando mio nonno Basilio, il primo dei Cascella, veniva a trovarci si sedeva a capotavola e parlava con mio padre Tommaso ma anche con noi piccolini solo di arte e di grandi progetti». I ricordi della stagione infantile accendono negli occhi di Giannetta Cascella una luce particolare che fa pensare ai vividi colori di certi paesaggi di suo padre Tommaso o suo zio Michele. Attraverso le sue parole rivive la dimensione privata e familiare di una straordinaria dinastia di artisti, a cominciare dal capostipite Basilio, un uomo ottimista e pieno di entusiasmo che amava la buona tavola. «Mi è rimasto impresso nella mente il modo di mangiare il pesce che mia mamma gli preparava: il suo piatto alla fine del pasto sembrava un quadro di Morandi tanto le lische degli sgombri o delle triglie erano pulite e integre attaccate alla coda ed alla testa. Di mio padre, invece, ricordo soprattutto l’impegno metodico e appassionato nell’attività artistica. Si alzava all’alba e usciva per lavorare, amava ritrarre la Maiella. Poi verso le otto e mezza rientrava a casa, faceva colazione e s’infilava nel suo studio a dipingere e guai a sentir volare una mosca. Nessun piccolo rumore era ammesso. D’estate, addirittura, affittava una casa sul mare e ci mandava via, mentre lui restava nello studio a 18

lavorare. Faceva anche lunghe passeggiate a piedi e spesso la sera lui e mamma andavano al cinema. Si volevano molto bene e noi siamo cresciuti in questo ambiente sereno». Ma sfogliando questo album della memoria le pagine più care a Giannetta sono quelle vissute con i fratelli. Giornate spensierate di giochi e divertimenti vissute tutti insieme nella grande casa-laboratorio, l’attuale museo Cascella in via Marconi. «Pietro era molto estroverso e portava a casa sempre cani, gatti, uccelli, rane, lucertole, aveva una gran dimestichezza con questi animaletti. Andrea invece era più introverso e aveva addomesticato un falchetto dal quale non si staccava mai. A me aveva insegnato a fare delle piccole tartarughe: due palline con la creta, una per il corpo e una per la testa, poi le zampe e la coda e alla fine con uno stecchino decoravo il guscio. Pietro una volta mi fece anche mettere le tartarughine nel presepe che aveva allestito. Eravamo molto creativi e i giocattoli ce li inventavamo noi. Ad esempio mettevamo dei chiodi sulle pareti e tramite un sistema di corde costruivamo delle teleferiche con le scatoline di legno dei fiammiferi. Un altro gioco che ci piaceva molto era quando mio padre doveva realizzare degli affreschi e ci dava da bucherellare le grandi carte lungo i contorni. Ci sentivamo i suoi assistenti ed era sempre una gara a chi faceva prima. Noi figli eravamo molto affiatati, Andrea era più solitario,



si notava la differenza di età, era schivo, taciturno mentre Pietro era di tutt’altra pasta, era vivace, allegro, ci coinvolgeva tutti e con lui avevo un legame speciale che è durato nel tempo. Faceva però anche molti dispetti, una volta ricordo che avevo trovato un piccolo civettino che stava sempre sulla mia spalla e una sera a tavola disse: «so io come nutrire e far crescere questo animaletto» gli diede un pezzetto di prosciutto, insieme a del vino rosso nel quale aveva sciolto anche un cucchiaino di magnesia che mio padre era solito prendere per digerire. Chiaramente il mattino seguente l’uccellino era stecchito». Nell’universo familiare di Giannetta Cascella altre figure hanno lasciato una traccia affettiva e intellettuale importante. Fra queste la nonna Mimmi che era belga ed aveva vissuto a Parigi. Impossibile dimenticare il suono della sua voce quando in francese raccontava dei giorni parigini e dei suoi incontri con gli artisti. Quando i genitori partivano, nonna Mimmi si occupava dei ragazzi ed era anche un’ottima cuoca. «Il suo era un menù tutto francese, con il “grande bollito” che era un piatto veramente di lusso, o con il “pain perdù” di cui ho sempre ignorato la preparazione, e tante altre cose buone e particolari. Certe volte invece chiedeva ad Andrea di pensare al menù, e lui ci faceva mangiare solo spinaci. Pietro era ben più fantasioso, come anche le sorelle. Poi era un festa quando veniva lo zio Michele che era sempre molto allegro e portava il panettone. Le zie anche erano due belle persone, insegnavano a Guardiagrele. Marianna 20

era una poetessa, sia lei che zio Giovacchino avevano un candore disarmante. Insomma l’atmosfera era così piena d’affetto che il fatto di avere pochi soldi era assolutamente secondario. D’altra parte mia madre diceva sempre che aver sposato un’artista significava affrontare anche delle difficoltà. E questo aveva un peso sia sul piano economico che su quello della considerazione sociale. All’epoca c’era un particolare concetto di artista, nel senso che i miei amici e compagni di scuola erano figli del marinaio, del medico o dell’ingegnere ma nessuno era figlio di un pittore. L’arte come mestiere poteva apparire poco più che un gioco ma per noi era una cosa molto seria, un lavoro impegnativo. Era il lavoro dei miei genitori, poi divenne anche quello dei miei fratelli. Io invece ero un somaro in disegno, forse perché avevo un professore che amava molto il disegno geometrico. Mi piaceva la musica come mia madre che era diplomata in pianoforte, amava Tosti e le canzoni napoletane». I ragazzi di casa Cascella non “vestivano alla marinara”, era la madre ad occuparsi dell’abbigliamento facendo pullover, sciarpe e aggiustando i vestiti sempre con molta creatività. Qualche volta riutilizzava anche gli abiti indossati dalla figlia di una sua carissima amica, erano quasi sempre rossi in diverse tonalità; un colore che Giannetta ha detestato per lunghissimo tempo. «Mi ricordo un cappottino rosso con dei quadratini bianchi come pezzetti di lardo e un abitino bordeaux che mia madre mi fece indossare per il saggio di arpa al conservatorio, dopo averlo arricchito con un colletto di


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pizzo. Noi ragazzi, poi, non curavamo la nostra immagine: Andrea e Pietro avevano sempre la testa rasata. A me invece la nonna acconciava i capelli con le trecce strettissime. Non avevamo mai un aspetto scomposto ma non eravamo certo considerati belli: era difficile immaginare che Andrea sarebbe diventato un uomo elegantissimo e di grande stile, tanto che fece anche da modello indossando gli abiti del suo amico Missoni. D’estate quando andavamo nella casa al mare stavamo quasi sempre in costume e qualche volta mi sono addirittura addormentata col costume da bagno. Eravamo sempre scalzi e ci vestivamo solo se si doveva tornare a Pescara per qualche motivo. Poi è scoppiata la guerra e con essa è finita la nostra giovinezza. Andrea è partito per fare il militare e da allora non abbiamo avuto più sue notizie. Dopo tanto tempo è arrivata una cartolina da una nostra cugina, che abitava sul lago d’Orta, diceva “Andreina sta bene” e così abbiamo capito che si era unito ai partigiani; aveva 21 anni. E’ stato comandante della Brigata Garibaldi, un partigiano valoroso tanto da ricevere la cittadinanza onoraria della Val d’Ossola. Finita la guerra, un bel giorno, all’improvviso, ci siamo trovati davanti Andrea che con assoluta tranquillità ci chiese solo se la mamma poteva preparare una cenetta di pesce. Negli anni successivi Andrea non ha mai raccontato nulla della sua esperienza di guerra». Anche quando le loro strade si sono divise, Giannetta Cascella ha continuato a seguire con passione i percorsi artistici dei suoi fratelli tanto diversi quanto lo sono sempre stati i loro caratteri. Ma una grande opera è nata dalla loro collaborazione, nei primi anni del loro lavoro artistico: il monumento ad 22

Auschwitz. Insieme lo hanno progettato per partecipare e vincere il concorso internazionale per la realizzazione di un monumento storico. Una grande opera, proprio come quelle di cui parlavano nonno Basilio e papà Tommaso quando lei era bambina.

Nelle foto: nelle prime pagine, Giannetta Cascella e una sua foto da bambina con il fratello Pietro; a pag. 20, una matrice litografica di Basilio Cascella per la rivista Illustrazione abruzzese del 1899; a pag 21, in alto, Mercede dopo il raccolto un dipinto del 1912 di Tommaso Cascella; sotto, foto d’epoca: Giannetta Cascella in braccio alla nonna, con la mamma e altri fratelli; Giannetta cascella con il marito Achille Montani, con in braccio la figlia Prisca e a destra Pietro e Andrea; Pietro (in piedi) e Andrea Cascella davanti alle loro opere in ceramica; a pag. 22 Sentenza di Pietro Cascella del 1982; a pag 23 Il cavaliere nero di Andrea Cascella del 1964; in basso, una foto storica di Andrea Cascella con la bandiera della Brigata partigiana Garibaldi il giorno della Liberazione a Milano

La video intervista a Giannetta Cascella è pubblicata sul nostro sito www.vario.it


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GIUSEPPE FIDUCIA

UNA LENTE DENTRO LA PITTURA Un libro per celebrare un artista vero che ha lasciato un segno nell’arte degli ultimi decenni per originalità e maestria nel trattare l’umanità che lo circondava, coinvolgeva e incuriosiva di Enrico Crispolti foto Claudio Carella

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Nasce, il tutto, da un progetto di Mariella Pagliuca e Manuela Crescentini, nell’intenzione di proporre una riflessione, a più e differenti voci e prospettive d’operatività culturale, per rileggere oggi esempi salienti del patrimonio immaginativo che sostanzia la pittura di Giuseppe Fiducia. E rileggerli secondo una prospettiva particolare, in certo modo linuisticamente ravvicinata, giacché progettualmente tutta orientata all’interno di singole opere. Ciascuna di queste scelte, dai diversi autori, in ragione di qualche implicito spunto d’affinità elettiva, fra quante altre considerate maggiormente rappresentative del suo lavoro pittorico. Rivolgendosi a chi, più o meno da vicino, nel tempo, e da diverse ottiche professionali, abbia seguito svolgimenti e affermazioni della sua opera, o ne abbia conosciuti di recente gli aspetti, e a chi, e in molti casi assai bene, abbia conosciuto anche l’uomo, indubbiamente singolare. Nasce insomma, il libro, sul progetto di una mirata richiesta di specifiche letture, semiologiche e iconiche, di singoli, significativi, suoi contesti pittorici. Entrandoci dunque dentro, esplorandone appunto il particolare sistema semiologico e iconico-simbolico, scandagliandone quindi livelli, spessori, connessioni, allusioni possibili, e verosimili implicazioni psichiche, spesso non agevolmente dipanabili. Per quanto possibile svelandone insomma le relative più intime e segrete, adombrate, intenzionalità. Di un’identità espressiva, inquietante perché intimamente interrogativa e insieme piuttosto sfuggente. I testi che hanno permesso la costruzione di questo libro, nel suo progetto dunque singolarmente mirato a un dialogo ravvicinato, e insieme tuttavia corale nella varietà delle angolazioni risultanti (così da costituire non tanto un ricordo-omaggio quanto un contributo propositivo di nuove possibilità di lettura e scoperta), non tutti hanno effettivamente corrisposto a questo specifico desiderio e domanda di riscontro particolare, insomma specifico. E il discorso si è quindi fatto in alcuni casi non più testualmente quasi un corpo a corpo nello specifico dialogo con un’opera, svelando in factis la complessità di una pittura subito attrattiva nella sua evidente originalità e sicurezza di edizione colta. Quanto si è venuto, a volte, definendo maggiormente attinente alla

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configurazione di un profilo storico-critico dell’autore in questione, rievocato e situato nei fatti del suo singolarissimo immaginare e del relativo specifico operare mediale, del tutto, magistralmete pittorico. Un immaginare sempre più personale e avvincente nella sua particolarità, sviluppatosi nei decenni fra i due secoli certamente risultati decisivi per l’affermazione di una contemporaneità artistica che ci riguarda, e nella quale Fiducia credeva fermamente ma del tutto criticamente e non fideisticamente. E tuttavia questa varietà di taglio di lettura e di argomentazione - i testi scritti dunque tutti appositamente - permette forse, complessivamente, di schivare il possibile rischio di letture sì pertinenti ma sequenzialmente costrette in una corrispondenza quasi soltanto di carattere catalogico. Introducendo invece trasversalità prospettiche critiche che infine, intendo nel loro stesso margine di sregolatezza rispetto al disegno iniziale dato, di fatto arricchiscono la consistenza complessiva del dialogo così realizzato. Più liberamente entrando nel vivo del fare d’un giovane maestro, storicamente, di un’autentica e originale figurazione nuova in Italia, anche nei nostri giorni. Per parte mia ho cercato dunque di ordinare un’ipotesi plausibile di successione dei testi argomentata secondo l’economia d’un approccio che complessivamente sfugga al mero ricordo. A favore invece d’una possibilità nuova di molteplice riscontro, sia strettamente analitico di un singolo dipinto, sia altrimenti di attenzione complessiva alle particolarità di una situazione operativa. Insomma di riscontro, storico-critico, a una pittura subito d’evidente originalità quanto di difficile decriptazione della sua immediata esplicita ma misteriosa attrattività. E ne è forse infine qui venuta complessivamente la traccia più ricca finora disponibile per avventurarsi in un ipotetico itinerario d’avvicinamento al senso maggiormente plausibile (in motivazione sia individualmente introspettiva, psichica, sia situazionalmente storico-culturale, artistica e politico-civile) attribuibile alla pittura di Fiducia. Dalla semiologia iconologica all’amplicazione sociologica, nella consapevolezza tuttavia di un’intrinseca allerta eminentemente di motivazione critica e interrogativa rispetto al proprio tempo.


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TRE AMICI AL LICEO di Tanino Liberatore

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remessa: non posso parlare di Giuseppe, almeno all’inizio, senza utilizzare paralleli con me stesso, non per vanità, ma per facilitarmi la tache... In Giuseppe, come del resto in Andrea Pazienza e in me, tutto è compiuto, nel senso che niente è lasciato al caso. Diciamo che ci sono basi comuni (Liceo Artistico “Misticoni”), che ognuno ha poi sviluppato a modo suo. La tecnica, in tutti e tre, ha smesso di essere fine a se stessa per diventare la struttura portante del contenuto. I vecchi dicevano: impara l’arte e mettila da parte; ecco noi l’abbiamo imparata ma non l’abbiamo messa da parte! Mi piace pensare che veniamo da una cultura comune che è quella della nostra terra, della famiglia... la tecnica è lo strumento, il linguaggio capace di esprimere tutto questo. Per Giuseppe un lavoro era finito solo quando lo sentiva suo completamente. Lavorava sui dettagli. Non posso dire che per me sia diverso, non so comunque spiegare le cose che avevamo in comune. Il fatto che ci voleva bene, che ci si capiva senza vederci, potrebbe essere il collante della nostra amicizia. Strutturalmente Giuseppe aveva una linea molto netta e, la stesura del colore, se lo si osserva da (molto) vicino, è del puro puntinismo... non gli piaceva sfumare (in questo siamo all’opposto). Una volta mi ha mostrato come cominciava un lavoro: in pratica faceva un disegno sulla tela con molti ripensamenti, con mol-

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ta grafite, poi scartavetrava tutto, non voleva che il disegno si mischiasse all’olio; partiva da un’idea precisa alla quale seguivano diversi stadi per realizzarla e qui il disegno è fondamentale, solo dopo arriva il colore, la base di tutto è il disegno. Vedi Gli roviniamo la bevuta? questo è un miscelatore di musica... il fatto che ci sia sempre una linea nera di contorno alle figure penso dipenda dalla scuola di Firenze, dalla scuola rinascimentale, è la differenza con la scuola di Venezia. Poi è arrivato il Caravaggio che con i suoi contrasti ha unito un po’ i due aspetti. Portale a confronto sembra un quadro più normale anche se non è vero... e questa viola non è una giacchetta, è un’invenzione, è un’armatura. Il viso invece è uno dei più realistici, forse perché l’ha inventato, gli altri sono ritratti. Giuseppe aveva un senso estetico eccezionale, una raffinatezza... questo trittico del 2007-08, Frammenti di ricordi ad esempio, è un acquarello che sembra una ceramica, è pazzesco... penso sia la vernice che gli ha messo sopra che lo fa sembrare una ceramica... Quando guardo una cosa così mi piace soprattutto per la sua bellezza. In questo punto può sembrare la pianta di una città o dei campi coltivati, addirittura una carta geografica... può avere molteplici interpretazioni. Tra noi non parlavamo tanto di quello che facevamo ma più che altro di quello che vedevamo: la nostra terra, un bel culo... le mani che fa Giuseppe sono


di una bellezza, di una forza... e le mani sono la cosa più difficile da disegnare insieme ai piedi. Ci piaceva la musica, ma c’è una differenza: la musica è qualcosa che unisce le persone invece a noi ci isola, ma è voluto. Il lavoro di Peppe dà questo senso di musicalità effettivamente. Ci piacevano le piccole cose, ho sempre pensato che le grandi cose non esistono, ogni cosa è fatta di piccole cose; questo lo ritrovo in Peppe in modo ancora più esplicito, gli veniva da dentro. La letteratura lo aiutava a esprimersi ma c’è anche un’altra componente nel suo lavoro, quello che i francesi chiamano mise in scene che è perfetto per i suoi quadri. Giuseppe è teatrale, è live, c’è molto palcoscenico. Boccetta caduta ad esempio, sembra fatto con i colori dei manifesti d’inizio secolo. Ampolle di sogni, diciamo che è un fumetto che negli anni settanta si sarebbe pubblicato più o meno senza problemi, adesso è diventato più duro perché, come nella musica, c’è un’involuzione palese e un rigurgito moralistico da far male... almeno per quelli che come noi hanno vissuto il ‘68 e il ‘77! Questa è carta Schellershammer. Abbiamo fatto disquisizioni infinite su questa carta che siccome è molto compressa non assorbe subito allora c’è il tempo di sgommare, di andare col dito e ottenere gli effetti che se li fai su Fabriano non ottieni mai perché assorbe subito. Giuseppe passava molto tempo a contatto con i suoi quadri, più che un sogno era diventata la sua seconda realtà forse anche la più importante dopo Mariella, perché una volta uscito dallo studio era tutto di Mariella, degli amici, invece quando entrava nello studio iniziava tutta un’altra storia. Una volta sono andato a trovarlo, aveva appena cominciato due quadri, si vedeva che

non voleva perdere tempo, questo era il suo territorio e non ce n’era neppure per gli amici. Peppe lavorava molto, ha sviluppato una produzione enorme, non è vero che è un pittore lento, l’olio deve seccarsi e questo fatto era importante perché lo faceva riflettere. Il lavoro poteva immaginarlo nel giro di due secondi però non lo finiva mai subito, doveva aspettare per vedere i difetti, il tempo di riflessione era importantissimo. Se dovessi descrivere Giuseppe direi che è un artista al di là del figurativo, che oggi sembra essere un insulto. Siamo in un momento in cui domina un razzismo pazzesco su quelli con un po’ di tecnica: se sai dipingere sei uno stronzo. Adesso si deve saper parlare: questo è molto fastidioso. Il dover presentare la sua opera con lunghi concetti intellettuali, come dicono i francesi ca m’agace. Se dovessi dire chi è Fiducia direi che è un grandissimo pittore, nella tecnica e nei contenuti, è un pittore nella continuazione ideale della cultura italiana del Rinascimento. Giuseppe si faceva anche le cornici da solo perché tirare la tela sul telaio doveva essere, per lui, un piacere tutto fisico... sessuale. Non a caso nei quadri di Giuseppe c’è sempre una donna, è la sua musa, è lei che lo riprende quando non ha fatto le cose come si deve, è lei che lo assolve quando ha fatto le cose, è la sua donna immaginaria, è il suo femminino sempre presente.

Nelle foto: nella pagina precedente in alto, Il carretto olio su tela del 2010; sopra e a lato, Giuseppe Fiducia in un servizio pubblicato su Vario nel 1992


PRIMO DI NICOLA

PRIMO DIRETTORE ABRUZZESE Giornalista esperto e autorevole, da alcuni mesi alla guida del quotidiano Il Centro. Il suo libro Orgoglio e vitalizio è una denuncia impietosa sui privilegi della casta Testo e foto di Claudio Carella

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lle fonti anonime che con il loro aiuto ci consentono ancora di fare giornalismo d’inchiesta”. Ad aprire il libro con questa dedica non sono stati Bob Woodward e Carl Bernstein (Robert Redford e Dustin Hoffmann, nella versione cinematografica di Tutti gli uomini del Presidente) ma Primo Di Nicola, autore di Orgoglio e vitalizio. «Aver fatto questo lavoro attorno agli sprechi della politica non mi ha reso né orgoglioso né felice. Fa semplicemente parte del mio Dna di giornalista. Sono da sempre impegnato su questo fronte: negli anni settanta il mio primo lavoro all’Espresso fu di pubblicare le dichiarazioni dei redditi dei politici, che erano allora coperte dal segreto d’ufficio. Ho fatto sempre questo tipo di giornalismo, faticoso, fatto di fonti confidenziali e documenti riservati. Come l’inchiesta che condussi proprio sull’Espresso con Gianluigi Melega e che provocò il 15 giugno 1978 le dimissioni del Presidente della Repubblica Giovanni Leone. Fu il Watergate italiano, solo che dal lavoro dei giornalisti del Washington Post hanno tratto un film, dal nostro no. Fu una grande pagina di giornalismo». Il libro ha avuto subito un grande successo ed è stato preso come spunto per diversi talk show televisivi. «Questo libro in verità ha visto la luce su iniziativa del direttore della collana di saggistica del Fatto Quotidiano, Marco Lillo, un caro amico che mi ha spinto a pubblicarlo. Ci siamo conosciuti nel ‘99 quando lavoravamo entrambi all’Espresso diretto da Giulio Anselmi. Anche all’epoca si parlava di riforme e quindi di tagli ai 28

costi della politica, avevamo cominciato a scavare per trovare la documentazione sui vitalizi, visto che era tutta secretata. Gli stessi parlamentari avevano difficoltà a reperirla, nel primo capitolo racconto proprio la storia di come sono venuto in possesso di questa documentazione. Insomma, questo volume nasce da lontano, da un’inchiesta dell’Espresso sulle pensioni dei parlamentari. Non volli, all’epoca, ricavarne un libro nonostante le richieste. Perché scrivere libri sottrae tempo alla normale attività giornalistaica e poi non mi andava perché sapevo che scrivendone sarei stato accusato di qualunquismo, di gettare fango su questo o quell’altro, cosa che poi è puntualmente accaduta. Ciò che mi premeva era di mantenere il mio basso profilo che mi consentiva di aggirarmi per il Parlamento e raccogliere informazioni in modo discreto». Poi lasciò il settimanale «E cominciai a collaborare con Il Fatto Quotidiano dove ritrovai Peter Gomez, Antonio Padellaro e Lillo, con i quali ho sempre mantenuto ottimi rapporti, e proprio Marco Lillo mi ha dato la spinta per riprendere il discorso. Devo dire che ha avuto ragione». Leggendo il libro, a parte alcune sorprese eclatanti, spicca il fatto che la maggior parte di questi vitalizi sono importi di bassa entità: mille, duemila euro... «Ma infatti il problema non sono le somme, ma i meccanismi che hanno portato a quegli importi, che sono uno sfacciato favore che i parlamentari hanno fatto a se stessi in totale contrasto con ciò che chiedevano di fare agli italiani.


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C’è stato chi ha avuto una pensione da parlamentare senza aver neanche mai messo piede in Parlamento. Il privilegio nasce da questo trattamento di favore». A proposito di orgoglio, cosa ha provato quando è stato chiamato alla direzione del quotidiano della sua regione? «Sento sicuramente il peso della responsabilità di dirigere un giornale dalla grande storia, fondato da maestri come Mario Lenzi, persona squisita oltre che genio dell’editoria, un pioniere che è il padre dei quotidiani locali dell’Espresso. Con lui ho fatto i miei 18 mesi di praticantato nella redazione del Tirreno di Livorno e poi a Pavia, alla Provincia Pavese, secondo quotidiano del progetto partorito da Lenzi, che ho avuto la fortuna di veder nascere da zero. Per lui il giornalismo era inscindibile dalla passione civile, e se fosse vivo sarei qui a temere il suo giudizio. Non mi posso permettere di sbagliare anche in nome di questo rapporto. E poi anche perché sono abruzzese». Perché i nuovi editori de Il Centro hanno scelto proprio lei? «Non so, forse bisognerebbe chiederlo alla proprietà. Io so che mi è stato chiesto di fare un giornale autorevole e indipendente. Autorevole non sta a me dirlo se lo è, ma indipendente è qualcosa che mi viene naturale fare. Restava da vedere se ci fossero le condizioni per poterlo fare. Così è stato, quindi ho accettato. Adesso il giudizio lo lascio ai lettori che già da qualche mese hanno imparato a conoscermi. Il Centro dev’essere un quotidiano al servizio dei cittadini e deve essere la voce dell’Abruzzo. Questa è la nostra volontà, unita a quella di coprire un vuoto di idee e di dibattito al centro del quale desidero mettere il giornale». Come ha trovato la nostra regione? «Il mio contatto con l’Abruzzo non è mai cessato, sono sempre tornato a Castellafiume dove ho casa e dove trascorro le vacanze estive come tutti gli abruzzesi provinciali di vecchio stampo (sorride, ndr), insomma non ero estraneo alle vicende regionali. Mi sono sempre informato leggendo Il Centro, sia sul web che su carta. Anche se non mi sono mai occupato, professionalmente, della mia regione perlomeno fino al 2006 quando mi sono interessato della vicenda Sanitopoli. Ho avuto modo così di conoscere uno spaccato importante dell’Abruzzo. Adesso, in questo nuovo lavoro ho trovato gli stimoli e le difficoltà che può trovare un direttore di giornale. È una sfida, certo, e mi piacerebbe accompagnare la regione in una fase di crescita. L’Abruzzo ha bisogno di un buon giornale e questo giornale ha bisogno dell’Abruzzo». 30

Mai come in questi ultimi due o tre anni l’immagine dell’Abruzzo è stata così sputt... pardon negativa, assimilata a personaggi non edificanti ma anche all’impreparazione a gestire eventi naturali. «Non c’è dubbio che sia una delle pagine più nere della nostra storia ed è anche il risultato dell’impreparazione dei grandi gestori di servizi che non hanno garantito l’efficienza. Di questa storia pagheremo pesanti conseguenze anche sul piano economico nei prossimi anni. Ho trovato una regione scarsamente attrezzata dal punto di vista delle infrastrutture e dei servizi. È stato un colpo terribile. Ci si domanda: ma che Abruzzo è questo? Ha ancora un’anima?». Il suo compito professionale sarà indagare questo aspetto. Ma da cittadino che impressione ha avuto? «Ugualmente negativa. Ai miei colleghi dell’Espresso suona assurdo che io non abbia a Castellafiume una connessione decente e debba andare ad Avezzano per scaricare la posta; o che a casa mia non abbia il segnale del digitale terrestre. Perfino le linee mobili sono scadenti, e non solo nelle zone interne ma anche sulla costa. Basta percorrere la A 14, per esempio, per vedere che in alcune parti manca completamente il segnale. E non puoi puntare sul turismo come motore della regione se non hai questi servizi. È una regione che ha bisogno di stimoli forti per crescere, per poter garantire alle imprese e ai turisti di venire in Abruzzo in tranquillità. La sorpresa è stata quindi che anche nella zona più evoluta dal punto di vista economico e industriale ci sono sacche di arretratezza che impediscono la crescita. Poi certo il concentrarsi di tutte queste disgrazie, incluse quelle naturali, ha gettato una luce terribile sulla regione anche se la nostra terra non la merita, essendo una realtà socioeconomica con punte di grande eccellenza in tanti settori. La domanda è: stiamo utilizzando al meglio queste risorse? Risposta: no. Quindi vediamo cosa c’è da fare per mettere a sistema tutto questo e cercare di far funzionare al meglio le cose. Magari anche attraverso il giornale che deve fare informazione di servizio, ma anche proporsi come interlocutore anche per la classe dirigente».

Nelle foto: Primo Di Nicola; sopra, la copertina del libro scritto con Antonio Pitoni e Giorgio Velardi per le edizioni Paper First

La video intervista a Primo Di Nicola è pubblicata sul nostro sito www.vario.it


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GRUPPO SGB

UN’AZIENDA FONDATA SUL LAVORO Gianluca Zelli, Barbara Garofoli, Paolo De Vincentiis e Paolo Foresta, i moschettieri della SGB Humangest Holding Testo e foto di Claudio Carella Lavoro. Forse la parola più pronunciata, soprattutto in questi ultimi anni. Dal disoccupato che lo cerca, dall’economista che ne studia le dinamiche, dal politico che non la fa mai mancare nei suoi interventi. A Pescara, ormai da diversi anni, c’è una società, la SGB Humangest Holding che lavora per “produrre” lavoro. A fondarla è stato Gianluca Zelli: «Sono stato dirigente in una multinazionale fra le più importanti nel settore del lavoro interinale; assieme ad un gruppo di miei colleghi abbiamo pensato di mettere a frutto le nostre esperienze per creare un’azienda che avesse la struttura e l’efficienza di una multinazionale, ma allo stesso tempo un’attenzione di dimensione nazionale alle risorse umane e ai clienti. In una parola, più italiana. Siamo partiti nel 2005 con questo spirito e al secondo anno di vita avevamo già fatturato circa 36 milioni, e oggi siamo tra le prime società in Italia». Quattro amici e colleghi di lavoro «Barbara Garofoli, Paolo De Vincentiis, Paolo Foresta e io. Ci siamo conosciuti nella multinazionale in cui lavoravamo. Con Barbara ci siamo poi sposati e ancora oggi gestiamo l’azienda insieme, lei come amministratore delegato io come direttore generale. Paolo Foresta è il direttore finanziario, mentre Paolo De Vincentiis è il direttore delle risorse umane e del marketing. A loro si è aggiunto poi Andrea Bonanni che è uno dei migliori avvocati in materia di diritto del lavoro. Abbiamo cominciato nell’ambito della somministrazione, differenziandoci poi dalle altre realtà di questo tipo e oggi facciamo tanta formazione per le aziende e lavoriamo moltissimo nell’outsourcing, ovvero l’esternalizzazione di servizi. Il gruppo SGB è quindi strutturato in tre società: Humangest si occupa di somministrazione, Humanform della formazione (dei 32

disoccupati e del personale aziendale), e Humansolution gestisce la parte dell’outsourcing». Avete iniziato quando la grave crisi mondiale e italiana non era ancora alle viste. «Il momento era favorevole, i guai sono arrivati qualche anno dopo. Ma nel 2010 siamo stati l’unica società italiana del settore che per far fronte alle perdite causate dalla crisi ha ricapitalizzato invece di fare tagli: non abbiamo chiuso neanche una filiale. Il nostro è un atteggiamento diverso, cerchiamo di sostenere noi la nostra azienda; siamo molto legati e svolgiamo numerose attività sul territorio e questo naturalmente porta ad avere un attaccamento all’azienda, da parte del personale, che alla fine dà molto di più». Rispetto a ieri come è cambiato il vostro lavoro? «Le difficoltà per chi cerca lavoro sono sempre le stesse, sono le esigenze di chi lo offre a essere cambiate. C’è una forte richiesta di lavoro specializzato, maggiore in alcune aree rispetto ad altre. Il nostro approccio è di seguire il lavoratore dall’inizio alla fine, cioè fare in modo che il disoccupato si formi per poi orientarlo e presentarlo all’azienda». Qual è stata la novità del gruppo SGB? «Mettere le persone al centro dell’azienda, qualcosa di cui si parla molto ma che in pochi fanno veramente». L’immagine è un po’ forte, non crede? «La nostra azienda è stata pensata in modo diverso. L’attenzione verso le persone è reale. Nelle nostre filiali abbiamo collaboratori di grande esperienza, che sono con noi sin dall’inizio. Cerchiamo di tenerci le persone di valore perché vogliamo dare alle aziende una consulenza seria e perché anche loro hanno bisogno di persone con esperienza».


Nelle foto: Gianluca Zelli; sotto, i locali della direzione pescarese; accanto (da sinistra) Paolo Foresta, Paolo De Vincentiis, Barbarra Garofoli, Gianluca Zelli

Quello del lavoro è un mondo con tante contraddizioni: da una parte le innovazioni tecnologiche, come i robot che sostituiscono le persone, dall’altra sfruttamento e ingiustizie, come il fenomeno del caporalato. Come fate a dare garanzie sia alle aziende che ai vostri lavoratori? «Le società di somministrazione nascono proprio in risposta a fenomeni negativi. Oggi l’intermediazione di manodopera non normata, di cui il caporalato rappresenta l’apice, è assolutamente illegale. Le società di somministrazione sono invece iper regolamentate, iscritte in un apposito albo presso il Ministero del Lavoro». Ma è vero che i lavoratori somministrati guadagnano di meno perché ci siete di mezzo voi? «Falso. Le regole che abbiamo sono severe: non possiamo chiedere un euro al lavoratore né all’azienda, né ostacolare il processo di assunzione del lavoratore. Noi forniamo all’azienda un lavoratore per sei mesi, e se poi l’azienda vuole assumerlo direttamente, noi facilitiamo la cosa. Inoltre i nostri stipendi sono equiparati a quelli di un lavoratore

assunto a tempo indeterminato nell’azienda dove la risorsa interinale andrà a lavorare». Quindi, stipendi in linea con il mercato? «Certo. I nostri lavoratori percepiscono - magari per un periodo di tempo determinato - la stessa retribuzione del lavoratore assunto a tempo indeterminato, anche quando in quella azienda fossero previste retribuzioni inferiori per i contratti a termine. Qual è l’identikit del vostro lavoratore tipo? «Oggi è necessario essere specializzati, altrimenti è estremamente difficile trovare lavoro. Non è una questione di età, non è questo che fa la differenza. Si fatica molto a collocare il lavoratore che non ha alcun tipo di specializzazione. Non necessariamente bisogna essere ingegneri o informartici, ma si deve avere una s p e c i a l i z z a z i o n e, anche facendo l’operaio. Oggi non esiste più la richiesta di lavoro generico». Ma le aspettative sono ancora quelle del posto fisso? «Dopo l’ultima riforma del Jobs Act, l’unica strada per garantirsi una opportunità lavorativa è lavorare 33


bene. In questo senso va intesa la flessibilità, come una formazione continua: cambiare azienda spesso, mantenendo sempre lo stesso “indirizzo”. In questo modo si alimenta la propria specializzazione e questo permette alle persone di costruire un loro percorso professionale». Insomma, chi ha dei figli deve seguire bene la loro formazione «E’ davvero fondamentale che i percorsi formativi siano coerenti. Mentre in alcune parti d’Italia gli extracomunitari hanno sostituito gli italiani nel lavoro generico, altrove si offre lavoro solo agli specializzati. Per gli altri, quelli che come dicevamo cercano un impiego non attinente col loro percorso di studi o di vita, il problema di collocarli c’è. Oggi la disoccupazione è molto verticale». Lei sta, indirettamente, offrendo una ricetta anche per la lotta alla disoccupazione «Non penso di sostituirmi alla politica, ma la lotta alla disoccupazione andrebbe combattuta con interventi diretti sui “generici”, e non con bonus e azioni trasversali. A una riduzione del costo del lavoro non corrisponde una riduzione del numero dei disoccupati». In che senso ci sarebbe bisogno di interventi diretti? «Bisognerebbe intervenire formando proprio quelle categorie professionali maggiormente richieste dal mercato del lavoro, partendo dalle buone basi che il sistema scolastico e universitario sono chiamati a costruire. L’obiettivo di chi opera all’interno del mercato del lavoro dovrebbe essere quello di incrementare il livello occupazionale, attraverso la qualificazione e la 34

riqualificazione del lavoratore, permettendo così alle aziende di avere risorse specializzate ed effettivamente impiegabili. Ad esempio il trentenne che ha svolto diversi lavori, magari molto diversi l’uno dall’altro, andrebbe incentivato sul piano della formazione a specializzarsi in un determinato ambito professionale. In questo modo le aziende sarebbero maggiormente incentivate ad assumere una forza lavoro qualificata e stabilizzabile, a prescindere dal fatto che esistano incentivi». Voi siete sponsor di numerose manifestazioni sportive, perchè? «Riteniamo che lo sport sia molto affine al nostro mondo e più in generale al mondo delle aziende. Lavorare duramente per raggiungere i propri obiettivi, migliorarsi sempre e mettere energia e passione in quello che si fa è alla base di qualsiasi successo non solo sportivo, ma anche nella vita professionale e di tutti i giorni. Noi da sempre crediamo che nello sport sia possibile trovare gli stessi valori che servono per avere successo anche nel lavoro, principalmente per quanto attiene alla costruzione di un corretto spirito di squadra e per facilitare la giusta cooperazione tra tutti i componenti di un team di lavoro. Per questo, da quando siamo nati ad oggi, siamo stati protagonisti e partner di tantissimi eventi sportivi, rivolti non solo al nostro staff ma anche ai nostri candidati e clienti, guidati sempre dalla convinzione che alla base del successo individuale e di gruppo debba esserci il rispetto delle regole e soprattutto il rispetto degli altri. Esattamente come nello sport».


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L’ARAZZERIA PENNESE

LA TERRA DEGLI ARAZZI Inserita all’interno dell’area protetta del lago di Penne la manifattura usa la tecnica del basso liccio ideata negli anni sessanta dai due maestri dell’Istituto d’arte dell’antico centro peligno di Giuseppe La Spada

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ll’interno dei 150 ettari della Riserva naturale del lago di Penne c’è un progetto in corso che non ha niente a che vedere con il patrimonio ambientale e faunistico protetto. E’ il recupero dell’Arazzeria pennese, ovvero la produzione di arazzi con la tecnica a “basso liccio”, ideata e avviata a Penne nel 1965 da due maestri del locale Istituto d’Arte, Fernando Di Nicola e Nicola Tonelli, e da un preparato gruppo di tessitrici, loro ex allieve. Da oltre un anno hanno ripreso a téssere arazzi le ultime due allieve rimaste: Erminia Di Teodoro e Lolita Vellante, con la direttrice del laboratorio Laura Cutilli nei locali immersi nel verde e messi a disposizione dal direttore della Riserva Fernando Di Fabrizio. L’idea ambiziosa è quella di non disperdere la tradizione e l’eccellenza di un Made-in-Italy artigianale e artistico di rara qualità. Pertanto La Riserva Naturale Regionale Lago di Penne, insieme con la Brioni, la Fondazione Penne Musei e Archivi, la cooperativa Alisei e il Gal Terre Pescaresi, ha attivato un progetto di rilancio dell’Arazzeria, con l’obiettivo di implementare il laboratorio e continuare la produzione di arazzi d’arte. Il nuovo corso dell’Arazzeria ha comportato un processo di reinserimento nel panorama artistico che è iniziato con la produzione degli arazzi di Summa, Costantini, Sabatini, Appicciafuoco, Costas Varotsos e Alberto Di Fabio. Successivamente, con la direzione artistica di Barbara Martusciello, sono stati tessuti gli arazzi di Matteo Nasini e di Marco Tirelli. Un protocollo d’intesa con l’Accademia di Belle arti dell’Aquila prevede un corso di formazione sulla tecnica a “basso liccio” per dare un futuro all’arazzeria pennese. La particolarità della tessitura a basso liccio è che prevede una collaborazione stretta con l’artista sia nella prima fase di realizzazione del cartone che nella scelta cromatica delle lane, “le mazzette”. Esse sono preparate miscelando una serie di fili di lana colorati che per titolo e rispondenza cromatica diventano le trame del tessuto. Le campiture 36

cromatiche del cartone vengono studiate nel rispetto dell’opera ma vivono di un’autonomia propria che è alla base della traduzione tessile e costituisce la parte più nobile dell’arazzo. Da uno stesso cartone gli arazzieri potevano tessere più copie che venivano numerate, anche se ogni opera portava con sé l’unicità di un lavoro manuale. Come in tutte le manifatture del Novecento, per la scelta delle opere destinate alla tessitura dell’arazzo, l’artista a volte le realizzava appositamente, altre volte le forniva dal suo studio. Gli arazzi tessuti a Penne sono contraddistinti dalle lettere ‘AP’ unite. Le caratteristiche tecniche proprie dell’Arazzeria Pennese riguardano l’ordito e la trama: l’ordito è costituito da un filo ritorto in cotone a tre capi, la trama è costituita esclusivamente da lana. La riduzione del tessuto è di 8 fili a cm2 per l’ordito mentre per la trama i fili per cm2 variano a seconda del titolo. Dopo la presentazione ufficiale del progetto nell’ambito del convegno “L’alto artigianato nella contemporaneità: gli arazzi a basso liccio nell’Oasi di Penne” svoltosi lo scorso dicembre all’interno della Riserva, il prossimo appuntamento sarà a Roma il 22 giugno dove gli arazzi realizzati a Penne verranno esposti al Museo di arte contemporanea (MACRO) fino al 23 settembre. Una vetrina prestigiosa per l’Arazzeria pennese, di cui in Italia è rimasta qualche traccia simile nell’arazzeria Scassa di Asti, e che in passato ha visto importantissimi artisti fornire i propri bozzetti all’Arazzeria e collaborato con le loro idee e suggerimenti alla tessitura: Enrico Accatino, Marcello Avenali, Afro Basaldella, Diana Baylon, Remo Brindisi, Giuseppe Capogrossi, Primo Conti, Antonio Paradiso e le figlie di Giacomo Balla. Nel corso degli anni gli arazzi di Penne hanno partecipato a numerose mostre nazionali e internazionali a New York, Las Vegas, Milano, Roma e sono stati realizzati tre arazzi monumentali, due di Afro ed uno di Capogrossi, destinati alla Biblioteca Nazionale Centrale “Vittorio Emanuele II” di Roma.


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GIOVANNI D’ALESSANDRO - KRISTINE MARIA RAPINO

IL FASCINO DISCRETO Generazioni di scrittori a confronto

di Marco Tabellione

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l raccontare, il desiderio affabulatorio, la voglia di inventare e ascoltare storie, accompagnano l’uomo dall’alba dei tempi, e nutrono ogni tradizione popolare, anzi si pongono come una componente essenziale delle culture arcaiche, in cui la tendenza mitopoietica, nella forma della oralità, assumeva un’importanza primaria. Ecco perché diventa interessante e formativo andare ad indagare quanto rimane nella letteratura contemporanea non tanto degli antichi miti, quanto piuttosto dell’antica concezione esistenziale che quei miti contribuivano a trasmettere. Soprattutto indagare se si possono individuare delle correnti comuni all’interno di tradizioni regionali, come ad esempio quella abruzzese, in cui poter inserire e riportare anche scrittori contemporanei, e tra questi rinvenire idealità e poetiche comuni, magari giungere ad accostare protagonisti di generazioni diverse. Vario ha così deciso di allargare anche alla narrativa l’inchiesta sulla poesia abruzzese condotta sull’ultimo numero, individuando in Giovanni D’Alessandro e Kristine Maria Rapino due figure esemplari, nella loro distanza generazionale. D’Alessandro è forse lo scrittore abruzzese più rappresentativo, il suo primo romanzo Se un dio pietoso, vincitore del premio Viareggio, fa parte ormai della storia letteraria nazionale, tradotto in diverse lingue, e il cui successo è stato bissato dai lavori successivi, come Soli del 2011 legato alla storia del medioevo abruzzese. Kristine Maria Rapino è invece una giovane promessa chietina, finalista al programma Masterpiece di Rai Tre e vincitrice della prima edizione del concorso per esordienti Sandor Marai. I due narratori sono divisi da uno spazio di anni, ma su un’idea concordano non poco, e cioè sul fatto che in Abruzzo si scrive tanto e con vivacità. «Abbiamo narratori osservati dalla critica, premiati, letti; scrittori di valore - conferma D’Alessandro - i quali probabilmente meriterebbero una promozione più convinta quando pubblicano con editori nazionali, che 38


DELLA SCRITTURA invece all’atto pratico puntano sulla “scuderia” a loro più vicina e direttamente “allevata”, anche quando si tratta di brocchi e non di cavalli di razza. Questo dico a maggior merito di chi si è fatto un nome tra i nostri narratori, i quali non hanno avuto sostegno e ciononostante sono riusciti ad affermarsi. Un punto di eccellenza è dato poi dal giallo e dal noir abruzzesi, settore in cui abbiamo nomi come Capobianchi, De Marco, Pomilio, Romano e altri ancora, conosciuti, venduti e tradotti, con editori grandi che li hanno cercati e pubblicati». Gli fa eco Kristine Rapino che mostra lo stesso entusiasmo per la scrittura regionale contemporanea. «Sarei portata a dire che in Abruzzo si legge molto sottolinea - ma ancor più, si scrive. Con entusiasmo quasi epidemico. In alcuni casi sono fuochi letterari repentini di chi si reinventa nei panni dello scrittore, con il beneplacito di parenti e amici. In altri, sono vivacità intellettuali che ci rappresentano con vigore e autenticità sulla scena nazionale. Parlo di eccellenze come lo stesso Giovanni D’Alessandro, Donatella Di Pietrantonio, Alessio Romano, Pier Franco Brandimarte. Tanto per citarne alcuni. O abruzzesi d’adozione che scrivono con ardore della nostra terra, e mi riferisco a Dacia Maraini. In entrambi i casi, siano questi scrittori acclamati o sognatori di professione, è una passione radicata: in Abruzzo, si ha voglia di raccontare». Si scrive molto dunque in Abruzzo, ma si può parlare di un autentico filone abruzzese? Per D’Alessandro sì, se si tiene conto però dei contenuti, non tanto degli stili, e infatti sostiene: «Nella misura in cui contesto e cultura abruzzesi sono veicolati nella narrazione». Dello stesso avviso è la giovane Rapino, anche se è convinta che presto si parlerà di un’autentica corrente abruzzese. «Ci stiamo finalmente lasciando alle spalle l’idea di una lingua depurata, evirata - spiega la scrittrice di Chieti di stanze linguistiche asettiche, uguali dappertutto. Di virtuosismi cosmetici. Stiamo tornando alla terra, alla nostra terra! E finalmente, stiamo sdoganando il dialetto, 39


Kristine Maria Rapino una giovane promessa chietina, finalista al programma Masterpiece di Rai Tre e vincitrice della prima edizione del concorso per esordienti Sandor Marai

come ci insegna anche Donatella Di Pietrantonio nel suo ultimo libro L’Arminuta. Non più scenari esotici. Non più grandi città che non ci rappresentano. In Abruzzo come altrove, le tematiche e le ambientazioni stanno tornando tra le mura domestiche. Abbiamo tradizioni troppo succose ed estremamente “appetibili” dal punto di vista drammaturgico per non farle conoscere al grande pubblico. Altre regioni italiane sono già riuscite ad affermare e a portare alla ribalta nazionale la loro spiccata territorialità (vedi Camilleri, Manzini, De Giovanni, Vitali e Murgia). Ora è il nostro turno». Quello che è certo è che entrambi sentono di potersi riferire ad un retroterra abruzzese, come dimostrano anche le loro opere, dato che per Kristine Rapino ciò è quasi inevitabile e afferma: «Sarò banale, ma è vero: siamo quello che leggiamo. Quello che viviamo. Da questo punto di vista, in ciò che scrivo io, come per qualsiasi altra persona nata e cresciuta in Abruzzo, c’è necessariamente e orgogliosamente un po’ di Majella, una spolverata di Trabocchi, un pizzico di Gran Sasso. Ma non credo di appartenere ad alcuna tradizione in particolare. Leggo con avidità i contemporanei, e ultimamente ho riscoperto un’empatia verso i classici: Verga, Deledda, Ginzburg. Forse proprio per un desiderio di ritorno all’essenzialità, alla terra. Ai quadri di Michetti, di Pasquale Celommi. Tra contadine, figlie di maghi, pescatori». Mentre D’Alessandro laconicamente osa accostarsi ai grandi del passato abruzzese: «“Si parva licet”- sottolinea - dati i grandi nomi che, qui, abbiamo alle spalle. Il nostro Abruzzo da questi grandi è stato elevato a simbolo; assunto a icona della condizione umana; che peraltro - impareggiabilmente e magicamente - questa regione si presta ad essere, a tratti almeno». D’altra parte il collegamento con un contesto letterario è inevitabile rispetto ad un’arte che prima di essere un mestiere, è una passione. «Si diventa scrittori per amore della scrittura - spiega a questo proposito D’Alessandro - per pulsione a scrivere. Il resto viene poi. Quando viene». «Scrivere non è un mestiere - gli fa eco la giovane Rapino - è uno sport olimpico. A tratti, logorante. Ore ed ore di allenamento quotidiano, di scrivania e foglio bianco. Di artigianato linguistico. Di spionaggio. Non ci s’improvvisa scrittori, così come non ci s’improvvisa maratoneti. Esistono pochissimi esemplari di “scrittori 40

per professione”. Molto più spesso si fanno altri mestieri. Le scuole di scrittura trasmettono un metodo, ma non basta. Così come non basta il desiderio smodato di raccontarsi, come accade su Facebook. Scrivere è piuttosto facile. Saper raccontare è difficile. Lasciare che sia la storia a raccontarsi è pressoché impossibile. In questo terzo caso, risiede la genialità dei grandi scrittori. Dalla mia personale esperienza, posso attingere una sola regola: perseveranza. Mi sono spesso sottoposta al giudizio di giurie autorevoli, cosa che consiglio a tutti. Limitarsi al parere di parenti e amici, secondo me, è fuorviante. Sicuramente il mio passaggio a concorsi nazionali quali Tramate con noi di Radio Rai, La Giara, il programma televisivo Masterpiece e non meno importante, il Premio Sandor Marai per Scrittori Emergenti, sono stati trampolini di lancio. Ma purtroppo, bisogna dirlo, ci vuole fortuna. Tanta, troppa. Sfacciata. E ancor prima, certo, passione ai limiti della follia. Per citare Richard Bach, “uno scrittore professionista è un dilettante che non ha mollato”». Dunque scrivere per entrambi non può essere una professione, tuttavia in nessuno dei due emergono concessioni al mito romantico dell’artista chiuso nel mondo della sua interiorità, c’è un pubblico e si scrive per lui. «Non giriamoci troppo intorno: si scrive per essere letti - sbotta Kristine Rapino - chi dice di scrivere per se stesso, o ha una vocazione esclusivamente diaristica, oppure deve maturare la consapevolezza che ciò che scrive possa non essere fruibile, accattivante. In sostanza, è vietato ammorbare il lettore. La scrittura autoreferenziale è una piaga dilagante. Io provo a raccontare. A mettermi al servizio della storia. Mi faccio strumentalizzare volentieri dai personaggi. Sono la prima a sfoltire il testo a colpi di machete, quando mi accorgo che non odora di verità. Credo sia quella la prima onestà da garantire al lettore». Su questo punto, poi, D’Alessandro va al sodo argutamente, regalandoci un aforisma: «Sono convinto che seguire l’ispirazione sia la via primaria per intercettare e orientare i gusti del pubblico. In ogni caso il successo conta, è in fondo lo scopo di ogni scrittore. Veder amate e cercate dai lettori le storie cui si dà vita - specifica l’autore di Se un dio minore - è la prima aspirazione di chi scrive. Non esiste chi, scrivendo, possa sostenere il contrario». Più cauta su questo punto la giovane scrittrice.


Giovanni D’Alessandro è forse lo scrittore abruzzese più rappresentativo, il suo primo romanzo Se un dio pietoso, vincitore del premio Viareggio, fa parte ormai della storia letteraria nazionale

«I concorsi ai quali ho partecipato - racconta - mi hanno dato certamente una piacevole visibilità, ma sono stati ancora più importanti la fiducia e lo sprone di persone straordinarie come ad esempio Maurizio De Giovanni. Quest’ultimo, presidente di giuria al Premio Sandor Marai, ha definito la mia “una scrittura dei cinque sensi, che arriva”. Credo sia la cosa più bella che ci si possa sentir dire da chi ti legge. Non l’ho mai dimenticato». Ma qual è in definitiva il rapporto dei due scrittori con l’ambiente letterario della loro terra? «E’ un rapporto buono - risponde D’Alessandro - fatto di stima, di frequentazione e a volte di amicizia. Dipende anche dal reciproco approccio di partenza. Scrittura e in genere cultura sono per me terreni vergini, ancora in larga parte incolti, in cui ogni nuova figura che si affaccia, se animata da sincera passione per esse e da humilitas (per rimanere nel gioco di parole col fertile terreno incolto) non può che essere ben accetta e, per l’apporto che darà, utile. Ovviamente anche in questo campo ci sono congenialità più o meno avvertite». «Cerco di partecipare il più possibile compatibilmente con gli impegni di lavoro - dice dal suo canto Kristine Rapino - alle iniziative che si svolgono sul nostro territorio. E per fortuna ce ne sono tante. Intrattengo spesso piacevoli conversazioni con scrittori, poeti, editori locali, e alcuni librai storici che tengono alto il vessillo della lettura con una spettacolare dedizione. L’Abruzzo ha una bella squadra da serie A. Ne sono convinta». Ma come definiscono i due scrittori la propria scrittura, la propria vena narrativa? «Mi piacerebbe che fosse definita dai miei lettori come una narrativa viva - esordisce D’Alessandro - le cui figure, le cui vicende sono state da loro amate, inseguite, fatte proprie, sino a progressivi livelli di estraniazione da sé per entrare nelle loro storie; o, per usare un più impegnativo termine, per immedesimarsi in esse. Vorrei che i lettori si avvicinassero alla mia narrativa come a una possibile fonte di affabulazione, o fascinazione. Questo è il dichiarato o non dichiarato scopo di ogni scrittura. Noi scrittori siamo tutti aspiranti affabulatori». Mentre Krisitne Rapino considera il proprio stile “tridimensionale”. Plastico. Sensoriale. «O almeno, così mi piacerebbe che fosse. Cerco di prestare attenzione ai dettagli, misuro la temperatura della scena. A volte, mi scopro a tastarne quasi l’efficacia cinematografica, a declamare ad alta voce le battute dei dialoghi, finché non suonano del tutto vere. Non

amo le circonvoluzioni letterarie. Preferisco la scrittura scattante, nervosa. Così anche per le mie letture. Tra i miei libri preferiti c’è sicuramente Tre camere a Manhattan di Georges Simenon, e Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald». Per concludere un inevitabile riferimento ai rispettivi nuovi progetti. «Ho da poco terminato la scrittura del mio secondo romanzo - racconta Kristine Rapino - che ha un tono molto diverso dal primo. Mi sono discostata dall’ironia da commedia romantica di Voglio un amore da film, e ho seguito la necessità di raccontare Malverno. Letteralmente: “cattivo inverno”. Un testo dalla scrittura selvatica, rosso amaranto, con frequenti contaminazioni dialettali. Un romanzo profondamente abruzzese, a tratti noir. Ambientato ai giorni nostri, ma innestato in una tradizione fatta di miti, superstizioni, leggende del passato che non hanno mai smesso di condizionare i protagonisti. E forse tutti noi. Tengo in maniera particolare a questo romanzo, per le vicende personali che mi hanno portato a scriverlo. Sto concorrendo al Premio Calvino. Incrociamo le dita. Il resto si vedrà». Grossi progetti anche per D’Alessandro alle prese con il suo ultimo romanzo. «E’ per me il più caro fra tutti quelli che ho scritto confessa - e anche, penso, che scriverò. Lo dico fermo restando che ogni libro merita una predilezione a sé e non perché si ami, tra le proprie creature, sempre l’ultima nata. Questo era il progetto che, a torto o a ragione, coltivavo da vent’anni, mentre di libri ne scrivo altri sette. Ha come temi l’amore e l’amicizia quali strutture portanti della vita. Vi ho riversato dentro tanto di ciò che amo. E sì, lo sento come il libro della mia vita, al di là di come verrà accolto dai lettori. Si scrivono tanti libri per loro; uno solo è il libro che si scrive per se stessi. E per me è questo».

Nelle foto: nella pagina precedente (a sinistra) Kristine Maria Rapino e Giovanni D’Alessandro

Le video interviste a Giovanni D’Alessandro e Kristine Maria Rapino sono pubblicati sul nostro sito www.vario.it

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UNIVERSIVARIO

SCIENZA FUORI CLASSE “Terza missione” un progetto coordinato da Liborio Stuppia per comprendere e prevenire i danni causati dagli eventi naturali di Francesco Di Salvatore

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a “terza missione” dell’Università in difesa dell’ambiente. Il mondo della scienza mette a disposizione le proprie risorse misurandosi sul campo, in un contesto interdisciplinare e in maniera concreta, per scongiurare dissesti idrogeologici e catastrofi, per fare prevenzione, per analizzare le cause della fragilità del territorio abruzzese e per dare risposte anche sotto l’aspetto psicologico e della percezione dei rischi. Un’idea innovativa e affascinante resa di straordinaria attualità dalla tragedia di Rigopiano, dal terremoto, dalle nevicate storiche, dai crolli di abitazioni, da allagamenti, frane, smottamenti, valanghe, da paesi isolati e senza energia elettrica, senza riscaldamento e con telefoni in tilt. Sull’interessante progetto sta lavorando con risultati lusinghieri il Dipartimento di Scienze Psicologiche, della Salute e del Territorio (Disputer) dell’Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara, diretto dal prof. Liborio Stuppia, ordinario di genetica medica. Direttore, la nostra regione va ormai considerata area geografica a rischio ambientale sotto diversi punti di vista. Quali le cause e le conseguenze? Cosa fare? «I recenti tragici eventi hanno evidenziato in maniera drammatica che l’Abruzzo è area a forte rischio ambientale. Un unico filo conduttore lega infatti il disastro dell’hotel Rigopiano a diverse altre criticità, quali la paralisi di interi comuni a seguito di nevicate, il rischio sismico, i problemi di inquinamento del mare Adriatico, gli effetti sulla salute di criticità probabilmente sottovalutate quale quella degli scarichi della Montedison di Bussi. Per usare un termine in voga in questi anni, l’Abruzzo ha dimostrato di essere una regione fragile, intendendo con questo termine la vulnerabilità non a uno solo ma a diversi fattori ambientali, naturali o generati dall’uomo. Le conseguenze di questa fragilità coinvolgono svariati aspetti della vita della nostra regione: dalla salute individuale e collettiva, al patrimonio ambientale e culturale, 42

alle conseguenze su una economia che potrebbe risentire in modo drammatico di questi eventi (non solo sotto forma di crisi del turismo ma anche di mancato investimento delle imprese verso un territorio che non garantisce sicurezza), fino alle conseguenze psicologiche su una popolazione improvvisamente cosciente di vivere in un ambiente ad altro rischio sanitario, geologico, climatico ed economico. Le ragioni che hanno portato a questa condizione sono certamente complesse e di conseguenza la risposta a questa emergenza non può che essere a sua volta articolata e capace di coinvolgere diverse competenze». Presso l’Università Chieti-Pescara è stato costituito il Dipartimento di Scienze Psicologiche, della Salute e del Territorio (Disputer) da lei diretto. Quali caratteristiche, quali finalità e come nasce il concetto di terza missione dell’Ateneo? «Ben prima che le criticità si manifestassero in tutta la loro gravità, l’approccio multidisciplinare al problema del territorio era stato affrontato presso l’Università ‘G. d’Annunzio’ di Chieti-Pescara attraverso la costituzione del Dipartimento di Scienze Psicologiche, della Salute e del Territorio (Disputer), che ha rappresentato un esperimento di convivenza e interazione tra psicologici, geologi, medici, biologi e archeologi le cui attività sono state finalizzate allo studio dei problemi del territorio con un approccio interdisciplinare, capace di esaminare in tutte le sue possibili sfaccettature il problema del rischio ambientale. L’idea del Disputer nasce in accordo con un nuovo concetto di ‘terza missione’ dell’Università, ossia quella che, in aggiunta alla didattica e alla ricerca, l’Università deve perseguire instaurando rapporti con il territorio che la circonda, lasciando che il sapere accademico esca dagli ambienti chiusi dei laboratori e delle biblioteche per confrontarsi con i problemi quotidiani e straordinari della società civile, cui deve dedicare analisi, fornire risposte, proporre soluzioni.


ATENEO G.D’ANNUNZIO DI CHIETI - PESCARA

Nella foto, Chiesa con affreschi interni dopo il sisma del 2009; sotto il Prof. Liborio Stuppia

Solo un ambiente così riccamente eterogeneo dal punto di vista culturale come un Ateneo può possedere tutte insieme le competenze per l’analisi, la comprensione e la soluzione di problemi complessi. In quest’ottica il Disputer svolge un’intensa azione di analisi del territorio e diffusione di conoscenze mediante una serie di convenzioni con diverse tipologie di enti pubblici (Asl, Capitaneria di Porto, Sovraintendenze ai Beni Culturali, scuole). Una novità nell’approccio del Disputer al problema del territorio fragile è quella di aggiungere alle competenze geologiche di analisi di territorio come potenziale fonte di rischio e a quelle biomediche di studio degli individui come potenziali bersagli del rischio, anche quelle psicologiche di analisi della percezione del rischio. La percezione del rischio, intesa tanto da un punto di vista individuale che collettivo e quindi anche istituzionale, rappresenta un importante parametro di misura di quanto le informazioni sui rischi ambientali e sulle possibili conseguenze sulla salute siano recepite in modo da suscitare un’attenzione sufficiente a motivare un cambio virtuoso degli stili di vita (e quindi anche di alcuni assetti territoriali) senza cadere negli allarmismi e negli stati di ansia ingiustificati. La percezione del rischio diventa pertanto la reale misura di quanto le informazioni raccolte sui fattori di rischio ambientale e sulle loro conseguenze sulla salute siano in

grado di produrre effetti positivi in un’ottica di prevenzione della salute individuale e collettiva». L’Università Chieti-Pescara offre anche altre competenze specifiche nel settore? «L’esempio del Disputer non è da considerarsi elemento isolato. Esistono infatti competenze urbanistiche (parte del rischio sismico è certamente legata alla tipologia di costruzioni), giuridiche (analisi delle criticità dei percorsi legislativi che hanno progressivamente portato a una sempre minore tutela del territorio), economiche (calcolo dell’impatto negativo della fragilità del territorio sul suo tessuto produttivo e sulla potenzialità di investimento delle imprese). La disponibilità di un potenziale team multidisciplinare capace di fornire risposte elaborate a un problema complesso quale quello della fragilità del territorio rappresenta una peculiarità pressoché esclusiva del mondo accademico e un’opportunità da sfruttare al massimo per il territorio». Le sinergie tra Università e territorio e l’interazione tra discipline accademiche inducono a guardare con ottimismo al futuro? «Dall’interazione tra le diverse discipline e tra il mondo accademico e il territorio potranno giungere molte risposte sulle cause di questo progressivo dissesto che investe la nostra regione e proposte capaci di arginare il crollo di un’intera regione; le une e le altre ormai non più derogabili».

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UNIVERSIVARIO

PRONTO SOCCORSO VETERINARIO Un gruppo specializzato dell’Università di Teramo, coordinato da Augusto Carluccio, per la gestione delle emergenze legate ai disastri naturali

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’Università di Teramo in prima linea nella gestione delle emergenze. La facoltà di Medicina Veterinaria ha svolto un ruolo insostituibile nel prestare cure e soccorsi e nel predisporre efficienti servizi logistici nei giorni che hanno sconvolto l’Abruzzo. Terremoti, nevicate record, crolli, vittime, paesi isolati, sfollati, animali morti, black-out elettrici e telefonici: la tragedia di gennaio ha lasciato segni indelebili. Dalle aule e dai laboratori alla prova operativa sul campo: test impegnativo che l’Ateneo teramano ha superato brillantemente. Un salto di qualità notevole che proietta la Facoltà di Medicina Veterinaria verso nuovi traguardi. Il prof. Augusto Carluccio, preside della Facoltà, direttore sanitario dell’ospedale veterinario universitario didattico (Ovud), ordinario di Clinica Ostetrica e Ginecologica Veterinaria, illustra programmi, innovazioni e strategie. “Dopo l’esperienza di campo in occasione del terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009, tra gli obiettivi della Facoltà - afferma il prof. Carluccio - rientrava a pieno titolo la formazione di veterinari specializzati nella gestione delle emergenze, comprese quelle legate a disastri naturali, come alluvioni, terremoti, incendi. Questo obiettivo è stato raggiunto dal corso di alta formazione, lavoro e ricerca, in campo medico veterinario, finanziato dal Piano Operativo del Fondo Sociale Europeo Abruzzo 2007/2013 dell’assessorato dell’avvocato Paolo Gatti, già assessore regionale al Lavoro, Formazione e Istruzione, il primo in Italia nel suo genere. Il corso ha portato alla specializzazione sulla tematica delle emergenze 6 medici veterinari e 7 tecnici veterinari di supporto. Per rendere più efficace l’intervento, nel febbraio 2014, nella sede della Facoltà di Medicina Veterinaria di Piano d’Accio è stato siglato un accordo tra l’Università degli Studi di Teramo e il Corpo Militare Speciale dei Cavalieri dell’Ordine di Malta, responsabile dei punti medici avanzati e degli ospedali da campo in occasione delle grandi emergenze. La collaborazione è stata possibile grazie alla presenza in Abruzzo 44

di un Reparto Operativo di Emergenza (Roe) del Corpo Militare Speciale dei Cavalieri dell’Ordine di Malta ‒ con a capo il colonnello medico Giuseppe Galatioto Paradiso ‒ che già aveva in programma sinergie con la Facoltà di Medicina Veterinaria di Teramo. Inoltre il nuovo accordo di cooperazione tra la Difesa italiana e il Sovrano Ordine di Malta, firmato lo scorso 29 gennaio prevede la costituzione di una Commissione consultiva composta da personale della Difesa e del Sovrano Ordine di Malta per l’apertura a nuove professionalità, tra cui quella del medico veterinario. L’accordo, siglato dal rettore Luciano D’Amico e dal colonnello capo amministrativo Mario Fine, ha lo scopo di individuare e attivare programmi e progetti concreti per promuovere la cultura professionale in questo settore e di inserire la Facoltà di Medicina Veterinaria di Teramo quale punto medico-veterinario avanzato durante le grandi emergenze”. Nel 2015 è stata svolta una simulazione sismica per verificare la capacità di intervenire con tempestività e ordine in una situazione di emergenza. “Sì, l’esercitazione è stata denominata Cerbero 2015 - conferma il prof. Caluccio - Attraverso un dispositivo di Sanità pubblica congiunto del Corpo Militare Speciale dei Cavalieri dell’Ordine di Malta e della Facoltà di Medicina Veterinaria, la simulazione ha consentito di operare in maniera concreta, mettendo in atto tutti quei comportamenti necessari in caso di un terremoto. Nell’esercitazione è stato rappresentato un evento calamitoso di discreta entità che interessi due o più province limitrofe con danni valutabili in alcuni morti, circa 500 feriti e 4000 senzatetto”. C’è poi una bella realtà rappresentata dall’ospedale veterinario universitario didattico. “L’ospedale veterinario universitario didattico (Ovud), nelle giornate del 18-19-20 gennaio - evidenzia il preside - ha ospitato a Teramo circa 100 studenti dell’Ateneo e 35 studenti Erasmus. Tutto questo è stato possibile con il supporto logistico del Reparto Operativo di Emergenza (Roe)


ATENEO DI TERAMO

Nelle foto: a lato, animali in pericolo per le abbondanti nevicate; sotto, Il Prof. Augusto Carluccio preside della Facoltà di Veterinaria dell’Ateneo teramano

dell’Ordine Militare di Malta. Il 21 gennaio con lettera del prefetto Graziella Patrizi è stato istituito all’interno del Centro di Coordinamento dei Soccorsi la Funzione Assistenza Zootecnica di cui la Facoltà ha fatto parte in piena autonomia. Questo tavolo, voluto dall’assessore regionale all’Agricoltura Dino Pepe, è stato coordinato dal Ten. Colonnello dei Carabinieri Forestali Adalberto Mancini. Ruolo di responsabilità hanno avuto i medici veterinari delle tre aree della Asl, coordinate dal dott. Lino Antonini. L’Istituto Zooprofilattico ha avuto il ruolo di coordinare per la funzione che spetta al Ministero della Salute. Durante l’emergenza neve-sisma i medici veterinari dell’Ovud hanno, con il supporto logistico del Roe, degli ufficiali Giovanni Fasciocco, Massimiliano Reginaldi e del comandante Giuseppe Paradiso, effettuato sopralluoghi, soccorsi, cure, interventi speciali, elisoccorsi, supporto sanitario verso gli animali soprattutto in produzione zootecnica”. Esperienze importanti anche nel 2009 in occasione del terremoto dell’Aquila. “Subito dopo il terribile terremoto del 6 aprile di otto anni fa la Facoltà di Medicina Veterinaria - ricorda il prof. Carluccio - dal 14 aprile ha operato in una tenda allestita e attrezzata nell’area di accoglienza di Piazza d’Armi svolgendo assistenza sanitaria agli animali di affezione e in produzione zootecnica. L’allestimento della tenda e il servizio veterinario sono stati il frutto di una collaborazione tra la Facoltà e la Croce Rossa Italiana nella persona del dott. Valentino Fabrizio Ferrante con l’obiettivo di istituire un presidio medico veterinario avanzato in cui, accanto ai servizi medici (pronto soccorso, pediatria, medicina di base, supporto psicologi-

co ) e alla farmacia del dott. Giovanni Foschi (forse primo caso di farmacia da campo divenuta operativa a distanza di 36 ore dal sisma), si è voluta anche la presenza di una competenza veterinaria”. Un ruolo rilevante per quanto riguarda terremoto e nevicate di gennaio è stato svolto anche dal Dipartimento del servizio veterinario di sanità animale della Asl di Teramo. Significative le cifre illustrate dal responsabile, il dott. Lino Antonini. “Abbiamo ricevuto numerose richieste di soccorso per stalle crollate con animali intrappolati. Con l’aiuto dei mezzi speciali dei Vigili del fuoco, tra mille difficoltà, siamo riusciti a raggiungere gli allevatori. Scenari impressionanti. Gli animali vivi sono stati messi in sicurezza in altre stalle in disuso ma idonee, quelli feriti sono stati curati, avviati alla macellazione d’urgenza o abbattuti sul posto. Gli animali deceduti sono stati ritirati da aziende autorizzate e inviati alla distruzione mediante incenerimento. In totale sono morti 151 bovini, 43 equidi, ma il numero potrebbe aumentare poiché diversi i capi dispersi, 1.153 ovi-caprini (anche qui molti capi dispersi), 12.000 suini intrappolati in capannoni crollati, 158.500 avicoli (polli da carne, ovaiole e tacchini), 150 conigli. Un lavoro enorme reso possibile grazie alla efficienza dei sei dirigenti del Servizio veterinario igiene degli allevamenti e delle produzioni zootecniche, dei dirigenti del Servizio veterinario di sanità animale, dei veterinari di igiene degli alimenti, del Nas dei Carabinieri di Pescara, della Facoltà di Medicina Veterinaria, dell’Istituto Zooprofilattico di Teramo e di due veterinari esperti, Giovanni Befacchia e Nicola Ferri”. FDS 45


UNIVERSIVARIO

RIVOLUZIONE METROPOLITANA Un progetto dell’Ateneo aquilano coordinato da Fabio Graziosi per utilizzare al servizio della comunità cittadina le nuove tecnologie come la fibra ottica

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’Aquila e l’Università: un rapporto strettissimo che affonda le radici negli anni. Una simbiosi che da un lato ha arricchito culturalmente il capoluogo abruzzese e dall’altro ha garantito condizioni di studio e di vita che sembravano ottimali per i suoi studenti. Una sinergia apparentemente perfetta, con innegabili benefici sotto il profilo socio-economico. Il terremoto del 6 aprile 2009 ha messo in discussione questo modello di sviluppo urbano rendendo drammaticamente evidente la sua fragilità. Città e Università devono pertanto necessariamente ritrovare il giusto (e insostituibile) feeling. Nell’interesse reciproco. Con tali presupposti nasce un progetto di ricerca: Incipict (Inovating City Planning through Information and Communication Technologies). Di cosa si tratta? Quali gli obiettivi? Quali i benefici per i cittadini? Ne parliamo con il coordinatore del progetto Fabio Graziosi, professore associato di Telecomunicazioni del Dipartimento di Ingegneria e Scienze dell’Informazione e Matematica dell’Università degli Studi dell’Aquila. “Il rapporto tra città e Università - afferma il prof. Graziosi - va ripensato in modo tale da coordinare al meglio le strategie di sviluppo, traducendo una simbiosi inconsapevole in una azione innovatrice coordinata, efficace e resiliente. L’obiettivo è realizzare componenti essenziali e abilitanti per lo sviluppo urbano innovativo e per il supporto alle attività di ricerca, nel pieno rispetto delle competenze scientifiche dell’Ateneo aquilano e delle vocazioni della città. Alla base del progetto Incipict c’è la realizzazione di una rete metropolitana consistente in un anello in fibra ottica dedicato alla Pubblica amministrazione, alle scuole e all’Università. Attraverso questa infrastruttura sarà possibile fornire ai cittadini (compresi gli studenti fuori sede dell’Università) servizi innovativi nonché rendere più efficienti le amministrazioni coinvolte. La vocazione propria del territorio a ospitare iniziative di ricerca (laboratori del Gran Sasso dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) e alta formazione (Gran Sasso Science Institute e Scuola di dottorato in Ict della locale Università) consente di ritenere che vi siano le condizioni per orientare lo sviluppo della connettività locale nella direzione del supporto ad attività di ricerca avanzate. In particolare, facendo leva sulle competenze scientifiche e la rete di relazioni dell’Università, si prevede di sviluppare attività di ricerca e sperimentazione relative alle tecnologie innovative nelle reti ottiche e radio e nei servizi avanzati che su tali reti è possibile offrire. Lo sviluppo di tali componenti innovative è alla 46

base dei concetti di Smart City e Internet delle cose (IoT – Internet of Things) e, una volta messe in campo le attività sperimentali previste, si disporrà di un contesto urbano assimilabile a un laboratorio attraverso il quale indirizzare lo sviluppo innovativo della città e richiamare l’attenzione della comunità scientifica nazionale e internazionale”. Quali le applicazioni pratiche? “Sostanzialmente tutte quelle che possono riguardare un contesto urbano evoluto. Particolare attenzione viene rivolta a tre applicazioni di riferimento: monitoraggio strutturale degli edifici, effettuato mediante reti di sensori wireless e finalizzato all’individuazione di vulnerabilità strutturali; gestione degli edifici orientata all’efficienza energetica, basata sull’analisi dei dati di impianto e ambientali; valorizzazione dei beni culturali attraverso le tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni con l’obiettivo di arricchire ed estendere l’esperienza turistica. Le attività di ricerca previste nel progetto risultano in linea con le previsioni iniziali e le attività sperimentali saranno avviate non appena sarà disponibile la rete ottica in fase avanzata di realizzazione e che sarà completata entro il 2017. Maggiori informazioni possono essere reperite sul sito web di progetto http://www.incipict.univaq. it/”. Quali le iniziative a supporto della ricerca previste nel progetto? “Sono molteplici. Trasmissioni e reti ottiche, sistemi wireless a corto-medio raggio, middleware per la coordinazione dinamica di servizi software eterogenei, monitoraggio strutturale degli edifici, gestione efficiente dal punto di vista energetico degli edifici, valorizzazione dei beni culturali attraverso le tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Nell’ambito delle trasmissioni ottiche si possono distinguere tre attività di ricerca principali. La prima è incentrata sullo sviluppo di modelli per dispositivi ottici a semiconduttore. La seconda sullo studio dei sistemi ottici basati sulla multiplazione spaziale (Sdm - Space Division Multiplexing). La terza è incentrata sul tema dei sistemi ottici cosiddetti a rivelazione diretta per comunicazioni a corto e medio raggio. Colossi dell’industria dei dati quali Microsoft, Google, Facebook, hanno iniziato a dispiegare reti ottiche per i propri data center fornendo un enorme impulso alla ricerca di soluzioni a basso costo per sistemi che si estendono su poche decine di chilometri. Nell’ambito di Incipict è stato proposto uno schema di trasmissione che risponde esattamente a questa esigenza. Lo schema è stato brevettato dall’Università


ATENEO DELL’ AQUILA

dell’Aquila e quella di Tel Aviv. Le reti ottiche 5G si prefigurano invece come strumento per l’introduzione di numerosi servizi. La crescente necessità di disporre di connettività in mobilità - unitamente all’enorme sviluppo atteso relativamente al contesto IoT (Internet of Things) - richiederà in ambito urbano una sempre maggiore e pervasiva diffusione dei sistemi di comunicazione wireless a corto-medio raggio. Grande rilevanza assume anche la componente dello sviluppo di uno specifico Middleware che permetta da una parte di raccordare le componenti di rete eterogenee offrendo dall’altra ai servizi sovrastanti meccanismi e metodi di accesso uniformi e il più possibile indipendenti dalla specifica tecnologia sottostante (abstraction layer). Con l’obiettivo di integrare, anche in questo caso, il patrimonio di conoscenze della locale Università con le vocazioni della città”. In cosa consiste il monitoraggio strutturale degli edifici? Esperimenti anche sulla Basilica di Collemaggio? “Per azioni di monitoraggio strutturale sono intese le operazioni volte a conseguire, per un periodo, che può andare da alcune ore a numerosi anni, misure strumentali di grandezze osservabili, in solidi e strutture, utili a descrivere e comprendere il comportamento meccanico effettivo delle stesse, quando assoggettate ad azioni ambientali naturali o artificiali. Nell’ambito di Incipict è stato sviluppato con successo un prototipo di sistema di monitoraggio strutturale della Basilica di Collemaggio durante il quale si è realizzata e resa operativa una rete di sensori wireless equipaggiati con accelerometri, estensimetri ed inclinometri. Il sistema ha monitorato il comportamento dinamico della Basilica durante numerosi eventi sismici avvenuti dopo la scossa principale dell’aprile 2009, caratterizzati sia da sorgenti vicine (terremoti near-fault, caratteristici dello sciame post evento), sia da sorgenti lontane (terremoti far-fault come quello emiliano, i cui effetti hanno indotto vibrazioni anche sulla Basilica”. Quali vantaggi per la popolazione in caso di terremoti? “Il sistema di monitoraggio per gli edifici sarà la base per la realizzazione di sistemi volti alla tutela della salute dei cittadini in caso di disastri naturali (terremoti o altri eventi catastrofici). Si sfrutterà la capacità di tracciare in maniera continuativa lo stato della struttura per rilevare in modo tempestivo l’occorrenza di eventi pericolosi ed attivare, quando necessario, opportuni meccanismi di risposta all’emergenza. Anzitutto, il sistema di monitoraggio verrà sfruttato per ottenere un’immediata valutazione del livello di sicurezza dell’edificio,

a livello globale e delle singole parti. Quest’azione, oltre a fornire agli utenti un’indicazione sintetica, sarà poi fondamentale per l’attivazione di ulteriori e più efficienti meccanismi per la tutela delle persone. Uno degli obiettivi del progetto Incipict è affrontare i problemi sopra citati attraverso lo sviluppo di nuovi metodi ed algoritmi di progettazione basati sulla fusione di metodologie data-based e model-based e di testarli inizialmente su uno degli edifici storici a disposizione dell’Ateneo, Palazzo Camponeschi, per poi estendere la sperimentazione ad altri edifici nella città. Quali le linee di sviluppo nell’ambito dell’efficienza energetica degli edifici? Anche in questo caso l’obiettivo della ricerca riguarda la possibilità di gestire un edificio dal punto di vista energetico, basandosi sulla fusione di dati provenienti da contesti eterogenei, consentendo in questo modo di rendere economicamente sostenibile l’impiego di sistemi di automazione domestica che oggi risultano eccessivamente complessi e costosi, tanto da relegarne l’impiego agli edifici di grandi dimensioni. Dal punto di vista sperimentale si dispone della possibilità di sperimentare i risultati della ricerca nell’edificio che ospita il Dipartimento di Scienze Umane dell’Ateneo e sarà possibile a breve estendere la sperimentazione a Palazzo Camponenschi e ad altri edifici. Un ulteriore obiettivo è implementare una rete di sensori wireless. Abbiamo in programma di sfruttare algoritmi di rilevamento persone al fine di creare una mappa della distribuzione degli occupanti all’interno dell’edificio con il duplice obiettivo di migliorare le prestazioni degli algoritmi di efficientamento energetico e di sviluppare nuovi algoritmi per migliorare la sicurezza delle persone durante una emergenza”. C’è poi la questione della valorizzazione dei beni culturali “In un territorio come quello aquilano, con uno sterminato patrimonio culturale, il processo di ricostruzione non può prescindere dalla sua valorizzazione anche in chiave tecnologica. L’idea progettuale riguarda la realizzazione di servizi per la tutela, la valorizzazione e la fruizione del patrimonio culturale finalizzati alla promozione di politiche innovative integrate di supporto al turismo. Nell’ambito del museo digitale vengono definiti alcuni casi di studio: uno di essi è denominato “Collemaggio ReLoaded”, dedicato alla ricostruzione virtuale della Basilica nelle sue configurazioni storiche con particolare riferimento a quella barocca in larga parte eliminata durante il restauro degli anni Settanta”. FDS 47


ISTITUTO ZOOPROFILATTICO DI TERAMO

QUANDO I MICROBI SONO BENEFICI

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el mondo in cui viviamo i microrganismi sono estremamente diffusi, a cominciare da quelli presenti sul nostro corpo ed al suo interno, negli alimenti e negli ambienti che frequentiamo. Essi sono molto piccoli se considerati singolarmente ma il loro insieme costituisce l’entità biologica più rilevante del nostro pianeta. Infatti il numero di tutti i batteri che vivono nel nostro organismo è stimato in 100 trilioni di cellule, dieci volte le cellule che costituiscono l’organismo umano stesso. Solo una piccolissima parte di questi microrganismi può causare danni e malattie mentre la grande maggioranza può essere definita “benefica”, perché riveste un ruolo fondamentale nell’equilibrio dei vari processi della vita di uomini, animali e piante, anche contrastando lo sviluppo dei batteri patogeni. Ricerche all’avanguardia sono state condotte dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Abruzzo e del Molise “G. Caporale” di Teramo che svolge un ruolo molto importante nella produzione di nuova conoscenza e innovazione in questo campo: dagli studi di challenge test, ai modelli matematici per la previsione delle cinetiche microbiche, all’applicazione di tecnologie di nuova generazione fino all’impiego di tecniche innovative che si pongono come obiettivo quello di selezionare dall’ambiente i microrganismi più utili per contrastare (bio-controllare) gli organismi patogeni. Dei particolari parliamo con il prof. Mauro Mattioli, direttore generale dell’Istituto Zooprofilattico, che da anni conduce con notevoli successi studi su genoma (complesso di geni di un organismo), epigenoma (insieme dei fenomeni che modificano il Dna senza intaccarne la sequenza, ma regolandone l’espressione) e microbioma (patrimonio genetico e delle interazioni ambientali di tutti i microrganismi presenti in un determinato ambiente, ad 48

esempio l’intestino dell’uomo e degli animali). «Da microbiologi sappiamo che l’insieme di germi innocui colonizza diversi distretti del nostro corpo - spiega il prof. Mattioli - Questo microbioma lo acquisiamo già da piccoli, quando portandoci le mani alla bocca e leccando qualsiasi superficie incontriamo, inconsapevolmente importiamo questo microcosmo che rappresenta una componente indispensabile nei nostri processi fisiologici, dalla digestione, all’allestimento delle difese immunitarie tanto per citare due esempi. Dalla nascita, sia noi che i nostri amici animali, veniamo colonizzati dai cosiddetti microbi “buoni”. È risaputo, infatti, che i mammiferi non sono in grado di produrre vitamine e che quindi devono assumerle con la dieta. I batteri “buoni” dell’intestino avvantaggiano l’organismo fornendo i nutrienti essenziali come le vitamine da substrati alimentari altrimenti poco utilizzabili. A questa funzione del microbismo intestinale, noto da tempo, si stanno aggiungendo quasi ogni giorno altri effetti ed influenze che, complessivamente, rendono l’ecosistema microbico che colonizza diversi nostri distretti, una parte integrante del nostro biotipo. La composizione del microbioma condiziona ad esempio la nostra reattività immunitaria alle malattie, le capacità assorbitive del tratto intestinale fino a favorire o ridurre fenomeni di obesità, e la sensibilità delle nostre vie respiratorie all’attacco dei patogeni bronco-polmonari. L’effetto del microbioma è profondamente condizionato dalla sua composizione che è la risultante di intense interazioni tra le diverse tipologie di microorganismi presenti tra le quali gioca un ruolo che appare via via più importante anche una imponente massa di virus». Le ricerche condotte nei laboratori dell’Istituto Zooprofilattico, utilizzando le più avanzate tecnologie di


Nella foto: in alto, una foto al microscopio; sotto, il direttore dell’Istituto Zooprofilattico di Teramao Mauro Mattioli

indagine genomica, stanno studiando gli effetti di questo microbioma sulla resistenza degli animali alle malattie. «Un microbioma adeguato - afferma Giuliano Garofolo - può rappresentare la condizione migliore per rendere gli animali resistenti a determinate patologie intestinali o polmonari consentendo così di evitare l’uso di antibiotici, sempre più spesso implicati nel generare forme batteriche antibiotico- resistenti, particolarmente pericolose e responsabili di un crescente numero di infezioni incurabili nell’uomo. Alcuni dei nostri studi sono finalizzati allo sviluppo di strategie in grado di ottimizzare la composizione del microbiota con batteri probiotici». «Tali studi – aggiunge Luigi Iannetti - si fondano sull’identificazione di ceppi di batteri lattici direttamente tra le flore naturali, soprattutto di prodotti lattierocaseari, che siano in grado di contrastare “naturalmente” i batteri patogeni potenzialmente responsabili di tossinfezioni alimentare. Risultati specifici sono già stati ottenuti per un apprezzato prodotto tradizionale abruzzese, il “Pecorino di Farindola”, per il quale sono state sperimentate produzioni funzionali con l’aggiunta di probiotici isolati dal formaggio stesso e che si sono dimostrati in grado di contrastare lo sviluppo di pericolosi microrganismi quali Listeriamonocytogenes, Salmonella ed Escherichiacoli». Le ricerche dell’Istituto si sono concentrate su particolari classi di virus, i “batteriofagi”, o comunemente “fagi”, che sono tra i microrganismi più numerosi sulla terra e rappresentano i naturali “predatori” dei batteri. Sono

abbondanti nell’acqua, nel suolo, nelle piante e negli animali e rappresentano una componente cruciale del microbioma presente nel tratto gastro-intestinale e sulla pelle. «L’estrema specificità dei batteriofagi nei confronti del patogeno bersaglio - sostiene Giuseppe Aprea - li rende candidati ideali per le applicazioni volte al controllo sia dei microrganismi patogeni (si parla di fago terapia) sia di agenti che possono contaminare gli alimenti nelle fasi di lavorazione (si parla di biodecontaminazione). In questo ambito le attività dell’Istituto sono volte alla selezione di nuovi fagi efficaci nel contenimento delle contaminazioni da parte di due pericolosi microorganismi, il Campylobacter e Listeriamonocytogenes. Dopo secoli passati con la percezione dei batteri come fonte delle patologie e nemico da combattere ci accorgiamo sempre più che noi siamo fatti anche di queste forme cellulari e per ottimizzare tutte le strategie finalizzate a garantire benessere e salute dobbiamo fare i conti proprio con questo complesso ecosistema nel quale svolgono un ruolo determinante anche i virus “buoni”. Verosimilmente la comprensione di questi sistemi biologici interconnessi aprirà nuove strategie di ottimizzazione delle nostre funzioni vitali e determinerà il contenimento degli agenti patogeni proprio utilizzando i naturali strumenti preposti al controllo degli ecosistemi microbici». FDS

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I VOLONTARI DELLA PROTEZIONE CIVILE DI GIULIANOVA

CINQUANTA CUORI DI SOLIDARIETÀ

di Francesco Di Salvatore

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uattromila sfollati sistemati nelle case e negli alberghi della costa in occasione del terremoto e delle nevicate epocali di gennaio scorso. Circa quarantamila persone censite e alloggiate dopo il sisma del 6 aprile 2009 dell’Aquila. Numeri da capogiro se si pensa che sono stati elaborati e gestiti nella sede della Protezione civile di Giulianova guidata dai volontari alle prese con problemi logistici ma animati da grande passione, notevole altruismo, impareggiabile generosità, incredibile tenacia e incommensurabile solidarietà e forza d’animo. Un cuore grande così che batte nel petto dei cinquanta iscritti al Gruppo dei volontari. Partecipazione spontanea, gratuita, senza scopo di lucro. Sono gli angeli delle emergenze, gli eroi silenziosi del soccorso, sempre pronti e in prima linea a prescindere dagli orari, dagli impegni familiari e dalle condizioni climatiche. Sulla costa, da Silvi a Martinsicuro, quello di Giulianova è stato l’unico presidio per far fronte alle drammatiche esigenze delle popolazioni dell’entroterra teramano colpite a gennaio da un’ondata di maltempo senza precedenti con neve alta anche quattro metri, scosse ripetute di terremoto, crolli, vittime, dispersi, paesi isolati, abitazioni senza energia elettrica e al freddo, telefoni fissi e mobili in tilt, bambini e anziani malati con impellente necessità di farmaci e terapie. Un lavoro tanto faticoso quanto prezioso, realizzato nel Centro operativo comunale (Coc) nel quartiere dell’Annunziata, periferia sud di Giulianova, destinato appunto all’accoglienza e all’alloggiamento degli sfollati che si sono riversati sulla costa. Se non fosse stato in funzione il Centro operativo e se l’efficienza non

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fosse stata al top sarebbe stato caos totale. Nella mente di tutti era rimasto scolpito l’ottimo lavoro svolto nel 2009. Non a caso, quindi, la scelta del Dipartimento nazionale della Protezione civile è caduta di nuovo su Giulianova con innegabile soddisfazione del presidente storico dei volontari giuliesi Michele Maruccia. “Nel 2009 - ricorda Mauro Iaconi, vicepresidente del Gruppo Volontari della Protezione civile di Giulianova fornimmo assistenza e accoglienza a circa quarantamila persone in fuga dopo il terremoto dell’Aquila. Nella nostra sede fu istituito il Centro operativo intercomunale (Coi), deputato alla raccolta delle esigenze della popolazione e alla gestione dei dati da elaborare sotto il controllo del Dipartimento nazionale. Prendemmo in considerazione, con la collaborazione della Croce Rossa, tutte le strutture della costa teramana più alcune di Montesilvano e San Benedetto del Tronto: una capacità ricettiva che non ha avuto eguali nelle Marche. Dal 18 gennaio al 5 febbraio, la replica su scala ridotta. Quattromila le persone sistemate seguendo gli stessi criteri. Un lavoro altrettanto delicato e impegnativo seguito sul posto dal Dipartimento nazionale”. Come si articola l’attività dei volontari, fiore all’occhiello della nostra Protezione civile? Con quali risorse e quali mezzi? In quali strutture? Con quali prospettive? “Il nostro gruppo è formato da cinquanta iscritti - afferma Mauro Iaconi - guidati dal presidente Michele Maruccia che rappresenta da sempre una garanzia per tutti. L’attività è spontanea, gratuita e senza scopo di lucro. Il Gruppo nacque nel 2005 grazie all’iniziativa di volontari di Mosciano. Ci occupiamo di emergenze, di prevenzione, di


Nelle foto di Renato Losco, alcuni interventi dei volontari; in alto, i volontari della Protezione Civile di Giulianova guidati dal presidente Michele Maruccia

esercitazioni, di formazione e informazione, ma anche di pubbliche relazioni, lavori di segreteria, di amministrazione e di contabilità. Siamo presenti su web e su facebook, canali importanti per essere sempre in contatto con la popolazione. Siamo dotati di attrezzature adeguate che ci consentono di svolgere bene il nostro lavoro. Alla Regione Abruzzo garantiamo servizi di antincendio boschivo con interventi d’emergenza e di prevenzione dal 15 giugno al 15 settembre nella zona di Crognaleto d’intesa con i Carabinieri forestali. Disponiamo di idrovore elettriche e motorizzate per far fronte agli allagamenti sempre più frequenti lungo la costa. Nel recente terremoto una nostra squadra con sei volontari ha assicurato energia elettrica e illuminazione al campo in allestimento a Grisciano di Accumoli. Garantiamo supporto al Comune per ogni esigenza legata a manifestazioni locali con notevole affluenza di pubblico, andiamo nelle scuole per parlare di prevenzione e per diffondere la cultura del rispetto della natura e delle sue regole. Diffondiamo bollettini per le previsioni meteo. Effettuiamo campi estivi in cui simuliamo interventi d’emergenza. Siamo stati a Ponzano di Civitella per dare una mano ai colleghi impegnati ad arginare una frana che ha causato danni e disagi”. Tanto lavoro, giornate intere (anche festive) sottratte alla famiglia e agli hobby per poche gratificazioni. La più importante - sorride Mauro Iaconi - è la riuscita delle operazioni a sostegno della popolazione”. Durante l’anno vengono organizzati corsi di formazione svolti da validi professionisti. “Sono gratuiti e tutti possono partecipare sottolineano altri due validissimi volontari, Renato Losco e Nicola Marà - Chi segue il corso può aspirare a far parte

del Gruppo della Protezione civile. Sono ovviamente richiesti anche i requisiti di correttezza, altruismo, buona fede e buona condotta. Non è un lavoro che garantisce guadagni economici, ma dà enormi gratificazioni morali. E’ una missione. Bisogna crederci. Fino in fondo”. Le informazioni per iscriversi si trovano sul sito: bachecaprotezionecivilegiulianova.blogspot.it. Il punto dolens è però rappresentato dalla mancanza di una sede adeguata. E qui il discorso cambia. Questo purtroppo è l’aspetto negativo - incalza il vicepresidente Iaconi - Non abbiamo una nostra struttura che ci permetterebbe di essere più efficienti, di utilizzare meglio le risorse di cui disponiamo, di far leva su uno spirito di gruppo ancora più solido. I diversi mezzi meccanici, ad esempio, sono custoditi in rimesse di fortuna. Siamo ospiti nei locali dove si svolgono i corsi di formazione, a ridosso del Centro commerciale dei Portici. Siamo stati ospitati anche nell’edificio vicino al campo sportivo Castrum per far fronte ai problemi causati dal sisma e dal maltempo di gennaio. Più volte l’amministrazione comunale ha assicurato che il problema della sede sarebbe stato risolto, ma siamo ancora in queste condizioni. Un vero peccato. E’ opportuno creare un polo per le emergenze, una cittadella del volontariato in grado di accogliere Protezione civile e Croce Rossa in modo da unire le forze e agire in sinergia. La sede ideale è quella dell’ex Tribunale, chiusa e abbandonata. Una proposta più volte presa in considerazione anche dai pubblici amministratori ma mai realizzata. Sarebbe grave disperdere un patrimonio del genere, che appartiene a tutta la regione”.

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RIBALTA PERSONAGGI MARCO PANNELLA

FORTE, APPASSIONATO, TESTARDO E ABRUZZESE Ad un anno dalla sua scomparsa il ricordo di Giovanni Legnini, Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura

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arco Pannella si è raccontato nel libro “Una libertà felice. La mia vita” che ha scritto con Matteo Angioli. Il volume è stato presentato a Pescara nel convegno “Marco Pannella: una scuola di democrazia” al quale hanno partecipato Giovanni Legnini, Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Luciano D’Alfonso Presidente della Regione Abruzzo, Marco Alessandrini, Sindaco di Pescara, Primo Di Nicola, direttore del quotidiano “Il Centro”, Germano D’Aurelio, in arte Nduccio, ex assessore alla cultura del comune di Montesilvano e Matteo Angioli, cooautore del libro ed un folto pubblico.

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n libro bellissimo che ci restituisce i sentimenti più profondi di Marco Pannella, quelli legati a un periodo speciale, vissuto nel modo mirabilmente raccontato nel volume: i suoi dolori, le sue paure, la sua fierezza che si manifestavano nei momenti così difficili in un contesto molto originale come è stato d’altronde il resto della sua esistenza. Dobbiamo essere molto grati a Matteo Angioli e anche a Laura, che condivideva con lui quel percorso umano così importante. Senza questo racconto non avremmo conosciuto a fondo una parte di Marco Pannella, la più profonda, la più umana. Ebbi modo di conoscerlo meglio in occasione di un incontro che organizzammo il 4 settembre del 2015 su richiesta di Rita Bernardini. Si intravedeva già una fase diversa di Marco Pannella. Non lasciava trasparire preoccupazione per la sua vita ma si notava qualcosa di diverso in lui. Si presentò in un modo più umano con la voglia di manifestare alcuni aspetti della sua vita, delle sue passioni, dei suoi amori e delle sue origini abruzzesi. Colpiva il fatto che chi non conosceva le origini di Marco Pannella non riusciva a notare le caratteristiche della sua appartenenza alla gente d’Abruzzo come avviene invece per altre persone note che provengono dalla nostra terra. E’ stato un uomo politico impegnato più di ogni altro, capace di essere interprete di un sentimento nazionale e di volgere lo sguardo prima di altri al di fuori delle dinamiche caratterizzate dai due grandi blocchi. Capace in sostanza di allargare lo sguardo sul mondo. Lungimiranza la sua, resa tangibile dall’esperienza del partito transnazionale,

un’idea nuova e unica che colpì moltissimo. Non eravamo, si badi bene, nell’era della globalizzazione. Anticipò la dimensione globale dei fenomeni politici col chiodo fisso dei diritti e della lotta a ogni tipo di autoritarismo e di soppressione delle libertà fondamentali. Come non ricordare la battaglia antica e attualissima sulle carceri, sulle condizioni di vita dei detenuti, sul rispetto dei loro diritti, sulla magistratura di sorveglianza. Riuscimmo, anche grazie a lui e alle iniziative del ministro della Giustizia Orlando ad aumentare gli organici dei giudici di sorveglianza. Grazie anche alle sue forti e continue sollecitazioni risolvemmo un problema di grande rilevanza sociale. Durante quell’incontro lui parlò in dialetto abruzzese. Mi colpì il suo appassionato, costante richiamo allo Stato di diritto, alle istituzioni di garanzia. Nei momenti difficili delle sue battaglie, delle battaglie dei radicali, costituiva una costante il riferirsi al Presidente della Repubblica, supremo magistrato, organo di garanzia per eccellenza, e anche alle altre istituzioni di garanzia tra cui il Consiglio Superiore della Magistratura. Questo significava che il rispetto delle libertà era l’essenza dell’impegno politico. Le norme, scriveva Marco Pannella, non scendono dal cielo: l’uomo le crea e vigila sulla loro osservanza. Si esaltava nel parlare della conquista della giurisdizione internazionale, dell’importanza delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, della tutela delle libertà fondamentali. Queste sentenze, diceva, da noi nessuno le ascolta, vengono trattate come materia non rilevante, spesso come semplici e fastidiosi piagnistei. Sono tre in


Marco Pannella cittadino onorario di Teramo riceve la laurea ad honorem dall’Ateneo teramano

estrema sintesi i grandi lasciti di Marco Pannella. Il primo: diritti civili, Stato di diritto, carceri, amnistia. In quel periodo visitai tutte le carceri abruzzesi e realizzai un dossier. Dentro i penitenziari riecheggiavano i toni delle battaglie di Marco Pannella e dei radicali. Il secondo: l’informazione senza mediazione. Intuizione geniale di oltre quaranta anni fa. Con Radio Radicale arrivò una svolta storica in questo settore. Radio Radicale ha portato nelle case le sedute del Parlamento senza alcuna mediazione e senza alcuna interferenza, la celebrazione dei grandi processi italiani, le sedute pubbliche del Consiglio Superiore della Magistratura nel corso delle quali vengono adottati anche provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati. Il terzo: la capacità di identificare il proprio essere, la propria vita con le battaglie per la libertà e per i diritti. La sua fu una visione totalizzante dell’impegno politico, altra grande e insostituibile caratteristica del leader. Mente e corpo al servizio dell’impegno politico. Battaglie condotte sino in fondo, in tutte le sedi, senza timori riverenziali. E il libro ci fa conoscere diversi aspetti di Marco Pannella. Vita personale e attività politica per lui erano tutt’uno. Lavoro e hobby: stessa cosa. Nessuna differenza. Le mie battaglie sociali, ripeteva, sono la mia esistenza. E infatti la testardaggine impareggiabile nel raggiungere gli obiettivi fu uno dei grandi insegnamenti di Marco Pannella. C’è tanto in questo suo atteggiamento del nostro carattere di abruzzesi. Gli dobbiamo tutti davvero molto. Per sempre». Giovanni Legnini

«... E ora registro me stesso. Una penna, un foglietto, anche un microfono. Non è che mi senta pronto per stendere le memorie di un rompicoglioni. Voglio soltanto sistemare la mia gioia e, quando c’è, anche il mio sconforto. Per questo annoto, per questo registro. Perché la conquista della democrazia passa anche in un abbraccio, in una discussione sul liberalismo e un’altra sulle rivoluzioni, passa per ogni uomo e per ogni idea capace di migliorare il mondo. Passa per ognuna delle cazzate che ci vengono in mente e che abbiamo la voglia e la forza di comunicare e condividere. L’importante è osare e usarsi, l’importante è accettare ogni sfida che può guadagnare un grammo in più di libertà.» Un libro, Marco Pannella, non aveva mai voluto scriverlo. Come spiega Matteo Angioli, che ha raccolto e curato questa autobiografia: «... poi un giorno ha smesso di sentirsi immortale, ha avvertito che la battaglia, la sua battaglia, poteva concludersi presto. D’un tratto, però, si è trovato anche al cospetto del passato e deve aver cominciato a osservarlo, come forse non aveva mai fatto prima. Eccolo, dunque, il suo libro. Ecco il senso delle pagine che abbiamo costruito con lui, parola più aggettivo meno, sensazione dopo sensazione, giornata dopo giornata. Non è stato facile, ma è stato meraviglioso».

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RIBALTA PERSONAGGI NICOLA MARINI

IDENTIKIT DEL GIORNALISTA

Un abruzzese al vertice dell’Ordine nazionale

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n riconoscimento prestigioso per il professionista - brillante, esperto, scrupoloso - e indirettamente per la nostra regione che ha fornito al panorama editoriale nazionale e internazionale figure di elevato spessore. Nicola Marini, 65 anni, è stato eletto presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti. Nato ad Avezzano, è professionista dal 1982 e componente del Consiglio nazionale dell’Ordine dal 1998. E’ stato vice presidente della Commissione Ricorsi e per dieci anni tesoriere. Laureato in Scienze Politiche, ha lavorato nella redazione abruzzese de “Il Tempo” e poi a Rai Tre Abruzzo con la qualifica di vice caporedattore. Nuove tecnologie, rivoluzione telematica, crisi dell’editoria, disoccupazione, precariato, leggi e regole da riscrivere, giornali tradizionali che perdono copie, rapporto con gli editori, collaborazioni malpagate, licenziamenti, futuro incerto per i giovani, pensioni a rischio: tanti i temi da affrontare. Un compito non facile attende il neo presidente al quale non mancano però competenze ed entusiasmo. Qual è il profilo del giornalista oggi? Come sono cambiate professione e informazione nell’epoca delle innovazioni tecnologiche? «Bella domanda. Il ruolo e la figura del giornalista sono cambiati rispetto a 15-20 anni fa. Si è inserito sul mercato un fatto nuovo: si chiama internet, che ha rivoluzionato il mondo dell’informazione. Sono nati, ad esempio, i blogger e ognuno ora si crede giornalista solo perché scatta due foto col telefonino e racconta l’evento a cui ha casualmente assistito. La nostra professione è un’altra cosa. E’ importante essere iscritti all’Ordine professionale perché questo obbliga ad attenersi alle regole e alla deontologia. E in questo caos totale, nell’era della post verità, la funzione di controllo dell’Ordine diventa determinante». Diversi giornalisti, anche noti e prestigiosi, si sono dichiarati a favore dell’abolizione dell’Ordine. Da cosa nasce il malcontento? La professione sta perdendo i suoi connotati? «Il problema della nostra professione è che non è riuscita a interpretare le nuove tecnologie. Quando è arrivato internet l’abbiamo accolto come una forma di libertà straordinaria - ed in parte effettivamente lo è - ma non abbiamo analizzato bene gli “effetti collaterali”. Non ci si può nascondere dietro il famoso principio della libertà d’espressione per inquinare la verità, andare dietro alle bufale e generare falsi allarmismi. La post verità favorisce i populismi ed è ciò che si sta verificando in diversi Paesi, soprattutto in quelli industrializzati. L’Ordine deve rinnovarsi e ha bisogno di una nuova legge. L’attuale è vecchia di 54 anni. Il mondo in mezzo secolo è cambiato totalmente e con esso molte professioni: la nostra ancora di più. Bisogna quindi adeguarsi ai grandi cambiamenti ma senza dimenticare i

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principi irrinunciabili che l’Ordine con i suoi difetti ha sempre garantito: fra tutti quello dell’autonomia. E’ chiaro che se non ci rinnoviamo siamo destinati a morire, ma abolire l’Ordine in questo momento, quando non ci sono certezze, sarebbe l’errore più grosso che possa commettere la nostra categoria». Diventare presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti è un riconoscimento personale che dà lustro anche all’Abruzzo. «E’ un riconoscimento molto importante e inaspettato per certi versi. Il mio primo pensiero è stato quello di dedicarlo in segno di riconoscenza al maestro di vita e di professione: mio padre. Sono vissuto fino a 18 anni nel cono della sua ombra, ho preso rimproveri per i normali rapporti generazionali e ho incassato richiami severi anche per quanto riguarda la mia professione. Penso che sia importante per una regione come l’Abruzzo avere un ruolo determinante nella vita del giornalismo italiano. Dev’essere un vanto anche perché non sono il solo ad avere un ruolo nazionale: Stefano Pallotta è coordinatore di tutti i presidenti degli Ordini regionali. Noi siamo il 15° Ordine in Italia per numero di iscritti e mai nella storia di 54 anni un presidente è venuto da una piccola realtà come la nostra. Ho fatto per dieci anni il tesoriere, probabilmente l’avrò fatto anche bene, ma prendere i voti che ho preso in queste elezioni mi ha stupito. Evidentemente serviva una guida tecnicoamministrativa più che politica». Quali le sfide più importanti che ti attendono? «Sono tante, ma ne cito due: interpretare la nuova tecnologia in continuo aggiornamento, cosa che non abbiamo fatto in passato, e regolamentare internet per la parte che interessa direttamente i giornalisti. Il blogger non iscritto risponde solo alla legge dello Stato, mentre i nostri giornalisti rispondono alle disposizioni dell’Ordine, in alcuni casi temute più delle leggi ordinarie. Esiste, ad esempio, la radiazione che per chi lavora in un giornale, in un’emittente o in qualsiasi media significa la morte civile». Come fare per rinnovarsi e tentare di invertire la rotta in tempi di crisi? «La formazione è la parola chiave. In Italia l’Ordine dei giornalisti è stato l’unico a garantire corsi gratuiti per tutti gli iscritti. Nella seconda fase, partita il 1° gennaio scorso, cercheremo di elevare la qualità. Molti colleghi questa formazione l’hanno presa come un fastidio e non come un’opportunità. Voglio ricordare che si tratta di un obbligo di legge. C’è da lavorare molto ma è importante che l’Ordine torni a essere uno strumento capace di ridare forza e dignità a questa professione». Vieni da una terra che ha dato natali a illustri giornalisti, da Gianni Letta a Bruno Vespa, solo per citare due nomi. Una regione vivace la nostra che ha un peso rilevante a livello


Nicola Marini

nazionale. «Sono del parere che giornalista non si nasce, si diventa. Sarà stato un caso, o ci sarà stata una piccola scuola, fatto sta che sono erede di una generazione prestigiosa. Questo percorso l’abbiamo costruito negli anni ed ora l’Ordine abruzzese è al primo o al secondo posto per proposta di eventi formativi. Sono tutti aspetti che alla fine pagano». Con i master e le scuole di giornalismo a che punto siamo? Servono effettivamente a preparare e a dare occupazione alle nuove generazioni? «Quello delle scuole è un discorso un po’ particolare. Sono del parere che attraverso la riforma della legge dell’Ordine si debba arrivare a un percorso unico universitario. Le scuole possono essere un di più. La scuola che abbiamo istituito con l’Ateneo teramano non è fallita, anzi è stata un’esperienza bellissima. Il problema è che su venti scuole aperte in quasi tutte le regioni adesso ne abbiamo dodici. Il giovane che si affacciava alla professione e si iscriveva al master si ritrovava spesso senza lavoro. Questa specie di patente serviva a poco. Basti pensare che siamo passati da 500 ragazzi che partecipavano alle selezioni a 40-50. Se non ci sarà una ripresa del mercato del lavoro la nostra professione finirà male. Da Roma abbiamo un osservatorio privilegiato. Mentre prima l’80% dei giornalisti era legato a un contratto di lavoro dipendente, oggi il 65,5% degli iscritti all’Inpgi è autonomo. Vengono definiti free lance ma in realtà sono precari. Otto su dieci di questo 65,5% non arrivano a un reddito di diecimila euro: sono sotto la soglia di povertà. E’ un mercato che da dieci anni, forse più, è devastato dalla crisi. Crisi dell’editoria e crisi della professione: un combinato disposto che produce gravi conseguenze». Cosa può cambiare con la nuova legge? Una volta in vigore contribuirà alla ripresa, a scongiurare altri licenziamenti e a sconfiggere il precariato? «Ci aspettiamo molto da questa legge sull’editoria che stanno varando. La mia aspettativa, prima da giornalista e poi da presidente, è che i finanziamenti che verranno concessi servano a creare nuovi posti di lavoro, a scongiurare ulteriori licenziamenti e non a pagare i debiti accumulati dagli editori. La carta stampata da questa crisi sta uscendo con le ossa rotte. Gli ultimi rilevamenti parlano di un milione e

800mila copie vendute quando cinque anni fa erano due milioni e 800mila». Qual è il ruolo di internet in questo contesto? Può rappresentare una risorsa? «Molti si aspettavano un aiuto da internet che non c’è stato. I dati parlano chiaro: quella che poteva diventare una risorsa si è trasformato in un problema da un punto di vista giornalistico e occupazionale. Sono 1.300 le testate registrate in Italia, testate giornalistiche on line non collegate ai grandi giornali. L’avvento di internet ha inciso molto nella crisi della carta stampata creando disoccupazione. Su 1.300 testate registrate al momento in Italia, l’85% è sotto i 100mila euro, il 15% è leggermente sopra i 100mila euro e di tutte queste 1300 aziende solo una dichiara di chiudere il bilancio in attivo. Nessuna ha fatto un contratto giornalistico vero e mediamente ognuna ha sette collaboratori che non si sa se e come vengono pagati. Una piaga che dovrà essere affrontata seriamente. Importante l’operazione della Federazione nazionale della stampa d’intesa con l’Unione della stampa digitale per creare una specie di contratto depotenziato, come quello che si fece una volta per i dipendenti delle televisioni private. Con contratti adeguati, capendo le difficoltà di queste aziende che non sono strutturate, si riuscirà a sbloccare qualcosa». Il futuro della carta stampata è segnato? «Qualcuno sostiene che nella primavera del 2032 finirà l’era della carta stampata. Un sociologo canadese ha condotto una ricerca molto interessante. Ha paragonato due fotografie scattate nello stesso luogo, a New York, a distanza di 50 anni. La prima nel 1957: si vedono persone col cappello, borsa e giornale in tasca. La seconda, 50 anni dopo, mostra ragazzi sui pattini e con le cuffiette alle orecchie ma nessuno con il giornale. In 50 anni è caduto il mito della carta stampata. In molti giocano a fare previsioni indicando la primavera del 2032 come data di uscita dell’ultima copia del giornale di carta. Non ci voglio credere perché sono ancora molto legato alla carta stampata e non riesco ad abituarmi all’iPad». E poi i muratori cosa userebbero, il giorno dopo, per fare i cappelli? Francesco Di Salvatore 55


RIBALTA TEATRO AROTRON

IL SEME DEL TEATRO Un progetto culturale promosso da Franco Mannella, attore, doppiatore e regista di Roberta Zimei

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na lama che incide il terreno, un vomere che solleva la zolla e un versoio che la rivolta. Proprio come l’aratro con il nostro progetto vogliamo incidere, sollevare e rivoltare il terreno dell’arte». Franco Mannella ha usato queste parole per presentare Arotron (aratro in greco antico), la sua accademia teatrale in Abruzzo. Un Centro artistico polifunzionale e luogo di produzione di eventi locali e internazionali che il noto attore, doppiatore e regista pescarese ha fondato nel 2014 a Pianella. Un vero e proprio polo culturale, per promuovere la diffusione delle arti teatrali e figurative; un luogo di formazione e laboratorio permanente, in cui le realtà del territorio si confronteranno con realtà nazionali e internazionali, creando scambio e contaminazione artistica e culturale. Il progetto, ideato e finanziato da Mannella in prima persona, è ambizioso e si avvale fin dall’inizio della collaborazione di diversi docenti artisti e creativi abruzzesi: l’architetto Pierantonio Sborgia, gli attori Silvano Torrieri, Massimiliano Fusella, Sara De Santis, il compositore Oberdan Fratini e più recentemente del contributo anche professionale della doppiatrice Chiara Colizzi, moglie di Mannella, che proprio in questo periodo ha avviato un workshop sul doppiaggio. «Vado via da Pescara dopo il diploma per frequentare l’Accademia da attore a Roma. E dopo 32 anni, decido di tornare e di investire idee e risorse nella mia terra. Un bisogno di riprendere il contatto con le origini, la natura, con l’armonia che forse solo i tuoi luoghi possono restituirti. E poi, il fastidio per le metropoli ingolfate e tossiche, non solo per lo smog, ma per essere intrappolate in meccanismi viziati: idee, progettualità e talenti appannati dal monopolio di pochi, sembra che tutti possano fare tutto e a rimetterci è la qualità». Per questo ha scelto Pianella per la sua Scuola? «In parte per questo, perché Pianella si distingue per un certo fermento artistico e culturale; ma anche per la disponibilità e gli aiuti concreti dell’amministrazione comunale, della proloco e delle persone e per un forte bisogno di riappropriarmi delle mie radici e dei miei luoghi dopo la perdita della mia prima moglie che viveva a Moscufo. Lei amava l’Abruzzo e non sentiva, come me, la rabbia di chi è costretto a lasciare la propria terra per non perdere occasioni. E poi c’è ancora la magia del 56

paesaggio racchiusa in quei tre ettari di terra immersa tra gli ulivi dove sorgerà la struttura definitiva di Arotron, oggi ospitato a palazzo Sabucchi, e che guarda al Gran Sasso; un contesto di bellezza dove è nato il mio sogno. Il progetto di una sede stabile per l’Accademia - confessa Mannella - viene dalla mia stanchezza, che è quella di molte compagnie teatrali, di usare luoghi provvisori e improvvisati, e dall’esigenza sempre più sentita di creare un posto bello, in armonia con la natura». Intanto va avanti con successo l’attività formativa dei ragazzi, molti dei quali provenienti da altre regioni, che hanno deciso di diventare attori e che nell’Accadenia Arotron hanno trovato prospettive professionali e possibilità di lavoro partecipando a spettacoli o piccole performance teatrali, tutt’uno con le attività formative. Cosa insegnate agli allievi, oltre la tecnica? «L’impegno che chiediamo è totalizzante e coinvolge mente e corpo. E sono fondamentali, per loro come per gli attori più affermati, la ricerca e la sperimentazione: ognuno di noi ricerca se stesso, le proprie radici, lo smarrimento e l’armonia in un clima di confronto e di continuo mettersi alla prova. Tutto questo è vita e, quindi, è teatro». Quali sono i vostri prossimi lavori? «Usciremo a luglio con un primo grande evento, di respiro internazionale, il Convivium Artis che, nelle tre giornate previste attraverso rassegne e incontri, ha l’obiettivo di avviare scambi e confronti fra esperienze culturali diverse». E il futuro di Arotron? «Lo penso da sempre come importante polo di attrazione culturale e di promozione del territorio sicuramente per Pianella, Pescara e per l’Italia. I sogni si fanno in grande e in questo sogno ci ho creduto da subito». Attore, doppiatore, regista. Ora promotore culturale? «Nasco attore, che è in fondo essere tutto il resto. Ma sicuramente il doppiaggio mi ha salvato perché non si vive di teatro e perché mi ha permesso di realizzare dei sogni. Ma mi ha anche appagato, per le cose importanti che ho realizzato. Il ruolo di regista è una scoperta degli ultimi anni: un mio amico mi ha offerto la regia di uno spettacolo e ho provato la bella sensazione di trasmettere agli allievi le conoscenze acquisite, di dirigere me stesso e attori professionisti. Resto, però, soprattutto attore, anche se questo passaggio da un mondo all’altro mi piace, è un respiro ampio».



RIBALTA LIBRI LA PITTURA ABRUZZESE DELL’800

LA NOSTRA STORIA Un volume di Pasquale del Cimmuto riporta l’attenzione su un patrimonio da rivalutare di Paola Di Felice La pubblicazione sugli artisti dell’800 abruzzese, fortemente voluta e realizzata con grande impegno da Pasquale Del Cimmuto, è, al di là del suo indubbio valore storico-artistico, assai apprezzabile perché ascrivibile a quella messe di scritti che tendono ad analizzare le realtà sottaciute per svelarne i più reconditi significati e i più nascosti e profondi valori. Ma c’è di più giacché l’autore si propone di recuperare l’arte della nostra terra in cui colori, suoni e atmosfere si intrecciano per dare l’immagine non di una terra misteriosa e isolata quanto di un luogo dove le millenarie suggestioni letterarie e artistiche si intrecciano, dando origine ad estri creativi di non poco momento. Perché il destino di molti altri artisti dell’Ottocento, nell’area peninsulare italiana, è stato quello di essere dimenticati, specie da una critica storica poco attenta e avveduta, che ha taciuto di esperienze artistiche, singolari e autonome, tra le manie delle mode imperanti. In realtà tale destino di oblio e dimenticanza non è stato riservato solo a qualche caso isolato di artista perché, anche per gran parte dei pittori abruzzesi, si è stesa una spessa coltre di oblio sulla loro creatività che di questa seppero farsi usbergo per combattere i condizionamenti ambientali e culturali e le minacce di un isolamento favorito dalle asperità di una terra in parte montuosa. Partendo, perciò, da tale anomalia nella storia della critica, si intuisce che l’autore abbia inteso far conoscere uno spaccato di arte abruzzese ottocentesca e, per essa, la pittura di alcuni autori che, nonostante le vistose dimenticanze e i pericolosi ostracismi, continua a mostrare il suo primato. Si è inteso così anche scrivere pagine inedite su di una storia che pareva essere stata interamente narrata o piuttosto raccontata con superficialità e scarsa profondità. E’ pur vero che molti artisti non sono molto conosciuti sia dagli “addetti ai lavori” che da un pubblico più vasto. La rara presenza delle loro opere nelle raccolte pubbliche; la loro scarsa movimen-

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tazione nelle dinamiche del mercato antiquariale italiano; la loro presenza soprattutto nelle grandi collezioni private, collettori privilegiati per l’opera di incessante mediazione dei mercanti; le poche notizie, raccolte dai biografi del tempo e riproposte nei repertori moderni, hanno impedito sul nascere una qualsiasi esigenza di approfondimento scientifico. In tale ottica va riscoperta la loro attività artistica, vuoi che siano stati abili ritrattisti; attenti nel rendere soggetti sacri; scrupolosi osservatori di minuziosi particolari, specie in atmosfere d’interni alla “maniera fiamminga”; appassionati pittori di marine e campagne assolate, di vivida freschezza e colore; di scene dalla possente “qualità” luminosa; di scene dalla vigorosa vastità di respiro, nelle tele aggredite dall’ampia tavolozza cromatica, piene di giustezza di toni e suggestione atmosferica, a metà strada tra crepuscolari vibrazioni e morbido cromatismo, con segni cromatici, gestiti per fusione, o note timbriche, articolate per contrappunto. Una pittura, dunque, che lascia spazio a più profonde riflessioni sulle influenze esterne alla loro attività, per sottolinearne i “segni comuni”, provenienti da più conosciute esperienze italiane e europee la cui matrice è rimasta in ombra, negata da un presunto “provincialismo” della loro arte. Perciò la pubblicazione in oggetto si offre come importante occasione per proporre nuove suggestioni sul “fare pittura” di artisti abruzzesi e, attraverso loro, sulle esperienze artistiche del tempo, invitando a percorrere territori ed ambiti di ricerca in grado di evidenziare i germi di un progressivo ripudio della narrazione celebrativa, con un recupero dei valori naturalistici e visivi, e soprattutto di dare il giusto risalto alle diverse sollecitazioni che fecero del loro estro creativo un’esperienza artistica singolare e originale. E in effetti l’opera curata da Pasquale Del Cimmuto non vuole essere un testo di storia dell’arte, né un’enciclopedia o un trattato di estetica: è un gioco di immagini nel quale le illustrazioni, seguendo le esigenze del testo, sono suggerite dal corso del pensiero.


Nelle foto: Bestie da soma di Teofilo Patini 1886; a sinistra in alto Paolo De Cecco 1905; sotto la copertina del volume Ed. Artificio

Così il volume è opera di memoria visiva, senza che ciò impedisca di seguirne una linea propositiva giacché, per dirla alla Bergson, l’uomo conserva in sé ogni percezione, sensazione o pensiero e la memoria non è altro che la facoltà di restituire al momento opportuno gli elementi dei quali il nostro potere creativo, stimolato da qualche azione o pensiero, postula la presenza. Il testo, dunque, non prende spunto dalle immagini ma, contrariamente alla moda e nonostante le sollecitazioni della comune prassi, si sovrappone a loro, per afferrare e impadronirsi, in una visione prospettica, del senso più recondito del racconto. Nel volume, perciò, il narrato serve ad introdurre le immagini non costruite secondo un serrato svolgimento logico ma in un piacevole e affascinante susseguirsi di figure e forme perché anche per l’autore è stato un gioco, un gioco disimpegnato da una troppa rigida schiavitù al commento o allo stile discorsivo. Nelle descrizioni talvolta il pensiero si innalza sino a una visione panoramica; altre volte indugia nel gioco dell’esperto, che esamina con la lente una specifica sequenza, secondo un criterio paragonabile al travelling cinematografico, e sempre secondo principi suggeriti solo dall’estro o dal gusto dell’autore. Il libro risulta essere perciò il risultato di una scelta personale giustificata solo dal piacere di evocare il mondo meraviglioso delle forme e “citare”, attraverso esse, le esperienze più significative, efficaci e eloquenti dell’arte abruzzese. Nessuna concessione ad un recupero nostalgico del passato, nessuna riesumazione passatista di trascorse esperienze artistiche ma un corretto e rigoroso procedere narrativo, emendato da errori e pregiudizi di una critica d’arte neppure troppo lontana, segnato da immagini di opere d’arte che hanno tracciato un percorso indelebile nell’esperienza artistica abruzzese. Perché l’opera d’arte può essere considerata simile ad un sole; aspira ad essere vista, senza dubbio, ma in una luce abbagliante che impedisce di fissarla e poiché tutte le spiegazioni su di essa non sono che tentativi vani di raggiungere l’insondabile, esse

ne sottolineano la trascendenza sia pure all’interno di una storia dell’uomo, con i suoi fenomeni sociali, economici e politici. Così dalle innumerevoli forme e dai molteplici soggetti trattati dagli artisti abruzzesi riproposti (circa trenta), meglio per alcuni versi sarebbe dire proposti, dall’autore, promana la forza vitale della creatività che supera barriere, coni d’ombra e sciatti oscurantismi per riemergere, nel volume, con la freschezza delle tavolozze cromatiche, la complicità della luce, la molteplicità delle architetture compositive, le vite degli artisti che si intrecciano con gli avvenimenti della contemporaneità e ne assurgono a paradigmatico codice espressivo. Ci auguriamo che il lettore prenda parte al piacere che ha accompagnato l’autore nella realizzazione dell’opera e prosegua il gioco che gli viene proposto in ogni pagina attraverso ogni immagine. Scoprirà allora che questo piccolo universo di visioni è colmo di echi e di risonanze e che, per apprezzarlo, bisognerebbe poterlo afferrare con un sol colpo d’occhio, da una posizione centrale, come nei diorami circolari del secolo scorso. Si svelerebbe allora d’improvviso la cultura pittorica abruzzese di pieno Ottocento, fatta di vestigia e esperienze del passato, che ha formato l’humus sul quale si è sviluppata la pianta viva dell’arte abruzzese del Novecento e del secolo che viviamo e che ha permesso a ogni uomo, di qualunque condizione, uno sviluppo completo della sua personalità. Perché, anche se a dirla con lo storico d’arte Reynaldo dos Santos, “L’uomo si serve molto di più delle ali degli aeroplani che delle proprie”, Pasquale Del Cimmuto, grazie alla sua preziosa e puntuale disanima storico-artistica dell’Ottocento abruzzese, ci ha fornito con la sua opera nuove ali per volare… Paola Di Felice (Storica dell’Arte Unversità San Raffaele di Roma e Milano)

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RIBALTA LIBRI VITO MORETTI

LE PAROLE CHE SALVANO

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’idea forte di questo primo romanzo di Vito Moretti (Le ombre adorne, Tabula Fati 2016, pagine 122, € 11,00) è un espediente narrativo ricorrente nella letteratura moderna e contemporanea: il manoscritto ritrovato. Una finzione alla base di molte opere non memorabili ma anche di alcuni capolavori: dal Don Chisciotte che Cervantes sostiene d’aver ricavato dal manoscritto d’uno storico arabo, ai Promessi sposi, che Manzoni dice d’aver tratto da un “dilavato e graffiato autografo seicentesco”, fino a Il nome della rosa (non un capolavoro come i due citati, comunque romanzo di enorme successo e popolarità), che Eco presenta come la trascrizione di un manoscritto del monaco Adso da Melk, personaggio e voce narrante del romanzo stesso. Moretti utilizza il collaudato pretesto narrativo rivitalizzandone la funzione: non più, come da consuetudine letteraria, fonte e cornice fittizie della narrazione ma elemento costitutivo e propulsivo della vicenda narrata. Il manoscritto è un quaderno contenuto in una borsa da donna casualmente rinvenuta da Diego, tormentato protagonista del romanzo, in un giardinetto pubblico. Il quaderno è una sorta di diario nel quale una ignota narratrice ricorda e racconta larga parte della propria vita, approfondendo in particolare la sua storia con Luigi, il marito con il quale ha messo al mondo due figli, inaspettatamente scomparso. Morto? Il racconto del quaderno lascia pensare di sì ma non lo dice mai esplicitamente. La tragica perdita Diego,

che ha da un tempo imprecisato perduto l’amatissima moglie Sandra inizia a leggere il manoscritto con una sorta di pudica curiosità, sembrandogli di violare la privacy e l’intimità emotiva della sconosciuta, ma ben presto si cala senza riserve nella lettura del quaderno che gli rileva rigo dopo rigo una sensibilità e una vicenda umana di sorprendenti consonanze con il suo stato d’animo e con la sua stessa storia personale. Anche lei, la sconosciuta, ha vissuto il trauma della perdita, della scomparsa della persona amata; anche lei ha conosciuto la lacerazione di un’assenza che l’ha precipitata nella solitudine più straziante. Eppure lei, nel progredire dei ricordi e della riflessione sulla sua storia d’amore, approda ad una più serena considerazione della sua perdita e, infine, all’accettazione di un legame non più incarnato nell’attrazione dei corpi e nelle affinità delle emozioni ma trasformato e reinventato dalla “complicità della penna che ne fa memorie sul foglio”. È un esplicito, straordinario elogio della scrittura, dunque della letteratura, cui Moretti attribuisce, evidentemente, un potere salvifico, grazie alla sua capacità di rendere universale anche la più particolare delle vicende umane. Diego, infatti, nel leggere le parole della ignota narratrice, si persuade che esse “fossero un discorrere non soltanto della sconosciuta ma di chiunque avesse avuto il cuore straziato da una analoga sofferenza”. E così, anche lui riesce a superare il suo stato “spento, sgombro d’esistenza” e a tacitare “i mostri che borbottano nelle mie penombre”. Francesco Di Vincenzo

FABIO CIMINIERA

ACCADEMIA D’ABRUZZO

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l nuovo libro di Fabio Ciminiera è, in realtà, un racconto in equilibrio sul filo del gioco e della memoria. Il protagonista è Aldo Franceschini: ascoltatore appassionato, contrabbassista dei Nassa, promoter per case discografiche, uomo di palco e di diplomazia per Pescara Jazz. Una vita vissuta sempre in mezzo alla musica e nelle maniere più disparate e sorprendenti, in situazioni eroiche e del tutto diverse da quelle che affrontiamo oggi. Il racconto musicale si svolge sul filo degli aneddoti, delle esperienze e delle riflessioni e rappresenta, allo stesso tempo, un confronto scanzonato tra passato, presente e futuro e un invito divertente e divertito ad andare alla scoperta di nuova musica, senza accontentarsi di quanto già si conosce. Nel libro, Franceschini racconta gli incontri con musicisti di altissimo livello, vissuti in prima persona, appunto, e secondo modalità mai scontate e sempre imprevedibili.

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a Russia del Settecento e quella di oggi” è il tema svolto dalla Fondazione Accademia d’Abruzzo nella sede di Italia Nostra a Pescara. Sono state rievocate le figure dello zar Pietro I il Grande e dell’imperatrice Caterina II, che ammiravano gli assolutismi europei ed estesero il territorio russo fino all’Oceano Pacifico. Lo zar creò la nuova capitale, S. Pietroburgo, per affacciarsi sull’Europa, e l’imperatrice rese l’Ermitage, il Museo d’Arte tra i più importanti del mondo. Entrambi impegnati a sedare le ribellioni del popolo: Pietro I fece uccidere a frustate il figlio Alessio e Caterina II favorì i nobili liberandoli dalle tasse in cambio di un maggiore controllo sui rivoltosi. Inoltre è stato sottolineato l’alto livello culturale dei russi capaci di limitarsi nel cibo pur di comprare un libro. Forse frutto anche della scuola elementare in cui gli alunni vengono dallo Stato divisi in tre sezioni distinte in base al livello intellettuale? Interessanti gli interventi della preside Damiana Guarasco che è stata in Russia per conferenze sulla dimensione europea dell’insegnamento; delle direttrici didattiche Giovanna Marchionne ed Emenda Di Rosato sull’apprendimento dei diversamente abili e della dott.ssa Anna Di Marco che ha fatto presente che nessuno, dalle alte sfere del Partito all’Intellighenzia russa, ha saputo né voluto accogliere la Glasnost di Gorbaciov. Anna Cutilli Di Silvestre


Recensioni a cura di Giovanni D’Alessandro

GIORGIO GRIMALDI

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o studioso pescarese che opera presso l’Università d’Annunzio di Chieti affronta col dotto ma limpido e scorrevole libro “Oltre le tempeste d’acciaio – Tecnica e modernità in Heidegger, Juenger e Schmitt” (Carocci editore, 2017, p.237, €25), che riprende dal titolo In Stahlgewittern, (Nelle tempeste d’acciaio, appunto) un’opera del 1920 di Juenger, l’analisi del pensiero dei tre autori, tutti indagati circa il loro operare nei finsteren Zeiten, o tempi oscuri del Novecento in cui vissero e operarono. Le loro contiguità al nazismo, le radici ideologiche della loro convergenza con esso, ma anche i punti di non (piena) coincidenza con un’ideologia così gravida di tragiche conseguenze per la storia creano un saggio di assoluto valore, che si segnala per rigore, ma anche per passione nello studio del drammatico tempo dei tre pensatori.

GIANCARLO GIULIANI

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a consuetudine con la grande letteratura classica - propria di un latinista, grecista, docente, traduttore, saggista, narratore e poeta, quale il pescarese Giancarlo Giuliani è - alimenta e arricchisce le sue inquiete domande sulla condizione umana, nella nuova raccolta di poesia intitolata “Nel mio regno non vi sono filosofi”(Tabula Fati 2017, p. 92, € 9). Un libro di autointerrogazione che non fa sconti né a sé né ad altri sulla impossibilità del non cercare, al di là della loro irraggiungibilità, risposte definitive. ”Scivoleremo nel vento/ con le nostre parole/ e rincorreremo un soffio di luce/ perché il verso non canti il dolore,/ ma l’eterna rinascita/ da ogni caduta./ Ogni domanda/ di senso avrà risposta/ perchè sapremo infine/ che il vero segreto/ è l’accettazione di noi, senza promessa di cielo/ o terrore di abisso”.

DONATELLA DI PIETRANTONIO

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paesamento, straniazione, difficoltà di ricostruzione di un’identità, ma anche combattivo e vincente sforzo nel rigenerarla superando la devastazione affettiva: Ecco i temi del romanzo “L’Arminuta” (Einaudi, 2017, p.163) di Donatella Di Pietrantonio, giunta alla terza prova narrativa, tutta al femminile anch’essa. L’Arminuta è, nel dialetto abruzzese, la rivenuta, la restituita, la ritornata: dalla benestante famiglia dov’è cresciuta e in cui si era radicata, con genitori che l’amavano e che ha appreso non essere i suoi veri genitori, alla vera – sconosciuta, impensabile - famiglia d’origine in cui quotidiano, più del pane, è il fronteggiare la durezza della vita. Echi dickensiani risuonano nella quasi contemporaneità di questo libro; L’accabadora della Murgia, La mennulara dell’Agnello Hornby, sullo sfondo, si specchiano come L’arminuta in ritratti di identità femminili vitali e a tratti quasi magiche.

FRANCO PASQUALE

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na ferita aperta nel biancore della neve depositatasi su tutta la terra, a gennaio scorso, per fare dei ripidi pendii attorno a Rigopiano le pareti di un pozzo di morte, da cui si sarebbe staccata la immensa slavina che tanti morti ha fatto. Esperienza deflagrata, per la sua inconcepibilità, e per la sua innegabile realtà, nell’immaginario collettivo, mediatico e non. “Rigopiano. La terra e la neve” (Tabula Fati, Chieti, 2017, p. 72, € 10, a cura di Franco Pasquale, postfazione di Assunta Ferraro) raccoglie 37 contributi di narratori, poeti e giornalisti dedicati alla tragedia del 18 gennaio, affidati alla prosa o alla poesia, secondo la forma da ognuno liberamente prescelta, come più consona al proprio sentire. Il ricavato del volume è devoluto in beneficienza.

GIANANDREA DE ANTONELLIS

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nteressante dal punto di vista storico la riproposizione a cura di Gianandrea de Antonellis (saggista, narratore, docente, giornalista) del romanzo pubblicato a puntate, senza firma, tra il 1873 e il 1874 sul giornale napoletano Il trovatore che s’intitola Il passato e il presente, ovvero Ernesto il disingannato, (D’Amico editore, 2016, p. 178 ; XXII d’introduzione, XXVIII di appendice). Romanzo d’impostazione antisabauda, narra l’incauto arruolamento del giovane Ernesto da parte degli antiborbonici miranti a preparare “la passeggiata garibaldina” e a spodestare, a vantaggio dei Savoia, il loro legittimo sovrano. Amara, ma attiva in senso contrario e cioè legittimista, sarà la presa coscienza da parte di Ernesto d’essere stato strumentalizzato per favorire l’insediamento sul trono di una “consorteria liberal-camorristica”.

LUCIA VACCARELLA

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n intenso memoir familiare questo cui Lucia Vaccarella consegna l’incandescenza del cuore (“La besa”, 2017, Chieti, Solfanelli, p. 217, € 17, presentazione di Bruno Nacci). Lucia Vaccarella - docente di materie letterarie nelle scuole superiori di Chieti, saggista, narratrice - è in guerra con l’avversario sempre vincente, il tempo, da cui non accetta di essere espropriata delle persone e dei luoghi amati, appassionatamente rievocati attraverso la parola e consegnati alla pagina. La “besa” (promessa da mantenere, parola data, l’impegno da onorare a ogni costo) intraducibile parola che dà titolo al libro, viene dall’antico albanese parlato dagli antenati dell’Autrice ed esprime lo stato d’animo di chi, attraverso gli affetti, reclama un’identità superiore agli stessi limiti di tempo e spazio della propria esistenza.

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RIBALTA CINEMA

RIBALTA ARTE

BENITO, GIANLUCA, GIOVANNI E BARBARA CON LA REGIA DI FRANCESCO PAOLUCCI

RACCONTARE SENZA PREGIUDIZI

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osa succede quando un gruppo di quattro improvvisati giornalisti di una comunità di disabili si incontra con i rifugiati nei centri di accoglienza dei piccoli paesi dell’Appennino? La risposta è nel documentario “I Migrati” prodotto dalla Comunità XXIV Luglio – Handicappati e non dell’Aquila e diretto da Francesco Paolucci. Disabili e stranieri, due fragilità che si incontrano e il racconto diventa un piccolo miracolo narrativo; un viaggio su un pulmino tra Marche, Abruzzo, Molise e Lazio dove i quattro protagonisti del documentario, Benito, Gianluca, Giovanni e Barbara vanno alla scoperta dei piccoli borghi dove vengono accolti i migranti e con taccuino, macchina fotografica, videocamera e microfono fanno domande a loro e ai vecchi in piazza per conoscere l’importante fenomeno della migrazione che in questi ultimi anni sta cambiando l’Italia, l’Europa. Lo stupore ingenuo e diretto dei protagonisti sembra dipingere il ritratto inedito di un’ Italia migliore di quella impaurita e arrabbiata che spesso viene raccontata. La Comunità XXIV Luglio – Handicappati e Non Onlus è una associazione di volontariato che da quasi quarant’ anni svolge all’Aquila attività di assistenza, ricreazione e formazione diurna di ospiti con disabilità fisiche e mentali. Già nel 2014 l’associazione ha prodotto un lungometraggio di finzione La mano nel cappello e quotidianamente nella sede di Piazza d’Arti con volontari e professionisti si svolgono corsi di musica, teatro, fotografia, architettura partecipata e sempre tutti i giorni si pranza insieme, si organizzano gite ed altre attività. “I Migrati” prende forma proprio da un progetto, finanziato anche grazie all’ 8xmille della Tavola Valdese, che ha visto l’organizzazione di alcuni incontri sul tema del reportage e del giornalismo. Nasce così, quindi, l’idea di realizzare un documentario

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in cui i “giornalisti” fossero proprio alcuni ospiti della comunità. Dalla proposta di uno di loro di realizzare una sorta di “Sereno Variabile” per raccontare le bellezze dei paesi di montagna, si arriva a decidere di visitare quei centri che stavano accogliendo i migranti per rendere la storia più attuale. Dopo un periodo di preparazione e formazione la scorsa estate il pulmino della comunità è partito per un viaggio di una settimana. I quattro improvvisati “giornalisti” e la troupe di volontari/professionisti film maker hanno viaggiato per i paesi dell’Appenino per incontrare le comunità che ospitano i migranti, hanno intervistato gli abitanti dei paesi, hanno fatto domande e hanno riflettuto ad alta voce su quello che quotidianamente vivevano. Le domande dirette, ingenue e naïf dei “giornalisti” hanno ricevuto risposte difficoltose, frammentarie dei migranti svelando, però, tutta la ricchezza che produce la voglia di capirsi. Sullo sfondo c’è l’Italia dei piccoli paesi, così lontana dalla paura e dalla rabbia che spesso viene raccontata quando si parla di immigrazione e che lascia sperare: se ben gestita l’accoglienza può diventare uno strumento di reciproco arricchimento culturale. Il documentario ha avuto un primo battesimo nel dicembre 2016 in Croazia, alla 25ma Biennale d’Arte di Osijek “Borders of visibility” con una menzione speciale della giuria e nel mese di febbraio è stato trasmesso da Rai 2 (Tg2Dossier) e Tv2000 in un raro accordo tra due televisioni “concorrenti”. Il direttore di Tv2000, Paolo Ruffini ha definito “I Migrati” «un documentario che insegna a chi fa comunicazione come guardare la realtà» mentre la direttrice del Tg2, Ida Colucci lo ha definito «una delle poche contro narrazioni sul tema dell’immigrazione realizzate oggi in Italia». Clori Petrosemolo Nelle foto: gli autori del film durante le riprese


ALESSANDRO DI FELICE

PASTIFICIO DE CECCO

ESORDIO SU REAL TIME CON MY GENERATION

DIETA MEDITERRANEA AL PARLAMENTO EUROPEO

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n dialogo a distanza tra artisti di diverse generazioni ma accomunati dall’interpretazione di uno stesso filone nel grande mare della musica d’oggi. Questo il senso del format My Generation, prodotto dalla 1 Way Entertainment del pescarese Alessandro Di Felice. Il programma, con la direzione artistica di Gino Castaldo ed Ernesto Assante, gioca sul rapporto a distanza di interpreti di età diverse: Mario Biondi, italiano dalla voce nerissima, si è confrontato col gigante Sergio Sylvestre, (americano di Los Angeles con papà haitiano e mamma messicana) nella prima puntata del programma andata in onda a dicembre; Fiorella Mannoia e Chiara Galiazzo, due diverse personalità della canzone italiana al femminile, sono state invece le protagoniste del secondo appuntamento, trasmesso lo scorso 27 febbraio sempre su Real Time (canale 31 del digitale terrestre e 131-132 della piattaforma Sky). “Alla svolta dei 40 anni - spiega Alessandro Di Felice, produttore cinematografico e televisivo - ho voluto intraprendere una mia strada personale, qualcosa che avesse maggior continuità rispetto alle mie esperienze passate”. Nasce così, a gennaio 2016, la 1 Way Entertainment, società di produzione televisiva che si avvale della direzione artistica di Castaldo e Assante, due tra i nomi più celebri del giornalismo (non solo) musicale, che hanno inventato il format di My Generation riuscendo peraltro a coinvolgere nella realizzazione del programma grandi major come Sony, Universal e Warner. “Le puntate di My Generation - conclude Di Felice - vengono girate volta per volta, perché non è facile creare le condizioni per avere a disposizione artisti di quel calibro per il tempo necessario. Realizzeremo altre puntate al ritmo di una al mese, fino all’estate, e tra i tanti protagonisti ci saranno volti nuovi come Elodie e artisti più popolari come Nek e Paola Turci”. F.G. Nelle foto: in alto, Alessandro Di Felice con Gino Castaldo, Fiorella Mannoia e Ernesto Assante; sopra con Sergio Sylvestre

n convegno e una cena griffata organizzata a Bruxelles dalla prestigiosa azienda alimentare De Cecco. In una delle sale del parlamento europeo si è svolto un convegno sull’importanza della Dieta Mediterranea, argomento molto sensibile e che colloca il food italiano sotto i riflettori di tutta Europa e non solo. I lavori sono stati aperti dal vice presidente del parlamento europeo David Sassoli. A seguire hanno preso la parola il vice presidente della commissione agricoltura Paolo De Castro, Vincenzo Villani della De Cecco e Paul O’Connors, socio della Nctm, primario studio legale con sede in tutto il mondo. La coincidenza con la sessione plenaria del parlamento ha favorito la presenza di un pubblico internazionale, con molti giovani. Villani, direttore Controllo di qualità della De Cecco, dopo un breve excursus sulla storia dell’azienda abruzzese, ha posto l’accento sulla qualità assoluta dell’offerta dell’azienda abruzzese. «Produciamo una pasta tradizionale, di alta qualità, essiccata a bassa temperatura, con tempi lenti di essiccazione e con un metodo unico, il Metodo De Cecco», ha detto tra le altre cose. «E’ un pasta certificata. Il mondo scientifico ha ben descritto le caratteristiche del prodotto di alta qualità che produciamo. E di questo siamo particolarmente orgogliosi». Dopo un rinfresco con i prodotti dell’azienda di Fara San Martino abbinati ai vini Masciarelli e ai salumi Costantini si è passati alla cena offerta dalla De Cecco, a cura dello chef tristellato Heinz Beck, nella splendida cornice della residenza dell’ambasciata italiana presso il Regno del Belgio. L’ospite, l’ambasciatrice Elena Basile, ha curato gli inviti, tutti di altissimo livello. Presenti, tra gli altri, gli ambasciatori del Portogallo, Antonio Alves Machado; della Spagna, Juan Aristegui Laborde; di Malta, Ray Azzopardi; dell’Italia presso la Comunità europea, Giovanni Pugliese. E molti altri rappresentanti della diplomazia europea. Significativa la rappresentanza italiana, con i deputati Renata Briano, Paolo De Castro, Lorenzo Cesa, Luigi Morgano, Patrizia Toia ed Elisabetta Gardini. Il successo dell’Evento De Cecco nel Parlamento Europeo è stato pieno e apprezzato e ha ribadito quanto la Dieta Mediterranea sia salutare e rappresenti, nella sua massima elevazione, quella dell’alta qualità, l’arma vincente del Made in Italy. A.C. Nella foto: Un momento della manifestazione con lo chef Heinz Beck

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[ VARIOGUSTO - LA RICETTA ]

Risotto ai gamberi di fiume Riso classico per risotti, Gamberi di fiume, Cipolla bianca, Aglio rosso, Prezzemolo, Vino bianco secco, Burro,Olio extra vergine di oliva, Sale

Eliminare il carapace dei Gamberi, lavarli per bene in Acqua corrente e metterli da parte a sgocciolare. Fare bollire in una pignatta l’Acqua con una presa di Sale, unire i Gamberi e farli cuocere per qualche minuto. Scolarli, mettere da parte l’Acqua di cottura e recuperare in una ciotola la polpa delle code e delle chele. Versare i gusci, le zampe e il resto dei Gamberi nell’Acqua di cottura tenuta da parte e fare bollire il tutto per quindici minuti. Filtrare il Fumetto ottenuto e mantenerlo in caldo su un piccolo fuoco. In una pignatta a fondo pesante fare spumeggiare una noce di Burro nell’Olio, aggiungere uno spicchio di Aglio, una Cipollina bianca tagliata a fettine molto sottili e fare soffriggere leggermente. Unire le codine e la polpa dei Gamberi, eliminare l’Aglio, bagnare con mezzo bicchiere di Vino bianco secco e lasciare evaporare. Versare nella pignatta il Riso, farlo insaporire per un paio di minuti girandolo con un cucchiaio di legno e portare avanti la cottura a fuoco vivace aggiungendo un mestolo di Fumetto bollente ogni volta che il Riso asciuga. Aggiustare di Sale, spolverare con il Prezzemolo tritato molto fine e portare a cottura mantenendo il Risotto sempre all’onda. Sporzionare nei piatti da portata, guarnire ogni piatto con un Gambero e un ciuffetto di Prezzemolo e servire in tavola.

I Gamberi di fiume sono ormai una vera rarità perché scomparsi da quasi tutti i corsi d’acqua italiani. Ma quando è possibile trovarli in qualche vivaio, vale sempre la pena acquistarli per avere il piacere di approntare un Risotto così raffinato.


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