Vario 92

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ABRUZZO IN RIVISTA 92

VARIOLETTURE

JOHN FANTE

“La confraternita dell’uva” ultimi capitoli

Nota introduttiva di Giovanni D’Alessandro

Vario 92 €4,50 dicembre2017

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ABRUZZO IN RIVISTA 92

DICEMBRE 2017 ABRUZZO IN RIVISTA 92

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EDITORIALE

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VARIOIDEE Fabrizio Masciangioli, Luciano Di Tizio, Guido Visconti, Pierluigi Visci

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AMBIENTE QUANDO LA BELLA APPARVE A LEONARDO

VARIOLETTURE

PUBLIO OVIDIO NASONE “LE TRISTEZZE” Libro primo, Carme terzo

Traduzione e nota introduttiva di Giovanni D’Alessandro

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Vario 92 €4,50 dicembre2017

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NATURA PRIMA DELL’ORSO FU L’ELEFANTE

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PERSONAGGIO LINO GUANCIALE

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PERSONAGGIO ROBERTO PEDICINI

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PERSONAGGIO IVAN BINNI

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PERSONAGGIO MAURO BONASORTE

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PERSONAGGIO DOMENICO SANTACROCE

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LETTERATURA DONATELLA DI PIETRANTONIO, PEPPE MILLANTA

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SOCIETA’ IL VENTO DELLA SPERANZA

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UNIVERSIVARIO CHIETI-PESCARA

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UNIVERSIVARIO TERAMO

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UNIVERSIVARIO L’AQUILA

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IMPRESE IL NUOVO STADIO DI PESCARA

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RIBALTA MARCO PATRICELLI

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RIBALTA GIANNI DE BERARDINIS

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RIBALTA PAOLO RUSSO

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RIBALTA TEATRO

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RIBALTA ARTE A TORNARECCIO

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RIBALTA LIBRI

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RIBALTA EVENTI

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LA RICETTA DI SANDRO VISCA

SPEDIZIONE A.P. ART.1 COMMA 1353/03 AUT. N°12/87 25/11/87 PESCARA CMP

AGENDA

2018

In copertina illustrazione di Sandro Visca

DIRETTORE RESPONSABILE Claudio Carella HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO Andrea Carella, Fabio Ciminiera, Serafino Di Monte, Anna Cutilli Di Silvestre, Giovanni D’Alessandro, Giorgio De Angelis, Francesco Di Salvatore, Luciano Di Tizio, Francesco Di Vincenzo, Giuseppe La Spada, Fabrizio Masciangioli, Clori Petrosemolo, Marco Tabellione, Sandro Visca, Guido Visconti, Pierluigi Visci, Roberta Zimei STAMPA, FOTOLITO E ALLESTIMENTO AGP - Arti Grafiche Picene Via della Bonifica, 26 Maltignano (AP) CLAUDIO CARELLA EDITORE Aut. Trib. di Pescara n.12/87 del 25/11/87 Rivista associata all’Unione Stampa Periodica Italiana REDAZIONE: Via Puccini, 85/2 Pescara Tel. 085 8428528 - redazione@vario.it

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VARIO AGENDA 2018

22/05/17 13:06

VARIOLETTURE John Fante “La confraternita dell’uva” (estratto, ultimi capitoli)

VARIOLETTURE

JOHN FANTE

“La confraternita dell’uva” ultimi capitoli

Nota introduttiva di Giovanni D’Alessandro


La nostra intelligenza sostenibile per prenderci cura della Natura.

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CLAUDIO CARELLA

I PRIMI TRENT’ANNI DI VARIO

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l 2017 è andato, finalmente e senza rimpianti. Viva il 2018. Per Vario sarà un anno importante: festeggerà i suoi primi trent’anni.

Ci impegneremo ancora e come al solito, al meglio delle nostre capacità, per rappresentare l’Abruzzo positivo che vuole crescere e migliorarsi. È l’impegno che prendiamo con voi lettori. In allegato a questo numero trovate l’inserto Vario Letture dedicato a John Fante e una agenda del 2018. Il tema che i nostri opinionisti hanno trattato nella rubrica Idee è quello delle emergenze ambientali e sociali legate alla tutela del nostro patrimonio più importante: la natura. Abbiamo poi parlato di molti personaggi abruzzesi che si sono fatti valere e che hanno quindi dato un’immagine positiva anche alla regione lavorando nel mondo dello spettacolo, della cultura, delle arti. Sul sito www.vario.it nella sezione video trovate le video-interviste, fra le altre, anche quella alla vincitrice del Premio Campiello, Donatella Di Pietrantonio. L’Abruzzo è vivo perché è vario.

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FABRIZIO MASCIANGIOLI

IL FALO’ DELL’AMBIENTALISMO “… Allora d’un passo piú tranquillo mi mettevo in cerca di qualche luogo selvaggio nella foresta, qualche posto deserto, dove nulla mostrasse la mano dell’uomo e annunciasse la servitù e l’appropriazione, qualche asilo, ove potessi credere di essere penetrato per primo e nessun importuno venisse ad interporsi tra la natura e me. E là sembrava spiegare ai miei occhi una magnificenza sempre rinnovata. L’oro delle ginestre e la porpora delle eriche colpivano i miei occhi di tale splendore che commuoveva il mio cuore; la maestà degli alberi, che mi coprivano delle loro ombre, la delicatezza degli arbusti, che mi circondavano, la varietà sorprendente delle erbe e dei fiori, che calpestavo ai miei piedi, tenevano il mio spirito in una continua alternativa d’osservazione e d’ammirazione…” (Jean-Jacques Rousseau, Terza lettera al signor di Malesherbes, gennaio 1762).

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opo un inverno di gelido dolore è arrivata un’estate arida e soffocante, illuminata dai bagliori degli incendi. Il fuoco ha divorato in Abruzzo quattromila ettari di bosco riducendo a scheletri carbonizzati pini neri, querce e faggi secolari. Le cronache hanno registrato oltre duecento roghi disseminati un po’ ovunque e non si è trattato di eventi “naturali” ma al contrario causati da comportamenti incoscienti o criminali dell’uomo. L’immagine di un cervo in fuga incalzato dalle fiamme ha caricato di drammaticità realtà ben conosciute: la vulnerabilità del territorio e l’incapacità di chi dovrebbe tutelarlo. Alcune vicende appaiono la spia di una coscienza ambientale declinante e di facciata a dispetto di un’antica e pionieristica vocazione verde della nostra regione. C’è stata superficialità e incoscienza dietro l’incendio scoppiato a Fonte Vetica sul Gran Sasso dove si è permesso che circa trentamila persone, con centinaia di camper e bancarelle al seguito, si riunissero per l’annuale rassegna ovina accendendo allegramente focherelli e barbecue a due passi dai boschi più preziosi. Tutto questo senza prevedere neanche la presenza di un’autobotte. E’ stata invece una mano criminale a disseminare i micidiali inneschi incendiari che per oltre dieci giorni hanno diffuso

paura e desolazione sul monte Morrone avvelenando l’aria con colonne di fumo e minacciando direttamente luoghi cari alla memoria collettiva, come l’eremo di Celestino V. I danni si contano in decine, forse centinaia di milioni di euro ma le conseguenze più gravi sono le ferite profonde inferte al patrimonio naturale di tre parchi: Gran Sasso-Monti della Laga, Majella e Sirente-Velino. Forse l’offensiva del fuoco, che ha colpito anche altri parti dell’Italia, non si poteva completamente evitare ma certamente poteva essere contenuta nelle dimensioni e nelle conseguenze se si fossero adottate misure di prevenzione e di tutela ambientale. Mai come nei giorni di canicola agostana è parso perdere di senso lo slogan Abruzzo regione verde d’Europa, un messaggio vincente a metà degli anni novanta quando Sting cantava a Pescara affascinato dalla bellezza delle nostre montagne e quando la classe dirigente dell’epoca sembrava aver decisamente imboccato la strada dell’ambientalismo come volano dello sviluppo. Parole d’ordine e progetti ormai sbiaditi, eppure la nostra regione, col suo articolato sistema di parchi,oasi e riserve che copre oltre il 30% del territorio, ha costruito un potenziale ecologico che molti ci invidiano e che potrebbe diventare l’elemento trainante di una nuova strategia di crescita. Non si tratta di evocare nostalgie roussoiane di una natura virtuosa e incontaminata, né di riproporre ideologiche contrapposizioni fra integralisti del protezionismo e campioni del primato economico-industriale. Bisogna,invece, chiedersi seriamente se in questi anni si sia davvero radicata, soprattutto nel ceto politico,una moderna coscienza ambientalista che considera il “capitale natura” come la risorsa strategica per lo sviluppo della regione. Insomma la furia delle fiamme, così come le frane, gli allagamenti e le slavine dell’ultima, tragica stagione invernale, impongono a tutta la società abruzzese l’obbligo di impegnarsi in maniera non equivoca per realizzare un profondo mutamento sociale, economico e culturale che faccia del patrimonio ambientale il motore di una rinnovata spinta verso la crescita. Non a caso Erminio Sipari, fondatore del Parco Nazionale d’Abruzzo già nel 1923, parlava della fioritura della piantauomo e individuava nel rapporto di rispetto fra essere umano e natura la chiave di volta per ogni prospettiva di progresso.

Gornalista del TgrAbruzzo è stato per molti anni consigliere della Federazione nazionale della stampa italiana (FNSI ). Ha diretto il Master di giornalismo dell’Università di Teramo e nello stesso ateneo ha insegnato Comunicazione Politica e Storia del Linguaggio Politico.


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LUCIANO DI TIZIO

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IN CASSANDRA VERITAS

assandra, nella mitologia classica, era una giovane donna che aveva avuto dal dio Apollo il dono della profezia ma insieme, per essersi rifiutata a lui, la condanna a non essere creduta. Una triste sorte: poter vedere quello che ci riserva il futuro e non riuscire a far nulla per scongiurare gli eventi nefasti in arrivo. Chi la ascoltava nella migliore delle ipotesi la prendeva per una invasata. La maledizione di Apollo a ben vedere non colpiva direttamente la fanciulla, accecava invece coloro che le stavano intorno, incapaci di darle ragione persino dopo le puntuali conferme della veridicità delle sue previsioni. Gli ambientalisti, loro malgrado, vivono spesso la condizione che nei miti è riservata alla sventurata profetessa. Se state pensando che il paragone sia improprio o addirittura esagerato, forse siete anche voi vittime della maledizione del dio. Le grandi associazioni “verdi”, moderne Cassandre, denunciano da sempre una assoluta mancanza (un po’ ovunque nel Bel Paese, ma in questo caso ci riferiamo all’Abruzzo) di una seria politica di prevenzione, promessa all’indomani di ogni tragedia e puntualmente dimenticata nei mesi successivi. Succede per le inondazioni, le frane, le valanghe e nella torrida estate scorsa, anche con gli incendi… tutte catastrofi semplicisticamente catalogate come “naturali” benché portino sempre le firma dell’uomo. O meglio: è naturale che ci siano le inondazioni, lo è molto meno il fatto che le acque che tracimano dai fiumi e dai torrenti trovino nel loro alveo abitazioni, campeggi, alberghi, fabbriche e persino centri commerciali. Nel caso degli incendi poi quelli davvero “naturali”, appiccati a esempio da un fulmine, sono a dir poco rari, un numero insignificante in termini percentuali rispetto a quelli dei quali siamo direttamente colpevoli. Basta una cicca accesa gettata dall’auto in corsa, una vettura surriscaldata lasciata anche per una breve sosta sull’erba secca, un fuoco acceso con imprudenza, per bruciare le stoppie o per cuocerci una bistecca, e il disastro è servito. Si chiamano, nel linguaggio giuridico, incendi “colposi”. Vale a dire che chi li ha causati ne ha certamente colpa ma, come dire, non lo ha fatto apposta. Capita anche con i fuochi d’artificio, che nelle aree boscate e ancor più nei Parchi nazionali andrebbero certamente proibiti, e con le lanterne cinesi, quelle leggere strutture in carta sollevate in aria dal calore di una fiamma accesa, che va così tanto di moda lanciare nelle occasioni di festa. Nessuno pensa che prima o poi cadranno al suolo e che quella fiamma accesa potrebbe creare danni milionari e mandare in fumo, nel senso letterale del termine, ettari di bosco. Un momento di gioia magari durante una festa nuziale o, peggio, il gusto di cucinarsi da soli qualche arrosticino in un prato valgono tanto rischio? L’uomo, si sa, il nome scientifico che lo vorrebbe sapiens se l’è dato da solo. Ci sono poi gli incendiari, quelli che il fuoco lo appiccano volontariamente. Incendio “doloso”, dicono gli esperti, quello acceso con dolo, con la precisa volontà di far danno. Nell’estate passata sono stati questi ultimi i più frequenti. Sul Morrone, nel cuore del Parco Nazionale della Majella, hanno creato danni immensi, tenuto in apprensione centinaia di persone e avvelenato l’aria. Qualche numero: l’aumento degli incendi rispetto alla media degli ultimi 10 anni è stato in Italia del 260%, secondo i dati dell’European Forest Fire Information. All’Abruzzo con 6000 ettari percorsi dal fuoco, 4000 dei quali coperti da boschi, non è andata neppure malissimo visto che non è tra le regioni più colpite.

Questa sgradevole classifica la guida infatti la Sicilia, seguita a ruota da Calabria, Campania, Puglia e Lazio. Nell’intero territorio nazionale dal 1 gennaio al 31 luglio 2017 sono andati in fumo 74.965 ettari di boschi, con un aumento di più del 150% rispetto all’intero anno scorso, che a sua volta aveva già visto raddoppiati gli incendi rispetto al 2015 (fonte: Rapporto Ecomafie 2016 di Legambiente), con un costo ai danni delle tasche di tutti noi che ha superato i 22 milioni di euro. In Abruzzo le fiamme, sino a fine agosto, hanno interessato ben 136 Comuni, pari al 45% dei 305 presenti nella regione, per complessivi 210 incendi, contando solo quelli che hanno riguardato almeno un ettaro di territorio (fonte: Rapporto “Basta roghi” del WWF Abruzzo), anche in questo caso con danni milionari. La siccità e il caldo hanno certamente dato il loro contributo, favorendo il dilagare delle fiamme. Ma le colpe sono tutte nostre, dei delinquenti che l’hanno fatto apposta, degli incoscienti che hanno provocato roghi con comportamenti imprudenti ma anche – diciamolo una volta per tutte – di un sistema di prevenzione e di contrasto agli incendi che ha fatto cilecca su tutta la linea. Nessuno discute la buona volontà e l’impegno, spesso ai limiti del sacrificio, dei vigili del fuoco dei volontari di protezione civile e dei semplici cittadini. La dedizione e in alcuni casi persino l’eroismo di chi opera sul campo non cancellano tuttavia le evidenti carenze organizzative e non assolvono chi avrebbe dovuto provvedere e non lo ha fatto. Come al solito – e qui torniamo al discorso di Cassandra – è mancata la prevenzione. La soppressione del Corpo Forestale dello Stato, i cui organici e le cui competenze sono state frammentate e, spesso, disperse, ha dato un contributo negativo importante: sono spesso mancati i DOS (Direttori Operazioni Spegnimento), ruolo che prima della sciagurata riforma era riservato a personale appositamente addestrato del Corpo Forestale; hanno operato meno uomini e meno mezzi; c’è stata sovente una preoccupante approssimazione. Anche i dirigenti delle aree protette e chi avrebbe dovuto vigilare hanno accumulato le loro responsabilità: autorizzazioni concesse forse con leggerezza eccessiva, mancati controlli sui bivacchi e sui fuochi accesi dove non si sarebbe potuto, assenza di mezzi d’immediato intervento, servizi antiincendio inesistenti o non funzionanti… Un disastro su tutta la linea. La magistratura e gli inquirenti sono al lavoro da tempo. È auspicabile che le colpe vengano individuate e sancite. Conta ancora di più però operare per cambiare le cose. L’estate 2017 ha confermato quello che l’inverno precedente, tra scosse telluriche, abbondanti nevicate e valanghe, aveva già detto: il territorio abruzzese è di suo estremamente vulnerabile e lo è ancora di più per una assoluta e inaccettabile carenza di azioni preventive. Necessario quindi identificare il patrimonio ambientale come principale elemento di crescita della regione. Non è impossibile, basta crederci davvero e indirizzare le risorse non più verso inutili cementificazioni ma verso quello che dovrebbe essere il primo interesse di ogni cittadino e di ogni amministratore: la prevenzione, a tutto campo e in tutti i campi. Abbiamo ben visto che le Cassandre, antiche e moderne, non avevano torto. Forse è il caso di cominciare a dargli retta…

Gornalista e delegato regionale WWF Abruzzo

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GUIDO VISCONTI

LA REGIONE DELLA SOTTOVALUTAZIONE

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L’estate che ci ha appena lasciato ha dato a tutti l’impressione che qualcosa sta cambiando nel clima. Anche nella nostra regione sono stati battuti o eguagliati tutti i record che riguardano le temperature e i giorni consecutivi senza piogge. Tutti parlano ormai di cambiamenti climatici irreversibili che ci destinano a un futuro incerto e pieno di problemi. Dobbiamo subito fare una distinzione fra problema scientifico e problema politico. Il primo non è risolto nei dettagli ma ci presenta un quadro inequivocabile che è fatto di temperature costantemente in crescita: in Italia la temperatura media è aumentata di quasi un grado e mezzo dal 1961 ad oggi con un’evidente accelerazione a partire dagli anni ’80. Questo riscaldamento è più evidente al nord e durante la stagione invernale. Le piogge per contro sono diminuite del 6% prevalentemente nelle regioni centrali e nelle isole soprattutto nel periodo primavera-autunno. Questi dati confermano una tendenza a livello globale molto simile. Le scienze del clima attribuiscono queste variazioni al fatto che la concentrazione dei gas serra in atmosfera è andata aumentando dall’inizio della rivoluzione industriale (circa metà del 1800). I gas di serra (come ad esempio l’anidride carbonica) sono quelli che finora hanno permesso la vita sulla terra perché, assorbendo l’energia proveniente dal pianeta, mantengono la temperatura della superficie a livelli accettabili. La loro concentrazione va aumentando perché la produzione di energia e altre attività industriali ne producono quantità enormi (quasi 40 miliardi di tonnellate all’anno per l’anidride carbonica). A questo punto si pone il problema politico che a livello internazionale si può riassumere in mitigazione o adattamento. La mitigazione consiste nella riduzione delle emissioni dei gas di serra mentre l’adattamento ha a che fare con misure che in qualche modo possono prevenire o attutire gli effetti dei cambiamenti climatici. Una politica di adattamento richiede però una conoscenza dettagliata dei cambiamenti climatici per quella specifica regione e questo è un compito cui dovrebbero assolvere i cosiddetti modelli di clima e che invece costituiscono la maggiore incognita nella risoluzione di questi problemi. I modelli climatici simulano il clima della Terra su potenti calcolatori e oggi costituiscono quasi l’unica linea di ricerca sul sistema climatico. I loro risultati non sono verificabili in quanto prevedono eventi futuri ma, anche facendo riferimento alle cose predette 20 o 30 anni fa i risultati non sono brillanti. Questi modelli forniscono dati su maglie con una risoluzione di 100150 km mentre le misure di mitigazione si riferiscono a scale più piccole che sono quelle delle città o regioni, delle singole nazioni. Su queste scale più piccole le previsioni non sono affidabili ma ciò malgrado possiamo affermare con una certa fiducia come si manifesteranno in Abruzzo i cambiamenti climatici. Gli inverni saranno sempre più miti con accumuli nevosi sempre più scarsi e le primavere saranno più brevi e aride. Le estati saranno calde con scarse precipitazioni che riprenderanno

in autunno. L’aumento delle temperature comporterà un progressivo innalzamento delle quote vegetate con i boschi che tenderanno ad occupare in questo modo zone meno calde per cui le nostre montagne vedranno una progressiva ma inesorabile desertificazione. Il terreno collinare e montuoso denudato dalla vegetazione sarà soggetto a un’erosione sempre più devastante a causa anche di piogge rare ma violente. Le coste risentiranno dell’aumento del livello del mare con la progressiva riduzione dell’estensione delle spiagge. Il mare Adriatico tenderà a scaldarsi e una possibile conseguenza sarà l’intrusione di specie animali e vegetali più tipiche dei mari tropicali. L’aumento generalizzato delle temperature tenderà a favorire alcune malattie anche in funzione di cambiamenti delle specie di insetti. Uno degli aspetti controversi dei cambiamenti climatici riguarda l’aumento della frequenza dei cosiddetti eventi estremi. A tutt’oggi non c’è evidenza che il riscaldamento possa aumentarne la frequenza ma i documenti ufficiali danno questa conseguenza come molto probabile. Questo quadro anche se molto vago non è confortante e richiede un intervento immediato che dovrebbe tendere a un aumento della resilienza del sistema. È piuttosto improbabile che le nazioni si accordino su programmi comuni di mitigazione (malgrado gli accordi di Parigi) per cui l’unica strada percorribile oggi sembra quella dell’adattamento. Gli interventi principali dovrebbero riguardare la realizzazione di invasi naturali per mitigare gli effetti di siccità sempre più frequenti. La siccità avrà effetti importanti anche sulle riserve di acqua potabile per cui sarà necessario un drastico miglioramento delle relative infrastrutture. Altri esempi di strategie di adattamento riguardano la pianificazione nell’uso dei suoli (in relazione ad alluvioni e frane), l’edilizia (isolamento termico), le infrastrutture legate al trasporto (porti, ponti, strade). Questi interventi richiedono tempi diversi legati alla loro realizzazione e in alcuni casi possono arrivare a diverse decine di anni e per questa ragione vanno programmati per tempo. Per l’Abruzzo un problema particolarmente pressante è quello legato al turismo montano invernale. In presenza di accumuli di neve sempre meno abbondanti le stagioni sciistiche saranno sempre più brevi e quindi la scelta che si impone è che questo importante settore economico si trasformi rivalutando il trekking, l’escursionismo, i soggiorni salutistici. La necessità di risparmiare energia e risorse idriche non raccomanda pratiche di innevamento artificiale. Un altro problema della nostra regione riguarda l’agricoltura e la produzione zootecnica. Estati sempre più calde, disponibilità di acqua sempre più scarsa, richiederanno un adattamento delle pratiche agricole. La regione si deve immediatamente porre questi problemi e non farsi trovare completamente impreparata come invece è successo con gli incendi questa estate. Questi saranno sempre più frequenti e distruttivi. E’ assolutamente necessario che le strategie di adattamento (e di mitigazione) siano elaborate di concerto con le iniziative internazionali da personale qualificato che provenga dai centri di competenza della regione.

Professore Emerito presso l’Università dell’Aquila e membro dell’Accademia dei Lincei. Si occupa di ricerche sull’atmosfera e il clima. In settembre Springer ha pubblicato il suo libro: Problems, philosophy and politics of Climate Science

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PIERLUIGI VISCI

NON FUMIAMOCI UNA RISORSA

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Era già tutto scritto. Come per il “nevone” a gennaio. Come per l’hotel Rigopiano a febbraio. E come per le tante, troppe tragedie ambientali, anche i roghi che ad agosto hanno ridotto in cenere seimila ettari di superfici boscate e non boscate in Abruzzo, un terzo delle quali in aree protette di particolare pregio naturalistico, non sono conseguenze di straordinarie emergenze, di catastrofi impreviste e imprevedibili, di eccezionali “ribellioni” della Natura, di “vendette” contro l’Uomo. Semmai di violenze dell’Uomo sulla Natura. Anche in questo caso, la Natura è solo vittima. I dieci giorni di fuoco e distruzione, con le spettacolari immagini che quest’estate passavano nei Tg all’ora di cena, sono già, ormai, un pallido ricordo. Non c’è più un cenno nei notiziari radiotelevisivi, una riga sui giornali, neppure quelli locali, e le agenzie di stampa hanno cessato di sfornare i bollettini di guerra di roghi e fronti aperti e penetrati come burro fuso. Neanche i fuochi ottobrini della California, con morti, feriti e 40 mila ettari di vigne ridotti in cenere nella Napa Valley, a nord di San Francisco, hanno avuto l’effetto di attualizzare le nostre devastazioni agostane. Il presidente della Regione non dichiara più e, in assenza di una politica virtuosa e sensibile, ci affidiamo al procuratore di Sulmona, Giuseppe Bellelli, che ha trasformato l’iniziale indignazione in un silenzio certamente operoso, foriero di imminenti definizioni istruttorie e processuali, dando seguito alle promesse di usare il pugno di ferro contro piromani materiali e piromani morali (mandanti), ma anche nei confronti dei tanti responsabili istituzionali a dir poco distratti. Ma non c’é bisogno di pugni di ferro o sentenze esemplari, basterebbe applicare senza sconti (attenuanti) l’articolo 452 quater del Codice Penale, che disciplina il disastro ambientale, con previsione di pene da 5 a 15 anni di reclusione, per i responsabili di reato doloso (piromani) e colposo (gli inadempienti). E’ vero che in larga misura (salvo l’evento iniziale, quello sciagurato raduno a Fonte Vetica sul Gran Sasso) il fuoco che ha distrutto i nostri boschi ha matrice dolosa. Disse allora il procuratore: “Non vedo nulla di casuale dietro i roghi sul Morrone oppure a Prezza e in tutti gli altri posti della Valle Peligna dati alle fiamme”, tanto da ipotizzare “un unico disegno criminoso”. Un filo rosso. L’opera incendiaria é stata scientifica: i seminatori di fuoco hanno prodotto inneschi nei punti più impervi per l’opera di spegnimento, con una strategia quasi militare per confondere, disorientare, separare i soccorritori, impedendo loro di circoscrivere le fiamme o ritardarne l’iniziativa. Professionisti dell’innesco e verosimilmente professionisti del suo opposto, di tutt’altra (e salvifica) operatività. I sospetti li lasciamo formulare alle forze dell’ordine e alla magistratura. Anche se da qualche parte è già stata avanzata l’ipotesi agghiacciante secondo cui, anche in Abruzzo, c’è stato “sostanziale disinteresse” nelle attività di prevenzione, favorendo di fatto interessi privati di quanti operano, per interesse, nella gestione delle emergenze. Insomma, l’azione dei piromani doveva essere intercettata preliminarmente e comunque ridimensionata negli effetti catastrofici, se non neutralizzata, con un ordinario e ordinato lavoro di prevenzione, così come obbligano le leggi, invece disattese per ritardi, omissioni, insufficiente ed errata dislocazione di uomini e mezzi. Come fu, appunto, per il “nevone” di gennaio o l’hotel Rigopiano, in febbraio. E’ solo distrazione? E’ solo burocrazia miope e pachidermica? Ricordiamo appena i dati che fanno dell’Abruzzo la Regione Verde d’Europa: 438.590 ettari di patrimonio forestale, il 40,6% dell’intera superficie regionale. In percentuale più del Piemonte o della Toscana. Le nostre aree protette (Parco Nazionale d’Abruzzo, Gran Sasso e Monti della Laga, Majella, Sirente-Velino, solo per citare le maggiori e più note) rappresentano un patrimonio naturalistico straordinario, tanto per la flora che per la fauna, da rappresentare ormai una attrattiva internazionale, con ritorno economico e di benessere salutistico per le popolazioni abruzzesi. Patrimonio non solo di noi abruzzesi, ma dell’umanità intera. Dovremmo proteggerlo questo patrimonio, invece, da anni, siamo inadempienti se è vero che il fuoco di questo 2017 è addirittura di minore violenza rispetto a quello del 2007 (assolutamente dimenticato) e che da quell’anno al 2016 abbiamo

perduto 15 mila ettari di superficie boscata, il 3,5% del complessivo. Abbiamo distrutto vegetazione, paesaggio, ambiente, migliaia di animali, milioni di insetti. Formidabili biodiversità in aree delicatissime. E messo a repentaglio la salute degli abitanti, come denunciano i medici della Valle Peligna. Tutto già scritto, allora. Anzi: “Abbondantemente previsto e segnalato sia dagli esperti che dalla Protezione civile nazionale”. Rischio incendi addirittura “più alto del passato”. Lo afferma il “Rapporto di Italia Nostra”, stilato a settembre, a pochi giorni dai roghi. Delinea un quadro di inefficienze, ritardi, responsabilità istituzionali e operative da far impallidire. E vergognare. All’inizio di giugno l’allora capo della Protezione Civile Fabrizio Curcio denunciava che, a fronte di temperature già oltre la soglia stagionale, sei regioni, tra cui l’Abruzzo, erano prive di adeguati mezzi aerei. Si era levata anche la voce del Conapo, sindacato dei Vigili del Fuoco, che richiamava l’attenzione sull’assenza di convenzioni per affrontare e potenziare il servizio antincendi. L’associazione “Nuovo senso civico” quasi si rallegrava che l’allarme, in questo caso, fosse arrivato prima di eventuali sciagure. Tranquillizzava (28 giugno) il presidente Luciano D’Alfonso, perché la Regione si era attivata per la prevenzione antincendio: già a maggio era stato attivato il tavolo tecnico con i Vigili del Fuoco. Invece, al contrario, è proprio la Regione “l’imputato” principe. Perché a lei spetta il “governo del territorio” e la “valorizzazione dei beni culturali e ambientali” (articolo 117 della Costituzione), con potestà legislativa esclusiva. Che si è tradotta nella legge regionale 3/2014, il cui Capo III è dedicato completamente alla difesa dei boschi dagli incendi. Si tratta, in sostanza, del Piano Regolatore dei boschi e della sua manutenzione, attraverso fasce tagliafuoco, per il quale dovevano attivarsi Comuni, Enti Parco ed altre istituzioni delegate alla gestione del patrimonio boschivo. Dopo 3 anni e mezzo dall’entrata in vigore della legge, un solo ente si è dotato di un piano dei boschi: il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio, Molise. Sarà un caso: il PNALM non è stato toccato dalle fiamme, ad agosto. La stessa Regione è inadempiente per il piano regionale delle foreste, mentre il Piano di Sviluppo Rurale 2014-2020 mostra plasticamente il disinteresse per la tutela delle aree boscate: su 432 milioni di fondi stanziati, solo 3 milioni (0,7%) sono destinati a investimenti a protezione delle superfici forestali (cosiddetta misura 8.3.1.). Si aggiungano lo smembramento delle autorizzazioni ai tagli boschivi trasferite a chi si occupa di agricoltura e nulla sa di foreste e la separazione dal settore forestale degli usi civici (pascoli e foreste) per completare un quadro di insufficienze. Potremmo aggiungere le carenze di operatori qualificati nelle attività antincendio, specie dopo l’abolizione del Corpo Forestale dello Stato e il trasferimento di uomini e competenze ai Vigili del Fuoco e ai Carabinieri; i mille uomini che mancano all’appello; la carenza di mezzi aerei (un solo elicottero con secchione da mille litri a Pescara, fino a due anni fa d’estate c’era anche un aereo con 10 mila litri anche a Preturo. Poco, ma meglio che ora). E poi, l’inquinamento atmosferico, le mire della speculazione, gli stessi enti parco che vigilano poco e forse male, come dimostra il raduno di Fonte Vetica, senza neppure un mezzo antincendio allertato. Eppure, come si dice, dal male può venire il bene. Il disastro del 2007 (con 75 mila ettari in fumo in tutta Italia) indusse esperti e istituzioni a studiare nuove terapie per la cura delle foreste violentate dal fuoco. Come, e sembrerà un paradosso, quello di appiccare roghi ai tappeti di foglie secche per “pulire” il sottobosco da scorie pericolose, fonte di pericolo e di fiamme. Fuoco contro fuoco, insomma, ultima frontiera del servizio antincendio della Regione Toscana. Occorre, poi, lasciare che la Natura curi sé stessa, le sue ferite. Da 400 milioni di anni le foreste fanno i conti con il fuoco e hanno imparato a rigenerarsi, perché i boschi bruciati non sono luoghi morti. E, come spiega il ricercatore torinese Giorgio Vacchiano, dovremmo cominciare a imparare a utilizzare di più il legno dei nostri boschi: avremmo meno incendi e anche una possibilità di vita e lavoro nei comuni montani che sempre di più si vanno spopolando. Coraggio, allora.

Giornalista, si è occupato di cronaca giudiziaria (la P2, Tangentopoli, la camorra di Raffaele Cutolo, il maxiprocesso a Cosa Nostra istruito da Falcone e Borsellino) e di politica guidando la redazione romana di Il Resto del Carlino, La Nazione, Il Giorno. E’ stato direttore responsabile di Quotidiano Nazionale, Il Resto del Carlino e ilrestodelcarlino.net. Scrive sul periodico di politica e cultura liberaldemocratica Libro Aperto e segue la società di comunicazione ed editoria Musica e Parole, che ha fondato col figlio Lorenzo nel 2012

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QUANDO LA BELLA A LEONARDO

di Fabrizio Masciangioli

Il quadro più famoso, visto e studiato della storia riserva ancora sorprese. Roberto Paolucci, appassionato d’arte, dopo anni di osservazioni e studi ha scoperto che il genio di Vinci ha incastonato il sorriso della Gioconda fra le rocce del Gran Sasso

Nel quadro più affascinante del mondo, la Gioconda, c’è un pizzico di suggestione delle montagne abruzzesi che fanno da sfondo all’enigmatico ritratto di Leonardo. La tesi ardita, intrigante e ben documentata è di Roberto Paolucci, aquilano, da sempre pittore per passione, amante della rappresentazione del paesaggio dal vero e cultore di storia dell’arte. Nel tempo ha anche acquisito una certa esperienza nel campo della grafica e della fotografia. Lo conferma lo studio fatto sul volto della Sacra Sindone la cui immagine è stata elaborata con particolari filtri 14

in modo da ottenere un risultato di grande nitidezza, esposto a Torino nel museo nazionale dedicato alla misteriosa effige del Cristo. Ma torniamo alle ricerche incentrate sulle opere di Leonardo da Vinci che impegnano Roberto Paolucci da molti anni e che lo hanno rafforzato nella convinzione della presenza in Abruzzo del grande artista rinascimentale nella prima decade del Cinquecento e della sua particolare attenzione verso i paesaggi montani della nostra regione.


APPARVE

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“Intanto la presenza di Leonardo ( 1452- 1519 ) non sarebbe un caso isolato, nel periodo che va dalla seconda metà del Quattrocento fino agli anni venti del Cinquecento, la città dell’Aquila fu meta dei massimi artisti del Rinascimento italiano “, ci dice Paolucci facendo riferimento ad un manoscritto del 1589, L’ istoria sacra delle cose più notabili della città dell’Aquila, di Giovan Giuseppe Alfieri, chierico di una nobile famiglia aquilana del XVI secolo, che illustra le bellezze architettoniche e la ricchezza di opere d’arte di alcune chiese aquilane. “ Le pitture et opere di scultura degne di grandissima meraviglia uscite dalle mani dei più famosi maestri che habbi hauto L’Italia”, scrive Alfieri che poi si sofferma sulla chiesa di Santa Maria del Soccorso richiamando l’attenzione sulla statua lignea di San Sebastiano di Silvestro Aquilano (1450-1504), e sulla rappresentazione della “… natività di Nostro Signore dipinta in un tondo da Leonardo da Vinci famosissimo pittore”. Un’altra importante opera Alfieri la descrive all’interno della chiesa di San Silvestro: “…in questo luogo si vede La Visitazione di Santa Elisabetta in un quadro dipinto da Raffael di Urbino con quella perfezione della pittura che egli ha mostrato sempre in ciascun’altra ...”. Una traccia interessante è anche il rapporto fra Leonardo e Silvestro Aquilano sul quale i critici d’arte hanno poco indagato. Carlo Pedretti, noto storico delle vicende leonardesche, in un suo elzeviro sul Corriere della Sera dal titolo Il mistero del bimbo dagli occhi di vecchio, ha messo in luce il connubio tra l’arte fiorentina e quella aquilana quattrocentesca, menzionando proprio lo scultore Silve16

stro Aquilano in riferimento ad un busto in terracotta di un Cristo fanciullo attribuito a Leonardo: “In questo caso sarà opportuno valutare anche il ruolo dell’ancora misterioso Silvestro Aquilano, lo scultore abruzzese presente in Toscana e perfino in contatto col Verrocchio, maestro di Leonardo, e che ritornato nelle sue terre, avrebbe diffuso immagini sacre dove è chiara l’eco di un modo nuovo di rappresentare la divinità, quella appunto che Leonardo, a Firenze prima e poi a Milano, avrebbe espresso attraverso l’umanità dei suoi personaggi” Una serie di indizi,dunque, confermerebbe la tesi della presenza e dell’influenza di grandi protagonisti dell’arte rinascimentale nell’aquilano. Ma l’attenzione sulla possibile attribuzione al genio di Vinci di una serie di disegni riguardanti scorci di paesaggio montano nei dintorni dell’Aquila,si accende dopo la lettura, proprio sulla rivista Vario, di un articolo del professor Franceschilli dal titolo Quando Leonardo disegnò il Gran Sasso. Il testo era corredato anche da un disegno leonardesco di montagne che Franceschilli aveva visto presso la Royal Library of Windsor a Londra ritenendo di riconoscere in quell’immagine il profilo della grande montagna abruzzese. Inoltre lo studioso pescarese, spulciando fra i manoscritti di Leonardo, era venuto a conoscenza di un viaggio fatto dall’artista in Abruzzo in compagnia di un certo Paulo Trivultio che “... tene un fondaco per a vennere le pezze de la lana che fa arrivare a Milano a a li Abruzzi a a lo paese che se chiama Solmona ”. E ancora Leonardo annota di aver eseguito su richiesta del Trivultio piccoli dipinti “...sopra a le maioliche che se fa fabbricare a Castelli de li Abruzzi dove se


Nelle immagini: i disegni di Leonardo e le foto prese dallo stesso luogo; sotto, la Gioconda con i desegni del paesaggio di fondo e la foto della roccia disegnata; a lato, Roberto Paolucci sul Gran Sasso

fabbricano le maioliche più belle de lo munno”. A questo punto Roberto Paolucci comincia le sue ricerche per accertare in concreto in quale punto del territorio Leonardo si fosse recato per realizzare quei disegni. Fotografa sistematicamente tutti i paesaggi che possano mostrare somiglianze con le opere leonardesche e pian piano ottiene i primi risultati. “Avendo intuito che si trattava del Gran Sasso visto dal versante aquilano, mi sono spostato in vari luoghi fino a quando ho potuto notare un certo allineamento di punti precisi rispetto ai quali si realizzava una coincidenza fra il disegno del poliedrico artista e il paesaggio reale delle vette montane che avevo di fronte. Proseguendo le mie verifiche ho individuato una ulteriore coincidenza con un altro paesaggio del Gran Sasso che, secondo me, rappresenta Corno Grande visto dalla piana di Campo Imperatore. Visionando, poi, altri schizzi, che raffigurano scorci di zone rocciose, ritengo di aver scoperto il luogo dove Leonardo si è posto per realizzare l’immagine presa in esame dal professor Franceschilli. Si tratta del paesino di Bagno, a circa sette chilometri dalla città dell’Aquila, situato sul lato opposto della conca aquilana rispetto al Gran Sasso. Un canalone di montagna, denominato Madonna delle Canale, con i lati frastagliati di rocce che si susseguono in un paesaggio incontaminato e straordinario”. Insomma tante coincidenze tra rappresentazione e realtà, tante conferme sorprendenti come quella di un sistema roccioso che coincide con il paesaggio che fa da sfondo alla celebratissima Gioconda. Un’altra traccia interessante, circa le reciproche influenze nell’ambito dell’arte rinascimentale, ci porta in una

diversa zona dell’aquilano dove si trova un complesso di rocce che il pittore aquilano Saturnino Gatti (1463 - 1518) ha riprodotto negli affreschi realizzati nel 1490 all’interno della chiesa di San Panfilo a Tornimparte. In questo caso la somiglianza riguarda alcuni disegni giovanili di Leonardo. Certo fino ad oggi non esistono né documenti inconfutabili né lavori critici di riconosciuta autorevolezza che possano puntellare con certezza le appassionate ricerche di Roberto Paolucci. Esiste però un indizio storico importante avvalorato da Raffaele Colapietra, il massimo studioso delle vicende aquilane e non solo, secondo il quale il Regno di Napoli nei primi anni del Cinquecento rientrava nei piani di conquista di Cesare Borgia. E proprio in quel periodo Leonardo da Vinci era al seguito del Borgia che potrebbe averlo inviato in Abruzzo per studiare la situazione territoriale del futuro campo di battaglia. Un percorso storiografico tutto da esplorare ma anche in questo caso Paolucci può spezzare una lancia in suo favore. “ Mi hanno sempre stupito alcuni rilievi topografici del monte che sovrasta il canalone roccioso sul lato sinistro della Madonna delle Canale, di cui ho già parlato. In questi disegni, facenti parte del Codice Madrid, Leonardo ha tracciato una strada che taglia orizzontalmente i valloni circostanti, fino a raggiungere quasi la sommità dell massiccio dove ha raffigurato un castello. Una struttura fortificata genialmente incastonata in una zona impervia e dal paesaggio mozzafiato. Dalla fortezza che si sarebbe dovuta realizzare in quel punto della montagna, infatti, era possibile controllare visivamente un vasto territorio, compreso quello della città dell’Aquila” 17


NATURA

PRIMA DELL’ORSO FU L’ELEFANTE In principio fu il Mammut. Elefanti, ippopotami, rinoceronti: questi erano i grandi mammiferi che popolavano nel Pleistocene il nostro territorio come testimoniano i resti fossili ritrovati e restaurati

di Peppe La Spada

E

’ una storia che viene da lontano quella dell’Abruzzo e degli elefanti. Esattamente dall’800. Le prime segnalazioni sono in provincia dell’Aquila e si devono a Giambattista Brocchi nel 1818 e a T. Bonanni nel 1872 che riportano rinvenimenti di resti fossili di elefante a Pagliare di Sassa, nelle vicinanze della chiesa di San Pietro. L’ultima difesa (zanna) di elefante antico “Palaeoloxodon antiquus” è esposta al pubblico dal 19 luglio a Città Sant’Angelo presso il Museo Luigi Chiavetta, a 40 anni dal suo ritrovamento, avvenuto in Contrada Fonte di Moro durante i lavori per la costruzione dell’autostrada Adriatica e dei successivi lavori condotti dai proprietari del terreno per l’impianto di un vigneto. E’ il Mammuthus meridionalis “vestinus” conservato a L’Aquila, ed esposto dal 1960 nel bastione est del Forte Spagnolo, l’esemplare più conosciuto e integro nella sua struttura scheletrica. Rinvenuto nel 1954 in località Madonna della strada, nel comune di Scoppito a circa 15 chilometri dall’Aquila. Datato a circa un milione e trecentomila anni fa (Pleistocene inferiore) rappresenta uno fra gli esemplari più completi rinvenuti in Europa; supera i 4 metri di altezza al garrese, era un maschio di 50-55 anni, pesava 10 tonnellate e lungo 7 metri dalla punta della difesa all’estremità della coda. Nel 2013 l’allora Direzione Regionale per i beni culturali dell’Abruzzo ha avviato un complesso intervento di restauro del Mammuthus, grazie al contributo straordinario di tutto il personale della Guardia di Finanza, che autotassandosi ha voluto lasciare un segno tangibile alla città dell’Aquila dopo il sisma del 2009. Appena conclusa la fase di risanamento e allestimento 18

della sala del Forte spagnolo, il mammut sarà di nuovo visitabile; nel frattempo è possibile consultare il sito http://www.mammuthusmuseo.com/ e avere le informazioni complete dal ritrovamento fino al recente restauro. La catalogazione sistematica dei resti di elefanti fossili inizia nel 1940 e oggi se ne contano circa 30, sparsi tra le provincie di Chieti, L’Aquila e Pescara risalenti tra 1.300.000 e 100.000 anni fa, ovvero tra la fine del Pleistocene inferiore e l’inizio del Pleistocene superiore. All’epoca più antica appartengono sia il Mammuthus conservato a L’Aquila, così come l’esemplare rinvenuto a Giuliano Teatino nel 1973, del quale si conservano la difesa e la mandibola, esposto al Museo Geopaleontologico Alto Aventino di Palena. I rinvenimenti dei giacimenti di elefanti fossili ci fanno immaginare un territorio molto diverso da come oggi lo conosciamo. Durante il Quaternario, tra 2.600.000 e 75.000 anni fa, l’Abruzzo era popolato da grandi mammiferi come i rinoceronti, gli ippopotami e gli elefanti. I loro resti fossili sono stati ritrovati nelle conche interne, occupate da estesi ambienti lacustri, lungo la fascia collinare, attraversata, come oggi, da ampie vallate fluviali e lungo la costa, dove erano presenti vaste paludi. I proboscidati hanno avuto origine nel Nord Africa e in varie fasi migratorie hanno raggiunto l’Asia, l’Europa, e le Americhe, queste ultime attraverso la Beringia, oggi stretto di Bering. Da alcuni anni esiste presso la Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio il Servizio Geologico e Paleontologico che ha studiato, catalogato e restaurato i resti di elefanti fossili rinvenuti in varie


località dell’Abruzzo, come nel caso della difesa esposta a Città Sant’Angelo che ha richiesto un lungo e delicato intervento di restauro. Le analisi dello stato di conservazione avevano rilevato una profonda frattura longitudinale e lo sfaldamento delle lamine concentriche di avorio fossile. Le operazioni di restauro si sono svolte in varie fasi: consolidamento strutturale profondo mediante infiltrazioni di collante fluido effettuate in più cicli; pulitura della superficie esterna con bisturi, specilli e impacchi di acetone; consolidamento e incollaggio delle lamine concentriche distaccate; ricostruzione di alcune parti mancanti; immersione in una soluzione consolidante; stuccatura e relativo trattamento cromatico delle parti ricostruite. Quello abitato dagli elefanti e’ un Abruzzo che difficilmente riusciamo a immaginare, se non attraverso la paleobotanica, che con le analisi del polline fossile, come ad esempio quelle eseguite nelle argille della cava di Madonna della Strada, dove è stato rinvenuto il mammut dell’Aquila, che evidenziano come intorno a 1.300.000 – 1.200.000 anni fa il paesaggio vegetale del bacino aquilano era caratterizzato da rigogliose foreste con varie specie di alberi che ora non vivono più in Italia. La scomparsa di queste specie si deve al ripetersi di cicli glaciali e interglaciali nel corso del Quaternario, ovverosia a climi complessivamente più caldi e umidi, o più freddi e aridi dell’attuale. Non è escluso che il futuro ci riservi nuovi rinvenimenti di elefanti in Abruzzo, semmai di specie diverse, come il mammut lanoso “Mammuthus primigenius” così da arricchire le informazioni scientifiche su un periodo così antico del territorio regionale. 19


LINO GUANCIALE

IL DIVO CHE SI CREDE UNA BUSTINA DI TÈ Re della fiction Rai, protagonista della scena teatrale più innovativa, sempre più richiesto dal cinema. L’attore abruzzese passa di successo in successo ma rimane legatissimo alle sue radici, soprattutto ad Avezzano e al suo Teatro dei Marsi. E per definirsi usa un’immagine a dir poco sorprendente. di Francesco Di Vincenzo

«A

teatro, prima di entrare in scena io mi sento una bustina di tè». Una bustina di tè. «Sì, una bustina di tè che se ne sta lì, inutile e sola nella sua confezione». Lino Guanciale, l’interprete delle fiction Rai di maggior successo delle ultime stagioni, il rigoroso uomo di teatro impegnato da anni nella sperimentazione di innovative forme di rappresentazione, il sempre più richiesto volto cinematografico che gira un film dopo l’altro, il divo sexy e intellettuale a suo agio su Sorrisi e Canzoni e Vanity Fair come nei talk show di Floris e Berlinguer, l’attore che può rifiutare di subentrare a Terence Hill nel ruolo di Don Matteo: ebbene, questo acclamato, stimato, amato, richiestissimo, invidiatissimo big dello spettacolo sulla cresta dell’onda si sente una bustina di tè. «Sì, ma quando entro in scena e avverto che la mia recitazione, le mie parole, i miei gesti iniziano a smuovere il pubblico, a catturarne l’attenzione, per poi emozionarlo, indignarlo o soltanto divertirlo, quella bustina di tè esce dall’inerzia e dalla solitudine e immergendosi in una tazza d’acqua bollente finalmente agisce, si scioglie, muta il suo stato e quello dell’acqua che l’accoglie nel suo bollore donandole colore, sapore e aroma».

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uanciale tratteggia questo singolare autoritratto senza mostrare compiacimento per la paradossale similitudine e senza sottolinearne gli indizi erotici. Sa bene, naturalmente, che il rapporto attore – pubblico ha un’evidente consonanza con la relazione amorosa, e sa che, a questo proposito, nel suo ambiente l’ammicco cazzuto è sempre in voga («Umberto Orsini, mio raffinato collega e maestro, mi diceva: caro Lino, il pubblico

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è femmina»). Egli, quella consonanza la descrive con passione e finezza: «Quando sono sulla scena avverto un flusso di sensazioni fra me e il pubblico che ha l’incanto dello scambio amoroso. C’è un istante in cui m’accorgo che la gente s’immedesima in me, è con me, io non sono più solo, non sono più una bustina di tè. È un momento magico, perfetto, in cui assaporo pace, serenità, felicità, come se mi fosse concesso di godere, insieme con il pubblico, un lungo attimo d’eternità».

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na bustina di tè. L’impressione è che quell’immagine gli si sia presentata alla mente prima d’ogni suo possibile significato, come un’inconscia, iconica rappresentazione di quel “desiderio rimosso” (parole sue) che ha caratterizzato il suo rapporto con il teatro prima che si decidesse a farne la sua scelta di vita . «Il desiderio di recitare, di fare teatro, l’ho sempre avuto ma l’ho sempre negato, rimosso. Ero una bustina di tè che si tiene lontana dall’acqua calda, condannandosi, così, all’inutilità, all’irrilevanza, alla solitudine. Era così con le ragazze. Ero carino, piacevo e lo sapevo, ma ero timido, introverso. Ho avuto un’adolescenza segnata da necessità insoddisfatte. A volte provavo a fare il disinvolto, ci riuscivo anche. In realtà, recitavo. Avevo difficoltà a rapportarmi con gli altri, ad uscire da me stesso, ad aprirmi». Lei ha un fratello psicologo. «Sì, Giorgio». Si sarà confidato con lui. «Dice che mi devo accettare così come sono». Cioè una bustina di tè. «(ride) Sì, una bustina di tè che cerca nell’acqua calda il suo momento di felicità».



P

resa la maturità al liceo scientifico Vitruvio Pollione di Avezzano, Lino Guanciale supera il test per l’ammissione alla facoltà di medicina, a Roma. La medicina sembra una strada obbligata per lui: il padre Clelio è medico. Invece, si iscrive alla facoltà di lettere e filosofia, ma pco dopo fa la sua vera scelta: s’iscrive al corso di recitazione dell’Accademia d’arte drammatica “Silvio D’Amico”, dove si diploma nel 2003. «Fu solo in Accademia che mi resi conto di quanto autentica e profonda fosse la mia passione per il teatro e che, pur con tutte le mie difficoltà, potevo farlo, ne ero capace. Potevo immergermi nell’acqua bollente».

gli affida il ruolo di coprotagonista al fianco di Umberto Orsini. Inizia così con Longhi un impegnativo percorso di ricerca e sperimentazione di nuove modalità teatrali, con l’obiettivo di realizzare un “teatro partecipato” che tiene d’occhio la lezione del rivoluzionario teatro totale del grande regista svizzero Cristoph Mathaler. Un teatro, quello di Longhi e Guanciale, che culmina ma non si esaurisce nella messa in scena, maì viene preparato e seguito da un rapporto profondo con il territorio di riferimento, in un processo di formazione e partecipazione del pubblico che sfocia in messe in scene memorabili come Istruzioni per non morire in pace, su testo di Paolo Di Paolo. Una smisurata maratona teatrale dove Guanciale interpreta ben dodici personaggi diversi. A gennaio del prossimo anno, Lino Guanciale e Claudio Longhi porteranno in scena per Emilia Romagna Teatri La classe operaia va in paradiso, una rielaborazione drammaturgica di Paolo Di Paolo dalla sceneggiatura del famoso film di Elio Petri del 1971.

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fatti gli danno presto ragione. Lavora con Gigi Proietti, Franco Branciaroli, Luca Ronconi, Walter Le Moli, Massimo Popolizio e altri teatranti di prim’ordine. Intanto fa le sue prime esperienze nel cinema facendosi notare da un regista di gran nome, lo spagnolo Carlos Saura che nel 2009 lo chiama per interpretare il ruolo di Mozart nel film Io, Don Giovanni, sulla vita del grande librettista mozartiano Lorenzo Da Ponte. Nello stesso 2009 recita con Riccardo Scamarcio e Giovanna Mezzogiorno in La prima linea, del regista Renato De Maria. Negli anni successivi lavora con Michele Placido in Vallanzasca (2010), al fianco di Toni Servillo in Il gioiellino (2011), è nel cast di Il mio domani di Marina Spada (2011), poi in To Rome with Love di Woody Allen (2012), La scoperta dell’alba (dall’omonimo romanzo di Walter Veltroni) di Susanna Nicchiarelli (2012), Il volto di un’altra di Pappi Corsicato (2012), L’ombra di Caino di Antonio De Palo (2016), è il protagonista in Happy Days Motel di Francesca Staasch (2014) e di The Space Between della regista Ruth Borgobello (2017). In novembre è uscito La casa di famiglia di Augusto Fornari, con Lino Guanciale protagonista. Entro la primavera del 2018 uscirà Arrivano i prof, una commedia d’ambiente scolastico, in cui al fianco di Guanciale ci saranno Claudio Bisio e Maurizio Nichetti. Una carriera cinematografica di cui Guanciale parla poco, nonostante la nutrita filmografia e i sempre più frequenti ruoli da protagonista. Il suo grande amore rimane il teatro.

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el 2011 incontra il regista Claudio Longhi, oggi direttore dell’Emilia Romagna Teatri, che mette in scena La resistibile ascesa di Arturo Ui di Bertolt Brecht e

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l 25 marzo 2018 Lino Guanciale sarà al Teatro dei Marsi di Avezzano per dare voce, accompagnato dal soprano Giulia De Blasis, a un melologo tratto da L’avventura di un povero cristiano di Ignazio Silone musicato da Paola Crisigiovanni, compositrice e pianista avezzanese di ottima quotazione nazionale, che ha curato anche la riduzione del testo. Ma l’appuntamento di marzo non è un ritorno a casa per Lino Guanciale: si può dire che lui, da casa, cioè da Avezzano, non sia mai andato via, tanta è la frequenza e l’intensità dei rapporti che intrattiene con la città dov’è nato 38 anni fa. Non si fa mai pregare per partecipare ad incontri nelle scuole, eventi di beneficienza, spettacoli delle compagnie locali e quant’altro gli venga richiesto dai suoi concittadini: ha perfino prestato (gratuitamente) la sua voce a un video promosso dagli alpini di Avezzano per celebrare il cinquantenario della posa della Madonnina sulla vetta del Velino. Dopo essere stato per alcuni anni membro dell’Ufficio comunale di Avezzano che organizza e gestisce le stagioni del Teatro dei Marsi, da quest’anno ha accettato di diventarne il responsabile, subentrando all’avvocato Giampiero Nicoli, un professionista avezzanese che con passione e competenza ha ridato slancio al teatro marsicano. Perché? Perché Lino Guanciale, attore di grande successo e impegni crescenti, accetta di occuparsi del teatro di un piccolo centro come Avezzano? «Potrei rispondere perché amo Avezzano e amo il teatro. Ma sarebbe una risposta, in fondo, solo sentimentale, anche se a me non dispiace esserlo. Il vero motivo, quello oggettivo non solo soggettivo, è che il Teatro dei Marsi può diventare uno dei teatri più importanti del centro-sud, ed in parte già lo è. Ha un pubblico in crescita: i 6800 spettatori della stagione 2015-2016 sono diventati nel 2016-2017 quasi 10000. Sono dati decisamente in controtendenza nel panorama nazionale, grazie soprattutto all’ottimo lavoro svolto in questi anni dall’avvocato Nicoli, cui dovrebbe andare la gratitudine d’ogni avezzanese. È giusto riconoscergli anche il merito di buona parte del cartellone 2017-2018. Un cartellone di ottimo livello, con nomi come Ottavia Piccolo e Umberto Orsini, ma anche Lorella Cuccarini e Giampiero Ingrassia: insomma, un accorto mix di teatro colto e di teatro leggero di qualità.


Il pubblico in crescita, la buona qualità degli spettacoli, la funzionalità tecnica del Teatro dei Marsi, da migliorare ma già buona, la vicinanza a Roma, sono fattori che fanno di Avezzano una “piazza” sempre più ambita anche da importanti teatri pubblici nazionali e dalle maggiori compagnie private. Mi sembrano tutti ottimi motivi perché un uomo di teatro con un minimo di lungimiranza, per di più marsicano, voglia occuparsi del Teatro dei Marsi e contribuire alla sua crescita ulteriore».

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n televisione Lino Guanciale arriva, paradossalmente, mosso dal suo amore per il teatro. E per i John Jack Wings. «(ride) Già. Io non ho mai amato molto gli stivali, ma un giorno a Roma, in una vetrina di via del Corso ne vidi un paio di pelle nera con punta a freccia e arabeschi in rilievo: fu amore a prima vista. Scoprii che erano i famosi John Jack Wings. Li pagai una cifra che allora non potevo permettermi, tant’è che dopo pochi mesi fui costretto a rivenderli su eBay. Era sempre più dura cavarsela con i soldi che guadagnavo in teatro e nei pochi film che facevo allora. Fu Claudio Longhi a dirmi: senti ma con il fisico che ti ritrovi, con la tua faccia carina, perché non provi con la televisione? Guadagni di più e magari potrai anche far conoscere di più il nostro teatro. Se diventi famoso va meglio per tutti». Famoso lo è diventato, eccome. Il suo debutto in televisione avviene nel 2011, nella fiction Rai Il segreto dell’acqua. Negli anni seguenti, un successo dietro l’altro e ruoli sempre più importanti che l’hanno imposto all’attenzione del grande pubblico: da Una grande famiglia a Che Dio ci aiuti, a La dama velata, Il sistema, Non dirlo al mio capo, L’allieva, fino all’exploit di La porta rossa, la serie poliziesca ideata e scritta da Carlo Lucarelli andata in onda su Rai2 tra febbraio e marzo di quest’anno, di cui Guanciale è stato protagonista nei panni davvero insoliti di un commissario di polizia, Leonardo Cagliostro, che viene ucciso all’inizio della prima puntata ma rimane in scena per l’intera serie come un fantasma, visibile solo a una giovanissima medium, per indagare sul suo stesso assassinio. Una storia che evoca Ghost, il famoso film del 1990 con Patrick Swayze e Demi Moore, che Lucarelli cita con sorniona noncuranza nel nome della nuova droga sul cui traffico indaga da vivo e da morto il commissario Cagliostro: red ghost. «Il commissario Cagliostro è senz’altro il mio personaggio preferito tra quelli ho che interpretato finora in tv. Ho voluto fortemente quel ruolo, così nuovo e così complesso rispetto ai caratteri abituali nelle fiction nostrane. Le sue nevrosi, il suo carattere ruvido e intransigente fanno di Cagliostro una figura tragica che rifiuta di entrare nel regno dei morti e rimane tra i vivi per combattere il male in nome della legalità e dell’amore». Che cosa rimane in Cagliostro della bustina di tè? «Abbastanza». Cagliostro è un nevrotico, una bustina di tè che soffre di solitudine qualche nevrosi ce l’avrà anch’essa. «Sì, ma sono nevrosi tranquille, gestite in modo sicuramente più equilibrato del commissario Cagliostro».

Su www.vario.it una video intervista a Lino Guanciale

Nella pagina a fianco, Lino Guanciale fotografato da Paolo Neri sul palcoscenico del Teatro dei Marsi. In questa pagina, dall’alto: Lino Guanciale nelle fiction Rai La porta rossa e Che Dio ci aiuti; nei film I peggiori e La casa di famiglia; a teatro in Istruzioni per non morire in pace e Ragazzi di vita.

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ROBERTO PEDICINI

LA VOCE PRENDE FORMA Doppiatore di grandi attori internazionali e dei cartoni animati più amati, ora protagonista anche con il suo volto al cinema e in programmi radiotelevisivi

Testo e foto di Claudio Carella

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utti lo riconoscevano dalla voce, ora anche dalla sua immagine, e non solo a Pescara dove è stato premiato con il Ciattè d’oro, la massima benemerenza civica. Roberto Pedicini, doppiatore, attore di cinema e tv, e conduttore di successo in Radio freccia, emittente radiotelevisiva del gruppo RTL 102.5 dedicata alla musica rock. «Vivo nel presente, ma con il mio passato. La mia avventura iniziò quando avevo 15 anni a Pescara, con Gianni Lussoso, che mi concesse uno spazio su Radio 7giorni7. Era un programma di musica country rockwestern. Credo fosse una delle prime radio private italiane, era il 1978. Poi sono passato anche ad altre emittenti, finché la professione del doppiatore non mi ha assorbito completamente. Il nome della radio è quello del film di Ligabue che racconta l’epopea delle prime radio libere in Italia ma il progetto prende il via da un’altra “connection” cinematografica, quella di We Love Radio Rock: un bellissimo film inglese che narra la vicenda delle radio pirata, che trasmettevano rock’n’roll negli anni ‘60 da pescherecci e barconi al largo delle coste britanniche perché fuorilegge sulla terraferma. Lorenzo Suraci, l’editore, ha deciso il nome dell’emittente dopo un sondaggio, ma si era innamorato del film con Philip Seymour Hoffman, e voleva fare proprio quel tipo di radio, dove ognuno portava una proposta e poteva realizzarla. Infatti ci ha dato carta bianca nella costruzione di un palinsesto che prevede un programma ogni due ore, e alla programmazione partecipano anche nomi importanti come Federico Zampaglione, Paola Turci, Enrico Ruggeri, ma anche molti giovani che amano la radio e la vedono come un mezzo moderno». E il tuo ruolo qual è? «Ho sposato il progetto proprio perché mi dava la 24

possibilità di tornare alla musica, una passione mai sopita. Da tre anni mi sono rimesso a studiare come attore, partecipo a un laboratorio di recitazione, per esplorare a 360º il mondo nel quale ho avuto successo. Ho sempre desiderato fare il doppiatore, non è mai stata una scelta di ripiego rispetto al mestiere dell’attore. Da ragazzo ero timido e avevo problemi a mostrarmi in pubblico e il doppiaggio mi consentiva di mettere in gioco le mie capacità attoriali senza farmi vedere». Ma la radio non l’hai abbandonata completamente. «Ho avuto la fortuna di dare vita al personaggio di Jack Folla con Alcatraz di Diego Cugia su Radio2, dove c’erano autori e testi scritti, quindi un tipo di lavoro decisamente più attoriale, il personaggio doveva apparire come uno che parlasse a braccio ma in realtà leggevo 20-22 pagine di testi, non c’era nulla di improvvisato. Poi, 15 anni dopo, mi dicono “Roberto, ti va di fare un programma in radio?” e io mi sono detto: cazzo, che paura! Due ore al giorno, in diretta, dal lunedì al giovedì, e che gli racconto? Così mi sono inventato un personaggio, Bob (come Roberto) Revenant (il redivivo, dopo una vita trascorsa lontano dalla radio). E mi sono immaginato un contenitore nel quale infilare tutte le tematiche che mi piacciono, che ho chiamato “Arca delle arti e del libero pensiero”. Beninteso, si tratta di un programma di intrattenimento, niente psicanalisi o filosofia, nel quale parlo con gli ascoltatori di un tema che lancio di volta in volta. Ho parlato di erotismo, di fiducia, dei sette peccati capitali, dell’approccio che si può avere nei confronti del lavoro o della vita, così come di alimentazione o della pena di morte. Tutti argomenti che riguardano i rapporti umani, trattati con leggerezza. Le persone ascoltano, scrivono, telefonano; e per far sì che gli ascoltatori interagiscano bisogna creare empatia». Come fai a creare empatia, a suscitare interesse,



Roberto Pedicini riceve il premio Ciattè d’oro dal sindaco Marco Alessandrini, a destra, saluta la mamma presente nella sala del comune di Pescara

solo con la voce? «Mettendo in gioco le mie capacità di attore, o meglio le cose che ho appreso durante il percorso di studio che sto facendo in questi anni». Parliamo della tua voce, che Diego Cugia definiva “stracciamutande”. Qual è davvero la tua voce? «Nella mia carriera ho interpretato ruoli diversissimi tra loro, dando voce a personaggi grotteschi, comici, strampalati, sempre ai margini, spesso ambigui. Oggi invece ho abbandonato completamente l’ambiguità, perché l’attore deve essere diretto. Deve saper ascoltare, deve provare un sentimento e rimandarlo, e se sei ambiguo non riesci a restituire quel sentimento. Puoi piacere, ma è una captatio benevolentiae, non c’è sincerità; e solo se sei sincero e diretto crei empatia. Per esempio Kevin Spacey, che è l’attore al quale ho prestato più spesso la voce, interpreta quasi sempre ruoli molto ambigui, e in questa esperienza radiofonica ho dovuto abbandonare tutta questa ambiguità per evitare di attirare solo un certo tipo di persone. La sincerità è la chiave del successo, in radio. La voce, nel mio caso, è “bella”, ma non può essere quello su cui far leva per attirare pubblico, per creare l’empatia necessaria. Per capirci, un bell’attore come Brad Pitt non fa mai leva solo sulla sua faccia, cerca di arrivare al pubblico con altre cose, perché la faccia c’è già. Dirò di più: se Brad Pitt si atteggiasse a bello, sarebbe brutto. E se io in questo momento atteggiassi la mia voce, la modulassi per ottenere un consenso, non sarebbe più “bella”, sarebbe finta». La tua voce è bella, ma anche tu sei invecchiato bene. «Oltre alla radio, il lavoro dell’attore è quello che mi piace di più. Adoro recitare, e sono sicuro che in questo settore le raccomandazioni non servano: se sei bravo lasci il segno. Magari a un provino puoi essere scartato, e al posto tuo viene preso uno più bravo (ci sta), o più adatto di te a quel ruolo (e ci sta), o uno che è raccomandato (e ci sta molto meno). Ma se sei bravo lasci un rimpianto al regista, che si ricorderà di te e ti sceglierà appena possibile. Io voglio lasciare il segno, ma non ci riesco ancora perché sono un perfezionista. E infatti sono arrivato in finale a due provini, uno per la serie tv Gomorra e uno per Suburra, e sono sicuro che avrei potuto giocarmela meglio, ma essendo un maledetto Capricorno ho tutta una serie di paletti miei che mi impediscono di dare il massimo. E poi c’è il fattore memoria, un muscolo che non alleno da trentacinque anni avendo passato questo tempo a leggere davanti a un microfono. Con la voce mi sento padrone di me stesso, mi sento libero e posso dare spazio alla creatività, il corpo deve ancora lavorare molto per permettermi di raggiungere il livello di libertà che ho raggiunto con la voce. E proprio per questo ho preso molto seriamente il lavoro a Radiofreccia, perché 26

mi permette di fare un lavoro da attore, tutto basato sull’improvvisazione. Nel frattempo continui a dare la tua voce ai soliti grandi attori, che spesso ti assomigliano. Penso a Javier Bardem, di cui è uscito a settembre un nuovo film: “la madre“. «No, non sono gli attori che mi assomigliano, sono io che finisco per assomigliare a loro. Quando mi dedico al doppiaggio di un film vivo le loro emozioni a tal punto che quei personaggi mi entrano dentro, li indosso come una seconda pelle, e forse è ciò che mi ha garantito il successo in questo mestiere che di “arte” ne ha poca, essendo poco lo spazio creativo che ci viene concesso». Dal Tom Hulce di Amadeus al Kevin Spacey di House of Cards, passando per il Jim Carrey di Truman Show e il Ralph Fiennes di Schindler’s List. Qual è il personaggio che hai amato? «È una domanda alla quale non riesco a rispondere, malgrado mi sia stata posta spesso in tutti questi anni. La verità è che fin dal primo film che ho doppiato, ovvero Rusty il Selvaggio (in cui ho dato la voce italiana al Motorcycle Boy di Mickey Rourke), mi sono sempre innamorato dei film e degli attori che interpretavo. Quindi non riesco a scegliere, anche se uno dei miei preferiti è senz’altro Bardem. È un mostro, non fa mai due volte lo stesso ruolo, ogni volta dà vita a un personaggio diverso dai precedenti. Poi lui è uno che piace alle donne, eppure riesce ad essere il contrario di sé stesso, come in Non è un paese per vecchi o in Skyfall. Ricordo di averci parlato, con Bardem, quando venne a Venezia per la presentazione di Mare Dentro. Mi fece uno scherzo telefonico, con la complicità di Andrea Occhipinti che distribuiva il film con la sua Lucky Red. Per doppiarlo (il suo personaggio resta paralizzato dopo un incidente e recita praticamente per tutto il film sdraiato su un letto d’ospedale, con un filo di voce che manca quasi completamente di bassi) misi due sedie davanti alla postazione, sulle quali mi sdraiavo anche io tenendo la testa girata da un lato e senza muovere un muscolo. Una sorta di metodo Stanislawskij applicato al doppiaggio, e queste sono cose che non te le insegna nessuno, le vai a pescare nel tuo bagaglio culturale, nel tuo entusiasmo, nella passione per questo lavoro. Un altro al quale sono molto legato è Ralph Fiennes, che ho doppiato in Schindler’s list. E naturalmente anche gli altri che hai citato. Ecco perché non riesco a scegliere». E quando ti è capitato di dichiararti a qualche ragazza, che voce hai usato? «La voce dell’anima. La mia». La video intervista a Roberto Pedicini è pubblicata sul nostro sito www.vario.it


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IVAN BINNI

L’INVENTORE DI SUONI Bastano una scatola, un tavolino, una bottiglia o qualsiasi altro oggetto al percussionista di Sant’Egidio alla Vibrata per far nascere i ritmi che hanno stregato anche il pubblico televisivo di Francesco Di Salvatore La musica nel sangue. L’arte nel cuore. L’estro nel dna. Personaggio sui generis, unico al mondo, capace di regalare emozioni forti facendo leva esclusivamente sulla straordinaria abilità delle mani che trasformano in suoni incantevoli i contatti ritmici con ogni tipo di oggetto, dal più nuovo al più vecchio, dal più comune al più originale. Il percussionista ecologico, conosciuto e apprezzato anche oltre i confini nazionali, è un abruzzese: si chiama Ivan Binni, 38 anni, fisico d’atleta, nato a Nereto, cresciuto a Sant’Egidio alla Vibrata, nel Teramano. Le luci della ribalta per lui si sono accese presto. Su Canale 5 è stato tra i corteggiatori di “Uomini e donne”, celebre trasmissione di Maria De Filippi. Poi il rotocalco televisivo “Lucignolo” e un programma legato al concorso di Miss Italia. Al grande pubblico Ivan s’è presentato grazie a “Zona 11”, talk di musica e sport in onda su Rai Sport 1, tuttora format tv di successo con ascolti record. “L’uomo che tutto percuote” è stato definito dal giornalista Marco Mazzocchi, uno dei conduttori della popolare trasmissione, direttore del programma. Ivan produce musica a tutto campo, soprattutto al di fuori degli studi televisivi. Serate a tema nei luoghi più strani, quelli che creano atmosfera, stimoli, ispirazione. Nascono così concerti nei centri storici, alla biennale della ceramica, all’Expo di Milano, nelle discoteche, nei ristoranti, negli stabilimenti balneari, alla festa della donna, ai compleanni dei bambini, alle sfilate di moda, alla notte bianca, alle serate di Bacco, davanti alla chiesa storica di Amatrice danneggiata dal terremoto, in piazza, sui grandi yacht, nelle ville private e a tutte le latitudini. «Utilizzo materiale vecchio, riciclato, riadattato da mio padre Camillo - rivela Ivan - Sedie in disuso, bottiglie, armadi, botti, tavoli, scatole, timoni di navi, corde, campane, piatti, bicchieri, forchette, conche, quadri, cornici, piedistalli, scarpe, palloni, anfore, torchi, telai, carretti, ecc. , sono oggetti che si trasformano quasi per incanto in formidabili strumenti musicali a costo zero e dal suono inimitabile». 28

Ivan è nato a Nereto il 5 marzo del 1979 e si è formato culturalmente ad Ascoli Piceno dove ha frequentato l’Istituto alberghiero. Le sue passioni, nonostante il diploma che gli avrebbe offerto interessanti sbocchi occupazionali, non sono mai state però cucina e buona tavola. E proprio lontano da fornelli e ricette, sorretto da un incredibile mix di istinto musicale e genialità artigianale, è riuscito a inventarsi una professione unica nel suo genere, apprezzata in Italia e all’estero. Le sue performance musicali, meglio note come suoni degli antichi mestieri, hanno una caratteristica inconfondibile: nascono e si sviluppano attraverso vecchi oggetti dimenticati in soffitta o addirittura gettati in discarica che il padre Camillo, noto gallerista e abile ebanista santegidiese, recupera e riadatta prima di essere utilizzati per serate a tema. «Suonare per me è istintivo - confessa Ivan - Eseguo tutte le musiche del mondo utilizzando qualsiasi strumento. Bastano una scatola, un tavolino, una madia, una bottiglia, una botte, un cubo di legno per creare un’occasione irresistibile, dare sfogo al mio estro col ritmo del battito beatmusic e sfruttare quella sensibilità acustica che nella natura è sempre esistita. Mio padre mi ricorda spesso che a cinque anni suonavo in casa e nel suo laboratorio con tutto quanto mi capitava tra le mani. Creo generi diversi: dal rock al jazz, dal blues al rap, dalla latina a tutte le musiche del pianeta. Credo di aver ereditato questa attitudine dalla mia famiglia. Mi definisco un percussionista ecologico perché gli strumenti che prediligo sono sempre oggetti di riciclo provenienti dalla cultura contadina e prestati sapientemente alla musica. Una nuova frontiera che potrebbe contribuire a creare lavoro sfruttando vecchi mestieri, suoni di laboratorio e intelligenza artigianale». Dono naturale, miracolo musicale o prodigi di un autodidatta? «Forse un po’ tutto - sorride Ivan Binni - Una cosa è


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Uso le mani per lavorare su vecchi materiali che una volta riciclati servono per inventare musica, regalare emozioni, garantire divertimento e creare lavoro. Una piccola rivoluzione

famosi giocatori. Basta leggere alcuni nomi per capire il certa: non ho mai frequentato scuole o corsi musicali, né suo carisma e la sua autorevolezza: Yashin, Boniperti, suono strumenti classici. Fate voi. Di Stefano, Sivori, Mazzola, Rivera, Liedholm, Falcao, Un autentico dono di natura. Pascutti, Puskas, Charles, Altafini, Cerezo, De Sisti, Van Passo le mie giornate esercitandomi con le percussioni Basten, Burgnich, Boninsegna, Corso, Cruyff, Baggio, e allenandomi in palestra. Tengo alla forma fisica. Mi Capello. aiuta molto la fede: credo in Dio e vado spesso in chiesa, Il successo Ivan lo divide a al Santuario». metà col papà. Istinto puro. Mago delle «Il futuro è antico - riflette note, poeta della musica. Camillo Binni Uso I genitori di Ivan sono le mani per lavorare su Camillo Binni e Angela vecchi materiali che una Danesi; i nonni Renato volta riciclati servono per Binni, Vienna Catalini, inventare musica, regalare Luigi Danesi e Diana emozioni, garantire Spelta. I genitori dei divertimento e creare nonni materni emigrarono lavoro. Una piccola in Brasile; Diana Spelta rivoluzione». (nonno napoletano e zii E il pubblico ha più volte argentini) nacque a San dimostrato di apprezzare Paolo. le virtù di Ivan: applausi Il genio di famiglia si chiama e consensi sono arrivati Leone Binni, raffinato puntualmente in scultore, che nacque nel televisione e durante le 1903 nello stesso giorno serate che ha impreziosito di Ivan, il 5 marzo. Leone esibendosi in diverse città. Binni fu tra l’altro maestro «Persone di tutte le età gli di bottega di Camillo Binni, hanno fatto i complimenti papà di Ivan, accademico, in maniera incondizionata scultore del legno a Roma e disinteressata - aggiunge e autore di opere d’arte Camillo Binni - segno (una delle più importanti è tangibile di una proposta il lampadario della sala del musicale moderna e Mappamondo di Palazzo coinvolgente. Venezia). La tenacia e l’entusiasmo Il bisnonno Leonardo che lo sorreggono sono fu grande costruttore di armi indispensabili per mobili: suoi gli arredi del continuare a trasmettere Caffè Meletti di Ascoli sensazioni uniche». Piceno, uno dei 150 Caffè In occasione delle feste storici d’Italia. natalizie Ivan, animo Ivan è stato anche un buon sensibile e altruista, calciatore: ha giocato in pensa a una sorpresa da serie D, in Eccellenza e in Nelle foto: Ivan Binni con la sua infinita gamma di oggetti che suonano regalare alle popolazioni Promozione indossando le del Centro Italia colpite maglie del Rende, della dal terremoto. Vis Pesaro, della Maceratese, del Foligno, della Samb. Ha in mente infatti un concerto ad Amatrice, uno dei Da diversi anni vive tra Milano e Roma. centri più colpiti dal sisma. Un contributo intelligente E’ single e caratterizza serate in diversi locali della per manifestare solidarietà a una terra che tra mille Capitale, della Lombardia, di altre regioni e all’estero. disagi sta cercando di riscattarsi. Qualche strumento musicale per le sue esibizioni Successo assicurato prima ancora di esibirsi. proviene dalla prestigiosa bottega di Giuseppe Lupini, Bravo. detto Pippo, originario di Colli del Tronto, vecchio Auguri e buona fortuna. maestro nel settore delle calzature sportive. Pippo è noto per aver realizzato scarpette da calcio a 30


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MAURO BONASORTE

IL MISTER DEI CANARINI

Allenatore più che allevatore. I suoi atleti, con la divisa di piume colorate, hanno vinto sei campionati mondiali e nella mostra ornitologica internazionale di Reggio Emilia sette titoli italiani di Serafino Di Monte

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ulle ali dei canarini alla conquista del mondo. Non è un sogno, non è un film e non è neanche una favola. E’ la storia vera di Mauro Bonasorte, 57 anni, abruzzese, maresciallo della Guardia di Finanza in congedo, allevatore per hobby di uccellini di razza che in Spagna, sbalordendo tutti, ha ottenuto per la sesta volta il prestigioso titolo iridato. La sua incredibile passione per i canarini e la straordinaria tenacia nella cura meticolosa degli splendidi esemplari l’hanno consacrato autentico personaggio a livello internazionale. E con lui nell’albo d’oro figura l’Abruzzo che adesso può vantare il merito di produrre i canarini più belli del pianeta. Mauro Bonasorte vive infatti a Villa Penna di Campli, nel Teramano, dove ha realizzato, a due passi da casa, strutture moderne ed efficienti per ospitare con tutti i comfort mille canarini (dieci razze e duecento coppie che assicurano tra le settecento e le ottocento nascite durante l’anno) suddivisi in capi da esposizione e riproduttori. Paesaggio incantevole incorniciato tra le colline farnesi, aria salubre e quiete assoluta: in questo contesto ambientale sorge il regno di Mauro Bonasorte che, appesa la divisa nell’armadio dei ricordi, si è dedicato anima e corpo ai suoi canarini i quali oltre alle sei affermazioni mondiali gli hanno regalato anche cinque titoli italiani. E forse uno dei segreti del successo sta proprio nel fascino e nell’accoglienza del luogo, musa ispiratrice di artisti,

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ornitologi compresi. «Certo, l’ambiente è molto importante - rivela Mauro Bonasorte - Ho trasferito l’allevamento a Villa Penna di Campli proprio perché qui esistono tutte le condizioni tecniche e ambientali per lavorare bene. La quiete, il clima, l’assenza di condizionamenti esterni sono fattori indispensabili per ottenere risultati». Indescrivibile la soddisfazione per la vittoria di gennaio scorso ad Almeria, in Spagna, al 65° campionato del mondo al quale hanno partecipato oltre tremila allevatori. «Erano in lizza 24.000 canarini - sorride Mauro - Tre tra i primi quattro per quanto riguarda il fattore rosso sono stati piazzati da me». Ora lo sguardo è proiettato al prossimo campionato del mondo che si svolgerà dal 12 al 22 gennaio 2018 a Cesena con l’obiettivo di conquistare il settimo titolo. «Prima però - interviene Mauro - alle prove generali della settantottesima esposizione internazionale svoltasi dal 19 al 26 novembre nel cantiere fieristico di Reggio Emilia abbiamo conquistato sette titoli italiani schierando trenta meravigliosi canarini che si sono confrontati con 25 mila esemplari da tutto il mondo». Come è nata questa passione? «Diciamo che ce l’ho nel dna. Mio padre era un grande appassionato di ornitologia. Da lui ho ereditato l’interesse per l’allevamento di canarini, l’entusiasmo con cui va svolta l’attività ed ho appreso le tecniche di base. Un


Mauro Bonasorte con i suoi campioni del mondo e con il figlio Cristiano nella casa di Villa Penna di Campli in provincia di Teramo

ruolo fondamentale l’ha avuto anche un giudice di gara, originario di San Benedetto del Tronto, residente a Lodi, che mi ha fornito indicazioni preziose». Quali doti sono richieste a buon allevatore? «Le competenze e gli aggiornamenti innanzitutto. Alla base, però, deve esserci pure una passione immensa, senza la quale non si va avanti. E poi bisogna avere tempo a disposizione, preparazione e cultura specifica. Senza sottovalutare la buona dose di pazienza: il mio primo titolo arrivò dopo venti anni di attività. Dobbiamo affrontare spese per acquisti di mangime, medicinali e quanto serve per tenere in piedi la struttura. Per non parlare dei costi che affrontiamo per prendere parte a concorsi ed esposizioni in Italia e all’estero. Non riceviamo contributi. La Federazione ornitologica italiana alla quale sono iscritto ci premia con trofei, medaglie e targhe». Ma riesce a fare tutto da solo? «No. Posso contare per fortuna sul sostegno della famiglia. Ho due figli: Emanuele, 22 anni, che studia Giurisprudenza all’università di Teramo, e Cristiano, 20 anni, iscritto alla facoltà di Architettura ad Ascoli Piceno. Entrambi mi danno una grossa mano. Senza il loro aiuto sarebbe tutto più difficile». Qualche piccolo segreto per produrre i canarini più belli del mondo. «E’ importante conoscere la genetica, sapere accoppiare

i canarini, disporre di un registro d’allevamento e di un albero genealogico. C’è poi la questione degli ambienti idonei e attrezzati. Basti pensare che nei nostri capannoni la temperatura è costante, venti gradi, sia d’inverno sia d’estate. Importanti per il colore delle piume sono gli ingredienti nel mangime che vanno sapientemente dosati altrimenti si combinano guai. E’ richiesta inoltre abilità nel somministrare disintossicanti a base di vitamina B2, decotto di ortica e rosmarino. Insomma, non s’inventa niente. Ma non posso dire tutto...» Esiste un mercato dei canarini? Quanto valgono i campioni? «So che vengono pagati anche 500 euro. Ma i miei non sono sul mercato. Non li vendo».

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DOMENICO SANTACROCE

IMPRENDITORE PER GUSTO In un’autobiografia lo chef racconta la sua vita vissuta nei migliori ristoranti e alberghi internazionali dove ha conosciuto maestri che sono diventati suoi estimatori

di Giovanni D’Alessandro foto Claudio Carella

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er conoscere Domenico Santacroce bisogna astrarsi dalle normali coordinate di un imprenditore alberghiero quale egli è. Pur reggendo con solido polso due hotel e due bed and breakfast e dando lavoro ad oltre quaranta persone con tempi che, dall’alba a notte, si misurano in minuti disponibili, sembra dare spazio ad ogni interlocutore. E quando proprio non può, lo fa capire quasi chiedendo scusa; sembra rinviare il piacere del contatto a un momento più libero. Non ha la tarpante direttività che di regola accompagna chi, grazie alla propria forza di volontà e all’impegno, si è fatto da solo. Domenico Santacroce nasce a Pratola Peligna in provincia dell’Aquila l’8 maggio del 1949. Si diploma all’Istituto Alberghiero di Roccaraso come tecnico delle attività alberghiere. Approfondisce i suoi studi lavorando presso prestigiosi alberghi in Italia e all’estero. Sposatosi, inizia nel 1977 la sua avventura imprenditoriale con l’apertura del primo ristorante a Pratola. Durante la vita lavorativa ha incontrato i più famosi chef del mondo e si è fatto da loro benvolere; sono i suoi maestri, ma sono anche suoi estimatori: dalla condivisione con loro delle sue sperimentazioni – che fanno delle cucine dei suoi alberghi un antro da mago, dove da comprimaria presta la sua attività anche la moglie Antonella (da cui ha avuto tre figli) - è nata la sua fortuna. Proviamo a fargli poggiare (con dispiacere) una “frissora” nella cucina del Meeting, mentre sta decantando il profumo della santoreggia, e a rivolgergli qualche domanda prima che lo rapisca la telefonata per la quale

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è atteso al piano superiore, nello studio da cui dirige l’azienda (studio che sembra un atelier di pittura per i bei quadri: Domenico è anche un appassionato conoscitore di pittura contemporanea). Domenico, si definisca con un aggettivo. «Un aggettivo? E’ una domanda che mi spiazza» Vabbè. Allora usi l’aggettivo, fra questi tre seguenti, in ordine alfabetico, quali, il conoscerla ispira: affabile, appassionato, attento. «Appassionato. Senza dubbio. Non io ho scelto di fare l’imprenditore alberghiero, è stata la passione che mi ha chiamato dentro quest’attività. Fin da bambino, pur senza mezzi, volevo fare l’albergatore, ma pensavo che sarebbe rimasto un sogno. Invece un po’ alla volta il sogno è diventato realtà, per la quale devo dire grazie alla fortuna e anche all’appoggio della famiglia, in particolare a mia moglie, che mi ha sempre incoraggiato, anche nelle fasi di dubbio che certe scelte sempre comportano. Ma nella scelta ha sempre parte la passione». Il momento in cui ha realizzato che il sogno stata diventando realtà. «Durante una cena, decenni fa oramai, con degli amici. Cena che dentro di me è rimasta stupenda e indimenticabile. Dopo varie esperienze in Italia e all’estero, stavo ripartendo per l’Inghilterra, quando mi sono accorto


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Domenico Santacroce con Antonella, sua moglie e preziosa collaboratrice

che qualcosa mi tratteneva. Mi è apparso come in sogno un ristorante qui vicino, fino ad allora passato inosservato e che mi chiedeva di fare qualcosa, rilevandolo. La sorte di questa nuova attività era incerta ma di una cosa ero sicuro: era qui nella mia terra che volevo rimanere a lottare. Così decisi di rimanere». Il primo piatto di successo che ha visto la luce lì. «Le pappardelle alla morronese, il cui sugo di carne e le cui spezie hanno l’anima di questi luoghi. Accompagnati dai vini che nascono da secolari vitigni della conca peligna, zona al alta vocazione vitivinicola». Però Le piace anche l’ultraesotico. Basti pensare ai piatti tradizionali della Scozia o a quelli della cucina catalana, che Lei porta in giro per il mondo, come richiestissimo chef itinerante, al pari di quelli tradizionali peligni. «Certo. Mi piace anche l’esotico, che ho imparato a preparare in Paesi esteri, purché rispecchi la tradizione di quei luoghi, l’unica che assesti saperi e sapori. E non si tratta solo di piatti. Guardi questo tralcio fiorito». Cos’è? «E’ il the dei pastori». Mai sentito. «Infatti è conosciuto quasi esclusivamente nei Balcani. Si 36

tratta della Syderitis Syriaca, una pianta di provenienza orientale conosciuta dai tempi in cui i Balcani erano sotto la dominazione ottomana e da cui fiori si ricava un infuso tonificante, conosciuto anche col nome inglese di shepherds’ tea, appunto the dei pastori, in quanto la pianta, di montagna, era conosciuta dai pastori. Si prepara come una tisana e per le sue proprietà digestive si serve anche a fine pasto». Ci vuole un po’ di tempo per fargli poggiare questo magico ramo fiorito che evidentemente è una delle sue più recenti acquisizioni dal regno vegetale, che frequentemente visita e dove riceve l’omaggio delle virides malvae, delle verdi insalate celebrate 2000 anni fa dal conterraneo Ovidio. Ma non lo abbandona la meraviglia propria di un ragazzo, che la passione ispira e che si rinnova in continue scoperte e sperimentazioni. Saranno raccontate nell’autobiografia Vita, opere e buona sorte di Domenico Santacroce che, con contributi relativi a lui anche da parte di amici, vedrà la luce nel 2018 per raccontare vocazione, meraviglia e passione di una vita. E anche qualche sofferenza, ora superata, che l’ha segnata. Solo che, conoscendolo, viene fuori un dubbio sulla tenuta di una sola biografia. Perché questa di regola è il racconto di una vita, mentre Domenico Santacroce di vite ne ha sette come i gatti. Per cui bisogna fargli la domanda finale. Sicuro che ne basti una di autobiografia? Sorride. «Per adesso sì. Diciamo per i miei primi settant’anni. Poi vediamo».


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DONATELLA DI PIETRANTONIO - PEPPE MILLANTA

LA TERRA DELLA BU Il prestigioso Premio Campiello, conquistato da Donatella Di Pietrantonio con il romanzo L’Arminuta, è la

di Marco Tabellione foto Claudio Carella

L

’identità ferita, oltraggiata, cercata, perduta, ed infine ritrovata o definitivamente defraudata. Sono le coordinate dell’opera ultima di due scrittori abruzzesi, rappresentanti di generazioni diverse, ma accomunati profondamente dal senso di appartenenza come bisogno vitale, o anche come segno della propria dignità, significati tenuti insieme dal particolare rapporto con la propria terra d’origine, appunto l’Abruzzo. Stiamo parlando di Donatella Di Pietrantonio, ormai affermata scrittrice nazionale approdata quest’anno alle edizioni Einaudi con il romanzo L’Arminuta, vincitore del premio Campiello e del giovane scrittore Peppe Millanta che con il racconto Rukelie ha vinto il concorso Ada Merini 2017. «Come la maggior parte dei libri - racconta Donatella Di Pietrantonio affrontando subito il tema principale della sua ultima fatica - L’Arminuta presenta diversi piani di lettura. Potrei dire che si tratta di un romanzo sull’identità, per esempio. Dal momento in cui inizia la storia la protagonista ci racconta in prima persona la sua confusione al riguardo. L’Arminuta infatti è stata ceduta ancora lattante da una famiglia indigente e numerosa a una coppia di parenti che non le hanno mai rivelato la verità sulla sua origine. Quelli che lei ha sempre creduto i suoi genitori la informano soltanto a tredici anni e le impongono, con motivazioni inconsistenti, di tornare dalla famiglia biologica. Da un giorno all’altro la ragazzina perde i suoi punti di riferimento, gli affetti, l’appartenenza. Come afferma Michela Murgia in una recensione del libro, non puoi dire chi sei se prima non hai capito di chi sei. L’Arminuta porta su di sé lo spaesamento di un’anima divisa in due, di una provenienza scissa tra mondi radicalmente diversi, quello piccolo borghese della famiglia adottiva e quello degradato della sua prima famiglia. Solo operando una impossibile sintesi tra i due potrà sopravvivere». In Millanta il discorso sull’identità sfocia apertamente in un caso di razzismo e persecuzione. «Il titolo del racconto, Rukelie - commenta Millanta - è il soprannome del pugile di origine sinti Johann Trollmann, una delle vittime dimenticate del Porajmos. Dopo essere diventato campione di boxe in Germania (con un modo di combattere che anticipa le movenze e lo stile di Muhammad Alì), l’onorificenza gli viene tolta dai gerarchi 38


ONA LETTERATURA consacrazione della scrittrice pennese ma anche la conferma di una vitalità culturale che ha radici lontane

nazisti con la scusa che avesse pianto sul ring, cosa vietata dal regolamento. La realtà era ovviamente un’altra: uno zingaro sul tetto di Germania, durante la tanto decantata superiorità ariana, era qualcosa da scongiurare ad ogni costo. Viene costretto ad un nuovo combattimento-farsa in cui è vietato “danzare” sul ring come era nel suo stile, ma bisogna rimanere fissi al centro. Certo della sconfitta per tutte quelle limitazioni, si presenta con i capelli tinti di biondo ed il corpo cosparso di farina: il prototipo perfetto dell’ariano tanto decantato dal nazismo. Un ultimo sberleffo al potere prima dell’abisso. Dopo la sconfitta infatti viene sterilizzato e mandato in un campo di sterminio, dove morirà dopo un ultimo incontro di pugilato per la vendetta di un Kapò, riuscendo però ad infondere coraggio e speranza agli altri detenuti sinti che erano con lui». Due storie, due identità, due percorsi. Ma cerchiamo ora di capire come i due scrittori spiegano le loro scelte tematiche, che si sono poi impegnati a seguire per un’intera opera. «L’Arminuta - commenta a tal proposito Donatella Di Pietrantonio - è anche un romanzo di formazione. L’io narrante ci presenta le vite in crescita di diversi adolescenti, lei, la sorella Adriana, il fratello Vincenzo. Li seguiamo nei loro percorsi contorti, segnati da traumi, interruzioni». Per Millanta la scelta nasce invece dalla forza drammatica del tema trattato. «E’ una storia di una potenza incredibile, che ho provato a raccontare a modo mio e che sta avendo un discreto successo. Oltre al premio Alda Merini, si è classificato al primo posto al premio Voci Città di Abano Terme, al secondo posto al premio Città di Grottammare e al premio del Coni dedicato al Racconto sportivo, e ha ricevuto una menzione speciale al premio Inedito di Torino. Ne è stato tratto anche un monologo teatrale, che si è aggiudicato il premio Settimia Spizzichino a Roma e il secondo posto ex- aequo alla rassegna ConCorto del Teatro San Genesio di Roma». E l’Abruzzo? Quale ruolo svolge la tradizione culturale regionale nell’individuazione delle parabole esistenziali che trainano le opere di Millanta e Di Pietrantonio? Ad esempio nei precedenti romanzi di quest’ultima Mia madre è un fiume e Bella mia, soprattutto nel secondo, l’Abruzzo è protagonista, o comunque è un contesto sempre in relazione con le storie narrate. Così la scrittrice di Penne 39


Le radici danno sostegno, ma rappresentano anche un limite che può tenere fermi. La pianta deve restare ben ancorata al suolo, ma anche aprirsi con la chioma verso il cielo, il sole, il mondo.

non ha dubbi nel confessare un legame profondo, ma nello stesso tempo la necessità che questo legame sia un punto di partenza, non un fine. «Sono legata stretta al territorio - spiega Donatella Di Pietrantonio - sono legata al territorio con la forza delle radici. Naturalmente le radici danno sostegno, ma rappresentano anche un limite che può tenere fermi. La pianta deve restare ben ancorata al suolo, ma anche aprirsi con la chioma verso il cielo, il sole, il mondo. Credo comunque che l’Abruzzo mi abbia influenzata anche nello stile conciso, scolpito, essenziale come certi nostri paesaggi. Oggi questa regione luminosa e dolente riscopre un’attitudine resiliente collettiva. Cito un esempio per tutti: dopo i crolli delle aziende zootecniche dovuti alla concomitanza di scosse sismiche e della eccezionale nevicata dello scorso gennaio, gli allevatori anziani hanno messo a disposizione le loro stalle ormai vuote e ospitano le mucche sfollate di chi ha subito danni. Questo è il proverbiale Abruzzo forte e gentile». Anche per Peppe Millanta l’Abruzzo è una radice ancorata fortemente al suolo, una regione da cui senz’altro partire, ma a cui anche tornare. «Che rapporto ho con l’Abruzzo? - esclama l’autore di Rukelie - intenso, quasi spirituale oserei dire. E’ una terra aspra, piena di spigoli, forse perché troppe volte maltrattata e quindi abituata a difendersi, ma è allo stesso tempo una terra ancora capace di sorprendermi, rimasta sempre fedele a sé stessa. L’Abruzzo influisce moltissimo sulle mie scelte, sia lavorative che di vita. Amo questa terra, e pur essendo stato fuori per molti anni e pur dovendo spesso andar via per lavoro, è qui che ho le mie radici ed è qui che sto cercando di costruire il mio futuro (la Scuola Macondo ne è un esempio), perché è questo l’unico posto che sento realmente come casa. Inoltre è una terra perfetta a livello creativo, sia per i suoi paesaggi spesso irreali, sia per le sue tradizioni e le sue storie. La cultura abruzzese è infatti piena di vicende a cui attingere. Si tratta di storie splendide perché reali, fatte di carne viva, perché qui la Storia con la S maiuscola è passata di rado ma ha sempre riverberato i suoi effetti sulle persone comuni e sulle loro storie, quelle con la s minuscola, che sono le più emozionanti da raccontare. Storie di confine perché, come diceva Flaiano, qui la gente è rimasta gente di confine. Anche se non si sa al confine di quale Stato, e soprattutto di quale tempo». Due scritture dunque profondamente diverse legate a due generazioni distanti, tuttavia in contatto, se si può considerare l’appartenenza ad una terra un elemento in comune che possa incidere anche sul modo di essere di uno scrittore. Tuttavia è indubitabile che siamo di fronte anche a due modi diversi di fare narrativa. Così densa, commovente e coinvolgente dal punto di vista degli 40

affetti e delle relazioni interpersonali quella della Di Pietrantonio e così veemente, incalzate, da lasciare a volte senza fiato quella del giovane Millanta. Ma quali sono le predilezioni dei due scrittori? Quali le loro radici culturali e letterarie, i loro amori, i loro fari di riferimento? «Tra i miei autori preferiti - rivela Donatella Di Pietrantonio - figurano Borges, la Yourcenar di Memorie di Adriano, ma soprattutto Agota Kristof. La Trilogia della città di K. è un’opera che continuo a rileggere, soprattutto per la forma secca ed essenziale. Ho scoperto solo a distanza di anni dalla prima lettura che l’autrice ungherese, rifugiatasi in Svizzera dopo i fatti del ’56, decise di abbandonare la sua lingua madre anche nella scrittura e di usare il francese, che però non sentì mai di possedere completamente. Si ispirava al figlio dodicenne e scriveva consultando di frequente il dizionario. Il suo stile così asciutto e definito è anche il risultato di una difficoltà, della fatica di esprimersi in una lingua straniera. Ma è un risultato altissimo». «Il primo grande amore è stato sicuramente Buzzati - confessa dalla sua Millanta, che tra l’altro è anche musicista e compositore di canzoni e leader di una band, Peppe Millanta & Balkan Bistro - Buzzati è un autore che ho provato ad imitare - con scarsi risultati - per tutta l’adolescenza. Sono rimasto poi folgorato da Boris Vian e Queneau, e successivamente mi sono immerso avidamente nella letteratura americana: Faulkner, Steinbeck e Hemingway su tutti. L’incontro più sconvolgente però l’ho avuto con Gabriel Garcia Marquez, da cui è derivata tutta la mia passione per gli autori sudamericani e per quello che viene definito “realismo magico”. Non è un caso che abbia deciso di dedicare a lui la scuola di scrittura che ho da poco fatto nascere in Abruzzo insieme a Valentina Bonaccio, la Scuola Macondo. Però come ho già detto, intendo la narrazione in maniera molto ampia. E quindi il mio immaginario è stato influenzato da molti cantautori come De Andrè, Chico Buarque, Brassens, Joaquim Sabina, Yupanqui o Vysotsky, ma anche da autori teatrali come Tennessee Williams e Eduardo De Filippo, o ancora sceneggiatori come Cesare Zavattini, Age e Scarpelli, o registi come Fellini, Wertmuller, Tornatore e Kusturica». Nelle foto: nella pagina precedente a sinistra, Donatella Di Pietrantonio; a destra, Peppe Millanta; nella pagina accanto, la scrittrice abruzzese riceve il prestigioso premio sul palco della Fenice a Venezia (foto Canio Romaniello)

Le video interviste a Donatella Di Pietrantonio e Peppe Millanta sono pubblicati sul nostro sito www.vario.it


TUTTI PAZZI PER L’ARMINUTA Sul romanzo di Donatella Di Pietrantonio critica concorde Il libro

Donatella Di Pietrantonio, L’arminuta, Einaudi 1917, pp. 168, euro 17,50

La storia

L’arminuta (La ritornata) è la storia di una ragazza che un giorno viene portata da colui che credeva suo padre in un’altra famiglia. Una famiglia che non conosce né ha mai frequentato, ma che pure è la sua famiglia originaria. Quella che l’ha cresciuta fino ad allora non può più tenerla con sé. Per la protagonista è uno choc: da un giorno all’altro viene catapultata da un padre e una madre a un altro padre e un’altra madre, dalla vita di città a quella di campagna, dal benessere alla povertà. A darle conforto è il rapporto che instaura con Adriana, la sua sorella minore, e con il fratello Vincenzo. Grazie al suo ottimo profitto scolastico, l’arminuta torna a vivere in città per fare il liceo. Un po’ alla volta scoprirà la verità

La critica

Filippo La Porta, critico letterario tra i più autorevoli, dialogando nel luglio scorso con Donatella Di Pietrantonio al Futura Festival di Civitanova Marche, dopo aver definito L’Arminuta “un romanzo molto bello, molto intenso”, si è chiesto: «C’è un mistero che non mi so spiegare: perché Einaudi non ha portato al Premio Strega questo romanzo invece di quello di Cognetti chiaramente inferiore?». Poco più di un mese dopo, L’arminuta vincerà il Premio Campiello che secondo Renato Barilli, anziano ed eminente critico d’arte e letterario, “ha sempre rappresentato la serie B nella gerarchia dei nostri premi letterari” (in L’immaginazione, settembreottobre 2017, p.30). La domanda di La Porta e l’affermazione di Barilli concorrono a evidenziare il carattere “autonomo” del grande successo di pubblico del romanzo di Donatella Di Pietrantonio: assente dal Premio Strega, il più prestigioso e ambito, premiato con uno considerato di serie B, il merito del successo di L’arminuta non può

essere dunque in alcun modo attribuito alla vittoria di un premio letterario, ma è merito esclusivo del valore dell’opera e dei favorevoli giudizi della critica. Entusiasta la scrittrice Michela Murgia che a libro appena uscito spara su Twitter: «Per me è una bomba, Donatella sottovalutatissima e brava come poche». Poi, in una delle sue contundenti recensioni televisive nel programma di Corrado Augias “Quante storie”, afferma: «Donatella Di Pietrantonio è una delle voci più rilevanti, più significative, più letterarie del panorama narrativo italiano. L’Arminuta mi ha commosso, è un grande romanzo, una grande storia, una prova di grande sapienza narrativa ». Bianca Stancanelli su “D” di Repubblica del 26 febbraio scrive: «Questa scrittrice nata ad Arsita (Teramo) e dentista di professione, non sviscera minuzie, non cerca sassolini. Si butta nella mischia delle cose importanti, nei legami di sangue, sulle autostrade dell’esistenza. La sua lingua è una specie di lineare B, un ricordo solido e potente di quando non erano le nevrosi a occupare le nostre pagine, ma il dolore semplice. La fatica, la fame, l’assenza». Il blog “L’angolo dei libri” scrive: «In questo libro così toccante e profondo, Di Pietrantonio tocca una parte del nostro cuore che io non sapevo neanche di avere. Non è (solo) una storia commovente, è una storia dura, dolorosa, triste. E le parole limate e attentamente levigate, mai scelte a caso, contribuiscono a dare proprio l’idea delle spigolosità e asperità che ci si trova ad affrontare nella vita. In tutta questa sofferenza è bello trovare assieme alla protagonista la forza per sopportare, per andare avanti». Su La Repubblica del 14 marzo, Matteo Nucci pubblica una lunga recensione che comincia così: « C’è una scrittrice unica in Italia. Ha cinquantacinque anni, ogni giorno lavora nel suo studio dentistico a Penne, in Abruzzo, e per scrivere si alza

molto presto al mattino e fra le cinque e le sette procede “per lampi”, come dice lei. Attraverso questi lampi, Donatella Di Pietrantonio ha scritto romanzi e racconti di grande potenza e l’ultimo suo libro è una perla. S’intitola L’Arminuta (Einaudi, pp. 168, euro 17,50) che nel dialetto delle sue parti significa “la ritornata”.» Su un altro blog letterario, “Solo libri”, Elisabetta Bolondi il 23 marzo scrive: «La grande capacità narrativa di Donatella Di Pietrantonio sta nel padroneggiare una lingua che mette insieme un dialetto antico con il linguaggio della contemporaneità, le pieghe più profonde della psicologia di una adolescente sofferente con i turbamenti dovuti ad una familiarità rude, incapace di verbalizzare sentimenti, tutti racchiusi in smorfie, ghigni, mugugni, silenzi, percosse. Una sola carezza, ricevuta dalla ragazza che ha avuto ottimo all’esame di terza media, la destabilizza nel profondo per la sua eccezionalità dato il deserto affettivo nel quale è stata immersa». Alcune pagine del libro sono nient’altro che poesia, capaci come sono di esprimere in modo icastico, sintetico, una sequela di sensazioni profonde». Su Tuttolibri, il supplemento letterale della Stampa, il 6 aprile Sergio Pent scrive una delle recensioni più entusiaste: dove si legge: «Con un’essenzialità quasi prodigiosa, la Di Pietrantonio ci offre una storia che sembra vivere di memorie neorealiste ma sa autorigenerarsi in una scrupolosa, commossa psicologia dell’animo umano, e questo strano connubio è la vera suggestione di un romanzo unico, incantato, avvolto in una magica perfezione» Massimo Minuti, su La Repubblica del 16 agosto giudica L’Arminuta «un romanzo emozionante e intenso, splendidamente scritto da Donatella Di Pietrantonio, che si conferma una delle voci più sensibili della narrativa italiana». F.D.V. 41


SAIL FOR CHILDREN

IL VENTO DELLA SPERANZA Una imbarcazione sequestrata ai trafficanti di clandestini restaurata e usata per avvicinare bambini e disabili alla cultura marinara e della legalità

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n carico di legalità. Un carico di fiducia. Un carico di freschezza. Un carico di solidarietà. Un carico di speranza. Tutto materiale ad alta sensibilità, giunto nel porto turistico di Pescara a bordo dell’Altair, nave speciale che batte bandiera dell’altruismo e della condivisione, punta di diamante dell’associazione Sail for Children, impegnata nell’utilizzo di imbarcazioni sequestrate alle mafie, ai traffici di clandestini, droga e armi e destinate alla crescita socio-culturale delle nuove generazioni e al sostegno dei disabili. Un progetto meraviglioso, su larga scala, di educazione alla legalità, all’accoglienza e al rispetto delle genti, nato dall’estro e dall’inventiva di Carlo Cesari, dinamico e poliedrico presidente dell’associazione Sail for Children, e rivolto agli studenti delle scuole secondarie di primo grado. “La finalità - afferma Carlo Cesari - è la formazione di una generazione di cittadini responsabili, che abbiano una conoscenza consapevole della legalità e che sappiano valutare correttamente le proprie capacità in funzione di specifiche situazioni ambientali. Scopo dell’associazione è utilizzare le imbarcazioni sequestrate alle mafie per fini sociali e per far iniziare ai nostri ragazzi un percorso accrescitivo-culturale, sempre affiancati dalla Marina Militare in modo da restituire alla collettività beni e servizi che possano in parte ripagare il cittadino del maltolto facendo particolare attenzione al riutilizzo a fini sociali a favore delle classi disagiate. Sail for Children, in

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sostanza, non vuole limitarsi a offrire semplici passeggiate in barca ma vuole avviare un percorso per i giovani basato su principi di legalità, aggregazione e rispetto verso la collettività”. La nave Altair è un Bavaria 36 Holiday sequestrato dalla Guardia di Finanza nel mare di Roccella Ionica. Il giorno del fermo i militari trovarono a bordo 58 immigrati clandestini. L’imbarcazione originariamente era stata acquistata da una società di charter turca e durante l’estate del 2011 fu noleggiata per una settimana da individui con carte di credito e documenti falsi. Allo scadere della settimana di noleggio la società di charter turca denunciò il furto alle autorità non sapendo che la nave era stata spostata sulle coste del Marocco. In pochi giorni Altair fu smantellata di tutti gli interni e destinata al trasporto di clandestini. La barca ora sarà utilizzata per dar vita a eventi nautici per giovani di tutte le età, ma anche per persone con disabilità che vivono condizioni di disagio e che si avvicineranno, grazie alla vela, al mare, alla cultura della marineria e al rispetto per l’ambiente nel solco della tradizione della Marina Militare, sempre pronta a sostenere con propri uomini e mezzi le attività a sfondo sociale e umanitario. L’idea di dare vita all’associazione Sail for Children nacque quasi per caso in un’afosa giornata di agosto del 2015. Il merito è senza dubbio di Carlo Cesari, ma un altro personaggio ha sostenuto con tenacia l’iniziativa: Massimo Felicetti, marchigiano, titolare dell’agenzia assicurativa


L’Altair in navigazione; a sinistra bambini alla guida della vela; sotto, Carlo Cesari e Massimo Felicetti ospiti alla Amerigo Vespucci nave scuola della Marina Militare italiana

Reale Mutua. “Avevo appena finito di ormeggiare in banchina una barca di cui avevo il comando - racconta Carlo Cesari - quando la mia attenzione fu richiamata da un uomo della Guardia Costiera, il maresciallo Luigi di Norscia, alle prese con i guasti di una piccola imbarcazione a vela, “Giro di Barra”. Gli chiesi se aveva bisogno di aiuto, accettò la mia offerta e cominciammo ad aggiustare “Giro di Barra” sotto il solleone. A fine giornata mi invitò a cena e parlammo a lungo: mi spiegò che la Marina Militare aveva creato una sezione velica che gestiva imbarcazioni con cui svolgeva regate, addestramento e progetti di varia natura. Le risorse erano però limitate. Incuriosito e affascinato, poiché la Marina Militare racchiude tutto il mio vivere per mare, cominciò a far breccia nella mia mente un’idea, quella di dare una mano concreta. Nacquero così i presupposti per costituire Sail for Children. Decisi di ristrutturare a mio carico le barche con una storia significativa, rimetterle in sicurezza e farle tornare a navigare sotto la bandiera della Marina Militare per divulgare ai giovani la cultura della legalità, l’amore per il mare e il rispetto per il prossimo. Quando espressi le mie intenzioni Luigi di Norscia sgranò gli occhi e mi disse che saremmo dovuti andare ad Ancona per incontrare l’assicuratore Massimo Felicetti. E così facemmo: trovammo l’imbarcazione giusta ma l’iter burocratico sarebbe stato impegnativo poiché non esisteva un protocollo e noi eravamo i primi a creare questa sinergia tra la Marina militare e un’associazione. La barca scelta

versava in pessime condizioni e l’impegno economico per renderla di nuovo efficiente avrebbe superato di gran lunga il budget prefissato. Ero un po’ preoccupato perché il giorno della firma dell’atto di permuta si avvicinava inesorabilmente. Stavo veleggiando a bordo di Willy One quando illustrai il progetto a Massimo Felicetti che si trovava al mio fianco. L’idea gli piacque e mi incoraggiò ad andare avanti: dobbiamo realizzarla - disse - E’ nostro dovere farlo. Aggiunse che potevo firmare l’atto di permuta tranquillamente. Anzi sarebbe venuto anche lui ad Ancona a parlare con i comandanti addetti alla permuta e avrebbe coperto le spese per ristrutturare l’imbarcazione chiamando in causa la Reale Mutua assicurazioni dal momento che la sua politica di legalità ben si accostava a questo progetto. Nacque così Sail for Children. Un sogno diventato splendida realtà. A.C.

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UNIVERSIVARIO

UN ATENEO DUE CAMPUS Sergio Caputi da laureato a Rettore della d’Annunzio. È il segnale positivo che simboleggia la crescita e l’importanza dell’Università per la nostra regione

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ergio Caputi, 60 anni, teatino d’origine e pescarese d’adozione è dal mese di maggio scorso rettore dell’ateneo più grande della regione. Un sogno che diventa realtà: è il primo studente della “d’Annunzio” a indossare l’ermellino. Laureato in Medicina nel 1982 con il massimo dei voti e la lode, si è specializzato in Odontostomatologia a “La Sapienza” di Roma. A Chieti è tornato nel 1990 prima come ricercatore e poi, nel 1998, come professore associato. Nel 2001 è diventato ordinario e, nello stesso anno, direttore di Scienze Odontostomatologiche, attuale dipartimento di Scienze mediche, orali e biotecnologie, che guida ancora oggi. Un compito non facile attende il neo rettore chiamato a risolvere problemi di varia natura. Da buon abruzzese non si perde d’animo, si rimbocca le maniche e punta sulle doti migliori – tenacia, concretezza, idee chiare e professionalità - per rilanciare l’università. Quale futuro prevede per la “d’Annunzio” e in generale per le università abruzzesi? Che contributo potrà offrire l’ateneo per la crescita della nostra regione? Quale sarà il suo ruolo? «La nostra università deve essere un volano per allargare gli orizzonti al di fuori dell’Abruzzo. Non la possiamo identificare come istituzione solo di Chieti e di Pescara. Abbiamo circa il 40 per cento di studenti che viene da altre regioni. Questa è una università del Medio Adriatico che deve spaziare, deve uscire dai confini regionali. Di questo 40 per cento di studenti che viene da fuori sede, gran parte rimane a vivere sul nostro territorio. E’ una presenza importante. L’obiettivo è potenziare l’università, creare nuovi corsi di laurea che siano più spendibili sul mondo del lavoro. Altrettanto importante sarà cercare connessioni tra studenti e imprese. Per quanto riguarda la ricerca darò la precedenza a tutti quei progetti che portino a qualcosa di pratico sul mercato, che diano un risultato economico». In previsione ci sono servizi innovativi per gli studenti? «La mia principale attenzione sarà rivolta alla cura dello studente che deve avere servizi migliori; ne sto già met44

tendo in campo diversi a Pescara e a Chieti a cominciare dal bike sharing gratuito. Nelle linee programmatiche c’è l’idea di ampliare il campus di Pescara costruendo un politecnico, un edificio che ospiterà le ex facoltà di Architettura, Ingegneria e Geologia. In ogni caso miglioreremo la vivibilità del campus di Pescara, ultimamente un po’ trascurato. Poco conosciuto fuori regione è il campus di Chieti. Un’effettiva ed efficace azione di promozione in questo senso non ci è mai stata. Non credo che in Italia esista un campus come quello di Chieti con centri di ricerca all’avanguardia. Una delle mie missioni sarà quella di far apprezzare le nostre università all’esterno con ricadute sul territorio. Se pensiamo che abbiamo 30.000 iscritti e che il 40 per cento resta qui, vuol dire che 12.000 studenti vivono nelle nostre città, affittano camere, fanno spesa, consumano. Non sono turisti occasionali, ma stanno per oltre 300 giorni l’anno nella nostra area metropolitana. Lo studente è una risorsa importantissima e merita grande attenzione». Si arriverà a un coordinamento fra le tre università abruzzesi oppure ognuna è destinata ad andare avanti per conto proprio? Crede nelle sinergie con L’Aquila e con Teramo? «Credo che la nostra università possa andare in forte sinergia con l’università di Teramo per una questione di territorio e di incidenza soprattutto degli studenti che vengono più o meno dalle stesse parti (Puglia del nord, Molise, Campania, parte bassa delle Marche). L’università dell’Aquila, con la quale abbiamo ottimi rapporti, verte un po’ di più su Roma. La collaborazione con l’ateneo aquilano si sta tuttavia esplicando con scuole di specializzazione che stiamo realizzando insieme per migliorare la qualità della formazione». La percentuale dei laureati in Italia è inferiore a quella dei più importanti Paesi europei. La formazione universitaria, l’acquisizione di conoscenze e professionalità sono fattori importanti per entrare nel mondo del lavoro. Come intende sviluppare questi aspetti? «Sono aspetti interconnessi. La formazione che dà le no-


ATENEO G.D’ANNUNZIO DI CHIETI - PESCARA

stre scuole superiori è altamente al di sopra delle altre nazioni. L’ingresso nel mondo del lavoro non è determinato dalla laurea e allora i giovani non sono stimolati a iscriversi all’università. In parte ciò accade anche per responsabilità degli atenei. Per questo durante la mia gestione punterò ad essere molto pratico: voglio creare dei ponti tra l’università e il mondo del lavoro in modo che lo studente sia incentivato a finire presto e bene il suo corso di laurea per avere poi una vita lavorativa più dignitosa rispetto a chi non è laureato». Questo presuppone una maggiore collaborazione con il tessuto imprenditoriale, con le aziende del nostro territorio. «Non soltanto con le aziende del territorio. Ho intenzione di creare una rete e un tavolo permanente tra l’università e le imprese che non si limitino solo alle realtà regionali. Mi piacerebbe costruire un profilo di dottorato sulla progettazione europea, uno sportello fruibile anche dalle imprese che possono utilizzare l’università per costruire progetti e assorbire studenti che presso di loro hanno fatto degli stage. Si crea così una maggiore sinergia tra ateneo e mondo del lavoro». E’ un discorso che riguarda soltanto le facoltà economiche o esistono ulteriori settori da esplorare? «L’economia entra in tutti i settori. Ci sono però altri ambiti che andrebbero sviluppati, in particolare quello dell’agroalimentare. Abbiamo tante aziende che possiedono delle eccellenze nel mondo agroalimentare, mi riferisco alla pasta, al vino, all’olio, ecc. Sarebbe molto bello certificare una dieta mediterranea con nostri prodotti, che abbia caratteristiche diverse rispetto alla normale dieta mediterranea, che abbia alle spalle studi e sperimentazioni cliniche finalizzati alla prevenzione delle patologie». Per realizzare tutto questo è necessario uno stretto collegamento con le altre università in modo da elaborare un progetto unico. «Assolutamente sì. Dovrà essere un progetto di ateneo e non si punterà ovviamente solo sull’agroalimentare. Faccio un esempio: tra i numerosi corsi di laurea aperti due anni fa c’è quello in design sotto la direzione del prof. Fu-

sero, che coinvolge architettura, ingegneristica, ma anche psicologia e agroalimentare. Design ha un significato molto ampio: dalla qualità della vita alla sostenibilità del benessere». Sono proliferati i dipartimenti. Questa tendenza rimarrà o lei renderà più compatto l’ateneo? Come sarà la nuova università “Gabriele d’Annunzio”? «L’ateneo non cambierà. Non stravolgerò il suo orientamento generale. Se possibile aggiungeremo delle nicchie di eccellenza pensate per sostenere gli studenti nel passaggio verso il mondo del lavoro. Non tutti i corsi di laurea offrono gli stessi sbocchi occupazionali. I laureati in igiene dentale, ad esempio, trovano più facilmente lavoro rispetto al laureato in Scienze motorie anche per un fatto di numeri. Mi piacerebbe inoltre studiare l’apertura del Dams a Chieti e pensare a qualcosa sul turismo e sull’agroalimentare da istituire nei prossimi anni. Il Dams a Chieti potrebbe implementare le attività culturali. La zona periferica di Chieti e di Pescara e l’area del Teramano sull’agroalimentare hanno particolarità molto importanti. Poi c’è l’economia del turismo, altro settore strategico. Cultura, turismo e agroalimentare: credo siano questi i settori ad alta vocazione della nostra regione. Ho cinque anni davanti. I primi mesi li sto utilizzando per dare un riassetto organizzativo all’apparato amministrativo dell’università. Sto mettendo tutto al posto giusto per sviluppare questi progetti». Potenziare senza stravolgere e sviluppare le risorse dell’ateneo. Ci sarà maggiore attenzione verso il polo pescarese rispetto agli ultimi anni? «Sì. Con tutti i limiti che ci possono essere, visto che abbiamo acquisito, cedendo alcuni anni fa l’edificio dell’ex Aurum, una parte di terreno per procedere all’ampliamento del nostro campus, certamente darò vita sia alla riqualificazione della zona che ci riguarda di viale Pindaro, sia al potenziamento delle strutture universitarie di Pescara». C.C. 45


UNIVERSIVARIO

DOLCE SALATO O CONFETTO Due gruppi di studentesse della Facoltà di Bioscienze e tecnologie alimentari dell’Ateneo teramano, guidati dalla professoressa Paola Pittia, hanno realizzato prodotti innovativi

di Francesco Di Salvatore

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’evoluzione della specie. Ogni riferimento alla celebre teoria di Charles Darwin, sia ben chiaro, è puramente casuale. Gli studi dell’illustre biologo britannico non presero infatti in considerazione la produzione dei confetti abruzzesi che tuttavia nel corso dei secoli ha compiuto importanti passi avanti al punto che oggi si parla di svolta storica, di nuova era, di profonda trasformazione, di piccola rivoluzione alimentare. Protagonisti della realizzazione dei prodotti innovativi (confetti dolci e salati) sono due gruppi di studentesse del corso di laurea magistrale in Food Science and Technology, coordinati da Paola Pittia, docente di Scienze e tecnologie alimentari della Facoltà di Bioscienze e tecnologie agro-alimentari e ambientali dell’Università degli Studi di Teramo. Un progetto di ampio respiro che ha coinvolto anche Sam Saguy, professore emerito della Hebrew University di Gerusalemme, e un’azienda di Sulmona, patria dei confetti. «Il confetto in Abruzzo - asserisce la professoressa Paola Pittia - rappresenta un prodotto tradizionale. Le sue origini sono antichissime e secondo alcuni studi che si avvalgono delle testimonianze delle Famiglie Fazi (447 a.C.) e di Apicio (14-37 d.C.), i confetti esistevano già in epoca romana e i Romani avevano l’usanza di festeggiare con il confetto le nascite e i matrimoni ma, allora, era una specie di “bon bon” realizzato con anime di mandorle, miele e farina. La fabbricazione dei confetti moderni iniziò a Sulmona nel XV secolo, testimoni i documenti che si trovano presso l’archivio del Comune datati 1492 - 1493. Altro primato della città di Sulmona è la lavorazione artistica del confetto. Infatti presso il monastero di Santa Chiara, 46

sempre nel XV secolo, vengono utilizzati confetti legati con fili di seta, per la preparazione di fiori, grappoli, spighe e rosari. La fabbricazione moderna del confetto avvenne solo intorno al 1400 perché fino ad allora lo zucchero nelle nostre regioni non esisteva. Oggi riconosciamo il confetto tipico come formato da un nucleo interno, detto anima e costituito da una mandorla intera, del tipo Pizzuta di Avola, sgusciata e pelata, rivestito da strati di zucchero sovrapposti per successive bagnature. Il confetto mantiene la forma del seme di mandorla, fortemente appiattito, con assenza di screziature e lesioni con dimensioni e peso che variano in funzione del calibro della mandorla impiegata. Nelle versioni più moderne l’anima del confetto può essere costituita da altri ingredienti (nocciola, cannella, cioccolato, canditi vari, pistacchio, frutta secca rivestita da strati di zucchero e/o di cioccolato) ma pur sempre rimane un classico prodotto celebrativo da acquistare e consumare in occasione di eventi familiari quali battesimi e matrimoni o anche lauree, in tempi moderni. Non è considerato un prodotto interessante dal punto di vista nutrizionale o salutistico, nonostante si caratterizzi per la presenza della mandorla (ricca di proteine e lipidi essenziali) e del saccarosio (fonte energetica). Inoltre è difficile pensare al consumo del confetto in contesti diversi da quelli legati a un lieto evento». I nuovi orizzonti dei confetti abruzzesi, non più legati esclusivamente alle cerimonie classiche, sono stati tracciati presso l’Università di Teramo. Com’è nata l’idea? «E’ frutto dell’impegno di due gruppi di studentesse del


ATENEO DI TERAMO

corso di laurea magistrale in Food Science and Technology da me coordinati - spiega Paola Pittia - che hanno studiato e sviluppato nuovi prodotti di confetteria dolci e salati in collaborazione con l’azienda William Di Carlo di Sulmona. L’attività di ricerca e sviluppo è nata all’interno delle attività didattiche del corso “New product development” tenuto dal visiting professor Sam Saguy, professore emerito della Hebrew University of Jerusalem (Israele) che ha previsto un percorso formativo con il coinvolgimento diretto delle aziende e di professionisti del settore delle tecnologie alimentari e delle formulazioni. La collaborazione tra gli studenti del corso e l’azienda Di Carlo è nata a corollario delle attività didattiche che hanno previsto anche seminari sulle strategie innovative di sviluppo e innovazione di prodotto - dall’idea concettuale fino al prodotto finito - con l’obiettivo di sviluppare in modo pratico le conoscenze acquisite». E i risultati sono incoraggianti. Quali prospettive per i nostri confetti? E’ vero che possiedono importanti proprietà nutrizionali? «Sono stati sviluppati due prodotti - chiarisce la professoressa Paola Pittia - un confetto dolce e uno salato con nuove proprietà qualitative che offrono opportunità di sviluppo al confetto tradizionale. Si tratta di nuovi prodotti ad alto contenuto di nutrienti e composti bioattivi e in particolare di un confetto dolce, a base di zucchero di canna, frutta disidratata e tè verde, e di uno salato a base di alghe e semi di sesamo. Sono stati entrambi prodotti e analizzati presso i laboratori dell’Università di Teramo ed altamente apprezzati oltre i confini regionali anche per le caratteristiche organolettiche».

Nella foto: i ricercatori dell’Ateneo teramano

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UNIVERSIVARIO

MUSEI AVANTI C’È POSTO Un progetto dell’Ateneo aquilano per promuovere il turismo culturale. Ideato un sistema complesso per ridurre i tempi d’attesa e semplificare le prenotazioni di Francesco Di Salvatore

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’Arriva dall’Abruzzo la soluzione per cancellare le code nelle Gallerie degli Uffizi di Firenze e nei principali musei italiani ed europei. L’Università degli Studi dell’Aquila ha elaborato un progetto sperimentale per abbattere i tempi d’attesa (in media cinque ore) che rappresentano un handicap notevole con conseguenze negative sotto il profilo socio-culturale. Come risolvere il problema che oltre a creare disagi ai visitatori e a scoraggiare gli afflussi pone questioni di ordine pubblico e sicurezza urbana? Un recente studio dell’Istat ha rilevato che pochi musei (20 su 4976 censiti sul territorio italiano) attraggono un terzo di tutti i visitatori. E’ sufficiente questo dato per capire che il concentramento di visite in un numero esiguo di musei determina scompensi agli ingressi con inevitabili ripercussioni anche su turismo ed economia. Per non parlare dei danni d’immagine all’estero che subisce il nostro Paese noto, tra l’altro, proprio per le bellezze storiche e artistiche. Il progetto innovativo per snellire le procedure agli ingressi dei musei è stato realizzato grazie all’ottimo lavoro svolto con tenacia e grande professionalità dal gruppo diretto da Henry Muccini, professore associato in informatica del Dipartimento di Ingegneria e Scienze dell’Informazione e Matematica dell’Università dell’Aquila. Originali e interessanti le strategie dello studio in grado di aprire nuovi orizzonti nel settore dei beni culturali con risultati immediati decisamente apprezzabili. Nelle Gallerie degli Uffizi, tanto per fornire un dato, il 1° ottobre scorso alle 13, nonostante la pioggia, sono stati registrati 2299 ingressi con un’attesa media di 73 minuti ed un tempo medio di visita pari a 115 minuti. Tutte informazioni indispensabili per poter pianificare una gestione evoluta dei flussi di visitatori. Professor Muccini, in cosa consiste effettivamente il progetto? «La soluzione, attualmente in fase pre-sperimentale presso le Gallerie degli Uffizi e adottata nella gestione di alcuni grandi eventi nella città dell’Aquila, si basa sull’uso dei “big data” (grandi quantità di dati storici e attuali), collezionati grazie a sensori di varia natura (telecamere, 48

lettori Rfid, lettori barcode, wifi scanners, etc.), analizzati al fine di creare modelli previsionali sull’andamento dei flussi di visitatori. Questa soluzione integra l’esperienza degli operatori del settore con informazioni e previsioni provenienti dall’approccio big data». Quali i vantaggi immediati? «Permetterà di avere, in ogni istante, una chiara visione del livello di occupazione del museo permettendo quindi la prenotazione del primo slot disponibile per accedere nei locali. La soluzione prevede il rilascio di una applicazione ufficiale Uffizi che permetterà ai visitatori di controllare lo stato attuale di affollamento del museo e prenotare il primo slot disponibile. L’applicazione girerà anche su totem dislocati al di fuori del museo e, unica nel suo genere, consentirà di gestire anche le prime domeniche del mese, giornate di visita gratuita, che rendono più complessa la gestione dei no-show (persone che, pur avendo prenotato, non si presentano) e dell’accaparramento dei biglietti (persone che richiedono un alto numero di biglietti). La soluzione faciliterà inoltre una visita multi-museale fornendo indicazioni precise sull’ordine di visita ottimale dei musei appartenenti alle Gallerie degli Uffizi (Palazzo Pitti, Uffizi, e Giardino di Boboli)». Lo studio potrà essere applicato in altri settori? «Il progetto ha l’ambizione di poter gestire non solo l’accesso e il monitoraggio di poli museali, ma anche fiere ed eventi di grandi dimensioni. In questo contesto, la problematica della gestione delle code si innesca nel dominio più grande che va sotto il nome di “sicurezza urbana” e che consiste nel massimizzare la sicurezza del cittadino in situazioni di normale amministrazioni e in condizioni di emergenza». Da chi è composto il team? «Il team si avvale di esperti nel campo dell’IoT, della sensorista, dell’analisi statistica, della programmazione mobile, delle architetture di sistemi e dell’ottimizzazione combinatoria».


ATENEO DELL’ AQUILA

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IL NUOVO STADIO DI PESCARA

RICOSTRUIRE IL CALCIO DALLE FONDAMENTA La rinascita dello sport più popolare in Italia passa anche dal rinnovamento delle strutture che dovranno consentire maggiore “vivibilità “ e un uso diverso e moderno degli impianti

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a squadra è fatta: ora facciamo lo stadio. Per “squadra” si intende quella degli attori coinvolti nella realizzazione del nuovo impianto sportivo pensato per Pescara: dal presidente della Pescara Calcio, Daniele Sebastiani che ha firmato l’idea anni fa, a Proger (l’azienda di progettazione prima in Italia e tra le prime 100 al mondo), con l’AD Umberto Sgambati che ha investito da subito sul progetto e che si avvale della collaborazione dell’architetto Giovanni Vaccarini, progettista del nuovo impianto, fino al coordinatore del progetto per la società sportiva, il manager Antonello Ricci. L’idea di fondo è trasformare lo stadio nel teatro di un grande spettacolo in occasione di ogni partita e renderlo un luogo di socialità accogliente per i tifosi e le famiglie ogni giorno della settimana. Non solo. Su una superficie di quasi 8 ettari, tra aree di servizi di supporto, commerciali e di intrattenimento e 20mila posti a sedere previsti, si pensa a edificare secondo i più moderni principi costruttivi. Il progetto infatti, a detta del gruppo di lavoro, nasce da un’analisi dei valori ambientali del sito con l’obiettivo di inserirsi nel paesaggio in maniera ecocompatibile. Si è scelto di ridurre al minimo gli scavi, di garantire l’invarianza idraulica e di lavorare su un prodotto alimentato da fonti energetiche alternative. Sono previste inoltre aree per l’hospitality, il museo della Pescara Calcio, fan shop, bar, un centro medico sportivo, ristoranti, gelateria, locali per meeting, una galleria di negozi e un baby club. Le tribune prevedono aree hospitality, sky box, aree dedicate alle famiglie, aree di connessione libera 50

a internet. Ma perché Pescara ha bisogno di un nuovo stadio? “Non solo per garantire ai tifosi un impianto più sicuro e confortevole – risponde Ricci -ma anche perché, a partire dal 2021 secondo le direttive UEFA, il calcio si potrà giocare solo in impianti che abbiano determinate caratteristiche”. Quali sono i requisiti? “Lo stadio non deve avere barriere tra gli spalti e il campo da gioco. Tutti gli spettatori devono essere a una distanza massima dal campo non superiore ai 35 metri e devono esserci servizi di hospitality adeguati. Non sono previsti piste di atletica, per il ciclismo o per qualsiasi altro sport diverso dal calcio. Oggi la distanza tra il primo spettatore e il campo di calcio all’Adriatico è di 31 metri e gli spettatori più lontani sono a oltre 70 metri. Il nostro progetto prevede che la distanza minima sia di 5-7 metri e la massima di 30.” Ma aldilà di dati e distanze, il discorso si allarga ad accogliere quello che il calcio da sempre rappresenta per centinaia di milioni di persone nel mondo. Da un lato, interesse e passione (“Pensisottolinea Ricci - tra le 50 trasmissioni più seguite di tutti i tempi, le prime 49 sono partite di calcio, con uno share che supera i 20 milioni di spettatori”), dall’altro, grande forze economica che smuove un giro di 13 miliardi di euro, un numero di occupati che sfiora il mezzo milione di persone e un contributo alle casse dello stato, per ragioni fiscali e previdenziali, che supera il miliardo di euro. “Favorire le condizioni per rafforzare e stabilizzare il sistema calcistico del nostro Paese è dunque un dovere della politica e della Pubblica Amministrazione. Da un confronto con


Nelle foto il progetto del nuovo stadio inserito nell’area della Pineta dannunziana in una veduta notturna e diurna.

Inghilterra, Germania e Spagna che hanno investito di più nell’industria del calcio, scopriamo che il maggior limite del sistema italiano è dato dall’inadeguatezza degli stadi e dalla loro scarsa redditività – commenta il manager. “Negli ultimi 10 anni, in Europa, sono stati realizzati più di 160 impianti di nuova generazione, di questi 30 in Polonia e solo 2, i nuovi stadi di Juventus e Udinese, in Italia. I nostri stadi hanno mediamente più di 70 anni di vita, più della metà privi di copertura, la visuale è scadente, i servizi minimi e la sicurezza ridotta all’essenziale; sono quasi tutti di proprietà comunale, energicamente inefficienti, faticosamente accessibili e aperti 20 giorni l’anno per non più di tre ore e per di più incidono moltissimo sulle casse pubbliche per manutenzione e gestione (“soldi della collettività”). Gli stadi di nuova generazione invece devono essere facilmente accessibili, confortevoli, sicuri e ricchi di servizi di ristorazione, intrattenimento e commerciali che li rendono fruibili 365 giorni l’anno e per l’intera giornata. In più, e non è cosa di poco conto, l’investimento per la realizzazione dello stadio, degli spazi commerciali e di intrattenimento e delle opere di urbanizzazione pubbliche è totalmente privato. Se non si parte da qui, non si può comprendere il progetto della Pescara Calcio di realizzare un nuovo impianto sportivo”. L’Udinese ha costruito il suo nuovo stadio ristrutturando il vecchio e la Juventus ha realizzato l’Allianz Stadium sulle ceneri del vecchio. Perché, come sembrava all’inizio, non avete pensato a riqualificare lo stadio Adriatico esistente? “Il

primo progetto presentato dalla Pescara Calcio – continua Antonello Ricci- riguardava proprio la riqualificazione del vecchio stadio Adriatico che rimane una parte importante della storia dell’architettura e dello sport di questa città. Ma l’apposizione del vincolo di tutela da parte della Sovrintendenza che rende impossibile l’eliminazione della pista di atletica e dell’anello originario progettato da Piccinato, rende inattuabile un intervento di recupero che assicuri i requisiti previsti dall’UEFA per i nuovi impianti”. La zona scelta per realizzare questo impianto è quella della Pineta dannunziana. Come mai? “In realtà la scelta del sito del nuovo stadio è dell’amministrazione comunale che nell’ambito del Polo della Conoscenza e del Benessere ha individuato un’area ubicata tra la ferrovia e San Silvestro spiaggia, già destinata dallo strumento urbanistico comunale all’insediamento di impianti sportivi.” Quindi vi siete limitati a recepire le indicazioni del Comune? “No, abbiamo verificato se la nuova area avesse le caratteristiche infrastrutturali previste dalla FIFA per gli impianti sportivi e abbiamo constatato che la presenza della linea ferroviaria che con una fermata ad hoc può fungere da metropolitana di superficie, di aree per parcheggi di scambio e della fermata del trasporto pubblico di massa, integrassero alla lettera i requisiti previsti dalle organizzazioni calcistiche europee e mondiali. In più, lo stadio rimane in un’area, quella di Porta Nuova, che da sempre è la casa dello sport e del Pescara calcio. A.C. 51


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LO STORICO AMATO IN POLONIA Prestigiose onorificenze assegnate allo scrittore pescarese per i suoi lavori sulla Seconda guerra mondiale

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razie alla sua autorevole competenza e, soprattutto, al suo grande entusiasmo, molti giovani storici italiani si sono appassionati alla storia del nostro Paese». Con queste parole l’ambasciatore della Repubblica di Polonia e ministro plenipotenziario, Tomasz Orłowski, ha concluso la laudatio pubblica e ha appuntato sul petto di Marco Patricelli la medaglia d’oro della Croce di ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica di Polonia (Order Zasługi Rzeczypospolitej Polskiej). Un’onorificenza riservata a cittadini polacchi e stranieri che si siano particolarmente distinti a favore della Polonia. La solenne cerimonia è avvenuta nei giardini dell’ambasciata a Roma, nel giorno della Festa nazionale polacca per la Costituzione del 3 maggio 1791, di fronte al corpo diplomatico, ad autorevoli rappresentanti del mondo politico e culturale, al picchetto d’onore dell’Esercito polacco e alla Banda dell’Arma dei Carabinieri. La medaglia è stata assegnata a Patricelli e all’ex sindaco di Cassino, Giuseppe Golini Petrarcone dal Presidente della Polonia Andrzej Duda. Lo storico abruzzese anni addietro era stato il primo italiano insignito dal ministro degli esteri Radosław Tomasz Sikorski, su delibera del Consiglio dei ministri, dell’onorificenza di “Benemerito” di Polonia, sempre per alti meriti culturali. L’ambìta Croce di ufficiale aggiunge ora un ulteriore e importante riconoscimento al valore di un autore che in Polonia, ma non solo, gode di grande considerazione: viene infatti spesso invitato a tenere conferenze e a partecipare come relatore a seminari (Università di Varsavia, Università Jagellonica di Cracovia), scrive per riviste specialistiche, collabora a iniziative culturali internazionali. Sempre l’ambasciatore Orłowski, a sua volta storico, ha sottolineato davanti ai presenti che «Le sue competenze in materia di storia europea del ‘900 e della Seconda guerra mondiale sono riconosciute a livello internazionale. È un autorevole e appassionato studioso della storia contemporanea della Polonia e uno dei suoi più dediti divulgatori in Italia e autore di numerose pubblicazioni sulla Polonia nel periodo

del secondo conflitto mondiale. Una sua opera per tutte rimane di straordinaria importanza: il suo libro Il volontario, uscito nel 2010 in Italia, e poi in altri paesi, che ripercorre la vita di Witold Pilecki, ufficiale polacco che per primo denunciò ai potenti dell’Occidente gli orribili crimini che venivano compiuti nei campi nazisti tedeschi di sterminio. Il testo di Patricelli fu la prima biografia mai scritta di questo eroe dimenticato anche in patria, vittima di due regimi totalitari, prima prigioniero dei tedeschi ad Auschwitz, poi detenuto nel carcere polacco della polizia staliniana, dov’è stato giustiziato». La cerimonia in ambasciata corona un lungo impegno nello studio e nel racconto della storia contemporanea europea, non solo a livello di pubblicazioni per le più prestigiose case editrici italiane, ma anche con una parentesi di insegnamento universitario alla “D’Annunzio” di Chieti. L’attività editoriale di Patricelli, di ampio respiro e di riconosciuta caratura, è testimoniata poi dalle traduzioni all’estero, dalla trasposizione televisiva di alcuni suoi lavori in forma di docufilm e docufiction (per Rai, Mediaset e ZDF) e dalla partecipazione in qualità di esperto a programmi di storia e documentaristici in Germania e Polonia. Ha peraltro ricostruito e ribaltato alcune prospettive storiche che apparivano consolidate nella vulgata. Marco Patricelli ha da poco pubblicato per Laterza il saggio L’Italia delle sconfitte – Da Custoza alla ritirata di Russia che si è imposto all’attenzione anche per la parte dedicata alla battaglia di Caporetto, di cui quest’anno ricorre il centenario, analizzando come i disastri militari della storia unitaria abbiano tutti una comune matrice, con l’invasività della politica e dei poteri forti che hanno premiato e privilegiato a scapito delle competenze. Attualmente sta preparando uno studio sulla Resistenza. Patricelli dice di sé e della sua attività di storico, scherzando (ma forse non troppo): «Non faccio parte di nessun partito, circolo, club, consorteria, cenacolo, corporazione, associazione, quindi sono totalmente libero di scrivere». A.C.

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RIBALTA MUSICA GIANNI DE BERARDINIS

SOGNANDO LA CALIFORNIA

Una vita a presentare i dischi dei cantanti più famosi. Cominciò a Radio Luna (la prima “radio libera” pescarese), passando per Radio Montecarlo, Discoring su Rai Uno e Buona Domenica con Maurizio Costanzo. Ora il suo CD se lo suona e se lo presenta di Roberta Zimei

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ll’anagrafe è Gianni De Berardinis, nato a Pescara nel 1955: in arte, quella dei primi anni di successo, Gianni California, perché la California ce l’aveva in testa e ne parlava in continuazione. E quasi per un gioco del destino l’immagine di quella parte dell’America che per tanti contemporanei ha evocato sogni e progetti di futuro, lo ha accompagnato per gran parte della sua carriera di dj prima e conduttore televisivo, tra i maggiori esperti di musica, dopo. Fino ad approdare sulla copertina del suo ultimo disco, il primo da solista, sulla quale campeggia la sua macchina davanti a casa di Los Angeles dove alla fine ha vissuto davvero. Un viaggio verso il successo, quello di Gianni De Berardinis, che ha fatto i primi passi a Pescara e che, passando per il Principato di Monaco, Roma e, appunto per la California, si è fermato, almeno per il momento, a Milano. Ricorda tutto con emozione e al disco ha dato un titolo che è la sintesi della sua vita “Priceless vuol dire senza prezzo, perché senza prezzo è proprio la mia esperienza e non c’è denaro con cui possa essere pagata”. Nelle 12 tracce contenute in Priceless, De Berardinis racconta la sua esperienza professionale e umana rendendo omaggio a quegli artisti che tante volte nel corso della sua carriera ha presentato e intervistato; interpreta alcuni dei pezzi sacri della musica di tutti i tempi, da Heroes di David Bowie a Don’t let it bring you down di Neil Young, da Have you seen the stars degli Jefferson Airplane a Sunday morning di Lou Reed e Velvet underground e Andrea di Fabrizio De Andrè, passando per alcune sue canzoni come Greta (dedicata alla figlia americana) a She falls like rain (“Una canzone di un amore grande che mi rinnova ogni giorno”), in un disco acustico, senza batterie, registrato in home sessions allo Studio Scandaglio durante gli ultimi mesi del 2015. Dalle sue prime esperienze musicali a Pescara sono passati più di 40 anni. Cosa le è rimasto di quel periodo? “Direi tutto. Priceless è figlio proprio di quegli anni e racconta il grande amore di un ragazzo di provincia per la musica. Non c’erano spazi, occasioni, non c’era niente. Io e quelli

come me eravamo affamati di tutto quello che aveva a che fare con i nostri sogni e ci nutrivamo compulsivamente di ciò che c’era: dai jukebox ai negozi di dischi e agli strumenti musicali. Negli anni ’70 a Pescara avevamo formato un gruppo, Il negozio dei colori, e facevamo i primi concertini negli stabilimenti e le prove nelle cantine”. Poi, nel 1975, arriva la prima esperienza in radio, a 7G7, l’emittente di Gianni Lussoso. Subito dopo, l’avventura di Radio Luna “Peppe De Cecco mi disse: vai in onda” e così iniziai quel programma diventato ben presto il più ascoltato. Eravamo professionisti che lavoravano a un progetto preciso. Eppure c’era quel contrasto tipico della provincia, che avvertivo e che mi stava stretto: realizzavamo grandi cose con una mentalità chiusa. Eravamo sempre quelli di piazza Salotto anche se facevamo musica con tutta la passione possibile”. Dopo qualche collaborazione con la sede regionale della Rai, nel 1979 arriva per De Berardinis la grande occasione: a Radio Montecarlo cercavano uno speaker e non stiamo neanche a dire che Gianni California venne preso immediatamente. “Lì erano davvero molto preparati e professionali, ma dalla mia avevo quel grande rispetto e amore per la musica che non mi ha mai abbandonato: il contratto prevedeva 2 ore in radio e io ci restavo ogni giorno sette o otto ore”. Da lì, California (era questo il suo nome rivisto dalla nuova emittente) passa a Rai Uno per Discoring (10milioni di spettatori ogni domenica), a Popcorn con Claudio Cecchetto nell’allora nascente Canale 5 e a Buona Domenica di Costanzo. Poi tutte le radio maggiori che Gianni ha visto nascere e di cui è stato un pilastro: da Rtl a Radio 101, da Rds a Radio 24. In mezzo tantissima musica, tanti incontri (Frank Sinatra, B.B. King, David Bowie, Mick Hucknall per fare qualche nome) e la produzione di diversi album. È così che è arrivato a Priceless. “Questo mio disco è un omaggio alla musica, è il sogno nato in provincia con cui campo da 50 anni. Lo so, sono di Porta Nuova e canto in inglese. Ma mi viene naturale”.


PAOLO RUSSO

BANDONEON NON SOLO TANGO Un nuovo modo di suonare lo strumento argentino proposto dal musicista abruzzese di Fabio Ciminiera

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n concerto in solo, bandoneon e pianoforte («Più bandoneon che pianoforte, però...») per presentare un disco di composizioni originali. Paolo Russo continua nell’esplorazione delle potenzialità dello strumento: il nuovo lavoro segue a stretto giro la pubblicazione del precedente, sempre in solo, composto di alcuni celeberrimi standard del jazz reinterpretati con il bandoneon. «Da qualche tempo mi sto concentrando sullo sviluppo di un nuovo modo di suonare il bandoneon. Arrivato a questo punto del mio percorso, il mio pallino è proprio trovare un linguaggio che si possa applicare allo strumento e che sia in qualche modo “slegato” dal tango. È chiaro: senti il suo suono e pensi subito all’Argentina, ti ritrovi in un attimo tra tanghi e milonghe. Si tratta di una letteratura fantastica, di altissimo livello. D’altronde, in tutti i miei viaggi a Buenos Aires, mi sono confrontato con la tradizione argentina e con i suoi diversi interpreti, sia quelli più ligi ai canoni che quelli che stanno cercando di aprire nuove strade. C’è una cultura molto radicata e sentita, profonda. E il rispetto per la tradizione, si connette sempre con una forma di eccessiva diffidenza nei confronti di tutto ciò che è nuovo». «La tradizione è salvaguardia del fuoco, non adorazione della cenere», per citare Mahler. E, sulla scorta di questo concetto, possiamo rileggere la storia del bandoneon, una tra le parabole più affascinanti che popolano la storia della musica. Lo strumento nasce in Germania: Heinrich Band lo concepì come una sorta di “organo portatile”, in modo da accompagnare i canti delle celebrazioni e le liturgie sacre. Gli emigranti tedeschi gli fecero attraversare l’Atlantico e in Argentina ha trovato uno spazio importantissimo, fondamentale sarebbe più esatto, nelle varie espressioni musicali del paese sudamericano. «Lo suonano loro ed è diventato una cosa loro! Pensa che oggi, per legge, gli strumenti storici non possono più uscire dall’Argentina... e stiamo parlando di “oggetti” prodotti tra le due guerre nelle fabbriche tedesche: il tango è l’identità della nazione e il bandoneon la rappresenta nel modo più stretto.» La storia personale di ogni singolo musicista porta - e, se si vuole, impone... - a utilizzare gli strumenti secondo le proprie inclinazioni e le necessità espressive. «Non è una scelta programmatica, naturalmente. Sono nato a Pescara e vivo a Copenaghen: non potrò mai suonare

come un argentino né è mia intenzione farlo. Imitare in modo acritico il loro stile, le loro pronunce non ha davvero nessun senso per me. Amo lo strumento, le sue sonorità, le “complicazioni” della sua tastiera, la potenza del mantice. Sono andato in Argentina tante volte per studiare profondamente il linguaggio perché la tecnica e il suono del bandoneon sono stati sviluppati da loro e su quei canoni precisi. Il mio obiettivo, però, è affrontarlo con il mio stile. Con una certa incoscienza, mi sono trovato a portare la mia “versione” del bandoneon, le mie composizioni e il mio modo di improvvisare, in posti storici come il Club Torquato Tasso, dove si sono esibiti tutti i campioni del tango, sia di tradizione che di avanguardia. Non ho suonato il tango ma hanno apprezzato e hanno compreso l’autenticità della mia espressione. E poi, in realtà, non ti devi sforzare di essere originale: ognuno di noi ha un suo racconto del tutto unico.» Materiale nuovo. Arrangiato e, in parte, composto nel corso di un “ritiro” pescarese. «Gli standard del jazz sono stati un buon veicolo per relazionarsi al mondo esterno e quindi un ottimo punto di partenza. Per questo nuovo lavoro ho scritto tre tanghi, rivisitati alla mia maniera, una ninna-nanna, uno choro brasiliano, una mazurka, una tarantella, una ballad e due danze balcaniche.» Il tango ovviamente non esce dagli interessi di Paolo Russo. «Lo studio, lo suono e mi attrae. L’anno scorso ho realizzato Tangology che il pubblico di Pescara ha potuto ascoltare nella versione che ne abbiamo proposto con il Colibrì Ensemble: è uscito un disco, omonimo, che ho registrato con l’Ensemble MidtVest e che testimonia tutto il mio interesse per quel linguaggio. Per il filo narrativo del concerto, ho immaginato il bandoneon come il protagonista di un vero e proprio viaggio fantastico. Sento il bisogno, però, di provare a spingere lo strumento verso altre direzioni e trovare il modo di farci passare attraverso i miei sentimenti: d’altronde, se ha cambiato funzione una volta, attraversando l’oceano, perché adesso non potrebbe farlo un’altra volta?» E, proprio per dare ancora maggiore profondità al percorso compiuto finora, insieme al disco, Russo pubblicherà anche un libro con gli spartiti dei brani. «Non è mai facile trovare nuove partiture per il bandoneon e, in particolare, per il solo. Sarà un nuovo modo per mostrare cosa è possibile fare con questo strumento». 55


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RIBALTA TEATRO TAG TEATRO ABRUZZO GIOVANE

LA NUOVA COMPAGNIA NASCE COL DNA GIUSTO Il testo cult sul bullismo dell’autore inglese Dennis Kelly in Tournée anche fuori regione

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on lo spettacolo D.n.a., testo cult sul bullismo dell’acclamato autore inglese Dennis Kelly, nasce la compagnia TAG , Teatro Abruzzo Giovane (composta dai migliori attori under 30 di origine abruzzese che beneficiano delle musiche originali del bravissimo compositore aquilano Luigi Tarquini). L’intento è chiaro: radunare le più talentuose professionalità artistiche della regione attorno a progetti teatrali di qualità da far circuitare non solo nei teatri più prestigiosi d’Abruzzo e a Roma, ma anche sul resto del territorio nazionale. A novembre, lo spettacolo è andato in scena nella capitale, a TREND, la storica rassegna sulla nuova drammaturgia inglese curata dal critico di Repubblica Rodolfo di Giammarco, ma prima aveva debuttato all’Aquila, nel corso della Perdonanza, nel magnifico scenario del Parco del Castello. A fine novembre c’è stata la tournée nelle Marche. In Abruzzo, ci saranno gli appuntamenti nei teatri Marrucino (Chieti), Fenaroli (Lanciano), Caniglia (Sulmona) e al Comunale di Teramo, sempre con il patrocinio di AMNESTY INTERNATIONAL nella campagna contro il bullismo. La compagnia TAG, quindi, tornerà a Roma. La regia è di Antonia Renzella, attrice e regista di origine abruzzese, che da anni, con la sua Associazione Acculae, produce spettacoli di teatro itinerante come Notturno d’autore, spettacolo cult del Festival di mezz’estate di Tagliacozzo; il Macbeth di Shakespeare, andato in scena l’anno scorso nella prestigiosa stagione di prosa del Marrucino; il format del “teatro In camera d’albergo”, Grand Hotel Teatro Comedy, ospitato anche all’Esplanade di Pescara. Gli attori di Dna, in rigoroso ordine alfabetico, sono Alessandro Blasioli, Ilaria Camplone, Andrea Carpiceci, Lara Galli, Giulia Galone, Massimo Leone, Martino Loberto, Luca Molinari, Giorgio Sales, Massimo Sconci, Andrea Palladino. La trama di D.n.a. è uno spaccato della dimensione giovanile, che ha tratti di pura violenza, tanto da far ricordare un concetto primordiale:in natura i predatori puntano sempre l’animale più debole o più lento in un branco. Si assicurano il pasto con meno fatica e meno rischi. Entriamo nei dettagli. Adam è scomparso, inghiottito dal buio di un pozzo profondo e in disuso. E’ caduto giù, camminando in bilico su una grata, mentre i suoi amici si divertivano a lanciargli pietre addosso. Ognuno di loro sente di essere colpevole, ma

nessuno ha intenzione di essere scoperto. In preda al panico, i ragazzi mettono in atto un improbabile piano per allontanare i sospetti e inscenare il crimine perfetto. Il piano riesce al punto che viene accusato e processato un innocente. Le tensioni nel gruppo sembrano allentarsi, quando un imprevisto rimescola le carte, rompendo i nuovi equilibri tra i membri di questa micro società senza regole, modificando gerarchie e lotte di potere all’interno del branco. D.n.a. di Dennis Kelly è breve, acuto, scioccante: accumula abilmente i colpi di scena, mostrando come il senso di colpa e la paura lavorano sulle dinamiche di gruppo. Non importa che il tracciato sia improbabile, perché risulta affilato: la sua scrittura riflessiva entra dentro le teste dei personaggi. Una commedia nerissima che mette a nudo il modo in cui l’interesse personale, la pressione dei propri simili e l’incapacità di connettersi realmente ed entrare in empatia con l’altro porta ad un’abulìa dei sentimenti, fino a generare in un gruppo di adolescenti la determinazione a farla franca con l’omicidio. D.n.a. ha la semplicità e la chiarezza di una tragedia greca filtrata attraverso un episodio di bullismo. Come suggerisce il titolo, violenza, sopraffazione e crudeltà, riconducibili a un’istintualità primordiale, a un d.n.a., appunto, dell’essere umano. Non c’è nessun particolare contesto critico di degrado sociale a fare da sfondo. L’azione scenica si muove tra un campo e un bosco, spazio nascosto, lontano dallo sguardo pubblico, punto di ritrovo di un gruppo di ragazzi che ha instaurato un “regime” al di fuori delle leggi. La ripetività strutturale delle scene sembra rimandare a una ciclicità della vita, della storia, nel suo alternare lo schema: malessere, conflitto, persecuzione di un capro espiatorio. Questa micro-società riproduce la tipica struttura di un regime tirannico: ci sono i leader, i seguaci fanatici, quelli che non prendono posizione, quelli che obbediscono per paura di essere esclusi, emarginati, fatti fuori. E’ una micro-società dalla miscela esplosiva, votata ad azioni violente e irrazionali. Se le relazioni in un gruppo, in una collettività, non sono fondate sull’empatia, l’altruismo, la cooperazione non è possibile nessuna emancipazione della nostra specie, il branco continuerà a ricaderci addosso ciclicamente, perché nessun animale fa tanto ricorso a violenze inutili quanto l’uomo.

C.P.


RIBALTA ARTE TORNARECCIO

DOVE FIORISCONO

I MOSAICI La bontà di Alfredo Paglione nella capitale abruzzese del miele

per realizzare un museo a cielo aperto con le opere di grandi artisti internazionali

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iracolo a Tornareccio è l’efficace definizione trovata dal critico d’arte Gabriele Simongini nel suo contributo al volume Tornareccio Il paese dove fioriscono i mosaici (Allemandi, 2017) Non può esserci espressione migliore per sintetizzare quel che è accaduto, dal 2006 a oggi, nel ridente paese in provincia di Chieti che al consolidato rango di regina dell’apicoltura, può ora legittimamente aggiungere quello di paese dei mosaici. E se il titolo più antico, pur nella sua conclamata eccellenza, deve dividerlo con altre località italiane (sono ad oggi 39 i Comuni che fanno parte della Associazione Nazionale delle Città del Miele) sui mosaici il primato è assoluto. Il merito è di un cittadino illustre, Alfredo Paglione, nato proprio a Tornareccio, già notissimo gallerista e mercante d’arte di enorme successo. Legato anche da parentela (erano cognati, per aver sposato due sorelle) con Aligi Sassu, uno dei mostri sacri dell’arte del 900, Paglione ha realizzato grandi mostre, valorizzato artisti importanti, pubblicato volumi di pregio. Quando ha deciso di ritirarsi, è diventato un prolifico mecenate, con un occhio di riguardo in particolare per la sua regione, per la città in cui si è formato, Chieti, per il paese in cui è nato. In Abruzzo ha sino a oggi donato oltre 2000 opere, tra quadri sculture e oggetti d’arte. A Tornareccio voleva celebrare con originalità l’amore per la terra natia. E lo ha fatto. L’idea, partorita dal suo vulcanico cervello, è stata quella di trasformare il centro che gli ha dato i natali, appunto, nel paese dove fioriscono i mosaici. Ha inventato una rassegna annuale e, dal 2006 in avanti, sui muri della cittadina sono stati via via realizzati mosaici con grandi fir-

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me: già nel primo anno, grazie all’idea, a diversi sponsor e anche a una personale donazione di Alfredo e della mai dimenticata compagna di vita Teresita, comparvero mosaici con opere di Aligi Sassu, José Ortega, Jessica Carroll, Ennio Calabria, che di quella prima edizione fu il vincitore, Morena Antonucci, Robert Carroll, Carlo Cattaneo, Franco Mulas, Romano Notaro, Ruggero Savinio. Poi, negli anni, Giuseppe Modica, Bruno Caruso, Bruno Ceccobelli, Graziella Marchi e tanti, tanti altri artisti… “Una cittadina – scrive Simongini – che ha appena 1900 abitanti ma che può fare da esempio a livello nazionale. Una idea vincente, il sogno e il pragmatismo di un mecenate eccezionale, “seminatore di bellezza” in tutto l’Abruzzo, e non solo. Non sono mancate le difficoltà, anzi, ma Paglione è sempre andato oltre e oggi il suo sogno è una realtà: un museo en plein air, una ormai consolidata collaborazione con l’amministrazione locale e con i cittadini del borgo, che hanno superato le iniziali comprensibili diffidenze trasformandosi a loro volta, tutti, in appassionati cultori d’arte, l’intesa con il Gruppo Mosaicisti Ravenna… Tutto ha concorso operando insieme per uno straordinario risultato. Un miracolo, appunto. Anzi tanti, uno per ciascuna delle opere oggi presenti sui muri di Tornareccio. Paglione però si schernisce e, nella sua modestia, spiega alla perfezione la ricetta del suo successo e di quello della città dei mosaici. “I miracoli di Tornareccio? Sono frutto semplicemente di un po’ di buona volontà e di tanto amore”. Luciano Di Tizio


Nelle foto: Il centro storico di Tornareccio con l’esposizione permanente dei mosai di grandi artisti internazionali donati al suo paese da Alfredo Paglione

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RIBALTA LIBRI

ALIGI SASSU

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Sono stati l’arcivescovo metropolita di Chieti-Vasto mons. Bruno Forte e il critico d’arte e giornalista Gabriele Simongini a presentare in anteprima assoluta, presso il Museo d’arte Costantino Barbella di Chieti, il volume “Aligi Sassu, catalogo ragionato dell’opera sacra”, preziosa e completa opera realizzata con dedizione dall’ex gallerista e oggi mecenate Alfredo Paglione, che di Sassu è stato il cognato. Gli interventi sono stati moderati dal giornalista Luciano Di Tizio, presidente della Fondazione Immagine, arte e scienza, di Alfredo e Teresita Paglione nata a fine 2015 proprio con l’obiettivo primario di valorizzare i quadri e le sculture che il mecenate ha generosamente donato a musei e strutture espositive abruzzesi. Clori Petrosemolo

Nelle foto: in alto, La pietà, 1966 Loreto, Museo della Santa Casa. Sopra, Il Concilio Vaticano II, 1964 Pescara, chiesa di Sant’Andrea

ALIGI SASSU Catalogo ragionato dell’opera sacra a cura di Alfredo Paglione Silvana Editoriale p. 285

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DEAN MARTIN

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l romanzo fa della vita un destino, sostiene Roland Barthes nel suo testo Il grado zero della scrittura. Nel libro pubblicato nel centenario della nascita di Dean Martin, Gerardo Di Cola e Andrea Mosca tracciano invece la biografia che fa di una vita un romanzo. Sì, una vita romanzesca, di un abruzzese i cui ascendenti passano attraverso una ruota, quella dei conventi: a questa s’ispira il titolo che evoca il frammento eracliteo per cui, nel circolo, principio e fine fanno uno. Una biografia dettagliata, approfondita, documentata, ma originale nel suo dipanarsi a tre voci. Sono infatti tre le voci che interagiscono: in prima e terza persona Gerardo Di Cola è rispettivamente Dean Martin e lo storico, in gerza persona anche il narratore, Andrea Mosca. Le tre voci si distinguono anche per la scelta grafica che prevede tre diversi modi di impaginazione. Ne emerge un quadro storico e umano completo in cui si mostra la storia di una famiglia e di una vicenda umana che assurge, però, a simbolo della condizione umana. In particolare il protagonista, prima di diventare famoso, si tempra attraverso attività di ogni genere, dimostrando sempre grande volontà di affermarsi. Esemplare a riguardo la sua esperienza come pugile. Il ring come la vita: non puoi sfuggire alla competizione per cui inizio e fine sono scanditi inesorabilmente dal tempo. Di aneddoti, particolari, successi, amori, il libro riferisce in modo minuzioso. E altrettanto esplicativo, originale e ricco è l’apparato iconografico. G.D.C.

Nelle foto: da sinistra, Dean in una foto con la sua famiglia; Dean Martin con Frank Sinatra e Jerry Lewis; Gerardo Di Cola e Andrea Mosca immagini di Martin

DEAN MARTIN La ruota del destino di Gerardo Di Cola e Andrea Mosca éDICOLA editrice Chieti p. 144


Recensioni a cura di Giovanni D’Alessandro

STEFANO CASO

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ibreria Luigi (Janieri, 2017, p. 185, € 14) s’intitola il romanzo di Stefano Caso, autore friulano laureato in filosofia, docente di Comunicazione con esperienze di public relations per conto di Amministrazioni Pubbliche. Dal suo amore per le librerie Caso ha derivato una storia ironica che ha per protagonista un colto libraio, dalle traballanti sorti economiche, preda di passione e ossessione per gli autori, soprattutto classici, che vende. Al punto tale che, quasi alla fine di ogni capitolo, intesse con gl’illustri letterati defunti un dialogo, con tanto di domande e di risposte, raccontandole sia le esperienze erotiche (molte) consumate con varie amanti, in libreria o altrove, sia le occasioni (poche) in cui la famiglia gli ha dato prova di affetto; sia le difficoltà economiche (molte) in cui si dibatte, sia i ritorni di gioia (pochi) che gli vengono dalla vita e dalla lettura. Un libro scanzonato e colto, che ispira simpatia per il protagonista Luigi.

NICOLA GARDINI

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el bimillenario della morte di Publio Ovidio Nasone (Sulmona 43 a.C.- Tomi, 17 d.C.), il poeta relegato da Augusto, per uno scandalo rimasto misterioso, nella attuale Costanza in Romania sul Mar Nero, una testimonianza di attualizzazione e di riproposizione della sua figura ci viene da un noto classicista (docente ad Oxford e molto attivo sui media nazionali nella difesa e riproposizione della cultura latina come retaggio dell’umanità e base della cultura occidentale). E’ Nicola Gardini, tramite il recente libro Con Ovidio (Garzanti, 2017, p. €). Reduce dal successo del best seller del 2016 Viva il latino, Gardini non usa peraltro, nel riproporre il poeta di Sulmona, solo le frequenze saggistiche e specialistiche proprie del mondo letterario, bensì filtra, usando i toni di una narrazione, tali dati attraverso esperienze personali, anche di viaggi nei luoghi dove il poeta visse e morì, e dalle quali emergono una forte consonanza personale col mondo ovidiano e un’appassionata dedizione allo studio della opera in cui esso si è espresso.

ANTONIO DEL GIUDICE

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eneri e accorati i racconti che Antonio Del Giudice, narratore e giornalista con lunghe esperienze di direzione di quotidiani, ha raccolto in questa silloge, intitolata con un ossimoro, e dal nome di uno dei racconti, Il cane straniero (Tabula Fati 2017, p. 97, € 10, postfazione di Laura Bosio). C’è la Puglia stregata da cui proviene l’Autore, coltivata nelle sue radici forti e amare. C’è il tributo al ricordo e alla sofferenza delle generazioni, familiari e non, che lo hanno preceduto in quella terra. E c’è a un certo punto la magia che dalla Puglia e dal tempo astrae i personaggi, in ognuna delle 15 bellissime storie, facendone icone d’una condizione non più terrena bensì quasi sognante e metafisica; sollevata, grazie a un angelico colpo d’ala, da ogni dolore, da ogni malinconia, dalla vita terrena di cui sono preda, per restituirle a un cielo che ha i colori di Chagall, dove volteggiano come puri spiriti, guardando la parte di loro che è ancora laggiù, animati dalla gioia e dalla commozione.

SANDRO DE NOBILE

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omanzo pirandelliano, questo nuovo di Sandro De Nobile, docente e ricercatore universitario di san Vito Chietino (L’assente, Tabula Fati, 2017, p. 93, € 10) dove la identità di uno scomparso, cui volutamente non viene dato neppure nome (è solo l’assente - come recita il titolo) viene ricostruita attraverso le testimonianze e i ricordi di chi l’ha misteriosamente, e con modalità anche in apparenza inconciliabili, avvistato o incrociato. Così pian piano cominciano a emergere fatti, circostanze, episodi che conducono alla tessitura della storia della sua vita, sino a un inatteso finale, cui l’avvertito narratore consegna forse un messaggio: è un’illusione avere una identità fissa e immutabile da trasferire agli altri . Noi viviamo in loro, nella loro frammentaria ed episodica percezione. Sicché la fine della storia di uno scomparso è in fondo la fine dell’illusione di una presenza.

EZIO MATTIOCCO

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hi era Pietro Piccirilli (Sulmona, 1846-1921)? E’ stato una figura importante e attiva, a cavallo del Novecento nella mappatura, proposizione e valorizzazione del patrimonio artistico sulmonese e abruzzese; autore di opere conosciute nel contesto culturale non solo locale, bensì nazionale. Ce lo propone uno studioso del calibro del sulmonese Ezio Mattiocco, intitolato “Pietro Piccirilli, una vita per l’arte e per la scuola” (Edizioni Libreria Colacchi, L’Aquila 2016, p 312, € 30, con note di Walter Capezzali e di Francesco Sabatini; volume prezioso anche per i tanti, inediti inserti fotografici). E’ stata nel volume privilegiata la forma biografica, ripercorrendo tutta la vita del Piccirilli, con contributi resi possibili da Massimo Giorgi Piccirilli, pronipote di Pietro, che ha messo a disposizione di Mattiocco la documentazione familiare con l’inedito carteggio relativo al bisnonno e le numerose rarissime fotografie.

Deputazione abruzzese Di storia patria università sulmonese Della libera età

ezio Mattiocco

Pietro Piccirilli una vita per l’arte e per la scuola Edizioni LibrEria CoLaCChi L’aquiLa

LAURA BOSIO - BRUNO NACCI

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ra XVI e il XVII secolo si affacciano alla storia letteraria, per brillare, identità femminili forti, come meteore nel buio. Sono le rare donne che hanno avuto la fortuna, appartenendo a una condizione sociale elevata, di fruire di un’istruzione o almeno dei suoi rudimenti. Tra loro, Chiara Matraini (1515-1604), poetessa attiva nella Lucca della seconda metà del Cinquecento, riproposta, dopo recenti studi filologici, in una biografia di tono narrativo, scritta da Laura Bosio e Bruno Nacci intitolata Per seguire la mia stella (Guanda, 2017, p. 410, € 18). Della poetessa gli Autori narrano la turbinosa vita, dapprima in una famiglia scandalosa e avversata a Lucca; poi l’infelice matrimonio, la vedovanza, il nuovo amore l’infelicissima sottrazione del figlio da lei amato e la pratica della poesia. Il tutto sullo sfondo delle lotte sociali che a Lucca, come nel resto dell’Europa, nel Cinquecento preludono all’emergere della borghesia e alla regressione della nobiltà, al tempo di Chiara ancora feroce nella tutela dei suoi secolari privilegi.

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RIBALTA LIBRI

RIBALTA ARTE

MARCO TABELLIONE

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a parola che cerca il punto di contatto con l’oltre, che cerca di cogliere il punto in cui l’assoluto si fa rivelatore, la porta attraverso la quale non tanto passare dall’altra parte, quanto intravedere barlumi di un mondo sconosciuto e misterioso, un mondo di fuori che forse coincide con il mondo di dentro, con l’interiorità dell’uomo. L’eternità dell’acqua, il nuovo lavoro poetico di Marco Tabellione, docente, scrittore, giornalista ma soprattutto poeta, si presenta come un’opera ambiziosa, forgiata nel corso di lunghi anni, come confessa lo stesso autore, che torna ad una pubblicazione di poesie dopo 14 anni, essendo l’ultimo libro di versi, Tra cielo e mare del 2003. “Pur essendo la poesia il mio interesse principale” sostiene il poeta “ho atteso a lungo prima di pubblicare. Non volevo ripetermi, dopo 4 raccolte edite in poco più di 8 anni, ma soprattutto volevo maturare, perfezionare e raffinare la musicalità dei miei versi, e costruire un discorso che potesse farsi non dico definitivo, ma in un certo senso risolutore, o comunque organico”. Anni di riflessioni, di esperienze immaginative e visionarie, di appunti, di correzioni, di ispirazioni intense, che dunque hanno trovato il loro compimento nell’immagine dell’acqua e del suo fluire. “L’acqua” racconta ancora Tabellione “è diventata ad un certo punto la metafora giusta, il simbolo del continuo fluire dell’essere che volevo rappresentare con i miei versi, è stato un po’ come affidarsi alla corrente, lasciarsi trasportare e risalirne con nelle orecchie l’eco di quella che Mario Luzi definisce la musica perpetua, una sorta di eco che ci suona dentro e ci ricorda di continuo chi siamo, la nostra identità di individui a se stanti, che nello stesso tempo sono parti integranti di un tutto indivisibile, unico”. A conferma di questo tentativo di costruzione organica e armonica c’è la struttura delle sezioni in cui si compone il libro, diviso in tempi e cicli, e scandito secondo due parti principali, intitolate rispettivamente “La musica silenziosa” e “L’immagine invisibile”, due ossimori con i quali il poeta mira a mostrare la potenza del linguaggio poetico. “La poesia è musica silenziosa” spiega l’autore “perché è capace di offrire ritmi e melodie anche ad una lettura silenziosa cioè senza l’emissione di suoni, ma nello stesso tempo è immagine invisibile perché è tra i codici linguistici il più potente a stimolare l’immaginazione”. La poesia di Tabellione si offre anche come una sorta di risposta individuale e poetica al mistero dell’esistenza, un tentativo, magari ambizioso, di dare un senso, un colore, una direzione allo scorrere eterno degli istanti. “L’istante perpetuo” si chiama infatti una delle liriche presenti nella raccolta, raccolta che cerca di fissare l’essere dell’uomo, ma anche delle cose, fra due punti estremi, i quali costitu-

iscono anch’essi due sezioni del libro: L’appartenenza e La restituzione. “L’idea” spiega lo stesso poeta “nasce dal mio desiderio di sistemare i componimenti secondo due chiavi di lettura: l’appartenenza appunto, che contribuisce a creare in tutti l’identità personale, partendo dal riconoscimento degli altri e del nostro fluire con gli altri e negli altri, e la restituzione che coinciderebbe con la fine e la morte, durante la quale torniamo a restituire il dono dell’essere che ci è stato concesso, cioè torniamo a ridare indietro la nostra identità, la nostra individualità per perderla nuovamente nello scorrere cosmico”. In effetti quasi tutte le poesie si muovono attorno a questi cardini concettuali e spirituali, ponendosi come tassello di un identico colloquio con l’assoluto. Almeno questa è anche la considerazione che Dante Marianacci, autore della prefazione, fa nella sua analisi del libro, acuta e in grado in un certo senso di offrire una prima sistemazione critica al magma di musicalità e versi a cui Tabellione ha dato origine. “I cicli si ripetono come le stagioni” scrive Marianacci nel suo testo intitolato non a caso Note per un dialogo con l’assoluto “e nell’archeologia dell’umano esistere, si ripetono nella geologia delle epoche che si sovrappongono e mutano, come i colori dell’iride, anche newtonianamente inteso, o nei colori dell’iride, si ripetono i cicli in una serrata alternanza tra materia e antimateria, tra la bellezza delle cose del mondo e la meraviglia di esserci, o lo straordinario dono dell’esserci stato: “Esserci stato / questo è il dono / questo è il sogno / la meraviglia”. Conclude così il prefatore citando direttamente alcuni versi. Insomma un libro importante questo di Tabellione, da non perdere per coloro che tengono a cuore la poesia e il suo messaggio di profondità, magari abbinandolo alla visione del recital che il poeta ha costruito a latere del libro, e che viene utilizzato come presentazione dello stesso, dove le parole sono unite a suoni e immagini nel tentativo di costruire un linguaggio globale che vada anche oltre la parola. “Ovviamente per me la lettura silenziosa del libro resta prioritaria” conclude Tabellione spiegando la particolare natura del recital “tuttavia ho cercato di concretizzare e materializzare le visioni e gli ascolti che hanno fatto da sfondo alla composizione delle poesie e che spero di aver sotteso ai versi. Insomma si tratta di una performance che dovrebbe ricreare a livello scenico il viaggio di emozioni e pensieri che suggerisco dal libro e che nel libro ognuno spero possa ritrovare”. L’ETERNITÀ DELL’ACQUA Poesie di Marco Talellione Chiaredizioni, 10 euro, 121 pagine

MASSIMO CARBONI

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ome Michel Foucault e Pierre Hadot, ognuno dalla propria postazione storico-teorica, ci hanno ricordato, la filosofia antica non era solo un discorso ma anche un gesto, una concreta pratica esistenziale proposta come modello ed esempio. L’innovativa tesi del libro è che il testimone di questa “arte della vita”, di questa antropotecnica come lavoro inventivo e creativo su di sé, non è stato però raccolto dalla filosofia moderna, tranne al-

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cune rare eccezioni (e tra queste viene qui affrontato il “caso Rousseau”), impersonale, tecnicista, professionalizzata, ma dalle correnti più significative delle arti modernocontemporanee, ivi comprese quelle teatrali, impegnate da Duchamp in poi non a produrre l’oggetto “opera d’arte” nel senso classico-tradizionale del termine, ma, all’interno di una pratica dell’inoperosità e di una estetica dell’esistenza, a proporre percorsi e paradigmi di vita esemplari. Se questo è

vero, allora anche l’attuale modello dell’insegnamento artistico va radicalmente cambiato, ed è questo il delicato tema su cui il libro si chiude. IL GENIO È SENZA OPERA Filosofie antiche e arti contemporanee di Massimo Carboni Jaca Book 285 pagine


FRANCA DE LEONARDIS FABRIZIO MASCIANGIOLI

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’idea di questa raccolta di saggi nasce dalla volontà di tenere vivo il dibattito su una questione culturale ancora irrisolta, quella della definizione degli elementi identitari dell’Abruzzo così come si sono sedimentati in un lungo processo storico dalla fine del Settecento in poi. In qualche modo si tratta di fare i conti con le vicende e i protagonisti della nostra regione nell’arco di oltre due secoli, assumendo un’ottica “nazionale” per cercare di superare un certo complesso di “marginalità” riemerso nella prolungata crisi che stiamo vivendo. In questa prospettiva si è voluto evidenziare il rapporto che lega alcuni personaggi della storia abruzzese ( Silvio Spaventa e il giovane Croce, i fratelli Bucco, Erminio Sipari, i socialisti Guido Celli ed Emidio Agostinone, Gabriele d’Annunzio, Giacomo Acerbo, Ignazio Silone, Ettore Troilo, Laudomia Bonanni, Giuseppe Spataro ) al concetto di “modernità”, inteso come il complesso delle problematiche sociali, politiche e culturali che hanno segnato le origini e il primo sviluppo dello stato unitario italiano. Non a caso l’arco cronologico, entro il quale si collocano i personaggi e gli eventi di questo libro, si chiude nel Secondo dopoguerra, nella fase iniziale della ricostruzione del paese e dunque alle soglie del pieno decollo industriale. Prima cioè che il “boom economico” trasformasse la società italiana radicalmente (quasi antropologicamante, potremmo dire con espressione pasoliniana) realizzando uno scenario socio-culturale totalmente diverso con protagonisti diversi. SUL CAMMINO DELLA MODERNITÀ Protagonisti abruzzesi dall’Unità d’Italia al Secondo dopoguerra A cura di Franca De Leonardis e Fabrizio Masciangioli Rubbettino edizioni

PAOLO MARTOCCHIA

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ulla Sulla scia di Zi’ Ntonie, il contadino di Sant’Eusanio del Sangro a cui dedicò prima un documentario che su YouTube sta avendo un grande successo e poi un libro edito tre volte, Donato De Francesco continua a rivalutare la saggezza e la cultura contadina al cospetto di una tragica modernità. Un libro molto politicamente scorretto, dove l’autore si firma con lo pseudonimo Eliaba, in Fuori dal baratro! Cultura cittadina e perversioni moderne (I Libri di Emil, Euro 19). «La cultura contadina», scrive il Prof. De Lucia nella presentazione del volume, «ha applicato sapienze millenarie alla fruttificazione di terreni e piante, nonché alla promozione della fecondità del bestiame, ed ha elaborato un formidabile sapere mitopoietico, per attingere alle meraviglie della natura, di questo mondo, dei mondi invisibili, e del divino». Elìaba scrive di tutte le pesanti contraddizioni, con il corteo di malizie e di malefatte, che la cultura cittadina ci propina quotidianamente. E sono molti i casi in cui l’autore non si risparmia, sparando a zero sul sistema fintamente democratico, bollato come il sistema più adatto per continuare a imbrogliare l’opinione pubblica e a tenerla sotto controllo. E la Chiesa? Si rifiuta di prendere atto che, dopo il peccato originale, tutta la ragione è menzognera e fuorviante, scrive De Francesco, il quale sottolinea: «I Vangeli non si studiano e chi lo fa finisce col non capirci niente. Ho imparato dal Vangelo autentico, non da quello “interpretato” dagli esperti, che è un Vangelo dilaniato e sterile».

SETTANT’ANNI DELLA RIVISTA ABRUZZESE

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a Rivista Abruzzese, Rassegna Trimestrale di Cultura diretta dal 1947 dal prof. Emiliano Giancristofaro e attualmente dalla figlia prof.ssa Lia, il 22-11-2017 in occasione del suo settantesimo anniversario, è stata oggetto di discussione, riflessioni e complimenti ai suoi Direttori in un incontro nella Sala Convegni della Facoltà di Lettere dell’Università di Chieti. Significative le relazioni del prof. Mario Cimini, docente di Letteratura Italiana e Storia del Giornalismo, del prof. Adriano Ghisetti ,docente di Storia dell’Architettura, della prof.ssa Eide Spedicato Jenco, docente di sociologia. Coordinatrice, la giornalista Maria Rosaria La Morgia. I Responsabili della Rivista sono fieri di non aver mai chiesto sovvenzioni a nessun ente e quindi di non essere “al servizio di partiti né di potenziati politici o economici”. Ciò avrebbe avuto un prezzo. Invece Essi sono orgogliosi di poter accettare le proposte di articoli a prescindere dalle scelte politiche di chi scrive. Essi risparmiano mettendo l’indice in copertina, iniziando un articolo anche in fondo pagina, non facendosi tentare dal fascino del colore pur di avere l’orgoglio di farcela da soli. E’ una rivista tutta bianca con contenuto numero di immagini. Puntata sul passato, sulla storia soprattutto della cultura abruzzese. Ma all’interno delle due pagine di copertina si leggono gustosi e frizzanti Asterischi sull’attualità, frutto della puntuta penna di Emiliano Giancristofaro e, dice il prof. Umberto Russo, che è da quelle pagine che inizia la sua lettura della Rivista. Inoltre, l’impegno editoriale di Emiliano Giancristofaro e della figlia, prof.ssa Lia non si limita al solo periodico perché Essi si interessano anche della pubblicazione di libri. E come ha confessato Giancristofaro, all’impegnativo e molteplice lavoro editoriale partecipa anche sua moglie, la gentile ed efficiente signora Lucia. A ragione Rocco Camiscia che fa gli auguri alla Rivista Abruzzese per i suoi settant’anni, definisce tale pubblicazione “senza un filo di trucco e senza ombra di rughe”. Anna Cutilli Di Silvestre

ANDREA GATOPOULOS

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’uomo storico e il vertiginoso sviluppo della propria tecnica occupano un lasso di tempo biologicamente insignificante perché si possa parlare di evoluzione nel suo senso tradizionalmente animale. Seppure coesistano diverse dimostrazioni sui cambiamenti fisiologici e intellettivi avvenuti nel corso dei millenni che ci precedono, pare ancora possibile parlare con certezza della stessa specie che inventò la scrittura cuneiforme, l’alfabeto fonetico e le realtà intellettive dei pochi primitivi rimasti al mondo con la forma mentis dell’uomo occidentale moderno, essi sembrano appartenere a orizzonti di pensiero diametralmente opposti. A livello percettivo l’evoluzione umana sembra progredire seguendo un ritmo molto differente da quello biologico, che si può definire a tutti gli effetti una linea iperbolica, in costante accelerazione. Tuttavia, paragonando la stasi di certe società tribali con la frenesia industriale dell’Occidente capitalista, questa definizione crolla immediatamente. Per difendere la nostra impressione iniziale, parteintegrante di una chiave di lettura del mondo, sentiamo il bisogno di distinguere radicalmente noi da loro, di tracciare una li- AMIGDALA nea di demarcazione - chiamata progresso- che essi Andrea Gatapoulos non hanno ancora valicato, sentiamo il bisogno di Il Varco Edizioni considerarci evoluti rispetto a dei primitivi.

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RIBALTA CINEMA

SCANNO LA FOTOGENICA “L

’ACQUA DEL LAGO E LA SUA METAMORFOSI” è il progetto ideato da Danilo Susi, medico fotografo, e realizzato con il contributo dell’Amministrazione Comunale. È stato riproposto durante l’open day 8-9-10 dicembre. Dopo aver vinto nel 2016 il premio internazionale “Scanno dei Fotografi” consegnatogli dal Maestro Gianni Berengo Gardin, Susi ha notato che i grandi fotografi che hanno reso celebre Scanno con le loro immagini non hanno mai evidenziato il lago né i suoi colori, quasi dimentichi della grande risorsa del paese…la sua acqua! ACQUASTRATTA è il nome della decennale ricerca di Susi, che è anche un marchio d’impresa depositato. Negli ultimi anni i file fotografici hanno subito una “metamorfosi”, dalla stampa su carta alla riproduzione su tessuti pregiati tipo seta, alla lavorazione orafa. Così sono stati ricercati i colori del lago nelle varie stagioni e i suoi particolari più reconditi, riprodotti in due tavole fotografiche “composizione 1 e 2”; una immagine è stata riprodotta su uno scialle in lana e seta dalla ditta DiRosa Paolo di Cantù e il cuore del lago è stato realizzato in una lavorazione di vetro soffiato da Alessia Fatone di Pescara e incastonata in metallo prezioso dalla Oreficeria Di Rienzo: tutti elementi di spessore artistico-creativo per dare una impronta nuova e moderna di Scanno, contenuti in un prezioso cofanetto, che sono stati accolti anche nel progetto de “Le Meraviglie d’Abruzzo”, ideato da Umberto Gavita di Scanno, il cui scopo è la rivalutazione dell’abito muliebre di Scanno con l’invito delle giovani coppie a sposarsi in Costume

LO SGUARDO ITALIANO «S

ono nato in un paese bellissimo». L’incipit del cortometraggio di Sandro Del Rosario racconta di un smisurato amore verso l’Italia. La pellicola e il libro che ne documenta il lavoro minuzioso è stato presentato dalla Fondazione Pescarabruzzo della sede di corso Umberto a Pescara. «Il film nasce dall’impossibilità di accettaree il divario esistente tra la ricchezza storico-culturale del nostro paese e la situazione di decadenza contemporanea -sostiene Del Rosario- da artista, non potevo tacere. E’ nella cultura infatti che si trova la matrice del progresso. Il ritorno al mare è sempre speciale per chi nasce in una località costiera. La natura esercita un richiamo atavico su ciascuno di noi. Ma nel film il mare ha anche una valenza simbolica, rappresenta il ciclo della vita, definisce la geografia e l’identità italiane, è stato protagonista nella storia del nostro paese». «Il processo creativo di ogni artista è un’avventura complessa e affascinante. Il mio varia a seconda dei progetti e delle situazioni, ma posso dire che in generale mi muovo tra intuizioni forti di matrice emotiva e irrazionale, e una ricerca espressiva metodica e meticolosa. Essendo l’animazione un’arte che richiede infinita pazienza e dedizione, è comprensibile come quest’ultimo aspetto sia sempre presente nelle mie opere. Tuttavia nel prodotto finale mi piace restituire quella spontanea intensità che ha generato la prima idea dell’opera, e che in seguito ne ha sostenuto la produzione,

spesso a dispetto di difficoltà e incidenti di percorso, fino al felice completamento. Mi piace pensare che questo sia stato l’iter creativo de Lo sguardo italiano


OFFICINA L’AQUILA S

uccesso per gli incontri internazionali di restauro e rigenerazione urbana, la manifestazione che ha portato nel capoluogo d’Abruzzo colpito dal sisma nel 2009 esperti da tutto il Paese in tema di edilizia, restauro, riqualificazione urbana, adeguamento energetico, sicurezza sismica, comunicazione nell’emergenza, turismo. Un bilancio positivo quello dell’edizione autunnale di “Officina L’Aquila 2017”, ha spiegato Roberto Di Vincenzo, coordinatore della manifestazione (promossa e organizzata da Carsa in collaborazione con ANCE Abruzzo, insieme ad ANCE L’Aquila, ANCE Chieti, ANCE Pescara, ANCE Teramo) che ha dato appuntamento a maggio 2018 per la prossima edizione della rassegna internazionale sulle buone pratiche della ricostruzione post-sisma. Il grande successo di questa edizione è stata testimoniata dalla presenza di esperti del rango di Masud Esmaillou, architetto “veneziano d’adozione” ma di origini iraniane e che nel 2006 è diventato presidente della sezione INBAR, l’Istituto Nazionale di BioArchitettura di Treviso. Proprio l’Iran conta decine di vittime per il terremoto di magnitudo 7.2 della scala Richter che domenica notte ha colpito l’Iraq, nella zona di confine con l’Iran. Una testimonianza, quella di Esmaillou, che ha posto l’accento sull’eccellenza della ricostruzione aquilana: “L’Aquila - ha detto - è un modello da studiare e da cui imparare, ma manca la partecipazione per renderla una vera ‘officina’ di saperi e di competenze”, lanciando un gemellaggio tra L’Aquila e le città iraniane. Agli incontri hanno partecipato Donato Di Ludovico, docente della facoltà d’Ingegneria dell’Università dell’Aquila che ha posto l’accento sull’importanza di non perdere di vista la rigenerazione del

patrimonio pubblico, fondamentale per i processi di ricostruzione. Alla tavola rotonda sono intervenuti, tra gli altri il presidente della Federazione degli architetti di Abruzzo e Molise, Sandro Annibali, Giuseppe Tempesta dell’Ordine degli ingegneri dell’Aquila, la docente universitaria di Ingegneria dell’Aquila Simonetta Ciranna e il segretario regionale del ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo per l’Abruzzo, Stefano D’Amico. “Cantieri aperti” si conferma il fiore all’occhiello di “Officina L’Aquila”: circa 600 i visitatori dei cantieri tra studenti delle scuole superiori della provincia dell’Aquila, dei corsi universitari di Ingegneria dell’Università dell’Aquila, professionisti, semplici cittadini che si sono accreditati per visitare, sotto il controllo e la supervisione dei tecnici dell’Ese Cpt (il Comitato paritetico territoriale – Ente scuola edile) e del direttore Lucio Cococcetta, i cantieri autorizzati (Palazzo Notar Nanni del Consorzio Di Vincenzo & Strever; Consorzio Piazza Duomo Corso Vittorio Emanuele di Cingoli; Palazzo dell’Emiciclo dell’ATI Rosa Edilizia - Ricci Guido Elettroidraulica Silvi e, per la prima volta, il Teatro San Filippo del MiBACT). A.C.

GALLERIA PESCARA I

l fermento artistico che ha animato la città di Pescara dalla metà degli anni Settanta in poi è il frutto di una casualità o dietro c’è qualcos’altro? In questo offre al lettore una ricostruzione quanto più completa possibile del sistema galleristico cittadino dal 1955 al 1975. È ben noto che oltre questa data molte delle gallerie cittadine prese in considerazione hanno proseguito la propria attività espositiva, ma con questa ricerca si vuole dimostrare che se Pescara è stata al centro di un particolare fermento culturale, che ha trovato il suo apice dal 1975 in poi, è perché c’è stato un ventennio precedente in cui sono state costruite le basi per convincere alcuni galleristi, critici, storici dell’arte e artisti a eleggere il capoluogo adriatico centro operativo per la promozione e la divulgazione delle proprie iniziative. Non avendo mai creduto nella casualità ed essendo conssapevole che la filantropia non è mai stata la prima qualità dell’essere umano, è possibile credere che se molti scelsero Pescara per impiantare le proprie attività artistiche è perchégrazie al lavoro compiuto dal Liceo Artistico “Misticoni” e dalle gallerie d’arte, attive dal 1955 al 1975, è stato creato un humus culturale cittadino che ha reso la città abruzzese decisamente più sensibile alle arti visive. Il volume va letto sia sotto il profilo storico-artistico che sotto quello socio-economico perché oltre ai fenomeni culturali sono stati indagati anche gli aspetti umani e commerciali che hanno animato l’ambiente galleristico pescarese e per questi motivi non deve sorprendere se nel libro sono state poste una a fianco all’altra gallerie di buon livello ed altre più commerciali: l’obiettivo è stato quello di raccontare quanto sia stato importante il contributo di queste realtà alla crescita culturale e non solo della città.

TUTTO È INIZIATO PRIMA Pescara e le sue gallerie d’arte: 1955-1975 Ivan D’Alberto Di Felice Edizioni 242 pagine


[ VARIOGUSTO - LA RICETTA ]

Tajarelli e Fagioli

Fagioli (tondini bianchi), Aglio rosso, Alloro di montagna, Salvia, Olio extra vergine di Oliva, Sale, Olio”santo”. (Per la pasta) Farina di Grano duro, Acqua, Sale.

Su una spianatoia dividere in due parti uguali la Farina a fontana, unire ad una delle parti Acqua fredda sufficiente a fare l’impasto insieme ad una presa di Sale e con le mani lavorare la Pasta. Al centro dell’altra parte di Farina, versare Acqua bollente e un pizzico di Sale, impastare velocemente e unire questo secondo impasto al primo. Dopo aver lavorato bene la Pasta, stendere una sfoglia, avvolgerla al mattarello, tagliarla con la punta di un coltello affilato nel senso della lunghezza del mattarello in modo da ottenere dei rettangoli e tagliarla di nuovo al centro sempre nel senso della lunghezza. Sovrapporre le sfoglie di Pasta ottenute, tagliarle trasversalmente per ricavarne delle striscioline di Pasta molto corte, infarinarle leggermente e tenere da parte i “Tajarelli” in un capistero. Mettere in una pignatta di terracotta un pò di Olio, uno spicchio di Aglio spellato, due foglioline di Salvia, una foglia di Alloro e i Fagioli. Coprire con abbondante Acqua fredda, aggiungere una presa di Sale e fare sobbollire a fuoco molto lento con il tegame coperto. Girare di tanto in tanto con un cucchiaio di legno. A cottura avvenuta togliere dalla pignatta l’Aglio e le Erbe, unire i “Tajarelli” e appena risulteranno cotti al punto giusto, tirare via la pignatta dal fuoco, distribuire nelle scodelle da portata e prima di servire in tavola insaporire a piacere con qualche goccia di Olio “santo”


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