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Un anno da pinguini

Amo fotografare nella “wilderness” quel luogo che nessuno conosce bene e che non è ancora offeso, umiliato e torturato.

di Nico Zaramella

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Oggi parlerò una lingua difficile ma il momento è giusto. Incrocerò il viaggio e l’avventura nel mondo con il viaggio e l’avventura nella vita. Qualcuno capirà, qualcuno potrà intuire e qualcuno, solo qualcuno, percepirà anche ciò che si nasconde tra le righe: la musica delle parole che insegue quella della mia esistenza, fantasia. Non ricordo quante volte sono stato nell’Artico e nell’Antartide e nelle mille isole ghiacciate mobili e immobili al di là del circolo polare, ora con lo sguardo a Polaris, la stella dell’Orsa Minore, ora alla volta celeste dell’Orsa Maggiore.

A volte fa così freddo che un centimetro di pelle scoperta ti lascia in pochi minuti una cicatrice dentro e una fuori: una sulla pelle e una nell’anima. Il ricordo e forse anche la nostalgia del dolore è un incredibile pacemaker del tempo che passa scandito da piccoli e grandi fatti durante il giorno e la notte, tra luce o buio senza fine. Dolore per non dimenticare, dolore per sentire, dolore in cambio di nulla: ma così è la vita. Così racconterò con immagini, parole e suggestioni, anche diverse, dell’altrove, dell’Antartide.

Non ci sono digressioni enciclopediche perché tra le immagini e le parole si nasconde anche il mio Antartide: un mondo puro e “quasi” intoccato eppure già graffiato da cacciatori del più grande ed emozionante essere vivente: la balena e che non sazi di strage e sangue rubano in questo Continente perfetto anche il krill, il cibo dei pinguini e dei grandi cetacei. Penso non esista maggiore abiezione di rubare il cibo a chi altro non ha.

Un giorno infinito o brevissimo, sole, neve, ghiaccio e rocce. Ghiaccio sotto e ghiaccio sopra: tempeste di ghiaccio finissimo, uno scrub gratuito nelle più grandi ed indescrivibili “spa” del pianeta. In una piccola barca nella cuccetta di fianco alla mia dormiva John. Alle due, due e mezza di notte, mi diceva nel suo impeccabile e morbido inglese «…Nico... don’t you think it’s time for a cup of tea ???...». Forse era un modo gentile per condividere il mio russare notturno o forse solo l’emozione dell’attesa che non fa dormire. «…Why not ???…» non era certo una sfida ma un atto d’amore. Era sollevarlo da un peso e la voglia di parlare con lui del perché e per come eravamo nell’Antartide, a decine di migliaia di chilometri da casa, e per discutere, almeno per un’ora, di filosofia della fotografia.

Quante volte ho cercato di fermare il tempo, le molecole e le idee in una frazione di secondo per poi rendermi conto, più tardi, a casa, di avere comunque perduto ogni volta una buona occasione per fare meglio, per giocare bene una mano che forse è perduta in anticipo: tante volte mi sono chiesto se veramente l’attimo è fuggente o se è sempre fuggito.

Si perché dopo, nella notte, in quel buio frustato dal ghiaccio, avremo tentato tra onde più alte di una piramide e vento più duro della pietra di sbarcare proprio lì, lì che ora non si vede, dopo una disperata corsa per due o tre miglia avvinghiati in quattro o cinque ad un piccolo barchino, il rubber dinghy, per aggrapparci a quel muro bianco di fronte a noi.

Almeno o solo un’ora per parlare del come e del perché ma anche, o forse soprattutto, per chiederci se saremo ritornati, perché la vita è una faccenda definita, limitata: un limite sconosciuto per ognuno di noi ma anche un limite di specie, di genere e forse un limite del pianeta. Ma certamente non sappiamo se questa è l’ultima volta, se tornerò o se torneremo. È una fortuna inusuale: non capita spesso di vivere come se fosse l’ultima volta, l’ultimo giorno potendone al contempo parlare ed è una fortuna inusuale rivivere così tante volte come fosse l’ultimo giorno. Ogni notte c’è tè caldo, caffè e biscotti per chi naviga e aspetta che arrivi quel momento della notte per parlare del come e del perché e di filosofia della fotografia. Almeno per un’ora.

La mia vita sul mare è, per così dire, paga: non c’è sorpresa o tensione. Gli altri sono “compagni”, l’oceano e le onde da guardare rispettosamente dal basso in alto, stoviglie che cadono e passeggiate da burattini inusitatamente piegati ora a dritta ora a manca, port e starboard (qui a Venezia i naviganti direbbero babordo e tribordo) a controbilanciare il mare fuori con il mare dentro (quello nello stomaco). Ora dopo ora: più a sud dello Stretto di Magellano... Capo Horn... Cabo de Hornos… giorni e giorni per attraversare il Canale di Drake, il drago, il kraken: un intrigo da traduttore, una trappola di tentacoli già perché là, dove gli oceani non hanno nulla da spartire e non vanno d’amore e d’accordo, verso l’Antartide cilena e la penisola di Weddel, in poche centinaia di chilometri corre senza ostacoli la corrente circumpolare e solchiamo acqua sopra invisibili relitti, brigantini, sartie e vele incrostate dai molluschi, corpi dimenticati di navi e di esploratori, balenieri e uomini presi in trappola dai tentacoli del drago, una giostra di piccoli pesci che si rincorrono tra un’orbita e la mandibola pendula di un cranio abbandonato o un arto disarticolato che appeso a una gomena ci saluta o ci invita là, nel fondo del tratto oceanico più burrascoso del Pianeta.

All’altro capo del mondo, decine di migliaia di chilometri a nord, si va via oltre Thule con la prua del piccolo rompighiaccio a Nord cercando il drift ice tra nebbia e tempesta là dove il ghiaccio c’è ancora. Là, assieme a compagni dagli occhi di vetro per vedere lontano, c’è ancora il deserto e l’orso bianco e… triste. Ogni anno più lontano e più atteso, ogni volta meno infinito, comunque ci aspetta e tutte le volte si porta via qualcosa: pensieri, nostalgia, vita e un futuro più breve: il suo, il mio, il nostro. Ma anche il vostro tempo che così si consuma. Là dove è ancora bianco e deserto, da qualche parte, anche la vita è bianca e così come scompare il deserto bianco così scompare la vita bianca. Innocenza per innocenza, bianco per bianco che scompare. Occupati a generare piccoli e stupidi origami con la nostra esistenza non vediamo che la migliore vita è un foglio bianco, non stropicciato: un foglio di cui si vede il bordo, completamente libero e non rattrappito per poter scrivere quanto più è possibile una lunga storia. Più a ovest foreste umide, nebbiose e piovose nascondono vita inarrestabile come il vento che girando di terra in terra e di mare in mare sposta infinitamente molecole disordinate: still life.

Quante volte ho cercato di fermare il tempo, le molecole e le idee in una frazione di secondo per poi rendermi conto, più tardi, a casa, di avere comunque perduto ogni volta una buona occasione per fare meglio, per giocare bene una mano che forse è perduta in anticipo: tante volte mi sono chiesto se veramente l’attimo è fuggente o se è sempre fuggito. Quella mano perduta che avrebbe potuto lasciare il segno indelebile non solo della memoria ma della comunicazione: lo scatto migliore, lo scatto mai visto o l’idea irraggiungibile di verità. La vera sfida è sempre stata quella di misurare il tempo già passato... quello che non ha più misura alcuna se non con modi e grammatica: passato prossimo, passato remoto, trapassato, trapassato remoto ma comunque scomparso, tempo che ha perso ogni dignità se non nei segni della storia o parte teorica di misure fisiche. Il tempo reale è forse solo “presente” e “futuro”, ma appena trascorso non è più, un esercizio logico banalmente retorico. Quindi rimangono solo i cambiamenti ovvero fatti fisici, chimici o biologici già compiuti che ora sono ghiaccio sciolto, ghiaccio che ebbe il suo tempo e fu reale ma che oggi non è più: né come forma né come tempo. Ho pensato molte volte che il ghiaccio e la sabbia sono una delle migliori allegorie del tempo scomparso. Anche se, per buona ventura, il ghiaccio si consolidasse la sua intima struttura non sarebbe più quella di prima così come ogni volta che giriamo la clessidra i granelli di sabbia non torneranno mai più nella stessa posizione. Ed anche la vita non sarà più la stessa: nessun gemello è poi veramente uguale all’altro e ogni secondo ci avvicina alla morte. Una biologia cellulare ineluttabile.

Ogni cosa o vita ha la sua entropia, la sua auspicabile corruzione definitiva. Un respiro profondo o trattenere il respiro. In ogni caso la pressione sul pulsante di scatto deve essere lieve almeno quanto il dito di uno sniper sul grilletto. E tutto deve allinearsi per un solo attimo così come per un solo attimo si allineano i corpi celesti. Cuore, mente e occhio sulla stessa linea quasi come un segno già tracciato, forse noto, certo irripetibile. Una “destrezza” che ho costruito con illusioni e delusioni, gioia e tristezza, vittorie e sconfitte perché quella immagine era già in qualche modo dentro di me ed io aspettavo l’attimo giusto per non rischiare di perdere un altro pezzo del tempo assoluto e del mio tempo. Un cuore per ogni emozione, una mente per cercare il giusto alfabeto estetico e l’occhio che ne rintraccia i segni. Tracciati statici e linee dinamiche che si avviluppano in sezioni e regole d’oro, partizioni di mondo ordinate in una sequenza di Fibonacci o nei tratti di una rigorosa gestalt.

Alla sabbia, al ghiaccio e ai pianeti non è concessa una seconda chance e così nemmeno al mio inesistente quadro del reale perché è solo idea o forma in potenza. Solo un attimo per mille decisioni, solo un attimo per avverare luce, forma e colore che non esisterà più allo stesso modo: le ali di un uccello o di una farfalla non sono mai uguali né si muoveranno più nella stesse molecole dell’aria. Così se non sarà possibile rendere vero quel momento per me e per tutti allora... sarà perduto. In un attimo è possibile costruire un incommensurabile recipiente per la vita e contenerlo in un fotogramma.

Ricordo quando, ancora giovane fotografo, fui incaricato con altri di realizzare un archivio fotografico del territorio e solo allora mi resi conto di quanto l’immagine fedele sarà futura sostanza del cambiamento già accaduto, di quanto sarà storia e quindi informazione o misura concreta del tempo che non è più e ne fisserà il diritto all’eternità e si concederà, arte e conoscenza, democraticamente disponibile a tutti.

Più tardi ho studiato arte e fotografia, scienza e filosofia così ho trasformato la sensazione, il mio

“rendermi conto”, la semplice percezione in vera consapevolezza e determinazione. Ho iniziato a realizzare il mio rapporto personale tra storia, arte, informazione e fotografia ovvero l’idea che nulla è fine a sé anche se “solo ad uso umano”.

E allora così come renderò vero per immagini il vento che soffia incessante giorno e notte a 80 chilometri all’ora stracciando la mia tendina rossa dove “solo” cerco “la mia solitudine”, la mia migliore medicina, così come renderò vero per immagini il profumo di bruma tra i fortunati cedri Rossi secolari della foresta del Grande Orso così renderò vero, per immagini, un Indiano che mi indica un vecchio albero caduto di cui sta condividendo la nascita, la vita e la morte, «...it’s like a fence...», una linea esile e immaginaria che separa il mio obiettivo dal grande grizzly: anche Lui, l’Orso, mi guarda e pensa, così come l’Indiano, «...it’s like a fence...». A ognuno la sua difesa: oggi nessuna pallottola strapperà il diritto di vivere e nessun artiglio strapperà una storia straordinaria. Ci scambiamo uno sguardo prima di accarezzare il pulsante di scatto e così siamo amici per sempre: Io, l’Orso e l’Indiano. L’Indiano si allontana cercando nel sottobosco qualche foglia e qualche stecco. Io e il Grande Grizzly rimarremo soli mentre l’Indiano accenderà un piccolo fuoco, scalderà l’acqua per un tè in quello che fu, molti secoli fa, il deserto bianco o là dove la sua e la mia sapienza stanno, esattamente alla pari, complementari, sui confini del deserto: «...drink Nico... it’s healthy...». Buono, fa bene. Ed è tutto assolutamente perfetto, questo è il mio momento.

Come farò a fotografare questo pezzo della storia e della mia vita Io, l’Orso, l’Indiano e il tè? Ma l’Orso è ancora lì a qualche metro, tranquillo, «It’s like a fence», un recinto immaginario, un recinto di immagini così perché cuore, mente e occhio devono rimanere allineati: solo l’impercettibile movimento di un dito e il fruscio dell’otturatore interrompono nella mia mente l’idea che la fotografia perfetta non si sta fissando, ora, dentro la camera ma si realizza là al di fuori: un Uomo Bianco da solo a caccia del tempo della sua solitudine e del suo tempo definitivo, un Indiano appassionato del tè al confine della sua vita, del deserto dei suoi antenati, una linea di difesa, e l’Orso che forse è anche consapevole della finitezza quanto meno nella stessa misura in cui noi lo siamo e così sta con noi al confine del suo deserto. Per questo odio con tutto me stesso l’idea di immagine come “ricordo”.

Le foto e alcune frasi del testo sono in parte tratte dall’ultimo libro dell’autore pubblicato poco prima della pandemia, The Edge of the Desert copyright Nico Zaramella Worldwide Reserved

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