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L'occhio, la terra, il volo
FOTOGRAFIA
Inevitabilmente, un confronto serio fra due artisti della fotografia, come Bresson e Lartigue, non può che far emergere differenze e similitudini del loro operare, identità personali che, pur nella libertà del proprio agire, sono altresì specchio della società in cui hanno vissuto, nella misura della loro “reazione” ad essa.
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di Luisa Turchi
Inutile dire che non si può affatto rimproverare a un fotografo come Lartigue, enfant prodige e agiato borghese incapace di grandi ribellioni, che ama aggiungere alla propria firma il disegno di un “sole” stilizzato, di aver scelto di tramandare un diario visivo della felicità per immagini come “regali del caso”, anche quando in realtà pazientemente ricercati, nell’illusione reiterata quanto incompiuta di una umanità che si vorrebbe sempre paga e soddisfatta, trionfatrice sugli affanni e sui dolori, quasi che omettendoli, si cancellassero, come per magia. Cuore non vede, occhio non duole: è così che la fotografia diventa, apparentemente, un mezzo per rivivere momenti felici. La felicità come invenzione risiede solo nel considerarla come unica realtà, negando così l’infelicità. In realtà la felicità non è affatto un’invenzione, o meglio, lo è, solo se guardata con incredula indifferenza, senza essere anelata o compresa, contemplata e in definitiva perseguita.
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È, infatti, nascosta nella “vita di ogni giorno”, in quella quotidianità che all’improvviso rivela lo stupore di un attimo di meraviglia, poco importa se durante la Belle époque o in anni più vicini a noi, oggi come ieri. L’occhio di Lartigue è diretto verso il cielo, o meglio, è come sospeso nell’atto del volo, figurato o vero che sia: è racchiuso nella eterea e incredibile, sostenibile leggerezza di una bambina tra le nuvole della baia di La Baule in Bretagna, per intenderci. I suoi scatti a mezz’aria, al di là della propria contingenza storica, sono «capaci di entrare nella storia, e di essere al contempo frammento leggero di un sentimento profondo» come scrive Denis Curti, co-curatore della mostra di Lartigue alla Casa dei Tre Oci insieme a Marion Perceval e Charles Antoine Revol. Ecco allora nel primo decennio del Novecento, le corse automobilistiche e il movimento congelato di una ruota di “un’automobile deformata” al Gran Prix de L’automobile Club de France, o il volo di un deltaplano, tuffi, acrobazie sportive sull’acqua, sorrisi e capriole in famiglia con amici a quattro zampe. Ma anche l’eleganza intramontabile di signore a passeggio lungo le Avenue parigine, istantanee di corpi, mani e intensi volti femminili che sprigionano libertà bollente (Coco distesa a braccia aperte sull’arenile) o di contro stemperata dolcezza (Hiroko Matsumoto di profilo). L’amore e il rispetto per le donne che lo hanno amato si coglie nella bellezza eterna dei loro ritratti: è nel fresco pudore malizioso della prima moglie Madeleine Messager, detta Bibi, fotografata in bagno durante la luna di miele a Chamonix o mentre è a Hendaye, in costume, tra le ombre e i riflessi del suo parasole in acqua; è, ancora, nella languida sensualità della sua musa Renée Perle, distesa sul divano o in posa alla finestra, nell’erotismo composto di gambe nude e mani affusolate con anelli e unghie laccate dell’ultima moglie Florette Orméa. Spontaneità
profonda e gesti ordinari, avvicinano mostri sacri come Picasso, ripreso sia a torso nudo, con cappello e sigaretta in mano, che tramite i suoi polpacci, durante una seduta di agopuntura a Cannes. Lartigue inizia a fotografare a sette anni e dirà di aver sempre fotografato per sé stesso, e non per gli altri, sebbene goda che le sue immagini possano essere fonte di gioia per le persone che le vedono. La sua popolarità incomincia a sessantotto anni, quando viene scoperto da Richard Avedon, fotografo e ritrattista statunitense impegnato nel reportage e nella moda, e dal direttore del dipartimento di fotografia del Moma di New York, John Szarkowski, che gli organizza una retrospettiva nel 1963. Il suo sguardo sul mondo sarà sempre racchiuso in quel suo infantile desiderio di intrappolare luci e suoni che lo colpiscono, strizzando gli occhi, come a voler catturare le sue sensazioni di piacere, rendendole eterne: lo farà attraverso la fotografia ma anche tramite la pittura, con coraggio e sensibilità unica. E ora veniamo a Bresson, fondatore della Magnum Photos, insieme a Robert Capa: uno dei più rinomati fotoreporter d’altri tempi, viaggiatore ed esploratore instancabile per antonomasia, testimone delle guerre civili in Spagna, Cina, e della Guerra Fredda in Unione Sovietica, le cui fotografie sono un inno alla verità della vita così com’è, immortalando ogni età dell’uomo ed ogni classe sociale, non solo quella borghese dalla quale proviene. Dalla felicità dei giorni come evocazioni di istanti che si ripetono in ogni paese e cultura, e perciò universali, alle
stravaganze della vita di strada, ai vivi ritratti di personaggi che hanno fatto epoca e che riportano sulla loro pelle e nelle espressioni del viso i segni della loro esistenza, delineando caratteri non comuni, per giungere poi ad avvenimenti storici che hanno fatto da spartiacque tra un prima e un dopo da ricordare. Il Moma di New York gli dedica una mostra nel 1947. La sua monumentale Master Collection – 385 fotografie scelte da Bresson in persona nel 1973 – è divenuta nel 2020 oggetto di un interessante esperimento sociologico, promosso dalla Fondazione Pinault e costituito dalla nuova mostra organizzata in collaborazione con la Bibliothèque nationale de France e la Fondation Henri Cartier-Bresson, intitolata Le grand Jeu a Palazzo Grassi. Il curatore Matthieu Humery, infatti, ha invitato cinque personalità della cultura a fare ciascuna un’ulteriore selezione, in piena libertà, di una cinquantina di fotografie. Sono nate così cinque mostre nella mostra, determinate dalle voci del collezionista François Pinault, della fotografa Annie Leibovitz, dello scrittore Javier Cercas, della conservatrice e direttrice del dipartimento di Stampe e Fotografia della Bibliothèque nationale de France Sylvie Aubenas, fino al regista Wim Wenders. Non interessa qui rimarcare le diversità delle loro scelte, dovute certamente anche alla loro indole e attitudine artistica, al privilegiare l’estetica alla narrazione, consapevolmente o inconsciamente, mentre giova concentrarsi, piuttosto, sulle analogie curatoriali piuttosto che sulle differenze,
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ovvero sulle foto ‘ripetute’ nelle singole scelte (a loro insaputa, è bene sottolinearlo), ovvero sulle fotografie che in definitiva hanno riscontrato più successo, e chiedersi il perché, perché in quello sta la loro forza oggettiva, più che soggettiva.
È Wim Wenders a spiegare in un documentario, con la sua lente d’ingrandimento sulle fotografie, come Bresson si concentrasse soprattutto sugli occhi più che su qualsiasi altra cosa, occhi che s’incontrano, quelli del fotografo e dei suoi soggetti. Rispetto a Lartigue, Bresson è più ancorato alla terra, il suo è un punto di vista che si perde volutamente nello scatto, e precisamente negli occhi degli altri, che diventano i nostri, tessendo dialoghi muti attraverso reti di sguardi, cogliendo reciprocità che possono essere distanti o vicine. Così a Bougival ci identifichiamo come Bresson nel momentaneo riposo di un giovane in salopette e senza camicia, visto di schiena, che ruba e trattiene con lo sguardo una idilliaca scena famigliare su una chiatta, chiedendoci magari se durerà per sempre o no; siamo complici involontari di due signori che vorrebbero sbirciare in un cantiere edile di Bruxelles, guardiamo verso l’ignoto al di là del muro di Berlino, insieme ai tre uomini visti di spalle sopra una sorta di cabina elettrica, e ancora ci interroghiamo sulle regole del caso come l’anziana e distinta signora davanti a una roulette a un tavolo di Las Vegas.
A Barcellona ci addormentiamo vicino a un cesto di mele, lasciando che l’icona surrealista di un nostro possibile quanto casuale profilo caricaturale si materializzi sul muro come un graffito a deriderci, oppure ci sporgiamo dall’alto come spie, a fissare binari “senza sbocco” ma protesi verso l’infinito. Ritorniamo bambini anche senza esserlo mai stati, o forse sì, con le stampelle per i vicoli di Siviglia o di corsa per le strade di Palermo, con una chitarra in mano all’angolo di un negozio a San Antonio in Texas o col capo chino, infagottati come profughi di guerra e sopravvissuti a Dessau, dimentichi dei nostri giochi infantili su giostre in Lorena e già adolescenti oziosi, fra portici di colonne antiche in Provenza. Bresson ama i bambini come Lartigue, ma ne evidenzia le criticità e i miracoli del contesto, si tratti di povertà o altro, anche laddove c’è la poesia, il nitore e la purezza (il bimbo tenuto in bilico con un braccio solo, da un uomo, di fronte al Lago Sevan, in Armenia). La denuncia, l’impegno individuale e collettivo, emergono dalla risolutezza con le rughe e la bandiera americana di una vecchia donna di Cape Cod nel Giorno dell’Indipendenza, nei meandri di sangue del regno delle gang di Bowery Street a Manhattan, nel dolore passato e futuro della folla ai funerali di Gandhi. Impossibile citare tutti i ritratti significativi dell’artista: ognuno di essi, dirà Wenders, è come un “libro aperto”, senza segreti, che fa trapelare l’animo e il carattere dei soggetti raffigurati. Alberto Giacometti sotto la pioggia, che sprofonda nel suo impermeabile, con la paura di sciogliersi come le sue sculture, la ponderata incertezza di sbieco del filosofo e scrittore Jean-Paul Sartre sul pont des Arts a Parigi, l’anticonformismo profondo della scrittrice e attrice teatrale Colette insieme alla sua cogitabonda governante nell’ombra, l’intelligente arguzia dell’artista Alexander Calder, nel suo studio-residenza a Saché in Francia, l’impotente follia di Samuel Beckett nella sua biblioteca, i cui occhi guardano davvero “dentro, più che fuori”.
Bresson ricerca nelle sue immagini l’utilità come scopo, mai fine a sé stessa, ma come indice di lotta sottostante o apertamente rivelata: «fotografare è mettere sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore. È un modo di vivere». La sua Leica ci induce a indagare più a fondo, senza fermarci. Lartigue predilige invece l’utilità come scopo ma fine a sé stessa, ci rassicura maggiormente, tramite il raggiungimento anestetico di una pura serenità ovattata, momentanea visione necessaria al benessere dell’anima, che si vorrebbe destinata a protrarsi. «Il mio Universo è un enorme parco» dirà infatti, e tutti noi vorremmo farne parte. Di chi abbiamo più bisogno, allora, in futuro? Di fotografi come Bresson o Lartigue? La risposta è forse scontata, ma la scriverò ugualmente, correndo il rischio di sembrare banale, poiché come scriveva Gibran «l’ovvio è invisibile ai più, finché qualcuno non lo esprime con semplicità»: sì, abbiamo bisogno di entrambi. Poiché il Paradiso sulla Terra è ancora lontano da raggiungere, ammesso e concesso che si possa, come alcuni vorrebbero.
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