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FOTOGRAFIA
L’occhio, la terra, il volo Inevitabilmente, un confronto serio fra due artisti della fotografia, come Bresson e Lartigue, non può che far emergere differenze e similitudini del loro operare, identità personali che, pur nella libertà del proprio agire, sono altresì specchio della società in cui hanno vissuto, nella misura della loro “reazione” ad essa. Inutile dire che non si può affatto rimproverare a un fotografo come Lartigue, enfant prodige e agiato borghese incapace di grandi ribellioni, che ama aggiungere alla propria firma il disegno di un “sole” stilizzato, di aver scelto di tramandare un diario visivo della felicità per immagini come “regali del caso”, anche quando in realtà pazientemente ricercati, nell’illusione reiterata quanto incompiuta di una umanità che si vorrebbe sempre paga e soddisfatta, trionfatrice sugli affanni e sui dolori, quasi che omettendoli, si cancellassero, come per magia. Cuore non vede, occhio non duole: è così che la fotografia diventa, apparentemente, un mezzo per rivivere momenti felici. La felicità come invenzione risiede solo nel considerarla come unica realtà, negando così l’infelicità. In realtà la felicità non è affatto un’invenzione, o meglio, lo è, solo se guardata con incredula indifferenza, senza essere anelata o compresa, contemplata e in definitiva perseguita. È, infatti, nascosta nella “vita di ogni giorno”, in quella quotidianità che all’improvviso rivela lo stupore di un attimo di meraviglia, poco importa se durante la Belle époque o in anni più vicini a noi, oggi come ieri. L’occhio di Lartigue è diretto verso il cielo, o meglio, è come sospeso nell’atto del volo, figurato o vero che sia: è racchiuso nella eterea e incredibile, sostenibile leggerezza di una bambina tra le nuvole della baia di La Baule in Bretagna, per intenderci. I suoi scatti a mezz’aria, al di là della propria contingenza storica, sono «capaci di entrare nella storia, e di essere al contempo frammento leggero di un sentimento profondo» come scrive Denis Curti, co-curatore della mostra di Lartigue alla Casa dei Tre Oci insieme a Marion Perceval e Charles Antoine Revol. Ecco allora nel primo decennio del Novecento, le corse automobilistiche e il movimento congelato di una ruota di “un’automobile deformata” al Gran Prix de L’automobile Club de France, o il volo di un deltaplano, tuffi, acrobazie sportive sull’acqua, sorrisi e capriole in famiglia con amici a quattro zampe. Ma anche l’eleganza intramontabile di signore a passeggio lungo le Avenue parigine, istantanee di corpi, mani e intensi volti femminili che sprigionano libertà bollente (Coco distesa a braccia aperte sull’arenile) o di contro stemperata dolcezza (Hiroko Matsumoto di profilo). L’amore e il rispetto per le donne che lo hanno amato si coglie nella bellezza eterna dei loro ritratti: è nel fresco pudore malizioso della prima moglie Madeleine Messager, detta Bibi, fotografata in bagno durante la luna di miele a Chamonix o mentre è a Hendaye, in costume, tra le ombre e i riflessi del suo parasole in acqua; è, ancora, nella languida sensualità della sua musa Renée Perle, distesa sul divano o in posa alla finestra, nell’erotismo composto di gambe nude e mani affusolate con anelli e unghie laccate dell’ultima moglie Florette Orméa. Spontaneità
Coco, Deauville, 1938, Photograph by Jacques Henri Lartigue © Ministère de la Culture (France), MAP-AAJHL Jacques Henri Lartigue. L’invenzione della felicità. Fotografie, Casa dei Tre Oci
profonda e gesti ordinari, avvicinano mostri sacri come Picasso, ripreso sia a torso nudo, con cappello e sigaretta in mano, che tramite i suoi polpacci, durante una seduta di agopuntura a Cannes. Lartigue inizia a fotografare a sette anni e dirà di aver sempre fotografato per sé stesso, e non per gli altri, sebbene goda che le sue immagini possano essere fonte di gioia per le persone che le vedono. La sua popolarità incomincia a sessantotto anni, quando viene scoperto da Richard Avedon, fotografo e ritrattista statunitense impegnato nel reportage e nella moda, e dal direttore del dipartimento di fotografia del Moma di New York, John Szarkowski, che gli organizza una retrospettiva nel 1963. Il suo sguardo sul mondo sarà sempre racchiuso in quel suo infantile desiderio di intrappolare luci e suoni che lo colpiscono, strizzando gli occhi, come a voler catturare le sue sensazioni di piacere, rendendole eterne: lo farà attraverso la fotografia ma anche tramite la pittura, con coraggio e sensibilità unica. E ora veniamo a Bresson, fondatore della Magnum Photos, insieme a Robert Capa: uno dei più rinomati fotoreporter d’altri tempi, viaggiatore ed esploratore instancabile per antonomasia, testimone delle guerre civili in Spagna, Cina, e della Guerra Fredda in Unione Sovietica, le cui fotografie sono un inno alla verità della vita così com’è, immortalando ogni età dell’uomo ed ogni classe sociale, non solo quella borghese dalla quale proviene. Dalla felicità dei giorni come evocazioni di istanti che si ripetono in ogni paese e cultura, e perciò universali, alle
stravaganze della vita di strada, ai vivi ritratti di personaggi che hanno fatto epoca e che riportano sulla loro pelle e nelle espressioni del viso i segni della loro esistenza, delineando caratteri non comuni, per giungere poi ad avvenimenti storici che hanno fatto da spartiacque tra un prima e un dopo da ricordare. Il Moma di New York gli dedica una mostra nel 1947. La sua monumentale Master Collection – 385 fotografie scelte da Bresson in persona nel 1973 – è divenuta nel 2020 oggetto di un interessante esperimento sociologico, promosso dalla Fondazione Pinault e costituito dalla nuova mostra organizzata in collaborazione con la Bibliothèque nationale de France e la Fondation Henri Cartier-Bresson, intitolata Le grand Jeu a Palazzo Grassi. Il curatore Matthieu Humery, infatti, ha invitato cinque personalità della cultura a fare ciascuna un’ulteriore selezione, in piena libertà, di una cinquantina di fotografie. Sono nate così cinque mostre nella mostra, determinate dalle voci del collezionista François Pinault, della fotografa Annie Leibovitz, dello scrittore Javier Cercas, della conservatrice e direttrice del dipartimento di Stampe e Fotografia della Bibliothèque nationale de France Sylvie Aubenas, fino al regista Wim Wenders. Non interessa qui rimarcare le diversità delle loro scelte, dovute certamente anche alla loro indole e attitudine artistica, al privilegiare l’estetica alla narrazione, consapevolmente o inconsciamente, mentre giova concentrarsi, piuttosto, sulle analogie curatoriali piuttosto che sulle differenze,