© Nico Zaramella Worldwide Reserved mensile di cultura e spettacolo - n° 250 - anno 24 - Dicembre 2020/Gennaio 2021 spedizione in A.P. 45% art.2 comma 20/B - legge 662/96 - DCI-VE
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DEC20 JAN21
250 venice guide
e 3,00
OLTRE
Christmas 2020 NOTEBOOK
inserto speciale
BEAUTY
Santa Croce - Calle Agnello, 2161/A Visit the exhibition online ! The virtual tour is available at
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Fondaco dei Tedeschi is open every day 10am – 7pm Calle del Fontego dei Tedeschi, Ponte di Rialto, Venezia
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A m i s sed j o u r n ey toda y, a greater journey tomorrow
:editoriale
Uno specchio da ricomporre
È un numero stranissimo questo
250esimo della nostra oramai lunga storia. Come del resto lo sono stati tutti gli altri di questo anno per qualificare il quale oramai ogni aggettivo con una sua declinazione critica, ansiogena, preoccupata si è fatto logoro ed inservibile. Già, reiterare qualsivoglia forma di stupore, di oscura disposizione verso un presente che ci ha dato scaccomatto presagendoci un giorno sì e l’altro pure una prossima, non lontana riparten-
di Massimo Bran za, beh, ora ha davvero il sapore stantio di pietanze riscaldate a fuoco lento. Non facciamo che digerire quotidianamente numeri di contagiati e caduti, di crolli di fatturati, di occupazione, passando da un virologo a un economista a un sociologo a un pedagogo, tutti a suonare un requiem per il mondo che fu, condito certo da qualche flebile speranza d’ordinanza, giusto per darci una transitoria riassettata, per poi ricominciare con la stessa orchestra e le stesse note. Bene, ci siamo detti allora, perché non provare in questo numero di fine annus horribilis a cambiare musica, scena, repertorio? Cosa ci vuole, in fondo, a rimescolare le carte cercando di comporre una scala con qualche colore in più, con qualche traccia positiva da fermare, da ricordare, da proporre per i giorni a venire? Chi cerca trova sempre qualcosa di emozionante da fermare, in fondo, anche nei momenti più lugubri. Tutto il mondo, (quasi) tutti i settori si sono improvvisamente fermati, di colpo. Come un ascensore che si blocca al 50esimo dei 120 piani di un grattacielo in continua, fibrillante vita. Per giorni, settimane, mesi. Il nostro universo della cultura, dello spettacolo dal vivo, dell’arte tra tutti è forse quello che non si è mai riavuto davvero, neanche nella scorsa, ahinoi!, ridanciana estate, piena di irresponsabilità e di voglia di vivere al contempo. Si è accesa qualche luce fioca, qualche improvviso bagliore accecante, ma insomma, il buio tornava presto, sempre, anche nelle notti di giugno. Eppure sotto questa coperta asfissiante voci, corpi, immagini si sono uditi, mossi, visti. Proprio in questo bosco notturno in cui improvvisamente la vita urbana si è trasformata questi ritorni in vita irregolari, asincroni, improgrammabili hanno guadagnato una
cifra quasi irreale, talvolta epifanica. Ma allora sì, ci si è detti in quegli attimi rubati al buio, c’è ancora chiarore, si può vivere alla luce del sole o artificiale emozionandosi insieme per dei corpi, delle immagini in movimento, per dei suoni espressi non da supporti, ma da vivi strumenti. Credo che questi momenti, detto senza troppa retorica, ci abbiano resi ancor più consapevoli di quale medicina sia la cultura, per il corpo, la mente, l’anima. Solo quando ti è sottratto questo farmaco capisci quanto arida possa essere questa vitaccia senza una forte assunzione di esso. E perciò questi momenti, come mai prima neanche nei più improbabili sogni avevamo immaginato, hanno rappresentato in questi mesi dei veri e propri picchetti di balsamo piantati in una parete verticale scalata a corpo libero. Momenti in cui abbiamo capito più di sempre una cosa, ossia che la cultura, l’arte in tutte le sue molteplici espressioni non è data oggi e per sempre, quindi va coltivata con cura selezionandone i frutti, con una cernita qualitativa intensissima, rifuggendo bulimie, offerte ad accumulo, sciali. In quest’ottica, allora, per questo numero abbiamo isolato rubrica per rubrica le tracce che a noi hanno emozionato di più in questi mesi di arene, teatri, musei chiusi. Senza alcuna intenzione, oggi più ridicola e inservibile che mai, di tracciare la solita top ten dell’anno, figuriamoci! No, sono quei momenti, siano stati essi virtuali o live per davvero, che emozionalmente ci hanno mosso qualcosa dentro; certo, sempre cercando di filtrarli con la cultura, la competenza appassionata dei nostri migliori collaboratori. Ne è venuto fuori, senza presunzione e né rituale falsa modestia, un numero secondo noi da collezione. Almeno per noi lo è e lo sarà. Sì, perché fermare quest’anno di pura sospensione di sensi ed arti con tracce di vitalità irriducibile, creativa, ci ha dato una scarica elettrica fortissima, ha solleticato e sollecitato la tensione a guadagnare giorno dopo giorno più luce possibile, più musica per strada, più arte nelle gallerie, nei musei, nei luoghi sacri, più scene vive nei teatri lirici e di prosa. Insomma, in parole povere, una vera botta di vita. L’abbiamo cercata, l’abbiamo voluta, l’abbiamo infine trovata. Insomma, abbiamo confezionato un numero che vuole essere un viaggio di corporea vita vissuta tra le arti e i linguaggi in un anno sin troppo colorato di immobile
grigio. È il meglio che abbiamo percepito, selezionato, vissuto. Ed è tanta roba, eccome! E però il nostro è un lavoro che costitutivamente è vocato a comunicare il futuro, ciò che accade domani, nelle settimane a venire. È questa la nostra direzione principale da sempre, il nostro primo senso di esistere. Un percorso che in questo specialissimo numero, che per una volta invece abbraccia con animo forte e partecipato ciò che abbiamo appena vitalmente attraversato in un mare di lacrime, abbiamo voluto disegnare e dispiegare in un inserto centrale ad hoc. È la seconda edizione di «Mapping Up», la nuova collana di speciali editoriali di approfondimento che abbiamo deciso di realizzare pur senza una cadenza regolare, affrontando volta per volta temi monografici, che possono essere di spettacolo, di costume, di politica, di architettura, di cibo, di letteratura, a seconda di quello che ci interessa approfondire a modo nostro, oltre il mero dato degli eventi in agenda, in momenti di particolare intensità del vissuto della nostra città, del nostro mondo nel nostro tempo. Il primo numero, dal titolo Abitare il tempo di domani, di questa collana l’abbiamo pubblicato nel numero estivo di Venews 2020 ed era dedicato al tema “quale futuro per le città d’arte”. Questo secondo numero più tradizionalmente è dedicato al Natale. Ma tradizionale lo è per modo di dire, ossia ben poco, se con questo termine si intende una disposizione a ripercorrere anche editorialmente nelle stesse forme e nelle stesse modalità anno dopo anno riti e abitudini della festività delle festività. Già nel formato quest’anno la novità è più plastica che mai, come appena detto. Poi anche i contenuti sono scelti per restituire questi giorni solitamente di luce, ma quest’anno inevitabilmente assai più fioca, nella loro espressione più eterogenea possibile, andando oltre più di sempre, per disegno e al contempo per necessità, il solito canovaccio natalizio. È un numero che vuole salutare questo pazzesco 2020 con energia, vitalità, fiducia verso un domani da rifare nostro. Semplicemente così. Perché che andrà tutto bene lo sa solo il mago Merlino, ma che si debba con convinzione combattere per uscire diritti da questo pantano questo lo sappiamo bene anche noi. Sappiamo che non vi è alternativa e che autocommiserarsi è pane per altri denti. Mille auguri a tutti!
INSIEME
PER LA PGC INSIEME PER L’ARTE, LA CULTURA E LA BELLEZZA
DO N A O R A
Dorsoduro 701, 30123 Venezia guggenheim-venice.it
Foto © Matteo De Fina
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Nico Zaramella – Un anno da pinguini
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Dec/Jan
11
Luciana Boccardi – Haute Couture
20
:incontro2
Alessandro Barbero – In viaggio con Dante
25
:arte
La rivoluzione necessaria Storie 2020 Bresson & Lartigue | Migrating Objects | Ri-Fondazione Vedova | Muri Maestri Youssef Nabil | Territorial Agency – Oceans in Trasformation | Plessi. Progetti del mondo Umberto Moggioli | In conversazione con Lotto | The Venice Glass Week | Le muse inquiete Carpaccio, San Giorgio e il drago | Celant, Calvesi, Enwezor, Gregotti | Venice Galleries View Kasia Kay | Giovanni Soccol Not Only Venice Udine, città del Tiepolo | Tiepolo. Venezia Milano | Atelier De’ Nerli Bags: Inside Out | Raffaello superstar Preview Hashim Sarkis | Biennale Architettura [breathing] ITALICS Art and Landscape
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:musica
Si stava accalcati Storie 2020 Radio Ca’ Foscari | Venezia Jazz Festival | Sexto ‘Nplugged | Operaestate Festival Jazz Italian Platform | Nick Cave | Bob Dylan | Pearl Jam | Kendrick Lamar | Ricordando Marcello [breathing] Scena Unita
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:classical
Massimo volume Storie 2020 Bru Zane Classical Radio | Archipelago | La Fenice a San Marco Biennale Musica | L’Arena di Verona Preview Lucia Ronchetti, Biennale Musica [breathing] Aperti, nonostante tutto
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:cinema
Mission: Interrupted Storie 2020 Venezia 77 | We Are One | Oscar | MYmovies | Molecole Venice VR Expanded | Fondazione Veneto Film Commission | Barch-in | Cinema Galleggiante Ca’ Foscari Short Film Festival | Venice Architecture Short Film Festival Sky Italia, Netflix, Amazon Prime Video, Rai Play, Mubi Catch’em Back | Black Series Matter | Supervisioni Preview Alberto Barbera, Biennale Cinema [breathing] #iorestoinSALA
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:theatro
La dimora degli artisti Storie 2020 Venice Open Stage | Biennale Teatro | Biennale Danza Tutti i gusti del Teatro | Backstage | Teatro Stabile del Veneto & Arteven Arteven 40, Giancarlo Marinelli | Archivio Franco Scaldati Preview Ricci/Forte, Biennale Teatro | Wayne McGregor, Biennale Danza [breathing] #ilteatroalzalatesta
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:etcc...
Responsabilità Giorno della Memoria 2021 | Giovanni Montanaro – Il libraio di Venezia Guida alle librerie veneziane | Libri del Mese | Les anomalies [breathing] Make by Onde Alte
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:menu
A tempo determinato Hotel Rosa Alpina | Un francobollo per il Florian | 100 Select Torrone o mandorlato? | Tradizione goriziana Veneziani a Tavola Jennifer Cabrera Hernandez [breathing] Venissa
VENEWS NOTEBOOKS INSIDE
CHRISTMAS 2020
MAPPING UP
c o n t e n t s
:incontro1
READING AND LISTENING
PLAYLIST Il nostro 2020 in 12 tracce a cura di Marisa Santin
1 1 INCONTRO p. 16
Ingrid Bergman, Billy Bragg & Wilco (lyrics by Woody Guthrie)
Moda, femminismo e Venezia. Luciana Boccardi, scrittrice, giornalista, veneziana doc, ci parla della sua vita e della sua carriera. E di una giornata molto, molto speciale trascorsa ad Asolo in compagnia di Ingrid Bergman.
5 MUSICA p. 46
Le Retour à la raison, Teho Teardo (Musique pour trois films de Man Ray) Sexto ‘Nplugged è uno dei pochi festival musicali a non essere stato cancellato o trasferito online in quest’anno percorso da continue cancellazioni di eventi. Era agosto e il Covid ci aveva dato una tregua. Oltre a Teho Teardo, si sono esibiti sul palco di Sesto al Reghena l’artista californiano Ryan Karazija e la band danese Efterklang.
4 MUSICA p. 45
Bohemian Rhapsody, Queen (live at Wembley Stadium 1985)
Il 13 luglio 1985 i Queen si esibiscono al Wembley Stadium di Londra per il Live Aid, il concerto benefico a favore dell’Etiopia organizzato da Bob Geldof e Midge Ure. È un trionfo. Freddie Mercury manda in visibilio il pubblico, un mare infinito di 72mila corpi accalcati. Impensabile oggi!
2 ARTE p. 29
Franklyn, Michael Nyman
44 città hanno ispirato altrettanti lavori di Fabrizio Plessi andati online uno al giorno, per un minuto, su Instagram (plessi. progettidelmondo) tra maggio e giugno: un racconto per landmark personalissimi e ispirati, con le note di Michael Nyman a segnare il ritmo. Il brano Franklyn, tratto dall’album The Piano Sings del 2005, accompagna la visione dei diversi episodi.
3 MUSICA p. 45
Crêuza de mä pe Zêna , Artisti vari
Insieme per Genova: Vasco Rossi, Mina, Zucchero, Diodato, Gianna Nannini, Mauro Pagani, Giua, Vinicio Capossela, Paolo Fresu, Vittorio De Scalzi, Jack Savoretti, Antonella Ruggiero, Francesco Guccini, Ivano Fossati, Ornella Vanoni, Giuliano Sangiorgi, Cristiano De André e Sananda Maitreya. La cover di Crêuza de mä di Fabrizio De André, ideata da Dori Ghezzi ed eseguita dai diciotto artisti, ha fatto da colonna sonora all’inaugurazione del nuovo Ponte progettato da Renzo Piano.
6 MUSICA p. 47
Galleon Ship – Idiot Prayer Nick Cave
Voce e pianoforte. È un concerto unico e irripetibile quello che il cantautore australiano ha registrato all’Alexandra Palace di Londra lo scorso 19 giugno, in piena emergenza pandemica. L’evento è stato poi trasmesso in Italia da Radio 3 lo scorso 8 novembre nel programma notturno di linguaggi musicali contemporanei Battiti (una volta sola e live, no podcast).
9 CLASSICA p. 53
…sofferte ore serene…, Luigi Nono
…sofferte onde serene… (1976), Post-praeludium n. 1 per Donau (1987), La lontananza nostalgica utopica futura (1988): Biennale Musica 2020 ha dedicato un concerto monografico a Luigi Nono, con la presentazione di tre opere che hanno nella dimensione spaziale del suono e nella interazione tra suono acustico e suono elettronico la loro chiave interpretativa.
10 CINEMA p.61
Red Right Hand, Nick Cave and The Bad Seeds
La sigla di Peaky Blinders (Netflix) non è stata scritta appositamente per la serie tv di Steven Night, ma è un brano dell’album Let Love In del 1994. Tutta la colonna sonora dei “maledetti di Birmingham” è davvero notevole: P.J. Harvey, Radiohead, The Kills, Joy Division, Arctic Monkeys, Anna Calvi… e persino la struggente Lazarus di David Bowie in una delle scene clou. L’uscita della sesta stagione, attesa per quest’anno è stata rimandata al 2021 causa Covid.
11 CINEMA p. 65
8 CLASSICA p.51
Sinfonia in re minore n. 9, Ludwig van Beethoven
A fine novembre, in un Teatro La Fenice purtroppo di nuovo senza pubblico, la Nona di Beethoven è stata diretta dal Maestro Myung-Whun Chung con i membri dell’orchestra ben distanziati sul palcoscenico e il coro disposto nei palchi. Il live-streaming del concerto sul canale YouTube del Teatro ha registrato un enorme successo, con punte di oltre 4mila ascoltatori.
Via con me, Paolo Conte
Il docu-film di Giorgio Verdelli dedicato al cantautore genovese è stato uno degli eventi più attesi della 77. Mostra del Cinema, un’edizione straordinaria in tutti i sensi che ha confermato una volta di più la forza propulsiva, controcorrente e vitale de La Biennale di Venezia. Chapeau al Presidente Roberto Cicutto e ad Alberto Barbera, riconfermato alla direzione del Festival per il prossimo quadriennio.
7 MUSICA p. 47
Retrograde, Pearl Jam
Gigaton, il titolo dell’11. album in studio dei Pearl Jam uscito il 27 marzo, fa riferimento all’unità metrica di massa utilizzata per misurare l’inarrestabile scioglimento delle calotte polari. Nel video di Retrograde, una delle tracce dell’album, compare anche l’adolescente attivista Greta Thunberg. Il messaggio lanciato dalla band di Seattle è chiaro: il Pianeta sta soffrendo e noi stiamo facendo troppo poco per proteggerlo. It’s gonna take much more than ordinary love to lift this up.
12 TEATRO p. 69
Knockin’ on Heaven’s Door, Bob Dylan
50 minuti di assolo scenico sulle note del grande menestrello. Per Biennale Danza 2020 Lisbeth Gruwez (che è stata anche la nostra cover story del numero di settembre) ha intavolato un dialogo intimo con la musica di Bob Dylan, fra cui l’epocale Knockin’ on Heaven’s Door, dall’album/colonna sonora Pat Garret & Billy The Kid del 1973.
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idee, luoghi, persone ideas, places, people
:coverstory Un anno da pinguini
Oggi parlerò una lingua difficile ma il momento è giusto. Incrocerò il viaggio e l’avventura nel mondo con il viaggio e l’avventura nella vita. Qualcuno capirà, qualcuno potrà intuire e qualcuno, solo qualcuno, percepirà anche ciò che si nasconde tra le righe: la musica delle parole che insegue quella della mia esistenza, fantasia. Non ricordo quante volte sono stato nell’Artico e nell’Antartide e nelle mille isole ghiacciate mobili e immobili al di là del circolo polare, ora con lo sguardo a Polaris, la stella dell’Orsa Minore, ora alla volta celeste dell’Orsa Maggiore. A volte fa così freddo che un centimetro di pelle scoperta ti lascia in pochi minuti una cicatrice dentro e una fuori: una sulla pelle e una nell’anima. Il ricordo e forse anche la nostalgia del dolore è un incredibile pacemaker del tempo che passa scandito da piccoli e grandi fatti durante il giorno e la notte, tra luce o buio senza fine. Dolore per non dimenticare, dolore per sentire, dolore in cambio di nulla: ma così è la vita. Così racconterò con immagini, parole e suggestioni, anche diverse, dell’altrove, dell’Antartide.
© Nico Zaramella Worldwide Reserved
Non ci sono digressioni enciclopediche perché tra le immagini e le parole si nasconde anche il mio Antartide: un mondo puro e “quasi” intoccato eppure già graffiato da cacciatori del più grande ed emozionante essere vivente: la balena e che non sazi di strage e sangue rubano in questo Continente perfetto anche il krill, il cibo dei pinguini e dei grandi cetacei. Penso non esista maggiore abiezione di rubare il cibo a chi altro non ha.
di Nico Zaramella Un giorno infinito o brevissimo, sole, neve, ghiaccio e rocce. Ghiaccio sotto e ghiaccio sopra: tempeste di ghiaccio finissimo, uno scrub gratuito nelle più grandi ed indescrivibili “spa” del pianeta. In una piccola barca nella cuccetta di fianco alla mia dormiva John. Alle due, due e mezza di notte, mi diceva nel suo impeccabile e morbido inglese «…Nico... don’t you think it’s time for a cup of tea ???...». Forse era un modo gentile per condividere il mio russare notturno o forse solo l’emozione dell’attesa che non fa dormire. «…Why not ???…» non era certo una sfida ma un atto d’amore. Era sollevarlo da un peso e la voglia di parlare con lui del perché e per come eravamo nell’Antartide, a decine di migliaia di chilometri da casa, e per discutere, almeno per un’ora, di filosofia della fotografia. Si perché dopo, nella notte, in quel buio frustato dal ghiaccio, avremo tentato tra onde più alte di una piramide e vento più duro della pietra di sbarcare proprio lì, lì che ora non si vede, dopo una disperata corsa per due
:coverstory o tre miglia avvinghiati in quattro o cinque ad un piccolo barchino, il rubber dinghy, per aggrapparci a quel muro bianco di fronte a noi. Almeno o solo un’ora per parlare del come e del perché ma anche, o forse soprattutto, per chiederci se saremo ritornati, perché la vita è una faccenda definita, limitata: un limite sconosciuto per ognuno di noi ma anche un limite di specie, di genere e forse un limite del pianeta. Ma certamente non sappiamo se questa è l’ultima volta, se tornerò o se torneremo. È una fortuna inusuale: non capita spesso di vivere come se fosse l’ultima volta, l’ultimo giorno potendone al contempo parlare ed è una fortuna inusuale rivivere così tante volte come fosse l’ultimo giorno. Ogni notte c’è tè caldo, caffè e biscotti per chi naviga e aspetta che arrivi quel momento della notte per parlare del come e del perché e di filosofia della fotografia. Almeno per un’ora. La mia vita sul mare è, per così dire, paga: non c’è sorpresa o tensione. Gli altri sono “compagni”, l’oceano e le onde da guardare rispettosamente dal basso in alto, stoviglie che cadono e passeggiate da burattini inusitatamente piegati ora a dritta ora a manca, port e starboard (qui a Venezia i naviganti direbbero babordo e tribordo) a controbilanciare il mare fuori con il mare dentro (quello nello stomaco). Ora dopo ora: più a sud dello Stretto di Magellano... Capo Horn... Cabo de Hornos… giorni e giorni per attraversare il Canale di Drake, il drago, il kraken: un intrigo da traduttore, una trappola di tentacoli già perché là, dove gli oceani non hanno nulla da spartire e non vanno d’amore e d’accordo, verso l’Antartide cilena e la penisola di Weddel, in poche centinaia di chilometri corre senza ostacoli la corrente circumpolare e solchiamo acqua sopra invisibili relitti, brigantini, sartie e vele incrostate dai molluschi, corpi dimenticati di navi e di esploratori, balenieri e uomini presi in trappola dai tentacoli del drago, una giostra di piccoli pesci che si rincorrono tra un’orbita e la mandibola pendula di un cranio abbandonato o un arto disarticolato che appeso a una gomena ci saluta o ci invita là, nel fondo del
© N.Z.
tratto oceanico più burrascoso del Pianeta. All’altro capo del mondo, decine di migliaia di chilometri a nord, si va via oltre Thule con la prua del piccolo rompighiaccio a Nord cercando il drift ice tra nebbia e tempesta là dove il ghiaccio c’è ancora. Là, assieme a compagni dagli occhi di vetro per vedere lontano, c’è ancora il deserto e l’orso bianco e… triste. Ogni anno più lontano e più atteso, ogni volta meno infinito, comunque ci aspetta e tutte le volte si porta via qualcosa: pensieri, nostalgia, vita e un futuro più breve: il suo, il mio, il nostro. Ma anche il vostro tempo che così si consuma. Là dove è ancora bianco e deserto, da qualche parte, anche la vita è bianca e così come scompare il deserto bianco così scompare la vita bianca. Innocenza per innocenza, bianco per bianco che scompare. Occupati a generare piccoli e stupidi origami con la nostra esistenza non vediamo che la migliore vita è un foglio bianco, non stropicciato: un foglio di cui si vede il bordo, completamente libero e non rattrappito per poter scrivere quanto più è possibile una lunga storia. Più a ovest foreste umide, nebbiose e piovose nascondono vita inarrestabile come il vento che girando di terra in terra e di mare in mare sposta infinitamente molecole disordinate: still life. Quante volte ho cercato di fermare il tempo, le molecole e le idee in una frazione di secondo per poi rendermi conto, più tardi, a casa, di avere comunque perduto ogni volta una buona occasione per fare meglio, per giocare bene una mano che forse è perduta in anticipo: tante volte mi sono chiesto se veramente l’attimo è fuggente o se è sempre fuggito. Quella mano perduta che avrebbe potuto lasciare il segno indelebile non solo della memoria ma della comunicazione: lo scatto migliore, lo scatto mai visto o l’idea irraggiungibile di verità. La vera sfida è sempre stata quella di misurare il tempo già passato... quello che non ha più misura alcuna se non con modi e grammatica: passato prossimo, passato remoto, trapassato, trapassato
© N.Z.
remoto ma comunque scomparso, tempo che ha perso ogni dignità se non nei segni della storia o parte teorica di misure fisiche. Il tempo reale è forse solo “presente” e “futuro”, ma appena trascorso non è più, un esercizio logico banalmente retorico. Quindi rimangono solo i cambiamenti ovvero fatti fisici, chimici o biologici già compiuti che ora sono ghiaccio sciolto, ghiaccio che ebbe il suo tempo e fu reale ma che oggi non è più: né come forma né come tempo. Ho pensato molte volte che il ghiaccio e la sabbia sono una delle migliori allegorie del tempo scomparso. Anche se, per buona ventura, il ghiaccio si consolidasse la sua intima struttura non sarebbe più quella di prima così come ogni volta che giriamo la clessidra i granelli di sabbia non torneranno mai più nella stessa posizione. Ed anche la vita non sarà più la stessa: nessun gemello è poi veramente uguale all’altro e ogni secondo ci avvicina alla morte. Una biologia cellulare ineluttabile. Ogni cosa o vita ha la sua entropia, la sua auspicabile corruzione definitiva. Un respiro profondo o trattenere il respiro. In ogni caso la pressione sul pulsante di scatto deve essere lieve almeno quanto il dito di uno sniper sul grilletto. E tutto deve allinearsi per un solo attimo così come per un solo attimo si allineano i corpi celesti. Cuore, mente e occhio sulla stessa linea quasi come un segno già tracciato, forse noto, certo irripetibile. Una “destrezza” che ho costruito con illusioni e delusioni, gioia e tristezza, vittorie e sconfitte perché quella immagine era già in qualche modo dentro di me ed io aspettavo l’attimo giusto per non rischiare di perdere un altro pezzo del tempo assoluto e del mio tempo. Un cuore per ogni emozione, una mente per cercare il giusto alfabeto estetico e l’occhio che ne rintraccia i segni. Tracciati statici e linee dinamiche che si avviluppano in sezioni e regole d’oro, partizioni di mondo ordinate in una sequenza di Fibonacci o nei tratti di una rigorosa gestalt.
:coverstory 13
“rendermi conto”, la semplice percezione in vera consapevolezza e determinazione. Ho iniziato a realizzare il mio rapporto personale tra storia, arte, informazione e fotografia ovvero l’idea che nulla è fine a sé anche se “solo ad uso umano”.
Quante volte ho cercato di fermare il tempo, le molecole e le idee in una frazione di secondo per poi rendermi conto, più tardi, a casa, di avere comunque perduto ogni volta una buona occasione per fare meglio, per giocare bene una mano che forse è perduta in anticipo: tante volte mi sono chiesto se veramente l’attimo è fuggente o se è sempre fuggito. Alla sabbia, al ghiaccio e ai pianeti non è concessa una seconda chance e così nemmeno al mio inesistente quadro del reale perché è solo idea o forma in potenza. Solo un attimo per mille decisioni, solo un attimo per avverare luce, forma e colore che non esisterà più allo stesso modo: le ali di un uccello o di una farfalla non sono mai uguali né si muoveranno più nella stesse molecole dell’aria. Così se non sarà possibile rendere vero quel momento per me e per tutti allora... sarà perduto. In un attimo è possibile costruire un incommensurabile recipiente per la vita e contenerlo in un fotogramma.
Ricordo quando, ancora giovane fotografo, fui incaricato con altri di realizzare un archivio fotografico del territorio e solo allora mi resi conto di quanto l’immagine fedele sarà futura sostanza del cambiamento già accaduto, di quanto sarà storia e quindi informazione o misura concreta del tempo che non è più e ne fisserà il diritto all’eternità e si concederà, arte e conoscenza, democraticamente disponibile a tutti. Più tardi ho studiato arte e fotografia, scienza e filosofia così ho trasformato la sensazione, il mio
E allora così come renderò vero per immagini il vento che soffia incessante giorno e notte a 80 chilometri all’ora stracciando la mia tendina rossa dove “solo” cerco “la mia solitudine”, la mia migliore medicina, così come renderò vero per immagini il profumo di bruma tra i fortunati cedri Rossi secolari della foresta del Grande Orso così renderò vero, per immagini, un Indiano che mi indica un vecchio albero caduto di cui sta condividendo la nascita, la vita e la morte, «...it’s like a fence...», una linea esile e immaginaria che separa il mio obiettivo dal grande grizzly: anche Lui, l’Orso, mi guarda e pensa, così come l’Indiano, «...it’s like a fence...». A ognuno la sua difesa: oggi nessuna pallottola strapperà il diritto di vivere e nessun artiglio strapperà una storia straordinaria. Ci scambiamo uno sguardo prima di accarezzare il pulsante di scatto e così siamo amici per sempre: Io, l’Orso e l’Indiano. L’Indiano si allontana cercando nel sottobosco qualche foglia e qualche stecco. Io e il Grande Grizzly rimarremo soli mentre l’Indiano accenderà un piccolo fuoco, scalderà l’acqua per un tè in quello che fu, molti secoli fa, il deserto bianco o là dove la sua e la mia sapienza stanno, esattamente alla pari, complementari, sui confini del deserto: «...drink Nico... it’s healthy...». Buono, fa bene. Ed è tutto assolutamente perfetto, questo è il mio momento. Come farò a fotografare questo pezzo della storia e della mia vita Io, l’Orso, l’Indiano e il tè? Ma l’Orso è ancora lì a qualche metro, tranquillo, «It’s like a fence», un recinto immaginario, un recinto di immagini così perché cuore, mente e occhio devono rimanere allineati: solo l’impercettibile movimento di un dito e il fruscio dell’otturatore interrompono nella mia mente l’idea che la fotografia perfetta non si sta fissando, ora, dentro la camera ma si realizza là al di fuori: un Uomo Bianco da solo a caccia del tempo della sua solitudine e del suo tempo definitivo, un Indiano appassionato del tè al confine della sua vita, del deserto dei suoi antenati, una linea di difesa, e l’Orso che forse è anche consapevole della finitezza quanto meno nella stessa misura in cui noi lo siamo e così sta con noi al confine del suo deserto. Per questo odio con tutto me stesso l’idea di immagine come “ricordo”. Odio con tutto me stesso pensare alle mie immagini come ad un album di figurine o cartoline: questo non è un pianeta giocattolo o in formato figurine Panini. Questa immagine consegna “l’adesso” al “sempre”, non un “semplice memento”: per chiunque la vedrà sarà impossibile cadere nella rete del ricordo in
:coverstory quanto è parte ancora viva di me stesso ed è reale nel momento in cui sarà vista, così come lo è ora, ed io saprò difendermi dalla memoria incerta, sperando che il mio tempo finisca esattamente all’ultimo fotogramma, all’ultimo scatto, non un attimo prima, né dopo, cosicché non sarò mai vittima di un trabocchetto fatto di ricordi evanescenti, non sarò mai vecchio con occhi cerulei alla ricerca di gioventù nella evanescente nebbia della sua senilità mentale. Ma forse è solo un’idea, un pensiero tra mille… forse è proprio così, almeno per me. Quanto di quest’uomo e quanto di loro, i miei fratelli, sarò capace di consegnare alla sicurezza del futuro e all’incertezza del sempre? Sono mille mondi o mille modi di essere di un pianeta vivo. Sono luoghi dove sono nato e continuo a rinascere, ovunque, e dove ogni volta vivo una breve e nuova vita con la consapevolezza che un giorno sarà l’ultima. Scrivere questo articolo è molto difficile perché non è un buon tempo anche se era già nei miei pensieri e nelle mie parole da molto. Scrivere questo articolo è molto difficile perché è un incrocio nella mia esistenza di scelte, di conferme e di ricerca del futuro. Scrivere questo articolo è molto difficile perché non posso e non voglio evitare me stesso, non voglio e non posso raccontare favole di Natale ma solo la verità “al tempo” del Natale eppure spero che dopo arriverà una Epifania: non una nuova divinità ma un Nuovo Uomo un “homo sapiens sapiens prudens” (uomo sapiente, saggio e prudente). Siamo una vecchia specie animale e la nostra memoria senescente ci ha giocato un brutto scherzo. Ci eravamo dimenticati di essere forse solo dei primati, e nemmeno troppo intelligenti. Ci eravamo dimen-
ticati che non abitiamo la nostra casa ma siamo ospiti in affitto, pronti per lo sfratto, di un Pianeta immensamente grande e forte eppure anch’esso inesistente nella singolare indeterminazione del tempo e dell’universo. Ci eravamo dimenticati che comunque dovremo morire anche se ubriachi di eternità inventata da filosofie e religioni incapaci di educarci alla sofferenza e alla fine senza che sia affatto necessario un perché. Ogni isola nel mio viaggio vero e immaginario e ogni sbarco è un piccolo Golgota: a volte di ghiaccio e neve, di roccia o coperto da alberi, muschio e fango, ma pur sempre una breve o lunga via faticosa. Una spedizione inizia tra forza ed emozione e continua con l’entusiasmo, così come la vita, sino al confine della consapevolezza. Per me che ritorno (quante volte ???) è sempre scoperta, qualcosa è cambiato: spostare una pietra o una parete di ghiaccio significa non riconoscere più i connotati, la topografia, la geografia e qualsiasi cosa non sarà mai déjà vu. Lo stesso Orso o lo stesso Lupo compare in un nuovo e mai visto “animalscape” ma qualcosa è cambiato anche per lui: una cicatrice in più, un’andatura con la testa un po’ più bassa. Giorno dopo giorno il freddo, il vento, la neve, il ghiaccio e la pioggia faranno il loro lavoro. Il peso dello zaino con l’attrezzatura fotografica («…boy pick your gear and move…») non è più una misura fisica esatta ma una variante emotiva della fatica, ogni passo è più sfida che volontà. Così ho imparato a giocare la carta della linea grigia nell’avventura del mondo e nell’esistenza. Immagino una linea (che ogni giorno, purtroppo, traccio più vicina) e il gioco è comunque quello di raggiungerla per poi immaginarne un’altra più in là. Ogni giorno qualcosa cambia anche dentro. A volte è la delusione di non trovare le immagini che mi appartenevano già prima di par-
Ogni isola nel mio viaggio vero e immaginario e ogni sbarco è un piccolo Golgota: a volte di ghiaccio e neve, di roccia o coperto da alberi, muschio e fango, ma pur sempre una breve o lunga via faticosa. Una spedizione inizia tra forza ed emozione e continua con l’entusiasmo, così come la vita, sino al confine della consapevolezza.
Amo fotografare nella “wilderness” quel luogo che nessuno conosce bene e che non è ancora offeso, umiliato e torturato. tire, spesso è la precisa percezione che dovrò andar via o forse perché oggi c’è meno ghiaccio di ieri o lo sguardo dell’Orso è più triste, l’occhiata della Volpe appare delusa, il loro incedere come il mio è più lento: in fondo è poi la stessa cosa… la necessità di andare via. Fuggire non tanto da un luogo ma fuggire dalla morte per correre incontro alla vita, dalla incapacità di gestire il cambiamento, oppure è solo sconfitta che fa percepire (così come al tuo alter ego… l’Orso e il Lupo), una inevitabile imminenza… stiamo perdendo il nostro tempo: nel senso che ogni giorno ne rimane sempre meno. È proprio così che freddo, vento e dolore si alleano e concorrono. Non ho fame ed il cibo spesso è repellente. Tutto diventa insopportabile: condividere una cuccetta, le onde che non sono mai d’accordo, il rumore del vento che scartabella la tenda come se fosse il fiocco di una barca a vela, dormire chiuso in un bozzolo come una larva in attesa di tempi migliori, scavare un buco nella neve e nel ghiaccio per le necessità di ogni giorno. Non c’è alibi e non c’è scelta: è impossibile tornare indietro sui miei stessi passi cancellati dalla neve e sulle tracce del mio tempo cancellato dall’età. L’anagrafe non scherza mai. Sarebbe bello essere un guardiano della foresta, il mago del ghiaccio o fingere di esserlo. Ma alla fine mi convincerei che è un gioco di bambino ora convinto di essere mago e ora navigatore, pirata o dottore ovvero come dire: ciò che non è e che non sarà mai. Quanto un guardiano “esiste” veramente o si convince di esserlo, senza poterlo mai fare, semplicemente perché appare a sé e agli altri soltanto come tale? Quanto giocano finzione, ingenuità e tradizione a generare giochi da bambino? Il bambino è religioso perché, seppure per poco tempo, ha fede di “essere reale” nel gioco ed è convinto di “fare” nella fantasia. Il gioco è realtà immaginifica, intensa e struggente suggestione. È la nemesi per il burattino di legno che, per merito o giustizia, diventa bambino ma basta un nulla e il bambino perde la libertà e diventa un burattino adulto di legno. Così questa depressione generata dal vento, gelo, neve e riflessioni non solo ti porta a disperare di poter essere mai un guardiano CONTINUA... cioè di cambiare e far cambiare... Le foto e alcune frasi del testo sono in parte tratte dall’ultimo libro dell’autore pubblicato poco prima della pandemia, The Edge of the Desert copyright Nico Zaramella Worldwide Reserved
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Luciana Boccardi scrittrice, giornalista
:incontro Haute couture
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Fatico a tenere a bada le iperboli per parlare di Luciana Boccardi, scrittrice, giornalista di lungo corso, veneziana doc e persona straordinaria dalla vita straordinaria. La lunga intervista che segue restituisce l’immagine, perfettamente aderente alla realtà, di una donna forte, coraggiosa, determinata, che con intelligenza e molta ironia ha saputo e sa raccontare i cambiamenti del costume in modo efficace e sempre puntuale. Nella bellissima casa alla Bragora, il suo rifugio, accogliente e ancora pieno di vita e di energia, in mezzo ai suoi libri, l’inseparabile pianoforte, gli oggetti e i ricordi di una vita, meno un bicchiere, che ho mandato in frantumi con immensa goffaggine durante la nostra intervista, le ore scorrono veloci come in una piacevole commedia di cui Luciana è protagonista indiscussa. Che donna la Boccardi! di Fabio Marzari
Iniziamo inevitabilmente parlando di moda... Mi chiedo sempre perché tutti mi domandano della moda. Forse perché la moda è più attraente. È un discorso sempre furbo, che piace. Se penso a quanto ho fatto negli anni passati per il discorso “donna”, quando mi sono buttata a pesce durante gli anni di piombo, ed è stata una cosa pesantissima, dirigendo dal 1974 al 1977 «Il Femminile» – ho voluto mettere di proposito l’articolo maschile davanti! –. È stata un’esperienza importantissima; nasceva in quel periodo il femminismo violento con tutte le lacune che aveva allora e che ha ancora oggi. La moda è decisamente furba, sì. Se io sono ancora “viva” come giornalista è proprio perché mi occupo di moda. Ritiene che oggi le donne siano raccontate in modo corretto? Il modo di raccontare l’argomento “donna”, in ambito sociale e sui media, è inficiato di opportunismi e ipocrisie e i risultati che non ottiene purtroppo lo dimostrano di giorno in giorno. Tutti sono d’accordo sulla necessità di cambiare la mentalità del mondo maschile nei confronti dei deboli, in questo caso delle donne, oltre all’imprescindibilità di inasprire le pene per i colpevoli di violenze morali, fisiche, di femminicidi. Si tratta di una vera e propria rivoluzione che le donne hanno avviato ai tempi delle loro lotte aperte per l’emancipazione. È evidente, però, alla luce dell’oggettivo fallimento di ogni tentativo di civilizzazione dei criminali di turno, che queste battaglie sono state condotte nel tempo non così efficacemente come si sarebbe pensato e sperato vista la consistente persistenza di casi di violenza e discriminazione verso il genere femminile. Come è possibile che questa evoluzione, figlia di una vera rivoluzione, si sia non dico del tutto arrestata, ma
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di sicuro troppo lentamente dipanata? Ho sempre stigmatizzato – fin da quando nei lontani anni Settanta commentavamo i movimenti di protesta femminili – le marce contro la violenza, i simboli che allora erano zoccoletti e riccioletti (e oggi sono le scarpette rosse, il muro di bambole appese, le panchine dipinte di rosso…), che possono avere una loro forza morale, poetica, civile, ma che non possono diventare armi per una rivoluzione in piena regola che deve avere lucidamente chiaro quale sia il suo prioritario obiettivo fuori da ogni istanza velleitaria e generica. Le armi che noi civili possiamo utilizzare sono le leggi, a tutt’oggi troppo indulgenti e permissive; la morale sociale è ancora permeata di tabù legati a una cultura influenzata da suggestioni religiose, tradizionali, che raccontano la donna sempre in posizioni di secondarietà rispetto agli uomini: rimane nel 2020 incontemplabile di fatto immaginare, prevedere donne, che so, che officino funzioni religiose o che magari vestano l’abito cardinalizio. E questo non vale solo in ambito ecclesiastico, pur essendo il contesto più conservativo della nostra società. Eppure le armi “poetiche” scaturite dalla forza d’urto femminile oggi si materializzano in istanze tipo il cambio di vocale nelle desinenze di termini da sempre ora al maschile ora al femminile, per consuetudine, totalmente ininfluenti ai fini di un raggiungimento di un’effettiva, vera parità nei ruoli e nelle professioni del nostro presente. Donne avvocato o chirurgo non raccoglierebbero meno rispetto senza la declinazione al femminile, così come il farmacista, il giornalista, il dentista o il pediatra maschi non perderebbero nulla nella considerazione del loro prossimo se la vocale finale dei loro ruoli professionali fosse al femminile. Mi permetto di definire queste rivendicazioni pure armi spuntate, oggettive idiozie. Per una rivoluzione ci vuole ben altro. Per la riuscita di una lotta è necessaria una strategia che tenga certo prioritariamente conto delle responsabilità di chi offende, ma che al contempo sappia vedere e considerare anche gli errori eventuali di chi è offeso, della parte sofferente. Vi è per esempio una certa indulgenza nei confronti di atteggiamenti delle donne che possono risultare provocanti, complici anche le mise, un abito, qualche atteggiamento particolare... C’è una sollevazione di insofferenza nel mondo femminile quando si mette il dito su questa “debolezza”, che certo in un contesto civilizzato non sarebbe tale ma corrisponderebbe a una benefica libertà di espressione, ma che in una situazione di “conflitto”, di rivoluzione culturale a difesa della vita di tante donne minacciate non può che rappresentare un oggettivo errore tattico. È ora di finirla con i moralismi o perbenismi ideologici che sono alla base della pacifica e bonaria rivolta femminile. È ridicolo pretendere che a farti vincere una rivoluzione sia l’accettazione pacifica dei tuoi fini da parte del tuo nemico. Agli uomini venga rinfacciato senza riserve un atteggiamento vigliacco e criminale, retrò e incivile. Evidenziano la loro debolezza, l’incapacità di difendersi eventualmente da una
situazione insostenibile usando le parole, le leggi, la civiltà. Ma diciamo anche alle donne di mettere in atto espedienti di difesa personale espressioni di un’intelligente, incisiva prudenza nell’affrontare situazioni di rischio evidente. Qui ci sono donne che muoiono. Non scherziamo! Insisto tornando sui modi e la moda, prendendo a prestito il titolo della sua seguitissima rubrica sul «Gazzettino». La moda e i modi sono l’apparire, il modo di sentirsi, di esprimere determinate convinzioni o per far finta di avere determinate convinzioni, perché aiuta. La moda è il vestito dei pensieri. Si può capire chi è – o
chi vuole apparire – una persona da come si veste (o non si veste). Vestirsi da contestatori (si usa molto) non significa esserlo davvero. La moda è il racconto della bellezza, e la bellezza si sa è sempre soggettiva, relativa. Oggi è bello ciò che ieri era considerato brutto. Si capisce chi è una persona da come si veste o da come non si veste o da come vuole si creda che lei sia. Da sempre la contestazione si affida meramente al vestito, ma non è che io ci creda molto. C’è bisogno di sentirsi contestatori perché esserlo per davvero è difficile, quanto conformismo in questo atteggiamento. La moda è uno strumento che esprime la bellezza, cioè cerca di abbellire o anche, come capita sempre più spesso oggi, di imbruttire. C’è una moda che cerca il brutto perché sono cambiati i valori: il bello, considerato come ricerca di armonia oggi non è più un valore, il brutto che era la disarmonia in assoluto è diventato la nuova armonia. La moda ha subito il bene e il male della globalizzazione: indossando un capo ci si sente di appartenere al gruppo del mondo, quelli che vi si sottraggono creano a loro volta la moda “negazionista”! La moda è un discorso molto ampio, molto più importante di quanto non si possa credere all’apparenza. Non avrei mai pensato di entrare in questo mondo, che rimane ancora molto intrigante, sì. Quando mi ci sono ritrovata mi ha affascinato l’idea di una creatività che può esprimersi col niente. Anche una sartina di provincia può esprimerla, può essere van Gogh a suo modo...
C’è una sollevazione di insofferenza nel mondo femminile quando si mette il dito su questa “debolezza”, che certo in un contesto civilizzato non sarebbe tale ma corrisponderebbe a una benefica libertà di espressione, ma che in una situazione di “conflitto”, di rivoluzione culturale a difesa della vita di tante donne minacciate non può che rappresentare un oggettivo errore tattico.
:incontro Ma come è arrivata ad occuparsi di questo? Grazie al mio lavoro ho potuto fare moltissimi viaggi in ogni angolo del Pianeta. Sono arrivata alla moda attraverso il giornalismo, dopo aver vinto con un racconto breve un premio letterario. Che mi consegnò George Simenon. Il premio consisteva nella pubblicazione del racconto a mia scelta o su «La Stampa» o su «Il Gazzettino» o sul «Corriere». Io scelsi «Il Gazzettino» perché era ed è il mio giornale, il quotidiano della mia città, una cosa a cui tenevo e tengo molto. Quando andai a parlare con il direttore per questa cosa, mi invitò a scrivere per la terza pagina; finché un giorno mi disse: «Senti, ma tu della moda cosa sai?». Io risposi di non saperne nulla ed era vero. Rilanciò: «Ma non ti interessa?». «Neanche un po’» feci io. Mi rispose: «Allora vai a farmi la moda!». Era anche un modo per garantirmi una certa stabilità in quanto allora, essendo una donna, salvo eccezioni da contare su tre dita, nei giornali potevi scrivere di mamme, di bambini, di casa, di cucito o di moda. Cominciai con un pezzo che raccontava di una crociera. La moda prêt-à-porter nasceva allora in Italia, erano gli anni ‘70; c’erano le sfilate dell’alta moda a Roma e poi a Parigi e in giro per il mondo. Feci una certa strada mia, ricevendo così inviti per ogni occasione
C’è una moda che cerca il brutto perché sono cambiati i valori: il bello, considerato come ricerca di armonia oggi non è più un valore, il brutto che era la disarmonia in assoluto è diventato la nuova armonia.
ovunque. Erano incredibili gli eventi che accompagnavano la moda, che poi si è trasformata in vero e proprio spettacolo fino a rivestire un ambito intellettuale. Ora lo sta diventando fin troppo; alcuni stilisti fanno i filosofi, vorrebbero essere Nietzsche o Schopenhauer. Però la moda ha saputo acquisire anche un suo spazio intellettuale di rilievo; mi è piaciuta e mi piace ancora, è il mio lavoro. Oggi, in questo momento drammatico a causa della pandemia, si è capito che la frenesia folle di una serie continua di collezioni cruise, capsule andava fermata. Come sempre è stato Armani, uomo di pensiero e azione estremamente concreto, a capirlo e applicarlo per primo: bastano due collezioni all’anno. Altri, come Alessandro Michele per Gucci, hanno voluto scompaginare il panorama lavorando sul gender; ora siamo sugli uomini vestiti da donna, c’è il cantante modello che conquista la copertina di «Vogue» in abito femminile, tutto questo va bene, ma domani? Il momento può essere divertente, geniale, non sono mai contraria a una cosa nuova, ma che sia nuova non mi basta: se deve essere bella deve diventare bella davvero, bella nel senso dei valori che diamo
Ho visto moltissimi vestiti eleganti, col mio lavoro è facile trovarli, ma rimangono abiti. Non mi basta vedere una persona per giudicarla elegante, devo conoscerla, osservarla. Un passaggio fondamentale c’è stato tra l’alta moda, quella dei sarti, quando ancora si chiamavano così, e quella degli stilisti, che a volte non sanno neppure come si faccia a cucire. I sarti mi sono rimasti dentro perché sono dei veri creativi, dei piccoli artisti, lo stilista invece no, perché ‘semplicemente’ intercetta o anticipa una data tendenza e disegna un abito. L’alta moda creava degli abiti pensati per una persona, il prêt-à-porter è invece massificante, potrà anche essere di lusso totale, ma rimane sempre massificante. A proposito di miti, lei ha avuto la fortuna come racconta in un libro, Con Ingrid tra colline viola, di passare un’intera giornata ad Asolo con la più importante diva di quegli anni: Ingrid Bergman. Come fu quel giorno? (Boccardi alza lo sguardo e le brillano gli occhi, ndr.) Bello! Tutto nasce da una richiesta di una mia
1966: Georges Simenon si complimenta con Luciana Boccardi dopo averle consegnato il Premio Mentasti
alla bellezza che sono soggettivi, temporanei. La bellezza al tempo di Cranach non è la bellezza al tempo di Tiziano o di Veronese; la bellezza delle donne magre, anoressiche di dieci anni fa non è la bellezza del periodo degli anni ‘20 del Novecento. Quindi stiamo un po’ a vedere, io sono curiosa sempre e sono attenta, molto attenta. Il Covid inevitabilmente imporrà delle nuove scelte. E l’eleganza come potremmo definirla? L’eleganza è un modo di essere che ha poco a che vedere con i vestiti. L’eleganza si ha dentro. Un vestito portato da una persona elegante dentro diventa elegante da solo, mentre un vestito da solo non potrà mai essere di per sé elegante: può essere bello, come un bel quadro. È il modo di essere, di parlare, di pensare, di proporsi. Secondo me può essere elegante anche una donna molto semplice, con un suo certo modo di muoversi, di pensare; una signora perfettamente abbigliata può essere invece una cafona che l’eleganza non sa neppure cosa sia.
Luciana Boccardi e Arrigo Cipriani @ItsMartaEffe
carissima amica, che ora non c’è più, Flavia Paulon, che era stata una mia collega in Biennale. Io seguivo musica e teatro, Flavia il cinema. Quando andò in pensione inventò un festival cinematografico ad Asolo che raggiunse una certa notorietà. Un giorno mi arrivò una telefonata in cui Flavia mi chiedeva, anzi mi intimava, di recarmi ad Asolo l’indomani. «Tu domani devi venire ad Asolo, sono nei guai, è stato sbagliato il biglietto di ritorno di Ingrid Bergam e si deve fermare per forza un giorno in più al Cipriani. È stanca, ha già ricevuto tutti i giornalisti e mi ha detto che non vuole più parlare con loro. Io non posso seguirla perché ho la cena dei politici e devo
preparare tutto. L’unica persona che non dirà niente a nessuno di questo fatto e che sarà in grado di stare benissimo con lei sei tu. Aiutami: devi solo stare con lei ed è una persona magnifica!». Cedo alle sue pressioni e vado ad Asolo. Flavia mi presenta alla Bergman. Comprendo subito di trovarmi di fronte ad una persona molto gentile ed educata, che si teneva sempre stretto il braccio, senza mai lamentarsi o parlare del suo male. Stiamo nel giardino dell’albergo e conversiamo, Flavia mi dice che ho un’auto con autista a disposizione e che lei avrebbe dovuto andarsene perché aveva mille incombenze da assolvere. Rimaniamo io e lei, ero un po’ intimidita, avevo un
Biennale di Venezia 1957: Luciana Boccardi con Vivien Leigh
ruolo strano, non ero un’amica e non ero, come si direbbe oggi, nemmeno la sua badante. Ci guardiamo, lei mi dice che se avessi avuto da fare non c’erano problemi, io le spiegai che il mio da fare per quel giorno era stare con lei e allora così avremmo fatto, sciogliendo così ogni timore. Mi ero preparata per fare la guida e così le proposi di fare un giro per Asolo. Lei gentilissima accettò ben volentieri, ma si capiva che stava male, che era molto stanca. Salimmo in auto e mentre l’autista ci conduceva alla Rocca si avviò tra noi un dialogo di grandissima comunanza; la sentivo amica e lei mi trattò come tale. Diventò una cosa molto strana. Lei in quel momento era tra le più importanti e famose attrici al mondo. Io non ero e non sono sensibile alle celebrità, ma con lei era indubbiamente diverso, eppure qualsiasi circostanza scioglieva le distanze. Ogni tanto aveva dei momenti di silenzio che rispettavo e lei dimostrò di apprezzare molto questa mia discrezione, me lo disse anche. Mi chiedeva curiosità su Asolo e non
:incontro
Per me Venezia non ha dei limiti, sono quelli che la governano ad averne. Venezia la amo così com’è. Ci sono dei limiti fisici in questa città che la definiscono nettamente e che rappresentano la sua forza: non è una città, è un pianeta!
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solo. Io volevo scoprire perché si chiamasse viola il paesaggio di Asolo, ma non lo sapeva nessuno; l’impiegata dell’ufficio turistico mi rispose addirittura che si chiamava viola perché c’era molta uva nera e per le more dei gelsi... Ho scritto un libro poi sulla storia dei colori e il viola ha quelle connotazioni che somigliano molto ad Asolo, sì. Ingrid Bergman mi disse che il giorno prima l’avevano portata con un gruppo di politici e altri ospiti a visitare la tomba della Duse nel cimitero di Asolo e mi chiese di poterci tornare. Quella visita è stata un momento per me indimenticabile, il tempo più intenso di quella giornata. Lei si fermò immobile davanti alla tomba mentre io le raccontavo che fu la Duse stessa a voler essere sepolta nella posizione che guarda il Grappa; le parlai anche di D’Annunzio, che io detesto, in termini poco lusinghieri. Me la ricordo benissimo lei ferma al cospetto della tomba e io che mi facevo da parte. In quel momento ho avvertito chiaramente la presenza di quattro persone oltre a me: c’era lei, Ingrid, c’era la Duse e c’erano D’Annunzio e Rossellini. Era stata lei a raccontarmi stupita che in Italia tutti le chiedevano sempre e solo di Rossellini, che
Luciana Boccardi con Claudia Schiffer
non era stato il più grande amore della sua vita. Lo era stato invece il suo terzo marito, che dovette sposare un’altra donna perché l’aveva messa incinta. Rossellini era stato un amore, durato dieci anni, ma non il più grande. In quel momento c’erano Rossellini e D’Annunzio, due gaglioffi, lei e la Duse, due donne tradite. Ad un certo punto si scosse, come se si svegliasse da un passato improvvisamente riapparso, e mi ringraziò per la mia delicatezza. Tornati in auto mi raccontò di quando per la prima volta guardò nella valigia di Rossellini. Non era mai successo prima, si stavano lasciando, e vi trovò confezioni di spaghetti. Mi ha distrutto l’uomo. Lei era realmente una donna eccezionale e fu il terzo marito, Lars Schmidt, che andò a trovarla in ospedale per il suo compleanno la sera prima che morisse; era rimasto un bell’amore. Quell’incontro ad Asolo fu indimenticabile per me. Ho incontrato uomini potenti, di tutti i tipi, ma una donna come lei no, mai. Di quell’inCONTINUA... contro non parlai...
Alessandro Barbero professore, scrittore
:incontro In viaggio con Dante
Professore di Storia medievale presso l’Università del Piemonte orientale, Alessandro Barbero alla sua attività accademica – un numero cospicuo di studi e pubblicazioni autorevoli, che gli hanno valso la fama indiscussa di storico tra i più accreditati in tema di Medio Evo –, alterna quella di divulgatore, grazie a una notevolissima capacità di raccontare la storia attraverso le vite degli uomini, i loro costumi e la loro quotidianità. Barbero è uomo iper-contemporaneo cui va riconosciuto il merito ulteriore di saper divulgare attraverso i canali social temi di non immediata presa, conquistando numeri di followers degni delle più seguite influencer. Il professore rappresenta l’esempio concreto di come si possa fare cultura bucando i mezzi a torto ritenuti non conformi alla divulgazione alta. Con la sua capacità di rendere giustizia alla complessità, e di farlo in modo coinvolgente, Barbero ha contribuito in maniera concreta con i suoi interventi seguitissimi ad alimentare la speranza di tutti coloro che auspicano ci sia ancora spazio, nell’epoca di internet, per un certo tipo di cultura.
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Nel suo ultimo libro Dante per i tipi di Laterza, Barbero, meticoloso nella ricerca e nell’interpretazione delle fonti, ricostruisce la vita del poeta fiorentino creatore di un capolavoro immortale, ma soprattutto quella di un uomo del suo tempo, restituendone un ritratto multiforme. Di Dante, grazie alla sua testimonianza personale fornita attraverso le sue opere e per la fama che lo accompagnava già in vita, sappiamo forse più cose di qualunque altro uomo dell’epoca. Tuttavia il libro
di Fabio Marzari affronta anche le lacrime e i silenzi che rendono incerta la ricostruzione di interi periodi della sua vita, presentando diverse ipotesi e in parte scoprendo territori poco battuti dalla critica. Il libro segue Dante nella sua adolescenza di figlio di un usuario che sogna di appartenere al mondo dei nobili e dei letterati; nei corridoi oscuri della politica, dove gli ideali si infrangono davanti alla realtà meschina degli odi di partito e della corruzione dilagante; nei vagabondaggi dell’esiliato che scopre l’incredibile varietà dell’Italia del Trecento, fra metropoli commerciali e corti cavalleresche. Inauguriamo il nuovo anno – anno di celebrazioni per i 700 anni dalla morte dell’Alighieri (1321 – 2021) che comprendono una moltitudine di iniziative, scritti, mostre, convegni, spettacoli, film –, con l’intervista al professor Barbero, con il suo libro e con
Che cos’era Ravenna all’epoca di Dante? Innanzitutto era una grande capitale ecclesiastica, sede di un arcivescovado tra i più ricchi d’Italia e di ricchissime abbazie come San Vitale e Sant’Apollinare in Classe. L’Arcivescovo era il milanese Rinaldo da Concorezzo, a suo tempo influente collaboratore di Bonifacio VIII, per conto del quale s’era fatto quasi ammazzare quando era rettore di Romagna. […] Ravenna era un prospero centro commerciale, capoluogo di un entroterra ricco di pascoli e vigneti, vicino al mare e circondato di saline e peschiere, che garantivano al comune cospicue entrate daziarie; anche se i traffici, incentrati sull’esportazione di sale, pesce e vino, erano gestiti soprattutto da mercanti veneziani, e veneziana era la moneta corrente. […] La Ravenna in cui visse Dante era un centro urbano vivacissimo e formicolante di forestieri.
:incontro
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Tratto da “Ravenna”, Dante di Alessandro Barbero Editori Laterza, 2020
un piccolo viaggio fuori porta nella vicina Ravenna, teatro finale della vita di Dante. Come espertissimo storico medievalista, con Dante, come si direbbe, “gioca in casa”. Prima di entrare nella vita del Sommo Poeta, ci introduce nella mente di un uomo medioevale? Bisogna premettere che gli uomini, nel senso di esseri umani, erano individui, anche allora: diversissimi uno dall’altro, proprio come oggi. Dopodiché è legittimo dire che chiunque vivesse al tempo di Dante condivideva certi modi di pensare: primo fra tutti, direi, la fede cristiana, la certezza che Dio ha creato il mondo, nel modo migliore e più razionale possibile, e ha dato agli esseri umani gli strumenti, cioè la ragione, per capire il mondo e per vivere bene; però ci sono anche il diavolo e il peccato, e perciò la vita in realtà è piena di minacce, e ogni essere umano deve cercare di vivere in modo tale da evitare le trappole del diavolo e salvare la propria anima, guadagnare la vita eterna, che è lo scopo ultimo dell’esistenza. Su un piano più quotidiano, una delle grandi differenze fra il loro modo di pensare e il nostro è che loro ritenevano che uomini e donne
avessero compiti diversi, che dovessero fare cose diverse e conseguentemente i rapporti fra i sessi erano meno liberi dei nostri. Insomma, gli uomini tendevano a stare con gli uomini e le donne con le donne: anche nelle feste, anche in chiesa. E poi c’è Dante: chi era davvero l’Alighieri? Quali i tratti salienti da fermare della sua vita? Ho scritto un libro per provare a raccontarlo, non è facile riassumerlo in due battute… Diciamo che Dante vive nell’Italia dei Comuni, in una grande metropoli ricca e turbolenta; che è ricco di famiglia, anche se forse si vergogna un po’ dei suoi familiari che hanno fatto i soldi con i traffici e con l’usura; che vivendo di rendita può dedicarsi alle sue passioni, che sono innanzitutto la poesia e lo studio, ma a partire da un certo momento anche la politica; e che però, come tutti, ha anche una moglie, dei figli, delle figlie, e si preoccupa di sistemarli... Sempre in bilico tra l’amore per le lettere e l’amore per la politica. Come e perché questi due mondi racchiudevano la vera essenza di Dante? Dante è un intellettuale, in un senso che travalica le
Ma Dante è un laico, attratto dalle donne, non ha la minima inclinazione alla vita religiosa [...] ed è un aristocratico anche un po’ snob.
differenze fra le epoche: una di quelle persone che provano piacere a leggere dei libri, a porsi dei problemi e delle sfide, a cercare di risolverli, scrivendo altri libri. Ai suoi tempi uomini così potevano trovare piena soddisfazione nella riflessione teologica e filosofica, entrando in un ordine religioso dove si sarebbero potuti confrontare con altri intellettuali come loro, magari insegnando all’università. Ma Dante è un laico, attratto dalle donne, non ha la minima inclinazione alla vita religiosa, benché il problema religioso per lui sia fondamentale, ed è un aristocratico anche un po’ snob che disprezza quelli che vendono il loro sapere insegnando, o che studiano solo perché sperano di garantirsi una carriera. Quindi gli restano energie e tempo da investire, ed essendo un cittadino agiato di un Comune è ovvio che la politica gli si spalanchi davanti come il campo di attività più gratificante. Più tardi, al tempo dell’esilio, quando non potrà più fare politica allo stesso modo di prima, scoprirà che in realtà le sue due passioni si possono fondere, che si fa politica anche riflettendo e scrivendo trattati o manifesti. Di Dante, proprio per la fama che lo accompagnava già in vita, sappiamo forse più cose che di qualunque altro uomo dell’epoca. Tuttavia, attraverso le pagine di questo suo libro, lei ci guida tra le pieghe più intime dell’Uomo Dante, indagando periodi meno noti della sua vita. Quali nuove riflessioni emergono della sua personalità? Devo dire che la cosa che mi ha colpito di più è il cambiamento che Dante ha subito, forse senza ammetterlo neppure a sé stesso, prima e dopo l’esilio. Faceva politica in un Comune e finirà per sostenere che i Comuni non hanno nessuna legittimità e non rappresentano nessuno; ha servito un governo di popolo, un governo degli imprenditori e della gente che lavora, e finirà per sostenere che chi sta a bottega non è in grado di ragionare su CONTINUA... nient’altro, e che a lui interessa...
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Il Poeta e Ravenna, legame indissolubile
Fra il 13 e il 14 settembre 1321, Dante morì a Ravenna, a seguito di una febbre malarica contratta durante il ritorno da un’ambasceria a Venezia. A Ravenna era giunto alcuni anni prima con i suoi tre figli (Jacopo, Pietro e Antonia), in un triste e forzato esilio che da Firenze lo aveva portato dapprima in Lunigiana, Verona, Treviso e infine ospite di Guido Novello Da Polenta, signore della città. La data precisa del suo trasferimento rimane incerta, anche se diverse sono le ipotesi: Giovanni Boccaccio indica il 1314, mentre il ravennate Corrado Ricci propone il 1317. Qui si era fermato, trascorrendo gli ultimi anni della sua esistenza, partecipando alla vita culturale e concludendo la stesura di parte del Purgatorio e dell’intera cantica del Paradiso, pubblicata postuma dai suoi figli. Le celebrazioni per i 700 anni della morte del Sommo Poeta ci portano dunque a Ravenna sulle tracce di Dante. TOMBA DI DANTE Nel 1519 ebbe inizio la famosa diatriba tra Ravenna e Firenze per stabilire in quale città la spoglia del Sommo Poeta avrebbero dovuto giacere. Ottenuto il permesso da Papa Leone X di prelevare le ossa di Dante, i fiorentini si recano a Ravenna, ma la tomba era vuota. I frati francescani dall’interno del convento fecero un buco nel muro e trafugarono le ossa nascondendole nel vicino convento. La Tomba attuale fu costruita tra il 1780 e il 1781 per volontà del cardinal legato Luigi Valenti Gonzaga e fu progettata dall’architetto ravennate Camillo Morigia, seguendo i canoni neoclassici settecenteschi: tempietto a pianta quadrata, coronato da una piccola cupola. La facciata esterna è molto semplice con una porta in bronzo sovrastata dallo stemma arcivescovile del Cardinal Gonzaga e dalla scritta in latino: Dantis poetae sepulcrum. Al di sopra del sepolcro vi è un bassorilievo del 1483 opera di Pietro Lombardo, raffigurante Dante pensoso davanti a un leggio. Ai piedi del sarcofago vi è una ghirlanda in bronzo donata nel 1921 dai reduci della Grande Guerra. Sul soffitto arde perennemente una lampada votiva settecentesca, alimentata da olio d’oliva dei colli toscani, che è donato da Firenze ogni anno il 14 settembre (anniversario della morte del poeta). QUADRARCO DI BRACCIOFORTE A destra della Tomba di Dante si trova un antico oratorio originariamente collegato alla vicina basilica di San Francesco tramite un portico. Sotto il Quadrarco sono
collocati due sarcofagi marmorei di età romana: uno di Eliseo Profeta e l’altro di Pietro Traversari. All’interno del giardino si trova un rudere dell’antico muro in cui vennero nascoste le ossa di Dante nel 1810, mentre un cumulo di terra coperto di edera segna il posto dove vennero sepolti i resti del poeta, per proteggerli durante il secondo conflitto mondiale. Un piccolo campanile ogni sera, all’imbrunire, suona tredici rintocchi in memoria delle famose terzine della Commedia. BASILICA DI SAN FRANCESCO Costruita nel V secolo d.C. e riedificata nel X secolo d.C., la basilica degli Apostoli (Pietro e Paolo) successivamente prese il nome di basilica di San Francesco, poiché nel 1261 i francescani la ricevettero in concessione. È conosciuta come “chiesa di Dante” perché il poeta vi si recava a pregare e meditare e, inoltre, perché gli furono tributati gli onori funebri dalla signoria dei Da Polenta. La chiesa all’interno è suddivisa in tre navate da due serie di archi a tutto sesto sorretti da dodici colonne di spoglio per lato. L’attuale pavimento sorge 3,5 metri più in alto rispetto a quello originario: in fondo alla navata centrale è infatti possibile ammirare attraverso una finestrella la cripta con i frammenti musivi del pavimento della chiesa originaria, costantemente sommersa dall’acqua perché sotto il livello del mare. ANTICHI CHIOSTRI FRANCESCANI Posti a lato della Tomba, gli Antichi Chiostri Francescani costituiscono il fulcro della Zona del Silenzio, un’area di rispetto dedicata al Poeta, e ospitano il Centro Dantesco che comprende il Museo e la Biblioteca. Il Museo ospita testimonianze del culto tributato nei secoli a Dante: ritratti, bozzetti, busti, opere di grafica, targhe, corone, pergamene, maschere, rari e curiosi cimeli, la cassetta di legno che contenne le ossa del Poeta dal 1677 al 1865 e l’urna di vetro nella quale lo scheletro ricomposto di Dante fu esposto nel 1865. La Biblioteca ha come nucleo principale alcuni manoscritti danteschi del secolo XIV e le più antiche edizioni a stampa (sec. XV-XVII) delle opere dell’Alighieri. CASA SCARABIGOLI Antica dimora medievale, ritenuta casa della famiglia Scarabigoli (contemporanei dei Da Polenta). Una lapide ricorda che il poeta vi avesse dimorato durante il suo soggiorno ravennate, ospite dei proprietari. LA PINETA DI CLASSE Situata a pochi chilometri a sud di Ravenna, la pineta di Classe ha ispirato Dante nella rappresentazione della selva «spessa e viva» del paradiso terrestre, che accoglie Dante e Virgilio lungo il loro cammino nel Canto XXVIII del Purgatorio. Ai tempi di Dante infatti costituiva una vasta area boschiva che dal Reno arrivava fino a Cervia, correndo parallelamente alla costa adriatica. Dante deve averla attraversarla più volte durante il suo soggiorno a Ravenna. Oggi è ridotta a meno di un terzo ma conserva ancora intatto il fascino selvaggio che doveva avere nel Trecento. vivadante.it
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Le mille Beatrici di Paolo Roversi
Kate, New York 1993 (for Harper’s Bazaar) - particolare © Paolo Roversi; courtesy Pace Gallery
Ravenna omaggia il fotografo Paolo Roversi con una mostra al MAR, Museo d’Arte della città di Ravenna, curata da Chiara Bardelli Nonino, photo editor di «Vogue», organizzata dal Comune di Ravenna, con il prezioso contributo di Christian Dior Couture, Pirelli, Dauphin. Fortemente voluta proprio dallo stesso fotografo, che a Ravenna è nato, ha aperto il suo primo studio fotografico e ha ancora legami familiari, e rimandata più volte a causa dell’emergenza Covid (al momento temporaneamente chiusa), Paolo Roversi – Studio Luce è un’ampia retrospettiva che racconta il percorso artistico di una delle star mondiali della fotografia di moda. L’allestimento si sviluppa su tre piani negli spazi cinquecenteschi della Loggetta Lombardesca del MAR e comprende quasi 300 immagini molto diverse tra loro. I primi scatti di moda e i ritratti di amici e artisti come Peter Lindbergh, si alternano a still life realizzati nello studio parigino, dove il fotografo scatta da sempre con la sua Deardoff. Seguono alcune foto “di strada” realizzate da Roversi in occasione di alcuni viaggi e poi ci si tuffa in quell’universo femminile fatto di nudi, ritratti e flou che sono il suo marchio indelebile e lo hanno portato a lavorare per le riviste patinate e gli stilisti di tutto il mondo. La seconda sezione della mostra è dedicata alla reinterpretazione in chiave contemporanea della figura di Beatrice incarnata dalle immagini di figure iconiche del mondo femminile e della moda: Kate Moss, Naomi Campbell, Rihanna, Natalia Vodianova e tante altre, un bellissimo omaggio al genius loci dantesco, nell’anno e nella città in cui si celebrano i 700 anni dalla scomparsa del Divino Poeta. Il percorso si conclude con gli scatti recentissimi effettuati a luglio in occasione della sfilata Dior a Lecce e le immagini del Calendario Pirelli 2020, quest’anno commissionato proprio a Roversi. «Ho cercato di fare la mia mostra più bella perché Ravenna è la mia patria, la mia città e il mio amore per Ravenna è grandissimo», queste le parole del grande fotografo a chi gli ha chiesto i motivi di una mostra così ampia e importante in città. E quale dichiarazione d’amore per un luogo non fu più bella e più sentita? Alessandra Morgagni www.mar.ra.it
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mostre, musei, gallerie exhibition, museum, galleries
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La rivoluzione necessaria
I musei
, siano essi di arte antica, moderna o contemporanea, ma anche di natura tecnica o scientifica, sono soggetti giuridici che agiscono in un mercato, se così si può dire, del tutto particolare. Quasi per mission, come direbbero gli americani, si tratta di entità imprenditoriali, siano essi di natura privata o, più spesso, pubblica, che normalmente non producono profitti, perché non è questa infine la loro primaria e costitutiva vocazione. Sono altresì macchine costosissime, che quindi necessitano di contributi pubblici, il cui ottimo funzionamento,
di Massimo Bran però, permette al sistema che gli lievita attorno, ossia quello turistico ma non solo, di guadagnare eccome. La cifra identitaria di queste macchine del sapere andrebbe quindi valorizzata connettendo questi due tratti, traendone le adeguate conseguenze. Che a nostro avviso, ovviamente qui semplificando, non possono che essere le seguenti due: sostegno massimo da parte degli enti pubblici per alimentare al meglio questa linfa essenziale del sistema Italia; stimolo, direi di più, pretesa da parte del Ministero e dello Stato più in generale che in particolare i musei pubblici, ma non solo, producano un netto scarto, una netta svolta nella propria visione gestionale, dando al percorso della valorizzazione di queste industrie civiche importanza almeno pari a quello della tradizionale, storica, rilevantissima funzione della conservazione. Per quanto riguarda questo secondo aspetto, qui non ci si vuole esclusivamente riferire alla moltiplicazione delle mostre temporanee per aumentare il numero dei visitatori e quindi degli introiti derivanti dalla bigliettazione, ma a
una vera ridefinizione della “destinazione d’uso” qualitativamente aperta degli spazi museali, facendoli diventare epicentri culturali a tutto tondo, con naturalmente un altissimo lavoro di selezione sui contenuti da ospitare, nonché a una vera rivoluzione per così dire “anglosassone” nelle politiche di management, in particolare per quel che riguarda il marketing contemporaneo, di questi musei. È un lavoro al contempo di straordinaria complessità in termini di realizzazione quanto semplicissimo in termini di comprensione. E la cosa che più preoccupa è la seconda istanza, ossia il fatto che se da un lato ci si scontra continuamente con una sconcertante ignoranza e rozzezza e non conoscenza da parte dei nostri dirigenti politici su che tipo di ruolo debba svolgere oggi la cultura, l’industria museale nelle società moderne, da un altro lato ci si imbatte in una mentalità meramente conservativa e accademica che è quella che informa l’abito mentale della stragrande maggioranza dei dirigenti dei nostri musei pubblici, una mentalità che facendosi scudo dell’erudizione e dello specialismo conservativo, bene altissimo s’intende, ritiene che tutto ciò che attiene alla valorizzazione innovativa di un museo equivalga a mercificazione. Una tenaglia mortale, che se non si saprà spezzare con idee e progetti di cambiamento decisi l’orizzonte inevitabilmente non potrà che essere sempre dello stesso tenore, immobile. Oggi, certo, viviamo un’emergenza di dimensioni inaudite, direi illeggibili quasi alla luce della radicalità dell’impatto che tutto ciò ha prodotto e produce nel nostro vissuto, lasciandoci tuttora attoniti e di fatto disarmati di fronte a un attacco devastante e mai così imprevisto. E l’emergenza ha bisogno di prime terapie d’urto rianimatorie.
Tra l’infinito delta dell’industria culturale quello dei musei è tra tutti i corsi d’acqua quello che fisicamente ha tutti i fondamentali per riaprire le sue porte senza mettere a repentaglio la salute dei visitatori. Il distanziamento non è così complesso, gli spazi comunque sono mediamente ampi, il controllo abbastanza semplice. Aprire prossimamente, il più presto possibile, si può, si deve. È su questa concreta, percorribilissima opportunità, quindi, che si innesca la prima urgenza, ossia quella di sostenere finanziariamente questo comparto da subito e pesantemente. Perché già parliamo di macchine che a pieno regime non possono guadagnare direttamente, figuriamoci quando si trovano a girare a un quinto, se andrà bene, del loro potenziale. Se questa volta non viene compreso che questa azione è un dovere civile, sociale, economico di primaria rilevanza, allora è giusto che il Paese si autocondanni alla marginalità culturale, accontentandosi di rimanere una mera, irripetibile cartolina in decomposizione. Se invece, come sempre sull’orlo del baratro, ciò verrà compreso, allora tutti dovremmo spingere chi doverosamente inietterà nuovo sangue per tenere in vita i nostri musei a pretendere da essi quanto detto sopra, ossia di impegnarsi sul serio a voltare pagina incominciando a dare circolarmente del tu al futuro, ponendosi come obiettivo la progressiva diminuzione del gap nella valorizzazione di questo straordinario patrimonio rispetto alla capacità dei paesi più moderni nel valorizzare il loro, ben inferiore al nostro come è ben noto al mondo intero. Pretendere aiuto dovuto, dovere di essere all’altezza di tale aiuto. Questa l’equazione all’osso da seguire a nostro avviso. Se solo almeno un po’ ciò accadesse sarebbe il là di un vero, agognatissimo cambiamento.
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:arte :storie2020
FOTOGRAFIA
L’occhio, la terra, il volo Inevitabilmente, un confronto serio fra due artisti della fotografia, come Bresson e Lartigue, non può che far emergere differenze e similitudini del loro operare, identità personali che, pur nella libertà del proprio agire, sono altresì specchio della società in cui hanno vissuto, nella misura della loro “reazione” ad essa. Inutile dire che non si può affatto rimproverare a un fotografo come Lartigue, enfant prodige e agiato borghese incapace di grandi ribellioni, che ama aggiungere alla propria firma il disegno di un “sole” stilizzato, di aver scelto di tramandare un diario visivo della felicità per immagini come “regali del caso”, anche quando in realtà pazientemente ricercati, nell’illusione reiterata quanto incompiuta di una umanità che si vorrebbe sempre paga e soddisfatta, trionfatrice sugli affanni e sui dolori, quasi che omettendoli, si cancellassero, come per magia. Cuore non vede, occhio non duole: è così che la fotografia diventa, apparentemente, un mezzo per rivivere momenti felici. La felicità come invenzione risiede solo nel considerarla come unica realtà, negando così l’infelicità. In realtà la felicità non è affatto un’invenzione, o meglio, lo è, solo se guardata con incredula indifferenza, senza essere anelata o compresa, contemplata e in definitiva perseguita. È, infatti, nascosta nella “vita di ogni giorno”, in quella quotidianità che all’improvviso rivela lo stupore di un attimo di meraviglia, poco importa se durante la Belle époque o in anni più vicini a noi, oggi come ieri. L’occhio di Lartigue è diretto verso il cielo, o meglio, è come sospeso nell’atto del volo, figurato o vero che sia: è racchiuso nella eterea e incredibile, sostenibile leggerezza di una bambina tra le nuvole della baia di La Baule in Bretagna, per intenderci. I suoi scatti a mezz’aria, al di là della propria contingenza storica, sono «capaci di entrare nella storia, e di essere al contempo frammento leggero di un sentimento profondo» come scrive Denis Curti, co-curatore della mostra di Lartigue alla Casa dei Tre Oci insieme a Marion Perceval e Charles Antoine Revol. Ecco allora nel primo decennio del Novecento, le corse automobilistiche e il movimento congelato di una ruota di “un’automobile deformata” al Gran Prix de L’automobile Club de France, o il volo di un deltaplano, tuffi, acrobazie sportive sull’acqua, sorrisi e capriole in famiglia con amici a quattro zampe. Ma anche l’eleganza intramontabile di signore a passeggio lungo le Avenue parigine, istantanee di corpi, mani e intensi volti femminili che sprigionano libertà bollente (Coco distesa a braccia aperte sull’arenile) o di contro stemperata dolcezza (Hiroko Matsumoto di profilo). L’amore e il rispetto per le donne che lo hanno amato si coglie nella bellezza eterna dei loro ritratti: è nel fresco pudore malizioso della prima moglie Madeleine Messager, detta Bibi, fotografata in bagno durante la luna di miele a Chamonix o mentre è a Hendaye, in costume, tra le ombre e i riflessi del suo parasole in acqua; è, ancora, nella languida sensualità della sua musa Renée Perle, distesa sul divano o in posa alla finestra, nell’erotismo composto di gambe nude e mani affusolate con anelli e unghie laccate dell’ultima moglie Florette Orméa. Spontaneità
Coco, Deauville, 1938, Photograph by Jacques Henri Lartigue © Ministère de la Culture (France), MAP-AAJHL Jacques Henri Lartigue. L’invenzione della felicità. Fotografie, Casa dei Tre Oci
profonda e gesti ordinari, avvicinano mostri sacri come Picasso, ripreso sia a torso nudo, con cappello e sigaretta in mano, che tramite i suoi polpacci, durante una seduta di agopuntura a Cannes. Lartigue inizia a fotografare a sette anni e dirà di aver sempre fotografato per sé stesso, e non per gli altri, sebbene goda che le sue immagini possano essere fonte di gioia per le persone che le vedono. La sua popolarità incomincia a sessantotto anni, quando viene scoperto da Richard Avedon, fotografo e ritrattista statunitense impegnato nel reportage e nella moda, e dal direttore del dipartimento di fotografia del Moma di New York, John Szarkowski, che gli organizza una retrospettiva nel 1963. Il suo sguardo sul mondo sarà sempre racchiuso in quel suo infantile desiderio di intrappolare luci e suoni che lo colpiscono, strizzando gli occhi, come a voler catturare le sue sensazioni di piacere, rendendole eterne: lo farà attraverso la fotografia ma anche tramite la pittura, con coraggio e sensibilità unica. E ora veniamo a Bresson, fondatore della Magnum Photos, insieme a Robert Capa: uno dei più rinomati fotoreporter d’altri tempi, viaggiatore ed esploratore instancabile per antonomasia, testimone delle guerre civili in Spagna, Cina, e della Guerra Fredda in Unione Sovietica, le cui fotografie sono un inno alla verità della vita così com’è, immortalando ogni età dell’uomo ed ogni classe sociale, non solo quella borghese dalla quale proviene. Dalla felicità dei giorni come evocazioni di istanti che si ripetono in ogni paese e cultura, e perciò universali, alle
stravaganze della vita di strada, ai vivi ritratti di personaggi che hanno fatto epoca e che riportano sulla loro pelle e nelle espressioni del viso i segni della loro esistenza, delineando caratteri non comuni, per giungere poi ad avvenimenti storici che hanno fatto da spartiacque tra un prima e un dopo da ricordare. Il Moma di New York gli dedica una mostra nel 1947. La sua monumentale Master Collection – 385 fotografie scelte da Bresson in persona nel 1973 – è divenuta nel 2020 oggetto di un interessante esperimento sociologico, promosso dalla Fondazione Pinault e costituito dalla nuova mostra organizzata in collaborazione con la Bibliothèque nationale de France e la Fondation Henri Cartier-Bresson, intitolata Le grand Jeu a Palazzo Grassi. Il curatore Matthieu Humery, infatti, ha invitato cinque personalità della cultura a fare ciascuna un’ulteriore selezione, in piena libertà, di una cinquantina di fotografie. Sono nate così cinque mostre nella mostra, determinate dalle voci del collezionista François Pinault, della fotografa Annie Leibovitz, dello scrittore Javier Cercas, della conservatrice e direttrice del dipartimento di Stampe e Fotografia della Bibliothèque nationale de France Sylvie Aubenas, fino al regista Wim Wenders. Non interessa qui rimarcare le diversità delle loro scelte, dovute certamente anche alla loro indole e attitudine artistica, al privilegiare l’estetica alla narrazione, consapevolmente o inconsciamente, mentre giova concentrarsi, piuttosto, sulle analogie curatoriali piuttosto che sulle differenze,
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Henri Cartier-Bresson Bougival, France, 1956, épreuve gélatino-argentique de 1973 © Fondation Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos Henri Cartier-Bresson. Le Grand Jeu, Palazzo Grassi
ovvero sulle foto ‘ripetute’ nelle singole scelte (a loro insaputa, è bene sottolinearlo), ovvero sulle fotografie che in definitiva hanno riscontrato più successo, e chiedersi il perché, perché in quello sta la loro forza oggettiva, più che soggettiva. È Wim Wenders a spiegare in un documentario, con la sua lente d’ingrandimento sulle fotografie, come Bresson si concentrasse soprattutto sugli occhi più che su qualsiasi altra cosa, occhi che s’incontrano, quelli del fotografo e dei suoi soggetti. Rispetto a Lartigue, Bresson è più ancorato alla terra, il suo è un punto di vista che si perde volutamente nello scatto, e precisamente negli occhi degli altri, che diventano i nostri, tessendo dialoghi muti attraverso reti di sguardi, cogliendo reciprocità che possono
essere distanti o vicine. Così a Bougival ci identifichiamo come Bresson nel momentaneo riposo di un giovane in salopette e senza camicia, visto di schiena, che ruba e trattiene con lo sguardo una idilliaca scena famigliare su una chiatta, chiedendoci magari se durerà per sempre o no; siamo complici involontari di due signori che vorrebbero sbirciare in un cantiere edile di Bruxelles, guardiamo verso l’ignoto al di là del muro di Berlino, insieme ai tre uomini visti di spalle sopra una sorta di cabina elettrica, e ancora ci interroghiamo sulle regole del caso come l’anziana e distinta signora davanti a una roulette a un tavolo di Las Vegas. A Barcellona ci addormentiamo vicino a un cesto di mele, lasciando che l’icona surrealista di un nostro
possibile quanto casuale profilo caricaturale si materializzi sul muro come un graffito a deriderci, oppure ci sporgiamo dall’alto come spie, a fissare binari “senza sbocco” ma protesi verso l’infinito. Ritorniamo bambini anche senza esserlo mai stati, o forse sì, con le stampelle per i vicoli di Siviglia o di corsa per le strade di Palermo, con una chitarra in mano all’angolo di un negozio a San Antonio in Texas o col capo chino, infagottati come profughi di guerra e sopravvissuti a Dessau, dimentichi dei nostri giochi infantili su giostre in Lorena e già adolescenti oziosi, fra portici di colonne antiche in Provenza. Bresson ama i bambini come Lartigue, ma ne evidenzia le criticità e i miracoli del contesto, si tratti di povertà o altro, anche laddove c’è la poesia, il nitore e la purezza (il bimbo tenuto in bilico con un braccio solo, da un uomo, di fronte al Lago Sevan, in Armenia). La denuncia, l’impegno individuale e collettivo, emergono dalla risolutezza con le rughe e la bandiera americana di una vecchia donna di Cape Cod nel Giorno dell’Indipendenza, nei meandri di sangue del regno delle gang di Bowery Street a Manhattan, nel dolore passato e futuro della folla ai funerali di Gandhi. Impossibile citare tutti i ritratti significativi dell’artista: ognuno di essi, dirà Wenders, è come un “libro aperto”, senza segreti, che fa trapelare l’animo e il carattere dei soggetti raffigurati. Alberto Giacometti sotto la pioggia, che sprofonda nel suo impermeabile, con la paura di sciogliersi come le sue sculture, la ponderata incertezza di sbieco del filosofo e scrittore Jean-Paul Sartre sul pont des Arts a Parigi, l’anticonformismo profondo della scrittrice e attrice teatrale Colette insieme alla sua cogitabonda governante nell’ombra, l’intelligente arguzia dell’artista Alexander Calder, nel suo studio-residenza a Saché in Francia, l’impotente follia di Samuel Beckett nella sua biblioteca, i cui occhi guardano davvero “dentro, più che fuori”. Bresson ricerca nelle sue immagini l’utilità come scopo, mai fine a sé stessa, ma come indice di lotta sottostante o apertamente rivelata: «fotografare è mettere sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore. È un modo di vivere». La sua Leica ci induce a indagare più a fondo, senza fermarci. Lartigue predilige invece l’utilità come scopo ma fine a sé stessa, ci rassicura maggiormente, tramite il raggiungimento anestetico di una pura serenità ovattata, momentanea visione necessaria al benessere dell’anima, che si vorrebbe destinata a protrarsi. «Il mio Universo è un enorme parco» dirà infatti, e tutti noi vorremmo farne parte. Di chi abbiamo più bisogno, allora, in futuro? Di fotografi come Bresson o Lartigue? La risposta è forse scontata, ma la scriverò ugualmente, correndo il rischio di sembrare banale, poiché come scriveva Gibran «l’ovvio è invisibile ai più, finché qualcuno non lo esprime con semplicità»: sì, abbiamo bisogno di entrambi. Poiché il Paradiso sulla Terra è ancora lontano da raggiungere, ammesso e concesso che si possa, come alcuni vorrebbero. Luisa Turchi www.palazzograssi.it | www.treoci.org
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COLLEZIONI
MUSEI
GUERILLA
È stata un’occasione unica e ahimè per pochi: un nucleo della Collezione di Peggy Guggenheim raramente visibile al grande pubblico è stato protagonista di una mostra bellissima e assolutamente “inedita” solo per una manciata di settimane (inaugurata il 14 febbraio e costretta a chiudere l’8 marzo, per non riaprire più!). Migrating Objects, trentacinque opere di arte non occidentale sono state esposte per la prima volta insieme a Palazzo Venier dei Leoni, offrendo la possibilità di riflettere sui diversi livelli di interpretazione delle opere e di comprendere come questa arte e queste culture siano state fatte proprie dagli artisti del Novecento. Passata alla storia per aver sfidato le convenzioni come collezionista e mecenate, e da sempre celebrata per la sua collezione d’arte moderna europea e americana, nel corso degli anni ‘50 e ‘60 Peggy Guggenheim inizia a guardare oltre i confini dell’Europa e degli Stati Uniti interessandosi all’arte dell’Africa, dell’Oceania e delle culture indigene delle Americhe. La mostra riscopre la formazione di questa raccolta, a volte operata con consapevolezza, altre volte affidata all’istinto e all’occhio della Collezionista. Peggy acquista queste opere a partire dal 1959 e per tutti gli anni Sessanta, tuttavia esse sono rimaste a lungo in relativo oblio. Eppure, se si osservano le molte fotografie scattate a Venezia, a Palazzo Venier dei Leoni e nella barchessa, si scopre come la Collezionista esponesse sempre queste sculture tra le icone moderniste. A un pubblico occidentale trasmettevano un senso seducente di estraneità, un’aura idealizzata di esotismo, di sovrannaturale e di autenticità incontaminata dalle insidie della modernità. Picasso, Max Ernst ed Henry Moore, insieme a molti altri, collezionano quella che all’inizio del Novecento è definita in modo imperfetto arte “primitiva”, ispirandosi ampiamente a questi modelli per sviluppare le proprie indagini sulla riduzione della forma, sulla rappresentazione astratta, e su fondamenti teoretici liberi da usi e costumi occidentali. Lontane dall’ambiente usuale, al loro arrivo in Europa e negli Stati Uniti, queste opere sono state riconfigurate in modo drastico, dimenticando le origini e ignorando gli scopi per cui erano state create. La mostra ha tracciato le migrazioni, studiato il contesto e recuperato il significato originale delle opere, riportando alla luce ciò che era andato perduto nel corso della storia dell’arte. M.M.
Dopo il successo della mostra di Emilio Vedova a Palazzo Reale di Milano (6 dicembre 2019 - 9 febbraio 2020), accompagnata da un eccezionale volume edito da Marsilio e curato da Germano Celant, scomparso ad aprile, la Fondazione Emilio e Annabianca Vedova ha deciso di operare una vera e propria ‘rivoluzione’. «Abbiamo avviato una seconda fase – ha dichiarato Alfredo Bianchini, Presidente della Fondazione – che consente di studiare e presentare via via in modo organico e coordinato le complesse esperienze di Vedova nel loro intreccio contestuale, per il quale le singole mostre ci appaiono in qualche modo superate e non totalmente espressive dell’articolato linguaggio-segno di Vedova. Di qui l’idea e l’impegno di dar vita al progetto permanente del Museo Vedova». Il Museo ospiterà l’esposizione permanente, mostre temporanee, attività scientifiche e didattiche, utilizzando nuove forme di comunicazione digitale telematica per consentire di render pienamente conto della poliedrica e pluridimensionale visione del mondo di Vedova nella vicenda artistica del XX secolo. Il progetto, in via di maturazione, dovrebbe essere completato negli attuali spazi espositivi disegnati da Renzo Piano tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022. Un annuncio tanto inaspettato quanto di forte impatto e di grande significato anche per Venezia.
La mostra era ormai pronta, avrebbe dovuto inaugurare al pubblico il 24 aprile a Palazzo Cini, quando tutto si è fermato. Tuttavia le idee e la passione sanno anticipare i decreti e le necessarie modifiche di sistema – il sistema della fruibilità dei luoghi di cultura – sapendo stupire e soprattutto lanciando un fortissimo segnale. «In un momento storico in cui i luoghi dell’arte sono fisicamente ancora inaccessibili a causa delle restrizioni per contrastare la pandemia, un’arte nata per essere stampata come le incisioni di Piranesi e le foto di un maestro contemporaneo come Basilico, come è loro naturale si danno allo sguardo di chi cammina e si ferma per un attimo. L’arte anche in questo caso è un viaggiare senza spostarsi e travalica le barriere dei musei per incontrare e ispirare le persone anche in questo momento. E i muri labirintici della città di Venezia possono diventare un atlante per questo possibile viaggio» ha pensato Luca Massimo Barbero, direttore dell’Istituto di Storia dell’Arte della Fondazione Giorgio Cini e curatore della mostra Piranesi Roma Basilico, facendosi promotore del progetto Palazzo Cini per le calli di Venezia che ha trasformato, a partire dal 12 maggio, per un mese, gli spazi per le affissioni della città in teatro naturale, mostra a cielo aperto unica e a prova di distanza sociale. L’arte antica si appropria dei linguaggi del contemporaneo, non solo nell’idea stessa della mostra e cioè nel mettere a confronto la Roma antica delle incisioni di Piranesi e quella contemporanea delle fotografie di Gabriele Basilico, ma anche nelle modalità di fruizione, rubando alla strada l’idea di una guerilla di visioni e di bellezza. La poesia urbana di Roma fatta di luoghi simbolici della città eterna rimbalza così dalle vedute realizzate nel ‘700 dall’incisore veneziano alle fotografie di Basilico, realizzate con le stesse angolazioni. La mostra è stata ideata per celebrare i 300 anni dalla nascita di Giambattista Piranesi (Venezia, 1720–Roma, 1778), svelando al pubblico non solo 25 stampe scelte dal corpus integrale conservato nelle collezioni grafiche della Fondazione Giorgio Cini, ma anche una selezione inedita del lavoro del grande fotografo paesaggista, commissionatogli dalla Fondazione Cini stessa nel 2010 in occasione della mostra Le arti di Piranesi. Basilico, ispirato dalle celebri pagine che la scrittrice Marguerite Yourcenar dedicò al Piranesi agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso, ripercorre con la macchina fotografica i luoghi delle vedute piranesiane restituendone la loro straordinaria modernità.
www.guggenheim-venice.it
www.fondazionevedova.org
www.cini.it
Oggetti migranti
Ri-Fondazione Vedova
Muri Maestri
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CONTEMPORANEO
Racconto di iniziazione
FONDAZIONI
SOCIAL
Nuovi immaginari Note Vocali
MOSTRE NASCOSTE PLAYLIST
Ca’ Pesaro 1919
© Marco Cappelletti
Le mostre sono dei piccoli mondi in cui di volta in volta ci si ritrova avvolti, quasi invischiati. Once Upon a Dream a Palazzo Grassi, prima grande retrospettiva dell’artista egiziano Youssef Nabil, ci ha cinto in una trama narrativa vagamente nostalgica, sedotti da immagini volutamente senza tempo, capaci di condurci verso una realtà lontana, ma conosciuta o riconoscibile: un Egitto leggendario, quasi mitico, che appare sbiadito ed evanescente alla luce del contemporaneo, un Medio Oriente che affronta il presente perdendo il passato. Fotografia, pittura, video e installazioni ripercorrono poeticamente l’intera carriera dell’artista seguendo uno schema narrativo cinematografico. Il racconto segue a grandi linee un copione, che assume la forma di una fiction personale al limite dell’immaginazione. Once Upon a Dream è infatti un racconto di iniziazione, tra fantasia e realtà, dove ciascuna tematica affrontata ha una valenza universale e allo stesso tempo individuale: la ricerca dei reperti identitari, le preoccupazioni ideologiche, sociali e politiche dei nostri giorni, la malinconia di un passato ormai lontano. Non una mostra monografica, ma una visione profonda delle aspirazioni dell’artista che diventa sentimento condiviso, un contemporaneo che trasforma il visitatore in compagno di viaggio. M.M.
When above... è un’installazione luminosa emblematica sulla facciata dell’ex Chiesa di San Lorenzo a Castello, ora Ocean Space, che indica il livello dell’innalzamento del mare – +6m – che verrà raggiunto nel prossimo secolo a Venezia. In questo anno incredibilmente avverso, iniziato a novembre 2019 con l’aqua granda, l’arte, come modalità specifica di conoscenza, ci ha permesso di comprendere chiaramente la straordinaria portata delle trasformazioni subite dagli oceani e le sue conseguenze che ci toccano da vicino. Il progetto Territorial Agency: Oceans in Transformation, promosso da TBA21–Academy per Ocean Space, ci ha messo difronte «a un immaginario politico che non vede la natura come sfondo dell’azione umana ma come una forma di vita incommensurabilmente diversa». Si tratta di uno degli studi più dettagliati effettuati finora sugli oceani: seguendo sette traiettorie geografiche – dal Mare del Nord al Mar Rosso, il Medio Atlantico, la Corrente del Golfo, il Pacifico Equatoriale, l’Asia Metropolitana, il Vortice dell’Oceano Indiano e la Corrente di Humboldt –, le elaborazioni dei big data presi in esame hanno mostrato in grandi installazioni multimediali l’impatto delle attività umane sul sistema oceanico, offrendo modalità di comprensione per fare dell’Oceano uno spazio collaborativo comune. M.M.
La nuova comunicazione in tempo di pandemia include un uso massiccio di social media, solo pochissimi, tuttavia, sanno rendere poesia l’affacciarsi a un mondo potenzialmente senza confini, i cui orizzonti sono segnati dalle infinite capacità di porsi in confronto tra individui. Certamente Fabrizio Plessi in Plessi. Progetti del mondo: 44 città che hanno ispirato altrettanti lavori del Maestro – andate online una al giorno, per un minuto, alle 19 su Instagram (plessi.progettidelmondo | fabrizio. plessi), dal primo maggio fino al 14 giugno – è stato capace di stupire ancora una volta per la sua inclinazione a conquistare Instagram con la leggerezza di chi può portare oltre il suo sguardo, regalando un tour planetario per immagini, parole e suoni, nella brevità di una misurazione temporale che diviene limite valicabile della fantasia. Le pagine del libro che ha ispirato questa nuova avventura artistica, nata quasi per gioco con la complicità di Paolo Lucchetta, appartengono a una pubblicazione del 1997 di Gérard A. Goodrow (editore DuMont, Colonia), da cui prende il titolo il progetto. L’aver saputo rieditare digitalmente il volume, un racconto per landmark personalissimi e ispirati, con le note di Michael Nyman a segnare il ritmo, e con la voce narrante del Maestro Plessi a dare forma sonora a un taccuino personalissimo di viaggi è risultata un’idea rivoluzionaria e meta-contemporanea, un modo per utilizzare Instagram scomponendo le immagini in multiformi paesaggi e passaggi mentali, interpretazioni di pura geografia emozionale in cui i dettagli completano lo spazio fisico di una mappa del cuore frastagliata attraverso i movimenti della vita. Le città toccate in questa peregrinazione, da Roma a Venezia, da Bombay a Napoli, da Parigi al Sudan, dal Marocco alle amate Baleari, dal Giappone a New York, spaziando attraverso i continenti, rappresentano una pura fonte di illuminazione, ciascun luogo è narrato per merito di una intensa osmosi che l’Artista ha saputo creare con quanto lo circondava. Una distopia geografica in cui le città ideali di Fabrizio Plessi si assommano e si nutrono con il filtro dello sguardo che le contiene, un dettaglio, una traccia di vita nella purezza di un pensiero incorrotto, libero nel fissare uno o più elementi fino a farne materia di narrazione. Da riascoltare! Fabio Marzari
Di rilievo, una piccola, quanto interessante mostra, a cura di Gabriella Belli, Elisabetta Barisoni con la collaborazione di Mauro Zazzeron, una esposizione di per sé “defilata”, rispetto alle altre grandi mostre assai pubblicizzate che eravamo ormai abituati a visitare (prima del Covid), Omaggio a Umberto Moggioli (1886–1919), a cento anni dalla sua scomparsa. Pittore di origine trentina, legato all’avanguardia capesarina, contribuì assieme a Gino Rossi a rinverdire il panorama figurativo dell’arte veneziana. L’itinerario breve ma incisivo consta di una ventina di oli e studi preparatori – disegni e acqueforti – di qualità, cartoline e fotografie d’archivio inerenti al periodo del soggiorno buranese dell’artista (dicembre 1911–marzo 1915). Provenienti da collezioni pubbliche e private, le opere, contestualizzate, erano in parte già state esposte nelle sale di Ca’ Pesaro, nel 1912 e 1913, o in mostre postume del 1919 e 1925. Moggioli, di temperamento schivo e solitario, trova nella laguna un appagamento spirituale e più di uno stimolo creativo, dipingendo dal vero, memore degli insegnamenti del suo maestro Guglielmo Ciardi. Vivere in laguna per un “capesarino” è come vivere a Pont Aven per i Nabis. I suoi paesaggi dell’anima, come luoghi sospesi nel tempo, si susseguono uno dopo l’altro, a campiture piatte e pennellate ampie e fluide. Gli alberi e i cipressi, i cirri al vento e le case colorate di Burano immerse nella luce serotina o al sole d’inverno, la solitudine autentica di San Francesco del Deserto o dell’Isola del silenzio, Sera a Torcello e Sera di primavera (già esposto alla XI Biennale veneziana del 1914), sono i quadri presenti che più evocano la sua personale “poetica delle cose”, non scevra da influenze mitteleuropee e simboliste di fine secolo, come si evince dalle linee sinuose fitomorfe, da accordi cromatici e atmosfere crepuscolari rivisitate secondo il suo stile. Luisa Turchi
www.palazzograssi.it
www.ocean-space.org
www.instagram.com/fabrizio.plessi
www.capesaro.visitmuve.it.
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CAPOLAVORI
VETRO
Abbiamo tutti riscoperto in questo periodo “diverso” quanto il nostro patrimonio artistico, proprio quello sotto casa, sia straordinario e ricco di sorprese, ed è proprio nell’ottica di un ripensamento a nuove forme di fruizione dell’arte nell’era del Covid che le Gallerie dell’Accademia sono subito scese in campo, le prime a riaprire a Venezia e le prime a ripensare formule semplici ma efficacissime di valorizzazione, con un progetto emblematico Un capolavoro per Venezia che offre al pubblico l’esposizione, a rotazione, di singoli capolavori della pittura veneta del Rinascimento provenienti da sedi museali internazionali, messi in relazione con gli altri dipinti delle Gallerie. Prima della nuova temporanea chiusura, abbiamo così potuto ammirare la Sacra Conversazione con i santi Caterina e Tommaso di Lorenzo Lotto (Venezia, circa 1480–Loreto, circa 1556) dal Kunsthistorisches Museum di Vienna che ben si presta al dialogo con una delle gemme delle Gallerie e della ritrattistica lottesca, quel Ritratto di giovane gentiluomo che il pittore realizzò durante il periodo veneziano alla fine degli anni venti del Cinquecento. Dello stesso periodo del ritratto di Venezia è anche la Sacra Conversazione di Vienna tra i più riusciti “dialoghi spirituali” del pittore e della pittura veneta in generale. Grazie al suo formato ridotto, che ben si presta all’intimità della devozione privata, al naturalismo del dolce paesaggio, alla grazia della dinamica gestuale, alla raffinatezza della scelta cromatica e, infine, al sapiente uso della luce che questa tela rappresenta uno dei raggiungimenti più alti dell’arte del pittore. Maria è adagiata sull’erba e sostiene il Bambin Gesù in piedi sopra un ceppo, colpisce la resa dei drappeggi dell’ampio abito azzurro, realizzato con il prezioso blu di lapislazzuli, alle sue spalle le fronde di una maestosa quercia proiettano ombre irregolari sulle figure. Santa Caterina, riconoscibile dalla ruota dentata, è inginocchiata di fronte a Maria ammantata da un prezioso vestito verde e volge lo sguardo verso San Tommaso che chiude la composizione sulla destra con il rosso del mantello. Straordinaria è la grazia e l’eleganza con cui Lotto realizza la figura dell’angelo sulla sinistra che sembra avanzare leggero in punta di piedi per incoronare Maria con un serto di pervinche. Un equilibrio perfetto tra sguardi, gesti, colori e luce e un profondo sentimento di armonia che ha colpito la critica lottesca sin dal Seicento quando il dipinto già si trovava nelle collezioni imperiali viennesi. Franca Lugato
Murano e la tradizione dell’arte vetraria sono uno dei settori maggiormente colpiti dalla crisi attuale – provati da mesi di chiusura causa Covid –, non solo per la ‘temporanea’ assenza di turisti, ma soprattutto per la mancanza da anni di piani di sviluppo industriale per l’Isola, di incentivi alla produzione e alla ricerca e la conseguente chiusura di molte vetrerie e attività a esse collegate. Molti giornali in questi mesi hanno portato il problema all’attenzione nazionale e internazionale, tuttavia Venezia e Murano stanno mostrando con orgoglio la volontà di dichiarare al mondo come la storia non possa essere cancellata senza lottare. Un forte richiamo a una necessaria reazione e azione di sistema è stato certamente la partecipazione massiccia a The Venice Glass Week 2020, festival dedicato all’arte vetraria, che ha coinvolto Venezia e Murano dal 5 al 13 settembre. Protagonista il vetro inteso nella sua massima espressione di creatività, quella artistica, unica, che travalica il tempo traghettando nel contemporaneo espressioni tradizionali con risultati straordinari. Mostre, dimostrazioni, laboratori, conferenze, visite guidate e molto ancora per un’edizione che si è imposta come manifesto per contribuire a sostenere una ripartenza del settore. L’accento, dunque, sulla produzione del vetro con un’eccezionale iniziativa, unica nel suo genere, che ha portato una fornace galleggiante in giro per Venezia per mettere in mostra il lavoro millenario, alchemico e durissimo del Maestro Vetraio. M.M.
www.gallerieaccademia.it
www.theveniceglassweek.com
In Conversazione con Lotto
Murano è viva
ARCHIVI
A distanza, senza frontiere
Photo Andrea Avezzù - courtesy La Biennale di Venezia
Non sono solo i moltissimi filmati, le fotografie, i documenti, le lettere, i manifesti, gli articoli di giornale ad aver fatto della mostra Le muse inquiete. La Biennale di Venezia di fronte alla storia un unicum, o meglio forse il prototipo di un format di incroci creativi da replicare, ma i volti dei protagonisti, i sei Direttori dei settori – Cecilia Alemani (Arte), Alberto Barbera (Cinema), Marie Chouinard (Danza), Ivan Fedele (Musica), Antonio Latella (Teatro), Hashim Sarkis (Architettura) – con Debora Rossi, responsabile dell’Archivio Storico delle Arti Contemporanee – ASAC e il neo Presidente della Biennale Roberto Cicutto, a raccontare con orgoglio di squadra una Istituzione culturale, a 125 anni dalla sua fondazione, il cui passato è vivo nel presente e fondamenta del futuro. E proprio come una squadra si sono presentati a fine agosto, schierati davanti al Padiglione Centrale dei Giardini in formazione, capitanati da una emozionata e vivacissima Cecilia Alemani, come un vero e proprio ‘collettivo’ che, in un alternarsi di voci ed esperienze da ‘novelli’ archeologi, in pochi mesi hanno scavato nella terra vastissima della storia della Biennale. Certo la storia è nota ai più, ma entrare nelle sue pieghe significa stupirsi di continuo e comprendere quanto importanti o incredibili siano state certe scelte o certe battaglie – opere accolte o rifiutate, autori fermati alla frontiera, altri qui scoperti e resi celebri, film non premiati e Maestri finalmente riconosciuti, performance non comprese e censurate, spettacoli non rappresentati o dirompenti, appropriazioni della politica, contestazioni e boicottaggi... – e come la storia culturale, e per molti versi anche politica, dell’Italia dal Novecento a oggi sembra essere passata praticamente tutta per i Giardini e per i padiglioni della Biennale. La sensazione che ancora una volta si siano abbattute le frontiere di genere e si siano delineate, pur guardando per una volta indietro, le strade del futuro dell’Istituzione veneziana. La Biennale è diventata uno spazio aperto di scambio tra i suoi numerosi linguaggi del contemporaneo. È finalmente diventata una sola Biennale. M.M. www.labiennale.org
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MOSTRE PERDUTE
La regola della bellezza Una delle vittime illustri del Covid è certamente Carpaccio, la sua mostra in programma a Palazzo Ducale (10 ottobre 2020 – 24 gennaio 2021), curata da Muve Fondazione Musei Civici di Venezia, è stata posticipata a data da destinarsi. Abbiamo scelto questa mostra come emblema di tutte le mostre attese anzi attesissime che solo a Venezia in questo 2020 ci siamo perse. Nella speranza di poter riavvolgere il nastro per il 2021 e di non perderne nemmeno una per strada, vogliamo offrire un ‘assaggio’ prestigioso del Carpaccio: il professor Augusto Gentili ci guida alla scoperta di un dipinto del Maestro, anzi di un suo capolavoro nascosto in città.
Il San Giorgio e il drago di San Giorgio Maggiore (fig.1) è un dipinto poco visto: non sta in chiesa ma in una sala relativamente “riservata”, un tempo coro d’inverno o coro di notte, poi detta “sala del conclave” giacché per oltre tre mesi a cavallo tra 1799 e 1800 – occupata Roma dai francesi e garantita Venezia dagli austriaci – vi si tenne la travagliata assemblea cardinalizia che portò all’elezione di papa Pio VII Chiaramonti. Alla scarsa considerazione generale, che appare francamente incomprensibile per chi ne abbia diretta conoscenza, contribuisce forse la convinzione diffusa – soprattutto nella vecchia saggistica, ma talvolta anche in contributi più recenti – che il dipinto provenga dall’abbazia benedettina di Santa Maria del Pero a Monastier nel trevigiano. Questo San Giorgio e il drago, firmato e datato 1516, è inoltre un’opera poco stimata, generalmente liquidata come replica variata del celebre San Giorgio e il drago eseguito ai primi del secolo per la fraternita dalmata. Se considerato nel suo momento e nel suo contesto, recupera invece tutto il suo spessore e la sua autonomia, offrendo – anche rispetto al suo indiscutibile “prototipo” – una serie di elementi di assoluta novità che rimandano al monastero benedettino di San Giorgio Maggiore e alla sua cultura religiosa. Il dipinto presenta in primo piano il duello di San Giorgio col drago, desunto nei tratti essenziali, come al solito, dalla raccolta di leggende di santi costituita nel XIII secolo da Jacopo da Varagine, la celebre “Legenda aurea”, poi diffusa in un numero sterminato di edizioni a stampa, soprattutto in volgare col titolo “Legendario de sancti”. Ridotti al minimo i dettagli orrorifici di resti umani e animali, e quasi nascosta dietro un albero la principessa con l’agnellino dell’innocenza, della mansuetudine e del sacrificio fortunosamente evitato, il clou della vicenda sta nel confronto tra due potenze incompatibili e inconci-
liabili: il cavaliere cristiano e la bestia diabolica, il cavallo dall’occhio languido e il drago dall’occhio infuocato e iniettato di sangue. La vicenda si completa con le quattro storiette della finta predella, che rappresentano come in una strip fumettistica momenti narrativamente successivi al duello (fig.25). La leggenda attraversa ora l’epoca storicamente definita delle persecuzioni di Diocleziano e Massimiano nei confronti dei cristiani. Giorgio affronta il governatore Daziano, romano e pagano, e senza mezzi termini lo accusa di idolatria e demonolatria: si può ben comprendere che costui non la prenda bene. Dopo il consueto rifiuto di adorare gli idoli, Giorgio è condannato a subire una serie di efferate torture, che restano del tutto inefficaci poiché l’eroe è ogni volta immediatamente sanato per le sue preghiere e l’immancabile intervento divino: i bastoni uncinati gli fanno il solletico, il calderone di piombo fuso sembra dargli il sollievo di un bel bagno caldo. Viene allora chiamato Atanasio, mago di corte, perché gli propini una pozione avvelenata, ma Giorgio beve per due volte dal calice mortale senza alcuna conseguenza. Come in tante altre storie di martiri cristiani, c’è un solo modo per eliminarlo, la decapitazione: perché così, tagliando la testa pensante, si distrugge la sede della straordinaria potenza del santo mago cristiano. In questo dipinto, però, non c’è solo la storia di Giorgio, ma ci sono tante altre cose. A destra c’è la lapidazione di santo Stefano (fig.6), ben definita seppur inscenata nello sfondo con piccole figure: grazie all’attributo anticipato
della spada sollevata si distingue anche Saulo di Tarso, che presto arriverà alla celebre conversione sulla via di Damasco e diventerà poi san Paolo, ma che per ora è un pagano, persecutore di cristiani, e sta con gli altri incaricati di custodire le vesti dei lapidatori. La chiesa di San Giorgio Maggiore è intitolata anche a Stefano fin dalla translatio del corpo avvenuta secondo tradizione nel 1110 sotto Ordelaffo Falier. In facciata stanno le due statue speculari di Giorgio e Stefano, opera di Giulio Del Moro; in chiesa c’è nel transetto a sinistra l’altare di Stefano con la Lapidazione di Jacopo e Domenico Tintoretto. Giorgio e Stefano, insieme, sono titolari della chiesa e protagonisti del dipinto di Carpaccio. Nello sfondo a sinistra compaiono due figure di eremiti (fig.7). Quello che sta più in alto è ovviamente san Gerolamo: raffigurato, in linea con la vastissima tradizione iconografica d’ambiente veneziano/veneto, come un vecchio dalla lunga barba candida, coperto di una tunica e impegnato nella lettura del suo libro. Di quello più in basso, in un punto molto sciupato, si vede tuttavia che il corpo è completamente nudo, che ha l’aureola sul capo dall’ampia tonsura e che è disteso bocconi tra i cespugli. Si tratta di un episodio ben noto della storia e dell’iconografia di san Benedetto: che, durante la sua esperienza nell’eremo di Subiaco, subisce inevitabilmente la tentazione della lussuria, sollecitata da un vago ricordo femminile che il diavolo gli insinua nei percorsi della meditazione. A questo punto Benedetto per un attimo tentenna, vorrebbe quasi abbandonare la vita contempla-
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Fig.1 Vittore Carpaccio San Giorgio e il drago, 1516 olio su tela, cm 180x226 Venezia, San Giorgio Maggiore
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Fig.6 particolare con la lapidazione di santo Stefano
tiva e ritornare alla vita mondana; ma poi decide di gettarsi in un cespuglio spinoso, vincendo in questo modo coi dolori del corpo i dolori della mente. Siamo in una sede benedettina: non avremmo bisogno di particolari spiegazioni né per Benedetto, che è, per così dire, il padrone di casa, né per Gerolamo, che è il modello primario di ogni eremita e naturalmente anche il modello storico di Benedetto; ma questa doppia presenza permette una sottolineatura molto importante, di storia e di metodo. Il quadro, ricordiamo, è datato 1516. Dal 1514 al 1516 l’abate di San Giorgio Maggiore è Gerolamo Spinola, ovviamente genovese. Ma proprio nel corso del 1516 viene nominato il nuovo abate, che è Benedetto Marin, decisamente veneto. Allora la presenza di Gerolamo e Benedetto nel dipinto di Carpaccio non serve soltanto quale riconoscimento dello spessore culturale della prestigiosa sede benedettina, ma, con un’intelligente variazione sul tema tradizionale dei santi eponimi, inserisce l’elogio immediato e la memoria a venire dei due abati che si erano susseguiti nella commissione. In alto al centro c’è un colle con una macchia boscosa, un rustico capanno, un pastore col bastone e il cane, un gregge compatto e ordinato. Non è un dettaglio di contorno, di “ornamento” pittoresco: il buon pastore, che vive nella solitudine campestre sorvegliando attentamente il suo gregge, è immagine del monaco benedettino che, in piena adesione al celebre motto del fondatore, cura il proprio raffinamento spirituale senza per questo trascurare il governo dei fedeli. Il nostro dipinto è uno dei tanti casi in cui si tenta di risolvere, almeno in immagine, il fondamentale dilemma di vita attiva e vita contemplativa. Augusto Gentili* *Testo tratto dal catalogo della mostra: Carpaccio. Vittore e Benedetto da Venezia all’Istria, Conegliano, Palazzo Sarcinelli (7 marzo– 28 giugno 2015)
Fig.7 Particolare con san Gerolamo e san Benedetto eremiti
Figg. 2-5 Particolare delle predelle con i supplizi di San Giorgio
There is no such thing as race. None. There is only one human race. Scientifically, anthropologically. Toni Morrison
KASIA KAY
Human Race, Only (2020) Venezia Giardino della Marinaressa Riva degli Schiavoni Castello
www.kasiakayartprojects.co
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MAESTRI
Metamorfosi del Moderno
Germano Celant sembra un personaggio senza tempo, immediatamente riconoscibile per il suo modo di essere e di apparire, forte ma non abbastanza per combattere questo inesorabile virus. È mancato all’età di 80 anni a Milano il 29 aprile scorso. Molto è stato scritto in sua memoria nei giornali, molto si continuerà a scrivere nei libri, molto anzi moltissimo rimane vivo delle sue mostre il più delle volte epocali, come le ultime di Celant che hanno avuto Venezia come protagonista, diretta o indiretta: nel 2019 la grande retrospettiva alla Fondazione Prada a Ca’ Corner della Regina dedicata a Jannis Kounellis e la personale di Emilio Isgrò alla Fondazione Cini a San Giorgio; a febbraio 2020 la mostra su Emilio Vedova nella sala delle Cariatidi a Palazzo Reale a Milano. Abiti total black e anelli d’argento con grandi pietre azzurre, aria severa, autorevole. “Critico” era una definizione che gli stava stretta, così come quella di inventore dell’Arte povera, di cui tuttavia va considerato il padre. È stato teorico, talent scout, curatore tra i pochi in grado di diffondere il made in Italy nel mondo. Fondamentale in questo senso è stata la mostra The Italian Metamorphosis 1943–1968 al Solomon R. Guggenheim di New York nel 1994 (con Vittorio Gregotti, altro Maestro mancato quest’anno, che curava la sezione Architettura). Ma l’elenco delle esposizioni firmate è lunghissimo e tocca gli spazi museali più importanti del mondo: dallo stesso Guggenheim, di cui è stato senior curator, al Centre Pompidou di Parigi, passando per la Biennale d’Arte di Venezia, di cui fu direttore nel 1997, e negli ultimi anni curando i progetti di Fondazione Prada a Milano e Venezia. Nel 2013 si era concesso il lusso di un remake spregiudicato: a Ca’ Corner della Regina aveva riallestito When Attitudes Become Form, una mostra di Harald Szeemann del 1969, che aveva segnato un prima e un dopo nel panorama del secondo Novecento. Certo Celant incuteva rispetto e, forse in modo del tutto involontario, una certa soggezione, forse era colpa di quella sua capacità – ormai universalmente riconosciuta – di grande anticipatore che sarà, almeno per ora, difficile da colmare. A Germano Celant, Maurizio Calvesi, Okwui Enwezor e Vittorio Gregotti, ex direttori artistici del settore Arti visive della Biennale di Venezia, scomparsi tra il 2019 e il 2020, il CdA della Biennale di Venezia ha deciso di attribuire loro quattro Leoni d’Oro Speciali 2020 per essere stati testimoni significativi nella storia della Biennale di Venezia. F.M.
GALLERIE
ARTISTA 1
Una rete attiva, solida e non a caso al femminile, costantemente connessa, il cui filo conduttore è l’esperienza, la ricerca e la passione. Nove gallerie d’arte contemporanea a Venezia – Alberta Pane, Beatrice Burati Anderson Art Space & Gallery, Caterina Tognon, La Galleria Dorothea van der Koelen, Ikona Gallery, Marignana Arte, marina bastianello gallery, Michela Rizzo e Victoria Miro – si sono unite nel progetto comune Venice Galleries View per valorizzare il loro lavoro e i loro artisti. Un circuito virtuoso che ora diventa anche virtuale, dimostrando come identità, visioni, idee, obiettivi e network siano energia pura particolarmente in momenti difficili come questo. Un nuovo sito condiviso che ospita una serie di progetti sviluppati in sinergia, primo fra tutti Storage, che permette ai visitatori web di scoprire ogni settimana nove artisti e nove loro opere d’arte, scelte e presentate da ciascuna galleria, provenienti dai depositi delle stesse. Ancora una volta Venezia si conferma terreno fertile per il contemporaneo, con le gallerie che diventano elementi portanti di una programmazione fitta di mostre ed eventi dal respiro internazionale, resistendo con tenacia tutta femminile ai momenti attuali, con la forza e la consapevolezza di rappresentare una scena artistica fortemente viva e vivace. M.M.
In una Venezia rimasta orfana dei grandi eventi Biennale, con i musei chiusi per ridurre l’impatto della mobilità sulle statistiche dei contagi, rimangono palcoscenici aperti al contemporaneo spazi che proprio grazie alla collocazione open air possono continuare a offrire stimoli artistici alla collettività. È il caso del Giardini della Marinaressa, una location che ospita opere di forte impatto scenico provenienti dall’orbita Biennale. La restituzione dello spazio è principalmente opera dell’European Cultural Center, che a partire dal 2017 ha promosso e sostenuto la ristrutturazione dei due giardini – di Levante e di Ponente – al fine di rendere queste aree pubbliche nuovamente accessibili e aperte per progetti artistici di respiro internazionale. Attualmente il piccolo e suggestivo parco alberato che guarda sulla Riva dei Sette Martiri ospita, fra le altre, l’opera Human Race, Only (2020) di Kasia Kay, artista e curatrice da sempre impegnata nella ricerca di un’originalità nella proposta artistica e di modi inediti di conciliare l’opera d’arte con l’idea curatoriale che ne deve sostenere il messaggio. L’intento di Kay è svelato fin dalla citazione con la quale è presentata e introdotta l’installazione e che dell’opera è parte integrante: «There is no such thing as race. None. There is just a human race – scientifically, anthropologically». È una citazione di Toni Morrison (Lorain, 1931–New York, 2019), scrittrice e accademica statunitense, prima donna afroamericana a vincere il Nobel per la letteratura (1993). Il concetto di razza non esiste, né scientificamente né antropologicamente. Esiste solo la razza umana. È facile intuire allora come la scultura di Kasia Kay rifiuti ogni pretesto di incomunicabilità per offrire un messaggio esplicito e diretto. Le 82 lettere di cui è composta la frase di Toni Morrison sono stampate in altrettanti grani di bronzo uniti fra loro da un filo sistemato a spirale, come perle di una collana. L’opera invita tutti gli esseri umani a riconoscere e ad esprimere le proprie scuse per il male e ad affermare la determinazione a correggere le convinzioni sulla razza umana. «L’umanità merita speranza e guarigione, unità e dialogo – spiega Kay –, ho usato la citazione di Morrison per invocare una trasformazione e un cambiamento, per rafforzare la nostra lotta a favore di un mondo migliore, un mondo in cui la discriminazione razziale lasci posto all’uguaglianza». Marisa Santin
www.venicegalleriesview.com
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A proposito di noi!
Una sola razza
:arte :storie2020
ARTISTA 2
Dedalo sorridente La storia di Dedalo (senza Icaro, senza Minosse e Pasifae, senza Teseo e Arianna ma indubitabilmente con il Labirinto) si attaglia ben a ragione a spiegare natura e caratteri del lavoro di Giovanni Soccol. So quel che dico: nessuno è più ingegnoso, politropo, curioso di questo ironico e inesauribile creatore di labirinti. Labirinti pittorici non meno che retorici, narrativi e fantastici, evocativi e visionari. Seguirlo allorché si inoltra nelle selve dei ricordi, nella delineazione di personaggi, di incontri, di citazioni, di curiosità dicibili e indicibili, di rimandi è altrettanto affascinante e periglioso che avventurarsi nel labirinto di Cnosso senza il filo di Arianna (e questo metodo del gomitolo è stato anch’esso inventato, come si sa, proprio da Dedalo: quasi un cane che si mangia la coda, verrebbe da obiettare. Inventa, infatti, la prigione e inventa pure il modo per uscirne. Anzi due: per via di terra, col gomitolo; e per aria, con le ali). Eccoci quindi sul limitare del celeberrimo ingegnoso Labirinto con accanto il nostro sorridente progettista: ingenio fabrae celeberrimus artis, e lui ci osserva, sornione. E comincia a parlare, come se volesse darci una mano così che ci possiamo districare nel groviglio e venire a capo del percorso da intraprendere. Ma siamo già caduti nella trappola, primo perché quel percorso non esiste e, se ci fosse, sarebbe non condivisibile con alcuno; secondo, perché la sua struttura, elastica come una tela di ragno, ducit in errorem variarum ambage viarum, come direbbe Ovidio e, mescolando e confondendo tutti i punti di riferimento induce all’errore perché ancora si possa sperare di orientarsi. Ci accorgiamo presto di essere entrati in uno di quei geniali racconti a incastro, a cannocchiale o, ancor meglio, a gemmazione ininterrotta come un frattale, in cui era specialista la fragile indomita Karen Blixen. La caratteristica precipua del labirinto è proprio quella di non rivelarsi: anelando al belvedere centrale, torretta o terrazza che sia, dichiariamo il nostro soggettivo fallimento, mentre Dedalo, sempre sorridente e ora silenzioso vicino a noi, sfoggia, senza quasi darlo a vedere, tutta la sapienza imperturbabile della sua inesauribile techné resa duttile e soffice da un’ironia sottile e bonaria. Giovanni Soccol è un maestro di chimica e di fisica prima ancora che artifex di pittura, senza essere, come qualcuno pretenderebbe, un negromante o un alchimista. È invece, e di sicuro, uno studioso delle stelle, un astronomo, non un astrologo. Cieli stellati incombono sui suoi labirinti e dai labirinti attraverso fessure nella tessitura inconsutile del tempo – che solo a lui si rivelano – ci portano dritti alla Via Lattea o alla corona di Arianna che Bacco lancia in cielo e trasforma, come si sa, in fulgida costellazione collocata tra il ginocchio di Ercole nisseno e il serpente di Ofiuco. Il labirinto e le stelle, quindi. Così si qualificano i dipinti che Soccol qui ci propone in nuova e più arguta e perfetta elaborazione. Labirinti continui e serrati come gusci di chiocciole, avvoltolati nella loro geniale indecifrabilità. E spaccati da fessure nette, dolorose da cui si potrebbe vedere, se solo volessimo e ne fossimo capaci, uscire una
colata di sangue: perché rinserrano il mistero di storie ineffabili – cioè non-parlabili – di tragedie talmente antiche e primigenie da toccarci nell’intimo, nei recessi più arcaici delle circonvoluzioni corticali, in forsennati viaggi à rebours, in cieche visioni degne della follia mitologica e dantesca di Flaxman o di quella esagitata e nera di Füssli come della essenzialità lapidea e minerale di Blake. Da quali mediazioni provengono a Giovanni Soccol questi stimoli, quali depositi di immagini, di suggestioni, di forme hanno plasmato il suo universo geometrico e palpitante? Perché, va detto a scanso di equivoci e contro l’apparenza di muta immobilità delle sue architetture, che in quelle tele palpita molta vita, si sentono, si vedono sollevarsi come mantici, come il respiro terrestre e cosmico di una immane pulsazione, i palpiti, gli aneliti universali dalla congiunzione dei cieli stellati nelle terragne vagine labirintiche in un muto imeneo: come antichi ziggurat, come montagne sacre, come luoghi analoghi, come le arcaiche alture dei riti di fecondazione. Ma non abbiamo ancora trovato risposte alle domande appena enunciate. Soccol ha avuto maestri e compagni di strada. Lo dice lui stesso e lo dicono quanti di lui hanno scritto: maestri come Guido Cadorin, Mario Deluigi, Carlo Scarpa; certe scenografie novecentesche e post-barocche; certi spazi mistici di Zoran Mušič non meno che qualche allucinata marionetta sironiana o reinvenzioni metafisiche e antimetafisiche di Cagnaccio o di Ghiglia... C’è tuttavia un altro percorso possibile che è un altro caposaldo nella sua formazione che non ci sentiamo in diritto di omettere. Ed è Gennaro Favai. Non il Favai delle vedute veneziane. Piuttosto quello, di cui scrivevamo già alcuni anni or sono, delle visioni di Capri, gli inchiostri di rocce a strapiombo come scheggioni del purgatorio dantesco, quello degli acquarelli e delle cartelle grafiche di Taormina, di Ravello, di Positano; della Casbah di Algeri le cui minuscole ruelles tagliate nella pietra e percorse da fantasmi paiono strettoie dentro labirinti misteriosi: dietro ogni curva del muro si cela l’ignoto o appare la rivelazione. Geometrie compatte e indecifrabili, pareti senza finestre corse da venature come tracciati di un sismografo dell’anima; o le latomie di Siracusa che si auto-denunciano nella spigolosa malvagità dei loro pensieri. Si tratta di suggestioni e di frammenti sparsi che Giovanni Soccol raccoglie e coltiva come
tracce di memoria, come geroglifici di una storia palpitante, di un’esperienza irripetibile tutta da narrare; che sgorga talvolta come un fiume profondo e ricco d’acqua, la cui corrente si adagia in anse tranquille o ribolle in rapide e salti: l’infanzia e la giovinezza, lezioni private della magica Ilse Bernheimer che portava con sè in una piccola casa sulla riva della Giudecca il magistero di Klee, della Secessione viennese e del Bauhaus. Ilse presenta Soccol a Favai. Ecco il filo rosso (forse, una volta ancora, quello di Arianna!) che lega i nostri pensieri al configurarsi della personalità dell’artista nei suoi acerbi anni d’esordio. La scuola di Nudo all’Accademia e il mondo (attardato? anticipatore?) della pittura veneziana a ridosso delle Biennali del secondo dopoguerra con cento, mille incontri, esperienze, amicizie, sodalizi umani e artistici: quelle amicizie e quei sodalizi che si intrecciano nella vita di Giovanni e che egli conserva e coltiva negli anni come un deposito di pietre preziose. La Galleria del Cavallino, Architettura allo IUAV; viaggi di formazione in Francia, in Olanda. L’incontro con Mušič, Ida Barbarigo-Cadorin e Léon Gischia, Bepi Mazzariol ai tavoli del mitico Angelo. Ma non siamo qui a fare né una approssimativa biografia, né un impreciso curriculum: solo tracciare delle linee, mettere dei paletti, strappare dalla genericità dei medaglioni occasionali un percorso che è stato e che continua con acquisizioni irrinunciabili, con scarti e accelerazioni, con pause di riflessione, con letture (molte) e gustosi sguardi all’indietro per antivedere il futuro. Perché l’itinerario intellettuale di Soccol è ricco e frastagliato e vi si mescolano incontri conviviali e presenze didattiche e magistrali, frequentazioni elette e ripercorsi nei luoghi di infanzie letterarie o esistenziali, di golosi apprendimenti e di raffinati esercizi di stile. Non sono, insomma, solo il quaderno e il cavalletto a farne una personalità inquieta e inusitata, autoironica e cosmopolita. Ma c’è un altro incontro, che ci pare sotto ogni angolo di visuale importante. Non è né con un artista né con un critico o uno storico d’arte, ma con un chimico, il francese Marc Havel. Quello che molti dei pittori italiani di fine Ottocento e del primo Novecento facevano o tentavano di fare andando spesso incontro a fallimenti e incidenti, a cominciare da de Chirico, viene invece assai facile a Soccol e proprio grazie alle conoscenze trasmessegli da Havel: scoprire i segreti della tecnica pittorica degli artisti del Quattro e Cinquecento e mettere in pratica precetti antichi per nuovi risultati grazie a saperi aggiornati, a un approccio scientifico al dato materiale. Ti parla, Soccol – e il suo pensiero segue le orme e le esperienze tramandategli da Favai e Havel – di tempere e di leganti, di aggrappanti e albumine, di acidi e basici, di olii e resine, di colle e lacche, di ossidazione e velature; soprattutto di emulsioni e diluenti, caseine e rossi d’uovo; di dipintori (di camere) che orinavano nel colore per favorire l’essicazione o di maestri d’Accademia che non riuscivano a mantenere morbidezza ai loro impasti; di segreti minuscoli per qualche effetto strepitoso e di proclami tonitruanti per risultati risibili...
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Ha il gusto del paradosso, Il nostro Giovanni e del paradosso fatto indecifrabile geometria son sostanziati i suoi labirinti. Non al modo intrigante e funambolico di Escher e nemmeno a quello petulante di leggiadri giardinisti del pollice verde. È qui allora che dobbiamo tornare, ai labirinti. Primo: perché labirinti? Ne siamo certi? Potrebbero essere centrali elettriche o atomiche, osservatori astronomici, dighe, chiese. Oppure cartocci per le fave, dettagli di flipper, stampi per maniglie, per spremiagrumi, per molle di orologio, per imbuti con filtro. Piranesi, nella sua labirintica ossessione, disegnava archeologie di intere città e, in analogia, piccoli gusci di conchiglie, micro e macrocosmo. Forme del pensiero, angoli d’anima, depositi di coscienza, incubi. Labirinti che si intuiscono, strutture che scorgiamo appena attraverso gli squarci di una buccia rigida, come quando si spacca una melagrana e ne escono i chicchi sanguigni. Idee turgide, queste dei labirinti di Soccol, che tracimano dai margini slabbrati di un pannello inclinato, di un muro ricurvo (eccole, ancora, le case bianche di Capri o di Tunisi!) che s’impennano sulle gradinate istoriate del Tempio per eccellenza su cui s’inerpica la meravigliosa infante Maria nella Presentazione di Tintoretto nella chiesa della Madonna dell’Orto. Labirinti? Non solo: macchine meravigliose, congegni meccanici come cupole di un osservatorio astronomico: un ingranaggio nascosto le anima facendole scorrere, scivolare, sfiorarsi, congiungersi (si veda il dittico del Labirinto XXXVI). Ecco l’ombra del sistema gigantesco e millimetrico di edifici scientifici e sacri dell’osservatorio di Jantar Mantar a Jaipur, in India. Ma ecco anche Metropolis, il nero, ieratico, si addice al mistero, al delitto, al rito espiatorio, al sacrificio. Il labirinto è uno spazio totalmente occupato, denso, compatto. Ma è altresì scudo ed usbergo (per dirla col Parini) dietro cui si nasconde il ricercato: confonde l’inseguitore, disorienta e annienta, soffoca e destruttura: basterebbero le scene della Signora di Shanghai con Rita Hayworth e Welles nel salone degli specchi (o, magari la citazione che se ne fa in uno dei molti 007). Orson Welles aveva opportunamente giocato con la macchina da presa in un’insistita ed efficace mise en abîme: dentro, sempre più dentro, precipizio nell’abisso, vertigine nella vertigine. Soccol fascia le torri metafisiche di de Chirico in una avvolgente trama di piani verticali e di vedute tagliate: dentro, sempre più dentro, sfogliando il cuore nella geometria dei suoi edifici come una cipolla o, se si preferisce,
la spirale del Guggenheim di New York di Wright scassinandolo, aprendolo come un barattolo, un tubo di cartone, una scatola di sardine. Dentro, sempre più dentro, nell’intimo di pensieri nascosti, spogliando e rivestendo il nocciolo duro di un sapere arcaico, di una speranza che sfugge, di un desiderio inseguito e sorpreso nell’attimo stesso in cui si rivela, sotto un cielo fantasticamente nero, luminoso come una lastra di ardesia, di acciaio, di porpora e d’oro. Come Arthur Evans sulle colline di Cnosso «Ciò che conta è non smettere mai di scavare. Ossia di scendere in profondità, più che si può» (Andrea Marcolongo). Se i labirinti medievali (San Vitale di Ravenna oppure quello gigantesco di Chartres) sviluppano in forma bidimensionale il nostro tema, il non meno antico pavimento della cattedrale di Otranto è stato definito un “labirinto teologico”, cioè sdipana sul filo di una straordinaria divagazione escatologica per immagini a più uscite un’avventura labirintica dentro storia sacra e profana, letteraria e mitologica, scendendo in altri abissi, scoperchiando altri vasi di Pandora, alzando altri e non meno suggestivi monumenti. Nostalgia? Anelito verso ricomposizioni impossibili di un’età aurea, di statuti scritti nel bronzo, di un’esistenza mitica o almeno eroica, di dei e di semidei? Né il rimpianto né la mestizia o le lacrime paiono impigliati nelle corde del nostro Soccol: tutt’altro. La lucidità del suo sguardo parla di ragione e di ottimismo; la sicurezza del suo passo non è fatta per indulgere in qualche melanconia regressiva: i labirinti sono allora monumenti possenti, sfide prometeiche, segnali, tracce di esercizi titanici di una battaglia nell’universo. È certo singolare che in queste architetture ideologiche e classiche non siano nemmeno adombrate le parole convenzionali proprie di quella classicità: non gli ordini, non colonne e pilastri, non cornici o marcapiani, non paraste o lesene. Sarebbe piaciuta a padre Lodoli o a Boullée questa funzionalità laica e scabra, linee e superfici riflettenti, ombre portate esatte come lame, ombre naturali piegate a forza e pronte a scattare verso lo spazio cosmico: immaginario e visionarietà. C’è la forza di un annuncio in queste sagome ritagliate in lastre di vetro, forgiate col fuoco, metalliche, taglienti. Ma c’è altresì una suggestione di verticalità incontenibile: dai pochi gradini, da stilobati neutri le pareti ricurve e convergenti, dopo un’illusione di apertura, ora appaiono richiudersi e rinserrarsi, quasi labirinti-missili che fremono sulla rampa di lancio.
Mausolei senza tempo, tombe di profeti, chiocciole di una storia che si riavvolge di continuo: labirinti. Diceva Daniello Bartoli, il celebre letterato e scienziato del Seicento, che il guscio delle chiocciole, che a suo giudizio dimostrava l’infinita sapienza del creatore, era la più efficace delle difese del mollusco che si rintanava nei meandri che via via la sua stessa crescita formava e divenivano stanze impenetrabili, anse labirintiche irraggiungibili al più sperimentato dei predatori. I tordi, ghiotti di lumache, avevano però escogitato un loro sistema per cibarsi di quei molluschi: ne frantumavano il magistrale guscio sbattendolo contro una pietra (o, forse, facendo precipitare le lumache dall’alto, come la testuggine fatta cadere da un avvoltoio barbuto sul capo calvo di Eschilo scambiato per una roccia: cosa che provocò la morte dell’antico trageda). Altri labirinti, altre storie, altri aneddoti. I labirinti di Soccol non corrono di questi rischi: piantati a terra, anzi, nelle viscere stesse della crosta terrestre, essi possono addirittura parere eruzioni vulcaniche, esplosioni dal profondo di ere geologiche lontane, rivolgimenti lavici incandescenti, emergere di forme cristalline come effetto dello scontro tra placche tettoniche nella deriva dei continenti. Nulla di più naturale, nulla di più appropriato nella carriera ineguagliabile di un simile demiurgo. Giandomenico Romanelli (tratto dal catalogo della mostra Soccol. Labirinti d’invenzione, Venezia, Magazzino Gallery, Palazzo ContariniPolignac)
www.giovannisoccol.com
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Il Settecento in città Udine, e l’amore per Tiepolo
d’Arte con la sezione dedicata ad autori e mostre, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe –, che partecipa alla valorizzazione dell’opera di Giambattista Tiepolo a Udine. In occasione dei 250 anni dalla morte dello straordinario artista settecentesco, l’esposizione propone al visitatore una lettura inedita dell’arte del Maestro, un excursus degli omaggi – mostre, studi, cataloghi, convegni – a lui dedicati nel corso del Novecento a Udine, che ha permesso alla città di fregiarsi dell’appellativo “Udine città del Tiepolo”. Giambattista Tiepolo (Venezia, 1696–Madrid, 1770), uno dei maggiori pittori del Settecento veneziano – tra i suoi figli, i pittori Giandomenico e Lorenzo –, conosciuto come il pittore della luce, è stato anche un grande disegnatore e produsse molteplici bozzetti e studi preparatori per la realizzazione di affreschi e tele oltre a disegni finiti, destinati poi alla vendita o realizzati su commissione. Durante la sua lunga carriera disegni e dipinti si evolvono e cambiano stile nel tempo. Nel 1965, nelle sale della Loggia del Lionello, il prof. Antonio Morassi presiedette il comitato scientifico della mostra organizzata da Aldo Rizzi Disegni del Tiepolo, allestita con le opere conservate dai Civici Musei di Udine e con prestiti provenienti da collezioni pubbliche e private anche estere. L’esposizione ricostruì con oltre cento disegni l’opera grafica dell’artista, fornendo elementi fondamentali per comprenderne meglio l’intero percorso artistico. Per l’occasione vennero acquisite anche 2.500 fotografie di disegni del pittore veneziano. In occasione del bicentenario della morte la città di Udine, in segno di riconoscenza verso l’artista, avviò una serie di manifestazioni celebrative, a partire dalla pubblicazio-
Cercando la luce
ne del saggio di George Knox Domenico Tiepolo: raccolta di teste. A questa seguì la mostra allestita in Loggia del Lionello del corpus completo delle acqueforti dei tre Tiepolo, Giambattista, Giandomenico e Lorenzo, inaugurata il 18 settembre 1970 e visitata da oltre 20.000 persone, nella quale vennero esposte 226 acqueforti provenienti da collezioni pubbliche e private italiane ed estere. Nel 1996 le celebrazioni tiepolesche in occasione dei 200 anni dalla nascita dell’artista hanno visto la realizzazione di due mostre curate da Giuseppe Bergamini: Giambattista Tiepolo: forme e colori. La pittura del Settecento in Friuli, ospitata nell’ex Chiesa di San Francesco, e la mostra di disegni dedicata al figlio, Giandomenico Tiepolo. Maestria e gioco. L’opera di valorizzazione di Tiepolo a Udine è proseguita e prosegue ogni anno con eventi di vario genere organizzati per far conoscere e apprezzare il patrimonio cittadino ai residenti udinesi e ai turisti. Da ricordare, tra questi, la mostra Tiepolo, allestita a Villa Manin di Passariano nel 1971, l’esposizione Consilium in arena. Genesi di un dipinto, a cura di Vania Gransinigh, nel 2009 al Castello di Udine, nel 2010, sempre al Castello, Giambattista Tiepolo. Tra scherzo e capriccio, nel cui progetto le conservatrici
Cristina Donazzolo Cristante e Vania Gransinigh hanno presentato le stampe del grande artista, e nel 2011, come ultima segnalazione infine, ancora nel Castello si è tenuta la mostra Il giovane Tiepolo: la scoperta della luce. Questo excursus di eventi e manifestazioni per la valorizzazione dell’opera del Maestro in tutte le sue più importanti declinazioni espressive rappresenta la testimonianza dello straordinario, persistente impegno di Udine nei confronti dell’amato pittore veneziano. Gli archivi storici dei Musei custodiscono queste importanti testimonianze e la fotografia è il mezzo per riproporre, con una chiave diversa rispetto al catalogo, il lavoro svolto. Durante la pandemia da Covid tutti noi ci siamo avvicinati a una nuova fruizione dell’arte, non più direttamente attraverso la contemplazione dell’opera esposta in museo o in mostra ma attraverso la sua immagine riprodotta, ripresa fotografica o video che sia. A questo punto diventa ancor più comprensibile l’importanza degli archivi fotografici, elementi fondamentali per raccontare le storie di un tempo, testimoni del passato ma anche nostro contemporaneo. Daniela Paties Montagner www.civicimuseiudine.it
Sembra una moda quella degli anniversari di nascita e morte degli artisti, ma in realtà è un’occasione imperdibile per il pubblico, ma soprattutto per la critica e per le opere stesse. Infatti negli anni “dedicati a”, l’artista viene vivisezionato in modo scientifico con revisioni sulla sua figura e sulla sua arte, restauri importanti, riorganizzazione degli spazi museali e naturalmente mostre monografiche o tematiche. I 250 anni dalla morte di Giambattista Tiepolo (Venezia, 1696–Madrid, 1770) sono stati celebrati durante questo “particolare” 2020 e per questo non hanno goduto in pieno del meritato clamore, che speriamo possa continuare anche per tutto il 2021. Non potendo al momento visitare alcuna mostra, rivolgiamo la nostra attenzione alle pubblicazioni uscite in quest’anno a lui dedicate, in particolare alla monografia edita da Skira e realizzata in occasione della straordinaria mostra celebrativa Tiepolo. Venezia Milano, l’Europa , a Milano alle Gallerie d’Italia in Piazza della Scala, temporaneamente sospesa (sarà visitabile, appena possibile, fino il 21 marzo 2021). La monografia traccia tre diversi percorsi legati a tre città che contribuirono all’affermazione internazionale di Tiepolo: Milano e la sua maturità artistica, Dresda e la sua attività straordinaria a corte e Madrid, ultima tappa della sua vita, e la collaborazione con i figli Giandomenico e Lorenzo. Venezia, città della sua formazione, assume una centralità speciale, rimanendo il filo rosso che collega tutte le tappe dell’arte di Tiepolo. M.M.
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Udine, città ricca di storia, cultura e tradizioni, è centro storicamente egemone dell’intera regione friulana. Già castrum romano, dal 1420 in poi, come tutto il Friuli, divenne parte della Repubblica Serenissima, segnando la fine del potere temporale dei Patriarchi. Allora Venezia pose in città la famiglia fidata dei Savorgnan, il cui emblema campeggia ancora oggi sul vessillo della città. Il centro storico si concentra attorno alla collina alta 138 metri sul livello del mare sulla quale è situato il Castello, riservando tracce fondamentali del suo passato veneziano, visibile in molti monumenti importanti come la celebre Loggia del Lionello, in stile gotico-veneziano dalla bicromia 37 bianco e rosa, o l’imponente Torre dell’orologio, coi mori che battono le ore, a dominare piazza Libertà, cuore pulsante della città. Adiacente alla loggia, l’Arco Bollani reca sulla sua sommità uno stupendo leone di San Marco, disegnato nel 1556 da Andrea Palladio, artefice anche del progetto di Palazzo Antonelli. Il Cjistiel di Udin (Castello di Udine), autentico capolavoro, simbolo della città, fu più volte ricostruito: l’attuale struttura fu inaugurata nel 1567 dopo cinquant’anni di lavori, affrescata da Giovanni da Udine, allievo di Raffaello Sanzio, in particolare nelle finiture esterne e nel salone del Parlamento, entrambi lavori completati poi dal pittore e architetto udinese Francesco Floreani. Il Castello ospita la sede dei Musei Civici, il Gabinetto Numismatico e il nuovo Museo Friulano della Fotografia, situato al terzo piano, rinnovato e completato nel 2019. Questa nuova parte museale ospita una mostra piccola ma importante, che nasce dagli archivi stessi dei Musei Civici – Fototeca, Archivio fotografico, Biblioteca
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Raffaello superstar
Bottega contemporanea
Il catalogo della mostra alle Scuderie tra i migliori libri d’arte del 2020
Nell’Atelier De’ Nerli in conversazione con Daniele Cavalli
Roberta Smith, Holland Cotter, Giasone Farago critici d’arte del «New York Times» incoronano Raffaello 1520–1483 tra i migliori libri d’arte del 2020. Il volume, a cura di Marzia Faietti e Matteo Lafranconi, edito da Skira, celebra la più grande retrospettiva di Raffaello ospitata alle Scuderie del Quirinale a Roma, una delle pochissime mostre che, nonostante lo stop primaverile, ha potuto aprire a giugno ed essere prorogata fino ad agosto, offrendo visite fino a tarda sera ma fortemente regolate nel tempo e nello spazio, registrando un sold out giornaliero e un record di presenze. Tuttavia l’accesso comunque limitato nei numeri assoluti ha creato una sorta di inedito “privilegio” per quanti hanno visitato la mostra, facendo del bellissimo catalogo un’imperdibile opportunità per tutti gli altri. Come indica il titolo, sia la mostra sia il catalogo procedono in ordine cronologico inverso. Dalla processione funebre dopo
la morte di Raffaello nel giorno del suo 37esimo compleanno, si riavvolge il nastro attraverso i suoi ritratti indelebili del papa mediceo Leone X e del cortigiano Baldassarre Castiglione, oltre ai suoi primi studi a Urbino: una saga a ritroso che ci regala un Raffaello inedito e sorprendente. «Quando mi hanno chiesto di scrivere di questa mostra – ci ha svelato Melania Mazzucco in un’intervista uscita sul numero di maggio di Venews –, prima di recarmi alle Scuderie del Quirinale, mi sono detta: “Se dovessi fare io una mostra su Raffaello partirei dalla sua morte”. Credo che tutta la storia della nostra ‘percezione’ di Raffaello nasca proprio da quella morte subito trasformata in un’apoteosi, omaggiato dai Papi e sepolto poi al Pantheon, capace di spostare definitivamente il nostro sguardo su di lui. È stata grande così la mia sorpresa quando mi sono resa conto che i curatori avevano ragionato nello stesso modo, scoprendo che il mio sentire era condiviso e reso manifesto nell’incipit della mostra, il che ha naturalmente aumentato la mia voglia di interrogarsi sulla memoria di Raffaello nel nostro immaginario. Raffaello, fin dal XVI secolo, è stato per certi aspetti mitizzato e cristallizzato come personaggio “favorito dagli dei”, “benedetto dalla grazia a dalla fortuna”, ma proprio questa grazia e questa fortuna sono diventate spesso fonte di quella che potremmo definire ammirazione sospettosa […] Questa scarsa empatia nei suoi confronti ci ha spesso impedito di capire appieno cosa Raffaello ha rappresentato per il mondo dell’arte e non solo, impedendoci di amarlo come Raffaello stesso era stato amato dai suoi contemporanei, durante la sua vita». Mariachiara Marzari
Stivali Chelsea neri, giacca biker in pelle, skinny jeans della medesima cromia. Guardando oltre al codice del costume, spiccano occhi affettuosi e sorriso sereno, «dedicato ai cattivi che poi così cattivi non sono mai» come canta Loredana Bertè, così si presenta Daniele Cavalli. Cultore della musica, “la mia prima passione”, che assieme al progetto del collettivo artistico Duskmann (ricordiamo la loro partecipazione a Manifesta Palermo del 2018) ha ideato e dato luce all’Atelier De’ Nerli, in Borgo San Frediano, cuore dell’Oltrarno fiorentino. «Ristorante Galleria di Arte e Artigianato» recita la presentazione dell’Atelier sul sito web (atelierdenerli.it). I manicaretti dello chef Gianluca Camilotto spaziano dall’alta tradizione toscana delle carni a primi e secondi di pesce, fino a raggiungere le più contemporanee interpretazioni del gusto vegetariano; particolare attenzione nella scelta dei vini è data ai processi di fermentazione e ricercatezza. Il locale sorge al piano terra di un palazzo che in tempi remoti ospitava una torrefazione, si estende intimamente sotto due ampie volte a vela affacciandosi sull’omonima Piazza De’ Nerli, luogo di sosta, agorà di scambio, condivisone. Le porte dell’Atelier sono spalancate a questi valori che diventano il fil rouge anche all’interno: incontri di gusto per il palato, tra persone, creazioni d’arte e di design artigianale. Questa la visione di Daniele: sorseggiando un caffè lungo in tazza grande con bordo oro, che vagamente ricorda la tecnica giapponese del kintsugi, si concentra sul significato, tutto fiorentino, di bottega d’artista come luogo di interconnessione, apprendimento, da valorizzare ancora oggi, su cui investire e coglierne la cifra unica del fatto a mano. Da buon
e raro mecenate contemporaneo, Cavalli ha commissionato a diciotto realtà artigiane locali la corale realizzazione degli interni dell’Atelier passando dallo Studio Galleria Romanelli all’Antico Setificio Fiorentino per i velluti dorati dei divani o al maestro profumiere Sileno Cheloni, creatore di un’avvolgente fragranza all’acqua ragia che permea l’Atelier e ne ricorda l’utilizzo fatto dai pittori per purificare le setole dei pennelli. “Partendo da una tela bianca” niente è lasciato al caso, ogni aspetto è meditato e studiato nel dettaglio trovando equilibrio in colori caldi, legnosi e specialmente nella nuance rosa antico, che si estende dal pavimento in cotto fino al soffitto ornato da due ricercatissimi ventilatori. Significativo che (quasi) tutte queste botteghe artigiane siano site sulla medesima via di Borgo San Frediano dove, come recita il detto, “il conte e il contadino van per mano”. Una koinè di antichi saperi di cui prendersi ancora cura, un microcosmo artistico di rilevanza mondiale capace di smuovere una brezza rinascimentale innovatrice e squisitamente italiana: «L’uomo che non ha fiducia nell’eredità del suo paese non serve a niente a questo mondo» tuonava deciso il grande paesaggista Whittredge nella sua autobiografia. Riappropriarsi con devozione e gratitudine di questo know how e comunicarlo eticamente, con cura e sincerità: ecco la vocazione di Daniele.
Ogni componente d’arredo, design o opera d’arte è in vendita, presto sarà anche lanciato un e- commerce, così da poter collezionare la sedia su cui ci si è accomodati durante un pranzo, il tavolo fatto a mano, le suppellettili più sofisticate. Il ‘gioco’ è ancora in fieri e l’intenzione è quella di creare una wunderkammer con le sue mirabilia sotto teca e opere che si ‘arrampicano’ sulle pareti modalità Salon parigini; intrigante quindi tornare periodicamente per poter apprezzare e studiare l’evolversi dell’Atelier. Atelier De’ Nerli è luogo d’incontro e conoscenza, squisitamente rumoroso, estemporaneo, vivo; sulle onde di una selezione musicale accuratissima, che a tratti interpreta anche il meteo giornaliero con I Can’t Stand The Rain di Ann Peebles, la gentilezza fa da padrona, ci si sente a proprio agio e si conversa magari con sconosciuti che ti invitano a un vernissage o consigliano nuovi spunti artistici o cinematografici. Sincera celebrazione dell’hic et nunc. Facile immaginarsi Courbet, Oscar Wilde o i Fitzgerald conversare amabilmente in questo salotto contemporaneo che ricorda un po’ certi ambenti di Montmartre o interni hollywoodiani anni Settanta ma ha tutto il carattere e le qualità per diventare un luogo icona della cultura fiorentina su scala internazionale. Federico Jonathan Cusin atelierdenerli.it
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Questione di stile Storia, costume e società: V&A celebra l’accessorio più chic, la borsa
Custodi dei beni più preziosi e intimi, simboli di potere e ribellione, contemporanei ‘vessilli’ da esibire, da collezionare, le borse non sono certo solo identificabili come mero accessorio quotidiano. Rappresentano qualcosa di più e quel qualcosa è stato messo in luce dall’italiana Lucia Savi, curatrice della mostra Bags: Inside Out (fino al 12 settembre 2021) al Victoria & Albert Museum di Londra. Si tratta della più dettagliata retrospettiva dedicata alle borse mai realizzata che va ad analizzare il loro uso, o forse meglio dire, ruolo, attraverso più di trecento esemplari specchio di varie epoche, dalla società cinquecentesca fino alle attuali tendenze del XXI secolo. Il percorso espositivo si snoda in tre ambenti: Function, Status and Identity e Design and Making. La prima sezione indaga il lato più funzionale delle borse, mettendo in relazione creazioni ricche di antico fascino. Curiosissime la sfiziosa chatelaine di metà Ottocento che, fissata alla vita, si dirama in tredici catenelle culminanti con utili appendici domestiche come forbici, lente d’ingrandimento, mini taccuino e la custodia per
maschera antigas della Regina Mary durante la Seconda Guerra Mondiale. Velatamente snob e vibratamente cosmopolita, il baule Vuitton di inizio Novecento della socialite Emilie Grigsby, suo alleato durante i numerosi viaggi transoceanici, come dimostrano le tante etichette navali che lo ricoprono. Magnificente nel suo minimalismo il despatch box di Winston Churchill, l’iconica valigetta rossa contenente i documenti di Stato che fa spola tra le mani del Primo Ministro e quelle della Corona. Immancabile poi la carica lussuosa e squisitamente glam del fenomeno della it-bag, sviluppatosi a partire da fine anni ‘90, che viene raccontato in Status and Identity: qui si annoverano le più celebri, agognate creazioni come la prima Birkin di Hermès o Lady Dior, omaggio alla principessa Diana. Interessante notare che il testimonial si modifica nel tempo come nel caso della nota Speedy di Vuitton: se prima, maculata da stampa monogram, era cullata nelle mani di Audrey Hepburn mentre passeggiava con Hubert de Givenchy per Parigi, più recen-
temente si è tinta letteralmente d’oro sotto la direzione creativa di Marc Jacobs, diventando uno status symbol nella cultura della celebrità dopo essere stata sfoggiata da Paris Hilton e Kim Kardashian. Bags: Inside Out si conclude con un omaggio a chi le borse le crea, al saper fare secolare di artigiani che si tramandano i segreti del mestiere per dare alla luce strumenti affidabili e realizzare i sogni dei clienti più mondani. L’heritage diffuso in Design and Making omaggia le avanguardistiche pochette in metallo griffate Paco Rabanne come le più ecologiche frontiere del sostenibile rappresentate dallo zaino di plastica riciclata di Stella McCartney. Le borse sono state anche materiale di propaganda per i diritti umani: esposte al V&A quella datata 1825, simbolo della lotta contro la schiavitù e la borsaslogan “My body my choice” dell’artista-attivista Michele Pred. Universi polisemantici e inesauribili nella loro multifunzionalità, le borse sono microcosmi personali sottobraccio indossati in una continua dinamica di esposizione e occultamento, alleate storiche e oggetti di culto in continuo divenire. Federico Jonathan Cusin
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Nuove normalità
L’Architettura in progress della Biennale di Hashim Sarkis
Collezione Italia
Sbirciare è di sicuro un’attitudine veneziana: che sia da dietro una Bauta in un quadro di Ca’ Rezzonico, tra le tende di eleganti palazzi settecenteschi o fra calli e sotoporteghi semibui, cercare di carpire con lo sguardo quel che sta per succedere è una raffinata pratica lagunare. Niente di più necessario in questo momento storico, del resto, in cui a una persistente incertezza sociale ed economica si unisce una presunta vaghezza (ma non vacuità) del mondo culturale. Ed ecco perché la Biennale Architettura ha deciso di scostare un po’ le tende e di permettere a tutti di infilare lo sguardo dentro all’ambiziosissimo progetto del curatore Hashim Sarkis: quello di dire al mondo, in questa specifica età dell’incertezza, “How will we live together?”, come potremo vivere insieme? Va detto che le sbirciate post-pandemiche sono fatte soprattutto di immagini, suoni, video e testi, e perlopiù sono digitali. Sicché il programma delle sbirciatine alla Biennale Architettura 2021 si trova in rete, sul sito ufficiale e sui social. Il nuovo progetto online Biennale Sneak Peek, avviato lo scorso 12 novembre, è una brulicante architettura in progress, è costituito di un composito archivio digitale che si può ascoltare, osservare, leggere e indagare. Per cui, alla cristallinità degli enigmatici comunicati stampa cui sono abituati i soli addetti ai lavori, nella Biennale dalla durata più lunga della storia Sarkis mette in campo una comunicazione aperta a tutti che ingenera curiosità, incrementa le domande, moltiplica gli interessi. Fin dall’intervista di Luca Molinari al curatore, che apre la serie, l’intento è chiaro: attraversare i temi e i protagonisti della Biennale in forme quanto più plurali possibile. Per questo non c’è tanto – o solo – la rap-
presentazione tradizionale dell’architettura, ma anche una colonna sonora ufficiale che raccoglie stimoli musicali (e che al momento in cui scriviamo comprende una miscellanea che va dai lo-fi Lullatone ai poliedrici Arcade Fire e fino ai sacrali Curawaka). Una delicatissima doppia selezione di immagini e video con testi o didascalie è curata da una parte dai partecipanti alla mostra di Sarkis, che rispondono con questa collezione visiva a cinque provocatorie domande, dall’altra dai padiglioni, che rivelano in modo più o meno trasparente i loro progetti installativi. Infine, i cinque podcast del curatore: una sbirciatina da ascoltare, per sintonizzarsi sulle cinque scale della convivenza che segnano anche le sezioni della Mostra stessa. Come si vivrà insieme “tra esseri viventi diversi”, “come nuove famiglie”, “come comunità emergenti”, “tra i confini”, “come un unico pianeta”? Sarkis lo racconta parlando di Venezia, della sua storia e dei modi in cui il vivere insieme si è fatto architettura – e dove tra l’altro il primo episodio, Tra MOSE e il Tiepolo, mette subito in chiaro temi e questioni della contemporaneità. Una Biennale che ancora una volta prova ad aprirsi a tutti, attraversando linguaggi e mezzi espressivi quanto più diversi e inclusivi (almeno nell’intenzione), fatti apposta per rimbalzare tra gli spazi digitali dei nostri social network. Parafrasando Gio Ponti, che ci invitava ad amarla, gli Sneak Peek della Biennale ci dicono piuttosto: «Sbirciate l’architettura […], scenario e soccorso della nostra vita». Dentro le nostre case, ormai commiste di vita e lavoro, e nelle nostre città, cautamente e reciprocamente distanti, ne abbiamo bisogno. Michele Cerruti But www.labiennale.org
Nata nella primavera del 2020 da un’idea di Lorenzo Fiaschi della Galleria Continua di San Giminiano e di Pepi Marchetti Franchi, direttrice della Gagosian Gallery di Roma, e sviluppata insieme ad altri nove galleristi – Alfonso Artiaco, Ludovica Barbieri (Massimo De Carlo), Massimo Di Carlo (Galleria dello Scudo), Francesca Kaufmann (kaufmann repetto), Massimo Minini, Franco Noero e Carlo Orsi – la piattaforma editoriale digitale ITALICS Art and Landscape riunisce 63 gallerie di tutta Italia, in grado di rappresentare al massimo livello l’arte di ogni tempo, da quella antica a quella emergente, un nuovo organismo che si propone di intervenire nel discorso artistico non solo come promotore della cultura sul territorio italiano, ma anche come autorevole interlocutore con le realtà istituzionali. Attraverso una rete basata sulla collaborazione tra i galleristi e la condivisione di esperienze, on e offline, con un pubblico internazionale di collezionisti e appassionati, il progetto ha lo scopo di promuovere la cultura e la bellezza diffusa nel territorio del nostro Paese e di valorizzare il patrimonio culturale italiano anche nei suoi aspetti meno noti. Sono i galleristi stessi a condividere in prima persona le proprie esperienze culturali a stretto contatto con gli artisti e a raccontare l’Italia esplorandone il patrimonio culturale. Gli operatori dell’arte giocano in prima persona tracciando itinerari e fornendo consigli su che fare, dove mangiare e cosa visitare nel proprio territorio. Saranno inoltre invitati a scrivere brevi articoli in cui raccontarsi, descrivere le proprie esperienze e condividere le proprie passioni. Non si tratta perciò di una vetrina commerciale, ma di un progetto culturale ed editoriale che propone una nuova modalità di incontro tra appassionati d’arte e che valorizza al contempo ricercate realtà del made in Italy, attività d’impresa e altri attori culturali che nel loro insieme restituiscono in modo inedito lo stile di vita e il gusto italiano ammirato nel mondo. Le gallerie consorziate sono rappresentative di tutto il territorio italiano, da Torino (Giorgio Persano, Norma Mangione Gallery, Tucci Russo) a Modica (Laveronica Arte Contemporanea), da Milano (Galleria d’Arte Maggiore – g.a.m., Salamon & C., Società di Belle Arti, Alessandro Cesati) a Roma (Ermes-Ermes, Archivio Monserrato, Antonacci Lapiccirella Fine Art), Napoli (Galleria Umberto Di Marino, Studio Trisorio, Lia Rumma, Fonti, Porcini), Bologna (Maurizio Nobile, P420) e Venezia (Caterina Tognon Arte Contemporanea, Victoria Miro Venice). M.S. italics.art
4 ARTISTI X 4 WORKSHOP SGUARDI INEDITI SUL CONTEMPORANEO 1�4 ottobre 2020
Castelli di vetro
27�29 novembre 2020
con Jan Vormann
Oltre il muro: arte e contesto
29�31 ottobre 2020
Gennaio 2021
con S.O.B. Stefano Ogliari Badessi
con Cecilia Jansson
Chi guarda cosa?
con Alice Pasquini Esplorare la distanza
#SUPERAMENTI In collaborazione con
Media partner
Dorsoduro 701, Venezia guggenheim-venice.it
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rock, jazz, world... rock, jazz, world...
:musica Si stava accalcati
Ai concerti
si stava stretti, si ballava e ci si sudava addosso. Parlo di quelli negli stadi e nei palazzetti, dove ci si accalcava per sintonizzarsi con il battito della musica insieme a migliaia di altri corpi. Ho visto Bohemian Rhapsody recentemente su un canale streaming. Racconta la vita di Freddie Mercury, dagli inizi artistici fino alla tragica morte avvenuta a soli 45 anni. Emozionano le scene in cui si vedono i Queen creare quei quasi sei minuti di puro godimento musicale che è Bohemian Rhapsody, la canzone che li ha catapultati nell’olim-
di Marisa Santin po (su Spotify il brano ha superato il miliardo e 350mila ascolti). Il film è un crescendo di attesa per il momento in cui la band salirà sul palco del Wembley Stadium di Londra per il Live Aid, il colossale concerto rock benefico organizzato da Bob Geldof nel luglio del 1985. Lo stadio è gremito e la folla è un mare infinito di 72mila persone. Avevo già visto l’esibizione dei Queen, quella vera, in qualche documentario e su YouTube; la rivedevo ora ricostruita per il cinema, e per tutto il tempo non ho fatto che pensare a tutta quella gente troppo, troppo accalcata. E senza mascherine…oltretutto! Freddie Mercury sarebbe morto di AIDS di lì a poco. Abbiamo un po’ dimenticato cosa è stato l’AIDS negli anni ’80-‘90 e cos’è ancora adesso, un virus maledetto e tutt’altro che
debellato. Anche quel virus ci aveva atterriti, eccome se lo aveva fatto! Ci aveva riempito di paure, ci aveva fatto puntare il dito, ci aveva indotti a ghettizzare gli “untori”, a giudicare i comportamenti. Aveva creato distanze. Ora negli stadi non ci si va proprio e di concerti non se ne fanno. L’anno del Covid è stato un continuo di annunci e di cancellazioni di esibizioni live e il danno economico per tutto il comparto dell’industria musicale è evidentemente senza precedenti. Gli artisti si sono fatti sentire, hanno acceso i riflettori sulle migliaia di persone che lavorano attorno all’organizzazione di eventi musicali e culturali in genere, gente che improvvisamente è rimasta a casa, senza entrate e senza tutele. Gente che a volte si è arrangiata anche da sola, come quando 1300 lavoratori dello spettacolo sono scesi in piazza del Duomo a Milano al ritmo dei propri bauli, incitando il governo come i Rockin’1000 incitavano i Foo Fighters nel 2015. Sono nate iniziative spontanee e nuove creatività che hanno sfruttato il digitale per non far calare il silenzio. Penso all’inaugurazione del nuovo Ponte di Genova, avvenuta il 3 agosto scorso alla presenza del Presidente Mattarella e di Renzo Piano. In quei giorni girava un video che mostrava in scorrimento alcune foto del capoluogo ligure accompagnate da una canzone meravigliosa, Crêuza de mä di Fabrizio De André, cantata da un gruppo di diciotto artisti fra cui Vasco Rossi, Mina, Zucchero, Vinicio Capossela, Paolo Fresu, Jack Savoretti,
PLAYLIST
Antonella Ruggiero. E le note di Faber hanno risuonato attraverso gli altoparlanti nelle strade di Genova per tutta la giornata, come un atto d’amore per la città e per uno dei suoi figli più cari. Oppure penso al commovente omaggio a Enzo Bosso realizzato dai musicisti della sua orchestra, che hanno affidato a una piattaforma di web conference il loro ultimo saluto: «Ci sei in ogni nota e saremo in ogni nota». Uscendo dall’Italia, c’è stato chi ha aperto le porte di casa mettendo online una jam session familiare (David Gilmour), oppure chi ha pensato di offrire al pubblico digitale lezioni di chitarra (Laura Marling, Steve Vai) o di basso (John Taylor dei Duran Duran). Oppure ancora chi, come Nick Cave, è riuscito a trasferire online un concerto irripetibile (ne parliamo diffusamente nelle pagine a seguire in questa rubrica). Non credo ci possa essere un vero surrogato ad un film visto al cinema o ad uno spettacolo teatrale, e tanto meno riesco a immaginare cosa possa sostituire il coinvolgimento assordante di un concerto dal vivo. Ma gli eventi piccoli o grandi a cui abbiamo assistito dagli schermi hanno mantenuto vivo il nostro filo emozionale con la musica. In questo numero di Venezia News, che chiude un anno e ne saluta un altro che tutti pretendiamo decisamente migliore, avremmo voluto annunciare i concerti del 2021. È ancora troppo presto, dobbiamo aspettare di poterci di nuovo accalcare in sicurezza. Ma attendiamo fiduciosi.
:musica :storie2020
TUNED
School of Radio
FESTIVAL 1
To be continued
FESTIVAL 2
D’ora in avanti PLAYLIST
OPEN STAGE
DIGITAL
Fuori dal Comune
Questione di etichetta
Invischiata in questo tempo sospeso, l’Università Ca’ Foscari ha saputo per l’ennesima volta cambiare pelle. Sì, proprio un centro universitario, che dello scambio e dell’interazione fisica è simbolo per eccellenza, ha saputo ancora una volta ribadire il legame simbiotico con la città, attraversandone le sofferenze sociali e non solo. Ingrediente irrinunciabile di questo rapporto e autentica voce dell’Ateneo è dal 2007 Radio Ca’ Foscari, che in questi mesi ha saputo attraverso i propri speaker e grazie ad un palinsesto ben equilibrato tra musica, informazione, cultura e intrattenimento non interrompere quel filo che lega la comunità universitaria al mondo esterno. Ultima in ordine di tempo la prima edizione interamente online della Notte Europea dei Ricercatori, ma non meno importante il racconto di tutte le iniziative portate avanti per ricordare l’anniversario della terribile aqua granda del 12 novembre 2019. In streaming h24 su www.unive. it, Radio Ca’ Foscari ha raccontato la vita quotidiana di un’Università che come poche altre riesce a proporre un palinsesto culturale di altissimo livello, oltre agli eventi che portano ogni giorno Venezia alla ribalta italiana e internazionale, garantendo tra l’altro a chi fosse interessato alla collaborazione un percorso di formazione autentica per diventare speaker radiofonici completi, autentici cittadini del mondo. D.C.
Una scommessa stravinta, che quest’anno si è dovuta piegare a una realtà semplicemente incapace di dare qualsiasi forma di sicurezza. La terza edizione del Venezia Jazz Festival in veste autunnale assemblava un programma di assoluto livello, fra nuove sonorità, maestri contemporanei e giovani talenti. Dal 3 ottobre al 14 novembre, jazz europeo e tante contaminazioni, dalla letteratura all’elettronica e all’etnica in diverse sedi a Venezia, con un concerto che ha visto coinvolto anche il nostro city magazine e che a suo modo ha fatto storia: l’8 ottobre dalla Sala della musica del Complesso dell’Ospedaletto il concerto di Walter Lucherini, fisarmonicista esperto di mantici, bandoneonista e compositore, e Amilcar Rafael Soto Rodriguez, chitarrista e cantante, ha incontrato il pubblico in modalità streaming, nell’ambito del progetto O/C Ospedaletto Contemporaneo. Un nuovo modo di fruizione dell’evento Festival – modalità che ormai investe ogni aspetto del nostro quotidiano – ma in questo caso soprattutto l’idea di offrire al pubblico un concerto unico nel suo genere, in cui la musica e i musicisti stessi si sono fusi con l’arte e l’architettura, emozionandosi ed emozionando. E per un percorso che si è bruscamente interrotto – Venezia Jazz Festival ha dovuto chiudere anticipatamente e far saltare più della metà della programmazione – se ne apriranno innumerevoli altri: l’energia è nel DNA di Veneto Jazz. D.C.
I festival musicali che possono consegnare agli annali un’edizione 2020 si contano sulle dita di due mani, in tutta Italia. Sexto ‘Nplugged ci ha abituato in questi anni a edizioni ad altissimo tasso di qualità e questo sciagurato 2020 non è riuscito a scalfire tale reputazione: ad agosto sono stati Low Roar, Teho Teardo ed Efterklang i protagonisti a Piazza Castello, in concerti gestiti in piena sicurezza grazie a un’organizzazione che nulla ha lasciato al caso. Il 7 agosto sono state le note acustiche e sognanti di Low Roar, il progetto musicale one-man band fondato in Islanda nel 2011 dall’artista californiano Ryan Karazija, a rompere il ghiaccio con il pubblico. Il giorno successivo il pordenonese Teho Teardo, uno dei più originali ed eclettici artisti nel panorama musicale europeo, ha presentato Le Retour à la raison. Musique pour trois film de Man Ray, musiche originali appositamente composte per i film di Man Ray Le retour à la raison, L’étoile de mer e Emak Bakia. A chiudere in bellezza la rassegna sono stati gli Efterklang, band di Copenhagen che ha riservato al Sexto la propria esclusiva nazionale. Dopo Piramida, progetto imponente che comprese un film, un album live e una serie di spettacoli, hanno presentato Altid Sammen, album che ha rappresentato un’autentica svolta creativa.D.C.
Operaestate ha attraversato questo 2020 senza snaturare la propria vocazione di grande contenitore culturale, con un fittissimo calendario di eventi a spasso tra danza, musica, teatro e cinema in tutto il territorio che ha come fulcro Bassano del Grappa. Oltre 200 spettacoli ed eventi di danza, teatro e musica, tra i quali prime assolute, creazioni originali e nuove produzioni: una kermesse culturale di grande rilievo nazionale e internazionale che quest’anno ha voluto riconsiderare il concetto di “benessere”, sotto diversi punti di vista, rispettando comunque tutte le misure anti-Covid. Per una manifestazione che è stata spesso e volentieri “a cielo aperto” alcuni aspetti organizzativi possono essere stati paradossalmente meno macchinosi, ma ancora una volta Operaestate ha dimostrato una cosa: l’efficienza non si improvvisa. E allora ecco la musica di Cristina Donà o Paolo Fresu affiancarsi al teatro di Paolini o al cinema di Joaquin Phoenix e Luca Marinelli, al virtuosissimo classico di Uto Ughi o ai più grandi nomi della coreografia internazionale in un’entusiasmante risposta di pubblico, vero e proprio motore della manifestazione che da luglio a settembre ci ricorda ormai da quarant’anni il senso autentico della parola “comunità”.
Jazz Italian Platform (JIP) è un’associazione fondata da otto organizzazioni musicali di grande tradizione diffuse sul territorio nazionale che hanno avvertito l’esigenza di incontrarsi per combattere il vuoto macroscopico dell’associazionismo jazzistico nazionale: quello che riguarda le idee. Nel tempo hanno aderito altri soggetti e oggi JIP riunisce 19 compagini distribuite sul territorio nazionale che rappresentano una fetta predominante del movimento nazionale per numero di concerti, biglietti e investimenti. L’obiettivo comune è quello di essere un interlocutore per festival, musicisti, agenzie, case discografiche e istituzioni per la produzione di nuove opere, per la creazione, realizzazione e diffusione di progetti ad ampio respiro destinati a sostenere la memoria presente e futura, in generale piuttosto trascurata e messa duramente in difficoltà dalla crisi trasversale di questo pandemico 2020. Ma il compito di JIP è anche quello di stimolare un sistema che premi la professionalità e le capacità. JIP è iscritta in italia a Federvivo, la federazione dello spettacolo dal vivo, e a Federculture, l’associazione che rappresenta le più importanti aziende culturali del Paese, e fa parte di EJN, Europe Jazz Network, associazione nata in Italia su iniziativa di Filippo Bianchi, che riunisce centinaia di organizzazioni jazzistiche attive nel Continente.
www.unive.it
venetojazz.com
sextonplugged.it
operaestate.it
www.jazzitalianplatform.it
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CONCERTI
Parole in note laceranti
TRACCE
A passo d’uomo
ALBUM
MANIFESTO
Eco-friendly
Almost Alright PLAYLIST
PLAYLIST
Abbiamo bisogno di parole. Perché la parola è un segnale di irriducibile presenza. Se l’immagine si produce in assenza o in sostituzione, sacra, simulacrale, la parola è sostanza viva, vettore semantico, logos. Sono parole quelle che Nick Cave lascia scivolare sui tasti del suo pianoforte, nel suo live solitario Idiot Prayer, registrato all’Alexandra Palace di Londra lo scorso 19 giugno, in piena emergenza pandemica, e trasmesso in Italia da Radio 3 lo scorso 8 novembre nel programma notturno di linguaggi musicali contemporanei Battiti (una volta sola e live, no podcast). Parole che suonano come una strenua lotta per la presenza, nell’epoca in cui tutto svanisce nella vacuità di un’assenza collettiva. Ed ecco generarsi uno di quei momenti di pura poesia in cui la rima del fato ci sorprende. Perché Nick Cave, come ogni profeta della parola, aveva già volto in poesia il dramma dell’assenza con Skeleton Tree e Ghosteen, poemi dedicati alla scomparsa del figlio adolescente in cui la musica, sempre più scarnificata, rarefatta, definiva appunto i contorni evanescenti e progressivi di una disintegrazione, nella negazione continua della melodia, della certezza di una cadenza, e la parola, in bilico su un tappeto sonoro ossessivo e straniante, assumeva su di sé gli estremi di una lotta lacerante. Lottare per esserci. Quando tutto il resto, semplicemente, non è. Riccardo Triolo
Bob Dylan in piena pandemia come a tutti è noto se ne è uscito con un fluviale nuovo pezzo, diciamo pure un poema, Murder Most Foul, sorta di viaggio omerico nel cuore della grammatica civile e culturale degli Stati Uniti, concentrandosi e partendo dalla vera perdita dell’innocenza di quel continente-paese, l’assassinio di J. F. Kennedy. Chi frequenta da più o meno sempre Robert Zimmerman non ha potuto non sentirsi colto per l’ennesima volta in contropiede dagli scarti del Nostro, narrativi, concettuali, politici. Uno che da 40 anni in qua ha sbattuto le porte in faccia a chi stucchevolmente continuava a volerlo costringere nell’improbabile ruolo di alfiere dei diritti civili, che da decenni si guardava bene dal fornire indizio alcuno sulla sua disposizione verso il prosaico presente del nostro vivere sociale e politico, se ne esce improvvisamente fuori con questa scarnificata, definitiva litania, accompagnata da una viola e da un pianoforte, con una ritmica solo accarezzata, in un sound emozionalmente abrasivo e al contempo lieve, che attraversa in una trama al solito tessuta da un raffinato, densissimo citazionismo, le lacerazioni mal ricucite nel corpo di un Paese con dei peccati originali mai davvero elaborati. Facendolo, ci trascina su un terreno che ognuno di noi teoricamente può solcare a suo modo, accompagnato pur anche dalle proprie rassicuranti certezze, e che però nessuno di noi penso possa attraversare senza un brivido di inquietudine, di desolazione, ma anche di emozione vivida derivante dal corpo di creazioni che questo spesso troppo facilmente vituperato Occidente ha saputo costruire. Sembra come un invito a camminare lievi dentro un’oscurità quasi inconsolabile. Dal primo, emozionante ascolto di Murder Most Foul ho sentito una tensione, una vibrazione vitale, quella di aggrapparsi alla poesia, al sax di Bird che vola libero, al nerissimo blues di un John Lee Hooker, alla roca voce radiofonica di Wolfman Jack in quegli irripetibili Sixties, tutte espressioni che irriducibilmente pretendono libertà, spazi aperti, contaminati. Meticci. Ricordando Kennedy, forse ci ha pure detto da dove veniamo. E dove, forse, stiamo ritornando. Massimo Bran
L’immagine utilizzata dai Pearl Jam per il loro 11. album in studio, uscito il 27 marzo 2020 in piena pandemia mondiale, è una foto scattata dal fotografo naturalista Paul Nicklen che ritrae lo scioglimento di un ghiacciaio. Gigaton, il titolo dell’album, fa riferimento all’unità metrica di massa (1 gigaton=1 miliardo di tonnellate) utilizzata per misurare l’inarrestabile scioglimento delle calotte polari in tutto il mondo. In gigaton si misurano anche le emissioni di CO2 nell’atmosfera e l’energia sviluppata dalle esplosioni nucleari. Il nome della band rielaborato graficamente, che campeggia in rosso sangue sopra il ghiacciaio, richiama alla mente un elettrocardiogramma oppure il tracciato di un sismografo durante un terremoto molto violento. Nel video di uno dei brani, Retrograde, in cui un uomo guarda scorrere in una sfera di cristallo il futuro della Terra devastata dalle inondazioni, il messaggio è rafforzato dalla presenza di Greta Thunberg, l’adolescente attivista diventata in anni recenti il pungolo di una coscienza ecologista che tarda a trasformarsi in azione. Fragilità del Pianeta, forze della natura, azione dell’uomo. Il messaggio lanciato dalla band di Seattle è chiaro, il Pianeta sta soffrendo e noi stiamo facendo troppo poco per proteggerlo: «It’s gonna take much more than ordinary love to lift this up». Marisa Santin
Primo musicista non classico e non jazz a ricevere il premio Pulitzer per la musica (nel 2018 per l’album DAMN), Kendrick Lamar è ora riconosciuto a livello mondiale come uno dei più importanti rappresentanti della musica rap e hip hop. Nato nel 1987 a Compton, uno dei quartieri più difficili di Los Angeles, Lamar è soprattutto un grande narratore urbano che è riuscito a imporsi sulla scena rap seguendo le orme artistiche di nomi come Tupac e Dr. Dre. Uno dei suoi brani più rappresentativi, Alright, tratto dall’album To Pimp a Butterfly del 2005, è diventato un iconico manifesto del movimento Black Lives Matter, inno spontaneo intonato durante le proteste razziali innescate dall’omicidio di George Floyd del 25 maggio 2020. Il testo parla della lotta dei neri contro le ingiustizie cui sono sottoposti, ma le parole di Lamar non concedono spazio al vittimismo, trasmettendo piuttosto un messaggio di speranza: «Wanna kill us dead in the street for sho’. Nigga, I’m at the preacher’s door. My knees gettin’ weak, and my gun might blow. But we gon’ be alright». Alright: tutto bene. No, non va ancora bene, ma andrà meglio, soprattutto ora che Joe Biden, exvice del primo presidente di colore degli Stati Uniti, si appresta a occupare la Casa Bianca insieme a Kamala Harris, donna, afroamericana, “intelligente e tosta”, come l’ha definita lo stesso Biden. Una boccata di ossigeno. Marisa Santin
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Un lampo pulsante
Ricordando Marcello Mormile, ragazzo elettr(on)ico, capace di disegnare il volto contemporaneo di Veneto Jazz La prima e unica parola è: vuoto. Silenziosamente assordante: impronunciabile. La nudità gelida di certe notizie che non prevedono piani B, nella loro istantaneità temporale, che non contemplano verifiche, smentite, non possono che lasciarci immobili in un infinito spazio bianco. La morte improvvisa, prematurissima, di Marcello Mormile, solo 33 anni e “suonati” per davvero, letteralmente, lo scorso 17 ottobre ci ha colti così, sì, senza fiato. Sarebbe stato uguale per chiunque a quell’età ci avesse lasciato, ci mancherebbe, ma certi vuoti fanno ancora più fracasso, in particolare quando chi ci saluta è pervaso fino al secondo prima da un’incontenibile, straripante vitalità. Marcello lo conoscevo non benissimo, ma ci avevo avuto a che fare più e più volte, poiché suo padre, Giuseppe per tutti Momo, è per me personalmente più di un amico e per Venezia News è una presenza costante con la sua Veneto Jazz, ben più di un partner, e di Veneto Jazz Marcello era divenuto la vera, pulsante linfa contemporanea. Tutte le volte che ci siamo incrociati prima che la figura, imponente, da vero rugbista ex pilone di mischia, arrivava la voce, il suono. Eh sì, quel suono che ha avvolto tutta la sua vita, sin dai primi vagiti, nascendo in una casa, in una famiglia che dire musicali è dire niente. Era un suono funk quasi, dal ritmo impetuoso, di bassi potenti, fondi, e di vocalità ad alti decibel, per cui già ti sentivi live con lui intorno. Uno dei primi ricordi che mi legano a lui fu l’inaugurazione del nostro open space qui a Cannaregio, con un party serale in corte in cui la sua elettronica pulsante aveva fatto muovere anche gli stecchi dritti, compresa la vicina di casa folkissima, che riservò a lui la prima piazzata di una serie infinita che dura a tutt’oggi. Insomma, ha tenuto a battesimo la nostra sede qui a San Giobbe anche, già, e pure con questo indigeno primato! Essere figli di padri potenzialmente ingombranti, da un punto di vista professionale intendo, che poi in un linguaggio come quello della musica coincide con passione viva, non è mai facile. «Ah, sei il figlio di…», «Ah, tuo padre sì che ha segnato un’epoca…», e via così. Quasi sempre in questi complicati percorsi i figli o sono vinti dalla frustrazione, o si dirigono totalmente altrove, o decidono consapevolmente di occupare l’ombra, il backstage, ben sapendo che niente e nulla potrà permettere loro di essere riconoscibili se non nella dimensione meramente figliare. Raramente succede che, rimanendo a fianco dei padri senza alcuna frattura, ma anzi, ci si ricavi uno spazio proprio, percepibile da sé e dagli altri per quanto si va “semplicemente” ad esprimere. Rarissimamente succede che, senza alcuna frattura, crescendo progressivamente con le radici ben piantate nei solchi tracciati dai padri, si riesca non solo a definire uno spazio proprio, ma addirittura a far sì che in questo spazio germoglino frutti prepotentemente nuovi, al punto da ridefinire la grammatica stessa di quelle radici da cui si è venuti. Ecco, nel suo percorso non sempre lineare, certo anche difficile, non privo di contraddizioni e di dolori, tra tutte queste eventualità Marcello ha abbracciato proprio quest’ultima, la più difficile e la più intrigante. Ha sfidato con semplicità e passione il futuro senza recidere il filo che lo legava al passato, ai padri, al padre. Nu Fest, Nørdic Frames, Moog Workshop…: in pochi, brucianti anni Marcello ha fatto di Veneto Jazz il luogo non tanto della ormai “ordinaria” contaminazione, tratto oggi pressoché canonico per ogni storico festival jazz che si rispetti in giro per il mondo, quella che da anni caratterizza in questi ambiti il dialogo della musica per eccellenza del ventesimo secolo con la world music, l’art-rock e
quant’altro, quanto dei suoni contemporanei delle nuove generazioni, dell’elettronica più fertile e crossover, aprendo una casa dei suoni del Novecento ai linguaggi urbani del futuro. Un’operazione niente affatto semplice quando si decide di agire sotto una sigla iconica come Veneto Jazz: un conto è inventarsi una via completamente autonoma, altro è scommettere sulla reinvenzione e rivitalizzazione di un corpo musicale certo comunque vivissimo e vocato al dialogo, ma pur sempre piantato nell’età aurea del secolo che fu. Con Rebecca, la sorella poco più giovane di lui, ciascuno con la rispettiva disposizione ed identità, hanno davvero disegnato un nuovo percorso nella vita di questo brand, mi si passi l’infelice termine “milanese”, sonico, spalancando le sue porte a linguaggi che provengono da altri mondi, da altro pulsare. Il merito va sicuramente anche a chi permette che queste porte rimangano aperte, con curiosità e fiducia verso figli, o comunque allievi, che vivono il loro tempo assecondando i propri ritmi, scoprendo e vivendo corporeamente e cerebralmente i linguaggi di oggi, certo, con una buona educazione live alle spalle. Diamo quindi ai padri ciò che è anche dei padri, via. Però, ripeto, il dato che rimane da questa inaccettabile dipartita è questo semplice, apparentemente, progredire verso il nuovo, verso un divenire, dando del tu al contemporaneo che va formandosi. Diciamoci le cose come stanno: non vi è e non vi potrà mai essere consolazione alcuna per un’interruzione così innaturale di un vissuto che era appena entrato nella sua primissima maturità. Dire cose contrarie per consolare sarebbe indigeribile retorica. Il vuoto rimane e rimarrà per sempre per chi in particolare gli era più vicino. Per questo credo che l’unica cosa intelligente, emozionante da fare sia non interrompere questa musica, questo suonare il tempo in divenire, questo vivere il presente con l’orecchio tesissimo sulla strada di sotto, sulle urbanità del mondo, sugli incroci infiniti che i suoni sempre presentano e presenteranno. Era questa la disposizione di questo possente ragazzo (per gli amici cari Biggie) che ci ha lasciato in un lancinante lampo. È quindi in questa direzione che vogliamo ricordarlo, sfuggendo stucchevoli saluti nostalgico-retorici fine a sé stessi, che mal lo saluterebbero per davvero, accogliendo invece qui di seguito contributi vivi di persone di diverse generazioni che con lui hanno lavorato, vissuto, collaborato, in musica e per la musica. Live for you! Massimo Bran
Biggie’s Affair L’11, 12 e 13 dicembre Dj di musica elettronica si alternano alla consolle digitale in streaming, modo migliore per omaggiare Marcello ed onorare il suo ricordo. Marcello, Biggie per i suoi numerosissimi amici, attraverso la musica continua in questo modo a riunire tutte le persone che hanno avuto la fortuna di conoscerlo e condividerne l’inesauribile carica creativa.
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uando sono entrata, tre anni fa, a far parte della squadra di Veneto Jazz ho sempre avuto due punti di riferimento principali per cercare di imparare il più possibile questo splendido, quanto complicato mestiere. Il primo naturalmente era mio padre, il direttore artistico, il secondo, anche se meno palesemente, era sicuramente Marcello. È grazie anche alla sua creatività e sensibilità, che negli anni lo hanno portato a dar vita a progetti di raro spessore artistico e indubbia onestà verso il pubblico, che ho capito sempre meglio come muovermi senza scendere troppo a compromessi. Era inevitabile, quindi, che prima o poi nascesse una collaborazione, quella fra l’ormai storico festival di musica elettronica da lui creato, il Nu Fest, e il mio primo esperimento concreto, AAVV, neonata rassegna di musica indipendente. La NOSTRA rassegna si chiama SOUNDYARD, creata per unire alcune fra le nostre passioni, performance multimediali e digitali, teatro nonsense, cine-concert, sonorizzazioni sperimentali, cercando di dare con questo progetto il nostro piccolo contributo all’aspetto della musica che più si lega all’opera d’arte. Purtroppo l’edizione è per ora ferma alla Zero, ma è solo una pausa! Questo progetto evolverà, grazie anche all’eredità che Marcello ci lascia, fatta di idee, artisti e amici affezionati, viaggi. E sarà sempre il NOSTRO. Rebecca Mormile Programmazione Veneto Jazz
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o conosciuto Marcello più di dieci anni orsono. Con lui e con Veneto Jazz abbiamo organizzato quattro epocali edizioni del Moog Workshop a Bassano del Grappa, presso il Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia e, in due anni non contigui, sull’isola di San Servolo, sempre a Venezia. Era una persona straordinaria, in grado di risolvere con positività ed efficacia qualsiasi problema organizzativo potesse verificarsi, fosse un capriccio di Keith Jarrett o una sciocchezza del primo Enrico Cosimi in fondo a destra. Se a Bassano c’erano 40 gradi all’ombra e serviva un modo per tenere sotto controllo la temperatura dei sintetizzatori analogici, Marcello tirava fuori dal cilindro il ventilatore Vornado da tenere puntato contro le elettroniche ribollenti; se Adam Holzman aveva bisogno di un lead synth per il concerto della sera, potevi stare sicuro che l’apparecchio sarebbe arrivato puntuale per l’inizio del sound check. Con Marcello ci siamo divertiti come matti navigando lungo il Canal Grande su barconi carichi di sintetizzatori (abbiamo ripescato con successo una piantana scivolata in acqua di fronte alla Peggy Guggenheim Collection, siamo andati alla scoperta dei bacari agostani meno affollati nelle pause pasto tra una lezione e l’altra, abbiamo – letteralmente – tremato di paura durante le tempeste di agosto (quando il pilota del motoscafo, pallido come un morto, con la barca carica all’inverosimile sotto una pioggia torrenziale diceva: «Forse converrebbe attraccare da qualche parte...»), abbiamo messo a ferro e fuoco San Servolo – The Island Of Electronicus 2019 – portando oscillatori rombanti, filtri risonanti e hard sync in ogni angolo dell’isola. In ogni occasione, il suo buonumore, la sua positività, la sua energia hanno reso una vacanza tra amici quello che – a tutti gli effetti – era un lavoro di non poco impegno. A Marcello Mormile va tutta la mia riconoscenza, a Rebecca Cantini Mormile e ai genitori il mio abbraccio più sincero. Da oggi, fare musica elettronica (e non solo) in Italia è più difficile. Enrico Cosimi Professore di musica elettronica Università di Roma-Tor Vergata
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o sempre percepito da Veneto Jazz un senso di grande apertura mentale e un desiderio di uscire dagli schemi prefissati, da quando 20 anni fa Momo mi propose di suonare nella Piazza degli Scacchi di Marostica: in quel periodo giravo con Hosoo, cantante armonico della Mongolia, e il mio gruppo di amici jazzisti con cui sono cresciuto musicalmente. Suonavamo una musica di matrice minimalista ed elettronica, in realtà assai jazzistica ma che non era molto capita dai più. Credo che proprio questo messaggio di curiosità intellettuale sia stato trasmesso da Momo ai suoi figli, Rebecca e Marcello. Negli ultimi anni ho visto passare nel cartellone di Veneto Jazz nomi di artisti straordinari e davvero inconsueti per un cartellone di jazz, da Stian Westerhus a Anne-James Chaton, da Frank Bretschneider a Grischa Lichtenberger, da Atom TM a Bugge Wesseltoft. Addirittura un seminario sugli strumenti Moog condotto dall’eccelso Enrico Cosimi. Tutto questo veniva prodotto dalla mente libera di Marcello, ben consapevole che il jazz non fosse più solamente legato alla conoscenza dei soli di Charlie Parker, ma che fosse una musica che simboleggiasse la libertà di dialogo tra culture apparentemente opposte, proprio come il jazz delle origini, come il free e come il jazz che germogliava nei terreni in cui veniva innestato e che sviluppava nuovi linguaggi, anche solo modulando le frequenze di un oscillatore. Hai lasciato una traccia importante, Marcello. Ma sei andato via troppo presto. Giorgio Li Calzi Trombettista, produttore, promotore culturale-CHAMOISic, Torino Jazz Festival
Stati generali della musica Da mesi il settore dello spettacolo è in ginocchio. Le conseguenze su tutta la filiera produttiva, di cui fanno parte i lavoratori autonomi o con contratto a intermittenza, senza le giuste tutele, e piccole imprese con margini davvero irrisori, sono disastrose: c’è la concreta possibilità che l’intero comparto non regga l’impatto con una seconda ondata a lungo temuta e purtroppo puntualmente arrivata. Il rischio che il sistema collassi è più che reale: sono tantissimi i live club, i teatri, set e produzioni indipendenti e gli spazi dedicati allo spettacolo che da maggio a oggi hanno dovuto necessariamente chiudere, non si sa ancora se per poco o per sempre. Luoghi che componevano il tessuto connettivo della scena culturale permettendo agli artisti di crescere, investendo spesso in progetti emergenti, generando opportunità di emersione dal basso, di formazione e avviamento professionale. Scena Unita è il primo fondo in cui il mondo degli artisti si è unito a quello degli enti privati, per un’iniziativa che non vuole solo assistere le famiglie dei lavoratori in difficoltà, ma anche investire su progetti per far ripartire le attività e che vede in campo La musica che gira e Music Innovation Hub, due realtà attive da tempo per affrontare i problemi del settore, in crisi già prima della pandemia. La gestione del fondo e lo sviluppo dei progetti sono affidati a Cesvi, l’organizzazione umanitaria laica e indipendente fondata a Bergamo nel 1985. Il fondo ha raccolto più di settanta adesioni e due milioni di euro in due settimane, unendo tutti i più grandi nomi della scena musicale italiana, da Vasco Rossi a Gianna Nannini, passando per Fedez e Brunori Sas, Claudio Baglioni, Elisa e Francesco De Gregori e moltissimi altri ancora. La mobilitazione del mondo della musica si è fatta quindi concreta, con gli artisti in prima linea, Fedez in testa, che rifugge dal ruolo di portavoce ma di fatto capitano della squadra che destinerà questi primi soldi raccolti alla piattaforma ForFunding. it a sostegno delle maestranze. «Per la prima volta – spiega Manuel Agnelli, tra i sostenitori – esiste un intento unico per aiutare 100 mila lavoratori in difficoltà, ma non solo loro: dobbiamo pensare ad alberghi, bar, ristoranti, un’economia indotta che i concerti contribuiscono a generare. Quest’unità ci rende rappresentativi anche nei confronti delle istituzioni. Erano già in programma gli Stati generali della musica, che prima o poi si faranno, per una riforma burocratica e legislativa del settore. Ma ora la priorità sono i lavoratori che sono stati lasciati a casa».
CONCERTO ONLINE GIOVEDÌ 17 DICEMBRE ORE 21
A QUATTRO MANI Roberto Prosseda e Alessandra Ammara pianoforte a quattro mani musiche di Chaminade, Bonis, Jaëll Partecipazione gratuita su
BRU-ZANE.COM
CLASSICAL RADIO
CONNETTITI A BRU ZANE REPLAY Per rivivere le emozioni del Festival Camille Saint-Saëns, l’uomo-orchestra online. Cinque concerti con Cyrille Dubois, David Kadouch, Maria Milstein, Nathalia Milstein, Xavier Phillips, il Quatuor Arod, il Quatuor Tchalik, Tristan Raës e Cédric Tiberghien.
MEDIABASE
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opera, classica, contemporanea opera, classical and contemporary music
:classical Massimo volume
Parola d’ordine
: flessibilità. A causa delle restrizioni di tipo sanitario e di capienza, i teatri hanno dovuto cambiare forma in tempi molto ridotti. Anche teatri le cui abitudini di vita erano ormai le stesse da oltre un secolo hanno vissuto una profonda riorganizzazione degli spazi e un fantasioso rimescolamento dei luoghi. Nel giro di qualche mese è sparito dai vocabolari dei teatri il concetto di “buca d’orchestra”. E l’idea stessa di platea è stata sottoposta a modifche notevoli, proprio
di Katia Amoroso per la necessità di trovare uno spazio vitale di cui mai prima ci si era preoccupati. Così, lo scorso luglio in occasione della riapertura italiana dei teatri, il Teatro La Fenice ha creato un esperimento innovativo: si è trasformata in un’arca. Il teatro veneziano è stato il primo a portare in scena un’opera al chiuso dopo il lockdown: Ottone in villa di Antonio Vivaldi. Gli spettatori erano circa 320. Platea, fossa orchestrale e palcoscenico sono stati rimodulati unendo le tre aree in una sola visione. I musicisti, posizionati nella tradizionale platea, e il pubblico, seduto su quello che era il palcoscenico, erano uniti da un piano inclinato a copertura della buca d’orchestra. Il progetto “Chiglia” ridisegna completamente l’ambiente classico. A fine novembre, purtroppo di nuovo
senza pubblico, la Nona Sinfonia di Beethoven è stata diretta dal Maestro Myung-Whun Chung con i membri dell’orchestra ben distanziati sul palcoscenico (l’ex platea) e il coro disposto nei palchi. Nel palco d’onore i quattro solisti. Il concerto è stato trasmesso in diretta streaming sul sito e sul canale YouTube della Fenice: gli spettatori hanno seguito in diretta (o più tardi in differita) dietro ad uno schermo ma in un certo qual modo hanno avuto l’opportunità di entrare nel vivo dell’esecuzione grazie a riprese incredibili. Struggente il silenzio finale allo scoccare delle ultime note, senza applausi. In realtà, così com’è allestita ora, la Fenice riflette la struttura di una moderna sala da concerto, non diversamente da quanto avviene per esempio alla sala Philharmonie di Berlino: qui il pubblico occupa anche gli spazi alle spalle dell’orchestra. E quest’ultima risulta quasi centrale. Qualcosa del genere è avvenuto all’Arena di Verona quest’estate: l’orchestra è stata posta al centro dell’anfiteatro e gli spettatori sulle gradinate, in numero ovviamente molto ridotto. Oltreoceano, gli Stati Uniti hanno deciso perlopiù di cancellare la maggior parte delle produzioni. Il Metropolitan per esempio ha cancellato tutti gli spettacoli fino a settembre 2021, in attesa del vaccino. A San Diego è stato attivato il “drive in” per godere dell’opera lirica, mentre la Boston Lyric Opera ha ideato una sorta di palcoscenico mobile che girava la città. Tuttavia, questi progetti difficilmente riescono ad essere
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economicamente sostenibili in quanto si rivolgono ad un pubblico di 250 o 500 persone al massimo. Nota comune a tutti i Paesi e teatri la volontà di non interrompere la relazione con lo spettatore mettendo a disposizione un’offerta vastissima di contenuti digitali. La Digital Concert Hall dei Berliner Philharmoniker è passata da circa 10.000 registrazioni a 700.000. In Francia è nato il primo festival interamente digitale: l’Amour de loin con la trasmissione di opere in diretta o registrate recentemente; protagonista l’associazione Les Forces Musicales, una sorta di sindacato che riunisce 46 opere e orchestre dell’intero Paese. C’è una grande discussione sulla negoziazione dei diritti degli artisti legata alla messa online dei concerti e degli spettacoli. Durante il primo periodo molte delle registrazioni erano gratuite, ora si richiede sempre più spesso una forma di sottoscrizione e abbonamento. Nuove modalità di ascolto, nuovi spazi, nuovi pubblici. Una sfida importante quella di fronte cui si trovano i teatri oggi. Bravi dunque a tutti quei sipari che fisicamente o virtualmente continuano ad essere alzati. A proposito di “bravo”, in Giappone (dove l’attività dello spettacolo ha ripreso quasi al 100%) il pubblico è cortesemente invitato a non fare esclamazioni alla fine dei concerti. Come si esprime il consenso? Lanciando in aria delle cartoline, le “Bravo cards”. L’effetto non sarà lo stesso della voce di un coro entusiasta, ma la visione andrà a riempire gli occhi e i cuori degli artisti.
:classical :storie2020
DIGITAL
SCENARI
CONCERTI
Come tutto il panorama musicale di genere, Palazzetto Bru Zane ha visto il proprio legame con il pubblico azzerarsi bruscamente, a partire da quel marzo che di fatto ha cambiato le nostre vite per sempre. In un contesto di questo tipo si è rivelata di fondamentale importanza un’idea cruciale della storia del polo musicale veneziano, cioè la nascita nel 2016 di Bru Zane Classical Radio, webradio accessibile in tutto il mondo per diffondere la conoscenza del patrimonio musicale romantico francese, autentica mission che il Palazzetto si è prefissato fin dalla propria istituzione. 24 ore su 24 di programmazione esclusivamente musicale che riflette la ricchezza e la varietà del repertorio romantico francese in un periodo che va dal 1780 alla fine della Prima guerra mondiale. È possibile entrare in contatto con tutti i generi, dalla musica da camera all’opera lirica e all’operetta, dal repertorio sinfonico e religioso alle melodie e alle romanze più intimiste. Pur diffondendo capolavori di maestri famosi, Bru Zane Classical Radio riserva uno spazio importante alla riscoperta di compositori meno noti, altro aspetto che Palazzetto Bru Zane ha sempre avuto particolarmente a cuore, dedicando a percorsi meno battuti della storia musicale romantica francese intere rassegne capaci di convogliare un fortissimo interesse di pubblico. La programmazione comprende una selezione di titoli, mandati in onda per lo più integralmente. Per i melomani che desiderano approfondire la loro conoscenza della musica romantica francese, il player della radio consente di accedere direttamente al Bru Zane Mediabase – il sito del Palazzetto Bru Zane – per consultare informazioni sui compositori e sulle opere messe in onda: questo archivio digitale mette a disposizione degli ascoltatori numerose informazioni sul patrimonio musicale francese del XIX secolo. Viene dato spazio a schede introduttive su personaggi, opere o temi, scritte da musicologi o da storici che collaborano con l’équipe del Palazzetto Bru Zane. È possibile anche leggere e scaricare diversi articoli scientifici sulla musica e sulla vita artistica dell’epoca romantica, in parte derivati da convegni organizzati dal Centre de musique romantique française. Documenti iconografici o letterari, provenienti per lo più da fondi d’archivio catalogati e digitalizzati, permetteranno di compiere un viaggio virtuale nel secolo di Berlioz e di Victor Hugo, con link proposti di pagina in pagina capaci di far riscoprire un mondo musicale in piena rinascita.
Dopo il successo della stagione 2019, il ciclo di concerti Archipelago è tornato ad inizio anno con una nuova stagione di musica da camera, sotto la direzione artistica del M° Simone Gramaglia (Quartetto di Cremona) in accordo con Gioventù Musicale d’Italia, Accademia Walter Stauffer e Fondazione Giorgio Cini. Il palinsesto di sei appuntamenti, uno al mese, da febbraio a luglio, il sabato pomeriggio, durante i quali sei solisti e sei quartetti d’archi selezionati tra i talenti emergenti del panorama della musica classica internazionale si sarebbero dovuti esibire insieme sul palcoscenico dell’Auditorium Lo Squero sull’Isola di San Giorgio Maggiore a Venezia è stato ovviamente stravolto e in certe occasioni rimandato a data da destinarsi. Ma nemmeno questo sciagurato 2020 può minimamente mettere in dubbio la bontà di un progetto come quello intrapreso dalla Fondazione Giorgio Cini, fin dal recupero di quel gioiello architettonico che è l’Auditorium Lo Squero: grazie all’intervento degli architetti Cattaruzza e Millosevich e con il contributo del Provveditorato Interregionale per le Opere Pubbliche del Veneto, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia e della Fondazione Virginio Bruni Tedeschi, Venezia si è vista regalare una sala da concerto unica nel suo genere, affacciata sulla laguna, con allestimento reso possibile dal contributo di Fondazione di Venezia, Melissa Ulfane e un donatore anonimo. La programmazione, poi, si è rivelata assolutamente in linea con la qualità del recupero architettonico, chiamando ad esibirsi giovani artisti emergenti a livello internazionale che attraverso la residenza e lo studio in Fondazione hanno la possibilità di perfezionare la loro formazione musicale anche con la pratica dei concerti, arricchendo poi il percorso attraverso una forte fidelizzazione del pubblico grazie all’iniziativa biglietto responsabile, creando un maggiore coinvolgimento da parte di quella fascia di spettatori che vogliono instaurare una relazione duratura con la Fondazione: scegliendo infatti di acquistare i biglietti e gli abbonamenti sostenitore e mecenate si contribuisce a sostenere i musicisti ospiti e le attività delle istituzioni coinvolte nell’organizzazione dei concerti. Quando tutto questo sarà finito, sarà ancora più bello affacciarsi in laguna per un concerto a pelo d’acqua, per un nuovo modo di godere di grandi momenti di musica classica.
Un 2020 avaro di spazi per la cultura, in cui ogni certezza si è infranta sugli scogli del Covid, persino la prima della Scala è divenuta uno spettacolo televisivo-assai curato - ad alto tasso nazional-popolare, come nella secolare tradizione dell’opera, divenuta elitaria in tempi recenti, nata invece per essere a portata di un larghissimo pubblico. Nei pochi momenti di tregua concessi dalla pandemia, la Fenice - teatro d’opera tra i più famosi e celebrati al mondo, non scordiamolo - ha dimostrato una vitalità sorprendente, con doti camaleontiche ha saputo trasformarsi e adattarsi alle nuove regole sanitarie, rivoluzionando in parte il cartellone, ma soprattutto sconvolgendo le sue architetture, rimodulando gli spazi in base alle mutate esigenze. Dal Sovrintendente Ortombina fino a tutte le maestranze la volontà di continuare a produrre cultura non è mai cessata e se dovessimo scegliere una data simbolo non si può non pensare alla serata dell’8 settembre, quando l’Orchestra e il Coro della Fenice hanno fatto riecheggiare in Piazza San Marco le note dei brani d’opera più conosciuti del repertorio italiano del bel canto. Con la direzione di Daniele Callegari e Riccardo Frizza, l’Orchestra e il Coro della Fenice e le voci del soprano Claudia Pavone e del tenore Piero Pretti, protagonisti tra i più acclamati del panorama lirico contemporaneo, hanno interpretato un programma che andava da Verdi, con le sue celeberrime arie «Sempre libera degg’io», «Libiam ne’ lieti calici», «Noi siamo zingarelle», «Di Madride noi siam mattadori» dalla Traviata, ma anche «Chi del gitano i giorni abbella?» dal Trovatore e «Si ridesti il leon di Castiglia» dall’Ernani – a Puccini, con «Nessun dorma» da Turandot. E ancora di Verdi dal Nabucco le due pagine corali «Gli arredi festivi giù cadano infranti» e il celeberrimo «Va’ pensiero sull’ali dorate». Non poteva non esserci Rossini, che ebbe oltretutto con Venezia un rapporto privilegiato con le ouverture de La gazza ladra e L’italiana in Algeri. Era dal 1996 che la Fenice non suonava in Piazza, e stavolta si può dire che lo abbia fatto in gran parte per i veneziani, perchè molti biglietti erano riservati a titolo gratuito ai residenti/resistenti. L’auspicio è di non dover aspettare altre sventure per ritrovare la Fenice in Piazza San Marco, magari con la Nona Sinfonia di Beethoven, in segno di ritrovata stabilità.
www.bru-zane.com
www.cini.it
www.teatrolafenice.it
Aperti al mondo
Al posto giusto
Un bel dì vedemmo...
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BIENNALE MUSICA
ESTIVA
Pura percezione
Pietre millenarie PLAYLIST
Negli ultimi quindici anni della sua vita artistica, più o meno da Al Gran sole carico d’amore, che viene rappresentato a Milano nel 1975, fino alla morte, avvenuta l’8 maggio 1990, Luigi Nono è affascinato, forse anche ossessionato, dall’ idea di cogliere la qualità del suono, non solo la sua sostanza; di rendere il suono slegato da ogni tipo di concatenazione formal-strutturale e di trasformare l’ascolto in un’esperienza non più estetica e concettuale, ma fortemente naturale. Il suono non ha più un ‘prima’, non ha più un ‘poi’: ascoltare la musica deve essere come ascoltare il vento, un’esperienza di pura percezione, di lontananze e di presenze. Questa nuova concezione della musica noniana si manifesta nella seconda metà dei ’70 con …sofferte onde serene…(1976) e con Fragmente – Stille, an Diotima (1979), esplodendo poi nel titanismo del Prometeo, rappresentato nella Chiesa di San Lorenzo a Venezia il 25 settembre 1984, che affronta il tema della tragedia dell’ascolto, cioè della necessità di recuperare la primazia dell’ascolto rispetto alla vista. Caminantes, no hay caminos, hay que caminar: viandante, non esiste il sentiero, esiste solo il camminare. Era questa frase letta sul muro di un chiostro a Toledo che aveva fatto riflettere Nono sull’impossibilità del viaggio come direzione prestabilita da un luogo ad un altro, come movimento funzionale ad una partenza e ad un arrivo. No, per il Nono di quegli anni c’è solo lo spazio da riempire di suoni che nascono, vibrano, si estinguono e rinascono, in un’infinita generazione e morte sonore che recuperano l’eterno ritorno di Nietzsche. Ed è a questo Nono che Biennale Musica ha dedicato il
26 settembre un concerto monografico, con la presentazione di tre opere che appunto hanno nella dimensione spaziale del suono e nella interazione tra suono acustico e suono elettronico la loro chiave interpretativa: il capolavoro …sofferte onde serene… del 1976 (frutto di una intensa collaborazione con il pianista Maurizio Pollini, cui l’opera è dedicata insieme alla moglie); Postprae-ludium n. 1 per Donau del 1987, bellissima opera per tuba ed electronics, molto complessa da eseguire ed affascinante nella continua frantumazione del suono in molteplici sonorità di grande forze evocativa, una straordinaria esercitazione sulla potenza primigenia del suono; La lontananza nostalgica utopica futura, madrigale per più caminantes come lo chiamò Nono, del 1988, dedicato a Salvatore Sciarrino, in cui la spazialità sonora stavolta è data da un insolito - per Nono - elemento performativo caratterizzato dall’interprete violinista che si muove sopra e fuori dal palco tra leggii distanziati secondo le precise indicazioni della partitura. Serata bellissima. Un plauso doveroso ai quattro esecutori: Francesco Prode al pianoforte, Arcangelo Fiorello alla tuba, Francesco d’Orazio al violino e Alvise Vidolin ai live electronics. Fuori ci accoglieva una Venezia in cui, nonostante le devastanti calamità naturali e pandemiche, era ed è ancora possibile ascoltare il suono ovattato delle campane delle chiese portato dalle onde che tanta parte hanno avuto nella prodigiosa sensibilità acustica di Nono. E il cuore esacerbato un po’ si riscaldava… F.D.S.
La stagione Lirica e Sinfonica dell’Arena di Verona è un evento che trascende i confini del puro intrattenimento musicale, proprio come l’anfiteatro di Piazza Bra è molto più di un monumento storico tra i più famosi al mondo. Entrambi questi elementi sono molto altro. Sono simbolo unico di unione, luogo in cui convergono milioni di ricordi e di istantanee da consegnare alla storia. Qui hanno cantato i più grandi. Qui le note immortali delle leggende della musica hanno trovato habitat naturale. Qui si tornerà presto a cantare e suonare come eravamo abituati a fare, lasciandoci alle spalle questo anno non vissuto. «Garantire continuità al nostro teatro – spiega la Sovrintendente e Direttore Artistico Cecilia Gasdia –, ai nostri artisti, lavoratori e al nostro territorio non è stato e ancora oggi non è facile. È importante dunque da un lato ringraziare i nostri sponsor che non ci hanno mai lasciati soli e d’altro canto continuare a lavorare insieme alle forze migliori del territorio. Dobbiamo dirci soddisfatti di una Stagione che fa di un limite un’opportunità e ci dà la possibilità di sperimentare, portare titoli rari, affrontarli con creatività e senza paure. Dobbiamo e vogliamo credere che tutte le fatiche, anche i dolori e le preoccupazioni degli ultimi mesi possano diventare sprone per guardare avanti lanciando i cuori oltre l’ostacolo e ritrovarci così domani con un’Arena più forte, ambasciatrice dell’eccellenza italiana nel mondo». Quando fu il momento di pensare a reinventarsi per non scomparire, l’Arena fu tra le prime istituzioni a rivoluzionare il proprio palcoscenico, posizionandolo al centro dell’Arena, dove prima sedeva il pubblico, e posizionando quest’ultimo sulle gradinate, con capienza ovviamente e drasticamente ridotta, da 13500 a 1000 spettatori. E levatevi dalla testa che sia stato un Festival in ‘sordina’: Marco Armiliato, Andrea Battistoni, Francesco Ivan Ciampa, Riccardo Frizza e Daniel Oren tra i direttori, Lisette Oropesa (fantastica protagonista dell’apertura alla Scala) e Luca Salsi tra i cantanti, oltre a un evento storico come la prima esecuzione assoluta a Verona del capolavoro estremo di Mozart, il Requiem intimo e grandioso, in collaborazione con Confindustria Verona, specialmente dedicato alle vittime veronesi della pandemia e aperto a tutti i loro familiari.
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La pagina bianca
Lucia Ronchetti, lo studio al potere
Rete di sicurezza
Talento, determinazione, tenacia, sacrifici, studio, amore incondizionato per la musica. Questi i tratti fondamentali di Lucia Ronchetti, che succede a Ivan Fedele alla Direzione della Biennale Musica per il quadriennio 2021-2024, prima donna nella storia in questo ruolo. Nata a Roma nel 1963, ha studiato Composizione e Musica elettronica al Conservatorio Santa Cecilia della capitale e si è laureata in Storia della Musica all’Università La Sapienza. A Parigi, a partire dal 1994, ha studiato con Gérard Grisey, seguito il Corso annuale dell’IRCAM e discusso una tesi di dottorato in musicologia all’École Pratique des Hautes Études en Sorbonne, sotto la direzione del Prof. François Lesure. Nel 2005 è stata Visiting Scholar alla Columbia University di New York su invito di Tristan Murail. Nel 2021 l’Oper Frankfurt produrrà la nuova opera Inferno, mentre l’opera da camera Pinocchios Abenteuer sarà presentata dalla Staatsoper Unter den Linden di Berlino con una nuova produzione all’Oper Frankfurt. Una sua nuova opera debutterà inoltre alla Deutsche Oper am Rhein nei teatri di Düsseldorf, Duisburg e Dortmund a fine 2021. L’Ensemble Modern ha presentato un suo ritratto nella serie Happy New Ears nella sala dell’Oper Frankfurt. La sua ultima opera corale, Inedia prodigiosa, è stata realizzata da Romaeuropa con i cori dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Nel 2020-21 Lucia Ronchetti insegnerà composizione ai Ferienkurse di Darmstadt e in qualità di docente di composizione sarà invitata dalla Hochschule für Musik und Darstellende Kunst Frankfurt. Tra le voci più importanti e autorevoli della scena contemporanea, proprio grazie alla gran quantità di opere a lei commissionate dai maggiori teatri europei, le rivolgiamo due domande per provare ad immaginare le Biennali Musica che verranno.
Quale il tema più urgente su cui ha voluto da subito impegnarsi maggiormente appena dopo aver ricevuto questa importante nomina? Sto ascoltando molti lavori compositivi recenti, anche lavori che conosco bene e da molto tempo, per rivederli alla luce della specificità della Biennale Musica, del suo contesto storico e della città di Venezia. Non sento particolari pressioni, né urgenze: sono molto concentrata per cercare di offrire il meglio, nell’ambito delle mie possibilità ideative, al pubblico del primo festival da me diretto, previsto a settembre 2021. Davide Carbone
L’Associazione Nazionale Fondazioni Lirico-Sinfoniche (A.N.FO.L.S.) riunisce i dodici Teatri d’opera presenti su tutto il territorio nazionale, tra cui ovviamente figura la Fenice diretta da Fortunato Ortombina. Per rispondere alla crisi di settore deflagrata in questo 2020 tutti questi enti teatrali hanno deciso di rispondere alla sospensione degli spettacoli allestendo un palinsesto unico di produzioni in livestreaming realizzate ad hoc, in assenza di pubblico ma con gli artisti in presenza, che sarà trasmesso e condiviso attraverso gli strumenti informatici di tutte le differenti Fondazioni. «Siamo consapevoli della gravità e della delicatezza della situazione generale in cui versa il Paese, – affermano Francesco Giambrone e Fulvio Macciardi, rispettivamente presidente e vicepresidente ANFOLS – uno scenario in cui ognuno di noi è portato a compiere enormi sacrifici. Ciascun teatro in questa fase di emergenza fornirà produzioni appositamente realizzate che confluiranno tutte nel progetto Aperti, nonostante tutto, una soluzione legata alla contingenza in atto e che ovviamente non potrà mai sostituire le attività dal vivo. Molto più che incoraggianti i numeri raccolti nel corso del mese di novembre: 122.896 contatti con utenti collegati da 57 Paesi del mondo e migliaia di collegamenti (tra piattaforme internet, web tv e social media dedicati), con una programmazione la cui qualità non ha risentito in termini di modalità di fruizione. «Le cifre che abbiamo registrato – commentano ancora Giambrone e Macciardi, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’ANFOLS – ci sorprendono positivamente e testimoniano non solo l’importanza della nostra iniziativa in questo momento particolare, ma quanto il pubblico (non solo italiano) abbia a cuore i nostri teatri che, anche in questo momento difficile, hanno dimostrato coraggio e notevoli capacità di riformulare creativamente l’offerta intraprendendo un percorso innovativo e accogliendo le nuove sfide che comporta il tempo che stiamo attraversando. Aperti, nonostante tutto – concludono – è un progetto che testimonia la nostra volontà di restare vicini al nostro pubblico che, seppur non in sala, sta fruendo in questi giorni delle nostre attività. È anche un segno tangibile di attenzione nei confronti dei tanti artisti che continuano a soffrire per le ricadute della drammatica condizione che stiamo vivendo e per i lavoratori delle nostre Fondazioni rappresenta uno strumento importante di tutela dei livelli occupazionali e della qualità dei complessi artistici e tecnici».
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Dopo Battistelli, Francesconi e Fedele, prosegue con lei in Biennale la tradizione dei direttoricompositori. La musica in chi compone è tutto e dappertutto: questa immersione panica nella musica come influisce nelle scelte di direzione artistica di un festival? La musica è un linguaggio complesso, simbolico, assoluto e spesso non verbalizzabile. Non ci si sente immersi nella musica, la considero al contrario un’esperienza di avvicinamento progressivo ad una competenza linguistica sempre perfettibile. Comporre una partitura è molto diverso dall’organizzare un festival musicale, sono attività distinte che non necessariamente si influenzano reciprocamente. Nelle mie scelte relative alla direzione artistica ha influito molto la mia esperienza di ascoltatore di musica contemporanea in molti festival in giro per il mondo, il mio rapporto con l’ascolto e con le diverse sale, la loro acustica e la loro cifra architettonica.
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Mission: Interrupted
Siamo lontani anni luce da quando
fra le calli si aggirava l’Uomo Ragno. Nell’autunno del 2018 la troupe di Spider-Man: Far from Home era arrivata un po’ in sordina, con Tom Holland e gli altri del cast a mimetizzarsi fra i turisti per non creare scompiglio, per non ritardare le riprese. Una settimana e via, missione compiuta. Allora si parlava di turismo di massa, si progettavano varchi per direzionare i flussi, si malediceva il MOSE e quanto era costato. Era la stessa Venezia?
di Marisa Santin A vederla adesso sembra quasi che in mezzo ci sia stata un’alluvione o, addirittura, una pandemia. Già, sembra quasi che… Quando in marzo di quest’anno la produzione del nuovo capitolo di Mission: Impossible ha ventilato la possibilità di trovare una sede alternativa per proseguire le riprese, Tom Cruise è stato categorico: i miei soldi devono andare a Venezia. Forse è anche per questo che l’attore veniva accolto con caloroso affetto dalla popolazione ogni volta che si ripresentava in laguna. Arrivava, scendeva dal taxi, salutava con la mano, faceva selfie, sorrideva a tutti sotto la mascherina e ripartiva improvvisamente con il jet privato: perché l’Italia era entrata in
lockdown prima di tutti gli altri (febbraio) oppure perché nella troupe si era scoperto un focolaio di Coronavirus (ottobre). Poi tornava, scendeva dal taxi, sorrideva a tutti, faceva selfie… Se non “impossibile”, la settima missione dell’agente segreto Ethan Hunt è stata molto “interrotta”. E di missioni interrotte – per parlare solo di quelle cinematografiche – in questo ultimo anno ce ne sono state molte altre, a partire da quella di Stefano Accorsi e Valeria Golino, che nel novembre dell’aqua granda, sotto le procuratie di Piazza San Marco, sospendevano fra le proteste di negozianti e residenti le riprese di Lasciami andare, il film di Stefano Mordini che sarebbe poi andato a chiudere la Mostra di Venezia. E alla Mostra è approdato anche Molecole, il documentario di Andrea Segre realizzato durante il periodo di lockdown in una Venezia deserta e silenziosa. Prima che la pandemia congelasse improvvisamente tutto il regista padovano stava però portando avanti Welcome Venice, un film di finzione con protagonisti Ottavia Piccolo, Roberto Citran e Andrea Pennacchi sui mali atavici della città: turismo di massa, fragilità della laguna, acqua alta. In ottobre sono ripartite le riprese alla Giudecca, con tutte le difficoltà che l’organizzazione di un set cinematografico in tempi di restrizioni e distanziamenti comporta. Sarà interessante vedere come l’arte,
in tutte le sue forme, saprà descrivere di nuovo Venezia, immutabile eppure profondamente cambiata. Ma la questione non riguarda solo l’aspetto artistico: in mancanza di turismo, come titolava «La Repubblica» il 18 novembre scorso, “il cinema salva le casse del Comune”. Oltre che a Tom Cruise e a Segre, tra ottobre e novembre Venezia ha fornito la scenografia naturale alla Sony per il lancio della PS5 e al regista spagnolo Álex de la Iglesia per il suo nuovo film horror Venicephrenia. Si parla di almeno 700mila euro di entrate solo negli ultimi mesi, senza contare gli affitti dei palazzi e l’indotto su maestranze, comparse, tecnici, ristorazione e quant’altro. E in laguna sta arrivando ora il set di Di là dal fiume e tra gli alberi, il film della regista spagnola Paula Ortiz tratto dall’omonimo romanzo di Hemingway. Torna quindi a Venezia un po’ di Hollywood con l’attore Liev Schreiber, capofila di un cast che comprende anche talenti tutti italiani, da Laura Morante e Giancarlo Giannini all’attrice rivelazione Matilda De Angelis, premiata come “shooting star” al Festival Berlino 2018 ed emersa all’attenzione del pubblico statunitense per il suo ruolo nella serie tv The Undoing, con Nicole Kidman e Hugh Grant, di prossima uscita in Italia su Sky. Sono segnali che fanno ben sperare e in questo momento ce n’è davvero bisogno. Mission: Restarted!
:cinema :storie2020
BIENNALE CINEMA
Strada nuova
Guardo i giovanissimi protagonisti del film di Claudio Noce Padrenostro percorrere la famosa passerella rossa del Palazzo del Cinema e mi chiedo cosa proveranno loro a sfilare di fronte ad un muro, senza i fans che hanno fatto storia. Ma poi penso che si consoleranno con i flash dei fotografi. Sì, perché ci sono diverse angolazioni per guardare alla Mostra di Venezia 2020, quella difficile del Covid. Tilda Swinton, premiata con il Leone d’Oro alla carriera, ha lasciato in vaporetto il Lido con pochi appassionati a salutarla. Ma mi viene in mente un grande attore italiano, che ho intervistato anni or sono, che mi confessava un timore della folla di aver trascorso tutto il periodo recluso volontariamente nella propria stanza. Come accreditato devo egoisticamente confessare di aver apprezzato questa edizione: nessuna coda, nessun timore di non trovare posto. Il doversi prenotare elettronicamente è stata una panacea che mi auguro verrà ripresa nei prossimi anni. Anche mia figlia, semplice spettatrice in alcune proiezioni, ha evitato angosciose ore di coda ai botteghini, la cui assenza ha reso il piazzale del Palazzo del Cinema architettonicamente apprezzabile. La qualità delle scelte dei titoli è stata eccellente ed ha funzionato la collaborazione tra alcuni Festival. La sinergia tra eventi in diversi continenti è stata forse obbligata, ma ha prodotto risultati eccellenti. La scarsa produzione mondiale di film di qualità ha anche accelerato l’inserimento di generi diversi e di nuove tecnologie. Già in presentazione Roberto Cicutto scriveva: «La Mostra del cinema è un appuntamento fondamentale non solo per celebrare il cinema e sempre di più anche altre forme di audiovisivo, ma per arricchire il nostro patrimonio di conoscenza, per confrontarci con il passato, per
GLOBAL FESTIVAL
OSCAR
Risposta esatta
Tutti ammessi
ipotizzare contenuti, linguaggi, nuove tecnologie nelle arti nei prossimi decenni...». Così, approdato al Lido, vado all’anteprima. Molecole di Andrea Segre. Confesso di essere prevenuto. Un regista nostrano alla prima proiezione sugli schermi della più importante rassegna mondiale di cinema? All’inizio vorrei confermare i miei sospetti. Ho appena rivisto Les plages d’Agnès di Agnes Varda e il confronto sembra non reggere. Eppure, a tre mesi di distanza, è ancora ben vivo il ricordo delle barene di Sant’Erasmo, delle confessioni di Gigi o della rematrice sulla laguna immobile e deserta. Più rilassato forse per l’afflusso non vorticoso, ho modo di apprezzare la gentilezza e professionalità del personale, la serietà meticolosa delle donne poliziotto alle entrate sotto un sorriso malcelato dei colleghi maschi, il desiderio di sconosciuti di comunicare le proprie impressioni, le belle signore, attrici e non, che non hanno esitato ad esibire mise particolarmente eleganti in quel breve tratto tra l’Hotel Excelsior e il Palazzo del Cinema, divenuto cuore pulsante della mondanità della Mostra. Un’occasione per una cinematografia umana, quella italiana di Lacci e Assandira, di Padrenostro e Le sorelle Macaluso, senza dimenticare il raffinato Konchalovsky o l’omaggio all’India di The Disciple. Ma l’emozione vera, il ricordo della giovinezza, me l’hanno regalata gli altri Concorsi, in piccole sale, da sempre meno frequentati dal grande pubblico ma spesso da conoscitori che non abbandonano il proprio posto sino all’ultima scritta sullo schermo, che sanno applaudire e commuoversi, che all’accendersi delle luci si guardano intorno quasi aspettando un dibattito. Che nostalgia dei cineforum degli anni ‘70! Loris Casadei
Una vera e propria chiamata a raccolta fu quella di Tribeca Enterprises e di YouTube, a cui risposero nel maggio scorso 21 festival cinematografici internazionali, tra cui La Mostra del Cinema di Alberto Barbera. Lo scenario era di incertezza totale e trasversale: proprio in quei giorni Cannes si trovava costretta ad annullare un appuntamento che durava ininterrottamente dal 1950, mentre proprio Venezia cercava di attraversare la nebbia dell’imponderabile e già lavorava all’organizzazione di un’edizione che sarebbe passata alla storia, quella di un Festival in presenza magistralmente allestito, con condizioni il più vicine possibili alla normalità. We Are One: A Global Film Festival arrivò a cinefili e non come una medicina per l’anima: evento digitale di 10 giorni in cui venivano presentati più di 100 film tra opere di finzione, documentari, talk, scelti per la prima volta da una collaborazione tra 21 importanti festival internazionali di 35 Paesi, con un programma infarcito di dibattiti, contenuti VR e performance musicali. Tra i titoli presentati si trovavano 13 prime mondiali, 21 prime online e 8 prime online internazionali, tutte visibili sulla piattaforma e sul canale YouTube appositamente creati. Un esperimento assolutamente riuscito e che ha contribuito a spostare un po’ più in là i confini dell’universo-cinema, sempre più ‘proiettato’ verso nuove, innumerevoli, possibilità di fruizione.
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Con le sale chiuse nel nostro paese dal 23 febbraio scorso, riaperte per la breve tregua estiva che il Covid ha concesso e subito richiuse all’inizio della seconda ondata, il cinema ha dovuto fare i conti da subito con gli effetti collaterali della pandemia. Le strategie adottate da molte case di distribuzione hanno riguardato fin dall’inizio i tempi e le modalità di uscita dei film sulle piattaforme streaming. Alcuni titoli già passati in sala tra fine 2019 e inizio 2020 sono approdati immediatamente alla visione da casa, accorciando così i canonici tre-quattro mesi di pausa tra il grande e il piccolo schermo, mentre i film che puntavano al botteghino per la stagione ‘forte’ delle uscite, che ha coinciso quest’anno con il lockdown, hanno in molti casi trasferito le loro anteprime sulle piattaforme on demand. Anche l’Academy di Los Angeles ha dovuto prendere atto del cambiamento epocale all’interno dell’industria cinematografica. Per la prima volta nella storia degli Oscar - e pare solo per la prossima edizione, che si terrà in aprile anziché in febbraio come consuetudine - saranno ammessi alla candidatura anche film passati solo sulle piattaforme digitali, purché avessero già programmata un’uscita al cinema poi cancellata a causa della pandemia. Questo permetterà ad esempio a film come Mank di David Fincher (già disponibile su Netflix) o One Night in Miami di Regina King (Amazon Studios) di ambire alla statuetta più preziosa del cinema. Marisa Santin
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PIATTAFORME
Platea diffusa
In quest’epoca per forza di cose smaterializzata e ancor più digitale, il cinema si trova di fronte a un bivio, che in realtà di strade possibili ne presenta assai più di due. Se la presenza in sala ha necessariamente dovuto prendersi una pausa, i nostri occhi possono ormai placare il proprio appetito attingendo da ogni schermo ci si trovi di fronte, sia esso di televisione o computer, tablet o smartphone. MYmovies, piattaforma per eccellenza che ha sempre giocato in anticipo sui tempi, tutto questo lo sa bene. Quest’anno per festeggiare i 20 si è trovata al posto giusto al momento giusto, mettendo a sistema un progetto che da anni persegue: offrire al pubblico in streaming la possibilità di fruire della formula Festival. Forte della collaborazione pluriennale con la Mostra del Cinema di Venezia e la collaudatissima Sala Web, in questo 2020 MYmovies ha letteralmente conquistato la platea di tutti i festival cinematografici grandi e piccoli che hanno dovuto spostare online tutta la programmazione o parte di essa, andando a mappare l’intero territorio italiano, «In questo 2020 il modello di MYmovies Live – racconta Gianluca Guzzo, CEO e fondatore di MYmovies - si è caricato di altri significati e ha trovato una dimensione compiuta, come mai prima d’ora: la possibilità di poter mettere a disposizione di diversi utenti uno stesso streaming ha sviluppato ulteriormente il concetto di ‘condivisione’, facendoci sentire tutti più uniti, immaginandoci idealmente in una grande sala senza pareti a dividerci, un’autentica platea diffusa». www.mymovies.it
FOTOGRAMMI
Molecole di Venezia
Il silenzio e l’assenza svelano l’essenza a volte più di qualsiasi altra forma di narrazione. Questo sembra dirci Andrea Segre con il film realizzato durante il lockdown, quando Venezia è stata per mesi un’altra Venezia e allo stesso tempo ha svelato qualcosa di sé di profondamente autentico, che prima non risultava visibile. Molecole, uscito nelle sale il 2 settembre scorso e a cui la Mostra del Cinema ha affidato quest’anno la serata di preapertura, ci ha raccontato di un doppio isolamento, quello della città durante l’emergenza Covid e quello personale del regista, che ha rivissuto l’assenza del padre venuto a mancare alcuni anni fa. Quando abbiamo chiesto al regista quale immagine della città lo avesse maggiormente colpito durante l’isolamento ci aspettavamo una risposta più vicina a quanto riportato sui social: i canali trasparenti, l’assenza del moto ondoso, campi e calli abbandonate, Piazza San Marco desolatamente vuota. Invece la sua risposta è stata “manichini”: «Tutte le calli erano disseminate di manichini illuminati nelle vetrine che, rimasti senza gli esseri umani intorno, sembravano dei fantasmi intenti a chiedersi: «Perché siamo qua? A cosa serviamo? Siccome ora non ci siete e non potete consumare, noi non abbiamo nessuno in cui rispecchiarci. Allora, chi siamo noi? Solo la controfigura del disorientamento del rapporto tra umanità e città?». Marisa Santin
VIRTUAL REALITY
Più vero del reale
Cinema non è, questo ormai lo sappiamo. Il fatto che il VR sia entrato di diritto tra le maglie della programmazione della Mostra veneziana è perché l’archetipo del suo linguaggio, come di ogni linguaggio audiovisivo, risiede nel cinema. La realtà virtuale non è però figlia naturale del cinema, perché non ne raccoglie necessariamente l’eredità, è piuttosto il frutto di un’ibridazione, il prodotto di tante istanze diverse, in primis della tentazione totalitaria del cinema, che vuol sostituire la realtà con il suo simulacro. Ci siamo dentro, come ci ha ricordato Simone Arcagni, intervistato su queste colonne nel corso di Venice VR Expanded, sezione VR della Mostra, ospitata quest’anno online e in molte sedi fisiche nel mondo, tra cui il museo M9 di Mestre. Ci siamo dentro e non sappiamo ancora bene come muoverci. Tanto in qualità di fruitori - non si è mai solo spettatori di un’esperienza - che di creatori. La galassia della realtà virtuale è in rapida espansione, lo dimostra lo studio condotto da Arcagni, Immersi nel futuro, presentato in Mostra. Ed è in questa galassia ancora tutta da esplorare che si coniano nuove pratiche ed estetiche. Venice VR Expanded è di fatto la sezione più sperimentale della Mostra. Ci offre uno spaccato parziale della galassia VR, ma da un punto di vista privilegiato: quello dello sguardo indagatore dei curatori, Michel Reilhac e Liz Rosenthal, sempre orientato alla ricerca del quoziente artistico ed innovativo. Opere narrative, ma non solo, anche solo testimoniali o esperienziali: un corpus disomogeneo per tecnologie, formati, intenti, che esplora le vastissime potenzialità del mezzo immersivo e ne misura la portata. Quel che sappiamo per certo è che la formula della scorsa edizione ha saputo interpretare come nessun’altra sezione della Mostra lo Zeitgeist con la piattaforma in realtà virtuale che consentiva la fruizione a chiunque ovunque, superando quel limite fisico che la pandemia ha marcato definitivamente e la tecnologia ha contribuito, come mai prima d’ora, a superare. Il virtuale non è mai stato così reale. Riccardo Triolo
PRODUZIONI
La narrazione dei territori
Jacopo Chessa, accademico e cineasta, direttore del Centro Nazionale del Cortometraggio di Torino, è il neo-direttore della Fondazione Veneto Film Commission. Nonostante il Veneto sia stata una delle prime Film Commission attive, con un territorio da sempre meta prediletta di grandi produzioni internazionali, la sua formalizzazione in Fondazione è relativamente recente. L’autonomia che lo statuto di Fondazione dà a una Film Commission è senza dubbio il primo tassello di una più larga progettualità. Strumento principale, il fondo di produzione che offre opportunità economiche e servizi a chi intenda girare in Veneto e parimenti sostiene la formazione di professionisti locali. Certamente il Veneto può contare su una qualità di maestranze di altissimo profilo e già ampiamente riconosciuta. Ma come il cinema è riuscito a rendere le unicità del territorio elementi fondamentali della propria identità? «Oltre Venezia – spiega Chessa – che da sola è in grado di attrarre enormi produzioni internazionali, nazionali e locali, la Regione ha una varietà di territorio direi unica e peculiare: dal mare alla montagna, dal fiume al lago, dalle colline alla laguna... La chiave di volta è riuscire a far dialogare queste unicità con un vasto pubblico, e questo si fa con le storie, con la narrazione. È anche per questo che esistono le Film Commission: per far sì che i territori siano narrati». www.venetofilmcommission.com
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STREAMING
SCHERMI 1
SCHERMI 2
FESTIVAL 1
FESTIVAL 2
Face to face, heart to heart. Oltre ad essere il titolo di una famosa hit degli anni ‘80, certo, questo è stato il claim del Far East Film Festival, edizione 22. Ed è proprio la sintesi perfetta della nuova edizione, che non ha accettato di arrendersi e si è svolta online dal 26 giugno al 4 luglio, dopo essere stata spostata da febbraio. Non stiamo solo parlando di un trasferimento, con i film in concorso da guardare on demand, ma di un’autentica trasformazione, con tutti i contenuti adattati – per quanto possibile – alla grammatica e alle dinamiche dello streaming. La base operativa è stata MYmovies e il web non è stato esclusivamente un serbatoio di titoli, ma il punto d’incontro del popolo fareastiano, per decretare i vincitori degli Audience Awards e condividere attivamente, oltre alle visioni, anche i video-saluti degli attori e dei registi e i talk di approfondimento con i grandi nomi del cinema asiatico. A rendere questa rivoluzione ancora più radicale ci ha pensato il sito www.fareastream.it, piattaforma di cinema asiatico che ben oltre i confini temporali dell’edizione, anche mentre scriviamo, continua a caricare in piattaforma i grandi film del cinema d’Oriente, per un pubblico di fedeli abbonati. Tra gli evergreen del FEFF e capolavori da riscoprire, grandi classici e primissime visioni, gli abbonati di Fareastream possono muoversi dentro il menu della library in base al genere e alla provenienza geografica dei film, o scegliere di percorrere uno degli itinerari monografici già messi a punto. Davide Carbone
Sembrava fossimo rassegnati a un’estate, questa del 2020, senza cinema, il distanziamento sociale stava lentamente uccidendo la magia del grande schermo. Sì, è vero c’era sempre lo streaming, ma non nelle sere d’estate, quando la parola d’ordine è stare all’aperto. Tutte le città del mondo sono corse ai ripari ripescando una formula diventata icona dell’American Graffiti, il drive-in. Certo, perchè no, ognuno nella propria auto a vedere il film in un parcheggio. Ma noi, a Venezia? Non volendo essere da meno, abbiamo inventato il Barch-in, il primo drive-in per imbarcazioni! Nel rispetto delle disposizioni anti Covid, il bacino quattrocentesco dell’Arsenale è stato aperto per tre giorni, dal 28 luglio all’1 agosto, a un massimo di 50 imbarcazioni, per un totale di 200 persone per sera. L’idea nata durante il lockdown da una gruppo di giovani veneziani è stata subito sposata dal Comune di Venezia, che ne ha agevolato l’autorizzazione, e sponsorizzata da Campari, che ha predisposto lo schermo galleggiante. Se sprovvisti d’imbarcazione propria, c’erano barche messe a disposizione dalle remiere. Come un vero drive-in, anche il Barch-in aveva un servizio bar per aperitivo e light-dinner. E i film? Documentari, cult e blockbuster sul tema del rapporto tra uomo e mare, con Venezia in sottofondo. Un successo clamoroso!
Cinema Galleggiante non è stato solo una visione multiforme in una Laguna attraversata dai linguaggi del contemporaneo, ma anche un movimento di consapevolezza di una community lagunare in cerca di un’identità attiva. Grazie all’idea innovativa di Microclima - Edoardo Aruta e Paolo Rosso -, in collaborazione con le più importanti e dinamiche realtà culturali veneziane, dal 27 agosto al 5 settembre è andata ‘in onda’ una rassegna di film proiettati su una piattaforma galleggiante, posizionata nel mezzo della Laguna, dietro l’isola della Giudecca. Peculiarità della rassegna gli spettatori, che si sono scoperti parte attiva di tale insediamento marittimo di grande potenza immaginativa, trovandosi anch’essi, come lo schermo, galleggianti sull’acqua. Acque Sconosciute era il tema guida dei lungometraggi o cortometraggi selezionati, pellicole di artisti sia locali che internazionali dedicate all’elemento acqueo. Al calar della sera, in una Laguna metafisica, sono così passati sul Cinema Galleggiante: Antoni Muntadas, Eames Office, Lina Wertmüller, Mariano Fortuny y Madrazo, Peter Brook, Peter Greenaway & Michael Nyman, Superstudio, Werner Herzog e Zbigniew Rybczynski, Giorgio Andreotta Calò, Jennifer Baichwal & Edward Burtynsky, Petrit Halilaj e Alvaro Urbano, Pierre Huyghe, Margarida Mendes, Mariateresa Sartori, Melissa McGill.
Pur nelle avversità, la decima edizione di Ca’ Foscari Short Film Festival non è rimasta solo una felice promessa, ma adattatasi alle circostanze, ha mantenuto in presenza la sua programmazione, con una partecipata platea di studenti e non. A partire dall’Auditorium Santa Margherita, la rassegna di ben 30 corti si è diffusa a Venezia e a Mestre, proiettata in streaming presso il Candiani, Fondazione Querini Stampalia, Galleria Giorgio Franchetti Ca’ d’Oro e altre prestigiose Istituzioni. Primo in Europa a essere gestito da un’Università, il Festival ha dato la parola a giovani registi provenienti da 27 Paesi diversi. Il valore e la qualità del Ca’ Foscari Short è infatti testimoniata dalle opere selezionate e da quelle premiate da una giuria, tutta al femminile – tra cui la talentuosa attrice nipponica Jun Ichikawa –, offrendo ogni anno un panorama allargato sulle nuove promesse del cinema. Ecco i premi: Primo premio alla regista ceca, già nominata agli Oscar per questo corto, Daria Kashcheeva con Daughter, toccante opera realizzata in stop motion su una difficile relazione padre-figlia; Menzione speciale Volumina al corto di Hippolyte Leibovici Mother’s, breve spaccato sulla vita delle drag queen; Premio Levi assegnato a Black and White Colours dell’estone Värvid Must-Valgel, che ricorda la nascita della tv a colori. Federica Cracchiolo
Living Together Again è il titolo di una proposta culturale nuova (evviva!), per una rinascita post lockdown: cinema (all’aperto) di architettura a Venezia in location inedite - Giardino della Marinaressa e Chiostro di San Francesco della Vigna -, un concorso e una rassegna di cortometraggi organizzati da ArchTuned, associazione di giovani architetti diretta da Francesco Zanon, in 5 giornate gratuite, che dall’1 al 5 settembre 2020 hanno riscosso un sorprendente ma non inaspettato successo con tutte le proiezioni sold out. Per gli appassionati di città e paesaggio, spazio e socialità, condivisione in contesti sociali, geografici e culturali diversi e naturalmente cinema, Venice Architecture Short Film Festival è stata soprattutto l’occasione per conoscere l’opera di Ila Bêka (artista e regista italiano) e Louise Lemoine (sua partner dal 2005), considerati cult figures del mondo dell’architettura europea. La loro ricerca riguarda le relazioni tra le persone e il progetto, la vita quotidiana all’interno di alcune tra le più iconiche architetture del nostro recente passato, una nuova forma di critica che ha profondamente cambiato il modo di guardare l’architettura. Il loro lavoro completo, 16 film totalmente autoprodotti, è stato acquistato nel 2016 dal MoMA di New York per la propria collezione permanente. Paolo Lucchetta
www.fareastream.it
www.barch-in.it
www.cinemagalleggiante.it
cafoscarishort.unive.it
www.veniceshortfilmfestival.com
Un click a Est
Tempi moderni
Acque (s)conosciute
Interminati sguardi
Lost in Arch
:cinema 61
PIATTAFORME
Sky Italia
Con oltre 4 milioni di abbonati attivi, Sky si conferma la principale Pay TV italiana. Si basa sulla trasmissione del segnale video tramite satellite, per cui necessita dell’installazione di un’antenna parabolica. La politica promozionale di Sky non è mai stata quella del “buon prezzo”, si parte da 19€ al mese per il pacchetto base che comprende l’intrattenimento e gli show. Per Sky Cinema ci vogliono altri 16€ al mese, senza contare i costi di attivazione che possono arrivare anche a 199€. La piattaforma di Murdoch continua ad essere la più costosa, non fa sconti neanche ai fedelissimi e anzi tende ad agganciare nuovi utenti con offerte a tempo molto vantaggiose quanto vincolanti. Se il periodo di promozione non è concluso, Sky reclama una penale oltre alla restituzione degli sconti goduti fino a quel momento. Ha saputo però fidelizzare gli abbonati con esclusive sulle serie tv di grande richiamo (Il Trono di Spade, The Walking Dead, True Detective, The Young Pope, Gomorra) e con programmi di intrattenimento live di enorme successo, da MasterChef a X Factor. Con l’introduzione del servizio NOW TV, il colosso del video on-demand si è recentemente avvicinato ai prezzi dei suoi concorrenti, permettendo la visione di contenuti online tramite una semplice connessione a internet, a fronte però di limitazioni sul catalogo disponibile.
Netflix
PLAYLIST
L’offerta di Netflix si basa su diversi moduli di fruizione che vanno da un minimo di 7,99 ad un massimo di 15,99€ al mese. Ciascun piano determina il numero di schermi su cui è possibile guardare contemporaneamente Netflix, il numero di cellulari o tablet su cui è possibile scaricare i contenuti e la risoluzione preferita tra definizione standard (SD), alta definizione (HD) e ultra-alta definizione (UHD). A differenza di Sky, tutti i piani consentono l’accesso all’intero catalogo senza limiti. Negli ultimi anni la piattaforma si è distinta per la grande quantità e l’ottima qualità delle produzioni originali. Oltre che su numerose serie tv (House of Cards, Orange is the New Black, Breaking Bad, Narcos, Stranger Things, The Crown, Peaky Blinders per citarne alcune), Netflix ha stampato il proprio marchio su una nutrita lista di titoli d’autore, mettendo in discussione l’impossibilità per i film che non sarebbero usciti nelle sale di partecipare ai festival o di concorrere ai grandi premi cinematografici. In particolare, la posizione della Mostra del Cinema di Venezia si è dimostrata controcorrente e lungimirante nell’accettare da subito nella sua programmazione film come ROMA di Alfonso Cuarón, La ballata di Buster Scruggs dei fratelli Coen, Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, Panama Papers di Steven Soderbergh, 22 luglio di Paul Greengrass, The Other Side of the Wind di Orson Wells. Cose da intenditori, insomma, che hanno alzato non di poco il livello qualitativo del catalogo Netflix.
Amazon Prime Video
Amazon Prime è un servizio a pagamento che permette ai clienti del marketplace di Jeff Bezos di ricevere i prodotti acquistati in tempi di consegna rapidi. L’iscrizione (3,99€ mensili o 36 annuali) include una serie di servizi supplementari, come la visione gratuita di tutto il catalogo Amazon Prime Video e Amazon Original, fra cui alcune delle serie tv più acclamate degli ultimi anni come Fleabag, 24, The Handmaid’s Tale, Downtown Abbey. Si può utilizzare lo stesso account su tre dispositivi contemporaneamente, a scelta tra computer, tv, lettore Blu-ray, smartphone e tablet, ma non si può visualizzare lo stesso contenuto su più di un dispositivo alla volta. Da aprile di quest’anno tutti gli utenti, anche non registrati, possono acquistare o noleggiare nel Prime Video Store film usciti recentemente.
RaiPlay
La piattaforma multimediale della Rai è gratuita. L’offerta comprende i 14 canali tv RAI in diretta streaming e la possibilità di rivedere i programmi
andati in onda negli ultimi sette giorni nei diversi palinsesti. Oltre a tutti i programmi di intrattenimento, RaiPlay dispone di un vasto catalogo di programmi tv, serie, film, documentari, concerti e spettacoli. Dal 2019 ospita anche produzioni originali, ma quello che rende davvero straordinaria la piattaforma è la sezione Teche Rai: rivedere anche solo la lista degli sceneggiati, dei varietà, dei documentari che hanno fatto la storia dell’emittente nazionale è un emozionante viaggio nel passato.
Mubi
Cinema d’autore e film da tutto il mondo accuratamente selezionati: è Mubi la piattaforma preferita dai cinefili e dagli amanti del buon cinema. I titoli proposti spaziano dai film indipendenti alle storie passate per i circuiti dei festival, fino alle produzioni che non hanno ancora trovato un distributore. La formula è originale e, soprattutto, elimina il problema dell’ansia della scelta fra migliaia di titoli. Mubi infatti inserisce ogni giorno sulla sua piattaforma un nuovo film e ogni giorno ne toglie uno fra quelli passati, per un totale di una trentina di titoli presenti contemporaneamente in cartellone. Nella sezione Community gli utenti hanno anche la possibilità di commentare, lasciare la propria recensione e segnalare un film ad altri iscritti. Il costo dell’abbonamento è di 9,99€ al mese. Fra i titoli disponibili al momento: Father and Son di Hirokazu Kore-eda, I 400 colpi di François Truffaut, Nimic di Yorgos Lanthimos e Tokyo Sonata di Kiyoshi Kurosawa. Marisa Santin
Il buio oltre la sala Nel caso del cinema, il lockdown arrivò addirittura prima di quello nazionale, decretato lo scorso 9 marzo. Già il 23 febbraio, infatti, gli schermi delle sale cinematografiche si spegnevano e il buio si faceva totale, in attesa di una riapertura che nella parentesi estiva non ha di certo risollevato le sorti del settore, in questo momento accomunato a tutti gli altri dalla pressochè totale mancanza di certezze. Al grido però di «Il cinema senza i cinema non può esistere!» nasceva con grande unità d’intenti #iorestoinSALA, un progetto di cinema partecipato, una realtà in cui il cinema non si trasferisce sulla rete, ma è la rete stessa a diventare il cinema. Anzi: diventa la sala. Decine e decine di sale, quante sono le città che aderiscono al progetto e che si vorranno, via via, aggiungere. E quando i cinema “fisici” verranno riaperti, #iorestoinSALA rappresenterà un completamento, un valore aggiunto, un’opportunità per vivere ancora di più il cinema. Per lo spettatore cinematografico non cambierà nulla, il luogo dove vivere le emozioni cinematografiche è sempre il proprio cinema del cuore: si acquisterà il biglietto dal sito internet del cinema di riferimento e grazie alla collaborazione con MYmovies si riceverà un codice alfanumerico che corrisponde ad un posto assegnato nella sala virtuale. Ogni sala del cinema avrà quindi un proprio corrispettivo virtuale con lo stesso numero di posti a sedere. In attesa di tempi migliori… tutto il mondo si fa sala! www.iorestoinsala.it
CATCH’EM BACK
BLACK SERIES MATTER
I
In principio furono i Jefferson («Wiizzyyyy!») e Sanford and Son («Lamooont!»), che un minimo di problematica razzista la affrontavano, poi i Robinson, che invece vivevano in un mondo idilliaco parallelo assieme ad Arnold e Willy/Will Smith, The Fresh Prince. Il movimento Black Lives Matter mi offre lo spunto per parlare di serie tv recenti che invece la questione la affrontano, eccome.
l grande lockdown e i semi lockdown successivi hanno costretto (o consentito, a seconda di come la si consideri) molti di noi a passare più tempo davanti alla tv. Le serie sono state senz’altro il piatto forte e le piattaforme digitali hanno inevitabilmente allargato la propria platea entrando spesso per la prima volta in moltissime case. In questa rubrichetta senza pretese che abbiamo chiamato Catch’em Back, “riacchiappiamo” alcune serie divertenti di qualche anno fa, quando il satellite era ancora per pochi e il digitale doveva ancora nascere. Insomma, o queste serie le seguivi giornalmente oppure compravi il dvd, non c’erano molte alternative. In rete, con un po’ di pazienza, ora si trova invece più o meno tutto, (colpo di tosse n.d.r.)… Dopo Flight of the Conchord e Come Fly with Me, che abbiamo presentato nel numero estivo di «Venezia News» (se vo lo siete persi, lo trovate sul nostro profilo Issuu), ora è la volta di una serie tedesca molto divertente che, sono sicuro, molti di voi ricorderanno.
Lovecraft Country (HBO)
2 stagioni (2016-2017) | Sky. In corso
Fargo (FX)
«I can’t pay no doctor bill, but Whitey’s on the moon» Gil Scott Heron, Whitey’s on the moon Comincio con Lovecraft Country, serie horror prodotta da J.J. Abrams (LOST) e scritta da Misha Green, uscita in Italia proprio nel 2020. Non è tratta da H.P. Lovecraft, ma da un romanzo omonimo di Matt Ruff del 2016, pur essendone comunque ispirata, considerata l’ambientazione horror/fantascientifica e le tesi razziste dello scrittore di Providence. Qualcuno non proprio avvezzo al genere potrà restare disorientato dai primi episodi, ma le vicende di Atticus (lo scultoreo Jonathan Majors) ben presto si attorcigliano alla storia della comunità afroamericana (la scena del massacro di Tulsa è epica). La colonna sonora è clamorosa e spazia ovunque nella black music: dal Delta del Blues alla Motown, dal Jazz all’hip hop. I recitativi storici inseriti (veri) danno perfino un raffinato tocco mockumentary. Le citazioni cinematografiche, televisive e letterarie sono numerose, ma su tutte voglio ricordare Movin’ On Up, storica sigla dei Jefferson. Anche i 180 biondi centimetri di Abbey Lee in contrasto con l’esuberanza blackness di Aunjanue Ellis (che proprio all’inizio si produce in uno strepitoso omaggio a Sister Rosetta Tharpe) sono un bel vedere. Siamo intorno al 1950, ma… mica sempre! 1 stagione (2020) | Sky. Un seguito: chi lo sa?
Kebab for Breakfast (Türkisch für Anfänger)
l’effimero: i soldi ostentati, la mania per la moda e le armi, gli eccessi. Donald Glover (alias Childis Gambino quando fa il rapper per davvero) è ideatore, autore (assieme a un team tutto afroamericano) e protagonista di questa serie drammatica e sostanzialmente anche politica, ma comunque divertente. Non ci sono eroi; si parteggia a volte per uno a volte per l’altro, perché alla fine si finisce a tifare solo per la vittoria (il successo?), di chiunque: in una città, in una nazione, tra una generazione di sconfitti.
La serie antologica dei fratelli Coen ad ogni stagione presenta una storia e dei protagonisti diversi. Nella quarta il salto è anche temporale: 1950, Kansas City! Si parla di una guerra fra poveri, una faida spietata senza esclusione di colpi. La superstar Chris Rock interpreta (benissimo), in un insolito ruolo drammatico, Loy Cannon, capo di una gang criminale nera che si scontra con i mafiosi locali. Qui, insomma, i neri le danno, mica le prendono solamente! La musica è prevalentemente jazz, soprattutto be-bop, che si stava prepotentemente affermando all’epoca e forse non è proprio un caso che Charlie Parker arrivi proprio da Kansas City. La storia si sviluppa in modo classico e lineare. Salvatore “Genny” Esposito è un feroce mafioso arrivato fresco dall’Italia, così se si aveva nostalgia dei Savastano, eccoci serviti. Insomma, i bianchi WASP disprezzano gli irlandesi, che a loro volta disprezzano i dagos italiani, e tutti disprezzano i neri, in una visione della società americana tipicamente Fargo, dove nemmeno i bambini sono innocenti del tutto. Dialoghi e plot narrativo, come sempre, di altissimo livello. 4a stagione (2020) | Sky
On My Block (Netflix)
Atlanta (FX)
3 stagioni (2006-2007-2008) | Das Erste(In Italia su MTV 2007-2009)
Letteralmente “la prima”, Das Erste è come dire Rai 1 in Germania e, complice quindi anche l’enorme audience potenziale, Kebab for Breakfast è stata la prima serie a raggiungere uno share di oltre il 10% nel Paese. Solo che KFB non è mica ‘Don Babbeo’: ambientata a metà anni 2000 nella multietnica Berlino da bere (pardon! Mi è scappata) racconta le vicende di una coppia turco/ tedesca, entrambi già stati sposati e con figli propri dai precedenti matrimoni. Sebbene all’inizio la protagonista sia Lena (anche voce narrante), una dei due figli della tedesca Doris, ben presto i vari personaggi di contorno acquistano sempre maggiore rilevanza, come spesso succede delle serie tv. Le difficoltà relazionali fra le diverse culture sono trattate seriamente ma sempre cogliendo anche il lato comico. Cem e Yagmur, figli del turco Metin, che fa il poliziotto, si trovano a convivere sotto lo stesso tetto con Lena e Nils, figli di Doris, una psicoterapeuta con un passato da attivista ambientale e confuse convinzioni new age. A complicare ulteriormente la situazione c’è il fatto che Yagmur è una musulmana strettamente osservante e accusa il padre di tradire la memoria della madre scomparsa. Le situazioni comiche si sprecano e grazie ad una sceneggiatura solida e attori validissimi la serie decolla. Saranno tre stagioni di enorme successo e un film che però non ho visto perché uscito solo in Germania e solo in tedesco: Gesundheit!
«Young niggas got the crown. Spray the Champagne» Migos, Spray the Champagne Questa è una serie hip-hop, punto. Non solo perché narra le vicende di Earn, che tenta di fare da manager al cugino rapper emergente Paper Boi, ma soprattutto perché la narrazione non segue uno schema classico ma è soprattutto dialogo. La musica è onnipresente, ovviamente mix-tape di alta qualità (il confronto con la miseria della scena italiana è impietoso) ma non solo, perché anche qui le incursioni nella black music più classica sono frequenti. Personaggi azzeccati e realismo permettono di entrare in profondità in un mondo che all’esterno mostra spesso solo
:series
Due righe, infine, per una serie adolescenziale (che tanto piacciono al signor Netflix) soltanto apparentemente leggera. Si svolge in un sobborgo della sterminata periferia di Los Angeles. Neri e Latinos, gangs, spaccio, violenza, ma anche tormentate love stories. La comunità bianca dei bei quartieri sicuri e ordinati è solo una strisciolina parallela che scorre all’orizzonte e non si incrocia mai. 3 stagioni (2018-2019-2020) | Netflix. In corso
PS: Nessun giocatore di scacchi è stato maltrattato durante le riprese di queste serie. Gli scacchi non vengono MAI citati, nemmeno di striscio, ecco. a cura di Sergio Collavini
Dentro le quinte
:cinema
:cinema :preview
a cura di Loris Casadei
Fuori dalla storia
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Il metodo Barbera
L’identità di un Festival che abita il futuro
Nel salotto di casa o a letto. Sempre meno in sala. Sempre meno in presenza. Il cinema ci guarda. Ci somiglia. Ci viene a cercare. Si prende le nostre vite, sottratte all’esistenza fisica, tracciate, profilate, trasformate in prodotti di consumo. È il nostro destino, il nostro sentiero, dominato dalla tecnica, finalmente libera dal giogo del confine fisico e tra poco alleggerita anche dalla catena delle leggi e delle ideologie che tentano ancora di governarla. L’uomo è solo il mezzo di un’inarrestabile potenza in crescita. E non c’entrano Netflix o Amazon. C’entra l’Occidente, c’entrano le scelte compiute almeno due secoli fa, quando si consumava la gigantomachia tra natura e cultura che ha portato alla ridefinizione del naturale nell’orizzonte del possibile. I festival, nati nell’orbita del Capitale, ora frenato ora amplificato dall’idea di Arte, sono buoni interpreti del nostro tempo. E Barbera lo sa. L’uomo cresciuto nel dopoguerra, interprete e artefice della cultura che per prima ha intercettato questa contraddizione, la cultura cinéphile, che ha intravisto nella società dello spettacolo il simulacro di un mondo di là da venire, cresce nella metropoli più parigina d’Italia, la Torino industriale e colta della FIAT e della Mole, di Cinema giovani, ora Torino Film Festival, e del Museo Nazionale del Cinema, di cui è stato direttore. E poi Venezia e la sua Biennale, risposta italica alle grandi expo dell’era industriale, e la sua Mostra, veicolo di grandi capitali e volano di un territorio che doveva spostare a nord-est l’asse geoculturale del Paese, di pari passo con il grande progetto di industrializzazione disegnato da Volpi. Barbera lo sa e oggi, a settant’anni, ci appare homo novus. Pregno di retaggi tardoindustriali e contaminato dalle inarrestabili forze centrifughe che scaturiscono proprio dal conflitto interno alla cultura industriale. Uomo e macchina. Autore e industria. Arte e intrattenimento. Sala o piattaforma. Società o bolla mediatica. È qui che Venezia e il suo festival rinascono. Nelle pieghe di un conflitto in essere, che ha bisogno di un mediatore abile, anfibio. L’eleganza con cui Barbera ha ri-
solto la competizione con Toronto. La lungimiranza con cui ha dimostrato, schiaffeggiando sofficemente Cannes, che Netflix è cinema, ancorché piattaforma produttivoconsumistica e che il suo pubblico può essere merce, ma è anche occhio ed esperienza. E così alla pandemia, grande alleata della tecnica nella guerra scatenata ai limiti della fisicità, Barbera ha risposto palesando la contraddizione, costruendo presenza nella prospettiva di un’assenza. E c’è riuscito di fronte al mondo. Sapendo non solo ripensare la logistica della Mostra, ma il suo pubblico e la sua logica: l’autore, concetto caro al cinéphile, si mescola al genere, il singolare dell’opera al plurale della serie, il vicino al lontano. Con sobria sapienza. Dopo il vulcanismo di Marco Müller, il ritorno di Barbera nel 2012, dopo undici anni, aveva sortito un “effetto Luigi Chiarini”: la forma festival aperta e imprevedibile concepita dal suo predecessore lasciava il posto a un certo raffreddamento, a un ritorno all’ordine un po’ austero. Ma era il preludio di una riforma più profonda ed equilibrata, che ha saputo far proprie nuove istanze (l’apertura ai generi, alla serialità, agli sperimentalismi, alle nuove tecnologie) unendole ai fili che lungo la sua storia la Mostra veneziana ha tessuto con lungimiranza e che Barbera aveva già contribuito a riannodare nel corso del suo primo mandato: l’apertura al cinema “lontano” e “altro”, anche produttivamente, la legittimazione di forme e formati inconsueti, la riabilitazione del mercato, accanto alla difesa dell’autorialità come garanzia dell’artisticità a marchio Biennale. Record di film premiati agli Oscar, aperture equilibrate e appetitose per pubblico e sponsor, concorsi rigorosi, premi sorprendenti, veri e propri lanci in bilico tra Europa, Stati Uniti ed Oriente. Questo è Alberto Barbera, il più longevo direttore del festival più antico al mondo, ora chiamato ad accogliere una sfida non da poco: portare il cinema e il nostro sguardo fuori dalla pandemia, sempre più dentro il nostro tempo. Riccardo Triolo www.labiennale.org
«I want you to tell me why», chiede la madre al figlio nella sequenza finale di We Need to talk about Kevin (2011) del regista Lynne Ramsay, dopo un lungo minuto di silenziosi sguardi incrociati. Il film è pieno di terrificanti anticipazioni, come la perfetta sequenza della sbucciatura e masticazione di un litchi o l’iniziale battaglia di pomodori, ripresa come un rituale antico. Le visioni fluttuano al di fuori della storia, l’ordine cronologico non è rispettato, domina spesso il colore rosso, simbolo delle morti, talvolta la posizione del corpo della madre sembra essere quella di Cristo in croce. Poco importa il recupero di una motivazione finale, divisi gli spettatori tra coloro che ritengono che la madre sia stata risparmiata perché amata e coloro che, più sottilmente, vedono l’atto come estrema crudeltà nel lasciare sola una madre senza più alcun affetto o ragione di esistenza. Per noi è un tracciato perfetto per scrivere di cinema e videoarte. Quali sono infatti i codici espressivi mutuati? Occorre anticipare che già agli inizi del secolo scorso la videoarte era nata proprio dalla fascinazione della nuova tecnica cinematografica. Man Ray (Anémic Cinéma), Viking Eggeling, Rene Clair con il suo film d’esordio Entr’acte, László Moholy-Nagy sono tra i primi sperimentatori.
Oltre il linguaggio
:supervisioni
PLAYLIST
Gus Van Sant in Paranoid Park del 2007 usa spesso mettere i corpi fuori fuoco e utilizzare una ripetizione di suoni molto più vicina alla videoarte che non al cinema, valga per tutto la scena dello skateboarding su creazione sonora di Kashiwa Daisuke. O l’uso della musica. Bande des filles 2014 di Céline Sciamma inserisce una clip musicale utilizzando un video di Rihanna e subito prima la ragazza di fronte al video viene catapultata all’interno della trasmissione, alimentando una duplice realtà. Riflessioni che mi sono venute in mente in questi tempi di clausura, che segneranno a lutto il cinema nel buio delle sale come lo abbiamo vissuto nel secolo precedente. Ma forse cinema e arte sapranno rafforzarsi a vicenda. Greenaway e Bill Viola hanno dettato un percorso e Julian Rosefeldt ha anticipato in modo profetico nel suo Manifesto del 2015 la videoinstallazione con Cate Blanchett.
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prosa, danza, cabaret drama, ballet, cabaret
:theatro
La dimora degli artisti
Marta Dalla Via
Dal 2008
in avanti, l’abbiamo sentita un po’ tutti la storia che l’ideogramma cinese per “crisi” si compone di due caratteri, “pericolo” e “opportunità”. Un aneddoto efficace, perfetto per coach e counselor, tornato prepotentemente in era Covid e a quanto pare assolutamente falso – o comunque molto stiracchiato, mettiamola così. Fatta questa doverosa premessa, vi va bene se facciamo tutti finta di dimenticarcene, e teniamo la storia per buona? Perché davvero parlare del progetto regionale A Casa Nostra ci porta nel campo delle splen-
di Livia Sartori di Borgoricco dide opportunità che si aprono di fronte a chi, pur in un momento di grande difficoltà, decide di buttare il cuore oltre l’ostacolo e fare, agire, sperimentare, inventare nuove strade, nuovi modi, nuove sinergie. A Casa Nostra, sotto il coordinamento artistico di Giancarlo Marinelli, è un’innovativa piattaforma per la rigenerazione artistica e culturale promossa dalla Regione del Veneto che coinvolge otto compagnie del territorio che si occupano di spettacolo dal vivo, ospitate in residenza in altrettanti teatri del Veneto, che sono sì chiusi al pubblico ma non a queste compagnie che in qualche modo li tengono vivi, lavorando al loro interno a una serie di spettacoli che il pubblico potrà vedere in primavera. Nel frattempo, è possibile seguire l’avanzamento dei lavori online, partecipando a momenti di approfondimento per la comprensione del processo creativo dello spettacolo e la condivisione delle istanze espresse dai cittadini-spetta-
tori. Nel racconto che ne fa Marinelli, queste compagnie in residenza hanno il compito di riportare in diretta quello che sta succedendo, un po’ come degli scienziati, chiusi nei loro laboratori, che sono al lavoro per creare “il vaccino del teatro”, quello che, speriamo presto, sarà iniettato nelle vene del suo pubblico. Non un mero rimedio all’emergenza, ma proprio un nuovo modello operativo, nella misura in cui attiva un meccanismo di raccordo e coordinamento tra i soggetti istituzionali che si occupano di spettacolo dal vivo in regione: Arteven, Teatro Stabile del Veneto e Teatro Comunale di Vicenza, capofila del progetto per i Teatri Comunali. Un tassello importantissimo nella tanto auspicata costruzione di un reale sistema teatrale regionale. Al termine del progetto, ogni compagnia presenterà al pubblico, oltre al lavoro frutto della residenza, una produzione del proprio repertorio e un titolo di una compagnia ospite. Ecco quindi che al Teatro Comunale di Vicenza trova spazio Zebra, l’associazione culturale delle coreografe Chiara Frigo, Silvia Gribaudi e Giuliana Urciuoli: gli spettacoli di danza collegati alla residenza Memorie di intime rivoluzioni di e con Chiara Frigo e Silvia Gribaudi e FAQ LAB di Andrea Rampazzo sono in programma al Ridotto a fine gennaio. La Fondazione Aida con Febo Teatro è invece al lavoro al Comunale di Belluno per l’allestimento di un nuovo spettacolo di teatro-ragazzi, Il segreto del pifferaio magico, mentre al Teatro Ballarin di Lendinara La Piccionaia ha organizzato una serie di incontri online con gli artisti scelti per la residenza, gli attori-autori vicentini Fratelli Dalla Via, in collegamento dai boschi di Tonezza.
‘Padroni’ del Teatro Civico di Schio in questo periodo sono i Malmadur: sulla loro pagina Facebook è online il video realizzato come sintesi dell’evento site-specific dello scorso 15 novembre in cui è stata proiettata all’esterno del teatro la discussione avvenuta all’interno su piattaforma digitale, sul senso della creazione degli artisti “chiusi” dentro il loro luogo di lavoro. Sono invece terminati da qualche giorno al Teatro Salieri di Legnago gli incontri virtuali e la registrazione delle prove di StraborDante – Viaggio musicale in nove tappe nell’Inferno di Dante che l’associazione culturale nusica.org ha realizzato per celebrare in musica il 700esimo anniversario della morte del Sommo Poeta. Al Teatro Comisso di Zero Branco è appena entrata la compagnia SlowMachine impegnata in una scrittura originale a partire da due capisaldi del Novecento sul tema della malattia e della reclusione forzata: La Peste di Camus e Sorvegliare e punire di Foucault. Infine, al Teatro Metropolitano Astra di San Donà di Piave, Theama Teatro sta lavorando a un progetto dedicato allo scrittore Guido Morselli, rifiutato in vita dagli editori per essere poi rivalutato e acclamato dopo il suicidio nel 1973; mentre al Filarmonico di Piove di Sacco è stata ultimata la prima fase della residenza realizzata da Zelda per la produzione di Lessico Digitale, un progetto performativo e di indagine sociale sul territorio che si propone di dare voce all’evoluzione delle relazioni a distanza, attraverso il vissuto personale dei partecipanti, durante e dopo il lockdown. myarteven.it | www.tcvi.it
:theatro :storie2020
FESTIVAL
BIENNALE TEATRO
ESTIVA
Ricordo bene quei giorni, stavamo preparando il magazine di luglio/agosto, dalla fine del primo lockdown era trascorso circa un mese. Lo spaesamento era assoluto, le giornate trascorrevano cercando di capire se e chi avrebbe fatto cosa, e quando, oppure no. Come tutti gli eventi in quel momento, il Venice Open Stage era in attesa di conferma, un’attesa trepidante e molto sentita in città, soprattutto tra i giovani e tra i ragazzi di Cantieri Teatrali Veneziani, che questo festival da otto anni lo vivono e lo costruiscono. Poi, il 3 luglio, preceduto dall’immancabile hashtag #duriispalti, il sospirato annuncio dai social: «Il VOS scenderà in campo per l’ottava edizione da martedì 21 luglio a domenica 2 agosto». Capire che il Festival ci sarebbe stato, che il teatro dal vivo sarebbe tornato in città dopo mesi di stop forzato, è stato elettrizzante, un palpito di pura vita, un respiro a pieni polmoni. Pur costretti dalle continenze a ragionare per la prima volta su un cartellone senza accademie e scuole di teatro internazionali che animano solitamente il programma, gli organizzatori hanno messo a punto un’edizione speciale che ha portato in Campazzo San Sebastiano una selezione delle migliori compagnie professioniste e OFF del territorio, tra cui Woodstock Teatro, Dalla Via, Teatro Bresci, Matàz Teatro, Teatro Boxer, Farmacia Zoo:È. Venice Open Stage è stato 14 giorni di spettacoli dal vivo nel cuore del centro storico, più due sull’isola di Sant’Erasmo, nel totale rispetto delle normative anti Covid garantito da tutto lo staff, con una media di oltre cento persone contingentate a serata e nessun contagiato. I teatri, all’aperto e al chiuso, sono i posti più sicuri dove rifugiarsi: non lasciamoli vuoti! Chiara Sciascia
Grande rispetto porto ad Antonio Latella e i motivi sono vari. Ragioni culturali, di scelta degli spettacoli e di impegno teorico, in particolare lo scorso anno ha imposto il tema del drammaturgo, figura sconosciuta in Italia e confusa con il ruolo di regista. Ragioni umane, nella facilità di approccio e di apertura al dialogo e la sincerità nel rivelare come ha proceduto nella formazione del programma di questo difficile anno. Con un pizzico di furbizia. Compagnie italiane ovviamente, vista la difficoltà degli spostamenti, ma con occhio attento all’impegno di ricerca degli artisti, con promozione di spettacoli nuovi, una selezione da ‘circuito off’ senza possibilità di valutare in anticipo gli allestimenti scenici, una emozionante Biennale Teatro senza rete. Furbizia perché il tema del nascondino, della censura, permette e promette piena libertà di espressione, ma nello stesso tempo può attrarre un pubblico che avrebbe vari motivi per non partecipare. Quando per la prima volta ho letto il programma, confesso di aver avuto un brivido. Come è possibile portare in scena I fiori del male di Baudelaire. Avevo da poco ripreso queste poesie sonnambule alla ricerca di spleen e il profumo di tuberose in fase di decadenza non mi aveva ancora lasciato. Eppure la compagnia AstorriTintinelli ne annunciava la rappresentazione con il titolo Eh! Eh! Eh! Raccapriccio. Decido di andare. L’entrata in sala mi ricordava la notte di proiezione integrale di Nymphomaniac di Lars von Trier alla Mostra del Cinema. Pochi, guardandosi di sfuggita e meno male che ora vi è l’obbligo della mascherina. «Our show will be an disgusting overture, ma in do bemolle» commenta Astorri. Eppure ancora oggi attendo la riproposizione su un altro teatro per rivederlo. Altro difficile classico About Lolita. «Coraggio, ci vuole coraggio» esclama Andrea Trapani durante l’ambigua partita a tennis. Sì, e il coraggio va rispettato, sfidare un capolavoro della letteratura e due registi del calibro di Kubrick e Adrian Lyne non è facile e la critica spesso non è stata rispettosa. Neppure mia moglie, concertista classica e cresciuta ai tempi sovietici, ammiratrice di Marius Petipa e di Puškin, che mi ha abbandonato solo in sala. Eppure è un altro spettacolo che rivedrei volentieri e, credetemi, non solo per la grazia di Gaia Masciale. La canzone di Dalla rincara «... lasciati guardare…». Coraggio anche per rappresentare La città morta, dramma del nostro Vate nazionale, da sempre distrutto dalla critica, che aveva accusato D’Annunzio di aver ricopiato (male!) la tragedia greca classica di Ifigenia. Tanti i motivi per non scegliere questo testo, D’Annunzio non è certo più di moda da molto tempo, sconosciuto ai giovani, trascurato nelle Università, poi un tema sotterraneo che stenta ad emergere, a sua volta legato a una visione del mondo di altri tempi, infine una recitazione che recupera stilemi classici. Ma proprio per questo devo ringraziare il regista Leonardo Lidi, chi mi lascia il dubbio (amletico?) del significato della maschera di Agamennone. E di Glory Wall di Alessandro Manzan che dire? O dello stupendo La filosofia nel boudoir di Fabio Condemi con Carolina Ellero?... .mia moglie si avvicina. Meglio interrompere. Loris Casadei
È stato come tornare ad assaporare del primo dolce gelato dopo un lungo inverno la bellissima idea di ritornare subito a godere dello spettacolo dal vivo grazie alla Stagione Estiva che il Teatro Stabile del Veneto ha con grande impegno programmato, riscuotendo il plauso e l’entusiasmo di tutti. Il Teatro Goldoni di Venezia dal 24 luglio al 5 settembre ha riportato finalmente il pubblico nella sala teatrale più antica di Venezia, per tornare ad assaporare Tutti i gusti del teatro, nove appuntamenti tra nuove produzioni, anteprime e spettacoli di repertorio. Dopo mesi di chiusura, ci siamo buttati a capofitto, nel rispetto di tutte le norme di sicurezza, dalla sanificazione al distanziamento dei posti, all’obbligo di mascherina, per godere di un programma ideato all’insegna della pluralità che spaziava dai grandi classici alla nuova drammaturgia, dal teatro di narrazione alla Commedia dell’arte, attraverso temi che parlavano sempre e comunque al nostro tempo. Storie di donne al fianco di molte altre storie, vite e racconti tutti all’insegna di libertà e coraggio: in scena Ottavia Piccolo, Andrea Pennacchi, Lucia Schierano, Stefano Rota, Eleonora Fuser, Paolo Rossi... È stata un’estate dai mille colori e sapori, che avremmo voluto non finisse. E poi c’è la cronaca... quella che purtroppo ha costretto in autunno a rifermare tutto, a rinviare le nostre emozioni, a congelare le nostre storie. M.M.
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Duri i spalti!
Ragione e sentimento
Una stagione calda
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STREAMING
Un divano in prima fila
Dopo il successo di Una Stagione sul Sofà, palinsesto digitale che durante il primo lockdown ha intrattenuto il pubblico da casa con oltre 300 contenuti proposti, superando quota 1milione e 300mila visualizzazioni, il Teatro Stabile del Veneto ha scelto di arricchire la propria proposta online ideando Backstage, la prima piattaforma digitale con contenuti teatrali realizzati ad hoc per il web. Layout accattivante e intuitivo, che rende familiare l’utilizzo agli utenti delle ‘cugine’ televisive Netflix o Prime, la piattaforma, completamente gratuita, offre la possibilità di esprimere il proprio gradimento con un like, commentare i contenuti e creare playlist personalizzate. Il teatro in streaming certamente non potrà mai sostituire lo spettacolo dal vivo, ma nuove forme di utilizzo, come Backstage, riescono a renderlo ancor più accessibile grazie alle potenzialità del digitale, coinvolgendo sempre più pubblico anche in un momento di stallo come il presente. Nel variegato catalogo, oltre ai video di maggior successo di Una Stagione sul Sofà, come i racconti dell’Odissea e dell’Iliade di Omero non piange mai di e con Andrea Pennacchi, la Figlia di Shylock con la scenografia virtuale firmata da 4Dodo, la web-serie #YuriLibero di Matteo Righetto e la rassegna di fiabe Famiglie connesse, troviamo video-spettacoli integrali come Le regole dell’adolescenza, dedicato alle scuole con la Compagnia Giovani dello Stabile diretta da Lorenzo Maragoni, o un inedito racconto di Pennacchi che sarà presentato nei prossimi mesi e, ancora, affascinanti approfondimenti dedicati al “dietro le quinte”. Dopo il nuovo stop alle attività teatrali, lo Stabile del Veneto ha scelto di non fermarsi e spostare sul palcoscenico virtuale di Backstage il debutto di Romeo e Giulietta. Una canzone d’amore di Babilonia Teatri, con Ugo Pagliai e Paola Gassman, che avrebbe dovuto inaugurare la Stagione del Teatro Goldoni. Un’esperienza che il pubblico ha immediatamente apprezzato, e che potrà ripetere domenica 13 dicembre con il debutto online della nuova produzione I due gemelli veneziani (vedi inserto Natale p.9) per la regia di Valter Malosti. backstage.teatrostabileveneto.it
BIENNALE DANZA
L’assenza di lei è presenza
PLAYLIST
La Ribot - Courtesy La Biennale di Venezia - Photo Andrea Avezzù
Siamo a fine settembre e ancora non vedo il programma definitivo. Anche le vendite di biglietti non sono iniziate. Che ci crediate o no sono in ansia. Negli ultimi tre anni non mi sono perso uno spettacolo e vorrei completare questo ciclo di direzione di Marie Chouinard. In particolare vorrei assistere agli spettacoli di La Ribot, Leone d’oro di questa edizione. Ho visto tutte le sue rappresentazioni in Italia e ho fatto per lei anche un viaggio a Parigi. No, in realtà non proprio solo per lei, anche il Musèe de l’Homme mi attendeva. Alla conferenza stampa di presentazione, rigorosamente online, Marie Chouinard, visibilmente in imbarazzo nel presentare un programma che aveva sicuramente scelto direttamente solo in parte, era riuscita a trovare una nota di speranza anche nella pandemia che ci affliggeva: «un fatto positivo, nel golfo di Napoli sono riapparsi i delfini!». Ma La Ribot, pur annunciata in apertura e chiusura del Festival con il ciclo completo dei suoi Piezas distinguidas (titolo tratto da Les Trois Valses Distinguées du Précieux Dégoûté di Erik Satie) non compariva nel programma. Non resisto e conoscendo l’estrema gentilezza e pazienza dell’Ufficio stampa, chiedo lumi. Avrei dovuto saperlo: le sue performance sono normalmente ospitate nei corridoi e nelle sale di musei e istituzioni culturali. Il pubblico deve essere libero di muoversi e interagire. Quindi ancora nessuna decisione su quanti spettatori possono essere accolti. Poi ho dovuto recarmi all’estero e al ritorno i biglietti erano ormai esauriti. L’HO MANCATA! Ma mi sono ripromesso che una visita a Barcellona al Mercato dei fiori, luogo simbolo delle sue presenze, o a Londra alla South London Gallery, mi ripagherà di questa perdita. A ‘consolarmi’ in ogni caso ho Claudia Castellucci, Chiara Bersani, e soprattutto Lisbeth Gruwez, non solo con la ripresa dello spettacolo dedicato a Bob Dylan
(ma senza riproposizione di sigarette e birre, che avevano creato ambiente nelle rappresentazioni precedenti), ma anche in un raffinato incontro con la pianista Claire Chevallier in Piano Works Debussy. Ho visto quest’anno molta danza rispetto agli anni precedenti, anche se a dirlo mi prenderei qualche bacchettata sulle dita da parte di Marie Chouinard, che in ogni intervista ha sempre rifiutato una qualsivoglia distinzione tra performance e danza. Il 24 ottobre, quasi a chiusura, quello che non ho paura di definire ormai un classico degli spettacoli di danza contemporanea: Graces di e con Silvia Gribaudi. Vorrei citare però anche gli altri tre artisti sul palco: Siro Guglielmi, Matteo Marchesi e il simpaticissimo e bravo Andrea Rampazzo. Perché questo spettacolo mi ha deliziato? È danza vera, ma con una presa in giro delle movenze aggraziate – il titolo è ripreso dalla famosa scultura di Canova, simbolo delle proporzioni e bellezza neoclassica – e allo stesso tempo è ironico su tutti gli sforzi muscolari che sono spesso al centro di molte performance. Talvolta il movimento quando si fa estenuante viene interrotto con evidenza espressiva della fatica. E, non da ultimo, una capacità comunicativa con il pubblico che solo una voglia di complicità e un’estrema confidenza con il proprio corpo può permettere. Ora attendo con speranza Wayne McGregor, neonominato direttore del settore Danza con il suo espresso intendimento di “sentire e toccare il pubblico”. La sua pratica nel cinema e la sua sperimentazione dell’Intelligenza Artificiale applicata al linguaggio della danza promettono bene. Se il Covid sarà sotto controllo, per i biglietti rifarò le file all’alba cui mi sottoponevo da giovane per conquistare un ambito posto a teatro. Loris Casadei www.labiennale.org
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ACCORDI
CIRCUITI
Un accordo storico quello siglato lo scorso luglio tra il Teatro Stabile del Veneto e il Circuito teatrale del Veneto Arteven, che ha finalmente gettato le basi per la nascita della Piattaforma veneta di promozione culturale per il teatro, pietra angolare di una nuova fase della gestione teatrale sul territorio. Un’intesa importantissima promossa dalla Regione cui spetta il compito di vigilare sulla corretta esecuzione del rapporto, e che va a innescare una forte sinergia a favore del sostegno e dello sviluppo dell’intero settore teatrale. La Piattaforma, di cui il Teatro Stabile del Veneto curerà l’implementazione anche per conto di Arteven, è stata costituita al fine di gestire la collocazione sul mercato di spazi pubblicitari e promozionali non solo nei tre grandi teatri già gestiti dallo Stabile, ma anche nei numerosi teatri di tutte le dimensioni storicamente collegati ad Arteven, di cui il territorio regionale è particolarmente ricco. Inoltre, grazie a un tavolo annuale, che permette una maggiore collaborazione nella programmazione delle produzioni, le due Istituzioni dallo scorso ottobre lavorano fianco a fianco, concentrandosi su tre diverse tipologie di spettacoli in modo da poter incontrare le esigenze degli spazi teatrali di grandi, medie e piccole dimensioni. «Con questo accordo vogliamo contribuire affinché l’offerta teatrale sia distribuita ancor più capillarmente in tutto il territorio regionale definendo in maniera condivisa con il Teatro Stabile le produzioni che valorizzano il teatro veneto» ha affermato il Presidente di Arteven, Massimo Zuin, durante la conferenza stampa al Teatro Dal Monaco di Treviso. Una firma che secondo Giampiero Beltotto, Presidente dello Stabile «riunisce il territorio e il teatro veneto in unica piattaforma culturale, nella condivisione degli spazi e delle piazze, nel rispetto dei singoli ruoli e senza nessuna prevaricazione, ma solo con un lavoro di squadra e nell’intento di generare cultura e quindi ricchezza. Un circolo virtuoso che dà modo al teatro veneto di produrre spettacoli di qualità, far lavorare le compagnie locali, competere con i palcoscenici europei e iniettare risorse e cultura su tutto il territorio regionale». Quella tra Arteven e lo Stabile è un’alleanza fondamentale, di cui tutti attendiamo con impazienza di poter cogliere i frutti, e che consente al teatro veneto di reagire e ripartire in un momento tanto incerto in cui unire le forze e far fronte comune davanti a una crisi senza precedenti diventa necessario, vitale, irrinunciabile.
In questo benedetto-maledetto 2020 Arteven celebra una storia di successi lunga 40 anni, in cui si stima abbia portato in scena oltre 30mila spettacoli visti da oltre 7,5 milioni di spettatori, di cui 1,5 milioni di ragazzi delle scuole dell’obbligo. Attualmente presieduto da Massimo Zuin e diretto da Pierluca Donin, riconosciuto dal Mibact come circuito regionale multidisciplinare più importante del Paese, Arteven è partecipato dalla Regione Veneto e conta oltre ottanta associati pubblici. Quest’estate, slittati i festeggiamenti a causa dell’emergenza sanitaria, Arteven non si è fermata, ripensandosi e ridefinendosi, arricchendo la propria squadra con una figura strategica: il direttore artistico. La scelta è ricaduta sullo scrittore e drammaturgo vicentino Giancarlo Marinelli, che in Arteven è «cresciuto e vissuto, imparando come ci si rapporta con il pubblico e come si costruisce uno spettacolo». Proprio per questo per Marinelli poter «dare oggi uno sguardo d’insieme ai tanti teatri che Arteven sovrintende è la maniera migliore per cercare di mettere quello che ho imparato a servizio delle compagnie venete e dei giovani che stanno emergendo in un momento così difficile, contraccambiando in questo modo la possibilità che mi è stata data di essere diventato quello che sono oggi», ci raccontava il neo direttore durante un’intervista lo scorso settembre. Veterano dell’organizzazione di Festival, cimentatosi in diverse esperienze con successo, tra cui il Ciclo di Spettacoli Classici all’Olimpico di Vicenza – suo “sogno di bambino realizzato” – Giancarlo Marinelli si è messo subito al lavoro, mettendo a punto una serie di attività a supporto delle compagnie nelle scelte programmatiche e agli 85 Comuni soci nella promozione delle stagioni teatrali. Ma se l’estate, con la rassegna Il teatro torna a casa, in collaborazione con lo Stabile del Veneto, ha disseminato in tutto il territorio regionale ben 200 spettacoli, riportando in scena fino a settembre decine di compagnie in totale sicurezza in piazze, giardini e cortili, l’autunno, dopo una timida ripartenza dei teatri carica di speranza, ha visto (ahinoi!) calare inesorabilmente il sipario sui palcoscenici cittadini, con lo sfacelo che ne consegue per l’intero settore. In ogni caso, la parola d’ordine è “vietato arrendersi”: bisogna reagire, lo spettacolo, che è esso stesso vita, deve continuare. Arteven con Marinelli in testa risponde subito concretamente alla rinnovata serrata
Gioco di squadra
Abitare il teatro
dei teatri con il progetto Radiodrammi, una “novità antica” che riprende la grande tradizione del teatro italiano alla radio adattandola alla contemporaneità. Tornati ad ‘abitare’ il Teatro Comunale di Vicenza, decine di gruppi teatrali coinvolti nel progetto sono stati chiamati a trasportare sul mezzo radiofonico romanzi, racconti e pièce teatrali dei grandi autori veneti, da Meneghello a Cibotto. I video delle letture, accompagnate da performance di danza e musica dal vivo, sono trasmesse in diretta streaming sulla pagina facebook e sul canale YouTube di Arteven e rese disponibili in podcast tramite Radiovenetodramma su Spotify e Spreaker, andando a costituire così un grande parco letterario digitale accessibile a tutti. Parallelamente Arteven prosegue con grande impegno anche l’attività di formazione nelle scuole e sperimenta la DAD per le lezioni/spettacolo, un progetto d’eccellenza che da ben 21 anni permette ai ragazzi delle scuole della Regione di avvicinarsi al teatro. Inevitabilmente oggi le lezioni si svolgono a distanza, attraverso l’uso del computer, con gli attori in diretta dall’altra parte dello schermo, permettendo il dialogo tra le parti come fossero in classe. E se i ragazzi a scuola possono continuare a vivere e respirare il teatro, per tutti gli altri Arteven, a conferma della propria resilienza, ha lanciato il 2 dicembre il progetto Schiusi – I teatri sono vivi. Teatro Metropolitano Astra di San Donà di Piave, Teatro Luigi Russolo di Portogruaro, Teatro Comunale di Thiene, Teatro Sociale di Cittadella, Teatro Ballarin di Lendinara, Teatro Toniolo di Mestre sono solo i primi ad aprire porte e sipario per ospitare virtualmente il pubblico teatrale e non che, comodamente da casa, potrà scoprire queste bellissime realtà del territorio grazie a una serie di video-tour ideati per descrivere gli spazi, illustrarne la storia e incontrare alcuni degli artisti più celebri che ne hanno calcato i palcoscenici. A inaugurare l’iniziativa, partita dal Teatro Astra, è stato l’attore Alessio Boni che lo scorso gennaio su quel palco aveva portato in scena il suo fortunato Don Chisciotte. Lo seguiranno, con i loro racconti Giuliana De Sio, Laura Morante, Maria Amelia Monti e Ferzan Ozpetek dal Toniolo che avrebbe dovuto ospitare a gennaio l’atteso Mine Vaganti e si è trovato invece costretto ad annullare l’intero cartellone… Le voci dei grandi protagonisti raccontano quel magico luogo dove tutti siamo in attesa di tornare.
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ARCHIVI
… è un’altra vita
Ritratto di Franco Scaldati. Fotografia di Dario Enea
... che devo scrivere? … e che c’è da scrivere? Ho scritto delle cose e le leggo Chi vuole sapere venga ad ascoltare… Squadre di assassini braccano i poeti Prima vengono isolati e, abbandonati dalle persone amate, vengono uccisi I poeti non capiscono niente Sono sempre in un altro mondo Signore, lei è un abusivo, sa? Mi hanno sparato Vabbè, da morto è un’altra vita (Franco Scaldati, febbraio 2001) Tra le Storie 2020 da raccogliere e fotografare in questo nostro ideale ‘album di ricordi’, c’è certamente la recente acquisizione dell’Archivio Franco Scaldati da parte della Fondazione Giorgio Cini. Lo scorso 10 novembre, durante una partecipata conferenza stampa online, ricca di ospiti e contenuti (visibile sul canale YouTube della Fondazione), Maria Ida Biggi, direttrice dell’Istituto per il Teatro e il Melodramma, ha presentato l’acquisizione dell’archivio personale del poliedrico artista palermitano Franco Scaldati (Montelepre, 1943–Palermo, 2013), donato a San Giorgio per volere dei figli, Giuseppe e Gabriele, e della moglie Margherita. L’Archivio è un’eredità preziosissima, organizzato in circa sessanta faldoni di materiale documentale, include copioni, note e affascinanti scritti autografi, locandine e programmi di sala, corrispondenza, e una corposa rassegna stampa.
Nel fondo sono conservate diverse versioni di materiale noto e inedito, quadri sciolti, opere complete e collage creati a partire da testi preesistenti. Ciascun titolo è documentato nell’evoluzione drammaturgica che ha avuto nel corso dell’intera carriera di Scaldati, i cui testi sono frutto di un lungo e costante lavoro di revisione, riscrittura e assemblaggio, variazioni di minore entità o decisive rivoluzioni. «Franco nutriva un profondissimo rispetto per la sua pratica di scrittura – ha spiegato Viviana Raciti, dottoranda dell’Università di Tor Vergata che ha lavorato al recupero e all’organizzazione dell’archivio –, una pratica che lo ha portato a redigere decine di migliaia di pagine con una cura certosina, che lui equiparava all’ossessione dei santi, ma con l’obiettivo di trasformare, attraverso la sua poesia teatrale, quella carta che quotidianamente produceva e consumava in fiori, in ricami, ovvero in qualcosa di vivo e meraviglioso […] ha sempre rivendicato la possibilità che attraverso la scrittura si potesse ottenere una sublimazione del reale senza staccarsene, contrario all’idea di intendere la scrittura come qualcosa di utile, ma piuttosto come un atto profondamente trasformativo e umano». Il viaggio di Franco a Venezia non è un abbandono di Palermo dove è vissuto e in cui sono nati i suoi personaggi più celebri, a cominciare da Aspano e Benedetto de Il pozzo dei pazzi, Lucio, Totò e Vicè, Fortunato e Squardaquasette, Santo e Saporito…, per cui tanto ha scritto e faticato, con i suoi ruderi, i suoi barboni, i suoi angeli, le sue creature, i suoi sogni arabi, resterà sempre la città di Franco ed egli ad essa sempre apparterrà. Venezia diventa ora per lui «un porto da cui potrà partire per nuovi viaggi e altri Paesi, come è giusto che sia, perché scrivendo di Palermo, con le sue immagini crude e violente oppure tenere e sognanti, Scaldati ha scritto e descritto un’umanità, rendendo universali i suoi personaggi: Palermo come metafora dell’universo umano», racconta Melino Imparato, storico attore e ora direttore della Compagnia Scaldati e grande interprete dei suoi testi. La Fondazione Cini può infatti assicurare, grazie ai suoi riconoscimenti in ambito nazionale e internazionale, un lavoro attento e scientificamente accurato di recupero, restauro e catalogazione delle migliaia di pagine di cui è composto l’Archivio, che verranno interamente digitaliz-
zate e messe a disposizione di tutti gli studiosi e artisti che, ovunque nel mondo, desiderino conoscere, approfondire e riprendere l’opera e la poetica di Scaldati. Nell’ottica della divulgazione, i progetti in cantiere sono diversi, dalla Giornata di Studi e la messa in scena di una sua opera, in programma per il prossimo 13 aprile 2021 nel giorno del compleanno di Scaldati, alla pubblicazione dell’opera omnia del “sarto poeta”: un ambizioso progetto, che sarà finanziato dalla Regione Sicilia, e raccoglierà in 6 volumi 63 testi totali, tra noti e inediti. La sfida per Valentina Valentini, storica del Teatro Contemporaneo dell’Università La Sapienza di Roma, che curerà la pubblicazione insieme a Viviana Raciti, è restituire l’opera di Scaldati «nel modo più corretto e rigoroso possibile dal punto di vista della traduzione e del rispetto filologico della sua scrittura e del suo modo di scrivere, che è legato al suo respirare le parole, al sentirle nello spazio con la voce, perché quella di Franco è una scrittura teatrale, poetica, un disegno sulla pagina che è già di per sé una messa in scena». L’Archivio e la pubblicazione dell’opera permetteranno finalmente al teatro di Scaldati di vivere e respirare nel contesto letterario e scientifico che gli compete e «di liberarsi di quell’ombra in cui è vissuto e che lui tutto sommato non dispiaceva – ha precisato sempre Valentina Valentini –, ma che ha alimentato dei pregiudizi nei confronti della sua opera, come se questa fosse impenetrabile, impossibile da collocare nel contesto della storia della letteratura italiana. Pregiudizi che da un lato concernevano l’insularità di Franco, data dalla lingua, dal suo dialetto arcaico, ma che dall’altro rivelano un’interpretazione molto superficiale […], un’incomprensione, una propensione a ignorare la grandezza di questo scrittore e attore, del suo teatro e del suo mondo […] avere qui a disposizione tutti insieme i documenti originali del suo lavoro è un fatto straordinario, e spero possa essere utile per arrivare alla giusta lettura e alla comprensione del suo teatro e della sua drammaturgia, che è basata indubbiamente sull’invenzione, sulla fantasia, sulla sua grandissima capacità poetica ma che allo stesso tempo ha uno stretto legame con la realtà». Benvenuto, Franco! C.S. www.cini.it
Esempi di materiali relativi allo spettacolo Lucio. Archivio Franco Scaldati, Istituto per il Teatro e il Melodramma, Fondazione Giorgio Cini, Venezia. Foto di Michele Crosera
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Alchimisti all’opera
L’incantesimo dei colori di Ricci/Forte: il Teatro riparte dall’Uomo
Photo Andrea Avezzù
Sono trascorsi esattamente dieci anni. Era il 18 novembre 2010, Biennale Teatro, edizione 38. Mi trovavo sprofondata in una poltrona tra le prime file della platea del Teatro Goldoni, in scena Macadamia Nut Brittle di Ricci/ Forte. Sul mio volto si susseguivano una moltitudine di espressioni diverse, dallo stupore al disgusto, dalla compassione alla rabbia. Una lacrima bruciava gli occhi per uscire, un sorriso abbozzato lasciava il passo a una risata amara, e poi quel fremito alla bocca dello stomaco, quasi ti morsicasse un po’ di vergogna per il tuo stesso cinismo. Quella sera uscii dalla sala ‘nuda’, privata di uno strato di epidermide, vagamente stordita, avvolta da un groviglio di sensazioni che non avrei saputo descrivere a caldo. Era il mio primo, indimenticabile incontro con il teatro di Ricci/Forte; come un’ingenua Alice precipitata nella tana del Bianconiglio, attirata da uno dei miei gusti preferiti del gelato Häagen-Dazs, finii catapultata nell’universo lisergico, psichedelico e spietatamente reale del duo teatrale milanese, che oggi, una decade più tardi, con sincero entusiasmo e malcelata curiosità ritrovo alla guida della stessa Biennale Teatro per i prossimi quattro anni. Autori-registi di culto del teatro di ricerca italiano, riconosciuti a livello internazionale come una delle realtà più rappresentative della scena contemporanea, Stefano Ricci e Gianni Forte lo scorso 27 ottobre sono stati infatti nominati direttori del settore Teatro dal Presidente Roberto Cicutto insieme al cda della Biennale per il quadriennio 2021-2024. Dopo gli anni di formazione all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico con Luca Ronconi e alla New York University con Edward Albee, Ricci e Forte formano l’omonimo ensemble nel 2005 e l’anno successivo debuttano con Troia’s Discount, che conquista immediatamente l’attenzione di pubblico e critica. Il loro sguardo lucido e feroce sul contemporaneo sfocia in un
linguaggio onirico in cui la poesia è l’unico antidoto allo sconforto: Ploutos, da Aristofane, vince il premio della Critica come migliore drammaturgia alla Biennale Teatro 2008. Seguono il sopracitato Macadamia Nut Brittle, Abbastarduna, con la regia di David Bobée, Pinter’s Anatomy e Grimmless, altra indimenticabile messa in scena al Teatro Fondamenta Nuove per il Festival del 2011, Imitationofdeath, 100% Furioso al NET Festival di Mosca, Still Life, che si aggiudica l’Oscar come miglior spettacolo straniero nel 2017 al Festival Internazionale Teatro Mercosur di Cordoba in Argentina, Darling (ipotesi per un’Orestea), TroiloVSCressida. E ancora La ramificazione del pidocchio, PPP – Ultimo inventario prima di liquidazione, entrambi sull’universo poetico di Pier Paolo Pasolini, e Easy To Remember, omaggio alla poetessa russa Marina Cvetaeva. Ricci/Forte attraversano svariati mondi, scandagliando territori inesplorati con una visione sempre dettata da una curiosità vitale, passando dal teatro alla lirica, che li incorona con il Premio Abbiati 2018 per la regia di Turandot al Macerata Opera Festival, alla tv, per cui scrivono fiction di successo e si mettono alla prova come conduttori nel recente “doc on the road”, Hic Sunt Leones, realizzato per Rai3, in cui alla guida di un camper girano il Paese dando voce a piccoli grandi eroi, veri “leoni” del quotidiano. Il progetto di Ricci/Forte per il quadriennio in Biennale si articola in una tetralogia, scandita da diversi colori, cieli differenti sotto i quali disegnare nuove relazioni tra le arti e far germinare qualcosa nel tempo. Domanda ontologica: cos’è per Ricci/Forte il teatro? De te fabula narratur diceva Orazio nelle sue Satire: il teatro dal vivo – nella sua unicità di media più longevo e generatore di dubbi – è una fonte di conoscenza di noi
stessi e del mondo intorno a noi; è un forum, una piattaforma con una funzione di servizio pubblico e nutrimento fondante della vita quotidiana di tutti i cittadini e conseguentemente della crescita del nostro Paese. Il teatro è stato e resterà sempre il cavallo di Troia per prendere la città, permettendoci di riavvicinarci alla sua arena come luogo di vita condivisa e di discussione pubblica, così come si faceva nell’antica Grecia. Per restituire quella coscienza politica e poetica che rende adulto uno Stato, per risollevarci dalle secche della banalizzazione culturale e combattere la desertificazione dello spirito. Una direzione nel segno della continuità oppure un cambio di rotta, in un momento storico come il nostro in cui i sipari sono letteralmente calati all’interno di sale vuote? La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro. Anche se in questo tempo storto e buio per la Cultura dobbiamo fare i conti con una vertiginosa incertezza che pende sulle nostre teste come una spada di Damocle, noi Ricci/ Forte – con le armi dello stupore poetico e come due guerriglieri che guardano la realtà con i loro occhi, senza alcun filtro, per proporre uno sguardo critico su quello che attraverseremo in futuro e offrire una nostra visione del mondo che guarda oltre il recinto di casa – siamo pronti per partire alla volta di magnifiche avventure della creazione sia artistica che umana. Il nostro progetto per l’edizione 2021–2024 di Biennale Teatro si delineerà e prenderà la forma di una tetralogia, composta appunto da quattro parti con una matrice tematica differente per ciascun anno, centrata sull’esplorazione dell’Uomo oggi e delle sue complesse sfaccettature, alla maniera de la Comédie Humaine di Balzac, e legata simbolicamente ad uno specifico “colore”, un pigmento che agirà da principio attivo e ci ‘contagerà’ emotivamente, rivelando un’altra percezione del pianeta che abitiamo, senza tralasciare l’evoluzione del carattere e del comportamento di noi stessi. Sarà un cantiere di progettazione e scambio, di sperimentazione, un laboratorio alchemico di idee, in collaborazione con le altre sorelle e fratelli di Biennale: ibrideremo arcipelaghi linguistici/ visuali/acustici/materici per permettere allo spettatore di tirare fuori da questo cilindro magico incantesimi caleidoscopici. Chiara Sciascia www.labiennale.org
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Non è soltanto una questione di teatri aperti o chiusi, si tratta di ridare dignità a un’intera categoria di lavoratori dello spettacolo, sul palco e intorno al palco. Per questo motivo, in un momento così drammatico, anche noi di Venezia News, che di cultura e spettacolo viviamo e respiriamo, abbiamo deciso di ospitare la richiesta di azione di RES – REte Spettacolo dal vivo, neonata associazione fondata per dare voce alle moltissime realtà del settore dello spettacolo dal vivo che compongono un panorama estremamente dinamico e attivo.
Il ruggito dell’anima
Verso nuove frontiere la Biennale Danza del “cyber coreografo” Wayne McGregor
Raven Girl
È il coreografo britannico Wayne McGregor a raccogliere il testimone della direzione del settore Danza della Biennale, dopo il quadriennio completato nel 2020 da Marie Chouinard. Nato a Stockport, classe 1970, ragazzo d’oro della coreografia britannica, McGregor inizia presto la sua carriera. A soli 22 anni, nel 1992, viene nominato coreografo residente al The Place di Londra; nello stesso anno fonda la sua prima compagnia, Random Dance. Una decina di anni più tardi diviene coreografo residente del Sadler’s Wells di Londra e poco dopo il primo coreografo contemporaneo cui sia stata assegnata la residenza al Royal Ballett di Covent Garden, che con lui diviene portavoce di cosa sia oggi il balletto contemporaneo: un titolo su tutti, il suo Woolf Works, sulla vita e le opere di Virginia Woolf, vincitore del Laurence Olivier Award, andato in scena anche al Teatro alla Scala durante la stagione 2018-19. Oggi è alla testa del londinese Wayne McGregor Studio, un’avanguardistica rete creativa che allarga le frontiere dell’intelligenza del corpo attraverso la danza, il design, la tecnologia. Il lavoro di McGregor affonda le radici nella danza, ma abbraccia una molteplicità di ambiti che includono la tecnologia, le arti visive, l’opera e la formazione, al pari della compagnia omonima di danzatori, Company Wayne McGregor, che presenta i suoi spettacoli in tutto il mondo. Il cinema è un’altra delle sue grandi passioni: vi lavora come coreografo e direttore dei movimenti collezionando svariati successi: Harry Potter e il calice di fuoco, Maria regina di Scozia, Sing, i primi due film della saga Animali fantastici e dove trovarli, Audrey, nuovo docufilm di Helena Coan, che racconta la Hepburn a partire proprio dal suo grande amore per il balletto. Durante il primo lockdown McGregor ha lanciato il progetto Reset 2020 dedicato al sostegno dei danzatori freelance, avviando un programma di dieci settimane che li aiutasse a equilibrare l’aspetto artistico con la gestione economica del fare danza. Una visione olistica che McGregor ha intenzione di trasferire anche al College per i giovani danzatori della Biennale. Il suo progetto per Biennale Danza è strettamente connesso al presente, per una danza in grado di comunicare direttamente con il pubblico, senza filtri, comprensibile a tutti, proiettata verso i nuovi linguaggi dell’innovazione tecnologica, dall’intelligenza artificiale alla realtà virtuale. Lei ha sempre avuto un interesse per la tecnologia e ha una visione pluralista della danza. Volendo usare un paragone con la musica, spazia dal pop alla classica. Cos’è davvero per lei la
Alza la testa
Photo Andrea Avezzù
danza? Cosa porteranno la sua esperienza e la sua energia in Biennale? Durante questa orribile pandemia siamo rimasti a lungo chiusi in casa davanti ai nostri computer. Ora vogliamo liberarci, sfogarci e fare esperienze fisiche intime e collettive. Ci vuole ancora un po’ di pazienza, ma il momento è ormai vicino. La cosa più bella della danza, la forma d’arte che mi appassiona di più, è proprio la pluralità che la connota: ci sono così tante voci nel suo esprimersi e sono tutte bellissime. Nella danza gli artisti rifiutano ogni definizione e parte del piacere di scoprire nuove opere è comprendere l’infinito potenziale del corpo umano come veicolo di espressione e comunicazione. La Biennale offre una piattaforma incredibile per questa sperimentazione: la città, i luoghi, l’ethos, l’atteggiamento, tutto si combina in un formidabile punto focale di possibilità. Vogliamo invitare molti artisti alla Biennale per permettere loro di illuminare la nostra immaginazione. Compagnie di danza che vedremo impegnate a costruire il loro percorso qui con noi, dimostrando la loro intelligenza motoria ispirando così la nostra. Può la danza moderna, quella che vediamo nei festival d’avanguardia, liberarsi del suo carattere elitario e diventare una forma d’arte performativa che sia godibile da un pubblico più ampio, che ci sembra ora pronto per capire il movimento del corpo come forma d’arte? C’è qualcosa che tutti gli esseri umani hanno in comune: un corpo. Questo incredibile strumento di scambio d’energia, di empatia, di flusso, è qui pronto per essere usato e per suonare melodie diverse. Tutti danziamo, o almeno tutti dovremmo. Considerato questo mezzo condiviso sembra insensato dire che uno spettacolo di danza moderna sia alienante o distante dai gusti del pubblico; eppure spesso ancora si vive questa disposizione per me deleteria. Può essere che ci manchi qualcosa per comprendere la danza in tutta la sua compiutezza, possiamo non avere la necessaria conoscenza per interpretarla a dovere, ma la danza ha bisogno solo di noi persone, oltre ogni steccato culturale, della nostra piena apertura mentale e curiosità per avere un suo sensato effetto, per avere una voce. Nelle prossime Biennali presenteremo opere che siano viscerali e dirette, danze e danzatori che ci parlino direttamente, nel momento, di cose che capiamo o che siamo disposti a capire. Una danza che sia connessa al mondo reale, non che viva in un mondo tutto suo, autoreferenzialmente: una danza accessibile e radiosa, grezza e piacevole, che faccia ruggire l’anima. Chiara Sciascia www.labiennale.org
«In questi mesi ci siamo adeguati alle indicazioni e i protocolli del governo e del CTS rendendo le sale e gli spazi luoghi sicuri. A differenza di altri settori i nostri spettatori non entrano in contatto né con altri utenti, né con le maestranze né con gli artisti. La fruizione degli spettacoli è composta, tracciata, statica, i posti sono ad uso singolo, igienizzati e sanificati. Siamo stati rispettosi dello stato e di ogni sua norma. La nostra protesta è sempre stata ed è tuttora pacifica e civile. Abbiamo messo in campo professionalità, passione e risorse economiche per resistere alla pandemia. Nonostante questo ora siamo costretti nuovamente a chiudere. Il governo propone ora l’immediato ristoro per le attività. Non è sufficiente. Vogliamo ritrovare la fiducia nelle istituzioni e per questo chiediamo urgentemente: - un tavolo permanente per il teatro e la cultura con Regioni e Ministero; - un serio piano di rilancio del teatro e della cultura per il quinquennio 2021-2026; - una riforma profonda che metta al centro la tutela dei lavoratori e dei professionisti. Finora siamo stati invisibili, ma ora alziamo la testa. Se sei un lavoratore della cultura firma la petizione. Se sei uno spettatore o ami il teatro e la cultura, allora sei sempre stato al nostro fianco. Alza la testa con noi, firma la petizione». www.change.org /ilteatroalzalatesta
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Si sta
avvicinando la fine… (non vi preoccupate, non sono così pessimista, anzi!) di uno dei peggiori anni che abbiamo vissuto dal dopoguerra; merita perciò dedicare qualche riflessione ad una parola di uso molto comune (talvolta anche troppo!), non sempre ben compresa nei suoi significati, ma di notevole importanza, soprattutto nella vita di relazione: la Responsabilità. Si tratta, in effetti, di una parola che esprime un
di Renato Jona concetto molto, molto rilevante, che quotidianamente ci accompagna, usata e spesso abusata, dalle mille sottigliezze e sfumature, dalle molte valenze, sempre tanto considerevoli e spesso assai profonde. La definizione di responsabilità non è semplice .
la responsabilità di quanto fatto o semplicemente minacciato, viene attribuita a chi lo pone in essere. La legge stabilisce proprio questi limiti, superati i quali sono previste sanzioni che anzitutto dovrebbero dissuaderci dal superarli e in secondo luogo, qualora recassimo danno ad altri, prevede equilibrate e proporzionate sanzioni risarcitorie. E proprio la mancata osservanza dei limiti sopra indicati ci addebita la responsabilità delle azioni dannose, da noi commesse. Praticamente ci attribuisce la colpa. Ma qualche volta le nostre azioni non arrecano danni, ma viceversa portano benefici al nostro prossimo. In tal caso la responsabilità si accosta a un concetto positivo, cioè al merito. Abbiamo visto più sopra che talvolta è sufficiente muoversi per rientrare nella sfera della responsabilità. In altri casi, invece volontariamente stabiliamo accordi, con il prossimo, promettiamo azioni o
molto spesso usata e abusata: viene cioè utilizzata come indicazione di grande sicurezza. Al punto che assume il significato: «sono talmente sicuro di quello che dico che sono disposto ad assumermi la colpa conseguente, nel caso si dimostri che ciò che dico non corrisponda a verità». In effetti l’uso politico di tale dichiarazione viene molto spesso utilizzata anche soltanto per impressionare l’ascoltatore; ma nella sostanza, il soggetto, mentre effettua tale affermazione, è ben consapevole che comunque non corre alcun rischio di sanzioni nel caso che quanto affermato non si riferisca alla verità! Infine merita di essere menzionato il primo (e in verità proprio primitivo e assai maldestro) tentativo di sottrarsi alle proprie responsabilità. Si tratta di una lunga storia, ma lunga davvero...
Responsabilità Senza immaginare di voler esaurire in poche righe la sua complessa sostanza, proviamo ad avvicinarci ad alcuni concetti che il termine racchiude in sè. Qualcuno ha inteso definire la responsabilità con la congruenza con un impegno assunto o più semplicemente con un comportamento. Già da queste indicazioni si può osservare come la responsabilità comprenda tanti elementi, ben differenti uno dall’altro. Il primo si riferisce a un collegamento con una volontà nell’azione compiuta o da compiere. Ma non sempre occorre una specifica volontà di agire, talvolta è sufficiente quasi la semplice esistenza per essere collegati con il concetto di responsabilità. Vivendo, quotidianamente ci si muove e già questa prima, minima manifestazione di vita può farci entrare nel campo della responsabilità. Certi movimenti, infatti, possono essere contrari a quelli previsti dalla legge. Quest’ultima, spesso intende regolare i comportamenti e, talvolta, riguarda anche addirittura le intenzioni (ad esempio prende in considerazione la malafede). Qualche atteggiamento può danneggiare altri soggetti e allora, anche in questo caso,
comportamenti positivi o negativi, di rinuncia: in tali casi veniamo sottoposti sempre a responsabilità dette contrattuali, cioè conseguenti a un patto o un contratto. I codici sono pieni di previsioni di comportamenti attivi od omissivi, leciti o dannosi per la società. E a ogni comportamento indicato nei codici è legata una responsabilità, cioè il soggetto che lo pone in essere ne risponde direttamente, in prima persona. Una delle più comuni responsabilità che merita citare con il suo nome antico, è quella “Aquiliana” (dal nome della legge romana che disciplinò per prima la responsabilità ex delicto). Tutti però la conoscono con il nome più comune, più semplice di “Responsabilità extracontrattuale”. Tra i casi più noti di quest’ultima, ricordiamo la R.C.A. per i veicoli che percorrono le nostre strade, da qualche anno correttamente obbligatoria proprio per garantire che il proprietario del mezzo non si possa sottrarre alle proprie responsabilità in caso di danni conseguenti alla sua circolazione. Un’ultima osservazione. L’espressione: “Me ne assumo la responsabilità” in questo periodo viene
Tanti anni fa, infatti, non si sa esattamente quanti, ma certamente tanti, un Uomo, chiamato Adamo, si è sentito chiamare dal suo Creatore e ha ascoltato queste precise parole: «Mangia pure di qualsiasi albero del giardino, ma non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male». Parole chiare e inequivocabili. Quando peraltro fu colto palesemente in fallo per aver trasgredito l’ordine, ha immediatamente cercato di scaricare, poco cavallerescamente, la propria responsabilità sulla sua Signora: «La Donna che hai posto insieme a me, fu essa a darmi dell’albero, e io mangiai!». Pessima figura! Ma trattandosi del primo uomo, dobbiamo definire il suo comportamento molto… umano. Certamente carico di gravi e durature conseguenze. Così, con questo ultimo esempio, è forse più facile rendersi conto dell’importanza e del valore della responsabilità. Sembra assurdo, ma le cose, fin dall’origine, sono andate proprio così. E se non ci credete, me ne assumo… la responsabilità!
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Il velo del tempo Liliana Segre e il dovere della Memoria Il 9 ottobre 2020 abbiamo assistito, alla televisione, a un evento straordinario, unico, emozionante, irripetibile. Una persona eccezionale, Liliana Segre, ci ha preso per mano e, in diretta tv, senza fermarsi un attimo, senza cedimenti, senza una lacrima, ci ha parlato per 70 minuti, in un silenzio impressionante, ci ha accompagnato all’Inferno dei campi di sterminio. Un’ultima volta. Si è trattato di un addio cosciente, tragico, in cui sono emersi non solo episodi personali, ma anche un’umanità varia, perversioni, ignoranza, egoismi, osservazioni, riflessioni, constatazioni, scavi nell’animo umano, esperienze, ricordi vivi, incancellabili, paure, terrori, separazioni definitive, fatiche indescrivibili. Tutto è stato vissuto nuovamente, per oltre un’ora. Per i ragazzi, per i più grandi. Perché sappiano, perché ricordino… Impressionante! Dopo oltre 75 anni si è trattato di un rientro estremamente doloroso in “quella realtà”, operato per senso del dovere. Questa donna, sorretta da alti principi morali, ha voluto ancora per un’ultima volta sollevare momentaneamente il velo del tempo su uno scenario inumano eppure reale. E si è, poi, giustificata: «Basta, non voglio più ricordare, non voglio più soffrire… non voglio più!». Finora il Suo raccontare nelle classi è stato percepito come una necessità morale, un dovere, al quale non ci si può né ci si deve sottrarre, come qualcosa di essenziale, fondamentale nella formazione e informazione dei ragazzi, rispettati e amati come con lo stesso affetto che prova una Nonna verso i Nipoti. «Senza la memoria i torti si confondono con le ragioni» ha notato, con la sua tradizionale saggezza e serenità di giudizio, Ferruccio de Bortoli. Infatti, con il passare del tempo è facile alterare i fatti, negarli, sminuirne l’importanza, addirittura sovvertire i valori. In quei 70 minuti terribilmente densi, trascorsi in religioso, totale silenzio, abbiamo sentito il vero, terribile significato di indifferenza, quella dimostrata dalla maggior parte di quegli esseri umani che, non toccati direttamente dalle disgrazie, dalle leggi razziali fasciste severe e umilianti, hanno scelto la comoda via di ignorare, di tirarsi indietro, di girarsi dall’altra parte. Non tutti, però. Per fortuna qualche essere umano, nel momento di possibili interessi o di possibili grandi pericoli, non si è allontanato dalle vittime, ma ha avuto il coraggio di essere solidale, di dire una parola di conforto, di avere un gesto, anche solo di salutare, sorridendo in segno di solidarietà e di incoraggiamento. Un gesto spesso fatto da persone umili, come quei detenuti del Carcere di San Vittore che non possedendo quasi nulla, gettarono qualche arancio, qualche mela ai prigionieri in partenza per “ignota destinazione”. Dove poi li attendevano prove terribili, inumane: le visite del Dr. Mengele, dal cui cenno del capo dipendeva la vita o la morte del prigioniero, la perdita del nome, la rasatura, la marchiatura (quel terribile numero impresso a fuoco sul braccio), l’abbrutimento che tra fame, botte e stenti, giunse fino alla assenza di solidarietà tra prigionieri. E poi
Lasciati ispirare…
le scene infernali, i lavori pesanti portati avanti da fisici sempre meno nutriti, che dimagrivano a vista d’occhio, avendo sullo sfondo i bagliori dei forni crematori, l’odore di cadaveri, la fame lancinante, la colpevolizzazione continua, e infine quella assurda, terribile, allucinante marcia della morte, lunga infiniti chilometri, al di sopra delle possibilità umane fisiche e di immaginazione. Tutti questi ricordi, sempre vivi e indelebili, anche se per i primi 45 anni rimasti dentro di Lei, mai raccontati, per incapacità di trovare le parole adatte, semplici, ma implacabili. E poi venne lo sforzo graduale di vincere sé stessa e cominciare a raccontare, in prima persona, nelle scuole, con precisione chirurgica, senza impressionare i ragazzi, ma raccontando loro le cose più importanti, i messaggi indispensabili. E questo ben prima che lo Stato sentisse l’esigenza di stabilire per legge l’obbligo di ricordare. Ed ogni volta, ogni gruppo di studenti, ogni testimonianza, quanti sacrifici silenziosi, ma profondi, ha dovuto superare Liliana Segre! Ogni volta quei fatti veri, quelle fughe, quelle umiliazioni, quell’impotenza, quei respingimenti dalla Svizzera, quegli sguardi, quel freddo, quella fame, quelle paure ritornavano davanti agli occhi! Ma era necessario: «Senza la memoria le vittime innocenti muoiono ancora», sintetizza Ferruccio de Bortoli, con corretta precisione. Adesso basta! Il 10 settembre 2020 Liliana Segre ha compiuto 90 anni. Ha voluto salutarci tutti, per l’ultima volta, con il Suo pesante, doloroso racconto. Ora ha diritto finalmente a un po’ di riposo fisico e spirituale. Ha diritto di provare a far passare il passato. Per l’ultima volta ci ha accompagnato, ci ha condotto all’inferno da Lei conosciuto, provato, vissuto, sofferto e ci ha riportato nella nostra vita quotidiana, indicandoci gli insegnamenti da tener presenti, da mantenere vivi, per evitare che certe situazioni abbiano a ripetersi. Si, perché la natura umana, se messa in certe condizioni, rischia di reagire sempre allo stesso modo, rischia di ripetere. Il 27 gennaio, quest’anno, forse, dopo il Suo discorso di addio, avrà un significato più profondo, più attuale. Grazie Signora Liliana. Grazie Nonna Liliana! Renato Jona Giorno della Memoria 27 gennaio 2021
Secondo il grande autore e motivatore Jim Rohn «generalmente cambiamo noi stessi per due ragioni: ispirazione o disperazione». Certo sono due ottimi incentivi, agli antipodi forse, ma egualmente validi. Che il nostro mondo oggi necessiti di un cambiamento è un fatto di una chiarezza abbacinante, come del resto ne abbiamo bisogno noi tutti, nella nostra quotidianità presente come nella nostra visione futura. Un cambiamento che, sì, siamo costretti a far nascere in un contesto sofferto, di grande difficoltà, ma che per essere positivo deve scaturire innanzitutto dall’ispirazione e non meramente da una ‘matrigna’ disperazione. In questo senso ci ha visto lungo Onde Alte, società benefit di innovazione sociale nata per aiutare aziende, organizzazioni umanitarie, fondazioni e pubblica amministrazione a sviluppare una visione sull’impatto sociale, mettendo a punto strategie e progetti “con un proposito più grande”, che sappiano combinare sostenibilità economica e ritorno per la comunità. In linea con la propria mission, lo scorso novembre Onde Alte ha deciso di condividere il risultato delle proprie attività di ricerca, lanciando online la piattaforma gratuita Make, un ‘catalogo’ che raccoglie i più interessanti case study di iniziative e progetti di innovazione sociale e impatto positivo, realizzati da singoli individui, aziende, terzo settore ed enti pubblici. Dalla solidarietà alla salvaguardia dell’ambiente, dai modelli innovativi di supporto alla comunità alle tecnologie applicate in risposta a un’emergenza sono oltre 100 le iniziative raccolte fino a oggi. All’interno della piattaforma, che periodicamente si arricchisce di nuove idee, Onde Alte offre accesso gratuito a strumenti e risorse utili, consentendo a chiunque di mettersi in gioco, sfogliando i case study selezionabili per categoria o filtrabili per parole chiave. Troviamo, ad esempio, il lavoro di una studentessa che in modo casalingo è riuscita a sintetizzare un’alternativa compostabile alla plastica (MarinaTex) grazie a una pellicola composta da materiale organico completamente naturale e biodegradabile in sole sei settimane. Strizza l’occhio all’ambiente anche la scarpa da running riciclabile al 100% (Cyclon) che può essere acquistata sotto forma di abbonamento: è necessario restituirla quando è da cambiare per riceverne una nuova, riducendo così a zero gli scarti. Ancora, vi è l’opera di un fotografo che con i suoi murales rende ‘giganti’ le persone comuni, per rispondere alla voglia di fare comunità e raccontare la storia del territorio (Pantheon), oppure un’app per trasformare i suoni ambientali in notifiche che avvisano i non udenti dei pericoli circostanti in tempo reale (Lisnen). Make è la risposta per chiunque cerchi uno stimolo, uno spunto, un’idea per “fare bene facendo del bene”, perché tutti noi possiamo fare la differenza! C.S. make.ondealte.com
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intervista
Fondamenta dei Librai
Giovanni Montanaro, la scrittura, i maestri e Venezia Lo scorso 12 novembre, a un anno esatto dall’alluvione che ha devastato Venezia, è uscito per Feltrinelli il nuovo romanzo di Giovanni Montanaro Il libraio di Venezia. È la storia di Vittorio, libraio veneziano titolare di una piccola libreria, la “Moby Dick” in campo San Giacomo. Un libraio che affronta le difficoltà di tutte le librerie indipendenti (concorrenza di Amazon e delle librerie di catena), ma più in generale dei negozi veneziani (rincaro degli affitti dovuto al turismo) e che all’improvviso si trova anche a dover fronteggiare l’aqua granda. Ma il libro è anche altro: una galleria di personaggi veneziani in cui spicca Sofia, con gli occhi chiari, di cui Vittorio si innamora. Incontriamo l’autore. Per il suo ultimo libro è partito da un evento doloroso per Venezia: una notte drammatica, la città allagata, un vento eccezionale, danni ovunque, l’acqua che raggiunge il livello più alto dall’alluvione del 1966. Come ha vissuto quella notte? Come tutti i veneziani sono stato testimone di un evento davvero eccezionale, non solo per l’altezza dell’acqua ma per la velocità imprevista di crescita associata a un maltempo mai visto prima. E non dimentichiamoci poi la sfinente continuità della alta marea dei giorni successivi. Sono stati giorni veramente difficili. Ma, in fondo, anche straordinari: la città ha reagito in modo commovente, tutti si sono dati una mano e, nell’emergenza, ci siamo riscoperti comunità. Quindi ho un ricordo anche molto bello di quei giorni. Chi è Vittorio e come vive l’alluvione del 2019? Vittorio è uno dei commercianti veneziani che mette a riparo le sue cose secondo le previsioni del Centro Maree e che subisce danni ingentissimi per la marea imprevista, perdendo comunque centinaia di libri. È quello che è successo a tanti librai veneziani, che hanno subito decine di migliaia di euro di danni, così come tutti gli altri commercianti in città. Con l’aggravante che un libro non si può lavare e basta che un millimetro vada sott’acqua perché diventi invendibile. Però attenzione: questo è un libro positivo, allegro, ironico, che racconta la bellezza di vivere a Venezia e che finisce bene, perché racconta di come ce l’abbiamo fatta ancora una volta. Negli ultimi anni in Italia hanno chiuso migliaia di librerie: come si potrebbe arginare questo fenomeno davvero preoccupante? Mi rimetto a quello che mi dicono i librai indipendenti, che non chiedono assistenzialismo, che lo Stato paghi loro l’affitto. I librai vogliono che si vendano più libri, che si facciano campagne pubblicitarie che portino alla promozione della lettura. Aggiungo però che c’è anche una responsabilità, a Venezia come altrove, dei proprietari
dei fondi, perché scegliere a chi si affitta determina il tipo di città. E le librerie fanno le città belle. Più dei negozi di caramelle. Che futuro prevedere per i librai e per l’editoria? La carta verrà definitivamente soppiantata dalla tecnologia? Il grande allarmismo sulla scomparsa del libro di carta mi sembra rientrato. Le vendite dei libri di carta continuano e nessuno si sta privando di questo piacere, specie nel tempo del lockdown in cui le relazioni immateriali ci hanno invaso (anche piacevolmente). La grande sfida è quella invece tra e-commerce e librerie. Però gli scenari sono francamente imprevedibili; oggi sono molto più resilienti le piccole librerie che non le librerie di catena. Chi l’avrebbe mai detto? Rimanendo in tema, le grandi aziende digitali dopo un iniziale entusiasmo ora sono viste con un po’ di sospetto ( The Social Dilemma) anche se più che mai in questo periodo la tecnologia si è rivelata un fattore fondamentale anche nella trasmissione del sapere: didattica a distanza, conference call, spettacoli in streaming, ecc. Lei crede che realmente le nuove tecnologie possano invadere la nostra privacy fino a controllare pienamente le nostre vite? Vivremo davvero sempre di più in una realtà virtuale? È sbagliato demonizzare gli strumenti che abbiamo a disposizione; come avremmo fatto, in questo periodo, senza Skype, Zoom e le dirette streaming su YouTube? Direi che in quest’epoca si pongono le stesse domande di ogni epoca: come si può arginare il potere? Come si fa a essere liberi? Come si garantisce la verità (se esiste) delle notizie che si danno? Non vedo niente di veramente nuovo, se non gli strumenti che dobbiamo misurare.
Come la tecnologia e i social influenzano la sua scrittura, la sua creatività? Utilizza molto i social? Li utilizzo pochissimo; li sbircio ma ci scrivo poco. Credo dovrei dedicarci più tempo per capirli meglio. Ma forse, tutto sommato, ritengo di poterne con un certo sollievo anche farne a meno. Venezia fa spesso da sfondo ai suoi romanzi. Cosa rappresenta davvero per lei questa città? Tutto. È la mia città. Viverci mi sembra un privilegio, una responsabilità speciale. Quanto c’è di autobiografico nei suoi racconti? Gli ultimi due romanzi, Il libraio di Venezia e Le ultime lezioni, sono molto vicini a me, perché parlano della mia città, del mio liceo Marco Polo, delle mie librerie. Ma tutti i libri, anche quelli scritti prima, che andavano da Van Gogh a Raffaello alla resistenza norvegese, hanno qualcosa di autobiografico. Nei tratti dei personaggi, nelle frasi, nei comportamenti. Si scrive sempre chi si è. Come è nato il piacere, lo stimolo a scrivere? L’ho sempre fatto, sin da quando sono bambino. Mi sono sempre immaginato le storie delle persone che avevo a fianco o dei grandi personaggi storici; mi è sempre piaciuto raccontarle. Da bambino scrivevo piccoli gialli; il mio detective si chiamava tenente Robson. Poi nell’adolescenza mi sono dato più alle poesie languide. Ma ho sempre scritto. Qual è il filo conduttore della sua narrativa? È difficile dirlo. Credo sia l’amore per le storie, siano esse di grandi condottieri o di piccoli librai. In fondo credo che la vita sia sempre eroica, epica, anche nelle esistenze più piccole, quelle in cui comunque ad un certo punto si
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debbono fare delle scelte, coraggiose e giuste, si tratti di sconfiggere il nazismo o di decidere a chi affittare il proprio negozio. Qual è il suo autore preferito? La letteratura per me è come il cibo. Non sempre ho voglia di pizza, non sempre ho voglia di sushi. Ogni tanto voglio Sartre, ogni tanto Thomas Mann, ogni tanto Roth e Piperno, ogni tanto Stieg Larsson. Quasi tutti i giorni «La Gazzetta». Come concilia la sua attività di avvocato con quella di scrittore? Con grande gioia. Mi piace molto fare l’avvocato e non potrei non essere scrittore. Credo che il dato che unisce le mie due passioni è che, pur con tecniche diverse, in entrambi i casi do voce a qualcun altro, cercando di rappresentarlo. Nel suo romanzo precedente, Le ultime lezioni, racconta che la vita ci fa incontrare maestri ‘imprevedibili’. Chi lo è stato nella sua vita? Tante persone. Uno zio, un prete, una donna straordinaria. Credo sia un aspetto, questo, che spesso si sottovaluta nei più giovani, ossia la loro necessità di relazioni con persone che vogliano ascoltarli, attenderli, che siano liberi da obblighi e giudizi. Con chi è che riusciamo a parlare per avere un confronto libero? Quelli, per me, sono i maestri. L’esperienza della pandemia, del lockdown, come ha influenzato la sua vita e il suo modo di scrivere? Che ripercussioni avrà sul nostro futuro, soprattutto sugli adolescenti, questa negazione della socialità, dei gesti d’affetto, questo dover tenere gli altri a distanza? Questa pandemia finirà, come tutte le altre pandemie. L’importante è che finisca con meno perdite possibili, di vite umane e di posti di lavoro. La situazione è davvero grave. Ma l’acqua alta ci insegna anche che ci siamo rialzati cento volte: lo faremo anche questa volta. Per i giovani non sono poi così preoccupato; abbiamo sempre un atteggiamento un po’ pietistico nei loro confronti, come se non sapessero cavarsela da soli. Invece quasi tutti capiscono da sé il periodo eccezionale; si cresce anche per questi traumi, che possono insegnare le giuste priorità della vita. Elisabetta Gardin
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- domenica 13, ore 15.00 - 16.30 per bambini da 9 a 11 anni Laboratorio Family Scottie Go - per bambini da 8 a 10 anni Family Scottie Go - per bambini da 8 a 10 anni -Laboratorio sabato 19, ore 16.45 - 17.30 perdigitale bambini da 6 ain 8Scottie anniGo: un gioco che permette di sviluppare il coding in modo innovativo! Azioni analogiche e logica di programmazione si combinano Azioni analogiche e logica di programmazione digitale si combinano in Scottie Go: un gioco che permette di sviluppare il coding in modo innovativo! sue applicazioni matematica, statisticada alla9biologia, all’informatica. -Le domenica 26,vanno ore dall’arte 15.00alla - 16.30 perdalla bambini a 11 anni Le sue applicazioni vanno dall’arte alla matematica, dalla statistica alla biologia, all’informatica. - sabato 12.12.20, ore 17.15 - 18.45 - sabato 12.12.20, ore 17.15 - 18.45 - domenica 20.12.20, ore 15.00 - 16.30 - domenica 20.12.20, ore 15.00 - 16.30 Laboratorio Family Scottie
Go - per bambini da 8 a 10 anni Laboratorio LEIS - Early Simple di Machines - per bambini didigitale 5-6 anni Azioni analogiche e logica programmazione Laboratorio LEIS - Early Simple Machines - per bambini di 5-6 anni si combinano in Scottie Go: un gioco che permette di sviluppare il Comprendere concetti scientifici attraverso indagini e attività pratiche. Comprendere concetti scientifici attraverso indagini attività pratiche. dalla statistica alla biologia, all’informatica. Le sue applicazioni vanno dall’arte allae matematica, I più piccoli potranno scoprire i principi base della meccanica costruendo e divertendosi con 8 modelli LEIS (LEGO® Education Innovation Studio) e le attiviI- più piccoli potranno scoprire i principi base della meccanica costruendo e divertendosi con 8 modelli LEIS (LEGO® Education Innovation Studio) e le attivitàsabato collegate.12.12.20, ore 17.15 - 18.45 tà collegate. 13.12.20, ore 17.15 - 18.45 --- domenica domenica 20.12.20, ore 15.00 - 16.30 domenica 13.12.20, ore 17.15 - 18.45 - domenica 20.12.20, ore 17.15 - 18.45 - domenica 20.12.20, ore 17.15 - 18.45
M9 Children Family Craft- -Early per bambini da 7 a 9Machines anni Laboratorio LEIS Simple - per bambini di 5-6 anni M9 Children Family Craft - per bambini da 7 a 9 anni Vi piacciono le sfide e siete appassionati di Minecraft? Comprendere scientifici attraverso indagini e attività pratiche. Vi piacciono le sfideconcetti e siete appassionati di Minecraft? Questo laboratorio multidisciplinare che si sviluppa sulla piattaforma Minecraft Education Edition è pensato apposta per voi! Questo laboratorio multidisciplinare che si sviluppa sulla piattaforma Education Edition è pensato apposta per voi! I- sabato più piccoli potranno scoprire i principi base della Minecraft meccanica costruendo e divertendosi con 8 modelli LEIS (LEGO® Ed 19.12.20, ore 15 - 16.30 - sabato 19.12.20, ore 15 - 16.30 -tàsabato 26.12.20, ore 15 16.30 collegate. - sabato 26.12.20, ore 15 - 16.30 -Laboratorio domenicaM913.12.20, ore- 17.15 - 18.45 Children base per bambini dai 4 ai 13 anni Laboratorio M9 Children base - per bambini dai 4 ai 13 anni Un percorso tra exhibit immersivi e interattivi ed esperienze laboratoriali analogiche. Perché “tutto col gioco ma niente per gioco!” -Undomenica 20.12.20, ore 17.15 18.45 percorso tra exhibit immersivi e interattivi ed esperienze laboratoriali analogiche. Perché “tutto col gioco ma niente per gioco!” - domenica 27.12.20, ore 15.00 - 16.30 e ore 17.15 - 18.45 - domenica 27.12.20, ore 15.00 - 16.30 e ore 17.15 - 18.45
M9 Children Family Craft - per bambini da 7 a 9 anni Da piacciono lunedì 28 a giovedì 31 dicembre, il Winter Camp di M9 Children: 4 giornate coding e gaming, ma anche di attività analogiche e di gioco per Vi le sfide e sietetorma appassionati di Minecraft? Da lunedì 28 a giovedì 31 dicembre, torma il Winter Camp di M9 Children: 4 giornate coding e gaming, ma anche di attività analogiche e di gioco per bambini da 6 a 11 anni. Questo bambini dalaboratorio 6 a 11 anni. multidisciplinare che si sviluppa sulla piattaforma Minecraft Education Edition è pensato apposta per - sabato 19.12.20, ore 15 - 16.30 - sabato 26.12.20, ore 15 - 16.30
Laboratorio M9 Children base - per bambini dai 4 ai 13 anni Un percorso tra exhibit immersivi e interattivi ed esperienze laboratoriali analogiche. Perché “tutto col gioco ma niente pe - domenica 27.12.20, ore 15.00 - 16.30 e ore 17.15 - 18.45 Da lunedì 28 a giovedì 31 dicembre, torma il Winter Camp di M9 Children: 4 giornate coding e gaming, ma anche di bambini da 6 a 11 anni. è un progetto di è un progetto di
Prenotazione obbligatoria scrivendo a prenotazioni@mchildren.it o sul sito www.mchildren.it Prenotazione obbligatoria scrivendo a prenotazioni@mchildren.it o sul sito www.mchildren.it Per informazioni: 334 7093012 (tutti i giorni, ore 9.00 - 18.00) | prenotazioni@mchildren.it Per informazioni: 334 7093012 (tutti i giorni, ore 9.00 - 18.00) | prenotazioni@mchildren.it
Museo del ’900 Museo del ’900
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a cura di Delphine Trouillard
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FILELFO, L’assemblea degli animali. Una favola selvaggia (Einaudi) Un corvo sta volando nel cielo, è in ritardo a un appuntamento importantissimo. Deve raggiungere un luogo segreto che gli animali conoscono dal giorno in cui vengono al mondo; una volta lo conoscevano anche gli umani, ma lo hanno dimenticato. Ci sono tutti, il leone, la balena, l’aquila, il topo... Anche un cane e una gatta. Sono riuniti in un’assemblea perché l’emergenza ecologica non può più essere ignorata, bisogna salvare la Terra dall’uomo. Per farlo, dopo lunghe discussioni, decidono di inviare un terribile avvertimento: un’epidemia. Ma presto scopriranno che, per salvare la Terra dall’uomo, dovranno prima salvare l’uomo da un male molto più antico… John GRISHAM Il tempo della clemenza (Mondadori) Clanton, Mississippi. 1990. Quando l’avvocato Jake Brigance viene nominato suo malgrado difensore di Drew Gamble, accusato a soli sedici anni di aver ucciso Stuart Kofer, vicesceriffo della Ford County, capisce di trovarsi di fronte al caso più difficile della sua carriera. Perché Drew è soltanto un ragazzo timido e spaventato che non dimostra la sua età, e questo rende il suo crimine ancora più incredibile e agghiacciante. Ma sua madre e sua sorella, che insieme a lui vivevano a casa di Stuart, sanno cosa lo ha spinto a commettere questo terribile gesto. Conoscono fin troppo bene la doppia vita della vittima. Molti a Clanton invocano la pena di morte, l’assassinio di un poliziotto è considerato un atto inammissibile. Il ragazzo ha poche chance di sfuggire alla camera a gas e Jake è l’unico che può salvarlo, in un processo controverso che dividerà l’opinione pubblica, mettendo a rischio anche la sua vita e quella della sua famiglia.
Guadalupe NETTEL La figlia unica (La Nuova Frontiera) Laura e Alina si sono conosciute a Parigi quando avevano vent’anni. Ora sono tornate in Messico. Laura ha affittato un piccolo appartamento e sta finendo la tesi di dottorato mentre Alina ha incontrato Aurelio ed è rimasta incinta. Tutto sembra andare per il meglio fino a quando un’ecografia rivela che la bambina ha una malformazione e probabilmente non sopravvivrà al parto. Inizia così per Alina e Aurelio un doloroso e inatteso processo di accettazione. Non sanno ancora che quella bambina riserva loro delle sorprese. È Laura a narrarci i dilemmi della coppia, mentre anche lei riflette sulle incomprensibili logiche dell’amore e sulle strategie che inventiamo per superare le delusioni. E infine c’è Doris, vicina di casa di Laura, madre sola di un figlio adorabile ma impossibile da gestire. Joanne Kathleen ROWLING L’Ickabog (Salani) C’era una volta un regno chiamato Cornucopia. Una minuscola nazione ricca e prospera, famosa per i suoi formaggi, gli ottimi vini, i dolci deliziosi e le salsicce succulente. Sul trono siede un sovrano benevolo, Re Teo il Temerario, le cui giornate trascorrono pigre, tra banchetti sontuosi e battute di caccia, con la fida compagnia dei suoi lord, Scaracchino e Flappone. Tutto è perfetto... O quasi. Secondo la leggenda, infatti, un terribile mostro è in agguato nelle Paludi del Nord. Ogni persona di buonsenso sa che l’Ickabog è solo una leggenda inventata per spaventare i bambini. Ma le leggende sono strane e a volte prendono una vita propria... Quando questo accade, toccherà a due giovani amici, Robi e Margherita, affrontare un’incredibile avventura e svelare una volta per tutte dove si nasconde il vero mostro. Solo così speranza e felicità potranno tornare a Cornucopia. Nicolas MATHIEU Come una guerra (Marsilio) Martel è un sindacalista carismatico con un passato oscuro e una madre malata di Alzheimer da mantenere. Bruce è un ex bodybuilder che non ha mai abbandonato il vizio degli steroidi. Quando la fabbrica dove lavorano minaccia di chiudere i battenti, in una delle regioni più industrializzate, ma anche più ignorate di Francia, non viene loro in mente nulla di meglio che rapire una giovane prostituta che batte sulla strada per Strasburgo, per rivenderla alla malavita. Del resto, in quel luogo che ai suoi abitanti sembra senza via d’uscita, qualunque gesto viene giustificato dalla crisi, e Martel e Bruce hanno tutto quello che serve: una Colt calibro 45, un rifugio sicuro in fondo alla campagna, e la disperazione degli ultimi. Ma non è così semplice svoltare grazie al crimine se il crimine non è il tuo mestiere: basta incontrare un’ispettrice del lavoro empatica e tutta d’un pezzo per far scricchiolare il piano della vita.
Libri e libracci È (finalmente) finito il mese di novembre. Ci avviciniamo piano piano alla fine dell’anno 2020 e i più di noi non ne vedono l’ora. A me quest’anno ricorda un brutto libro, uno di quelli che ho pensato di mollare più volte ma che ho comunque terminato, sperando sino all’ultimo in un lieto fine. Manca ancora un mese al 2021 e, a meno di vincere al Superenalotto entro San Silvestro, mi sento di dire che sarò felice di chiudere quest’anno così come lo sono stata quando ho riposto nella mia libreria certi “libracci”, che mi sorprendo ancora oggi a riguardare con l’orgoglio di chi è riuscito a superare una dura prova. Mi viene ovviamente più facile quando i libri successivi sono di migliore qualità. E il problema è proprio questo, almeno in Francia: dove me li procuro i libri successivi? Nel paese di Molière è in atto da fine ottobre un’anomalia che solo in Francia sono in grado di giustificare “annegando il pesce”, come si dice oltralpe, cioè farfugliando argomenti che mescolano insieme i diritti umani, il Général De Gaulle e la conclusione dell’ultimo rapporto di Santé Publique France, così da ottenere da parte di tutti per sfinimento un timido consenso. Per tutto il mese di novembre, tradizionalmente mese di consegna dei grandi premi letterari – Goncourt, Renaudot, Femina, Médicis e Académie Française – sono state chiuse le librerie di tutto il Paese e così anche – colmo dell’anomalia – i reparti libri dei supermercati, di modo da non creare una situazione di concorrenza sleale nei confronti dei librai indipendenti. Insomma in Francia, per tutto il mese di novembre, non è stato possibile acquistare un libro se non su Amazon. Colmo del colmo dell’anomalia. Mentre l’Italia subiva la seconda ondata di Coronavirus e chiudeva le sue regioni una dopo l’altra, lasciando aperte le librerie anche nelle zone rosse tra cui la Lombardia, la Francia entrava in un lockdown feroce senza permettere ai suoi cittadini di attrezzarsi, offrendo la garanzia di un momento di svago piacevole una volta chiusi in casa. Grazie al cielo l’anno 2020 sta per finire anche per scrittori e librai, i quali, si spera, sono sopravvissuti all’epidemia e non hanno esaurito la loro ispirazione insieme ai loro risparmi. Tanto per dire, non sarebbe male sostenerli di più in caso di terza ondata, ecco.
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Paola GHIROTTI, Jidai Matsuri. Festival of Ages (1990-2020) (Casadeilibri) Mentre in Occidente Carlo Magno veniva eletto Imperatore del Sacro Romano Impero, il cinquantesimo imperatore giapponese, nel suo tredicesimo anno di reggenza fondava secondo uno schema geomagnetico cinese Heiankyō (l’attuale Kyōto), espressione del più raffinato periodo della storia del Sol Levante, destinata a essere il cuore della cultura, delle arti e delle tradizioni, ed ora meta turistica globale per i suoi meravigliosi templi e giardini. Il Jidai Matsuri è l’antico festival che celebra l’anniversario della fondazione della città, facendo sfilare a ritroso i protagonisti, i simboli e i colori della storia del Giappone. Il libro visivamente mozzafiato di Paola Ghirotti è esso stesso un viaggio nella storia del percorso artistico dell’autrice, perché raccoglie scatti presi nell’arco di 30 anni di discreta e attenta presenza della fotografa in Giappone. Sfogliando le pagine del volume pare di essere tra la folla di non si sa quale epoca: talvolta un po’ spaesati, i contributi testuali di Franco Fusco e Yasue Hori vengono in nostro aiuto ma ci permettono solo in parte di dare un nome a tutte le figure storiche che si incontrano ‘per strada’. Del resto, è inevitabile: una storia tanto ricca e densa non può che rimanere avvolta da un alone di mistero, che tuttavia non ne sminuisce l’incanto.
a cura di Fabio Marzari
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design by
Fabio Fornasier info@lu-murano.it www.lu-murano.i
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A tempo determinato
© Guglielmo Alati
Per chi
conquista ogni giorno le vette, pur metaforiche, approdare nel Capoluogo ampezzano rappresenta un ambito traguardo; Cortina nell’immaginario ha rappresentato e rappresenta il meglio delle vacanze invernali ed è scoccata quasi la vigilia dei mondiali di sci. In un anno da dimenticare come il 2020, ci sono stati imprenditori che anche nel settore della ristorazione in profondissima crisi, hanno saputo sperimentare formule nuove e interessanti in grado di limitare i danni economici
di Fabio Marzari e nel contempo creare soddisfazione nella clientela, che li ha premiati con una presenza assidua e felice. A Venezia senza dubbio l’Hostaria in Certosa ha rappresentato la novità più importante della stagione estiva e i numeri più che positivi hanno dato ancora una volta ragione a Raffaele e Massimiliano Alajmo: la formula temporary restaurant basata su un concetto semplice di “cucina, vini, cocktail, musica e sorrisi” ha segnato una nuova vita per l’isola della Certosa, che da polo nautico lagunare è divenuto anche polo gastronomico di riferimento per i numerosi diportisti e non solo, che durante la calda estate hanno spesso faticato a trovare posto, viste le richieste sempre crescenti da parte della clientela smaniosa di occupare un tavolo tra il verde e il paesaggio veneziano come sfondo. La formula temporanea ha trovato una versione invernale a Cortina, nel cuore di Corso Italia, l’iconica strada dello
struscio, meta obbligatoria per tutti coloro i quali si trovino a passare nella cittadina ampezzana. Nel rinnovato Hotel Ancora, passato in proprietà di Renzo Rosso, ha trovato alloggio l’Hostaria in Cortina con lo stesso spirito di qualità estrema nella cucina, garantita da casa Alajmo, e con una informalità che rende il locale, temporaneo, un sicuro punto di riferimento per il variopinto campionario di umanità che frequenta Cortina. Raffaele Alajmo racconta che il progetto “Hostaria”, basato su una proposta di cucina semplice, una ricca carta dei vini, un’ampia lista di cocktail e un ritmo musicale che accompagna tutta la giornata, è nato in soli 50 giorni durante la prima pausa forzata della scorsa primavera, dando «la possibilità di lavorare a 25 dei nostri dipendenti, che altrimenti sarebbero rimasti in cassa integrazione. Con la chiusura stagionale di Hostaria in Certosa a fine ottobre, la squadra sarebbe rimasta ferma fino a primavera». Ecco che Alajmo, riflettendo su quanto duro sarebbe stato l’autunno-inverno a Venezia con la città deserta, si è ricordato di quanto Renzo Rosso gli aveva raccontato a proposito della nuova acquisizione di Cortina e, fatte le verifiche e trovati gli accordi, il piano terra dell’Hotel Ancora, che si trova giusto a metà del Corso, è divenuto un ampio spazio dedicato al cibo proposto secondo formule differenti, in totale sicurezza. Nel Bar Terrazza con Veranda si trova una caffetteria in Hostaria in Cortina Hotel Ancora, Corso Italia 62, Cortina d’Ampezzo t. 0436.3261 - www.alajmo.it
cui assaporare le proposte dolci, ma anche, e siamo certi che diventerà un must dell’anomalo Natale 2020, bere una flûte di Champagne, mangiare il caviale fresco Alajmo oppure il salmone selvaggio affumicato da Max, ma anche più semplicemente mangiare un panino con il musetto e le lenticchie o la tartare di Erminio Alajmo, senza dubbio alcuno la più buona al mondo (ndr.). Il ristorante presenta i piatti classici della cucina di Massimiliano, come gli involtini di scampi fritti, la battuta di vacchetta piemontese sulla corteccia con il tartufo bianco, il risotto alla lepre, Amarone e tartufo bianco, e anche un piatto storico della mamma Alajmo, la signora Rita, gli gnocchi di rape rosse in salsa di gorgonzola o il maialino da latte arrostito, spuma alla senape e polvere di caffè oppure il gelato al pistacchio Stern. In epoca di chiusura serale dei locali, una grande risorsa di cui i cortinesi possono avvalersi è lo shop online con la possibilità di ritiro in Hostaria. È possibile infatti acquistare tramite app una ricca selezione della dispensa Alajmo: pasta, sughi, cotechini, caviale, salmone, panettoni, biscotti, torte oppure piatti pronti da mettere in tavola. In questo Natale con le piste da sci vuote la vita sociale di ogni località montana va rimodulata e pochi luoghi come Cortina si prestano a lanciare nuove tendenze, che sapranno trovare vasta eco nei social. Non serve essere indovini per sapere che saranno innumerevoli i post su Instagram in cui il parterre sociologico un po’ alto borghese mescolato a quello post vanziniano, si farà ritrarre con musetto e champagne, felici di stare lassù...
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Cento di questi giorni
I 300 anni del Florian in un francobollo
Select festeggia un secolo di storia e Venezia
Il francobollo è un retaggio, ancora esistente, di un mondo “antico”, in cui le lettere cartacee segnavano le nostre esistenze, con notizie belle, brutte, saluti, resoconti di viaggi e molto altro. Ora le lettere sono divenute meno frequenti, ma il piacere di ricevere un invito o gli auguri via posta è impagabile, denota un’attenzione in più che il mondo digitale, con la sua serialità, non può offrire. Dal 3 dicembre c’è un motivo in più per scegliere ad esempio di inviare gli auguri di fine anno, in questo 2020 così funesto, via posta, unendo ai doverosi e mai così necessari buoni auspici, la bellezza di un nuovo francobollo, emesso autonomamente da parte del Ministero dello Sviluppo Economico con Poste Italiane per celebrare i 300 anni di vita e di attività del Caffè Florian. Il valore filatelico, con una tiratura di 400.000 esemplari, appartiene alla serie tematica “Le Eccellenze del sistema produttivo ed economico” ed ha un valore facciale di €1,10. Il bozzetto e l’incisione sono state curate da Rita Fantini e la vignetta raffigura la vetrata esterna del Florian, da cui si intravede la Sala del Senato e su cui si riflette un particolare del Palazzo Ducale. L’emissione
per ragioni legate alla sicurezza sanitaria non ha potuto essere festeggiata al Caffè Florian, che in questo drammatico momento si trova fermo nella sua attività, come la stragrande totalità delle attività economiche situate nella Piazza e nei dintorni. Tuttavia, lo Spazio Filatelia di San Marco di Poste Italiane, che trova nel suo responsabile Giorgio Marchi, una grande sensibilità e passione autentica per la città, la storia e i suoi simboli, di cui il Florian è un capofila, ha omaggiato l’emissione con una piccola mostra che avrebbe dovuto essere ospitata nelle sale del Caffè. In essa è visibile una raccolta di antichi orologi a pendolo del XVIII secolo, tuttora funzionanti. Strumenti che scandiscono un tempo tutto veneziano, che dal 29 dicembre del 1720 non si è fermato, da quando Floriano Francesconi aprì l’iconico Caffè. Ad arricchire l’esposizione, alcune mirabili opere in vetro di Murano realizzate appositamente dall’artista Lucio Bubbaco, delle sculture in miniatura nate dalla passione del Maestro per la mitologia classica. Opere la cui leggerezza e trasparenza richiamano l’intangibilità del tempo, ma anche la volontà dell’uomo,
rappresentata dall’amore: il tema delle sculture sono infatti il mito di Dafne e Apollo, l’amore e l’arte che sfidano il tempo, la vitalità dell’amore e della bellezza contro le avversità, comprese quelle del nostro tempo. Inoltre nell’ufficio postale, che gode di una vista prospettica sulla Piazza, si trovano delle vedute dell’artista veneziana Carla Erizzo, realizzate con la stessa tecnica e materiali usati dai vedutisti settecenteschi. Nelle parole di Marco Paolini, amministratore delegato di S.A.C.R.A., società proprietaria del marchio “Florian 1720” sta tutta la soddisfazione per questa emissione: «È un grande onore per noi, concessoci dal Ministero dello Sviluppo Economico e da Poste Italiane, questa emissione filatelica celebrativa dei 300 anni del nostro Caffè Florian. Le sue magnifiche Sale, completamente restaurate a metà Ottocento, hanno visto passare la storia di Venezia: lo splendore e la caduta della Repubblica Serenissima, le cospirazioni segrete contro il dominio francese e poi austriaco, i moti risorgimentali che hanno portato all’Unità d’Italia, le due guerre mondiali, fino ad arrivare senza interruzioni ai nostri giorni...». F.M.
Fu grazie alla grande esperienza nell’arte liquoristica di Vittorio e Mario della distilleria Fratelli Pilla & Co., sita a Castello presso il ponte della Canonica, al civico 4307, che nacque il 29 maggio 1920 il Select, diventando l’emblema dell’aperitivo veneziano. La ricetta originaria, che viene rigorosamente eseguita ancora oggi per garantirne l’eccellenza qualitativa, è frutto di un complesso processo produttivo della durata di ben nove mesi, periodo in cui le trenta erbe aromatiche si fondono per creare ciò che rende così unico il blending di Select, le radici di rabarbaro e le bacche di ginepro, donando una grande struttura e persistenza al prodotto. Da 100 anni il raffinato profilo aromatico e l’equilibrato gusto dolce-amaro rendono Select, storico brand del Gruppo Montenegro, l’ingrediente insostituibile per la preparazione dell’autentico Spritz. Festeggiare il suo primo secolo di storia in questo 2020, ha significato per Select ribadire e sottolineare la centralità del suo specialissimo legame con Venezia, dichiarando il suo profondo amore per la città attraverso una mostra, Cento anni di Select. Cento anni di Venezia ad ottobre al Fondaco dei Tedeschi, un calice limited edition in vetro di Murano, simbolo e fusione del passato e del presente con uno sguardo al
futuro, e il prossimo, importante ritorno ‘fisico’ proprio in città, con l’apertura di una nuova sede produttiva e rappresentativa ancora top secret. Immergendosi e scoprendo le tappe salienti della storia di Venezia e del brand in un intreccio di arte, tradizione, autenticità, passione e racconti unici, Emiliano Ponzi – illustratore pluripremiato, apprezzato e conosciuto in tutto il mondo per il suo metodo ricercato e il suo stile netto e definito, in cui mescola texture, figure umane, linee geometriche ed essenzialità – ha compiuto attraverso undici illustrazioni un autentico viaggio nel tempo dagli anni ‘20 a oggi. Emblematica la prima illustrazione, 1920. Gli anni ruggenti, dove troviamo raffigurato, tra note jazz e abiti eleganti di una splendente Festa del Redentore, il celebre scrittore Gabriele D’Annunzio che diede il nome a “Select Aperitivo” per elogiare il suo gusto raffinato e ricercato. Scorrono poi eventi salienti come la costruzione del Ponte della Libertà (1930), l’Esposizione Internazionale d’Arte (1940), la rinascita del Carnevale (1970), il concerto dei Pink Floyd a San Marco (1980), la riapertura del Teatro La Fenice (2000)... Ogni tavola racconta un decennio e all’interno di ciascuna opera Select vive come icona che ha accompagnato, e accompagna ancora oggi, la storia della città. M.M. www.selectaperitivo.it
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© Mattia Mionetto
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Mandorlato o torrone?
Naturale bellezza
Il goloso dilemma delle Feste
Rosa Alpina e Aman, la quota dell’eccellenza
Tra i dolci immancabili nelle feste natalizie, ma andrebbe diffusa l’abitudine ad un consumo più esteso e legato a tutto l’anno, ci sono il torrone e il mandorlato. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza e distinguerli, infatti erroneamente si crede che torrone e mandorlato pari sono, ma non è così. Seppure minime, le differenze si riscontrano sotto il profilo della lavorazione e della zona di produzione. Il mandorlato nasce e si produce nel paese di Cologna Veneta in provincia di Verona, mentre le città natali del torrone sono Cremona, città famosa per le tre “t” : “turòon, Turàs, tetàs”, ovvero il torrone, il Torrazzo (la torre campanaria più alta d’Italia) e le tettone. Il Torrone di Cremona è già descritto in banchetti di epoca romana nei quali si consumavano “squisiti dolci fatti con mandorle, miele e bianco d’uovo”. Il suo debutto ufficiale data però il 25 ottobre 1441, giorno in cui Bianca Maria Visconti sposa a Cremona il condottiero Francesco Sforza. In quell’occasione il dolce fu preparato e servito con la forma dell’alta torre della città, il Torrione (ora Torrazzo), da cui poi il nome Torrone. Il classico torrone di Benevento è un dolce dagli ingredienti di base semplici: bianco d’uovo, miele, nocciole e mandorle. Morbido o duro, bianco o al cioccolato, alle mandorle o alle nocciole, è una leccornia
dal sapore regale. La fama del torrone di Benevento, già enclave dello Stato Pontificio, si diffuse in particolar modo nel XVII secolo, quando veniva inviato a Roma in occasione del Natale a prelati e uomini importanti, il “torrone del papa” divenne da allora il più ricercato. Furono soprattutto i Borboni nel 1800 a valorizzare la “cupeta beneventana” facendolo diventare il prodotto natalizio per eccellenza e dando avvio a una tradizione che si è tramandata nei secoli fino ai nostri giorni. Se parliamo di “Torrone di Benevento” oggi ci riferiamo a diverse varietà: quello bianco con mandorle, il torrone cupedia bianco con nocciole, quello bianco morbido con mandorle e il Torroncino croccantino ricoperto con cioccolato, tipico di San Marco dei Cavoti. Nel mandorlato di Cologna Veneta sono presenti invece solo le mandorle ed è venduto nelle caratteristiche scatole rotonde o rettangolari di latta, dal sapore d’antan. Probabilmente furono i veneziani ad inventare il prelibato dolce alle mandorle e a tramandarne la ricetta ai colognesi. Cologna fu infatti inglobata al territorio della Serenissima: sotto il doge Michele Steno. Osservando una tavoletta in legno dipinta da Liberale da Verona nel 1489, conservata nella cappella del Vescovado in Verona, ci si è accorti di un particolare sorprendente: ad Elisabetta, cugina della Madonna, le ancelle offrono, subito dopo il parto di Giovanni Battista, una coppa di confetti e un vassoio con pezzetti di mandorlato, o «mandolàto», come si diceva allora. Sono piccoli tranci rettangolari, proprio come quelli di oggi. Evidentemente, anche a fine Quattrocento erano note le sue proprietà energetiche. F.M.
Va detto da subito che il gruppo Aman ha una naturale predilezione nel coniugare con totale naturalezza il senso più elevato dell’accoglienza con i luoghi patrimonio dell’umanità. Sono ben 14 infatti i siti Unesco nel mondo in cui Aman opera e in Italia, dopo Venezia, è ora la volta delle Dolomiti e precisamente di San Cassiano, un piccolo borgo di 750 abitanti, posizionato in Alta Badia a 1537 metri di altitudine. Lo storico hotel Rosa Alpina entrerà a far parte del circuito Aman, catena alberghiera tra le più esclusive e parimenti discrete al mondo, dove il lusso è direttamente declinato con il benessere della mente e del corpo, in una vera oasi di pace in cui l’architettura è completamente al servizio dell’uomo. Come per Aman Venice in cui il palazzo storico della famiglia Arrivabene si è aperto a nuove forme di ospitalità, anche per Rosa Alpina è l’attività della famiglia Pizzinini, la cui storia si intreccia saldamente con l’edificio, da loro abitato dal 1939, e la vita stessa del paese di San Cassiano, alla base dell’accordo con Aman. Un “glamour chic ed essenziale”, così viene sintetizzato il principio cardine dell’ospitalità al Rosa Alpina, un 5 stelle che attualmente dispone di 18 camere, 32 Junior Suite e Suite, 1 Penthouse e 1 Chalet Zeno, 3 ristoranti, una zona wellness per
famiglie, zona wellness per soli adulti, sala cinema, palestra, sala Yoga e due baite a 2.000 metri di altitudine. Trovandosi al centro del comprensorio sciistico più grande al mondo, rappresenta un perfetto punto di partenza per esperienze sportive uniche e inimitabili, considerato il contesto naturalistico spettacolare in ogni stagione dell’anno. Secondo i termini dell’accordo, la collaborazione prevede un’integrazione graduale da parte di Aman a livello operativo e di marketing per i prossimi 18 mesi. A seguito di una serie di investimenti e di un evolversi di attività, la partnership vedrà Rosa Alpina diventare parte effettiva di Aman nel dicembre 2022, accogliendo i clienti per la stagione invernale. Un punto di forza ulteriore dell’albergo è la ristorazione, in cui è già stretto il legame tra Venezia e San Cassiano in Badia per merito di Norbert Niederkofler (vedi intervista inserto Natale p.16), a capo delle cucine del St. Hubertus. Il presidente e Ceo di Aman, Vladislav Doronin ha affermato: «Aman è sempre stata orgogliosa di offrire esperienze uniche in contesti straordinari e la nostra partnership con Rosa Alpina garantirà proprio questo!». Fabio Marzari Hotel Rosa Alpina Strada Micurá de Rü 20, San Cassiano-Badia www.rosalpina.it
Message in the bottle Venezia e il suo sistema lagunare unico al mondo stanno pagando un prezzo altissimo in questa crisi. Tra le molte iniziative nate per porre un argine alla voragine presente, vogliamo raccontare quanto ideato a Venissa, la tenuta agricola con alloggio e ristoranti gestita dalla Famiglia Bisol a Mazzorbo, nel cuore della magnifica Laguna Nord. Venissa rappresenta il tentativo riuscito di rinascita e sviluppo delle tradizioni agricole e artigiane in Laguna, le sue vigne hanno portato il vino prodotto ai confini dell’acqua e dei colori dell’isola di Burano a una fama internazionale. Il vitigno Dorona esalta l’eccellenza e l’unicità di una coltura che da secoli sfida l’acqua e il sale producendo un vino con delle caratteristiche senza eguali. Questa operazione di successo in termini economici e di visibilità si è estrinsecata attraverso il lavoro quotidiano di artigiani e agricoltori che hanno garantito il rispetto dell’ambiente, dell’architettura dei paesaggi e delle tradizioni, altrimenti destinate a scomparire per sempre. Ogni bottiglia di Venissa, oltre a sostenere il lavoro dell’agricoltura, è un veicolo importante per il mantenimento di una tradizione artigiana rimasta unica in città, quella dei “battiloro”, di cui la famiglia Berta tiene in vita l’attività, battendo a mano la foglia d’oro che campeggia sulle bottiglie fatte a Murano, nella fornace della famiglia Spezzamonte, in cui viene fuso oro e vetro incidendo ogni singolo pezzo a mano con un metodo antichissimo. Acquistando una bottiglia di Venissa a Natale si aiuta la Laguna a restare viva. F.M. www.venissa.mbpages.net
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Un tuffo nella tradizione
Natale all’insegna dei sapori della cucina goriziana e mitteleuropea
Il 2020 è stato un anno a dir poco particolare a causa dell’emergenza sanitaria da Covid, che ha segnato la vita e le abitudini di tutti noi. In occasione delle imminenti feste natalizie, Gorizia può essere un piacevole “momento” di evasione con un tuffo nel passato e nei sapori dell’Austria felix. Gorizia, Gorica in sloveno, è un comune italiano di circa 35.000 abitanti in Friuli-Venezia Giulia. Per la sua posizione geografica ai “confini” della Mitteleuropa e per la sua storia, la città è uno dei punti di congiunzione fra le culture romanze, slave e germaniche, che ne fanno una realtà davvero unica anche per la sua arte culinaria. La cucina goriziana infatti è molto ricca e varia con influenze delle
tradizioni friulane e ovviamente mitteleuropee. Tra i piatti tipici si annoverano la pasta fatta in casa e tagliata a strisce (blecs) condita con sughi d’arrosto e selvaggina, gnocchi di semolino e patate ripieni di susine conditi con burro fuso e cannella, polenta, cotechino con crauti, gulasch, frittate alle erbe, patate in “tecia”, oltre a piatti a base di selvaggina come fagiano, lepre, capriolo e cinghiale preparati con influenze austriache e ungheresi. Da non dimenticare le grigliate con note culinarie balcaniche come i ćevapčići e le pljeskavice. La carne di maiale occupa una parte di rilievo per i bolliti e i prosciutti, come quello cotto servito nel pane con salsa al cren.
Da assaggiare inoltre la “rosa di Gorizia”, un radicchio molto particolare. Tra i dessert la gubana è il dolce più caratteristico, ma anche il miele e i vini d’Oslavia sotto il marchio dei “Prodotti tipici goriziani”. Un modo per degustare i sapori di questa cucina così unica, è quello di assaggiare le proposte dei numerosi locali come, per menzionarne solo alcuni, il centralissimo ristorante Ai tre soldi goriziani, in Corso Italia 38, la trattoria Al Piron, in via Trieste 15, La Vecia Gorizia, in via San Giovanni 14 oppure la Trattoria alla Luna, il più antico locale goriziano, aperto da Antonio Cadorini nel 1876 nella contrada della Caserma, ora via Oberdan 13, che fu luogo d’incontro di mercanti e viaggiatori. Oltre all’alloggio, al servizio di ristorazione e alle stalle per il ricovero dei cavalli, nel giardino si faceva teatro e musica coi cantastorie ad intrattenere i signori della Gorizia bene di un tempo e la cucina di questo locale passò alla storia della gastronomia cittadina per la squisitezza dei suoi piatti. Nel 1956 Milan Pintar riaprì la locanda trasformandola nell’odierna Trattoria alla Luna. Come dichiara la figlia Elena: «Nel 1960 mio padre Milan prendeva in sposa Celestina e da lì iniziano assieme la grande passione per questo luogo curato amorevolmente così come lo vedete oggi. Un luogo di storie, culture e ricordi che tramandati nei secoli riemergono attraverso antiche e profumate ricette, per ricordare i sapori di ieri e per regalarvi, speriamo, un momento rilassante. Un tuffo nei colori del passato per assaporare la cucina di una volta». Dal 2018 la Trattoria alla Luna è entrata a far parte dell’Unione Ristoranti del Buon Ricordo. Da non perdere, tra le molte specialità, gli gnocchi dolci. Daniela Paties Montagner
Regala (o regalati) ora un’esperienza golosa unica, anche come prezzo: una cena degustazione al Bistrot by Do Leoni a 3 portate a 36 € invece di 45 € a persona! Prenota poi quando vuoi: il buono vale un anno dalla data di emissione. Offerta valida fino al 31 dicembre 2020.
Bistrot By Do Leoni c/o Hotel Londra Palace Riva degli Schiavoni, 4172 - Venezia Tel. 0415200533 - doleoni@londrapalace.com
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ricette dedicate di Pierangelo Federici
Giudecchina come me! Nel frattempo hai cambiato casa o sei ancora una ‘resiliente della Gnecca’? Sono quasi due anni che abito in terraferma, ma il grande amore per la Giudecca ci sarà sempre. È stata per molti anni la ‘mia’ isola, in qualche modo sono nata lì come italiana. Una vita dedicata all’arte e non sono mancati i riconoscimenti. Raccontaci. Quelli che mi stanno particolarmente a cuore sono tre: Le Chiavi della Città di Cazones, Veracrúz in Messico, per il lavoro artistico e umano. Il Riconoscimento da parte del Consolato del Messico per la promozione e diffusione della cultura messicana in Italia, nel 2015. Il ruolo di Ambasciatrice per la Pace delle 68 lingue materne e i popoli afromessicani, da parte del Consiglio Indigeno Messicano e il clan afrodiscendente in Messico, nel 2020.
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JENNIFER CABRERA FERNANDEZ Jennifer è un’etnocoreografa messicana che attraversa il magico mondo dello sciamanesimo con una visione del tutto contemporanea. Vive a Venezia da ormai vent’anni e qui si dedica a tempo pieno alla diffusione delle proprie radici. La sua ricerca antropologica e artistica spazia dal ballo al canto fino alle percussioni, per far rivivere le proprie origini e trovarne un’espressione moderna.
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L’intervista Ciao Jennifer, vuoi raccontare ai lettori da dove comincia e come si è sviluppato il tuo percorso professionale e artistico? Inizia nella mia città d’origine, nello stato di Veracrúz, Messico. Sin da ragazzina avevo il grande desiderio di emanciparmi attraverso l’arte: quando avevo 15 anni studiavo danza classica nei pomeriggi, amavo il sudore, il rigore fisico ma anche la libertà che mi faceva sentire, sono stata incoraggiata dalla mia maestra, quindi ho preso la decisione di andare all’Università di Danza nella capitale dello Stato. All’inizio i miei hanno fatto fatica ad accettarla, ma poi si sono arresi alla mia passione. Avendo forti radici nel luogo in cui sono nata, mi sono avvicinata ai grandi maestri della danza tradizionale, del canto e delle percussioni. Un giorno ho ricevuto una telefonata in cui mi offrivano un contrato di lavoro, accettai e partii in un viaggio molto lungo: sono arrivata nell’affascinante e magica isola di Bali, Indonesia, dove sono stata poco più di un anno. Da lì nasce il vero percorso della ricerca. Il tuo percorso è quindi molto ampio, indirizzato all’etnologia della danza, dei canti e dei ritmi di vari Paesi, non soltanto del Messico. Un lavoro che coinvolge lo studio delle tradizioni culturali e artistiche, ma evidentemente anche un livello sociologico che indaga i problemi dei Paesi economicamente meno sviluppati. Esatto, è molto curioso che i Paesi meno agiati economicamente siano i più ricchi nell’ambito socio-culturale dal punto di vista della tradizione. Ad esempio, in diverse nazioni gli eventi artistici sono collegati alla spiritualità, alle celebrazioni storiche, oppure ad altre feste meno importanti ma che sono fondamentali per i nuclei familiari, quindi ti ritrovi con manifestazioni artistiche nelle strade, nei luoghi di culto, nei parchi con palchi fissi in cui si sa che tale giorno si suona o si danza un certo genere, i suonatori sono vestiti come la tradizione vuole: arrivano con borsoni pieni di vestiti colorati che poi indosseranno, le ballerine che salgono sul palco si truccano in un certo modo affinché si assomiglino. C’è uno spirito di unione ma anche competitivo, prestante. Le nuove compagnie affrontano i temi odierni. Tutto questo fa aggregazione. Poi, ad un certo punto, scegli Venezia. Come mai? Nel tempo trascorso a Bali ho conosciuto un veneziano che mi propose di venire. Così è stato e sono rimasta, per amore. Quel programma di Rai Tre di qualche anno fa, intitolato Radici , mi ha fatto conoscere una Jennifer più vicina, una
La situazione dovuta alla pandemia da Covid ha bloccato un po’ tutto, in particolare i luoghi dello spettacolo e dell’arte. Come ti sei organizzata in questo sfortunato 2020 e quali progetti hai per il futuro? In effetti l’arte in generale è stata soffocata da questa pandemia. Non eravamo preparati per questa ecatombe ed io sono rimasta bloccata con diversi spettacoli che dovevo realizzare all’estero. Mi sono buttata sulla produzione musicale, partecipo a diversi webinar e ci sto prendendo gusto nel comunicare e condividere a parole parte di alcuni concetti che fino a poco tempo prima spiegavo con la musica o il corpo. Il progetto per il futuro prossimo è riprendere l’agenda sospesa, e far conoscere il nuovo progetto musicale México y Cielo. Come sai questa mia piccola rubrica parla di cucina, quindi anche di cibi per così dire “particolari”. Scegli: chapulines o bovoletti? Scelgo…chapulines! Per ultimo, facciamo un gioco che mi servirà per creare la tua ricetta dedicata: scegli il colore per te più appetitoso e motiva la scelta. Scelgo il verde. Se penso al colore e ai cibi crudi o cotti, mi regala una sensazione di vitalità, leggerezza, salute: da ragazza bevevo tanti succhi di questo colore, ho il ricordo della freschezza. Nei tacos messicani adoro la salsa verde, piccante.
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Mensile di cultura, spettacolo e tempo libero Numero 250 - Anno XXIV Venezia, 1 Dicembre 2020 Con il Patrocinio del Comune di Venezia Autorizzazione del Tribunale di Venezia n. 1245 del 4/12/1996 Direzione editoriale Massimo Bran Hanno collaborato a questo numero Katia Amoroso, Loris Casadei, Michele Cerruti But, Sergio Collavini, Federica Cracchiolo, Fabio Di Spirito, Federico Jonathan Cusin, Pierangelo Federici, Elisabetta Gardin, Renato Jona, Paolo Lucchetta, Franca Lugato, Andrea Oddone Martin, Alessandra Morgagni, Daniela Paties Montagner, Marisa Santin, Livia Sartori di Borgoricco, Riccardo Triolo, Delphine Trouillard, Luisa Turchi, Massimo Zuin Si ringraziano Nico Zaramella, Luciana Boccardi, Alessandro Barbero, Giovanni Montanaro, Giandomenico Romanelli, Augusto Gentili, Norbert Niederkofler, Sonia Bergamasco, Giorgio Li Calzi, Enrico Cosimi, Rebecca Mormile, Alessandra Lolli, Teresa Pannell, Emanuela Caldirola Foto di copertina Nico Zaramella
:venews lo trovi qui: Bookshop di Palazzo Grassi e Punta della Dogana; Qshop (c/o Querini Stampalia, Santa Maria Formosa); Alef (c/o Museo Ebraico, zona Ghetto); Mare di Carta (Fondamenta dei Tolentini); Studium (zona S. Marco); Toletta, Toletta Cube e Toletta Studio (zona Campo San Barnaba) e in tutte le edicole della città. Direttore responsabile Massimo Bran Guida spirituale “Il più grande”, Muhammad Alì
La ricetta Cara Jennifer, parliamo di cibo etnico, quello spesso male interpretato, vuoi per la difficoltà di reperire la materia prima originale, oppure più spesso per accontentare i gusti di un pubblico non abituato a profumi e sapori geograficamente e culturalmente lontani. Col tempo questi errori si radicano e allora ecco l’insalata russa che in Russia non sanno cosa sia, oppure le fettuccine Alfredo, molto diffuse nei ristoranti italoamericani, ma francamente lontanissime dalla tradizione italiana. Lo stesso potremmo dire delle cucine orientali, dei piatti sudamericani o delle ricette africane. Se capita la fortuna di viaggiare in quei Paesi è inevitabile chiedersi cosa sia quella ‘roba’ che ti hanno fatto mangiare al cinese sotto casa! Forse qualche tentativo per migliorare la situazione l’ha percorso la cosiddetta cucina Fusion: fa ‘figo’ il nome, ma il problema rimane. SALSA VERDE ITALIANA La salsa messicana a cui fai riferimento è a base di coriandolo fresco, peperoncino e soprattutto tomatillo, il piccolo pomodoro verde tipico del Messico. Sono prodotti difficilmente reperibili qui da noi, quindi senza infingimenti ti propongo una versione autenticamente italiana, ottima per accompagnare crostini, carne, pesce, verdure e in particolare per il lampredotto, il mitico street food di Firenze. La ricetta è molto facile, economica e si prepara in cinque minuti. Procurati capperi, acciughe sott’olio, prezzemolo, un po’ di pane raffermo, un uovo sodo, poco aceto di vino bianco, aglio e pinoli. Ammolla il pane raffermo con due cucchiai di aceto, strizzalo e sbriciolalo con le mani. Ora trita tutto assieme nel frullatore aggiungendo a filo poco olio extravergine di oliva: il tuorlo dell’uovo sodo, il pane che hai già lavorato, prezzemolo, qualche cappero e filetto di acciuga, uno spicchio d’aglio. Alla fine aggiungi una presa di pinoli e ancora olio se serve, aggiusta di sale e pepe.
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