EDITORIALE
Diario da un sisma di Paolo Pavoni
Paradigmi della ricostruzione
di Valerio Massaro e Matteo Scamporrino
BASURAMA
EL PROYECTO RUS Y EL TRABAJO EN RED
IL PROGETTO RUS E IL LAVORO IN RETE
#09
lug/ago 2012
www.verdiananetwork.com info@verdiananetwork.com
Direttore responsabile: Alessandra Borghini Casa Editrice e sede della rivista: ETS, P.za Carrara 16/19, Pisa Legale rappresentante Casa Editrice: Mirella Mannucci Borghini Presidente redazione e proprietario sito online: Enrico Falqui, via Lamarmora 38, Firenze Iscritta al Registro della stampa al Tribunale di Pisa n° 612/2012, periodico bimestrale, 7/12 “Network in Progress” Responsabile editoriale: Stella Verin Editing e grafica: Valerio Massaro
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Concept copertina: Valerio Massaro
SOMMARIO
EDITORIALE
Diario da un sisma 7 di Paolo Pavoni
Paradigmi della ricostruzione 17 di Valerio Massaro e Matteo Scamporrino
BASURAMA
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EL PROYECTO RUS Y EL TRABAJO EN RED
IL PROGETTO RUS E IL LAVORO IN RETE LA CITTA’ IN MOVIMENTO
IL SISTEMA DEL TRASPORTO PUBBLICO A CURITIBA Carolina Ceres Sgobaro Zanette
NUOVI SPAZI PUBBLICI I CENTRI COMMERCIALI
Annalisa Cataldi
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43 PAESAGGI ROMANI Francesco Ghio RECENSIONE
Altri Paesaggi di Joan Noguè
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Enrico Falqui
RECENSIONI di Eventi
STRADE, MEMORIA E SVILUPPO Chiara Serenelli e Maria Teresa Idone
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PhotoStory La scossa di un terremoto è un qualcosa che trasforma in maniera decisa e precisa un paesaggio e il modo di percepire e vivere un territorio. Edifici ed insediamenti, attività ed usi tradizionali, urbs e civitas diventano tutti ante o post terremoto. La ricostruzione è una trasformazione che, in maniera più o meno progressiva, sceglie come realizzarsi sul territorio. La ricostruzione può essere un momento per ripensare un territorio e costruire un nuovo paesaggio, e non può prescindere da una necessaria e coeva rigenerazione del “paesaggio” sociale, che abbia una lucida e fattibile visione del territorio materiale venturo, che non si limiti esclusivamente ad un ripristino di quel che vi era in precedenza. A quindici anni dal terremoto umbro-marchigiano, i borghi di confine tra le due regioni da Foligno a Muccia raccontano, nella photostory di questo numero, come questa trasformazione sia avvenuta ed ancora stia avvenendo. Alcuni edifici sono stati ripristinati, altri restaurati, nuove edificazioni si sono realizzate sia produttive che residenziali, altre costruzioni sono rimaste sospese tra il crollo e il consolidamento. Al di là dei problemi strettamente connessi all’architettura e alle questioni urbanistiche, il terremoto del ’97 ha posto il problema di pensare alla trasformazione di un paesaggio quasi dimenticato, già sofferente (da circa un secolo) di una forte migrazione, di un paesaggio montano difficile da abitare, che ancora indugia nel trovare nuovi connotati economici, culturali e sociali, a partire dalle proprie matrici identitarie pregresse. S. Minichino, A. Anichini
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Piaggia, Sellano, PG foto di Arianna Anichini
Foto di Mario Verin, fotografo Rubrica
L’Architettura che mi piace L’Architettura che non mi piace
di Stella Verin
Gole selvagge, profondi canali, impervi sentieri, pareti rocciose, strapiombi ed infine il mare. Questo il paesaggio del Supramonte, terra selvaggia ed aspra, che occupa la parte centro-orientale della Sardegna, ricca di storia e cultura e sede di una antica tradizione costruttiva, quella degli ovili, in sardo “cuiles”, ripari autocostruiti dai pastori per se stessi e gli ovini che accompagnavano. I materiali per la costruzione degli ovili sono poveri, principalmente quelli che regala il luogo. La struttura portante di forma conica dell’altezza di circa 3-4 metri con le travi in ginepro o in leccio, disposte in modo tale da permettere la fuoriuscita del fumo dal focolare “su foghile”, e le lastre di calcare necessarie per la costruzione del muro perimetrale del diametro di circa 4 metri, creano un ambiente asciutto e accogliente a temperatura costante. Gli ovili erano solitamente composti da una struttura principale, abitazione del pastore e strutture ausiliarie per disporre gli attrezzi, nei dintorni dei quali venivano costruiti i cortili per le capre. Antiche testimonianze ancora esistenti che racchiudono tradizioni e saperi che stanno purtroppo scomparendo, ma che tuttora caratterizzano il ricchissimo patrimonio di questi luoghi.
PhotoStory
Castello di Mevale, Mevale, Visso, MC foto di Arianna Anichini
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EDITORIALE
Diario da un sisma di Paolo Pavoni
Architetto, Responsabile Area3 “Governo del Territorio” e Responsabile di protezione Civile del Comune di Fivizzano (MS)
palazzo comunale di San Possidonio
Evento sismico in Emilia-Romagna 20/29-06-2012 Il Fatto, l’Accaduto Alle 4:04 del 20 maggio una scossa di terremoto di magnitudo 5.91 colpisce il territorio emiliano, con epicentro prossimo a Finale Emilia nel Modenese. Una lunga interminabile scossa, circa 20”, di poco inferiore a quella che tre anni fa (6 aprile 2009) devastava la provincia de L’Aquila e il suo centro storico. I danni si raccolgono in un fazzoletto di territorio fra le provincie di Modena e Ferrara. Queste aree non risultavano classificate sismiche, fino al 1984. Successivamente furono proposte in III classe nel 1998 e definitivamente classificate in zona “3” con Deliberazione di Giunta Regionale n° 1435 del 21/07/2003. La Zona “3” equivale a “zone soggette a scuotimenti leggeri, con accelerazioni comprese fra 0,15 e 0,175”. I danni sono ingenti.
Edifici residenziali minori
I terremoti noti dai cataloghi sismici indicano diverse zone telluriche adiacenti a quella colpita dal terremoto odierno. In particolare, la zona di Ferrara, circa 30 km a est dell’epicentro dell’evento attuale, fu colpita il 17 novembre 1570 da un terremoto con magnitudo stimata 5.5 (dai dati dei danneggiamenti) che produsse danni fino all’VIII grado. Successivamente nel 1688 e ancora Bologna nel 1929, con danneggiamenti del VII/VIII grado della “Scala Mercalli”2 e di magnitudo fra 4.5 e 5. Più recentemente, l’11 luglio 1987, un terremoto di magnitudo 5.4 interessò la zona della pianura padana nelle province di Bologna e Ferrara, circa 20 km a sud del terremoto odierno. Lo scorso anno, il 17 luglio 2011, un evento di M 4.7 ha interessato la provincia di Reggio Emilia, 20 km a nordest di quello di oggi. Altri terremoti significativi di magnitudo fino a 6 sono avvenuti più a sud, nell’Appennino settentrionale, dove il livello di 8
pericolosità è più alto. Due faglie parallele: ognuno di questi fronti ha terremoti storici associati equivalenti, anche alla stessa epoca geologica. La pianura padana si sta restringendo fra gli Appennini e le Alpi. Dopo qualche giorno, pur registrandosi un’attività sismica rilevante, le scosse sembrano attenuarsi di intensità. La gente dell’Emilia-Romagna cerca di rialzare la testa, cominciando a riparare alcuni danni ritenuti leggeri; si rientra in fabbriche apparentemente non danneggiate. Ma il 29 maggio ancora forti scosse alle 9:00, alle 12:55 e alle 13:00 rispettivamente di magnitudo 5.8, 5.3 e 5.2; scosse che riportano terrore e distruzione. Ancora crolli e ancora vittime. Molti monumenti danneggiati vedono definitivamente crollare le proprie vestigia sotto le scosse del 29 maggio. Dal secondo comunicato dell’INGV3 del 29 maggio, alle ore 16:00, si legge: “ … localizzate tre scosse di M > 5 e sette di
magnitudo M > 4; la distribuzione delle repliche evidenzia che la fascia attivata con i terremoti odierni estende la zona attiva fino alla provincia di Reggio Emilia, con una estensione totale di quasi 50 km. Il tipo di meccanismo focale indica un movimento compressivo su faglie orientate circa est-ovest e compressione nord-sud, in analogia con quanto osservato durante i terremoti del 20 maggio e nei giorni successivi. Sembra trattarsi pertanto della stessa faglia o di una faglia parallela orientata nello stesso modo di quella attivata il 20 maggio”. Si comincia a fare il conto dei danni. Secondo un rapporto del Dipartimento Nazionale di Protezione Civile le persone evacuate ed assistite nel territorio interessato dal sisma e ricadente in tre diverse regioni, Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia, sono solo per l’Emilia Romagna oltre 14’000. Al 17 giungo erano state verificate con modalità speditiva4 oltre 41’000 edifici; su circa 10’000 edifici è stata svolta anche la verifica di agibilità con scheda AEDES5 da parte di squadre di rilevatori formati nel corso “Valutazione di agibilità e rilievo del danno”, organizzato dal Dipartimento,
con un dato allarmante, oltre il 40% degli edifici risulta inagibile (classe “E” e “F”)5. La crescente sensibilità nei confronti dell’architettura povera, impropriamente detta “architettura minore”, unita ad un rinnovato gusto estetico legato al recupero conservativo dei caratteri estetico - funzionali delle unità immobiliari dell’edilizia dei centri storici e dell’edilizia rurale, rischia di essere vanificata dalla gravità dei danni subiti dagli edifici. La gravità del sisma che ha colpito l’Emilia-Romagna , come quello de l’Aquila e altri, può essere definito un vero e proprio “lutto culturale” (Beneduce, 2002). Le comunità, come le persone, non ritornano mai “come prima” dopo eventi di questa entità. “Ciò che è accaduto resta incorporato nella vita della comunità e prende vita una nuova realtà” (Van de Eynde e Veno, 1999). A questo proposito si parla oggi di un “lutto culturale”, vale a dire di una forma di perdita che comprende il mondo sociale che si era conosciuto, gli edifici e gli spazi significativi (la chiesa, la piazza) che costituivano la propria consueta geografia, le consuetudini, le ritualità, il linguaggio noti (Kaniasty e Norris, 1999).
Edificio rurale
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Chiesa parricchiale San Possidonio
Intorno a chiese, piazze, vie principali si costruisce la propria quotidianità, si intrecciano relazioni. Venendo a mancare questo, vengono a mancare le consuetudini e le ritualità dell’individuo. La ricostruzione, dopo le prime fasi dell’emergenza, è sicuramente la fase più complessa. Non solo si deve ricostruire luoghi ed edifici, ma si deve lavorare alla ricostruzione delle comunità, delle identità di gruppo e di quelle individuali. La ricostruzione deve tendere a non stravolgere l’identità dei luoghi. Bisogna evitare che all’attività del sisma si sommi l’opera frettolosa, con il suo intervento urgente, a completamento dell’azione distruttiva avviata dal cataclisma. I programmi di ricostruzione basati sul principio della massima sicurezza e prevenzione devono dimostrarsi adeguati alla natura dei luoghi. La politica d’intervento improntata sul tentativo di ridurre al minimo la pericolosità delle abitazioni deve comunque vedere salvaguardati alcuni 10
aspetti peculiari delle “architetture minori” presenti sia nei centri storici che nel territorio rurale, quali non variare i rapporti fra pieni e vuoti, non sostituire le geometrie spontanee delle case in pietra e/o mattoni con gli allineamenti propri delle case popolari , dilatando eccessivamente la distanza delle costruzioni cercando di non modificare in maniera irreversibile il modo di essere e la fisionomia dei centri emiliani. Ad oggi la crisi sismica, consistita in centinaia di repliche non ancora concluse, e che ha interessato una zona di vaste dimensioni a partire dai territori del ferrarese fino a quelli del modenese e su verso la Lombardia, ha provocato effetti devastanti sia da punto di vista orografico che insediativo, provocando da un lato danni al patrimonio storico artistico con conseguenza anche sulla economia di questo territorio, dall’altro enormi disagi alla popolazione rimasta senza abitazione. L’attenzione si è concentrata infatti oltre che sulla popolazione senzatetto anche sull’enorme patrimonio storico artistico distrutto.
Molti dei monumenti danneggiati sono vere e proprie emergenze architettoniche, punti di riferimento per l’identificazione di quei luoghi, come la Rocca Estense a San Felice sul Panaro, la basilica cattedrale di Santa Maria Assunta a Carpi, la pieve di Quarantoli, la torre dell’orologio a Finale Emilia, la chiesa parrocchiale di San Possidonio oltre alcune emergenze minori quali La chiesa Parrocchiale di Santa Maria ad Nives, la Chiesa Parrocchiale di Disvetro e molte altre ancora. Non esiste la pianura senza campanili, ognuno di essi è un riferimento per la comunità. La ricostruzione e il consolidamento di questi “luoghi” sarà importante tanto quanto quello dei capannoni e delle case. Ma quale sarà l’azione politica post sisma. Il dibattito in questo momento è molto vivo e sentito. C’è chi propone, forse anche in modo provocatorio, come l’Assessore alle Politiche per la sostenibilità della Provincia di Mantova – Alberto Grandi: “… meglio abbattere le chiese, la comunità si riorganizzi” proponendo con questo “slogan” di salvare il salvabile e per il resto ricostruire nuove geometrie per gli edifici della comunità, come un nuovo modo di relazionarsi, più adeguato ai nostri tempi (cfr. Gazzetta di Mantova del 6/6/2012). Oppure come il critico d’arte Philippe Da-
verio che vede nella “sciagura” un’opportunità, quella di riorganizzare le città sostituendo gli edifici che negli ultimi 50 anni hanno alterato l’armonia e l’eredità storica, con nuovi edifici che recuperino quest’armonia. Magari anche incentivando le demolizioni: per un metro cubo “brutto” demolito due o tre metri cubi “armonici” da ricostruire, recuperando così anche quelle “linee di orizzonte” che sono state nell’ultimo secolo deturpate e che un tempo erano caratterizzate da quei campanili che la catastrofe ha spazzato via. L’importante è dibattere evitando gli errori del passato che vanno dalle città nuove della Sicilia (Belice) imposte come nuovi modelli di vita, con una ricostruzione calata dall’alto senza rispetto dei bisogni reali della popolazione perdendo anche la memoria delle stesse pietre, agli interventi in Umbria che hanno favorito l’allontanamento dai centri storici, alle New Town de l’Aquila dove la “politica urbanistica” degli amministratori ha approfittato della distruzione della “città” favorendo la costruzione, in ogni luogo, di nuove appendici edilizie prive di qualità, mentre i centri storici evacuati e puntellati sono colpevolmente lasciati alle intemperie. Da qui emerge netta la mancanza di un approccio delle politiche urbanistiche all’analisi della vulnerabilità urbana inteChiesa parrocchiale di Disvetro
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sa come l’analisi degli aspetti tipologici e funzionali degli insediamenti urbani che influiscono sulla generazione e sull’amplificazione dei danni sismici. Le analisi talvolta usate e pensate principalmente per l’edilizia non riescono ad evidenziare le connessioni tra rischio sismico e modi d’uso del territorio, ne a far emergere una pianificazione di tipo strategico, capace di governare i processi di trasformazione urbana al fine di ridurre il rischio sismico o, più modestamente, al fine di non aumentarlo. E’ pertanto necessario che alla stesura degli atti di pianificazione preceda un’azione di conoscenza degli elementi, singoli fabbricati ed infrastrutture edilizie (strade,
reti tecnologiche, aree scoperte, …), produttori di vulnerabilità urbana (diretta o indotta) anche al fine di valutare scenari di rischi imputabili all’azione del sistema urbano in termini di danni alle persone, cose all’intero sistema economico esposto, magari mediante una scheda di rilevamento capace di parametrizzare tutti i valori di vulnerabilità e che analizzi ogni fattore di vulnerabilità ed esposizione. Appare quindi indispensabile pensare per il futuro ad una pianificazione che congiuntamente svolga azione di riordino urbanistico del sistema territoriale urbano e di miglioramento antisismico dell’edificato sia esso storico o meno.
Palazzo comunale di San Possidonio Questa scala di valutazione venne sviluppata nel 1935 da Charles Richter in collaborazione con Beno Gutenberg, entrambi del California Institute of Technology; originariamente la scala era stata fatta solo per essere usata in una particolare area della California, e solo su sismogrammi registrati da uno strumento particolare, il sismografo a torsione di Wood-Anderson. Nella definizione data da Richter, la magnitudo (M) di qualsiasi terremoto è data dal logaritmo in base dieci del massimo spostamento della traccia (rispetto allo zero, espresso in micrometri) in un sismografo a torsione di Wood-Anderson calibrato in maniera standard, se l’evento si fosse verificato a una distanza epicentrale di 100 km. 1
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La scala Mercalli-Cancani-Sieberg (MCS) è una scala che misura l’intensità di un terremoto tramite gli effetti che esso produce su persone, cose e manufatti. 3 INGV, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, http://www.ingv.it/ 4 Modalità speditiva: Tecnici esperti del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco svolgono le operazioni di verifica speditiva; una soluzione che permetterà, laddove possibile, il rientro in tempi brevi nelle proprie abitazioni al maggior numero di persone.5 Scheda di 1° livello di rilevamento danno, pronto intervento e agibilità per edifici ordinari nell’emergenza post-sismica con esito variabile da A ad F (A = Agibile; B= Temporaneamente inagibile; C = Parzialmente inagibile; D = Temporaneamente inagibile da rivedere; E = Inagibile; F = Inagibile per rischio esterno). 2
PhotoStory
Chiesa di Piaggia, Piaggia, Sellano, PG foto di Arianna Anichini
PhotoStory
Belfiore, Foligno, PG foto di Silvia Minichino
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PhotoStory
Muccia, MC foto di Silvia Minichino
Paradigmi della ricostruzione di Valerio Massaro e Matteo Scamporrino Laureando in Architettura
Urbanista, Phd Student
Cosa vuol dire ricostruire?
Messina nel 1908
Dopo ogni evento catastrofico sono due le parole che in modo più o meno tecnico immediatamente diventano inflazionate nel loro uso: emergenza e ricostruzione. La forza dell'abitudine ci sta insegnando che la parola emergenza si tramuta "fattivamente" nell'allestire campi, dare conforto a chi ne ha bisogno, procurare viveri e tutta una serie di cose che potremmo facilmente riassumere con il concetto di dignitoso ricovero. Subito dopo è la parola ricostruzione quella che più di ogni altra diventa protagonista tanto nei frangenti mediatici quanto in quelli più prettamente tecnici. In questo caso le cose si fanno più complicate, poiché nonostante tutti sembrino aver ben chiaro il concetto di ricostruzione i progetti e le metodologie per attualizzarla sembrano sempre vaghe e nel peggiore dei casi del tutto assenti.
Una città non è una scatola
La tentazione della tabula rasa
Immaginiamo che una città sia solo un "contenitore" di uomini ed attività ed avesse tutte le caratteristiche di una scatola: Una bella scatola di legno che un giorno cadendo si rompe. Se, proprio come un semplice oggetto, una città si potesse "riaggiustare" in poche ore probabilmente nessuno, o pochissimi, avrebbero dei dubbi: ricostruire vorrebbe dire tornare esattamente alle condizioni esistenti un minuto prima della “rottura”.
Mai come nella modernità sembra che ricostruire sia diventato difficile; una società mutata, leggi ed ordinamenti estremamente complessi e mutate condizioni della professione architettonica sicuramente influiscono nell'aumentare le difficoltà. Troppo spesso si ha la sensazione che le proposte emergenti per le ricostruzioni siano legate ancora ad un innamoramento congenito degli architetti a quella fase eroica del movimento moderno in cui le città ed in parte le società erano ancora da costruire: sembra che ricostruire debba diventare l'opportunità per migliorare, cambiare, implementare, correggere, rivoluzionare la città e "sperimentare" nuovi stili di vita. Per far questo la tabula rasa sembra che sia l’unica opzione possibile, mascherando i problemi di compatibilità dei progetti con fantomatici vantaggi economici.
Una città in realtà è una complessissima sovrapposizione di "strati" materiali ed immateriali: cemento, terra, mattoni, vuoto, esseri umani, relazioni sociali, affetti, sono solo la minima parte degli ingredienti che compongono un tessuto urbano. Cosa vuol dire allora ri-costruire un organismo di questo tipo? Nessuno sarebbe in grado di immaginare la fine di una ricostruzione, nessuno può credere che possa esistere il giorno in cui sentirà pronunciare "oggi la ricostruzione è finita". Non bisogna parlare di progetti finiti ma di processi compiuti. Per affrontare il tema è dunque constatare che non si tratta di un ripristino materiale di spazi architettonici, ma della "guarigione" di un organismo complesso che dopo essere stato ferito deve poter riprendere il suo percorso vitale fino a ri-ottenere un regime ottimale ed autonomo. Dunque ricostruire non è un punto di arrivo ma un punto di partenza, con cui si sceglie il futuro di un territorio. Nel passato pre-moderno ricostruire è stato spesso un'opportunità che si manifestava con progetti ben definiti ed ordinati dall'alto che si innestavano su quegli stessi tessuti feriti: progetti di modernizzazione e adeguamento a mutate condizioni sociali economiche o tecnologiche. Sicuramente progetti non estranei alle speculazioni, ma di cui in parte ne beneficiava anche la collettività. 18
Un'atteggiamento simile solo in parte a quel passato di opportunità e cambiamenti a cui si contrappone simmetricamente l'atteggiamento iper conservatore di un com'era dov'era senza appello, che rischia, dimenticandosi delle inevitabili speculazioni, di ripristinare un com'era dov'era architettonico e materiale svuotato di ogni significato e funzione che una città in quanto tale richiede. Troppo spesso si dimentica che terremotati o alluvionati non sono nè cavie nè “uomini da civilizzare”, ma sono persone che hanno sempre un loro progetto ideale. Il loro progetto è, nel bene e nel male, quella vita che avevano un attimo prima che fosse stravolta da qualcosa di incontrollabile. In Italia dunque si parla spesso di ricostruzione senza averne chiare definizioni. Se nelle pratiche urbanistiche ed architettoniche esistono definizioni e regole esse si costruiscono con modelli chiari di intervento frutto di pratica e teoria, con legislazioni adeguate ed aggiornate. Tutte cose chee sembrano mancare.
Cosa vuol dire ricostruire Grafico delle ricostruzioni e individuazione dei modelli Costi della ricostruzione (Mld di Lire)
Localizzazione ricostruzione
Strumenti ordinari
>50.000
New Town B
30.000
Misto
20.000
I In Situ
Secondo modello
Tempi della ricostruzione (anni)
Governance decentrata
Governance Centralizzata
Primo modello
U-M
< 10 A
Fenomeni di abbandono dei territori Non rilevati (Senza ombra) Rilevati (Con ombra)
>10 e <20 F
> 20 Non conclusa
Fase di ricovero? Si
Strumenti straordinari B = Belice 1968
F = Friuli 1976
I = Irpinia 1980
Nonostante l’Italia stia realizzando che non può più permettersi di valutare gli eventi calamitosi come episodi isolati, sembra che ad oggi non esistano modelli condivisi per la creazione di un’idea guida di ricostruzione (Edgington, 2009; Nimis, 2009). I terremoti non sono tutti uguali, questo è vero, ma è possibile far tesoro di errori e buone pratiche del passato per comprendere sempre più a fondo quello che sembra essere un “tema” troppo poco approfondito. Per fare questo è utile utilizzare il Grafico dei modelli desunti dai quattro grandi casi ricostruttivi italiani dal dopoguerra ad oggi cioè Belice, Friuli, Irpinia, UmbriaMarche (Guidoboni, 2011; Nimis, 2009). Essi sono inseriti in un asse cartesiano che riporta nelle ascisse la straordinarietà degli strumenti utilizzati e sulle ordinate il grado di decentramento della governance ricostruttiva. Le forme e i colori dei casi riportano dati come il costo, i tempi, la localizzazione degli interventi e la presenza o meno di fenomeni di abbandono dei rispettivi crateri. Si notano due modelli dominanti, il primo nella parte destra bassa rappresentato
U-M = Umbria Marche 1997
No
A = L’Aquila 2009
dal Friuli e da Umbria-Marche e il secondo nella parte alta e sinistra sostanziato dai casi di Irpinia e Belice. In basso a sinistra c’è il caso de L’Aquila che, non essendo ancora concluso, attende di collocarsi e attualmente può tendere verso qualsivoglia dei due modelli: in questa sede approfondiamo soprattutto gli aspetti legati alla Governance convinti che sia un aspetto nodale. Solo da meno di un anno essa è stata decentrata maggiormente passando dal governo, tramite la Protezione Civile, alla Regione. Un cambio di rotta importante verso un decentramento maggiore nella gestione del processo ricostruttivo, purtroppo ad oggi i piani di ricostruzione, pur comunali, stentano a coinvolgere la popolazione. Dal grafico si nota come lo spostamento verso destra, decentrando la governance, possa favorire il risparmio di costi e tempi, soprattutto nel medio e lungo termine. Il pensiero Tecnocratico e Demiurgico di “Comando e Controllo” della Protezione Civile ha generato inoltre effetti territoriali negativi che la Ricostruzione adesso è chiamata a gestire (Puliafito, 2010). Il Piano CASE, gli alloggi monofamiliari in terreno agricolo, la chiusura prolungata delle zone rosse e opere viabilistiche estempora19
nee stanno rappresentando un’emergenza nella ricostruzione che non permette di conciliare la necessità di rigenerazione del territorio con il Progetto di Ricostruzione Implicito di ritorno al pre-sisma che gli attori locali naturalmente ricercano (Edgington, 2009). Rischiano così di generarsi conflitto sociale e immobilismo; ricostruire a L’Aquila in maniera condivisa dopo la “diaspora” post emergenza e i “Progrom” nelle zone rosse è molto difficile, gli abitati hanno perduto i loro riferimenti vicinali sociali pre-sisma e si sono dovuti adattare a nuovi luoghi, a nuovi vicini, a nuove quotidianità (Klein, 2006). La voglia, da parte della Protezione Civile e del Governo, di “assistere”, unita alla presunzione di eterodirigere e eterodeter-
minare lo sviluppo e il futuro di un territorio scioccato, mostra i suoi evidenti limiti. Essi sono rappresentati dalle troppo visibili cicatrici del terremoto a tre anni e mezzo dal sisma, dalla mancanza di una qualsiasi idea di ricostruzione condivisa e dal mancato coordinamento delle parti di un cratere che per secoli è stato La Città Territorio. Occorre fare tesoro degli errori compiuti nel caso aquilano perchè non vengano riproposti in Emilia in occasione degli ultimi eventi sismici. L’Emergenza non deve intaccare il processo ricostruttivo con le scelte “demiurgiche” come è stato per L’Aquila, inoltre occorre da subito considerare nodale il decentramento decisionale nella pianificazione ricostruttiva.
RIferimenti Bibliografici -Edgington DW. (2009) “Recostructing Kobe”. Univ of British Columbia -Guidoboni E. & Valensise G. (2011) “Il peso economico e sociale dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni”, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Bologna. -Hass, Kates e Bowden (1977) “Recostruction Following Disaster”. MIT Press. -Klein N. (2006)“Shock Economy” Roma, Bur. -Nimis P. (2009 )“Terre mobili” Roma, Donzelli. -Puliafito A. (2009) “protezione civile S.P.A.” Roma, Aliberti. Quattro Emme.
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PhotoStory
Castello di Popola, Foligno, PG foto di Silvia Minichino
PhotoStory
Casenove, Foligno, PG foto di Chiara Serenelli
BASURAMA.
EL PROYECTO RUS Y EL TRABAJO EN RED IL PROGETTO RUS E(testiILin spagnolo LAVORO IN RETE ed italiano)
Asuncion Extractos del libro RUS. Residuos Urbanos Sólidos. Basura y espacio público en Latinoamérica. 2008-2010. Todo el libro puede leerse y descargarse gratuitamente en la página rus.basurama.org
Traduzione a cura di Debora Tonlorenzi
Estratti dal libro RUS Resisui Urbani Solidi. Rifiuti e spazio pubblico in Sud America 2008-2010. Il libro può essere consultato e scaricato gratuitamente alla pagina www.rus.basurama.org
El proyecto RUS –Residuos Urbanos Sólidos– es un proyecto de arte público multiforme centrado en el trabajo con los residuos, sean éstos sólidos, domésticos, industriales o inmateriales y, sobre todo, urbanos. RUS es también una reflexión conjunta respecto al consumo y la reutilización de los residuos y del “espacio basura” de las ciudades, a través de aproximaciones muy distintas a urbes de características particulares. Todas las ciudades en las que se ha realizado un proyecto RUS comparten una serie de conflictos como pueden ser el consumo masivo, la desigualdad en el acceso a los recursos y la precariedad en el mundo de la gestión de la basura, así como una segregación urbana salvaje, un hipertrofiado y muy rico sector informal o una obsesión por el desarrollo. Lo que en un origen comenzó como una serie de proyectos en diez ciudades de Latinoamérica, ha acabado derivando en un formato o una herramienta de trabajo para proponer proyectos de intervención urbana en ciudades contemporáneas, todas ellas en pleno desarrollo. El proyecto Residuos Urbanos Sólidos se asienta en tres ejes claros sobre los que formaliza la acción:
Lima
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Il progetto RUS-Residui Urbani Solidi -è un progetto di arte pubblica multiforme basato sul lavoro con i residui, siano essi solidi, domestici, industriali o non materiali, e soprattutto, urbani. RUS è anche una riflessione congiunta sul consumo e la riutilizzazione dei residui e dello ‘spazio rifiuti’ delle città, tramite approcci molto diversi a città con caratteristiche particolari. Tutte le città in cui è stato realizzato il progetto Rus sono accomunate da una serie di conflitti come per esempio il consumo di massa, la disparità di accesso alle risorse e la precarietà nel mondo della gestione dei rifiuti, così come da una segregazione urbana selvaggia, un ipertrofizzato e ricchissimo settore sommerso o una ossessione per lo sviluppo. Gli iniziali progetti sviluppati in dieci città latinoamericane, hanno dato origine ad un formato o a strumenti di lavoro per proporre progetti di intervento urbano in città contemporanee, tutte in pieno sviluppo. Il progetto Residui Urbani Solidi si basa su tre assi chiare su cui si formalizza l’azione:
RED. Trabajo colectivo en colaboración directa y horizontal con agentes locales. Intercambiar saberes y crear una red que perviva al propio proyecto. A su vez, trabajar desde la suma de sinergias enriquece el resultado y permite afrontar la complejidad de la realidad actual desde múltiples miradas. Se establece una relación horizontal con los artistas locales, tratando de no caer en el paternalismo unidireccional heredado del concepto clásico de “Cooperación internacional”. RUS se pensó así como una manera de plantear diálogos que condujeran a tejer redes entre agentes españoles y locales, pero sobre todo entre los propios artistas locales involucrados, con el interés de poder generar otras redes alternativas a las ya existentes.
RED (rete) Lavoro collettivo in collaborazione diretta e orizzontale con agenti locali. Scambiare conoscenze e creare una rete che perduri oltre il proprio progetto. Successivamente, lavorare dalla somma di sinergie arricchisce il risultato e permette di affrontare la complessità della realtà attuale da differenti punti di vista. Si stabilisce una relazione orizzontale con gli artisti locali, cercando di non cadere nel paternalismo unidirezionale ereditato dal concetto classico di ‘Cooperazione internazionale’. RUS è stato pensato come un modo di instaurare dialoghi che conducesssero a tessere reti tra agenti spagnoli e agenti locali, però soprattutto tra i propri artisti locali coinvolti, con l’interesse di poter generare altre reti alternative a quelle esistenti.
BASURA. Procesos productivos contemporáneos, los residuos que estos generan y su reutilización. La reutilización de materiales permite investigar los residuos que se producen en cada lugar y la gestión que se hace de ellos, poniendo de relevancia el sistema de consumo de cada país y los actores que participan en la cadena. Así mismo, permite realizar proyectos de bajo coste sin una inyección económica fuerte, lo que facilita que las personas que participan puedan mantener, crear o reproducir sus propios proyectos, sin necesidad de apoyo exterior.
BASURA (rifiuti). Processi produttivi contemporarei, i residui che questi generano e il loro riutilizzo. Il riutilizzo di materiali permette di fare ricerca sui residui che vengono prodotti in ogni luogo e sulla gestione che si fa di questi, mettendo in evidenza il sistema di consumo di ogni paese e gli attori che partecipano alla catena. Analogamente, permette di realizzare progetti a basso costo senza un intervento economico consistente, dando la possibilità alle persone che partecipano di poter mantenere, creare o riprodurre i propri progetti, senza la necessità di un appoggio esterno.
Lima
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ESPACIO PÚBLICO. Reactivación de un espacio público o visibilización de una problemática existente. Es muy importante que los proyectos RUS se materialicen en torno a un conflicto relacionado con el espacio público. Los espacios de conflicto se han multiplicado en los últimos años en la medida que las sociedades se han ido apoderando de ellos. Pensamos que hay que entenderlos todos ellos como una herramienta de trabajo y no como un campo de batalla. Nuestro deseo es fomentar un debate constructivo que pueda desembocar en un cambio de situación o propiciar una perspectiva distinta, más allá de la “visibilización” o la “denuncia”, que ya otros realizan. La red en los proyectos de RUS Adentrarse en un proyecto de “cooperación cultural” como es RUS nos genera muchas preguntas que no nos habíamos hecho hasta entonces –sobre el término “cooperación” más que sobre el término “cultural”–. El arte y la cultura siempre los hemos entendido como herramientas de transformación social y servicio público, por lo que se corría el riesgo de caer en la cooperación asistencial y unidireccional. Nos interesaba mucho más, en cambio, el concepto de transformación; una Miami
Mexico
SPAZIO PUBBLICO. Riattivazione di uno spazio pubblico o la visibilità di una problematica esistente. E’ molto importante che i progetti RUS si materializzino intorno ad un conflitto legato allo spazio pubblico. Gli spazi di conflitto si sono moltiplicati negli ultimi anni mano a mano che le società si sono impossessate di questi. Pensiamo che si debba considerarli tutti come degli strumenti di lavoro e non come campi di battaglia. Il nostro desiderio è fomentare un dibattito costruttivo che possa sfociare in un cambiamento della situazione o propiziare una prospettiva diversa, che vada oltre la “visibilità” o la “denuncia”, che altri gia attuano. La rete nei progetti di RUS Addentrarsi in un progetto di “cooperazione culturale” come RUS ci fa sorgere molte domande che non ci eravamo fatti fino ad allora sul termine “cooperazione” più che su quello “culturale”. Abbiamo sempre considerato l’arte e la cultura come strumenti di trasformazione sociale e di servizio pubblico e correvamo il rischio di cadere nella cooperazione assistenziale e unidirezionale. Ci interessava molto di più, al contrario, il concetto di trasformazione; una trasformazione che si dovreb-
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transformación que se realizara en todos nosotros –entendiendo nosotros como “ellos y nosotros”–. Frente a la cooperación al desarrollo entendida precisamente como desarrollo –¿qué desarrollo? ¿quién desarrolla a quién?– queríamos experimentar la cooperación en el sentido de “operar conjuntamente”. La cooperación, al realizarse entre personas, entre el nosotros y los otros, se trata por definición propia de una cooperación cultural, intercultural si se quiere. Cooperar implica por tanto varios agentes, y varios agentes, si están relacionados, construyen una red. Esto tiene que ver también con el carácter procesual de los proyectos. Y el proceso implica conocer la realidad local, ponerse en contacto con las personas que se desenvuelven en esa realidad e implicarse CON ellas, es decir, implica red. En el caso de los proyectos RUS, la utilidad social de la práctica artística se plantea en un contexto abierto y flexible, de carácter horizontal donde todos los agentes trabajan multidireccionalmente, no hay jerarquías sino red. Estas premisas que planteábamos desde el principio en RUS –lugares comunes muchas veces– se han llevado hasta el final en todos los proyectos, aunque con diferente grado de intensidad en el desarrollo final. Existen responsabilidades, que se comparten o se asumen en diferente grado, pero la horizontalidad es clave para tener claro estos grados de responsabilidad asumidos. Al final los
be realizzare in tutti noi -intendendo noi come “loro e noi”-. Davanti alla cooperazione per lo sviluppo intesa precisamente come sviluppo -che sviluppo? Chi sviluppa chi?- volevamo verificare la cooperazione nel significato di “operare congiuntamente”. La cooperazione, realizzandosi tra le persone, tra il noi e gli altri, per definizione propria, rimanda ad una cooperazione culturale e, se si vuole, interculturale. Cooperare implica quindi vari soggetti e se tra i vari soggetti esiste una relazione, questi danno origine ad una rete. Questo ha a che fare anche con il carattere processuale dei progetti. E il processo implica conoscere la realtà locale, mettersi in contatto con le persone coinvolte in questa realtà e relazionarsi CON queste, implica fare rete. Nel caso dei progetti RUS, l’utilità sociale della pratica artistica si inserisce in un contesto aperto e flessibile, di carattere orizzontale dove tutti gli agenti lavorano multidirezionalmente, non ci sono gerarchie ma rete. Queste premesse che abbiamo instaurato dall’inizio in RUS - molte volte luoghi comuni - sono state portate a termine in tutti i progetti, sebbene con un diverso grado di intensità nello sviluppo finale. Esistono responsabilità, che si condividono o si assumono in misure diverse, però l’ orizzontalità è la chiave per avere
Niamey
proyectos terminan definiéndose con la aportación de todos a partir de unos ejes principales, un marco generado por RUS y por el contexto, dispuesto a romperse en cualquier momento. Los proyectos RUS se establecen como conexión entre ámbitos diferentes dentro de la misma ciudad para trabajar en colaboración directa, tratando de evitar cualquier posible paternalismo. Tratamos de implicar en procesos de creación colectiva a agentes artísticos y culturales, pero también a grupos sociales que generalmente tienen un acceso más difícil a la cultura. De esta manera se consigue muchas veces crear una red diagonal: de arriba abajo y de izquierda a derecha. Llegados a este punto es necesario preguntarse: ¿Realmente hemos generado red más allá de la que se genera de forma natural al trabajar con otros? ¿Una red que permaneciera más allá del proyecto? Frente a la red entre chiari questi gradi di responsabilità che si sono assunti. Alla fine i progetti terminano definendosi con l’apporto di tutti a partire da assi principali, una struttura generata da RUS e dal contesto, soggetta a rompersi in qualsiasi momento. I progetti RUS vengono stabiliti come connessione tra ambiti diversi all’interno della stessa città per lavorare in collaborazione diretta, cercando di evitare qualsiasi paternalismo possibile. Cerchiamo di coinvolgere agenti artistico-culturali in processi di creazione collettiva, ma anche gruppi sociali che generalmente hanno un accesso più difficile alla cultura. In questo modo spesso si riesce a creare una rete diagonale: dall’alto verso il basso e da sinistra a destra.
Santo Domingo
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Arrivati a questo punto è necessario domandarsi: abbiamo realmente creato una rete al di là di quella che si generano naturalmente lavorando con gli altri? Una rete che perduri anche dopo il progetto? Di
iguales –redes que normalmente ya existen por sí solas–, efectivamente se han generado cruces entre agentes diferentes, la cuestión es saber si esa red ha permanecido en el tiempo, más allá de nuestra visita, una vez terminado el proyecto.
fronte alla rete tra pari -reti che normalmente esistono gia da sole- sono state effettivamente create delle relazioni tra agenti diversi, la questione è sapere se questa rete è rimasta nel tempo, anche dopo la nostra visita, una volta terminato il progetto.
Precisamente es la red la que da continuidad a los proyectos, ya que todos los proyectos RUS han resultado efímeros. Los proyectos efímeros provocan la necesidad de reinventarse continuamente y para ello necesitan una red que los sostenga. Esta continuidad del proyecto ha funcionado en algunos casos, como el de RUS Lima donde posteriormente se ha replicado el proceso en otros lugares de la ciudad por parte de los colaboradores. En otros es difícil comprobarlo –se evidencia una falta de evaluación y seguimiento de los proyectos, no planteada en los planteamientos iniciales de RUS–. La apuesta grande es, por tanto, conseguir generar un marco físico y relacional que tenga continuidad y que permita el desarrollo de futuros proyectos de colaboración. Esto todavía está por ver en muchos casos.
Precisamente è la rete che dà continuità ai progetti, poichè tutti i progetti RUS sono risultati di breve durata. I progetti effimeri provocano la necessità di reinventarsi continuamente e per questo hanno bisogno di una rete che li sostenga. Questa continuità del progetto ha funzionato in alcuni casi, come quello del RUS Lima dove il processo è stato in seguito ripetuto in altri luoghi della città da parte dei collaboratori. In altri è difficile dimostrarlo - si evidenzia una mancanza di valutazione e di prosecuzione dei progetti, non stabilita nelle pianificazioni iniziali di RUS-. La scommessa grande è quindi, di riuscire a generare un ambito fisico e relazionale che abbia continuità e che permetta lo sviluppo di progetti di collaborazione futuri. Questo comunque sta per realizzarsi in molti casi.
La agitación como tejedora de red, de acción y de ilusión
Il disturbo come tessitore di rete, di azione e di illusione.
Una de las reacciones que más nos ha sorprendido es la agitación que generan alrededor los proyectos que se han llevado a cabo. Hoy todavía nos preguntamos: ¿Por qué se genera? y también: ¿Por qué luego se apaga? ¿Realmente se apaga?
Una delle reazioni che ci ha sorpreso maggiormente è il disturbo che si crea intorno ai progetti che sono stati conclusi. Oggi ci chiediamo ancora: perchè si crea? E ancora: perchè poi svanisce? Davvero svanisce? Questo disturbo si crea a partire dalla irruzione di un elemento estraneo -la nostra presenza straniera- nel lavoro locale quotidiano, avvallata e finanziata dalla cooperazione spagnola, che implica che i progetti RUS abbiano un budget relativamente alto, qulacosa non frequente nei luoghi in cui ci siamo mossi. E’ stato difficile ottenere che questa situazione straordinaria non si convertisse in “estranea”, che non si trasformasse in un fenomeno che irrompe distruttivamente nell’ecosistema creativo locale, e che va a rompere questa rete emozionale e professionale, necessaria per portare a termine i progetti RUS.
Esta agitación es generada a partir de la irrupción de un elemento extraño –nuestra presencia extranjera– en el trabajo local cotidiano, avalada y financiada por la cooperación española, lo que implica que los proyectos RUS tengan un presupuesto relativamente alto, algo infrecuente en los entornos donde nos hemos movido. Que esa situación extraordinaria no se convirtiera en “extraña” ha sido difícil de lograr; no convertirse en un fenómeno que irrumpe destructivamente en el ecosistema creativo local, y rompe ese tejido de red emocional y profesional, necesario
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para llevar a cabo los proyectos RUS. A partir de esa agitación se genera la red. Esta agitación produce una alteración en varios niveles: en el mundo del arte –la comunidad artística local que se involucra directamente–; en el Centro Cultural –la flexibilidad del proyecto choca con los tiempos de la institución–; en la comunidad –el barrio, los usuarios de un espacio público, el colectivo de recolectores…–; y en la vida cotidiana –la amistad y la densa red afectiva que surge con los colaboradores–. Esta agitación ha alterado sobre todo a la comunidad artística local. En cambio en las comunidades sociales, debido al escepticismo y al desconocimiento hacia lo que es Basurama –el otro, el extranjero, el del presupuesto–, la alteración ha sido mucho menor. Una excepción en sentido opuesto donde la agitación pudo ser contraproducente fue el caso de México, donde el colectivo de los pepenadores se generó unas ilusiones que no eran acordes a los objetivos planteados. Prueba de esta agitación general es la repercusión en los medios de comunicación de casi todos los proyectos RUS, en los periódicos locales de tirada nacional y en medios independientes. Sólo en algunos casos, se ha generado agitación en forma de rechazo en los medios, como es el caso de Montevideo, denunciando una acción que se llevó a cabo en contenedores de basura.
A partire da questa interferenza si crea la rete. Essa produce alterazione a vari livelli: nel mondo dell’arte -la comunità artistica locale che viene coinvolta direttamente-; nel Centro culturale -la flessibilità del progetto si scontra con i tempi dell’istituzione-; nella comunità - il quartiere, gli utilizzatori di uno spazio pubblico, il collettivo dei raccoglitori-; e nella vita quotidiana –l’amicizia e la densa rete affettiva che nasce tra i collaboratori -. Questa interferenza ha alterato soprattutto la comunità artistica locale. Al contrario nelle comunità sociali, a causa dello scetticismo e della non conoscenza di che cosa sia Basurama - l’altro, lo straniero, quello del budget-, il disturbo è stato molto minore. Un’eccezione di significato opposto dove l’interferenza potè essere controproducente fu il caso del Messico, dove l’associazione dei raccoglitori generò delle illusioni che non erano rispondenti agli obiettivi fissati. Prova di questa agitazione generale è la ripercussione nei mezzi di comunicazione di quasi tutti i progetti RUS, nei quotidiani locali di tiratura nazionale e in mezzi indipendenti. Solo in alcuni casi è sorta un’interferenza sotto forma di rifiuto nei media, come nel caso di Montevideo, che denunciò l’azione che si concluse nei contenitori di rifiuti.
Se puede decir que los proyectos de RUS ofrecen espacios de intercambio social donde se producen “modos de sociabilidad heterogéneos”. Es en estos intersticios sociales donde se generan nuevas “posibilidades de vida”, la interacción con el medio y con los otros. Este es el motor de acción de RUS, las relaciones entre las personas. Desencadenantes para que ocurran cosas, para generar agitación, pero también para generar y experimentar herramientas de acción que puedan aportar y sumarse a la gran creatividad social latente que existe en Latinoamérica.
Possiamo affermare che i progetti RUS offrono spazi di scambio sociale dove si producono “modi di socializzazione eterogenei”. E’ in questi spazi sociali che si generano nuove “possibilità di vita”, l’interazione con l’ambiente e con gli altri. Questo è il motore dell’azione di RUS, le relazioni tra le persone. Elemento scatenante perchè avvengano le cose, per generare perturbazione, ma anche per creare e sperimentare strumenti di azione che possano apportare o possano aggiungersi alla grande creatività sociale latente che esiste in Sud America.
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Via Augusto Ciuffelli, Verchiano, Foligno, PG foto di Arianna Anichini
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Villaggio post-terremoto Annifo, Foligno foto Silvia Minichino
LA CITTA’ IN MOVIMENTO IL SISTEMA DEL TRASPORTO PUBBLICO A CURITIBA - BRASILE Carolina Ceres Sgobaro Zanette
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ALMIRANTE TAMANDARÉ
Linha Direta S. Felicidade - B. Alto Linha Direta Barreirinha - S. José Linha Direta Araucária - Curitiba Linha Direta Campo Largo - Curitiba
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Linha Direta Centenário
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Linha Direta Tamandaré/Cabral
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Linha Direta Guaraituba/Cabral
Aero Clube (Bacacheri) Aeroporto Antiga Estação Ferroviária Arcadas do Pelourinho Autódromo Biblioteca Pública do Paraná Boca Maldita Bosque João Paulo II/Portal Polonês Câmara Municipal de Curitiba Catedral Basílica Cem. Mun. São Francisco de Paula Centro de Convenções de Curitiba Centro Politécnico Correio Velho Farol da Cidade Galeria Schaffer
G-16/17
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U-22/23
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K-13
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J-13
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L-20
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J-12
Parque São Lourenço Passeio Público Praça Garibaldi
E-13 I-13 I/J-12
Relógio das Flores Fonte da Memória Igreja do Rosário Fundação Cultural de Curitiba
J-12 G/H-13
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J-13
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I/J-12
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J-12
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J-13
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E-12
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J-13
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L-15/16 Jardim Botânico/Museu Botânico L-11 Memorial da Imig. Japonesa (Pça Japão) E-9 Memorial da Imig. Ucraniana (Pq Tingui) J-18 Museu da História Natural J-12 Museu de Arte Contemporânea I-12 Museu de Arte do Paraná F-16 Museu Egípcio - Ordem Rosacruz O-10 Museu Metropolitano de Arte (Portão) J-13 Paço da Liberdade (Museu Paranaense) E-12 Ópera de Arame/Pedreira Paulo Leminski J-12 Palácio Avenida H-13 Palácio Iguaçú
H/J-8/9 Parque Barigui/Pavilhão de Exposições K/U-17/20 Parque Iguaçú
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Prefeitura Municipal de Curitiba PUC Rodoferroviária Rua 24 Horas Rua da Cidadania da Fazendinha Rua da Cidadania do Boqueirão Rua das Flores Ruínas de São Francisco Santa Felicidade/Portal Italiano Setor Histórico
I-13 L-14/15 J/K-14 J-12 O-7 R-16 J-12/13 I-12 I-10 I/J-12/13
Casa Romário Martins Feira de Artesanato Galeria Júlio Moreira Igreja da Ordem Museu de Arte Sacra Cinemateca
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Solar do Barão Teatro Guaíra Teatro Paiol Torre Mercês/Brasil Telecom Universidade Federal do Paraná Universidade Livre do Meio Ambiente Zoológico
I-13 J-13 L-14 I-10 J-13 F-11 X-16/17
CAM
PO
La storia delle innovative soluzione urbanistiche di Curitiba, una città al sud del Brasile, è stata riconosciuta in tutto il mondo con premi internazionali che le hanno reso titoli come “città modello” e “città ecologica”. La raccolta differenziata dei rifiuti, le lezioni di educazione ambientale con i bambini a scuola, l’implementazione di grandi parchi urbani e il numero elevato di area verde per abitante sono state caratteristiche che hanno contribuito a questi titoli. Però è stato l’innovativo sistema di trasporto pubblico a farla conoscere in tutto il mondo. È stato Jaime Lerner, un urbanista che parte dal principio che “la città non è un problema, ma di una soluzione”1, chiamato ad assumere il posto di sindaco di Curitiba in tempi di dittatura militare, durante il suo primo mandato ha creato, tra il 1972 i il 1974, le corsie esclusive per gli autobus, chiamati allora gli “espressi”2. In questo momento iniziava il piano che sarebbe diventato la “ rete integrata di trasporto di Curitiba” (RIT - Rede Integrada de Transporte), che si è sviluppato nel de-
correre degli anni fino al sistema che oggi è chiamato di BRT ( Bus Rapid Transit) ed è già stato impiantato in diverse altre città del mondo. La storia di questo sistema inizia dall’ idea di trovare una soluzione di trasporto di massa, come alternativa alla solita metropolitana: una soluzione in superficie - piú facile da impiantare, più veloce e meno costosa. Nel momento in cui altre citta brasiliane pensavano a investire in sottopassaggi e viadotti per facilitare il transito delle automobili (e così permettendo l’aumento di auto nelle città), Curitiba ha dato priorità al trasporto pubblico, alla collettività al posto della individualità. Si parla allora della “Brasilia dei lunghi viali, dell’uso dell’ automobile in contrasto con la Curitiba delle vie pedonali e trasporto pubblico”3. Il sistema degli autobus espressi in vie esclusive di Lerner, trasformano non soltanto la mobilità della città ma anche la sua struttura urbana. Le vie esclusive sono formate dal “sistema trinario” che consta di una via per il traffico lento, dotata di corridoi esclusivi per gli autobus e di due vie laterali con sensi opposti (centro - quartiere , quartiere -centro) e vengono chiamate “vie strutturanti”.
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Queste servirebbero da “spina dorsale” del trasporto pubblico, e sarebbero diventate zone di addensamento urbano, allegerendo il centro della città. Negli anni ottanta, si sviluppa la vera e propria Rete Integrata di Trasporto, la RIT. Nella RIT le vie strutturanti sono configurate come linee assiali dove spuntano terminali che permettono di interconnettere le diverse tipologie di linee di trasporto publico: “espressas”(le linee assiali nord-sud, est-ovest), “alimentadoras” (le linee che “alimentano” i terminali con i passeggeri dei quartieri vicini) e “interbairros” ( linee che girano fra i quartieri senza passare dal centro della città) . Nel terminale i passeggeri possono cambiare linea senza dover pagare un’altro biglietto.
(della piattaforma), permettendo il carico e lo scarico in 10 secondi ( foto 1). Tra l´altro le stazioni funzionano come piccoli terminali, dove si può cambiare di autubus senza pagare un nuovo biglietto. Negli anni seguenti anche gli expressi sono stati sostituiti da questo sistema di trasporto , però con gli autubus biarticolati, ancora più lunghi (25 metri) che potevano trasportare ancora più persone. Una vera metropolitana di superficie.
L’implementazione di un autobus articolato ( piu lungo) a questa rete, negli stessi anni, fa anche avere una economia di combustibile per passeggeri trasportati, eccellente in epoca di crisi del petrolio. Negli anni novanta nuove soluzione vengono a complementare il sistema della RIT. Sono state impiantate nella città, le famose “Estações Tubo”- che diventano una icona della città di Curitiba - con le sue linee dirette, il “Ligeirinho”. Questa novità ha reso il sistema più veloce, facendo che i passegeri pagassero subito all’ entrata della stazione tubo il loro ticket e da li prendessero l’autubus allo stesso livello
La piú recente implementazione della RIT, è stata la “Linha Verde” inaugurata nel 2009. È stata impiantata come una nuova grande via strutturante, ed è stata progettata su una un’autostrada dismessa che attraversava la città. Questo asse viene a comlpetare la rete, attendendo ormai nuove zone di addensamento della cittá che cresce in continuazione. Nel 2011 entrano in circolazione in una delle linee della RIT, i “ Ligeirões” , i piú grandi autobus del mondo lunghi 28 metri e con capacitá per 250 passegeri. Questi autubus hanno anche il differenziale di utilizzare biocombustibile 100% a base di soia, un´altra innovazione che Curitiba propone, contribuendo allo sviluppo “cosciente” del paese. Lo sviluppo di questo sistema e la visibilità di Curitiba nel mondo, è avvenuta in modo particolare grazie all’ entusiasmo di Jaime Lerner che ancora nei suoi di-
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scorsi, dice di credere che qualsiasi città del mondo possa essere trasformata in 3 anni. Crede nelle soluzioni urbane veloci e a basso costo. Ed è stato con queste idee che ha portato avanti i progetti che hanno trasformato Curitiba. In una intervista nel 1991 risponde a una domanda su questa soluzione di trasporto pubblico dicendo: “Il segreto è stato capire che dovevamo pensare a partire dalla nostra realtà. Abbiamo studiato le caratteristiche di una metropolitana e abbiamo provato a riprodurre , con soluzioni nostre, la stessa qualità di trasporto della metropolitana.” Oggi Curitiba con il suo hinterland raggiunge più di tre milioni di abitanti. Anche se con il suo buon sistema di trasporto, come tutti i centri urbani che arrivano a queste proporzioni, affronta alcuni problemi con la mobilità. Il suo sistema integrato continua a funzionare ed anche a svilupparsi. Peró Curitiba ormai chiede nuove idee, nuove soluzione , forse nuovi giovani urbanisti come è stato Lerner negli anni 70, che siano capaci di mettere in pratica i loro sogni, e che riescano a far mantenere il titolo di “modello” a questa città.
TED talks - Jaime Lerner sings of the city. DUDEQUE, Irã Taborda. Nenhum dia sem uma linha: uma história d urbanismo em Curitiba. São Paulo: Studio Nobel, 2010. 3 MENEZES, Claudio Luiz. Desenvolvimento Urbano e Meio Ambiente: E experiência de Curitiba. São Paulo: Papirus Editora, 1996. 1 2
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PhotoStory
Borgo ricostruito di Annifo, Foligno, PG foto di Silvia Minichino
NUOVI SPAZI PUBBLICI I CENTRI COMMERCIALI Annalisa Cataldi Laureanda presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze
Discontinuità ed eterogeneità, queste sono le caratteristiche principali della città contemporanea. Una città che è il risultato di quelle trasformazioni territoriali, strettamente connesse a cambiamenti tecnici, politici e sociali, che si sono manifestate per la prima volta con la rivoluzione industriale e che, susseguendosi fino ai giorni nostri, hanno avuto come tappe fondamentali l’evoluzione della città storica e la nascita di quella moderna. Ma quali erano le caratteristiche dello spazio pubblico appartenente a queste due città? e qual’era il suo rapporto con l’assetto urbano? È solo rispondendo a queste domande che possiamo riconoscerne il percorso evolutivo e capire come mai, oggi, la nuova cultura urbanistica attribuisce ai centri commerciali il ruolo di nuove centralità e, cerca di rafforzarne il carattere attrattivo, affidando i progetti a nomi illustri dell’architettura, i cosiddetti archistar. Ma com’era la città storica? e com’è nata quella moderna?
Nella città storica, la collocazione di chiese, palazzi, teatri, musei, giardini pubblici all’interno del tessuto urbano, veniva attentamente ponderata seguendo criteri estetici, mentre strade e piazze erano intese come spazi pubblici aperti, accessibili a tutti e fungevano da elemento di connessione fra le parti. Si trattava quindi, di una città dal tessuto compatto, definito, equilibrato. Una città, per la quale, il genius loci è ancora oggi facilmente riconoscibile perché resistente agli assetti funzionali. Molto diversa, invece, risulta la struttura della città moderna. Quest’ultima è stata il prodotto dello zoning, un criterio di espansione studiato per far fronte alle esigenze igieniche sorte parallelamente alla rivoluzione industriale e, in base al quale, vennero progettati piani di sviluppo improntati alla separazione delle funzioni. La struttura della città moderna risultava caratterizzata dalla divisione in aree urbane monofunzionali e architettonicamente omogenee nelle quali, lo spazio pubblico, non potendo più garantire le stesse opportunità di incontro e di relazione assicurate in precedenza, perde quei valori sociali, culturali e simbolici di cui era portatore nella città storica. Oggi, le nostre città, sono figlie della globalizzazione. Le tecniche software hanno cambiato il significato del tempo e dello 40
spazio e questo ha inciso profondamente sia nell’evolversi dei processi politici ed economici, che nella progettazione degli assetti urbani. L’annullamento delle distanze ha, infatti, favorito l’espansione policentrica della città; una tipologia strutturale, costituita da poli messi in relazione fra loro attraverso un sistema di collegamenti fortemente gerarchizzato e, nel quale sono compresi anche gli spostamenti virtuali. Questi ultimi, attivando un funzionamento reticolare della città, trasferiscono alle tecniche software parte del ruolo di collante sociale che prima apparteneva alle piazze, dando il via ad un processo di ulteriore frantumazione dell’identità urbana, che sfocia nell’affermazione dell’individualismo a scapito del valore comunitario. Lo spazio urbano, non è più, quindi, il luogo dell’incontro, ma esprime l’indifferenza degli individui che lo vivono. All’interno di esso il cittadino contemporaneo esercita competitività e potere, manifesta il desiderio di denaro, e cerca, in ogni modo, di appagare i propri bisogni materiali. Nel mondo della globalizzazione, quindi, l’agire dei residenti non è più guidato da un sentimento di appartenenza ad un luogo e ad una comunità ma è fortemente influenzato dai simboli connessi al consumo. Ed è proprio attraverso i meccanismi del consumo, che la società contemporanea
cercando di omogeneizzare le diversità sociali e territoriali. Lo spazio pubblico perde, così, il suo carattere originario di spazio aperto non controllato e assume due nuove connotazioni: quella di spazio virtuale, prodotto delle tecniche software e grazie al quale oggi è possibile interagire facilmente anche a distanza, e quella di spazio chiuso, privato ma usato pubblicamente. Grandi e attraenti contenitori di svago e consumo, tra i quali i centri commerciali, sostituiscono, nelle aree disordinate delle grandi metropoli, lo spazio istituzionale delle piazze e dei corsi, assumendo il ruolo di nuove centralità urbane. Si tratta di spazi chiusi controllati, estranei ad ogni tipo di contesto, all’interno dei quali, i fruitori, si sentono al sicuro, liberi da quella sensazione di paura, che è propria del cittadino metropolitano. Ma può essere definito pubblico uno spazio dal carattere privato? Se infatti per pubblico intendiamo uno spazio che appartiene a tutti in quanto cittadini, ecco allora che oggi lo spazio pubblico non è più tale, ma si è trasformato in spazio collettivo e, cioè, in uno spazio condiviso da più consumatori e accessibile solo a coloro i quali hanno un potere d’acquisto. Detto questo appare evidente, la necessità per la città contemporanea di reinventarsi. Ma in che modo si può tornare a progettare luoghi capaci di colmare il desiderio di collettività se la società alla quale sono destinati è quella globale, la cui caratteristica
principale è l’individualismo? La chiave di questa risposta è nell’analisi dell’agire cittadino; solo così, infatti, potremmo conoscerne a fondo le diversità e trovare il modo affinché non restino isolate e ancora temute. Per far questo, se è vero che, negli ultimi decenni, la vita sociale di ogni singolo abitante, è stata fortemente condizionata dalla propria appartenenza ad un quartiere piuttosto che ad un altro, risulta necessaria un’operazione di riprogettazione degli spazi sul modello ideale della città storica. Questa, infatti, rappresentando un modello sostenibile che ha mostrato la sua efficacia attraverso la storia, potrebbe essere d’esempio per dar vita ad una spazialità estesa nella quale le diversità funzionali e sociali vengono connesse e omogeneizzate dagli spazi pubblici che, a loro volta, è necessario siano il riflesso del nuovo vivere sociale.
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PhotoStory
Castello di Rasiglia, Foligno, PG foto di Paolo Santarelli
PAESAGGI ROMANI Francesco Ghio
professore presso Università Roma Tre Facoltà di Architettura
Schema interpretativo dell’area romana, la piana ondulata di Roma chiusa tra l’anfiteatro dei rilievi vulcanici e la costa (Vittoria Calzolari, tratto da: Paesistica/Paisaje, Arquitectura y Urbanismo n.73, Ed. Istituto Universitario de Urbanistica, 2012
Ricercare nel paesaggio della città di Roma e della campagna romana i caratteri di identità di un sistema degli spazi aperti è molto più difficile di quanto non lo sia per altre città storiche italiane; non troveremo né lineamenti strutturali decisi né tipi facilmente classificabili. Il territorio romano sfugge a semplici classificazioni: per secoli è stato quasi abbandonato, esteso attorno ad un nucleo abitato che si ampliava e contraeva all’interno delle Mura Aureliane, cosicché anche la trama colturale, che è sempre un forte elemento di struttura e di identità del paesaggio, è qui confusa e spesso assente, se non per le parti che sono state oggetto di bonifica. I caratteri del territorio di Roma son descritti da Ludovico Quaroni, con la ricchezza di immagini propria del suo linguaggio, nel libro che le ha dedicato (L’immagine di Roma – 1969): “una ondulazione particolare fatta di leggere valli lungo le marane, che non possiamo dire pianura e non è ancora collina, articola lo spazio della campagna romana, quel territorio che, intorno al Tevere e all’Aniene, si definisce nel mare e nei colli, si confonde nell’Agro Pontino
La struttura geologica del territorio di Roma
e nella Maremma. L’orizzonte è molto più vasto di quelli che possono offrire le campagne umbro-toscane e, anche se chiuso nella dimensione di una delle valli lungo i fossi, non si limita mai, come nella pianura padana e nella terra di lavoro, ai primi e ai secondi piani: direi, anzi, che la sua caratteristica è quella di non articolarsi – come si richiede a tutti i paesaggi canonici – in un primo, secondo e terzo piano, ma di svilupparsi, al contrario, in una serie vasta e continua di spazi, senza una distanza, un ordine, una funzione rigida preordinata, e di lasciare alla luce la responsabilità di definirli, caso per caso, in relazione alle nuvole nel cielo ed alla loro ombra sulla terra, all’ora che accende o smorza i raggi del sole e alla stagione che li colora, come colora la terra il fango dorato o di verde, di foglie o di fiori.” E’ un paesaggio che si adagia tra i monti Sabatini, i Tiburtini e i Colli Albani, solcato dalle acque che scorrono lentamente per mezzo di fossi e antiche marrane verso la piana alluvionale del Tevere e dell’Aniene. La città antica è nata nella piana alluvionale, non per caso, proprio in quella parte di territorio che resta compresa tra i due fiumi e “protetta” dalle leggere acclività del terreno; e sono proprio le acque a costituire il filo conduttore per comprendere e interpretare i caratteri del paesaggio romano: acque dei fossi, delle marrane, dei fiumi, 44
ma anche acque canalizzate in epoca romana che hanno dato vita allo straordinario paesaggio degli acquedotti, manufatti che più di altri hanno segnato, caratterizzato e qualificato l’immagine degli spazi aperti delle periferie e della campagna romana. In anni recenti Roma è stata oggetto di una ampia azione di riqualificazione urbana: alla grande scala, con l’adozione del nuovo Piano Regolatore che ha definito i luoghi trasformabili e quelli da salvaguardare, le nuove centralità urbane, i corridoi ecologici, il piano per una mobilità sostenibile; alla piccola scala con un nuovo interesse per la riqualificazione degli spazi pubblici – strade, passeggiate, parchi, piazze – sia all’interno delle mura urbane, sia nelle vaste zone occupate dall’espansione moderna. Impropria sarebbe stata una politica unitaria e omogenea di riqualificazione degli spazi aperti, data la diversità fra il compatto, ancorché variegato, patrimonio architettonico e urbano antico e la polverizzata e frammentaria espansione moderna. Sono così nati più programmi, a volte paralleli, per le aree basilicali come per le piazze di quartiere, restituendo identità alle piazze storiche e a quelle di periferia, ma anche creando spazi pubblici nelle nuove centralità urbane, intervenendo nelle vicine ville storiche e realizzando in periferia decine di nuove aree a verde pubblico.
L’insediamento urbano e il sistema degli spazi aperti
Un programma articolato e positivo che però non è riuscito ad incidere proprio su quel sistema di Paesaggi Aperti che caratterizza, e potenzialmente qualifica, la periferia del territorio romano. Nel suo cuore antico, cosi come nelle parti migliori delle sue espansioni novecentesche, Roma è una città fatta di pieni e di vuoti (già Bernini visitando Parigi nel 1665 accompagnato da Chantelou faceva notare quanto Parigi fosse una città troppo chiusa, diversa da Roma dove la grandiosità delle piazze esalta la magnificenza delle chiese e dei palazzi), una qualità straordinaria che garantisce da secoli l’equilibrio tra pieni e vuoti cittadini, tessuti urbani esaltati dalle acclività naturali dei colli, rafforzati nelle loro relazioni dagli interventi Sistini. A differenza di altre città e capitali europee Roma non ha avuto bisogno di Haussmann, Cerdà o Nash; possedeva già alla fine del seicento una successione di spazi pubblici di straordinario valore urbano e architettonico, un sistema di pieni e di vuoti che, dal punto di vista del paesaggista, appartengono comunque alla categoria dei Paesaggi Chiusi: piazze, parchi, giardini, anche di grande dimensione rientrano in questa categoria quando il progetto ha limiti chiaramente definiti: non importa se si tratta di una piccola piazza o di un giardino reale, è comunque una porzione di territorio, progettata e costruita in modo unitario o per addizioni successive,
definita in se stessa che non necessita di stabilire relazioni con il territorio circostante. Sono paesaggi chiusi villa Adriana e villa Lante, piazza del Popolo e piazza Navona così come lo sono – a puro titolo di esempio – il parco parigino della Villette o i parchi inglesi di Capability Brown. La cultura del progetto degli spazi aperti, in Italia, si è nel tempo ancorata a due diversi approcci cui corrispondono distinte interpretazioni del paesaggio e diverse modalità di governarne le trasformazioni. Il primo è quello della progettazione paesistica, che fa capo all’insieme delle conoscenze, delle procedure e delle attività inerenti alla pianificazione, recupero e riqualificazione di territori urbani ed extraurbani. Questo approccio è tipicamente quello di un urbanista particolarmente sensibile ai valori dell'ambiente e del paesaggio e si esprime attraverso Piani d'area vasta, Piani paesistici, Piani territoriali provinciali e regionali, Piani delle Comunità Montane, Piani di Bacino, strumenti che, nelle loro espressioni migliori, tutelano frammenti di “paesaggi italiani”. Il secondo approccio è quello dell’architettura del paesaggio, qui intesa come progettazione più propriamente riconducibile alla definizione architettonica degli spazi aperti, pubblici e privati: piazze e spazi pedonali urbani, aree archeologiche, parchi, segmenti di rive, giardini permanenti o 45
Acquedotti, strade consolari, mura aureliane
effimeri. In questo secondo ambito includiamo anche un ampio campo di ricerca e di attività professionale dedicato allo specifico tema del restauro di giardini e parchi storici, che spesso intende il progetto come conservazione filologica, in modo ancora più ideologico di quanto avvenga nel campo del restauro architettonico. Si tratta, nella maggior parte dei casi di Paesaggi Chiusi o di al più di “affacci” su Paesaggi Aperti, non a caso oggetto di progettazione da parte di Architetti e Paesaggisti, a seconda delle circostanze e delle specifiche realtà professionali nazionali. La ricerca, la didattica e la pratica professionale e quella del governo amministrativo del territorio si sono in gran parte allineate su queste posizioni (pensando ovviamente ai casi più virtuosi e positivi). Tuttavia, in tempi più recenti assistiamo al riemergere dell’attenzione verso quelli che qui definiamo come progetti di Paesaggi Aperti, progetti che, indipendentemente da questioni dimensionali, hanno l’ambizione di definire e caratterizzare l’architettura del paesaggio a partire da legami fondati e profondi con le sue matrici territoriali. È un approccio al progetto che si nutre di lezioni diverse. La prima lezione è intimamente italiana. Tra le tappe fondamentali il VI Convegno INU dal tema “Difesa e valorizzazione del 46
paesaggio urbano e rurale” (Lucca, 1957): la prima occasione in cui architetti e urbanisti sono chiamati a guardare al paesaggio come tema complessivo di progetto, di là da questioni dimensionali, di competenze professionali, di appartenenze a scuole o a linguaggi. Nel 1962 Giancarlo De Carlo organizza a Stresa il seminario “La nuova dimensione della città. La città regione”. Pochi anni dopo, Vittorio Gregotti dà alle stampe il noto numero monografico “La forma del territorio” di Edilizia Moderna (8788/1966), evidenziando l’importanza di “indagare quali problemi vengano posti in primo piano dal considerare il nostro lavoro di architetti come lavoro sugli insiemi ambientali a tutte le scale dimensionali” e inserendo il tema della “figura della città” in quello più vasto della “figura del territorio”. Sono gli anni in cui Ernesto Nathan Rogers è alla direzione di CasabellaContinuità, che diventa riferimento per i progettisti che guardano alle componenti morfologiche, geografiche e paesaggistiche così come storiche e culturali dei luoghi, a fronte della crisi dell’architettura e dell’urbanistica funzionalista. La ricerca teorica trova verifica e stimolo in alcune importanti opere di architettura degli anni Settanta e Ottanta con le opere di Costantino Dardi, Roberto Gabetti e Aimaro Isola, Giancarlo De Carlo, France-
Roma, nuovi spazi pubblici: Tor Pignattara, il Paesaggio Aperto di Largo Pettazzoni lungo lâ&#x20AC;&#x2122;acquedotto Alessandrino, 1997
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sco Venezia; per quanto riguarda il progetto dello spazio aperto, la ricaduta di queste posizioni sarà più significativa solo con un decennio di ritardo, quello che in urbanistica si suole chiamare dei Piani di Terza Generazione che, pur con i tanti e gravi limiti, si concentrano sul tema della morfologia urbana, delle aree interstiziali inedificate, delle relazioni ambientali all’interno degli ecosistemi urbani. In questo contesto opera Bernardo Secchi cui si deve il lucido e inventivo tentativo di applicare il principio dell’interscalarità con piani-progetto che tengono insieme il controllo dell’intelaiatura territoriale della dimensione vasta “il piano direttore” con la definizione spaziale dei luoghi che di tale intelaiatura costituiscono i gangli nevralgici, prefigurando la forma degli spazi pubblici e dei luoghi centrali più importanti “progetti norma” e “progetti di suolo”. Occorre qui ricordare il contributo specifico di autori che, provenendo dall’ambito del progetto urbanistico, hanno fatto del paesaggio il loro campo di elezione tramutando in piani e progetti il paradigma reticolare. Il riferimento è soprattutto a Vittoria Calzolari, con i suoi studi e progetti per la città di Siena (che s’intersecano con il lavoro di Bernardo Secchi, 1988-90), Brescia (1986-89), per il Parco dell’Appia Antica a Roma (1976 e 1984) e in modo ancora più sistematico col la ricerca “Storia e natura come sistema, un progetto per il territorio libero dell’area romana” (Ed. Argos 1999) e, per altri versi, a Roberto Gambino, in particolare per quanto riguarda il progetto delle aree naturali protette. Le altre lezioni derivano dall’assimilazione critica degli esiti di esperienze straniere: la cultura del progetto di paesaggio, sino a quindici o venti anni fa in Italia relegata a circuiti di comunicazione molto ristretti, diventa protagonista di una parte consistente della pubblicistica e ciò ha indiscutibilmente arricchito la conoscenza di strumenti e metodi altrove applicati con successo. In particolare, il paesaggismo 48
italiano negli anni più recenti ha guardato con grande interesse e curiosità all’opera di autori di scuola francese che tradizionalmente condividono un metodo di lavoro che fa della scala intermedia il punto privilegiato di messa a fuoco, spiccano tra le altre le ricerche di Michel Corajoud, Jacques Coulon, Michel Desvigne. Un chiaro esempio di Paesaggio Aperto è il progetto di Desvigne per la città di Issodun, dove nei primi anni Novanta realizza il noto parco Mitterand, attingendo al vocabolario di segni, figure e significati del paesaggio campestre locale. Dieci anni dopo, la cittadina francese, nel tempo accresciuta, si affida nuovamente a Desvigne per il progetto paesaggistico dell’intera città e del suo territorio, ove nel frattempo nuovi insediamenti si sono espansi in modo incoerente, minando la leggibilità di un paesaggio agricolo fortemente connotato. Attraverso la scomposizione del paesaggio per sistemi di elementi omogenei, Desvigne ne riconosce la struttura principale nei confini dei campi e nei canali di drenaggio, entrambi organizzati per direttrici radiali, che si diramano dal centro medievale della città, e corde tese tra di esse. Il progetto rafforza questi segni, con una nuova trama di sentieri come supporto a futuri usi diversi dei terreni e riattivando i canali in disuso. Il risultato è un passaggio graduale e osmotico tra la città consolidata e la campagna vera e propria che condividono un analogo ordinamento spaziale, un’unica intelaiatura suscettibile ad accogliere nel tempo le esigenze di crescita o solo di cambiamento della città; alcuni campi potranno accogliere nuovi edifici, altri diventare degli spazi pubblici, all’inizio molto rustici e semplici, come campi di terra battuta, frutteti o pioppeti, che nel tempo potranno divenire un po’ più sofisticati e ospitare spazi attrezzati per lo sport e il gioco. Il precedente parco Mitterand, cellula primigenia di questo nuovo paesaggio-mosaico, non ne sarà che una tessera perfettamente integrata nell’insieme.
Parco Mitterand a Issodun, Michel Desvigne con Christine Dalnoky 1992-1994
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Nel caso di Roma il sistema storico-ambientale, i caratteri fisico-naturalistici e quelli storici, considerati come sistema e nella loro reciproca interrelazione – sono da assumere come elemento primario e prioritario, ordinatore e qualificatore nella riorganizzazione fisica, funzionale e formale del territorio antropizzato. Fanno parte di questo sistema, oltre alla struttura geologica, il reticolo delle acque (fiumi, marrane, sorgenti) la trama dei luoghi vegetati (boschi, aree coltivate, vallate, parchi, ville, giardini), la trama dei luoghi storici e archeologici e quella dei tracciati e delle strutture lineari antiche o recenti (percorsi storici, strade parco, acquedotti). Assumere il sistema storico-ambientale come dato di partenza per la progettazione del territorio é necessario per ragioni ecologiche, dato il consumo di suolo che in particolare negli ultimi anni ha caratterizzato la crescita della città, è necessario per contrastare la perdita della struttura, della forma, dell’immagine di Roma con una attenzione rinnovata alla qualità e alla struttura degli spazi liberi, alla correlazione tra permanenze storiche e caratteri ambientali dei loro siti. Se il centro storico di Roma, i suoi percorsi, monumenti, complessi storici mantengono ancora un’altissima qualità e un forte potere evocativo, le sue periferie – vecchie e nuove – sono invece, nonostante le molte risorse investite nel tempo, di bassa qualità urbana e ambientale. E in questo contesto le “vie” tracciate dai fiumi – in particolare dall’Aniene – e dagli antichi acquedotti Vetus, Marcio, Claudio, Anio Novus, Felice, Alessandrino che segnano sul versante est il corpo urbano e la campagna romana, sono esempi significativi di Paesaggi Aperti e costituiscono una grande opportunità per indagare le possibili relazioni tra parti distinte della città: abitati attraversati dai “solenni ruderi”, frammenti di agro e margini fluviali, densi agglomerati urbani o molli tessuti edilizi, pianificati o spontanei, confinati o dispersi sull'orizzonte dell'agro che reclamano strategie di connessione, attendono 50
progetti di valorizzazione, investono il destino delle comunità insediate. Da questa ampia porzione del territorio romano estrapoliamo – a titolo di esempio – due ambiti strategici, esempi di Paesaggi Aperti che attendono da tempo un programma di riqualificazione ambientale, paesaggistica, urbana. Partendo da nord est, il primo di questi ambiti è quello del fiume Aniene (l’antico Parensius), fiume di buona portata, utilizzato fin dal II secolo a. c. per alimentare uno dei primi acquedotti (Marcio), luogo di costruzione di numerose ville romane, fonte di approvvigionamento per l’acqua che alimenta Villa d’Este. Un bacino idrico interessante e complesso, irrorato da una serie di piccoli affluenti e dai tanti fossi che discendono dai Castelli, martoriato nel corso dell’ultimo secolo da una attività di estrazione del travertino all’altezza di Tivoli troppo intensa e profonda, inquinato da scarichi industriali, ma che ancora conserva, anche nel tratto in cui attraversa Roma, un’eccezionale successione di spazi aperti di notevole qualità paesaggistica e ambientale che entrano nel corpo della città fino alla sua confluenza con il Tevere. Lungo il fiume, dentro e fuori dal raccordo anulare, si affacciano quartieri di edilizia pubblica, insediamenti privati, attrezzature terziarie, ma il carattere torrentizio del fiume, le sue piene ricorrenti, la mancanza di argini costruiti, i tanti spazi liberi necessari per le frequenti esondazioni, hanno garantito la conservazione di un sistema di aree naturali di ampie dimensioni fino nel cuore della città. E’ però un sistema di spazi interrotti: campi coltivati, frammenti di giardini, lunghe teorie di orti, si alternano a tratti di aree abbandonate, antiche cave di tufo, campi sportivi, ex aree industriali e frammenti di città edificata che si spingono quasi fino all’argine del fiume. Dal punto di vista normativo si tratta di un’area protetta (Riserva Naturale Parco dell’Aniene) ma nei fatti gli interventi di governo di questo territorio si limitano alla tutela delle aree libere. Si tratta invece
Casale Caletto: (in senso orario) il sistema ambientale, il margine chiuso verso il quartiere, affaccio sull'Aniene, uno scorcio sullâ&#x20AC;&#x2122;Aniene 2012
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di uno dei più interessanti Paesaggi Aperti romani che una accorta regia potrebbe trasformare in parco stategico sia dal punto di vista urbano che metropolitano. Casale Caletto, ad esempio, è un piccolo quartiere di edilizia pubblica, costruito negli anni ’90 quasi a ridosso del raccordo anulare, appena qualche metro al di sopra della quota di massima esondazione, caratterizzato da grandi corti poco frequentate aperte verso il fiume; una recinzione impedisce l’accesso diretto alla Riserva Naturale e simboleggia – in qualche misura – le contraddizioni tipiche delle nostre aree metropolitane: luoghi contigui, entrambi pubblici, entrambi in stato di semi-abbandono, gestiti da enti diversi incapaci di costruire un programma e un progetto di governo del territorio che potrebbe invece giovarsi di finanziamenti regionali, nazionali ed europei ma anche di risorse private. Il secondo ambito è forse ancora più significativo: nell’area sud est di Roma, camminando lungo via Appia Nuova, dopo avere attraversato i grandi edifici anni settanta di largo dei Colli Albani, Roma improvvisamente si apre nella campagna: sulla nostra destra la strada inizia a costeggiare il grande cuneo verde del parco dell’Appia Antica mentre a sinistra un grande incrocio stradale consente di avviarsi verso la via Tuscolana che poi incrocia l’acquedotto Felice all’altezza del Mandrione. Quello che sfugge a prima vista, anche per via di lievi cambi altimetrici è il cancello che immette in un tratto, - ancora perfettamente conservato - dell’antica via Latina. La fama mondiale di cui giustamente gode via Appia Antica con il sistema di ville, mausolei, catacombe che la correda e lo straordinario parco che la circonda ha oscurato questo piccolo tratto di strada consolare: la piccola area archeologica si sviluppa lungo i margini della via Latina per circa 450 metri e si conclude all’altezza di una Basilica protocristiana parzialmente interrata; ci troviamo in realtà all’interno di un “parco”, tanto ampio quanto frammentato, che si estende per circa molti 52
ettari tra la Tuscolana e l’Appia Nuova e fa parte del più vasto Parco Regionale dell’Appia Antica; include gli acquedotti Claudio e Marcio-Felice resti di due importanti ville suburbane romane e di numerosi monumenti funerari; la via Latina passava di qui, ma oggi dopo il primo stupefacente tratto protetto, si interrompe bruscamente contro dei capannoni abusivi; la strada cambia nome e diventa via del Campo Barbarico (non si può non restare interdetti è un nome antico? è il toponimo di un’insediamento chiaramente abusivo?) In realta il nome è dovuto ai Goti che qui si erano accampati nel 537 d.C. dopo aver tagliato gli acquedotti per preparare l’assedio a Roma. Poco più avanti la Torre del Fiscale costruita nel XIII secolo poggia sopra i due acquedotti Claudio e Marcio, che si incrociano in questo punto. Sono questi anche i luoghi degli “orti di guerra”; dove nel dopoguerra si stabilirono emigranti sentatetto che qui (come in molte altre zone in prossimità dell’acquedotto) abitavano nelle baracche costruite sfruttando le sue arcate e coltivavano orti lungo i fossi e le marane. Un’area in parte recuperata come Parco degli Acquedotti, con straordinari scorci di campagna romana e ricca di violente contraddizioni: la via Latina interrotta, il campo barbarico che si interseca con casali e colombari romani, il parco degli acquedotti liberato dalle baracche ma che non riesce a restituire un immagine convincente di campagna romana e non ne propone una nuova. Entrambi i casi citati sono caratterizzati dalla naturalità e dall’impronta antropica che contraddistinguono gli spazi aperti, la struttura vegetale, gli usi, le permanenze storiche, le parti di urbano; l’obiettivo è quello di comprenderne le qualità, l’estensione e le potenzialità esprimibili nel contesto più generale del progetto ambientale e di delineare regole e criteri utili per la progettazione di questi spazi aperti.
Tor Fiscale: (in senso orario) il Parco degli Acquedotti, resti di una baracca alla base della torre, il tratto antico di via Latina che si interrompe nel Campo Barbarico, capannoni lungo via del Campo Barbarico, La Torre del Fiscale - 2012
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PhotoStory
Mevale, Visso, MC, foto di Arianna Anichini
RECENSIONE
Altri Paesaggi di Joan Noguè di Enrico Falqui docente presso l’Università degli Studi di Firenze, Direttore del Laboratorio di Ricerca in Architettura ed Ecologia del Paesaggio (Lab AEP), Facoltà di Architettura di Firenze
Non si tratta di un generico libro “di“ Paesaggio, bensì di un testo “per“ il Paesaggio, la cui lettura educa l’individuo ad una “coscienza“ del paesaggio contemporaneo, nelle sue variegate e spesso sconosciute eterogeneicità. Coscienza è una qualità della Mente necessaria per percepire ed interpretare il paesaggio come sistema di relazioni e di trame, di pieni e di vuoti, di beni comuni e di luoghi identitari, di culture materiali e di linguaggi primordiali; il principale merito di questo libro è quello di fornire al lettore gli strumenti giusti per acquisirla nel complesso labirinto dei territori e degli spazi urbani contemporanei. Joan Noguè, geografo paesaggista spagnolo, passa in rassegna, in questo testo, un’ampia “galleria“ di temi che hanno caratterizzato la cultura paesaggistica fin dalle sue origini. Temi quali, la contemplazione estetica del paesaggio, la percezione 55
di esso attraverso il viaggio e il cammino, il recupero del significato del genius loci, la percezione emotiva e sensoriale del paesaggio vengono declinati dall’Autore nel Territorio della società contemporanea, facendo scoprire al lettore una nuova sintassi e una nuova grammatica del Paesaggio. Attraverso questi nuovi strumenti di lettura e interpretazione, il lettore viene “condotto per mano “da Noguè a confrontarsi con i nuovi linguaggi di percezione e comunicazione dei Paesaggi contemporanei. Con sapiente maestria, Noguè ci fa esplorare il linguaggio del cinema e quello della letteratura come “mezzi” capaci di comunicare il senso dei luoghi e l’eccellenza dei paesaggi, attraverso la nostra dinamica interiore delle “cartografie emotive”. Noguè, in questo libro, si spinge ben oltre la nuova definizione di Paesaggio della CEP e dei relativi nuovi criteri di valutazione del patrimonio. Le sue straordinarie “sintesi” tra teorie e prassi paesaggistiche, ci conducono a cercare di interpretare paesaggi “ibridi” della società contempora-
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nea, ad esplorare, con lo stesso gusto dei pionieri e degli esploratori ottocenteschi, le “terre e gli spazi di confine”, i paesaggi tangibili ed intangibili di questo nuovo secolo, i paesaggi sonori e i paesaggi del silenzio, i paesaggi delle zone marginali del territorio. Noguè non dimentica il paesaggio urbano, collocandolo in una dimensione globale che comprende le nuove scenografie urbane della città contemporanea (la città infinita, senza limiti; gli spazi urbani delle nuove povertà, le periferie e gli spazi di margine), al pari delle nuove “ rovine” della città contemporanea (gli spazi urbani abbandonati, le aree e i contenitori dismessi, gli spazi del rifiuto). Nonostante il titolo pessimista dell’ultimo capitolo (Requiem per il Paesaggio), Noguè non smette di sorprenderci in questo suo nuovo vocabolario “per “ il Paesaggio, concludendo così: “Se c’è una cosa buona nell’attuale crisi economica è che ci offre l’opportunità di cambiare un modello così insostenibile e pernicioso come quello descritto finora”.
RECENSIONI di Eventi
STRADE, MEMORIA E SVILUPPO di Chiara Serenelli e Maria Teresa Idone Phd Student, DUPT, Università degli Studi di Firenze
Architetto/ Phd Student
La strada è sempre stata un luogo di scambio dove merci, idee, popoli e culture si sono incontrate. Dalla via della Seta al Cammino di San Giacomo, alcune strade emblematiche raccontano la storia dell’umanità, così come le vie di comunicazioni locali conservano le tracce degli spostamenti di individui e singole comunità. Ripercorrendole oggi, in un’esperienza che assume una dimensione spazio-temporale, il viaggiatore riscopre e rafforza la memoria individuale, familiare, comunitaria e nazionale anche confrontandosi con le differenze e le altre individualità che incontra. Ed è proprio nel camminare e nel dialogo con l’altro che si costruisce un forte senso di appartenenza. Il recente Convegno Internazionale tenutosi a Québec City “Routes touristiques et itinéraires culturels, entre mémoire et développement” (Strade turistiche e itinerari culturali, tra memoria e sviluppo, 13-15 giugno 2012) è stata un’importante occasione per discutere del potenziale non 57
solo turistico, ma anche da un punto di vista culturale, patrimoniale, antropologico e territoriale che questi itinerari racchiudono in sé. Questo primo convegno di portata internazionale sugli itinerari culturali, svoltosi in tre lingue ufficiali e promosso dall’università di Laval in collaborazione con l’UNESCO e numerose altre istituzioni, ha permesso di disegnare una nuova
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geografia proprio ripartendo dalle strade e dal camminare, alla scala territoriale e alla scala urbana, su cui impostare politiche di sviluppo e progetti di cooperazione. Sito internet di riferimento http://QuebecUNITWIN.ggr.ulaval. ca/?lang=en
www.verdiananetwork.com info@verdiananetwork.com
Verdiana Network Mission
Associazione di promozione sociale senza fini di lucro che diffonde una cultura della sostenibilità dello sviluppo urbano e territoriale, della conservazione e gestione del paesaggio e del patrimonio naturale e culturale, secondo i principi della Convenzione Europea sul Paesaggio (Firenze, ottobre 2000) e il modello di città creativa definito dallo Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo (SSSE, Potsdam, maggio 1999). Verdiana Network svolge progetti di ricerca, formazione e sensibilizzazione sui parchi, le aree protette e le reti ecologiche, gli itinerari culturali, gli ecomusei, i distretti culturali, la riqualificazione dei quartieri urbani e periurbani, la Valutazione Ambientale Stategica (VAS) e la pianificazione urbana e territoriale a partecipazione pubblica, anche in collaborazione con Università, Istituti di ricerca ed Enti pubblici, con la possibilità di coinvolgere studenti e giovani laureati attraverso tirocini e stage formativi. Verdiana Network offre al pubblico interessato la possibilità di riflettere e creare dibattiti sugli argomenti oggetto della propria attività tramite la pubblicazione periodica di articoli scientifici e divulgativi nella rivista on-line Network in Progress.
Attività
Nel territorio di Marche e Umbria, in collaborazione con le Fondazioni Cassa di Risparmio di Loreto, Macerata, Foligno e Perugia, Verdiana Network ha svolto un progetto di ricerca per il recupero dei cammini di pellegrinaggio al Santuario di Loreto e la sua menzione a Itinerario Culturale Europeo, unendo all’indagine storiografica e cartografica un approccio paesaggistico alla progettazione. In Lunigiana (Toscana), con la collaborazione dei Comuni di Fivizzano, Aulla, Bagnone, Fosdinovo, Licciana Nardi e Villafranca, il patrocinio della Regione Toscana, Verdiana Network ha promosso e coordinato il Corso di Formazione e Aggiornamento professionale Parchi naturali, aree protette e reti ecologiche per lo sviluppo del territorio, che ha portato all’elaborazione e all’esposizione di interessanti proposte progettuali per il territorio. Per la città di Firenze Verdiana Network è impegnata in un’iniziativa, denominata Progetto Cartoline, di sensibilizzazione al tema del degrado, dell’abbandono e della necessità del recupero degli spazi della città contemporanea, nata all’interno della ricerca per un Urban Center nell’area metropolitana fiorentina, oggetto di pubblicazioni convegni ed esposizioni.