EDITORIALE
In memoria di Mario Ghio di Enrico Falqui
Crescita della città e consumo di suolo
di Edoardo Salzano
Patrimonio ed Abitare, breve storia di un libro di Carmen Andriani
L’ INTERVISTA
Non si può consumare il futuro Simona Beolchi incontra
Domenico FIniguerra, sindaco di Cassinetta di Lugagnano
Novembre/Dicembre2011
Verdiana Network
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Index
Numero Tematico: Il Consumo di Suolo
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EDITORIALE
In memoria di Mario Ghio di Enrico Falqui
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Crescita della città e consumo di suolo di Edoardo Salzano
Patrimonio ed Abitare, breve storia di un libro
di Carmen Andriani L’ INTERVISTA
Non si può consumare il futuro
Simona Beolchi incontra Domenico FIniguerra, sindaco di Cassinetta di Lugagnano
Tra monasteri benedettini e cave di tufo:
progetto di recupero paesaggistico di spazi pubblici tra Gallipoli e Alezio di Annalisa Cataldi
VOLUMI ZERO: UN PIANO SENZA DIMENSIONI
di Annalisa Biondi
Workshop ACMA a Milano La progettazione dei sistemi ambientali
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di Silvia Minichino
RECENSIONE
LE MIE CITTA’ di Vezio De Lucia
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di Paola Pavoni
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PhotoStory Ritroviamo il tema del consumo di suolo anche nella Photostory di questo numero. Presentiamo un “viaggio fotografico” attraverso due opere di rigenerazione urbana: La High Line di New York e al Promenade Plantée di Parigi. I due progetti partono dallo stesso concetto e cioè la creazione di un parco sul tracciato di una antica linea della metropolitana sopraelevata.
La Promenade Planteé si situa nel XII arrondissement di Parigi. Anch’essa situata sul tracciato di una vecchia linea ferroviaria sopraelevata dismessa - la ligne de Vincennes - e si estende per 4,7 chilometri da Place de la Bastille fino al Boulevard Périphérique. Costruita a partire dal 1988 su progetto del paesaggista Jacques Vergely e dell’architetto Philippe Mathieux ed è stata inaugurata nel 1993. La High Line era destinata al trasporto merci Due progetti innovativi che propongono nuovi dal Meatpacking District su fino alla West 34th approcci al recupero del dismesso, buone pratistreet, ovvero fino quasi alla Penn Station, la se- che, nuovo futuro. conda stazione ferroviaria di New York, nata nel 1934, ha visto passare l’ultimo treno nel 1980, per poi cadere in disuso. Dopo lunghi dibattiti nel 2006 è iniziata la riqualificazione della prima parte della linea, il recupero della seconda parte è termianato nel Giugno 2011. Le piattaforme ferroviarie sono divenute un parco sopraelevato con panchine, spazi verdi, nuova città.
©Martina De Siervo
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EDITORIALE
In memoria di Mario Ghio di Enrico Falqui
Presidente di Verdiana Network, docente presso l’ Università degli Studi di Firenze, Direttore del laboratorio di ricerca in Architettura ed Ecologia del paesaggio (Lab AEP), Facoltà di Architettura di Firenze
Conobbi per caso Mario Ghio sfogliando le
pagine di un libro scritto con Vittoria Calzoalri, sua moglie, intitolato “Verde di città”edito da una casa editrice , la De Luca Editori dalla cui tipografia uscivano agli inizi degli anni 70 splendide pubblicazioni di Ridolfi, Portoghesi e Michelucci. Avevo anche da poco scoperto gli scritti appassionati di Antonio Cederna contenuti in due libri, oggi pressoché introvabili, “Vandali in casa” e “La distruzione della Natura in Italia”. Erano anni difficili per le Facoltà di Architettura, quegli anni 70; tra tumultuose assemblee e creativi laboratori di sperimentazione, docenti e studenti vivevano quotidianamente il “grande sogno” di un cambiamento radicale di quella società italiana, ieri come oggi, arretrata, assai bigotta e soprattutto timorosa del futuro. Avevo appena iniziato il mio percorso accademico come assistente volontario presso la cattedra di Igiene ambientale nella facoltà di Architettu-
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ra di Firenze , condividendo molti intervalli tra una lezione ed un’altra con un mio coetaneo, oggi scomparso, Giuseppe Amante. Fu lui a parlarmi dello splendido rapporto che lo legava a Mario Ghio, nella stessa mia funzione , presso la Cattedra di Pianificazione territoriale. Così che, quando ebbi l’occasione di conoscerlo di persona, mi tornarono a mente i suoi solidi concetti sullo spazio pubblico e su una concezione della pianificazione paesaggistica decisamente “fuori scala” per i tempi che correvano, di cui avevo letto in quel bel libro del 1961. Quando la nostra frequentazione venne resa quasi quotidiana, a causa della comune passione verso cibi popolari ma prelibati che, allora a Firenze, si potevano gustare in una celebre trattoria del Mercato di San Lorenzo , da Mario, ebbi l’occasione di approfondire la conoscenza della sua persona e della sua attività. Spesso, il desco al Mercato di San Lorenzo, diveniva l’occasione di veri e propri seminari ed interminabili “ brain storming “ sulle vicende della legge Sullo che lo avevano visto protagonista nella sede dell’INU, insieme a Massimo Giannini, Vincenzo Cabianca e Aldo Sandulli.
Mario, nel suo lavoro di ricerca cui partecipai
per tutti gli anni 80 , era tanto rigoroso e esigente con i suoi collaboratori, quanto era pronto a manifestare il suo inguaribile ottimismo verso il futuro e verso la comunità scientifica che lo circondava. Dotato di una straordinaria vis polemica, degna del suo amico Antonio Cederna, quando si accorgeva che le sue esternazioni creavano divisioni anziché una comune strategia, smorzava i toni con un ironico e indimenticabile sorriso, spesso accompagnato da una sonante risata che rimbombava come una campana tra le arcate e gli splendidi soffitti del Palazzo di San Clemente.
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Come Archibugi, era strenuamente convinto
della necessità di un “processo unificato della pianificazione” sul modello del celebre Progetto 80, contestando il fatto che i Piani Regolatori Comunali dell’epoca fossero privi di ogni valutazione economica e di qualsivoglia valutazione di carattere ambientale e paesaggistico. Oggi tali principi ci paiono scontati ma per quei difficili e terribili anni 70, erano veri e propri “cazzotti nello stomaco”, come lui amava ripetere. Mario Ghio era nel pensiero e nell’azione un “riformista radicale”, e dotato di un rigore scientifico e morale quale oggi è assai difficile rintracciarne l’esistenza, sia nelle università che nella società in cui viviamo. Mario possedeva una straordinaria curiosità per tutto ciò che intuiva essere una “ rottura degli schemi precostituiti “, così che quando negli anni 80 ebbe la piena consapevolezza che la crisi ecologica globale minacciava alla radice la concezione illimitata dello sviluppo, si lanciò con determinazione in una frenetica quanto fertile attività di conferenze e convegni internazionali per mettere al centro delle sue riflessioni il rapporto tra sviluppo e ambiente, tra espansione dell’urbanizzazione e l’uso appropriato dei suoli rurali e naturali. Insieme, abbiamo visitato i più importanti Centri di ricerca pubblici europei sulla conservazione del paesaggio e sulla tutela dell’ambiente,, organizzando un importante evento internazionale a Pistoia nel 1981.
Tornando insieme da uno di questi viaggi at-
traverso l’Europa, soddisfatto per l’adesione ricevuta dai nostri interlocutori dello IAURIF di Parigi, mi disse: “Vedi, Enrico, hanno capito che non siamo solo degli studiosi seri , ma soprattutto che siamo testardi. Tu devi esserlo per tutta la vita, se occorre”. Mi accorsi in quella occasione che mi stava insegnando non solo il mestiere ma che mi stava indicando un metodo di ricerca e uno stile di vita che, da allora, non
ho mai più abbandonato, Amava vedere l’effetto che le sue parole producevano nei propri interlocutori , inducendoli sempre a rivelarsi con franchezza e lealtà e, quando questo avveniva, ne apprezzava con entusiasmo tale comportamento. Anche per questo, nei lunghi anni passati tra Firenze e Roma, Mario era sempre circondato da giovani, studenti o ricercatori che fossero, dei quali adorava la loro compagnia e dai quali si faceva volentieri coinvolgere in eclettiche discussioni.
Tuttavia, Mario ti entrava nel cuore non per
la sua raffinata cultura o per il suo straordinario impegno di studioso e di docente; ti accorgevi di averlo “dentro” di te quando arrivavi a catturare tutti i segnali della sua straordinaria e ricchissima umanità. Era capace di rinunciare a qualsiasi programma o scadenza, se avvertiva la necessità di un gesto di solidarietà o di affetto verso una persona in difficoltà.
Mario Ghio è stato per me un Maestro, un Amico vero ma soprattutto un Uomo Giusto, che lascia un segno indelebile nei cuori di chi lo circonda, aggiunge una goccia di speranza in un mare di indifferenza e di cinismo e lascia una Porta aperta, piena di Luce, laddove se ne è uscito.
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PhotoStory
ŠMartina De Siervo
Crescita della città e consumo di suolo di Edoardo Salzano
urbanista, Direttore della rivista Eddyburg, è stato Preside della Facoltà di pianificazione del Territorio a Venezia ed ha ricoperto importanti funzioni di Amministratore pubblico al Comune di Venezia e alla Regione Veneto.
Eravamo pochi, oggi siamo molti Eravamo pochi, nel 2005, quando cominciammo a documentare e denunciare l’irrazionalità devastante del consumo di suolo in Italia. Di quei pochi, una parte si limitava a studiare il fenomeno nelle sue caratteristiche qualitative e ad analizzarlo dal punto di vista della possibile riqualificazione, riordinamento, riorganizzazione delle vaste estensioni di campagna invase dalla “diffusione urbana”. Nessuno, in Italia, si preoccupava di quantificare (di conoscere esattamente nelle sue dimensioni articolazioni, cause) il fenomeno, né tanto meno di combatterlo1. Quando con alcuni amici organizzammo la prima edizione della Scuola di eddyburg2 questi due elementi ci preoccuparono molto. La nostra osservazione del fenomeno da una pluralità di postazioni locali e disciplinari, e le prime analisi sui loro costi, ci inducevano a dare una valuta-
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zione molto preoccupata delle conseguenze territoriali, sociali, economiche, culturali della sua espansione. Riuscimmo a creare una certa agitazione sul problema, con l’aiuto soprattutto di due elementi: il successo che ebbe, da parte di alcuni gruppi politici, un testo legislativo idoneo a combattere il fenomeno che elaborammo3; la contemporanea reazione al fenomeno da parte di alcune associazioni protezionistiche (soprattutto Italia Nostra), di un certo numero di piccole amministrazioni locali, e di numerosi gruppi di cittadinanza attiva, soprattutto in Piemonte e in Lombardia. Questa ultime due componenti diedero vita a un movimento (Stop al consumo di territorio) che ebbe un inaspettato successo di adesioni. Evidentemente, nonostante il lungo letargo della cultura urbanistica ufficiale (l’ultima ricerca significativa era stata quella coordinata da Giovanni Astengo4, ItUrb80, svolta nella metà degli anni Ottanta), una certa sensibilità alla questione era maturata un po’ dovunque. Prova ne sia che, fin da allora, il “contenimento del consumo di suolo” è diventato un elemento della litania con la quale il politichese (la lingua dei politicanti) rende omaggio alla idee suscettibili di colpire l’opinione pubblica e, all’atto stesso, se ne impadronisce e le deforma utilizzandole ai propri fini. Molti, che oggi invocano quel contenimento, mentre non praticano né attuano politiche davvero capaci di ottenerlo, lo utilizzano come alibi per proporre “densificazioni” delle città esistenti senza nessuna preoccupazione per le reali necessità degli incrementi volumetrici.
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La città della rendita Caratteristica strutturale determinante del periodo che sta dietro le nostre spalle è il peso straordinario che ha avuto – nel sistema economico e nelle politiche territoriali – l’acquisizione privata delle rendite: sia quelle finanziarie che quelle immobiliari (ricordo che gli “immobili” comprendono sia le “aree” che gli “edifici”, talché la rendita immobiliare comprende la fondiaria e l’edilizia). Se volessimo utilizzare una definizione coerente con quella che Luciano Gallino dà all’attuale fase del sistema economico, “finanzcapitalismo”5, dovremmo parlare di “urbanistica della rendita”. Questa è stata splendidamente descritta da Walter Tocci nel suo saggio su “Il trionfo della rendita”6. A me sembra che tutte le tensioni che attualmente agitano la società civile e hanno generato i movimenti antagonisti nei territori italiani siano riconducibili al conflitto tra due usi alternativi del territorio: quelli che ho definito “città della rendita” e “città dei cittadini”7. La crisi finanziaria esplosa nel 2008 ha modificato in modo consistente il quadro, almeno per quanto riguarda i suoi aspetti di medio periodo. C’è da chiedersi se il disastro che è avvenuto negli scorsi decenni potrà proseguire negli stessi modi. Sembra ragionevole ipotizzare che i prossimi anni saranno invece caratterizzati da bassa domanda privata di alloggi e attività produttive, da scarse risorse pubbliche, e da un’offerta di spazi sovrabbondante e priva (per caratteristiche e localizzazione) di adeguati requisiti per qualsiasi utilizzazione. Insomma, il motore che sospingeva il consumo di suolo derivante dalla crescita della città (delle aree urbanizzate e urbanizzabili), non è forse entrato in stallo? Se così fosse, allora si porrebbe come primario il problema di come recuperare (socialmente, morfologicamente e paesaggisticamente, economicamente, funzionalmente) i territori devastati dallo sprawl.
Guardiamo il consumo di suolo dalla campagna Parallelamente si sta sviluppando però un altro fenomeno: le trasformazioni, patrimoniali e d’uso, dei terreni rurali. Consumo di suolo e riduzione del suolo agricolo sono certamente due fenomeni differenti per quantità, qualità, cause ed effetti. La riduzione del terreno agricolo dipende anche dall’aumento dei terreni rinaturalizzati e degli incolti nonché (nei dati delle analisi quantitative spesso utilizzate) dalla scomparsa di aziende agricole censite come tali8. Se guardiamo alle trasformazioni dell’uso del suolo dalla città, allora la questione centrale è il devastante “sguaiato sdraiarsi della città sulla campagna”. Se le guardiamo invece a partire dal territorio rurale allora nascono preoccupazioni diverse, ma non meno rilevanti. Nel territorio lo sviluppo capitalistico provoca infatti, in modo sempre più esteso: il land grabbing, l’accaparramento di suolo di una determinata comunità per costituire riserve alimentari per la nazione acquirente9; la pratica, tipica del colonialismo otto-novecentesco, della sostituzione delle colture tradizionali, legate a fabbisogni alimentari di prossimità; la più recente espansione dei suoli utilizzati la produzione di fonti energie alternative a quelle esauribili; infine, la specializzazione mercantile delle produzioni agricole: si produce là dove i costi di produzione (a partire dal lavoro) sono minori. Le conseguenze di questi fenomeni sono di diverso ordine. Aumenta l dipendenza del consumo di beni alimentari dai luoghi della produzione internazionale, il che comporta a sua volta un consistente aumento del consumo energetico dovuto al confezionamento e al trasporto. L’omogeneizzazione dei gusti dei prodotti industriali comporta la scomparsa delle caratteristi-
che organolettiche dei beni; con la conseguenza ulteriore che gradi risorse vengono impiegate per la ricerca di “sapori” finti da aggiungere a merci rese omogenee dalla produzione industriale per “aggiustarne” il sapore e l’odore. Vengono distrutte le economie locali legate alle produzioni legate al territorio, e con esse le culture culinarie, profondamente radicate nella storia e nel paesaggio. Le fonti dell’alimentazione (le condizioni della produzione degli alimenti) vengono sottratte alla conoscenza diretta dei consumatori e affidate alle alchimie (e alle bugie) delle etichette e della propaganda. Infine, last but not least, i prezzi dell’alimentazione sono sempre meno controllati dal rapporto tra produttore e consumatore. Rispetto ai rapporti produzione/consumo delle economie a filiera corta il prezzo è in costante aumento, grazie anche alle sempre più ingenti spese (in aggiunta al costo della terra e a quello del lavoro) impiegate per adulterare, confezionare, trasportare il prodotto e condizionare il consumatore. Con l’ulteriore conseguenza di contribuire all’aumento della povertà e, là dove la povertà giunge a determinati livelli, alla minaccia alla stessa sussistenza fisica. Perché dell’ultimo modello di telefonino la persona può fare a meno, del cibo no.
Che fare? Per comprendere che cosa fare oggi credo che si debba partire da un principio. La terra, così come la natura e la storia l’hanno consegnata a noi, è un patrimonio che va amministrato con la massima saggezza sapendo che è un valore, che è limitata, che non è riproducibile, e che senza di essa la vita dell’uomo sarebbe impossibile. Questo principio deve condizionare ogni azione di trasformazione. La sottrazione di un solo metro quadrato di suolo ai ritmi della natura è un prezzo, che può essere pagato solo se è strettamente necessario alla società umana nel suo insieme e se non ci sono modi alternativi di soddisfare l’esigenza che chiede il pagamento di
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quel prezzo. Nessuna casa nuova, nessuna strada nuova, nessun nuovo piazzale se prima non si è completamente utilizzato ciò che di artificiale già c’è. E di inutilizzato in Italia, malauguratamente, c’è tanto, se si guarda al nostro paese con lo sguardo fuori dalle bende della mitologia proprietaria e di quella economica. Per quanto si possa guardar lontano, è difficile vedere un futuro nel quale la maggioranza dei decisori (locali, nazionali, globali) decida di applicare quel principio con piena coerenza. Allora la prima necessità, oggi, è di far diventare quel principio una consapevolezza di massa. É di rendere cosciente il maggior numero di persone di verità che condizionano la vita di ciascuno di noi: e ciascuno di noi, prima di essere casalinga o banchiere, operaio o poeta, professore o studente, spazzino od orefice, sfruttatore o sfruttato – è uomo e donna, è abitante del pianeta Terra, e la sopravvivenza è la prima esigenza di tutti noi e di ciascuno di noi. Combattere il consumo di territorio non significa solo, oggi, ostacolare l’irrazionale espansione della città, lo sprawl urbano. Certo, questa è un componente essenziale, soprattutto nel nostro paese, in cui il trionfo della rendita immobiliare ha dominato, soprattutto negli ultimi decenni, in ogni aspetto delle politiche territoriali. E a questa necessità di difesa si aggiunge quella di sanare quello che il trionfo della rendita ha prodotto. Difendere il territorio non significa solo tutelare la natura e il paesaggio, la capacità di rigenerazione fisica ed estetica che il esso fornisce, ma anche la sua prima funzione: alimentare l’umanità in ciascuno dei suoi componenti. Significa perciò anche difendere l’agricoltura: non necessariamente tutte le agricolture, ma certamente quelle che servono agli uomini che vivono il territorio, e li servono là dove essi lo vivono. Significa combattere la sostituzione delle colture locali con le colture industriali, le colture funzionali a primarie esigenze umane a quelle che sussistono solo perché premiate dal mercato globalizzato. Significa coinvolgere il più ampiamente possibile nella stessa grande vertenza
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le numerose associazioni che si impegnano per promuovere la difesa dell’agricoltura, l’approvvigionamento equo e salubre, la filiera corta, la difesa delle diversità colturali. E significa, al tempo stesso, legare le nostre battaglia - italiane, europee, nordatlantiche - a quelle dei paesi del terzo mondo, soggetti a quella rapina delle terre che ha già devastato le loro economie e la stessa sopravvivenza di interi popoli.
1 Anche studiosi intelligenti, spesso acuti nella descrizione del fenomeno, come Bernardo Secchi e Francesco Indovina, individuavano della dispersione urbana la nuova forma dell’insediamento umano (la “città diffusa”), con un atteggiamento che oggettivamente ne giustificava la devastante prosecuzione, in una fase in cui il suo arresto doveva essere l’impegno prioritario. Si veda, in proposito, il mio Eddytoriale 114, http://eddyburg.it/article/articleview/11188/0/318/ 2 I materiali della prima edizione della Scuola estiva di pianificazione sono raccolti nel libro No Sprawl, a cura di Maria Cristina Gibelli ed Edoardo Salzano, Alinea, Firenze 2006 3 La proposta di legge è riportata in appendice del libro No Sprawl citato. I suoi materiali e i testi delle proposte scaturite da quel documento e presentate in Parlamento sono contenute nel sito eddyburg.it, nella cartella all’indirizzo http:// eddyburg.it/article/archive/224/ 4 “Rapporto sullo stato dell’urbanizzazione in Italia”, pubblicato in Quaderni di Urbanistica Informazioni n.8, 1990. Un’analisi sulle ricerche sull’argomento sono negli scritti di Mauro Baioni contenuti nel libro No Sprawl citato. 5 Luciano Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino 2011. 6 Walter Tocci, L’insostenibile ascesa della rendita urbana, in: “Democrazia e diritto”, n. 1/2009. 7 Edoardo Salzano, Dualismo urbano. Città dei cittadini o città della rendita, in: “QT2, Quaderni del territorio”, n. 2, rivista on-line del laboratorio StoricaMente, Dipartimento di discipline storiche, antropologiche e geografiche dell’Università di Bologna, http://eddyburg.it/article/articleview/17327/0/14/ 8 Nei dati sparati a proposito del consumo di suolo si fa moltissima confusione. Più volte su eddyburg siamo intervenuti per precisare le grandissime differenze delle varie fonti adoperate. Si veda ad esempio il mio Eddytoriale n.108, http://eddyburg.it/article/articleview/10166/0/317/9 «Milioni di ettari in Etiopia, Ghana, Mali, Sudan e Madagascar sono stati ceduti in concessione per venti, trenta, novant’anni alla Cina, all’India, alla Corea, in cambio di vaghe promesse di investimenti. Seul possiede già 2,3 milioni di ettari, Pechino ne ha comprati 2,1, l’Arabia Saudita 1,6, gli Emirati Arabi 1,3.» Carlo Petrini, Chi ruba la terra e il cibo dell’Africa, in: “La Repubblica”, 26 gennaio 2010
ŠMartina De Siervo
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ŠMartina De Siervo
Patrimonio ed Abitare , breve storia di un libro di Carmen Andriani
ordinario di Progettazione architettonica e urbana presso la Facoltà di Architettura di Pescara, ha vinto il concorso per la realizzazione di un progetto di itinerario turistico-monumentale tra il Pantheon e Fontana di Trevi a Roma, in corso di attuazione ed è stata invitata alla VI Biennale di Architettura a Venezia tra le voci emergenti dell’Architettura italiana.
La vicenda di questo libro comincia nel 2008 nell’ambito della Biennale in occasione del concorso ad inviti per il progetto del Padiglione italiano. Si trattava di individuare un tema rilevante e di rappresentarlo attraverso l’allestimento dello spazio interno del Padiglione. Proposi di rappresentare , attraverso una metafora spaziale, il dialogo difficile fra i paesaggi della contemporaneità ed il patrimonio dell’esistente. Usai uno slogan , patrimonio ‘incorruttibile’ verso la ‘corruttibilità’ del presente, per indicare il punto critico della questione : la fissità di un valore non più discutibile, contro la instabilità e la incessante mutevolezza del presente. Questo fu il centro del convegno che seguì a quel progetto non realizzato. Mi sembrava fosse particolarmente urgente rivedere la nozione di patrimonio, nel suo significato più ampio, così come era stato fatto, a partire dagli anni ottanta con altri termini densi ed impegnativi quali città, paesaggio, territorio. Mi pareva importante riscrivere questa nozione alla luce del mutato rapporto con il Moderno entro un’angolazione
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che sottolineasse lo scarto rispetto alle posizioni del Novecento. Rilevando una sorta di slittamento dei concetti centrali del progetto moderno, quali la nozione di pubblico, il diritto all’abitare, il concetto di patrimonio. Rifiutarsi di pensarle come nozioni ferme, immutabili, significava esercitare un’attenzione al presente, interrogarsi su dove esattamente ci si situa, partendo non dalla teoria del mondo ma dalle nostre pratiche, anche le più minute.
Il libro ‘Patrimonio ed Abitare’ pone delle domande . Il convegno prima e successivamente il libro si sono posti l’obiettivo di scardinare una visione univoca e sostanzialmente eurocentrica, di raccogliere frammenti di ragionamento da angolazioni diverse, rivolgendosi a storici, architetti, urbanisti , paesaggisti, critici letterari. A queste si aggiungono le libere interpretazioni di alcune poetiche: dell’architettura , della musica, della espressione filmica. L’elenco degli oltre ottocento siti dell’Unesco selezionati in più di sessanta anni di attività , pone il problema dell’autenticità del rapporto con la Storia e rischia di costituire un firmamento di icone predeterminate amplificandone l’aspetto commerciale. Il libro si è posto la finalità di avviare una questione, non già di concluderla, anche pagando il prezzo della necessaria incoerenza delle sue fasi iniziali. La nozione di patrimonio è stato costruita per tutto il novecento in maniera autoreferenziale. Lo spiega bene Carlo Olmo nel suo testo Conservare le storie descrivendola come un insieme di recinti chiusi e non comunicanti fra loro. Il fatto è che il patrimonio è ‘un insieme di patrimoni , di idee, di valori, di strategie politiche e culturali spesso fra loro in conflitto, difficili da ricondurre a ciò che Olmo definisce “la costruzione dell’opinione pubblica”, tanto più urgente se le diverse idee di patrimonio portano
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con sé differenti idee di tutela o quantomeno di scala di valori.
La domanda attorno a cui ruota il libro riguarda la questione del rapporto con il Moderno. Per tutto il novecento la nozione di patrimonio è stata compresa nell’ambito di una concezione moderna e la testimonianza di Vittorio Gregotti è una prova di militanza attiva e non nostalgica portata avanti fino ad oggi. Ma l’oggi è profondamente cambiato. C’è un saggio illuminante (‘La fine del postmoderno’ di Alfonso Berardinelli, Quodlibet 2007), in cui, parlando della letteratura e della sua ‘mutazione ‘, l’autore ci dice che già intorno alla metà del secolo scorso l’idea di progresso legata alla Modernità mostrava sintomi di stanchezza e che il postmoderno che ne è seguito sia già consumato. Potrebbe dirsi la stessa cosa per l’architettura e per l’abitare contemporaneo , espressione postmoderna di pluralità, mescolanza, mutazione continua. Ci si chiede cosa significhi patrimonio in questo contesto, come si concili una nozione ancorata alla morale novecentesca, fatta di contrapposizione decise, ed una cultura divenuta ‘socializzabile e seducente’.Quando Bernardo Secchi parla dei grandes ensembles parigini, li descrive come i nuovi monumenti di una diversa organizzazione dello spazio fisico e sociale, altrettanto vitale quanto contraddittoria. Essi rappresentano una Parigi diversa che in molti vorrebbero demolire, perché considerata scarto, nonostante il senso di appartenenza maturato nel disagio . Il patrimonio, allora, non è un affare per tutti e ‘il giudizio che noi esprimiamo nei confronti del patrimonio, si legge nel testo di Secchi- non è neutro , ma profondamente marcato dagli stereotipi di una cultura che un tempo avremmo detto una cultura di classe”. La nozione di patrimonio che si cerca di riscrivere, appartiene dunque ad una visione ‘antipatrimonialista’ ed attiva nei processi di trasformazione della città e dei suoi modi di abitare, mescolati, ibridi , instabili. La inco-
municabilità riguarda anche linguaggi profondamente differenti: malleabile e flessibile quello del presente postmoderno, assertivo e resistente quello legato al Moderno novecentesco.
Patrimonio ed Heritage, Forme laterali di patrimonio L’idea di patrimonio non è solo riferita ai beni materiali ma anche a quelli immateriali. E’ l’insieme dei fattori consci ed inconsci, è il rapporto dialettico fra la massa inerte della forma materiale e le aspirazioni sempre mutevoli degli individui. Più aderente dunque alla idea anglosassone di heritage che non a quella francese di patrimoine nationale : una cosa è ereditare la città, altro è ereditare il modo di abitare la città. La sovrapposizione del concetto di abitare con quello di patrimonio, è più evidente in alcune forme di patrimonio che abbiamo definito ‘laterali’ . Sono modalità diverse di abitare lo spazio, forme di patrimonio non certificate, fuori dalle regole del mercato globale della conoscenza e dagli elenchi dell’Unesco. Si prenda ad esempio il caso della yurta, modello di abitazione itinerante delle comunità nomadi della Mongolia. L’idea della tenda , montata e rimontata in luoghi differenti, persiste per il suo forte contenuto ancestrale e si affianca agli insediamenti stanziali. Così documenta il video La gher sur le toit di Céline Pétreau e Michèle Pédezert . Nell’azione del montaggio e poi dell’allestimento interno è racchiuso un microcosmo di tradizioni materiali ed immateriali , insieme di usi, consuetudini, rituali e relazioni familiari.
tenda come della piccola stanza. La nozione di patrimonio si dilata o si comprime : può espandersi nello spazio e nel tempo , raccogliere una quantità smisurata di materiali, ma può inscriversi anche nella intimità privata di una bolla che non conosce più esterni, o meglio che può fare a meno della dimensione esterna a sé, della dimensione pubblica e che rimane consapevole della sua irrilevanza.
DIPARTIMENTO I D E A INFRASTRUTTURE DESIGN ENGINEERING ARCHITETTURA viale Pindaro 42 - 65127 Pescara tel: 085 4537301 fax: 085 4514993 http://www.unich.it/IDEA
Abitare e Patrimonio
convivono in assoluta coincidenza dei termini e si ripetono quotidianamente nelle piccole azioni, nei gesti ripetuti , nel rituale degli spostamenti , nello smontaggio e rimontaggio della tenda in luoghi sempre diversi.Un abitare senza un ‘fuori’. Lo spazio dell’intimità della grande
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Non si può consumare il futuro INTERVISTA
Intervista a Domenico Finiguerra, Sindaco di Cassinetta di Lugagnano di Simona Beolchi Urbanista
Martedì 8 Novembre 2011, Cassinetta di Lugagnano. Passeggiando per Cassinetta di Lugagnano si respira l’aria di un tempo che si spande in un’atmosfera moderna. In questo fazzoletto di terra, che si estende per 3,2 km, incontro case basse, stradine ciottolate, un piccolo ponte a schiena d’asino che collega le due sponde del Naviglio Grande, locande e ville di antichi nobili. Tutto questo s’intreccia con un ordine dei nostri tempi e qualche elemento di modernità come i pannelli solari sui tetti dell’asilo e su altri edifici pubblici. Nessun fuori scala, si percepisce così una sensazione di buon equilibrio tra antico e moderno e tra naturale e opera dell’uomo.
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Quando arrivo a Cassinetta si è concluso da pochi giorni, proprio qui, l’incontro che ha dato vita al Forum Italiano dei Movimenti per la Terra e il Paesaggio: “Salviamo il paesaggio, difendiamo i territori”, che il 29 Ottobre 2011 ha visto circa seicento persone confrontarsi sullo stato di salute del suolo italiano e del suo paesaggio e sulle urgenti azioni necessarie ad arrestare il dilagare di asfalto e cemento a scapito dei terreni liberi. Non è un caso che questo forum si sia svolto qui, infatti, Cassinetta di Lugagnano è stato il primo comune in Italia a dotarsi di un Piano di Governo del Territorio a consumo di suolo zero. Di questa esperienza parlo con il Sindaco, Domenico Finiguerra, con il quale condivido l’idea che la necessità, in questa fase storica, sia quella di sdoganare il problema del frenetico consumo di suolo libero che sta minacciando il nostro patrimonio naturale, quindi di far sì che tutti avvertano questo come un disagio e che tutti facciano la propria parte per fronteggiarlo. 1. La mia prima domanda è volta a capire in breve quali sono gli elementi qualificanti dell’esperienza di Cassinetta di Lugagnano nell’ambito del consumo del suolo. Nel 2002 ci sono le elezioni politiche, il gruppo di cui fa capo l’attuale sindaco, ha un sentire comune: un senso di oppressione nei confronti del cemento che, giorno dopo giorno sta lentamen-
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te distruggendo chilometri di terreno vergine che una volta erano il valore aggiunto dei loro luoghi. Cassinetta, stretta dalla morsa della periferia milanese, vuole resistere e mostrare che esiste un altro modo di fare politica ed economia. I nuovi amministratori decidono così, coerentemente con il programma elettorale del 2002, di perseguire un rinnovamento generale della gestione del comune, che prevede anche una politica urbanistica molto semplice e chiara: la possibilità di realizzare nuovi insediamenti soltanto attraverso il recupero dell’esistente e delle zone già compromesse, in altre parole lo stop al consumo del territorio agricolo. Questo di per sé non vuol dire fermare l’edilizia e l’economia che ci gira attorno ma vuol dire circoscriverla solo in aree non libere; a Cassinetta, infatti, le gru sono presenti in tante zone ma tutte orientate al recupero dell’esistente. Questa visione politica si traduce concretamente in un Piano di Governo del Territorio, approvato nel 2007, a crescita zero. Il sindaco me lo presenta come “un grande piano di recupero”, accompagnato anche da un piano del colore che contribuisce a rendere più bella ed elegante la città, definendo non solo gli aspetti cromatici ma anche i dettagli architettonici e ricostruttivi per gli immobili. Un altro elemento che qualifica il cambiamento di Cassinetta è il fatto di aver coinvolto i citta-
dini nelle scelte. Gli amministratori hanno volontariamente portato avanti un processo partecipato, apprezzato dagli abitanti che hanno riconfermato il sindaco e la sua squadra nelle elezioni del 2007 dopo l’approvazione del PGT. Nel 2009 Cassinetta ha fatto scuola, quelle che erano delle idee nate da sensazioni istintive nel 2002 dopo sette anni hanno preso corpo in un progetto. Nasce la campagna nazionale “stop al consumo di territorio” alla quale partecipano anche altre amministrazioni che mettono in campo le stesse decisioni. A questa esperienza prendono parte esperti, amministratori, cittadini, associazioni ambientaliste, che per la prima volta si mettono insieme per confrontarsi su questo tema. 2. Con la seconda domanda chiedo al sindaco che tipo di battaglia sia quella che prevede lo “stop al consumo di suolo”, come si declina e quale concetto di paesaggio urbano voglia proporre. All’inizio del mandato l’idea di puntare su temi come questi è un proposito di cuore, una re-
azione di rigetto a una gestione arrogante del bene comune, che solleva una serie di obiezioni rispetto alla leggerezza con cui spesso si procede al consumo di territorio. Dal 2002 a oggi gli amministratori incontrano tante altre esperienze e realtà, grazie a questo la loro scelta matura all’interno di un percorso in cui non sono soli e che li rende consapevoli che le loro scelte assumono un significato culturale di resistenza a un modello di sviluppo ormai logoro che ha portato alla depredazione del bene comune. La battaglia è una scelta politica, è un grande messaggio, molto articolato che rende concreto il concetto “pensare globalmente, agire localmente”. Da un lato punta a preservare a salvaguardare e tutelare la terra, perché è un bene che serve a tutte le popolazioni e ci servirà sempre di più, “è necessario”, mi dice il sindaco, “fare i conti con le risorse che abbiamo e avere uno sguardo lungimirante assumendo un comportamento responsabile per le generazioni future”. E’ una scelta, inoltre, che nasce da problemi ambientali che si palesano ogni giorno ma che fino ad ora abbiamo voluto ignorare. E’ una battaglia economica che contrasta l’idea, che è stata venduta all’opinione pubblica, del consumo di territorio come una necessità dell’economia che avrà certamente ricadute positive sui cittadini. Il consumo di suolo è anche una questione che riguarda l’identità dei luoghi, il sistema di relazioni che vengono distrutti ed il patrimonio culturale e paesaggistico che perde qualsiasi significato e valore. Il modello di sviluppo che gli amministratori di Cassinetta perseguono punta quindi sulla tenuta dei legami sociali, che sono invece annientati da questi grandi non luoghi, scatoloni vuoti e finti, dove si va soltanto per essere consumatori perdendo il legame con il paesaggio e il territorio. Uno degli obiettivi della politica di recupero dell’esistente è di far riemergere quel senso di comunità che si sta perdendo, soprattutto nei grandi agglomerati urbani, dove l’anonimato comincia a essere la regola. La battaglia infine è una strenua difesa del nostro paesaggio di pregio, punto cardine dell’i-
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dentità del nostro paese, una lotta agli agglome- politica ha portato nel comune un nuovo senso rati urbani del tutto simili e sovrapponibili che civico, un nuovo spirito e una nuova partecipanon restituiscono la storia del luogo ma sono zione degli abitanti alla vita della città. modelli preconfezionati. 4. Prima di lasciare il sindaco, gli chiedo di 3. Volenti o nolenti il suolo è diventato or- lanciare uno sguardo al futuro, illustrandomi mai un salvadanaio per i comuni che versano quali prospettive si sono aperte a conclusione in situazioni imbarazzanti e che ricorrono al dell’assemblea fondativa del forum nazionale miraggio della produzione edilizia per ali- “Salviamo il paesaggio, difendiamo i territomentare le casse comunali ormai sguarnite. ri”. Chiedo perciò al sindaco come si possa sostenere una scelta politica che prescinda dagli introiti degli oneri di urbanizzazione e quali misure il comune di Cassinetta abbia preso per ovviare a questa mancanza.
L’obiettivo primario dell’amministrazione è stato proprio quello di emancipare il bilancio comunale di parti corrente dagli oneri di urbanizzazione, sono ormai quattro o cinque anni che il comune è “disintossicato” da questa dinamica. Per fare questo, gli amministratori hanno messo in campo un nuovo modo di fare politica puntando principalmente su quattro asset. Il primo è stato chiedere ai cittadini un sacrificio a fronte di una scelta comune, facendo leva sulla fiscalità. Una delle prime azioni è stata quella di aumentare l’ici sulle seconde case, portandolo al massimo sulle attività produttive e inserendo nuove fasce di reddito per i cittadini più benestanti, chiedendo loro di partecipare in maniera più importante alle spese dei servizi. Contemporaneamente il comune stesso ha voluto dare l’esempio puntando su scelte dettate dalla sobrietà, dal risparmio, dall’attenzione a ogni piccola spesa. La terza leva è stata quella di guardare altrove e di fare proprie delle buone pratiche di altri comuni virtuosi. Infine, un altro ingrediente della nuova politica è stato la fantasia. A Cassinetta di Lugagnano hanno inventato i “Matrimoni per la terra”, un pacchetto di bel paesaggio, di animazione e di fasce orarie che messi insieme permettono al Comune di incassare un terzo di quelli che erano gli introiti degli oneri di urbanizzazione. Questa buona
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Le premesse sono buone, alla giornata hanno partecipato circa seicento persone, provenienti da diciotto regioni, trecentocinquanta associazioni, tra loro personalità importanti della cultura, dell’educazione, delle amministrazioni. E’ stato un momento che ha fatto partire un movimento di opinione che punta a elaborare una proposta di legge nazionale che, tra le altre cose, intende rendere obbligatorio, per ogni Comune, un censimento delle aree edificate vuote o non utilizzate. Ringrazio il sindaco a lascio Cassinetta di Lugagnano seguendo il corso del Naviglio Grande con la sensazione che un altro mondo è possibile, basta volerlo.
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Tra monasteri benedettini e cave di tufo: progetto di recupero paesaggistico di spazipubblici tra Gallipoli e Alezio di Annalisa Cataldi laureanda in Architettura, Università degli studi di Firenze
Pietro Maisen Valtellinese nel 1870 scrisse: “Nel riposto seno del mare Ionio, […] , sopra un alto scoglio che si pronuncia nel mare e da questo tutto circondato, siede Gallipoli, [… ]; La città è edificata su d’uno scoglio, consistente in una massa di pietra calcare tenera, la quale dopo i primi strati dà luogo ad un fondo argilloso. E di tal natura sono pure le collinette che con facile china al suo levante si estendono, ricoperte d’un strato leggero di terra arenosa silicea [ … ]. Ad oriente, e dove le colline ad attingere incominciano la loro massima elevazione, profonde cave osservasi, donde nei secoli che furono, la pietra si estrasse per edificar la città, pietra della natura stessa di quella che le serve di base”. Da tali parole si evince che la storia del sito in oggetto, localizzato a circa 2 Km dal centro abitato di Gallipoli (Lecce) in direzione Alezio e a circa 50 m s.l.m. risale a tempi antichissimi. È la storia di un territorio denominato “Mater Gratiae”, le cui caratteristiche geologiche sono,
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in buona parte, industrialmente sfruttabili. E’ la storia di generazioni di cavatori, che avvalendosi di differenti metodi di escavazione a seconda del periodo storico di appartenenza, hanno “coltivato” e commercializzato in campo edilizio, le risorse offerte dal territorio. E’ la storia del “tufo di carparo”, la pietra dalle buone caratteristiche fisico-meccaniche e dalle gradevoli tonalità cromatiche, che ha condizionato e caratterizzato nei secoli l’architettura e l’edilizia locale, il cui uso, insieme a quello della “pietra Leccese”, ha dato vita alle meraviglie del Barocco nel Salento. E’ però anche la storia di una continua attività di invasione e di consumo del suolo, dell’erosione “antropica”, che a causa delle incessanti escavazioni, ha compromesso irreparabilmente il territorio. Le conseguenze della devastazione emergeranno fra pochi anni nella loro completezza e irreversibilità, quando, al momento della completa dismissione dei siti, ai problemi di ordine ecologico e paesaggistico, si aggiungeranno
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quelli di carattere antropologico e urbanistico legati alle prospettive del riuso. Nelle cave di “Mater Gratiae”, a partire da 1200 fino al secondo dopoguerra, è stata praticata la coltivazione delle calcarenite attraverso la tecnica dell’escavazione in “sotterraneo”. Dopo gli anni ’50 però, il crescente fabbisogno di “tufi” utili tanto all’attività edilizia quanto alla costruzione di infrastrutture, insieme alla meccanizzazione delle pratiche estrattive, hanno favorito l’escavazione “a cielo aperto”, agevolando inevitabilmente l’estensione delle cave, il cui bacino è arrivato così ad assumere dimensioni smisurate. E’ sconcertante oggi il paradosso fra l’invisibilità del bacino, ottenuta attraverso recinzioni, sbarramenti e siepi fittissime che ne impediscono la visuale e la reale ampiezza dell’enorme ferita aperta che si estende per 209.400 mq nel suolo, mettendo a dura prova da decenni l’equilibrio ambientale del luogo. La Regione Puglia con riferimento alla legge
n°37/85 sulle “Norme per la disciplina dell’attività delle cave”, ha redatto il P.R.A.E. , un “Piano Regionale delle Attività Estrattive”, approvato nel 2006 e adottato nel 2007, individuando le aree da sottoporre alla redazione di un Piano Particolareggiato (P.P.). Il bacino di “tufo di carparo” presente a Gallipoli, valutato come particolarmente compromesso dall’attività estrattiva, è rientrato nell’elenco delle aree “da salvare”, ma ad oggi un P.P. per l’area in questione non è ancora stato redatto. Esso dovrà essere conforme al Piano Paesaggistico Territoriale Regionale, prodotto dalla giunta regionale grazie alla L.R. 20/2001 in quanto a “Norme generali di Governo e uso del territorio”, avente come finalità la tutela dei valori ambientali, storici e culturali del territorio e naturalmente dovrà coincidere con i principi cardine della Convenzione Europea del Paesag-
gio. Quest’ultima è stata adottata nel 2000 da trentacinque stati della Comunità Europea con l’obiettivo di promuovere l’adozione di politiche di salvaguardia, di gestione e di pianificazione dei paesaggi, intesi come “una determinata parte del territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interazioni”. Il concetto, così definito, comprende “sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiana, sia i paesaggi degradati”. La Convenzione Europea ribadisce dunque che non esistono paesaggi privilegiati rispetto ad altri in tema di diritto di tutela e che quindi, le cave gallipoline, pur essendo state considerate spesso e volentieri un’area degradata o uno spazio di rifiuto, è comunque un luogo da proteggere e valorizzare. Come ha affermato l’architetto urbanista e paesaggista Domenico Luciani, “Una cava, non è
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soltanto un fatto fisico, ecologico, merceologico o tecnico, e il nostro modo di percepire questa ferita diventa decisivo per il nostro modo di agire su di essa”. Il “Mater Gratiae” , è un oggetto sociale, antropologico, culturale. È un grande patrimonio di esperienze, di lavoro e professionalità tramandato per secoli di padre in figlio nella manualità materializzata nelle pareti quasi architettoniche del bacino. Redigere un Piano Particolareggiato in linea con i principi della Convenzione Europea del Paesaggio è un dovere sociale oltre che naturale nei confronti del “Mater Gratiae”. Fare delle scelte progettuali sostenibili che tengano conto della dimensione economica, naturale e sociale e che alimentino dinamiche di crescita per tutto il territorio è la responsabilità che le autorità locali devono assumersi per garantire nel tempo le risorse naturali a beneficio delle generazioni future.
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ŠMartina De Siervo
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VOLUMI ZERO: UN PIANO SENZA DIMENSIONI Radiografia della crescita urbana nel nuovo Piano strutturale di Firenze di Annalisa Biondi
laureanda in Architettura, Università degli studi di Firenze
Fino agli anni ‘70 i processi di crescita che hanno investito le città, dalla rivoluzione industriale in poi, si possono identificare di pari passo con la crescita demografica1. Successivamente si iniziano a registrare i primi fenomeni di arresto demografico a cui non corrisponde però un ridimensionamento del costruito. Infatti la crescita fisica delle città non si arresta: i principali contesti metropolitani continuano ad espandersi e cresce costantemente lo spazio occupato dagli insediamenti. Sono proprio i contesti urbani più maturi a registrare saldi demografici più negativi e contemporaneamente le maggiori crescite insediative; questa tendenza rilevabile a scala nazionale e internazionale raggiunge dimensioni più evidenti in quei contesti dove i processi di urbanizzazione si sono
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manifestati con un certo anticipo. Dopo la crisi del modello fordista, si inverte il rapporto che tradizionalmente aveva legato dinamiche insediative e demografiche: la complessità dei risultati territoriali prodotti da questo fenomeno dà luogo negli anni successivi ad un’ampia produzione lessicale che tenta di iscrivere questi fenomeni all’interno di nuove categorie analitiche e interpretative (urban sprawl, città dispersa, città diffusa, etc.). Infatti, i nuovi assetti insediativi scardinano il dualismo città/campagna rendendo i confini tra i due sistemi sempre più labili e i territori antropizzati occupano spazi sempre più crescenti. L’accentuarsi del carattere diffuso delle città diviene un tratto che accomuna un numero crescente di contesti metropolitani ed è il risultato dell’interazione di numerosi fattori, tra cui predominano quelli di natura macro-economica, come la crescita fisica degli insediamenti, la diffusione di nuove tecnologie di comunicazione e di attività che non richiedono localizzazioni centralizzate; a questi si aggiungono micro fattori peculiari per ogni contesto, come i nuovi
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stili abitativi, la diffusione della mobilità privata e le rendita fondiaria. Anche Firenze segue, se pur con le dovute specificità, lo stesso percorso e le trasformazioni che la città subisce sono di notevole portata e riguardano sia le dimensioni della città, che si espande in modo significativo verso nord-ovest, sia la struttura interna, che vede per prima, la dismissione di molte aree ed edifici industriali, e poi il loro radicale riuso, fenomeno ancora oggi in atto. Alla metà degli anni ‘70 Firenze ha una struttura morfologica molto diversa non solo da quella antica ma anche da quella ottocentesca e dei primi del ‘900. Infatti la città si è notevolmente estesa e i nuovi tessuti urbani non sono più dominati dalla continuità delle cortine edilizie ma dall’edificazione aperta, che ha nel singolo edificio, isolato nel suo lotto di pertinenza, il suo principale modulo. A differenza del decennio ‘50-’60 però, il processo di espansione urbana avviene in concomitanza di una forte contrazione demografica: si passa infatti dai 457.417 abitanti del 1978 ai 368.901 abi-
tanti del 2007, con un saldo negativo di 88.000 abitanti. Al di là degli aspetti quantitativi quello che contraddistingue l’espansione edilizia di questo periodo è il risultato che essa produce: l’immagine di una città priva di un disegno d’insieme, frammentata e disordinata dove i nuovi tessuti edilizi travalicano i confini comunali saldando-
si a quelli dei comuni circostanti che intanto si accrescono in modo altrettanto segmentato. Il controllo della crescita urbana diventa così uno dei temi dominanti nei Piani dal secondo dopoguerra in poi provocando spesso difficoltà tecniche e politiche nel pianificare un territorio che non è più prettamente fiorentino ma che appartiene ad altre Amministrazioni2. Tralasciando la
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dimensione metropolitana in cui andrebbe inserita la città per comprenderne meglio le dinamiche di espansione, e osservando Firenze ristretta ai suoi confini amministrativi, si può osservare che i Piani che si sono succeduti hanno comunque dovuto fare i conti con un organismo urbano in continua crescita che ad oggi può essere quantificato in 5.752 ettari su una superficie comunale di 10.241, ossia il 56,17 % di territorio urbanizzato. Anche il Piano Strutturale approvato pochi mesi
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fa (con deliberazione n. 2011/C/00036 del 22 giugno 2011) si confronta con questa tematica, proponendosi di arginare il consumo di suolo: “volumi zero” è lo slogan con cui l’attuale Sindaco ha presentato il nuovo strumento urbanistico che, tra i molti, ha anche il compito di determinare le nuove quantità edificatorie massime . Andando a leggere i vari documenti di Piano si possono ricavare alcuni dati indicativi che purtroppo non confermano nella pratica la teoria dei “volumi zero”: infatti se da un lato si stima
che la superficie da recuperare senza nuovo impegno di suolo (che comprende aree dismesse, in via di dismissione ed edifici “incongrui”), raggiunge quasi 1.200.000 mq, dall’altro si deve necessariamente fare i conti con le capacità residue del PRG precedente. Quest’ultime sono ripartite in aree di nuova edificazione residenziale (100.000 mq), dei servizi (73.000 mq) e industriale/artigianale (50.000 mq), per un totale approssimativo di 240.000 mq. A questo proposito si sottolinea che solo il futuro Regolamento Urbanistico potrà fissare con precisione i nuovi interventi, tenendo conto degli indirizzi e delle prescrizioni contenute nel Rapporto Ambientale e nella Valutazione Integrata. Inoltre, nei relativi documenti (Norme Tecniche di Attuazione) anche se si fa appello al dimensionamento come «principio fondante del Piano Strutturale» a cui si affida «la trasformazione della città» futura, in realtà, ad una prima analisi, questo intento non viene esplicitamente sviluppato. Il dimensionamento di un piano è uno degli elementi che può permettere una valutazione in termini di popolazione (ossia di fabbisogno di abitazioni, infrastrutture e servizi) e consumo di suolo, ossia una verifica diretta delle risorse disponibili e dunque della sostenibilità dell’intero piano. A questo punto ci si chiede se lo slogan “volumi zero” sia riferito invece ad un piano senza dimensioni, incapace quindi di confrontarsi con un sistema sempre più complesso come la città.
BIBLIOGRAFIA Comune di Firenze, Piano Strutturale. Elaborato B, Norme Tecniche di Attuazione. Firenze, 2010 Comune di Firenze, Piano Strutturale. Valutazione Integrata Intermadia, Terza Parte. Firenze, 2010 Giorgieri P. (a cura di), Firenze il progetto urbanistico. Scritti e contributi 1975-2010. Alinea, Firenze , 2010 Martinotti G., Metropoli. La nuova morfologia sociale della città. Ed. Il Mulino, Bologna 1993. Regione Toscana, Indagine sui territori modellati artificialmente in Toscana. Firenze, 2008
1 ll modello a cui ci si riferisce è noto come modello degli stadi di sviluppo o del ciclo di vita urbano ed è stato formulato inizialmente negli anni ‘70 negli Stati Uniti per spiegare l’arresto della crescita demografica e industriale delle grandi aree urbane; successivamente è stato ripreso e messo a punto in Europa negli anni ‘80 da Hall P. e Hay D.(in Growth Centres in the European Urban System, London, 1980) e da . Van den Berg L. (in Urban Europe: A Study of Growth and De-cline, , Oxford, 1982) Il modello si fonda su l’interpretazione e la comparazione dei vari stadi di urbanizzazione, definiti in termini di variazione demografica delle città e delle rispettive periferie, con le successive fasi della industrializzazione. In MARTINOTTI G., Metropoli. La nuova morfologia sociale della città. Ed Il Mulino, Bologna 1993. 2 A partire dal secondo dopoguerra i piani che si susseguono propongono annessioni al territorio di Firenze, cercando anche di organizzare, con scarsi risultati, una pianificazione a livello intercomunale. Vedi le esperienze dello Schema di Pianificazione Intercomunale del 1951, del Piano di E. Detti del 1962 e le sue successive revisioni, fino ad arrivare allo Schema Strutturale di G Astengo del 1990 e al piano Strategico di Firenze 2010.
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ŠMaria Teresa Idone
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Workshop ACMA a Milano, la progettazione dei sistemi ambientali di Silvia Minichino
laureata in architettura con indirizzo Architettura del paesaggio Università di Firenze, attualmente Phd student DUPT, Università di Firenze
Dal 5 al 9 ottobre scorso si è tenuto a Milano il workshop “Ecologia e Paesaggio. La costruzione di sistemi ambientali” condotto dalla professoressa Isabelle Aguirre (Escuela Gallega del Paisaje, EGP - Fundación Juana de Vega, coordinatrice del Máster en Arquitectura del Paisaje con le Università di Santiago de Compostela e di A Coruña, Spagna) nell’ambito delle attività del Master in Architettura del paesaggio ACMA diretto dall’arch. Antonio Angelillo. La costruzione del workshop è partita da una attenta riflessione sulla situazione della città di Milano dal punto di vista urbanistico. La pianificazione alla scala regionale (PTR), provinciale (PTCP),comunale (PGT) è ora sottoposta ad una revisione e l’occasione di poter introdurre all’interno di questi strumenti idee nuove, che mirino alla costruzione di relazioni tra le aree edificate, o di possibile nuova edificazione, attraverso il sistema degli spazi aperti, è stato il tema ricorrente nella discussione della fase teorica del workshop. Il caso proposto è stato quello dell’area desti-
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Area destinata al progetto Expo 2011. Il pianeta, energie per la vita
nata alla realizzazione dell’EXPO 2015: nutrire il pianeta, energie per la vita. La questione fondamentale che emerge è come sia possibile attraverso il progetto di questo spazio creare un intervento che prenda spunto dall’evento dell’esposizione internazionale per la creazione di spazio pubblico andando oltre il carattere di installazione temporanea che i progetti, vari e non ancora definitivi, propongono. In effetti il problema centrale che emerge è quello del consumo di suolo nelle aree più prossime al centro di Milano, soprattutto in relazione gestione della risorsa idrica. Le edificazioni massicce che si sono realizzate negli ultimi venti anni, e quelle che il meccanismo della perequazione fa intuire prossime con l’approvazione del PGT, presentano notevoli problemi di impermeabilizzazione del suolo che provoca dissesti nella falda e continui allagamenti. Milano è città d’acqua e questa risorsa, che ha contribuito alla costruzione del paesaggio padano, sembra essere vista sempre più come un ostacolo per le politiche della città. L’interpretazione dell’arch. Aguirre parte pro-
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prio dalla lettura del paesaggio della pianura padana e di Milano, strutturati dall’acqua, come spunto conoscitivo sul quale impostare il progetto per un ripensamento dell’ EXPO 2015. Ecologia e Paesaggio, idromorfologia e strutture paesistiche che si possono ricondurre a questa tematica, costituiscono la metodologia indicata per la costruzione di un sistema ambientale che attivi relazioni forti tra l’area Nord di Milano e Milano stessa, attraverso il nodo dell’ area expo. Un secondo spunto progettuale viene dalla lettura della proposta di Carlo Petrini, fondatore
Paesaggio della marcita padana
Attraversando a piedi il lotto destinato a expo 2015
di Slow Food e tra i consulenti per l’Expo 2015. L’idea è quella di riattivare la filiera agroalimentare locale, scomparsa da decenni, che vede come principali risorse il tessuto rurale ancora presente intorno alla città, in particolare il sistema delle cascine, in funzione dell’ospitalità legata all’evento. Il proposito principale è quello di evitare lo sviluppo di meccanismi immobiliari per tutta l’area contigua a quella destinata alla realizzazione delle strutture dell’esposizione. Il territorio padano è delimitato a nord dalle Alpi, a sud dalla pianura. In prossimità del limite tra alta e bassa pianura è presente la fascia delle risorgive. La geomorfologia dell’ambito fa si che una parte delle acque provenienti dai ghiacci alpini filtrino all’interno del terreno e riaffiorino in pianura. Questo meccanismo naturale ha giocato un ruolo molto importante nella costruzione dei caratteri del paesaggio lombardo. L’interpretazione antropica di questo carattere idrogeomorfologico del territorio si manifesta nel fontanile che ha prettamente uno scopo
agricolo di regimazione e distribuzione delle acque di falda. Il fontanile è un microsistema naturale, originato da una primitiva risorgiva, imbrigliata e gestita dall’uomo. Il captare attraverso appositi meccanismi l’acqua di falda, incanalandola crea un vero è proprio canale, asta, che si sviluppa a partire dalla così detta testa, piccolo specchio d’acqua con una sua propria vegetazione. Questo sistema porta alla bonifica dell’area circostante la risorgiva. La gestione delle acque di falda ha reso possibile lo sviluppo di tecniche agricole che hanno fatto il paesaggio agrario padano. Una di queste è la marcita padana: allagamento controllato dei campi cioè un prato irriguo polifita che ha una funzione sia nutrizionale che termormoregolatrice. Il paesaggio della marcita padana oggi è quasi del tutto scomparso, ma le nuove modalità di gestione non son riuscite a risolvere a pieno le problematiche legate alle acque. Il workshop ha puntato l’attenzione su di un possibile utilizzo del fontanile come elemento che, attraverso il progetto di paesaggio, possa porsi sia come una delle molteplici possibili-
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tà per contribuire alla gestione delle acque, sia come strumento per incrementare la biodiversità nell’area metropolitana milanese, sia assumere una valenza didattico-scientifica.Il parco agricolo sud di Milano ha avviato nel 2002 una indagine conoscitiva sui fontanili e ne ha recuperati alcuni come prime sperimentazioni. L’arch. Alessandro Caramellino (Parco Agricolo sud Milano) nei sui interventi ha messo in evidenza il ruolo che l’ente parco può avere nel progetto di paesaggio per il territori milanese. L’area expo si trova in adiacenza di quella della Nuova Fiera. La collocazione è strategica dal punto di vista della logistica. Questa zona periurbana è caratterizzata da una forte frammentazione del paesaggio dovuta alla presenza di infrastruttura (alta velocità ferroviaria, autostrada
dei Laghi e Torino, Milano, tangenziale nord) e di un abitato diffuso. All’interno di questo quadro si evidenziano comunque ambiti con diverse qualità: il parco delle Groane (area protetta regionale), il parco dei Fontanili, Il Bosco In città e Parco delle Cave, Villa e Parco Arconati. La sfida del workshop, sfida progettuale e soprattutto culturale, è stata quella di proporre un’ottica sistemica attraverso la quale lanciare idee in grado di creare relazioni tra i diversi luoghi di questo territorio per cercare di risolvere forti conflittualità presenti e di evitare la nascita di nuove, partendo dall’idea che ecologia e paesaggio sono i punti fondamentali per il progetto della città.
Schema delle parti costituenti il fontanile
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RECENSIONE
Le mie città. Mezzo secolo di urbanistica in Italia Vezio De Lucia di Paola Pavoni
Architetto
Le mie citta – Mezzo secolo di urbanistica in Italia Autore Vezio De Lucia Prefazione di Alberto Asor Rosa Edizioni Diabasis 2010 Costo 18,00 €
Ab assiduis non fit passio. Senza passione sono i pedanti. Con questa frase latina Vezio De Lucia riassume il senso di quarant’anni della sua carriera di urbanista: «Non si può fare degnamente l’urbanista – scrive De Lucia – e nessun altro lavoro intellettuale, senza passione». Ed è proprio grazie alla sua passione per l’urbanistica che De Lucia, nel suo recente libro “Le mie cittá - Mezzo secolo di urbanistica in Italia”, Edizioni Diabasis 2010, regala a noi tutti un dettagliato racconto di mezzo secolo di storia della condizione urbana e del paesaggio dell’Italia. Dagli anni del P.C.I guidato da Enrico Berlinguer, al Neo liberismo di Margaret Tatcher e Ronald Reagan, passando per il crollo della Prima Repubblica italiana degli anni Novanta fino ad arrivare al più recente Berlusconismo, Vezio De Lucia descrive, svelando i retroscena politici, sociali ed istituzionali, i più importanti momenti e progetti urbanistici italiani a cui si è dedicato, sia come funzionario pubblico sia come libero professionista o, come meglio preferisce definire il lavoro degli anni più recenti, nell’esercizio della “professione privata di
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urbanista pubblico”. Sin dall’inizio della carriera De Lucia ottiene incarichi di pregio come quello di urbanista per il Ministero dei lavori Pubblici, nel 1967, che lo porta a Roma e che caratterizza quelli che lui stesso definisce gli anni di “Porta Pia”, segnati dal suo contributo alla redazione delle leggi urbanistiche più importanti. In quegli anni iniziano anche i primi rapporti con la città di Venezia, con la redazione di un documento degli indirizzi, che lo portano a contatto con l’urbanista Edoardo Salzano, all’epoca assessore all’urbanistica del comune, e il successivo incarico di coordinatore nella formazione del Piano Comprensoriale della città, strumento innovativo e fuori dalle logiche del capitalismo e, come spesso accade, mai approvato. Probabilmente la città che più gli appartiene, per origine e per dedizione professionale, rimane Napoli. Le battaglie per l’approvazione, mai riuscita, del primo piano urbanistico della città, la ricostruzione dopo il terremoto dell’80, il Piano delle periferie. E ancora la battaglia all’abusivismo in qualità di assessore all’Urbanistica, con lo sguardo sempre volto a garantire la qualità degli spazi della città, la dotazione di standard e a combattere contro l’urbanistica contrattata, sono solo alcuni episodi del suo periodo napoletano. « L’urbanistica è una materia che non può sopportare mediocri discussioni dettate dalla tattica e dai vantaggi immediati. Non esiste l’urbanistica prêt à porter», scrive riferendosi a Napoli. La passione verso il senso vero di questa professione è oggi l’unico mezzo rimasto per svolgere correttamente i propri compiti in una situazione priva di speranze, in cui secondo De Lucia,
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non resta che «evitare il peggio». Un’opinione disincantata, inaspettata al lettore, di chi la storia urbanistica l’ha vissuta sulla sua pelle ed é giunto alla conclusione che una vera riforma non arriverà.
ŠAnnalisa Biondi
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Verdiana Network Mission
Associazione di promozione sociale senza fini di lucro che diffonde una cultura della sostenibilità dello sviluppo urbano e territoriale, della conservazione e gestione del paesaggio e del patrimonio naturale e culturale, secondo i principi della Convenzione Europea sul Paesaggio (Firenze, ottobre 2000) e il modello di città creativa definito dallo Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo (SSSE, Potsdam, maggio 1999). Verdiana Network svolge progetti di ricerca, formazione e sensibilizzazione sui parchi, le aree protette e le reti ecologiche, gli itinerari culturali, gli ecomusei, i distretti culturali, la riqualificazione dei quartieri urbani e periurbani, la Valutazione Ambientale Stategica (VAS) e la pianificazione urbana e territoriale a partecipazione pubblica, anche in collaborazione con Università, Istituti di ricerca ed Enti pubblici, con la possibilità di coinvolgere studenti e giovani laureati attraverso tirocini e stage formativi. Verdiana Network offre al pubblico interessato la possibilità di riflettere e creare dibattiti sugli argomenti oggetto della propria attività tramite la pubblicazione periodica di articoli scientifici e divulgativi nella rivista on-line Network in Progress.
Attività
Nel territorio di Marche e Umbria, in collaborazione con le Fondazioni Cassa di Risparmio di Loreto, Macerata, Foligno e Perugia, Verdiana Network ha svolto un progetto di ricerca per il recupero dei cammini di pellegrinaggio al Santuario di Loreto e la sua menzione a Itinerario Culturale Europeo, unendo all’indagine storiografica e cartografica un approccio paesaggistico alla progettazione. In Lunigiana (Toscana), con la collaborazione dei Comuni di Fivizzano, Aulla, Bagnone, Fosdinovo, Licciana Nardi e Villafranca, il patrocinio della Regione Toscana, Verdiana Network ha promosso e coordinato il Corso di Formazione e Aggiornamento professionale Parchi naturali, aree protette e reti ecologiche per lo sviluppo del territorio, che ha portato all’elaborazione e all’esposizione di interessanti proposte progettuali per il territorio. Per la città di Firenze Verdiana Network è impegnata in un’iniziativa, denominata Progetto Cartoline, di sensibilizzazione al tema del degrado, dell’abbandono e della necessità del recupero degli spazi della città contemporanea, nata all’interno della ricerca per un Urban Center nell’area metropolitana fiorentina, oggetto di pubblicazioni convegni ed esposizioni.