Versilia Oggi 3/2007

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prodotti editoriali

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c’è una sola Versilia: quella bagnata dallo stesso e unico fiume Anno XLII - n.

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Incisioni rupestri

Progetto bosco

Il bricco dei vermi

Sulle pendici del Corchia la grande arte rupestre preistorica

La gestione del patrimonio boschivo

Ma che belle mascherine

Il buon Gabriele e il “neoclassico fortemarmino”

Michelangelo e la Versilia

Quella colonna per San Lorenzo Esposta sul sagrato della basilica di San Lorenzo a Firenze la colonna estratta dall’Altissimo quasi 500 anni fa

di Jacopo Cannas Meglio tardi che mai. Finalmente il velo di Maia è stato strappato e non è più tempo per strategie sotterranee, attese, guerre di posizione. Finalmente anche Gabriele Monteforte è uscito dalla trincea ed ha definitivamente palesato la sua scelta: fare il sindaco. E lo fa nello stile che gli compete, disegnandosi una lista a propria immagine e somiglianza “che guarda sia a destra che a sinistra”, come scrive Il Tirreno di qualche giorno fa. Sembra la strategia del futuro: tutti a cercare consensi trasversalmente e ad abiurare i partiti che li hanno tirati su fino ad adesso. E forse è anche giusto, specie a livello locale, non fare dell’ideologia di partito una gabbia che impedisca osmosi tra l’uno e l’altro schieramento: in un paese come il nostro ci si conosce tutti ed è inevitabile dover contare gli uni sugli altri, a prescindere dalle idee politiche. Fino a non molti anni fa era così; si era tutti amici, anche quando si litigava, e nessuno si sognava di discriminare l’altro solo perché la pensava diversamente da lui. Poi è arrivato il Cavaliere e la politica è cambiata. Alcuni dicono in meglio, altri in peggio. Non lo so. Di certo è cambiato lo spessore politico ed il livello delle discussioni si è abbassato sotto la soglia dell’analfabetismo. Qualcuno (leggi: Gabriele Monteforte) forse se n’è accorto anche al Forte e ha preso le distanze da Forza Italia, anzi dalla Casa delle Libertà. E non credo, come dicono molti in paese, che lo abbia fatto per tornaconto politico o per ambizione personale. Voglio davvero sperare che lo abbia fatto con coscienza civile. D’altronde le sue parole nei giorni passati sono state abbastanza chiare. Afferma Monteforte: “Finora sono stati gli imprenditori di fuori e coloro che investivano nel nostro paese a disegnare lo sviluppo del paese”. Belle parole, bravo Gabriele! Ma una domanda mi viene in animo di fargliela: gli ci sono voluti sette anni per dirlo? Dice che sono stati i forestieri a disegnare il Forte com’è oggi; ma, aggiungerei, con il consenso di una classe politica. E allora lui dov’era, mentre i milanesi ci comandavano? Faceva politica nel comune di Battipaglia? No, era al Forte, mi risulta. Poi aggiunge: “ma c’è qualcosa di sbagliato in questo modello che è stato perseguito in questi anni”, come parlando

Versilia Oggi il mensile della

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di Mariano Bertoli

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di un male oscuro, ancora non ben delineato, che sente a pelle, da “animale politico”. Ma no, lui lo sa cos’è che non va: “Se non ci riappropriamo del nostro destino paesano, tra vent’anni non si perderà solo l’identità del paese e dei suoi abitanti, ma forse non ci saranno proprio più i fortemarmini”. Buongiorno. Vorrà dire che ho capito e visto male e che l’Hotel Imperiale, per dirne una, in verità è un fungo nato in una notte. Non c’era un vincolo sopra quell’edificio, messo apposta – forse – per tutelare le radici storiche di una comunità? E lasciamo perdere altri possibili esempi. Se Forte dei Marmi oggi è quello che è; se ad ogni angolo di strada c’è un cantiere aperto di case (di forestieri) in costruzione – in quel bellissimo stile che mi fregio di chiamare “neoclassico fortemarmino” – forse un minimo di responsabilità c’è l’ha anche lui. C’è una tempistica che non mi torna: perché ora? Poteva andarci prima a Palazzo Quartieri e dire “no, non ci sto”. Per far restare i fortemarmini servono case per i giovani. E come pensa di attuare una politica della prima casa, quando ormai un metro quadro a Forte dei Marmi costa più che a Manhattan? Requisire le case dei milanesi? Sono cazzate, lo so, ma fanno meno male della verità: il Forte, che ci piaccia o no, è già morto, la via intrapresa è quella del non ritorno. E tenerlo in vita così non serve a tanto. Meglio l’eutanasia. Altrimenti un cambio di direzione coraggioso, molto coraggioso. Ma qui, purtroppo, di leoni non ne vedo.

Che emozione! L’ho vista, toccata, fotografata… Cosa? Una delle colonne che dopo quasi cinque secoli è arrivata a Firenze ed è esposta sul sagrato di S. Lorenzo. È lunga sette metri ed ha il diametro di circa 1 metro. Il peso? Lascio a voi fare i calcoli. È scesa dal Monte Altissimo e mai arrivò a Firenze. Riassumo le vicende che quasi costarono la vita allo scultore. 8 maggio 1515 – Gli uomini della Comunità della Cappella, con un pubblico atto rogato presso il ponte dell’ Annunziata, al confine con Seravezza, donarono alla Repubblica fiorentina il Monte Altissimo e gli altri monti di pertinenza. (Vedi La Storia, la nostra storia). 19 gennaio 1518 – Dopo la cessione Leone X affidò la sistemazione della facciata di S. Lorenzo in Firenze, da eseguirsi con i marmi dei nuovi possedimenti, a Michelangelo: “La Santità del nostro Signore papa Leone Decimo ha allogato a Michelangniolo di Lodovico Buonarroto Simoni, sculptore fiorentino... lo edificio e vero fabrica et muramento della faccia di Santo Lorenzo di Firenze... Detto M. piglia sopre di se ad fare ditta faccia a tutte sue spese, in tempi di anni otto... cominciando tale tempo addì primo di febbraio... per prezzo di ducati quarantamila d’oro in oro larghi; la quale faccia debba essere di marmi bianchi e fini di Carrara o Pietrasanta” (Milanesi, Lett.e contar., 671) 2 febbraio 1518 – Il Cardinale Giulio scrive a Michelangelo esser volontà del papa che si adoperino marmi di Pietrasanta e non altri. (Venturi, Pitt. d. Cinquec., I, 650). Il Buonarroti con riluttanza abbandonò Carrara dove si procurava i marmi per il mausoleo a Giulio II. 15 marzo 1518 – In Pietrasanta, M. fissava con un contratto i patti con nove cavatori scalpellini di cui uno di Azzano (Bastiano di Angelo di Benedecto, decto Angelotto) e gli altri quasi tutti di Settignano, per la consegna, in termini di cinque anni, dei marmi occorrenti per la facciata di S. Locontinua a pagina 7

Autocensure

Il silenzio dei giusti e le tre scimmiette

di Roberto Ippolito

Il simbolo delle tre scimmiette che non parlano, non odono, non vedono, è vecchio quanto il mondo. Un mio zio ne teneva una antica statuetta sulla scrivania, ricordo di un viaggio nella misteriosa Cina di una volta. Quand’ ero bimbo mi raccontava che era un simbolo di appartenenza e di fedeltà, come dire: io faccio parte di questa società segreta e mai ne svelerò i misteri. Naturalmente col tempo tutto cambia ed il simbolo delle tre scimmiette può assumere un significato diametralmente opposto, cioè un significato non di appartenenza ma di estraneità a tutto ciò che ci circonda. Ovvero nessuno ascolta quello che gli altri dicono, nessuno vede quello che gli

altri fanno, nessuno dice agli altri quello che sa o pensa. è un po’ pesa come teoria e forse non sono del tutto d’accordo, ma c’è un fondo di verità evidente. Questo comportamento della gente non nasce per caso, o per ignavia, o perché in fondo siamo tutti dei pecoroni: il “farsi gli affari propri”, in una società fortemente integrata, è un comportamento molto condiviso, tanto da divenire una tecnica di sopravvivenza. Nella mitica società contadina c’eri te, la tua famiglia ed il campo da coltivare con qualche bestia di contorno. Nell’altrettanto mitica società industriale c’eri te ed il padrone, che magari ti dava pochi soldi ma ti rispettava per quello che eri; e vi chiamavate per nome. La cosiddetta “società civile” era un rumore di fondo continua a pagina 3


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Le storie della Leda

Parlare il dialetto di Leda Quintavalle Falasca Ho ritrovato, un po’ malconcio, in un cassetto, il Vocabolario Versiliese di Gilberto Cocci edito nel 1956. Nella prefazione l’autore scrive testualmente: “Racchiusa fra il cerchio delle Alpi Apuane ed il Mar Tirreno, la Versilia ha potuto conservare a lungo il proprio vernacolo. Ma anche questa regione, sta subendo ora una lenta, ma inesorabile trasformazione nel costume, dovuta al rapido cammino livellatore del progresso e della civiltà, in modo che in un breve volgere di anni, è da credere che poco resterà del folclore e del vernacolo versiliese”. Il Cocci aveva ragione, oggi parlare il dialetto, sembra quasi un segno di degrado. Ho riletto il Vocabolario Versiliese con curiosità, interesse e un po’ di commozione, specialmente nel riscoprire i soprannomi con cui venivano chiamate molte persone della nostra terra; spesso i nomi veri non erano conosciuti dalla maggior parte della gente e così quando a Natà di Bugia, la guardia che controllava gli animali lo trovò con il barroccio e cavallo di mio padre che si chiamava Tanislao, ma per tutti era Tanì, a Natà venne chiesto il nome del proprietario che doveva subire una multa, perché il cavallo aveva una piaga sulla groppa, Natà incominciò a farfugliare: “Un no so’ come si chiama Tanì; mi pate Temì, Tamisco, Tanìo”. La guardia allora gli chiese se si chiamasse Temistocle e finalmente Natà, tutto contento, approvò. Sul verbale della contravvenzione, invece di Tanislao, venne scritto Temistocle. Mio nonno Ottavio lo chiamavano ‘salacchino’ ed aveva una speciale abilità nell’affibbiare soprannomi, cominciando da sua moglie che si chiamava Lucia, ma siccome era malaticcia e si lamentava sempre per le pene ed i dolori che aveva, per lui era “la mi’ pene’” oppure “la mi’ scorza” e non ho mai saputo perché la chiamasse anche così. Mio fratello, che aveva lo stesso nome del nonno, come lui azzeccava soprannomi e sin da piccolo, due nostre zie, una grassa e una magra, le chiamava “Bombolo e Stinchi” e quando andava a scuola e doveva imparare a memoria i porti dell’America del Nord aveva messo per terra, nella stalla, dei coniglietti e così, quando doveva ripassare la lezione, guardandoli elencava “Boston, Nuiorche, Filadelfia, Baltimora, Vanquer, San Francisco” ecc. Un nostro parente sempre occupato ad andare avanti e indietro, per mio fratello era ‘galoppino’, un altro un po’ effeminato era ‘l’omodonna’. Non sempre però i soprannomi che affibbiava, sarebbero stati graditi ai diretti interessati, come per esempio ‘mentolungo’ uno che aveva un po’ di bazza, oppure ‘contefava’ uno che si atteggiava a snob, così li usava in sordina. Un suo amico però lo chiamava liberamente ‘ultim’ora’ perché andava sempre a trovarlo la sera tardi. Tanti anni fa vicino a casa nostra c’erano persone soprannominate Grillo, Fico, Bandiera, Rocchigiano, Bambolotto, Vigoglietto, Meo di Barbarossa e altri, ed una donna non molto robusta, ma sveltissima a piedi o in bicicletta, veniva chiamata dal suocero, un tipo ameno e arguto “la Littorina” perché filava sempre come un treno.

Diritto & Rovescio

Strade vicinali: pubbliche o private? di Jacopo Cappuccio Si tratta di un settore del diritto che, a fronte di un vastissimo numero di casi pratici (dipendenti dal fatto che il territorio nazionale è disseminato di questi percorsi, solitamente in prossimità di campi e terreni), rimane alquanto negletto, a cominciare dal concetto stesso di strada vicinale (ovvero interpoderale, dal momento che erano destinate prevalentemente al servizio dell’agricoltura), a causa della loro origine e storia, quasi sempre risalenti nel tempo, tanto da perderne spesso le tracce. Secondo il vocabolario della lingua italiana, la via vicinale è: “la strada di proprietà privata soggetta a servitù di uso pubblico”. Parallelamente, il comma 7 dell’art. 2 del Codice della Strada (D.lgs n. 258/92) stabilisce che: “ai fini del presente codice le <strade vicinali> sono assimilate alle strade comunali”, ossia alle strade urbane di scorrimento ed a quelle di quartiere e locali, meglio definite dallo stesso articolo. La principale distinzione che si rinviene in materia di strade interpoderali attiene all’esistenza o meno di un diritto di uso pubblico sulle stesse: si distingue in proposito tra strade vicinali pubbliche e strade vicinali private (cd. vie agrarie). Al fine quindi, di stabilire se una strada interpoderale sia pubblica oppure privata, non rileva - come potrebbe pensarsi -, il fatto che la stessa risulti (o meno) inserita negli elenchi delle strade vicinali, poiché l’iscrizione non ha valore costitutivo, ma soltanto dichiarativo, consentendo soltanto di presumere che la strada sia pubblica, ma senza darne la certezza (TAR Sicilia, Catania, 29 novembre 1996, n. 2124). Al contrario, la natura pubblica della strada, dipende dalla coesistenza di tre condizioni quali: (a) “il passaggio esercitato iure servitutis pubblicae da una collettività di persone qualificate dall’appartenenza ad un gruppo territoriale” nonché (b) “la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via” ed infine (c) “un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell’uso da tempo immemorabile” (TAR Toscana, Sez. III, 11 aprile 2003, n. 1385; conformi, tra le molte: TAR Umbria, Perugina, 13 gennaio 2006, n. 7; id., 21 settembre 2004, n. 545; ed in precedenza: Cons. di Stato, Sez. IV, n. 1155/2001; Cons. di Stato, Sez. V, n. 5692/2000; Cass. civ., Sez. II, n. 7718/1991). Al contrario, quando non ricorrano gli elementi di cui sopra, ma vi sia stata la cd. collatione privatorum agrorum (ossia la messa a disposizione di una parte del proprio terreno da parte di ciascun proprietario frontista), la strada deve qualificarsi come privata (non nel senso di titolarità, ma nel senso di mancanza di pubblico passaggio).

La scomparsa della Marì “Massesa” di Monica Taddei Tempo fa mia madre Vincenzina, mi ha annunciato la scomparsa di un personaggio particolare della piana quercetana, che faceva parte del mio passato di fanciulla, quel passato che sfugge, ma che è il tuo vissuto importante e caro. E proprio mia madre, con le lacrime agli occhi, mi ha raccontato la triste storia della Marì. Chi non la ricorda la Marì ‘massesa’, tutti santi giorni per

le strade di Querceta con la sua ape carica di frutta e verdura, la sua bilancia come quelle di una volta? Prima di lei la sua nonna materna veniva alle fiere di San Biagio a Pietrasanta, di Santo Stefano a Vallecchia e di San Giuseppe a Querceta, con carichi di collane di noccioline al collo. In seguito anche sua madre, arrivava a piedi dal Poveromo, con la cesta in testa piena di verdure dei suoi campi, accompagnata da un paio di figli più grandi, fra cui anche la Marì. La nostra amata Maria si era sposata molto giovane e aveva dato vita a due bambini. Rimasta presto vedova aveva mantenuto da sola la famiglia. Con i suoi sacrifici aveva potuto comperarsi l’ape con cui tutte le mattine, iniziando da Montiscendi‚ raggiungeva i suoi clienti. A Querceta, il suo commercio si svolgeva tra via Federigi e il ristorante da Miche’, dove dava una mano a riassettare e mangiava un boccone. Volevamo tutti bene alla Marì. Non si è mai persa di coraggio nemmeno quando l’avvento dei supermercati ha immesso la vendita di verdura e frutta a basso costo. Sempre sorridente e spiritosa, la Marì era un figura caratteristica per chi come me è legato alla tradizione. Tutte le mattine ci chiedevamo: “È già venuta la Massesa? (che proprio massesa non era)”. L’estate scorsa aveva detto ai suoi clienti che a Natale avrebbe smesso di vendere, che sarebbe andata in pensione, ma non ci credeva nessuno. Il suo fisico stanco e consumato

La distinzione non è fine a sé stessa, ma comporta alcune importanti conseguenze, sia giuridiche che economiche. In primo luogo, il fatto che una certa collettività di persone transiti su una determinata strada produce il sorgere, con il protrarsi del tempo, dell’usucapione di un diritto di uso pubblico da parte dell’ente territoriale (es. Comune), il quale potrà, conseguentemente, esercitare i poteri di autotutela (previsti dal combinato disposto dell’art. 378 l. 20 marzo 1865 n. 2248 all. F e 15 decreto Luogotenenziale 1 settembre 1918 n. 1446), che si renderanno, di volta in volta, più opportuni: quale, ad es., l’ordine di riaprire l’eventuale chiusura al pubblico passaggio (TAR Toscana, Sez. III, 19 luglio 2004, n. 2637; Cons. Stato, Sez. V, 1 dicembre 2003, n. 7831; id., , Sez. V, 10 gennaio 1997, n. 29). Tale situazione si verifica assai frequentemente, dal momento che l’uso pubblico della strada non incide sulla proprietà della stessa: cosicché spesso il proprietario della strada ritiene di avere il diritto di apporvi chiusure di vario genere, trattandosi di un bene del quale egli è titolare. In secondo luogo, i soggetti stessi appartenenti alla collettività, saranno legittimati ad agire in giudizio per la propria tutela, ossia per il mantenimento del loro diritto di uso pubblico della strada. Ancora, venendo così ad alcune delle conseguenze di carattere economico, per le strade vicinali soggette ad uso pubblico (ossia pubbliche), il Comune è obbligato a concorrere alla spesa per la loro “manutenzione, sistemazione e ricostruzione”, ai sensi dell’art. 3 del Decreto Luogotenenziale del 1 settembre 1918, n. 1446, in una misura che varia a seconda dell’importanza della strada: da un minimo di un quinto della spesa, sino ad arrivare alla metà. Sempre in tema di oneri nascenti dalla natura pubblica della strada, viene prevista, obbligatoriamente, la costituzione di un apposito Consorzio tra gli utenti della strada (art. 14 L. 12 febbraio 1958, n. 126, unico articolo che non risulta abrogato dal Codice della strada). Al contrario, per le strade private non sorge alcun obbligo a carico del Comune (ovvero dell’ente territoriale), ma soltanto una facoltà, oltretutto limitata per legge: cosicché le spese per la loro sistemazione sono necessariamente ripartite tra i soli proprietari, i quali possono, ma soltanto laddove lo vogliano, costituirsi in Consorzio. Un aspetto interessante in ordine alle strade vicinali è la possibilità di utilizzarle per un uso diverso dal transito: ad es. per l’interramento di tubazioni destinate a servizio di immobili: infatti, trattandosi di godimento pubblico di transito, esula da questo ogni altro diritto che si intenda fare valere, salvo il potere del Comune in ordine alle proprie strade, cui quelle vicinali sono equiparate. In ogni caso, peraltro, gli eventuali permessi che verranno accordati, lasciano impregiudicato, purché si rinvenga in maniera certa il titolo, il diritto del proprietario della strada alla relativa indennità. un brutto giorno è crollato e non si è ripreso più e alla fine dell’anno la Marì a riposo c’è andata davvero. Ciao Mari’, tutta Querceta ti ricorda, perché non è importante essere personaggi colti o famosi in Tv per essere amati da diverse generazioni e per rimanere un ricordo dolce, tra la gente comune, che è la più vera e sincera di questa nostra Versilia.

fondato da GIORGIO GIANNELLI direttori JACOPO CANNAS • SABRINA MATTEI proprietà di franche tirature snc periodico mensile abbonamenti c/c postale 10818557 intestato a Versilia Oggi, C.P. 94 - 55046 Querceta (LU) - Ordinario 15 Euro - Estero 30 Euro - Sostenitore 30 Euro. Reg. Trib. di Roma n.11298 del 26 novembre 1966 e Trib. di Lucca n.300 del 14 marzo 2005 - Partita IVA 01980220469. Iscritto nel Registro degli Operatori di Comunicazione al numero 12608 In caso di mancato recapito, restituire al mittente che si impegna a pagare la relativa tassa

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Incisioni rupestri

Sulle pendici del Corchia la grande arte rupestre preistorica

di Isa Pastorelli e Giorgio Citton Le Apuane come la Val Camonica? Un momento. In Val Camonica le rocce incise, in una zona ristretta (circa cinque chilometri per dieci), sono più di settecento. Le incisioni, alcune decine di migliaia. In Valcamonica ha vissuto un popolo, i Camuni, che per duemila anni ha avuto una particolare autonomia economica e culturale, durante la quale numerosi artisti hanno inciso le rocce raccontando se stessi e la loro vita quotidiana. Le Apuane, molto più esposte ai transiti, hanno avuto una storia molto diversa, un ambiente diverso, una superficie molto maggiore: frugare tra i monti e valli alla ricerca delle incisioni, è un’impresa po’ donchisciottesca. In più, le rocce, oltre che molto estese, sono molto diverse, poiché innumerevoli le tipologie; tra scisti, calcari, arenarie, quarziti, ci sono rocce ‘buone’ e ‘cattive’, a seconda che reggano o meno sia al lavoro d’incisione che al logorio del tempo. Per questo motivo, il ricercatore di incisioni privilegia le rocce ‘buone’, quelle che reggono al tempo… Giusto? Sbagliato. Certo, è giusto in linea di massima. Ma ci sono molte rocce stratificate che hanno zone di alta resistenza. Proprio da una roccia stratificata, sulle pendici del Corchia,

La mostra

Giorgio Boldrini, OPERE

Giorgio Boldrini (Forte dei Marmi, 1934 - 2003) Senza titolo, tecnica mista su tela, novembre 2001 dimensioni: 120 x 80 cm proprietà: Mancini

Il recupero dell’oratorio di Valventosa di Giuseppe Vezzoni

arriva il monito, il messaggio ben chiaro: “non pensare alle lisce rocce della Val Camonica: gli artisti di un tempo sapevano scegliere le rocce ‘buone’ meglio di te”. Messaggio ricevuto, quando, sciolta la neve ci siamo trovati dinanzi alla scena preistorica che ci aveva già descritto un giovane dagli occhi attenti, Gianni Di Clemente, che ci disse di aver visto su quella roccia “due cervi, un omino, un disco solare” e di come arrivarci. La roccia in quel punto è intatta o quasi. Ecco la scena di caccia, incisa e composta con chiarezza in circa cinquanta centimetri quadrati. Il cacciatore è in atto di lanciare una grande arma a T, troppo grande per lui: ma sappiamo dalle analoghe incisioni cumane che spesso l’arma veniva disegnata come assai grande: forse per motivi propiziatori, forse per esprimere il concetto di forza. Un cervide fugge, il secondo animale (cervide?) è impietrito. In alto, il divino Sole; sole e cervo sono spesso associati nelle incisioni rupestri camune e ritroviamo l’associazione anche in questa roccia. L’amico Gianni aveva visto bene. Così ripulita la roccia e osservatala – finalmente! – con attenzione, ecco una nuova immagine e di grande, persino emotiva, bellezza: a distanza di poco più di un metro un’aquila in volo, incisa con estrema cura, badando ad ottenere il massimo rilievo, studiando persino, leggermente, gli spessori della roccia. Lo strumento utilizzato sembra essere analogo a quello usato per la scena di caccia: tuttavia nell’incisione dell’aquila si sente un qualcosa in più; oltre alla ricerca narrativa e forse simbolica, anche l’espressione di un’arte assoluta. Vi sono molte considerazioni ancora da fare. Si potrà azzardare la datazione (potremo dire la nostra anche noi, attribuendo le immagini a un minimo di duemilacinquecento anni fa) sulla quale si sentiranno certo archeologi, storici e persino etnologi: ma siamo lieti di offrire da “Versilia Oggi” l’inedita pagina di un’arte di “Versilia Ieri”.

Continua dalla prima

Il silenzio dei giusti e le tre scimmiette molto ovattato, che aumentava un po’ la domenica quando andavi a messa e magari compravi il giornale, o andavi al CRAL o alle ACLI a bere un goccio e fare due chiacchiere. Oppure quando dovevi iscrivere i figli a scuola; o quando dovevi dare un figlio alla Patria per il servizio militare. Ma nella sostanza c’era un buon compromesso, per non dire una netta separazione, tra la tua vita privata e la società con i suoi obblighi, i suoi doveri, le sue tasse. Avevi libertà e spazi personali che oggi sono perfino impensabili: cresceva la famiglia, ingrandivi la casa come volevi. Volevi fare il fabbro: mettevi un’insegna e ti affidavi alla robustezza delle tue braccia ed al passaparola. Volevi vendere il tuo formaggio: quanto più puzzava tanto più era buono. Oggi, in modo molto masochista, ci siamo costruiti una società molto strutturata, forse protettiva, ma fondata sul controllo e sulla diffidenza, una società integrata e dirigistica; e la realizzazione tua e dei tuoi sogni dipende sempre meno dalle tue capacità e sempre di più dal consenso degli altri: diplomi, permessi, licenze, concessioni, autorizzazioni, delibere, ordinanze, pareri, concertazioni, certificazioni. Quando non direttamente da favori o complicità. Per non parlare poi delle leggi e dei regolamenti, sempre più numerosi e tanto dettagliati da sembrare quasi fatti apposta per disciplinare la tua vita fin nei minimi particolari. Con tutto

Comitati che nascono

quel che segue in tema di controlli: su ciò che hai fatto, su ciò che fai, su ciò che farai. Forse non siamo ancora al “grande fratello” di orwelliana memoria, ma ne sentiamo l’alito sul collo; ed il futuro è buio. Come sempre succede ci sono poi controllori dilettanti (il vicino di casa, il collega di lavoro, il parente) e controllori professionisti (i Politici, gli Amministratori, i Direttori, i Dirigenti, i Consiglieri, i Giornalisti, i Giudici, i Funzionari, i Consulenti, gli Intellettuali ecc.). I dilettanti fanno pochi danni, anche se rompono molto. Ma gli altri detengono il Potere e se non lo usano con discrezione e buon senso, possono essere veramente devastanti nei confronti della libertà dei cittadini. In una tale società, come si può chiedere ad un cittadino di esprimersi liberamente, magari sulle modificazioni ambientali nel nostro territorio, quando appartengono alla normalità della convivenza civile tutta una serie di comportamenti? Cito alla rinfusa – tanto qualunque elenco si faccia non sarà mai completo: il vedersi rifiutato un articolo da una rivista perché ritenuto “scomodo”; il vedersi escluso da riunioni, convegni, dibattiti pubblici perché colpevole di uno sgarbo a qualche potente; l’inutilità kafkiana di esprimere

Per iniziativa del Gruppo Culturale “I Colombani” di Terrinca, si è costituito il Comitato Oratorio S. Iacopo di Valventosa, vetusto borgo dell’antica Comunità di Seravezza, famoso nel 1300 per le fabbriche del rame e del ferro della famiglia Pacchiani. La finalità del nuovo comitato è quella di recuperare l’oratorio intitolato a S. Jacopo, anche se alcune fonti storiche riportano S. Paolo. La chiesina, oggi bene della parrocchia di Seravezza, era un tempo padronato dell’importante famiglia seravezzese dei Pacchiani, dedita all’industria del ferro, tradizione lavorativa che si è mantenuta a Valventosa fino alla metà degli anni ’60 del secolo scorso, con un’attività di modellatura industriale, fonderia ed officina meccanica di Lorenzo Bardini. Oggi l’area è adibita a deposito automezzi del comune di Seravezza. Premettendo che il Comitato è aperto alla partecipazione di tutti i cittadini, associazioni ed enti pubblici, al momento i membri che hanno aderito sono l’associazione culturale I Colombani di Terrinca, don Luciano Leonardi proposto di Seravezza, monsignor Danilo D’Angiolo, il sindaco di Seravezza Ettore Neri e Giuseppe Vezzoni, appassionato di storia locale, al quale è stato affidato l’incarico di pubblicizzare l’iniziativa. La chiesina di Valventosa, seppur vulnerata fortemente dagli eventi bellici dell’ultima guerra, che hanno distrutto molto del piccolo borgo, ancora conserva il fascino paesistico e l’impronta solenne di una religiosità alto-versiliese, un tempo molto sentita. Le sue vestigia, poste al confine tra il territorio di Seravezza e quello di Stazzema, segnano la valle del Vezza con la suggestiva contiguità tra la testimonianza cristiana e la tradizione popolare delle popolazioni e l’antropizzazione fluviale della valle costellata da chiesine, marginette, tabernacoli: pietre miliari che rimarcano il segno della fede nel cammino del lavoro, della storia e dello sviluppo lungo le sponde del Vezza. Proprio per questo il neo Comitato si prefigge di approfondire tutti gli aspetti storici dell’oratorio e delle antiche fabbriche di ferro del borgo di Valventosa. È già nella disponibilità del Parroco di Seravezza, il progetto di recupero redatto dall’arch. Franco Buselli. A breve il Comitato comunicherà il conto corrente in cui far affluire le donazioni per la realizzazione del progetto, gli intendimenti del recupero e le particolarità architettoniche da preservare, nonché l’indirizzo e il recapito presso cui inviare la propria adesione. Per maggiori informazioni: don Luciano Leonardi (tel.0584.756184) e mons. Danilo D’Angiolo (tel.0584.790669), arch. Gian Piero Lorenzoni (cell.339.8170764) proposte o dissensi nelle assemblee, perché tutto ciò verrà regolarmente ignorato; la riduzione a mera formalità della ricerca dei consensi e delle concertazioni, perché tutto è già stato deciso in precedenza; la frustrazione nel vedersi negata una concessione edilizia quando il territorio pullula di gru; la consapevolezza che rivolgersi ad un professionista “sbagliato” fa trovare la strada in salita; l’adozione di criteri di selezione sulla base dell’appartenenza: “è uno dei nostri”; la difficoltà di trovare nuovi dirigenti per le associazioni di volontariato, perché come ti muovi un po’ entri nel mirino; la difesa d’ufficio dell’ambiente, ma non in tutti i casi; l’appetibilità delle poltrone in società parapubbliche, o di incarichi, o di consulenze. Ma devi rigare dritto; la raccomandazione, che tutti disprezzano. Ma se c’è è meglio; ma soprattutto: il dilagare della concezione illuministica del diritto ad imporre agli altri il proprio sapere. Perché è meglio per loro, anche se non lo sanno. Premesso questo, è ovvio che le persone di buon senso, i cosiddetti “giusti”, che abbiano a cura il benessere proprio e della propria famiglia, evitino accuratamente di vedere, di udire, di parlare. Naturalmente non manca chi si agita, parla, fa denunce, ma finché ci si limita a pestare l’acqua nel mortaio, questo è permesso, concesso, e perfino gradito: Gattopardo docet. Poi ci sono naturalmente gli eroi ed i santi, ma questi sono solo degli sciocchi che non hanno capito niente di come gira il mondo, e che, per di più, fanno anche una brutta fine. Ma all’improvviso un dubbio mi assale: che, senza saperlo, si faccia tutti parte di un’unica immensa società segreta?


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Il parla’ come si mangia di Sabrina Mattei e Piero Bresciani Poco da aggiungere a quanto visto le sere del 13 e 14 marzo quando Piero Bresciani è salito sul palco e insieme alla sua valente compagnia ci ha proposto la sua nuova commedia “Chi è di scena? Il camerino racconta”. Come sempre Piero non ci ha deluso, attento com’è a farci riflettere sulle contraddizioni del genere umano. A ciò si aggiunga il grande impegno per il mantenimento della nostra lingua (dialetto), che via via si va sempre più attenuando anche nei discorsi casalinghi. Si spera almeno che venga sostituito con un italiano corretto. È inevitabile che anche le lingue – e tanto più le declinazioni dialettali – si vadano amalgamando in una generale globalizzazione. Ma i tanto bistrattati dialetti sono un enorme patrimonio culturale della nostra variegata Italia, e ne determinano la sua ricchezza. Sono lo specchio della nostra storia, delle dominazioni subite e anche, in molti casi, della durezza del luogo. Non tenendo conto di questi presupposti, ci sono sempre state categorie di eletti che “dell’uccisione del dialetto” hanno fatto un simbolo di distinzione, come ben ci insegna Bresciani con questo brano rimato, tratto dalla sua ultima fatica teatrale: Il parlà come si mangia po’ sembrà da ignorantoni, senza garbo, senza modo…adatto solo agli scentoni; mentre invece a praticallo, mette tutti a proprio agio meno a quelli che gli garba dassi arie e fa del cagio! Chi c’ha un titolo di studio e si sente acculturato, il parlà come si mangia un gli par proprio adattato perché penza che la gente nel sentillo sproloquiare lo consideri ignorante e un lo vogli più stimare. S’è un dottore, i paroloni sembrin proprio obbligatori sennò pare che un sia bono a guaritti i tù malori…. E allora quando parla e ti vol spiegà gl’acciacchi, ti riempe di discorzi…te un capisci e po’ t’attacchi! S’è un maestro, gnanco a dillo di stroppià l’esposizione! La grammatica la insegna e un ci casca in tentazione…. Gl’esercizi col gerundio li propina a mattinate e nel caso uno si sbagli, piglia tante bacchettate!

L’avvocato poverino, del parlà resta il più schiavo perché deve dimostrà co le parole d’èsse bravo…. Se parlasse in confidenza, alla bona, come viene, i disgraziati che difende chiapperebbero le pene! E così, gira e rigira, un si possin liberare… La cultura li schiavizza e gli obbliga il parlare; Se la intendino fra loro, ènno foche ammaestrate… Tanta gente un li capisce e se ne restino isolate. A noi che invece siamo sciolti col pensiero e la parola, il parlà come si mangia ci vien bene, ci consola…… Ci ricorda i nostri vecchi di cui ormai restiamo senza e soltanto quel parlare ci ridà l’appartenenza! La cultura è conoscenza e si sa, è una vecchia storia…. Ma un’è miga obbligatorio che s’accoppi co la boria! Si po’ èsse acculturati senza fallo sembrà un peso e parlà con chi c’ascolta senza fallo sentì offeso! Per trasmette un sentimento, ci vol sempre la parola e per fallo, dammi retta, un c’è bisogno della scola…. Stà lì a sceglie la parola, il sentimento non lo cangia…. Chi vol’ èsse naturale, parli sempre come mangia!

Fermo Posta

Lettere alla direzione Forte dei Marmi 12-marzo 2002 Cara Versilia Oggi, a proposito del ‘bullone’ sul pontile, ho segnato con il pennarello dov’era. È stato tolto durante la manutenzione del pontile stesso in quanto l’impalcatura aveva i supporti in corrispondenza del bullone. Il bullone era caro a un certo Eduardo Costa il quale mi portava spesso a vedere il movimento del bagnasciuga in quel punto e lo toccava con la scarpa. Tanti saluti ed auguri da un fortemarmino doc

Ricordi incancellabili

Albè Benti, ‘l mì amico fin dall’infanzia di Renato Sacchelli Sento forte ‘l bisogno di parlà del mi’ amico Alberto Benti, scomparso qualche mese fa, di cui conservo nel mi’ core un ricordo vivissimo. Dal 1930 e fino all’istate del 1944 in cui fu ordinato dai tedeschi lo sfollamento degli abitanti di Seravezza e dintorni, abitò davanti a la mi case ubicata nell’antico rione del Ponticello, fatto saltare in aria da operai dela Todt, comandati da un sergente dei guastatori dela Wehrmacht. È stato ‘l mì compagno fin dall’Asilo e degli anni dela scóla. Erimo molto uniti. Insieme a lu’, ho avuto tanti amici, tra i più cari ricordo: Lido Calistri, morto nel 1958, in seguito ad un grave incidente sul lavoro, Matteo Bonci, Aldo Tessa, Andrea Bandelloni, Gianfranco Pea e Gianfranco Tommasi, anco se quest’ultimi quattro nun staceino al Ponticello. Per i ragà del mì rione ‘l fiume e i monti, dube solitamente si andaa a giracchià, erino le nostre palestre di giochi: pescìna per no’ fu il fiume. Spesso ci siemo trovati fra le rocce sotto la Mezzaluna dube si costruiva ‘na trincea sula quale issavamo ‘l nostro vessillo tricolore. Il campo di gioco al pallone fu la strada. Ricordo che nela via piena di polverone, che passava accanto al molino del Bonci, giocaimo molte partite sovente con ‘na palla di carta e stracci, perché ‘un s’avea ‘na lira in tasca per compranne una vera. Lido Calistri che facea il terzino, con un fazzoletto allacciato sula fronte venia chiamato Caligaris, nome di un famoso giocatore della Juventus e della nazionale. Quando piovea, spesso con Albè e altri compagni, ci incontravamo nela sua piana dube accanto ad un pollaio c’era anco ‘na tettoia. Lì tenea ‘na piccola scultura di marmo raffigurante lo sfondo del Monte Procinto, scolpita da qualche su antenato. Albè era il meglio di tutti no’, fu un trascinatore infaticabile. Un giorno, mentre staceimo a parlà nel salotto dela su case, visibilmente felice e orgoglioso, tirò fora da un cassetto ‘na foto del su babbo Donato, omo mite, schivo e bravo, scattata mentre stacea per atterrà attaccato

a un paracadute. Negli anni dela guera in cui in Versilia si patì molto la fame, Albé, più d’una volta, abbrì la cassetta che su mà, la buona e cara Antonia, tenea in cucina, per donarmi alcuni grossi gràcioli di farina di castagne prodotta dal no’ di Albé che duvea possedé sotto Giustagnana, oltre ad una vigna, anco ‘na piccola selvé. Mentre divorao quela farina mi sembraa d’avé in bocca dela cioccolata. In occasione dell’ultima colonia estiva organizzata dale scuole nel campo sportivo, prima dela caduta del regime fascista, ci fé visita il federale dela provincia di Lucca. Questi fu accolto dai raga’ che di corsa gli andonno incontro, gridando: “Viva il Duce… Duce! Duce! Duce!”. Fu in quel momento che sentii la voce di Albè mentre dicea: “Duce, Duce ala fame ci conduce”. Durante i combattimenti che si svolsero tra il 1944/45, sui monti di Seravezza, la famiglia di Albè che si rifugiò in un primo tempo nella zona di Camaiore, ritornò sobbre Serave’, nela case del babbo dela su’ ma’ che da lì un s’era mai mosso. In quela località la famiglia di Albè trascorse tutti i lunghi mesi in cui durò ‘l conflitto in Versilia. In occasione d’un nostro incontro che avvenne a Seravezza agli inizi degli anni ‘90, Albè mi riccóntò cosa faceino i raga’ più grandi che vissero per diversi mesi, a ridosso del fronte. Costoro tutti i giorni, anco col brutto tempo, trasportavino, caricate sulle spalle, pesanti cassette di munizioni e di viveri fino alle più avanzate trincee dei soldati americani. Partivino, dai magazzini situati in Torcicoda, dube stazionava sempre ‘na fila di essi, in attesa d’ave’ quell’incarico. Fenita la guerra questi valorosi ragazzi vennero subbito dimenticati; nessun attestato di benemerenza fu loro concesso per l’attività umile, ma molto importante, da essi svolta, grazie ala quale fu mantenuto sempre costante e regolare il rifornimento dele munizioni e dei viveri ai soldati americani. In cambio di quelle loro durissime prestazioni ebbero soltanto piccole scatolette di carne congelata e/o altri generi alimentari; ciò che ricevettero permise, comunque, a que’ giovinetti e alle proprie famiglie di sopravvive. Ricordo che anch’io

Il mi’ mondo come lo vedo io

Cercasi lavoro: 200 posti di Antonio Bandelloni

Un giornalista, non ricordo ‘l nome, giorni fa ha scritto sul giornale che i giovani non hanno più voglia di lavorare, un bell’articolo belo chiaro forbito, al seguro! Parlava di un ristoratore (so ‘na sega chi dera) che avea misso un’annuncio da tempo sul giornale offrendo lavoro e che nimo si era presentato; tanto il giornalista gli ha fatto reclame occulta. Ora vene il bello... no il bello di quartiere inteso come omo – eoe i lettori un enno mia tutti acculturati come me, mi capite no? Il giornale titola sulla civetta, almeno una volta a settimana, a caratteri cubitali (“grossi” pe’ queli c’unno sano) tipo chiappacitrulli: “Duecento posti di lavoro”. Ma che ha preso il giornale le piedicate del nosso sempre amato “ecchise” presidente del consiglio? Per Lu’ i posti di lavoro crescevino tutti i giorni! ...sì, ma al cimitero. L’unica cosa ch’è cresciuta in Italia in quela legislatura sono i capelli del suddetto e la precarietà. “Ci vole mobilità”: ma che cazzo! Hai voglia di esse’ mobile, ti poi move come e quanto ti pare ma il lavoro unno trovi. Voleo dire a quel Tal giornalista se ha mai provato a cercare lavoro sia con gli annunci del giornale o porta a porta ale ditte, parlo di qualsiasi lavoro anco lava piatti: al colloquio, minimo vogliono il diploma anco pe’ porta’ il cane a spasso. Caro giornalista ummi di’ io l’ho trovato vorrei sape’ come, sai son curioso, lassila lie. AAAAAA Cercasi apprendista quindicenne con trenta anni di esperienza, se ha esperienza vol dire che il lavoro l’ha e non lo lassa pe’ ‘l precariato. Se una ditta seria cerca un’apprendista, lo prende gli insegna e dopo qualche anno lo passa operaio, ma se quando ha finito l’apprendistato lo tira via come un rifiuto, alla faccia della mobilità (lasso a voi la rima)! E fa’ ‘n culo a chi ha fatto la legge, sindacato compreso. Volete esempi? Eccone uno ad alto livello: il C.N.R. (sempre per queli sodi: Centro Nazionale per la Ricerca) fa contratti annuali pe’ i giovani laureati che fanno il dottorato; finito i tre anni del dottorato il contratto non lo rinnova, cioè a dire: quando cominciano a fare la ricerca, quella vera, dopo varie pubblicazioni e seghe varie un calcio in culo e a ca’ssua! S’un vano all’estero, qui possino zappa’ la tera. E la nossa ricerca? Alla nostra ricerca hanno tagliato i fondi. Qualcuno ci ha dato dei “coglioni”: benissimo, dopo compriemo i brevetti dale altre nazioni dela roba che hano fatto i nossi... saremo, eh? “Siemo la culla della civiltà... ingegno e cultura... ma andate ramengo! Forse l’unica cosa che ci rimane è la cultura. Deriva da “culo”: infatti chi ha un bel didietro – cioè una bella cultura – in televisione fa una bella carriera; e ditemi se non è vero! Care e belle ragazze di televisione, non ve la prendete a male, non l’ho con voi – anzi, fa sempre piacere vedervi – ma con quei signori che han ridotto l’Italia in tali condizioni e un fano altro che dirci che tutto va bene (sì, pe’ loro). E’ l’unica ricerca che si fa: culi nuovi. Se la gente li guarda un pensa altro! Culi e pallone in Italia che volemo di più? Une po’ di telenovelle ed è fatta. P.S. Bisogna riguardare le pensioni: è un po’ che i pensionati le guardano, scòtino la testa e sperino in un governo migliore. Campa cavallo! Ora enno intorno alle tasse: sta a vede’ a chi le fano paga’! portai, da Valventosa a Giustagnana, sùbbito dóppo l’arivo sui monti di Seravezza dei soldati di colore della divisione Buffalo, du cassette di munizioni. Sotto quel peso patii un dolore indicibile. A Albé devo il mi’ articolo intitolato “Di corvé a Giustagnana e Minazzana”, pubblicato sul nostro periodico nel mese di settembre 1993, forse uno dei più beli e commoventi da me scritti per Versilia Oggi. Lu’ fu il protagonista di quel racconto. Mi chiese, modesto com’era, di non fa’ il su’ nome. Albé fu ‘l mi’ testimonio di nozze. Tanti anni fa, sapendo quanto era attaccato ala nostra tera, contrassi, a suo nome, se ben ricordo, un abbonamento annuo a Versilia Oggi. Nun ho spazio per riccòntà tutte le cose bele che da raga’ vivemmo insieme. Albè più che un amico, fu per me, un fratello, così come lo fu anco Lido Calistri. Ora che non c’è più fra no’, mi pare belo pensà qualo grando sonatore di trombone è stato durante la su vita terrena, col su’ strumento venghi ora impiegato lassù nel cielo, per sonà, insieme agli Angeli, la musica che accompagna in Paradiso le anime degli omeni buoni e giusti.


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Progetto bosco

La gestione del patrimonio boschivo di Alvaro Avenante In Trentino le malghe, o meglio la malga di famiglia va per intero in eredità al primogenito. Una tradizione discutibile, che ha però salvato quell’alpestre economia. Il modo ‘versiliese’ di dividere il più possibile in parti uguali case, stalle, metati, capanne, boschi e terreni agricoli, ha determinato un esagerato frazionamento delle proprietà. In certi casi si è arrivati ad essere proprietari anche di un solo vano o di una sola piana, escludendo una qualsiasi possibilità di trarne un reddito agro-zootecnico. Negli ultimi tempi la Comunità Montana Alta Versilia ha chiesto ai suoi comuni di “convenzionare il patrimonio boschivo alla Regione, in modo tale da essere successivamente gestito dalla stessa Comunità (…). La principale difficoltà nell’amministrare i boschi nasce dalla frammentazione della proprietà privata, che impedisce agli enti pubblici determinati interventi (…). Seravezza e Stazzema hanno già deliberato nei loro consigli per attivare questa funzione (…) altri lo faranno al più presto. I comuni della Comunità Montana hanno un patrimonio boschivo enorme e dalla recente analisi del piano di sviluppo socio economico è emerso un fatto incontrastabile e documentato: i nostri boschi non vengono più gestiti a dovere, costituendo una minaccia”. Spontanea quanto inevitabile la polemica. Che scoperta! Pensate, c’è voluta un’attenta analisi del piano di sviluppo socio economico dell’ente per giungere ad una tale verità. Incredibilmente perspicaci! Quanto è costata la realizzazione di quel piano per mettere su carta quello che tutti hanno ogni giorno sotto gli occhi? Ma andiamo avanti. “Per trasformare i boschi in risorsa – continua il comunicato – bisogna formare un consorzio, è l’unico modo per realizzare il Progetto Bosco (altra costosa pila di carta, ndr) e questo è possibile solo attraverso una concessione che risolva una volta per tutte l’impossibilità di gestire questi terreni”. Niente da obiettare al voler mettere le mani sul privato boschivo ed abbandonato. E perché no, anche sugli ex coltivi. È un indirizzo che va reso operativo, senza burocratiche alchimie. Amarcord: cinquanta anni fa, quando i boschi erano ancora una risorsa c’era il detto “dal bosco non si torna mai a mani vuote”. Legna per costruire, bacconi per ceste e corbelle, calocchie per l’orto, stecchi e stiampe per ardere, ghiande, funghi, rusco, cacciagione, castagne, fragole e more per mangiare. Si legge ancora nel Progetto Bosco: “attraverso di esso prevenire e limitare l’abbandono dei boschi e sviluppare l’attività di silvicultura per valorizzare i prodotti della montagna. Lo sviluppo procederà di pari passo con la tutela del territorio pensando ad un progetto più ampio: il bosco potrà essere concepito sia come risorsa economica che come fonte alternativa di energia”. Quale prevenire? Quale limitare? Nei boschi c’è il deserto. Bisogna ripartire da zero. Nessuno lavora più nelle selve. Una certa e concreta risorsa economica può sicuramente derivare dal moderno sfruttamento della legna che i nostri boschi possono fornire, senza per questo depauperare il patrimonio arboreo. Per il resto, constatati gli insignificanti successi dei passati progetti, bisogna incamminarsi su altre strade.

Che ci sia del movimento intorno allo sfruttamento delle biomasse è una incontrovertibile realtà. Sul mercato, con discreto e crescente successo, sono arrivate le stufe di ultima generazione, quelle a pellets e cippato che funzionano quasi come quelle a gasolio o gas: una carica può durare anche due giorni a seconda del modello. I pellets altro non sono che segatura di legna pressata e trasformata in piccoli cilindretti. Il cippato sono scaglie di legno spezzettato, quelle che noi versiliesi chiamiamo tacche. Purtroppo in Italia mancano le industrie che li producono e si preferiscono prodotti esteri a costi più elevati e con il rischio di rimanere senza rifornimenti. Punta decisamente e giustamente in questa direzione il progetto per la realizzazione di un impianto alimentato da cippato locale, capace di fornire acqua calda da riscaldamento e sanitaria, attraverso una rete pubblica a due paesi dell’Alta Versilia. Un progetto innovativo per il comune di Stazzema, non nuovo: in altre parti dell’Europa sono già attive simili realtà. Evviva! Speriamo solo che non rimanga un progetto, come l’imbottigliamento dell’acqua oligominerale di Calcaferro. Ricordate? Tornando al Progetto Bosco il comunicato termina così: “La gestione mista pubblico/privato del patrimonio forestale consentirà di prevenire il dissesto idrogeologico e di incrementare gli studi valorizzando i prodotti locali. Attraverso l’agenzia formativa della Comunità Montana potrà essere istruito il personale delle aziende”. L’unica vera proposta ‘rivoluzionaria’ rimane l’attivazione dell’iter normativo che porterà e consentirà di operare sulle proprietà private abbandonate. Questo obiettivo da solo non può determinare la nascita di cooperative forestali impegnate a questa nuova-antica attività economica se contemporaneamente non si attiveranno aziende di filiera di sfruttamento del legnatico in genere. E qui bacchettiamo i grandi imprenditori che invece di riciclarsi nel mattone, per ricavarne esclusivo e personale profitto, dovrebbero impegnarsi alla creazione di nuove economie per una crescita collettiva condivisa e a beneficio di tutte le parti sociali. Il proporsi della Comunità Montana a gestione del patrimonio boschivo ‘collettivizzato’, e l’ergersi ad agenzia formativa delle maestranze, come organismo pensante, propositivo, direttivo e indispensabile, è solo facciata. Nella realtà l’ente è un inutile carrozzone, con le proprie maestranze ridotte a fare i prestatori di manodopera per il Consorzio di bonifica, altro ‘concasse’ mangiasoldi, con i suoi balzelli richiesti anche per terreni montani (non beneficiari di interventi di salvaguardia idraulica) e della piana non soggiacenti al rischio idraulico del fiume Versilia. Il binomio pubblico/privato non è la soluzione. Conoscete un solo caso che abbia funzionato a dovere? Quanti negativi esempi potrei portare e mi potreste suggerire. Sicuramente se non ci sarà una creazione industriale della filiera di trasformazione bisognosa del legnatico prodotto, la richiesta, sia pur ‘rivoluzionaria’ della Comunità Montana, non basterà a reinventare una economia del bosco. Comunque qualora e quando la richiesta sia normativa applicabile, la Comunità Montana, vinta questa sua ineguagliabile e irripetibile gara, dovrebbe ‘ritirasi’ da campione, collocandosi nella storia.

Dire donna

Ci hanno fatto odiare le coccinelle di Elisabetta Angelini La volgarità negli spot pubblicitari non ha limiti e finisce per causare sentimenti di repulsione verso immagini che non sono di per sé repellenti. La coccinella è un insetto che suscita piacere a vederlo, con le elitre rosse o di altro colore e i pallini neri; si dice che porti fortuna se lo trovi in casa posato sul muro, sul vestito, sulla mano. La delicatezza con cui la prendi per posarla su una pianta o su un fiore è simile a quando maneggi qualcosa di molto fragile che potrebbe andare in frantumi con un gesto maldestro. Questo sentimento piacevole e affettuoso è stato stravolto da una stupida pubblicità, anzi, stupida è un aggettivo troppo leggero, è meglio dire volgare, pronunciando le lettere con la bocca atteggiata ad una smorfia di disgusto. Lo spot rappresenta due coccinelle accoppiate in un amplesso talmente energico da far muovere l’oggetto (ometto il nome, anche se sicuramente è di pubblico dominio) in maniera esasperata; il messaggio è chiaro: invitare a comprarlo perché con quello e dentro quello puoi fare ciò che ti aggrada, anche in maniera brutale. Esagerazione? Può darsi, ma basta vedere l’immagine di una delle coccinelle che scivola inutilmente aggrappata al vetro dell’oggetto. Addio poesia! Addio fascia protetta per i bambini! Mi chiedo cosa risponderanno i genitori quando il figlioletto domanderà cosa stiano facendo gli animaletti. Immagino l’imbarazzo per essere presi così alla sprovvista, la mente che cerca affannosamente delle frasi adatte a soddisfare la curiosità del piccolo, le ulteriori domande riformulate in base alle risposte, perché la curiosità infantile non è mai sazia. Fino a che il povero genitore dirà che è l’ora di andare a letto o di aspettare di essere più grande per capire certe cose. Ma i più grandicelli, informati ormai da ciò che vedono e sentono intorno a loro, dalla tv dispensatrice di scene erotiche e da internet, dove navigano “a vele spiegate” in barba ai tonni dei loro genitori, guarderanno con aria di sufficienza gli adulti impantanati in balbettamenti inconcludenti e in rossori imbarazzati (se sanno ancora arrossire). Questo inconveniente causato dallo spot incriminato non è il solo. C’è anche l’idea ‘deformata’ dell’immagine. Infatti la pubblicità di una zona di escursione protetta, rappresentata dal disegno di una coccinella aggrappata ad un filo d’erba, evocava nella mia mente, per un attimo, la famigerata reclame, provocandomi rabbia e disappunto per la manipolazione subita. In questo caso il tonno sono io. Sessuofobia? Bigottismo? Puritanesimo? Niente di tutto questo. È solo indignazione per l’uso e l’abuso del sesso, che andrebbe riportato al ruolo importante di continuazione della specie, animale e vegetale, alla prosecuzione della vita affinché non si estingua. E mettiamoci pure i sentimenti, che per noi umani sono basilari. Nonostante se ne parli in continuazione il sesso è vissuto ancora con malizia e per gli operatori pubblicitari la malizia è associata alla furbizia, nel senso che più calchi la mano più vendi. Dopo tutta questa filippica è necessario ricollocare le coccinelle nella dimensione affettiva che suscitano (a chi non ha la fobia degli insetti); prenderle delicatamente sulla mano, accogliere la buona sorte da loro e, con un gesto leggero del braccio alzato, dare loro lo slancio perché aprano le elitre e volino verso il fiore preferito. P.S. Ultimamente lo spot sembra aver diradato le sue apparizioni, anche se ne è stato proposto un altro molto più affollato di ‘coppiette’. Con buona pace delle coccinelle.

Photo: www.morguefile.com

Sostenitori di VO Come ogni mese, pubblichiamo i nostri sostenitori, sempre ricordando che ogni abbonato sostiene con il proprio abbonamento ordinario Versilia Oggi. Il nostro ringraziamento va naturalmente, e doverosamente, anche a tutti loro. Famiglia Remo Luisi, Adriana Prosperi, Rosanna Pellizzari Davini, Egidio Lombardi, Leandro Da Prato, Ezio Frigerio


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Dall’Almanacco versiliese II

Frammenti di cronaca (terza parte) Pietrasanta 5 luglio: fu veduto in mare, in poca distanza dalla nostra costa, un legno corsaro che faceva sospetta navigazione; mentre parea minacciasse di scendere a terra, il nostro comandante, osservando che andava avvicinandosi alla riva ripiegando le vele, ordinò che gli fosse sparato un colpo di cannone prima a vuoto, quindi a palla come seguì per quattro volte consecutive e allora si allargò subito e fu perduto di vista; era uno scampavia tunisino che dava la caccia ad alcuni bastimenti che si erano gettati a terra verso il nostro forte di Motrone e quello di Viareggio. Seravezza 27 luglio: alcune persone di questo luogo, portaronsi alla Casina detta del lago, per mangiare e bevere sull’ora della merenda e, dopo essere stati allegramente alterati, forse dal vino, vennero fra loro a contesa circa il pagamento; e siccome la questione che agitavasi consisteva in cinque soldi, uno di essi pagò e per allora terminò lo strepito; fatti però pochi passi si riaccese di nuovo la lite e uno ferì un altro con un colpo di accetta in una polpa della gamba; il ferito riuscì a darsi alla fuga volgendosi verso la Casina del lago, accanto alla quale aveva il suo archibugio carico a veccioni, ossia a munizione grossa; non sapendo come salvarsi dal feritore, che sempre lo inseguiva alla distanza di dieci o dodici passi, gli sparò una archibugiata nel petto per la quale poco dopo lo privò della vita; l’inseguitore ebbe solo tempo di confessarsi e perdonare il suo uccisore che, passata in barca la Foce del lago, si ritirò in stato estero; da questo tribunale si sta fabbricando l’opportuno processo. Pietrasanta 26 agosto: Giuseppe Malteozzi, contadino del cavaliere Marchi, accortosi che una sua vacca faceva poco latte, messosi in guardia, si avvide che veniva poppata da una grossa lepre; armatosi di fucile, la bestia fu uccisa sul fatto. Pietrasanta 16 dicembre: Gio. Battista Brigidi, portatesi nel suo podere unitamente alla sua consorte, ebbe la poca cautela di lasciare la loro piccola bambina in custodia dell’altra figlia di anni quattro a dormire presso un grande fuoco; essendosi la più grande addormentata, la piccina finì per cadere tra le fiamme e, prima di ogni umano soccorso, restò talmente abbruciata che il giorno susseguente rese l’anima al Creatore. Azzano 13 gennaio 1781: Mariano Mariani, abitante in questo villaggio, si avvide che il fuoco aveva attaccato alla di lui abitazione; chiamato soccorso, gli riuscì salvare il bestiame. Stazzema 19 gennaio: in contrassegno di cordoglio e di riconoscenza verso l’augustissima imperatrice defunta Maria Teresa d’Austria, non ha mancato questo popolo di celebrare a proprie spese decorose esequie; vennero affissi alla porta maggiore della chiesa proclami per esaltarne l’esempio e le virtù lasciatici e per ricordare che adesso essa vive con no nella persona dell’augusto figlio nostro sovrano; molto fu il concorso del popolo e grande la dimostrazione di pietà e di dolore. Pietrasanta 22 gennaio: nella insigne collegiata di S. Martino si è svolta la solenne funzione dei funerali in suffragio dell’augusta genitrice del nostro sovrano Maria Teresa d’Austria; la chiesa era apparata con la maggior decenza e grandiosa illuminazione; oltre al popolo vi intervennero il vicario regio, la magistratura e altri impiegati.

Pietrasanta 3 febbraio: la sera della fiera di S. Biagio, dopo la commedia, recitata nella sala del signor Michel’Angiolo Chiariti, dalla compagnia Patriarchi del piccolo teatro dei comici fiorentini, fu data una festa da ballo nella casa del defunto Francesco Cerini Vanni che durò fino alle ore sei della mattina, con copiosi rinfreschi; il concorso del popolo fu grande e tutto fu regolato senza il minimo sconcerto, onde incontrò l’universale gradimento; Pietrasanta 6 febbraio: il vetturino che da questa Terra conduceva a Massa il corriere di Genova, allorché fu sulla strada che rimane nel piccolo territorio di Montignoso, ove la strada rimane racchiusa tra il monte e un muro, fu bloccato da tre o quattro persone armate di fucile, sparse in più luoghi; era il far del giorno e lui domandò chi fossero; amici, gli fu risposto; al ritomo da Massa ritrovò nei luoghi medesimi le stesse persone armate che non gli fecero il minimo oltraggio; di lì a non molto, passò sullo stesso luogo il procaccia di Pontremoli che andava a Firenze; assalito da tre persone armate fu derubato di varie somme di denaro, compreso quel poco che aveva di proprio che si trovava indosso, di diverse lettere e di altra bagattelle che doveva recare alla nostra Terra, a Lucca e a Firenze; presogli anche il cavallo, lo lasciarono sulla strada medesima. Pietrasanta 1° marzo: per rinunzia del dottore Celestino Gattini, essendosi resa vacante la condotta di uno dei medici di questa comunità, viene indetto un concorso avvertendo che lo stipendio è di scudi 125, con l’obbligo di servire tutti gli abitanti della città, della campagna e comuni alla medesima annessi; Seravezza 26 marzo: con straordinario concorso di ogni ceto di persone e decente apparato, si è scoperta la miracolosa immagine della Madonna del Soccorso, al cui altare è stata cantata la messa solenne e l’inno ambrosiano per rendere grazie all’Altissimo dei rilevanti privilegi spontaneamente concessi a questo vicariato dalla somma clemenza di sua altezza reale e per ottenere con l’intercessione della Santissima Vergine una vita prospera a sì degno principe e a tutta la real famiglia. Seravezza 28 aprile: fu ritrovata morta, appiè d’una balza di Montorno alquanto lungi da noi, una certa Giovanna vedova Lombardi di detto luogo, che essendosi portata a far legna, nell’affascinarle, precipitò dalla balza e battuto il capo in una pietra, cessò di vivere. Pietrasanta 7 giugno: vengono indette solenni cerimonie religiose in ringraziamento nei confronti del Granduca per avere liberato il popolo dal pagamento della tassa sul macinato; vari tridui vennero effettuati anche nelle chiese di campagna; così a Querceta, il parroco Giuseppe Magnini ha voluto ringraziare la famiglia reale perché la chiesa di S. Maria Lauretana sia provvista di competente canonica, di sacri arredi, di bronzi e di un cappellano in aiuto allo stesso rettore e per avere aggregato alla chiesa di Querceta i benefizi dei santi Ippolito e Cassiano di Strettoia e di S. Bartolomeo per il mantenimento dei rispettivi curati. Pietrasanta 16 giugno: avendo il signor Claudio Tolomei e i suoi compagni della collegiata acquistato un organo molto buono e antico già utilizzato a Pistola dai celebri organisti Filippo Tronci e figli, fu nei giorni scorsi suonato dal celebre maestro Filippo Gherardeschi della stessa Pistola, con molto piacere dei nostri abitanti, accorsi in gran numero a udirne l’armonia. Pietrasanta 10 settembre: ricorrendo la festa del glorioso taumaturgo Sebastiano Niccola da Tolentino, fu solennizzata con decorosa pompa, nella chiesa dei reverendi padri agostiniani, nell’occasione fu sentita una nuova messa solenne composta in musica da un socio della congregazione agostiniana, padre Giuseppe Cortesi, accademico filarmonico di Fivizzano. (continua)

Una noce nel sacco

Un libro che non viene a noia

Una lettera appassionata, sull’ultima fatica del Giannelli, che è una recensione e insieme un personalissimo amarcord...

Voglio elogiare su Versilia Oggi Giorgio Giannelli per la sua fatica letteraria “Una noce nel sacco”. Mi aveva pregato appena lo avessi letto di comunicargli le mie impressioni: dalla presentazione a palazzo Mediceo a oggi l’ho già letto due volte, ma invece di telefonargli penso sia più opportuno fargli le mie considerazioni su Versilia Oggi; anche per far sapere ai diversi amici che sembravano scettici su questo libro quanto sia spassoso, interessante e vero. Quando mi viene in mente qualche particolare che mi ha colpito, torno a sfogliarlo. Ma non sono solo i particolari, è tutta la storia di una vita, che ti coinvolge e ti affascina. Mi ha fatto piacere di leggere anche un po’ di storia di Renato Salvatori (il mi’ Renà) di cui sono sempre stata grande ammiratrice, mentre i ragazzi di quei tempi ne erano gelosi per la grande fortuna che gli era capitata, e con disprezzo lo chiamavano ‘Pancola’. Nel 1959 lo incontrai davanti al cinema Principe in calzoncini corti a righine di picchè bianchi e celesti, una maglietta bianca con i profili celesti e ai piedi “le spiaggette”, i famosi zoccoletti raso terra. Per l’emozione non fiatai, ma trassi dalla borsetta un lapis e un pezzetto di quaderno a quadretti e glielo porsi per l’autografo, che benché scolorito, ancora conservo gelosamente. Ricordo che è morto la domenica delle Palme del 1988. Ancora in quegli anni, durante la Settimana Santa, si usava pulire le chiese, ma all’ora che sapevo avrebbero portato al cimitero di Querceta la sua salma, lasciai stare tutto. Non vedendo anima viva, io e le mie figlie chiedemmo al chiosco dei fiori, e ci dissero che Renato era già arrivato dalla mattina. Piansi e depositai alla sua tomba un modesto mazzolino, intanto le altre donne avevano terminato la pulizia della chiesa anche per me. Caro Giorgio sono rimasta veramente molto colpita dalla schiettezza dei tuoi scritti. È veramente un libro che non viene a noia. Auguri per il prossimo e voglio firmarmi come tu vorresti Ancella Maria Rosa Giovannetti

Libreria Giannelli

via mazzini, 11 forte dei marmi

Una noce nel sacco

Almanacco Versiliese II

Dove comprarlo tutti coloro che non abitano in versilia

e volessero ricevere a casa l’almanacco versiliese, si rivolgano direttamente a: giorgio giannelli

via san giorgio,

48

55046 pozzi di seravezza (lu) tel. 0584.769192

Queste sono le uniche librerie dove si può acquistare l’Almanacco Versiliese di Giorgio Giannelli: Pietrasanta: Librerie Tonacchera, Santini e Susanna Marina di Pietrasanta: Libreria Tonacchera Forte dei Marmi: Libreria Giannelli Querceta: Delia e Bar Tabaccheria Maggi Ripa: Edicola Bigotti Seravezza: Edicole Binelli e Marchi-Barsanti Viareggio: Libreria La Vela

solo alla libreria giannelli


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Continua dalla prima

Quella colonna per San Lorenzo

Cronache da Basati

Gente dei monti di Giulio Salvatori

Firenze, Piazza San Lorenzo. Sul sagrato della basilica di San Lorenzo la colonna che Michelangelo aveva estratto dalle Apuane e che è giunta, dopo cinque secoli, nel luogo per il quale era stata progettata.

renzo “da cavare et sbozare nella montagna et iurisditione della terra di Pietrasanta..., in loco decto Finochiaia, sive Transvaserra... et dirimpetto et riscontro il loco detto alla Cappella”. I marmi dovevano essere cavati e trasportati fino al poggio caricatore all’inizio della strada progettata, che si presumeva fosse compiuta nello stesso spazio di cinque anni. Difficile e dura fu l’apertura di questa strada, che richiese tagli nella viva roccia e imponenti opere di sostegno lungo il fiume Serra. A dirigere i lavori Michelangelo si era associato Donato Benti, celebre scultore fiorentino, che dal 1508 era a Pietrasanta e forse per primo aveva segnalato la presenza di pregevoli marmi, quando si era recato sull’Altissimo per rettificare i confini, in seguito al passaggio del Capitanato di Pietrasanta dalla Repubblica di Genova a quella di Firenze. Più che un contratto si trattava di un legame di amicizia e di reciproca stima e, scrupolosamente, il Benti tutelò gli affari del grande amico quando questi doveva assentarsi. La cronologia michelangiolesca dopo gli studi recenti e tuttora in corso è assai esatta e in grado di fornirci gli elementi per precisare la sua personale partecipazione ai lavori intrapresi per la strada e per le cave. I lavori della strada dovettero essere a buon punto alla fine del 1519 se una colonna per la chiesa di S. Lorenzo arrivò a Firenze nell’aprile di quell’anno. Ma le difficoltà dovettero permanere e dopo il 1520 Michelangelo non attese più all’escavazione e abbandonò i tentativi. Giovanni Papini, grande scrittore fiorentino del nostro tempo, afferma che la facciata di S. Lorenzo fu per Michelangelo una tragedia dolorosa, lo costrinse a fatiche tediose e penose, per un’opera che non ebbe mai inizio: “Passò i tre anni tra Roma, Firenze, Carrara, Pietrasanta, Seravezza, Pisa, Genova, adoprandosi in faccende che non erano degne di lui; a correre su e giù per i monti per aprir cave, nel fare accordi, contratti e liti con scarpellini, sbozzatori, barrocciai, mulattieri, manovali, padroni di navi e barcaioli. Doveva fare tutte le parti, tutti i mestieri: essere di volta in volta ingegnere, agrimensore, appaltatore di sterri e di scassi, impresario, capociurma, spedizioniere e cavallaro. Bisogna immaginarselo tra i monti, fra la polvere delle strade e il tanfo delle stalle, indaffarato nelle taverne con i lavoranti, sui moli con i marinai; sempre all’erta, sempre in pensiero, in attesa, in sudore e furore. Come sempre accade nulla andava come si voleva; la gente era zotica, villana, infedele e ribelle. Tutti mancavano di parola e facevano a scaricabarile, per negligenza, per malavolontà. Neppure i suoi garzoni lo contentavano, sicché un rovello continuo, un perpetuo patema, mille paure, mille inciampi e contrattempi, mille contrarietà e avversità lo angustiavano”. Il suo ricco epistolario conferma quanto asserisce il Papini: 18 aprile 1518 _ Michelangelo scrive da Pietrasanta al fratello Buonarroto: “Monterò subito a cavallo e anderò a trovare el cardinale dei Medici e el papa e dirò loro el fatto mio e qui lascerò l’impresa e ritornerommi a Carrara, chè sono pregato come si prega Cristo. Questi scalpellini che io menai di costà non si intendono niente al mondo di cave nè de’ marmi... e non m’hanno ancora cavata una scaglia di marmo che buona sia... Io ho tolto a resuscitar morti e a voler dimesticare questi monti... Credo di essere stato uccellato... Oh, maledet-

to mille volte il dì e l’ora che io mi partii da Carrara”. 14 settembre 1518 – Michelangelo scrive a Berto da Filicaia, in Firenze: “Le cose di qua vanno assai bene. La strada si può dire che sia finita, perchè resta a fare poco, cioè resta a tagliare certi sassi, o vero grotte... De’ marmi, io ò la colonna cavata giù nel canale e presso alla strada a cinquanta braccia, a salvamento... èccisi fatto male qualcuno nel collarla, e uno ci s’è dinocolato e morto subito, e io ci sono stato per mettere la vita” 2 aprile 1519 – Michelangelo scrive a Pietro Urbano: “Sabato mattina io mi messi a fare collare una colonna con grandeordine... e, poi che io l’ebbi collata forse cinquanta braccia si ruppe uno anello dell’ulivella... e la colonna se ne andò nel fiume (Serra) in cento pezzi...Siamo stati a un grandissimo pericolo della vita tutti che eravamo attorno e èssi guasto una mirabil pietra” Continua il Papini: “Ma al tempo stesso quelle montagne che in qualche punto somigliavano alle bolge e ai gironi del suo Dante, dovevano infinitamente piacergli: soddisfacevano in pieno il suo amore per la solitudine, per la grandiosa povertà e nudità del mondo. Si sentiva l’uomo a faccia a faccia con la creazione primitiva. Egli vedeva se stesso come un domatore della montagna”. Dalla lettera a Berto da Filicaia: “El luogo da cavare è qua molto aspro e gli uomini molto ignoranti in simile esercizio: però bisogna una gran pazienza qualche mese, tanto che e’ si sieno domesticati e’ monti e ammaestrati gli uomini; poi faremo più presto”. Sappiamo però che Michelangelo dovette piegarsi alla fatalità e rassegnarsi alla sconfitta. Il papa infatti sia che fosse occupato da nuovi e più gravi pensieri, sia che tutti quegli indugi lo avessero infastidito, finì col disobbligare Michelangelo e risolvere il contratto con un breve del 15 marzo 1520. “Michelangelo aveva perduto – conclude il Papini – oppresso da quelle fatiche, senza poter avviare la facciata, più di tre anni: tre anni e mezzo della sua piena maturità tra i quarantadue e i quarantacinque anni. Forse non ebbe altra consolazione, in tutto quel tempo e in quella solitudine in mezzo alla natura selvatica, la vista dei monti, del mare, lor meditazione delle cose eterne”.

Questa volta mi metto a scrivere con grinta e anche incazzato ripensando ad un colloquio di qualche giorno fa. Una discussione, senza esclusione di colpi, avuta con un mio carissimo amico della piana. Insistevo sul concetto, per lui incomprensibile, che noi di quassù, della montagna seravezzina, non abbiamo bisogno di insegnamenti su cosa dobbiamo fare. “Grazie al cielo – gli gridavo negli orecchi – abbiamo una ricchezza interiore che gli altri non possono avere. Il motivo è semplice. Le nostre radici affondano in un terreno di buoni principi. Si ramificano in un argilla ricca di calcio che scende dal monte Altissimo, dal monte Cavallo, dal monte Castellaccio e nel Bardiglio della Cappella. Poi ricevono il ferro ed altre sostanze dalla sorgente della Polla, dal canale delle Fontanelle, dal canale di Michelino e da centinaia di rigagnoli che scendono dai nostri colli. Lo volete capire che siamo diversi!”. Mi ha gridato: “Siete duri, cocciuti, diffidenti”. Così gli ho ricordato un vecchio proverbio: acqua, rena e ignoranza. Credo che ci sia rimasto male: si è zittito. Le mie considerazioni vengono, se permettete, dalla constatazione dei fatti. Lo so che dovrei starmene tranquillo davanti al televisore, o fare il nonno a tempo pieno, ma non ce la faccio. Io sono cresciuto nel sociale e non posso stare zitto e buono. Farei il gioco degli altri. Affondo ancora il coltello, dicendogli: “Te il tempo libero l’hai passato sul pontile a pescare, e siccome Giulietto – come mi chiamano – ha il coraggio di spazzare la foschia davanti agli occhi, dà noia”. Il mio pensiero sulle Pubbliche Assistenze l’ho espresso chiaramente e pazienza; si vede che sono contenti così, il tempo è galantuomo e mi darà ragione. Come al solito sarà troppo tardi. Quello che cercavo di inculcare nel cervello di quel mulo era questo: “In una comunità, e mi riferisco a quella della montagna senza campanili, dove abbiamo La Filarmonica, Il gruppo teatrale La Maschera, La Quadriglia, Il Coro della Cappella, elementi dell’arte come Giampaolo Giovanetti, con un sacerdote come Don Ermes sempre presente, ed altri personaggi validi, che altro vogliamo? Certo che organizzare, provare, etc, vuol dire impegno, sacrificio, tanta pazienza, ma poi la gratificazione arriva sicuramente. La soddisfazione più grande, il premio più bello, sarà quello di essere riusciti a donare qualcosa alla nostra gente. Ti sembra poco?”. Sono sicuro che parlo ad un sordo, o a uno che fa finta di non sentire; però mi guarda: è già qualcosa. E allora? Allora bisogna che gli uomini e le donne di buona volontà si mettano attorno ad un tavolo, magari mangiando una pizza, e tutti insieme avanzino delle proposte. Un consiglio: se qualcuno avesse in mente di portare qualche idea ‘politica’ è meglio che non si presenti. Certamente non possiamo e non dobbiamo dimenticare le Istituzioni, anzi vanno coinvolte sulla linea di proposte valide, con binari posati da noi. Non penserete mica che per spronare le menti ci voglia il solito milanese o fiorentino, soltanto perché usa un modo di esprimersi colto, un linguaggio diverso e ti dà del Lei? Sarebbe un fallimento. Io rimango fedele al nostro modo di dialogare, magari con qualche ‘cane’ abbozzato. Sono espressioni condite con il nostro olio. L’importante è intendersi. PS. Non intendo certamente fare di ogni erba un fascio: so che ci sono centinaia di giovani che dedicano il loro tempo al sociale e al volontariato, ai quali va il mio ed il nostro ringraziamento.

Inaugurazioni

Il bambino e la ragazza Lo scorso 24 febbraio l’artista versiliese Rino Giannini ha inaugurato a Seano nel comune di Carmignano (provincia di Prato) la scultura “Il bambino e la ragazza”. Riportiamo un passo del critico d’arte Ludovico Gierut che così ha presentato l’opera: “Il bambino e la ragazza, centralità del tema, svelano e rivelano due età, due generazioni che non possono essere confrontate, bensì unite nel pensiero di una società che va avanti. C’è un senso corretto del tutto, un’armonia che rende in pieno la profondità del vivere e dell’esistere. La parte frontale, realizzata direttamente, come tutto il resto, senza ricorrere a modelli, è essenziale, vigile nella composizione lineare ed espressiva. Non c’è retorica; l’autonoma forma, è fluida, dolce la tensione è naturale tanto da portare in essere una raffinatezza che si completa spontaneamente, tale da accompagnare il pensiero a quella scultura toscana che tanto ha dato alla Storia dell’Arte”


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Il bricco dei vermi

La fine delle torte putte ilbriccodeivermi@tiscali.it

A Gretel, proprio di cuore.

di Fabio Genovesi E alla fine arriva anche Pasqua. Come se uno avesse superato il Natale e fosse pronto per un’altra cosa del genere. Per la Pasqua non c’è una data fissa, metà marzo, aprile, chi lo sa. Da bimbo questa cosa mi straniva un po’. Io andavo avanti coi miei giorni e me ne sbattevo, poi di colpo vedevo le uova, i palmizi, e mi dicevano che era quasi Pasqua. E io pensavo che capitasse così, una decisione presa lì per lì, come andare a mangiare una pizza con gli amici. Vabbè, dài, facciamo che il 5 è Pasqua, e giù tutti a organizzarsi. Perché prima di Pasqua c’è tutta una processione da rispettare. Tipo la Via Crucis, o la domenica delle palme, che non ho mai capito cosa fosse e mi dava l’idea di roba esotica, forse una messa organizzata alle Hawaii. E poi c’era la benedizione delle uova. Decoravi i gusci disegnando fiocchetti, faccìne buffe, nastri, poi ne mettevi tre o quattro nella meglio ciotola di casa, la mamma ci avvolgeva intorno un panno pulito e le portavi lieto in chiesa. Ma una volta, avrò avuto diecianni, una mia zia chiede se posso portare a benedire anche le sue. Probabilmente mosso dalla bontà delle feste, dico di sì e passo da lei, già con la bici e il mio bel panierino in mano. Solo che la zia e i suoi familiari erano divoratori di uova sode da competizione, quasi professionisti, si vantavano di alzarsi la mattina di Pasqua e fare colazione con cinque uova a testa. Così la zia mi allunga un secchio di plastica della Cofort grosso quanto me, pieno di uova e pezzetti di paglia e strane macchie marroni. A fatica aggancio il secchio al manubrio, parto tutto traballante e lungo il tragitto casco una volta e mezza. Ammaccato quanto le uova, arrivo in chiesa e sistemo il mio bel panierino sulla balaustra che separa l’altare dalle panche. Per fortuna non c’è ancora nessuno, giusto un paio di vecchie in letargo, sicché ci piazzo accanto il secchio zozzo della Cofort, enorme là sopra, e corro a sedermi con aria vaga. La gente arriva e ognuno mette il suo panierino sulla balaustra, poi arriva il prete e comincia a recitare le preghiere. Ma dopo poco si interrompe: -Scusate, il proprietario di questo secchio è pregato di toglierlo di qui perché non riesco a vedere i fedeli-. Qualcuno ridacchia, i più rompipalle fanno di no con la testa, con espressione schifata mi guardano alzarmi, raggiungere i gradini a testa bassa, trascinare giù il secchio e scappare via come un tarpone. Ma questi sono fatterelli meschini e personali, che non rendono giustizia alla festività e anzi rischiano di mettere in ombra il significato autentico della Pasqua: mangiare come degli sfondati. Che poi è più o meno lo stesso del Natale. Metteteci dentro le solite violenze alimentari, verdure fritte, cannelloni, pasta al forno, vasche olimpioniche di besciamella, varie specie animali razziate, il coniglietto pasquale preso, stecchito con una bastonata alla nuca e servito coll’olive. E poi l’uovo di Pasqua, dono insidioso e maledetto. Ogni anno, nonostante mi regalassero quello col fiocco azzurro, dentro ci trovavo bamboline, orecchini e specchietti per le femmine, illanguidivo, subivo battute ammiccanti da parte dei commensali e mangiavo un pezzetto di cioccolata per dimenticare, ma poi ricordavo che la cioccolata non mi piace. E in ogni caso, Pasqua è ancora poca roba, giusto un antipasto, un preludio al trionfo autentico: il lunedì di pasquetta. In quel giorno, il versiliese sente il bisogno irrepri-

informa

mibile di salire verso i monti, piazzare una coperta a terra e sfondarsi un’altra volta di mangiare. E di colpo i paesi delle Alpi Apuane si popolano di una specie animale rarissima, osservabile solamente in quell’occasione: sono i babbi alpinisti, esseri che nelle fattezze ricordano vagamente il genere umano. Si riconoscono dal camicione a quadri strettissimo alla pancia, gilèt da cacciatore, pantaloni di jeans con la piega, calzino bianco di spugna e mocassini speciali da escursionismo, occhiali da vista assicurati da un cordino dietro il collo, bastone anti-vipere costruito sul momento. A vederli pascolare per le piane di Palatina o Cerreta, si notano subito le due strane escrescenze intorno alla vita, ovvero un pratico marsupio contenente bussola, coltellino multiuso, pistola sparabengala, e di là un elegante “Kappa Uèy” bello imbustato e pronto a salvare la vita in caso di nubifragi o tsunami, tipici della giornata di Pasquetta. I più fanatici non dimenticano il binocolo, utile per avvistare orsi grizzly o puma in avvicinamento, e si avventurano in ardite passeggiate fino al bar per prendere l’amaro. Impensieriti dall’affanno sopraggiunto ai primi passi, i babbi cominciano a eseguire esercizi ginnici con l’intenzione di rimettersi subito in forma, e ufficializzano intenzioni salutistiche per l’immediato futuro. Intanto bevono grappa e spumante per buttare giù mattoni di pasta al forno raccomodata, insalata russa, rosticciana. E se gli resta un angolo di fiato, li senti contemplare l’orizzonte e commentare sognanti -ma guarda che pace, che colori. Noi che si vive in città, queste cose ce le possiamo scordare-. Poi montano in macchina e tornano verso la metropoli di Ripa. E il rientro a casa è per palati forti. In cucina li attendono teglie bitorsolute di torte putte e dolci, certe ammezzate certe ancora intere, scambiate tra vicini e parenti, ricevute in omaggio e subito messe in circolo tra le case come disgrazie da scaricare addosso a qualcun altro. Il giorno prima, a tavola, hanno animato la conversazione sull’argomento “quanto pecorino romano ci vole in quela putta” e “ci dice di più lo Strega o l’Alchèmens in quela dolce”, ma oggi quelle torte stanno lì testarde e irriducibili, pronte per la fine più giusta, ovvero essere tirate alle bestie o nel bricco della spazzatura. Di loro resteranno le teglie bitorsolute, grattate, senza un vero padrone, diventate nomadi a forza di girare tra le case. Dall’acquaio, appena lavate, ci guardano perplesse mentre la festa finisce, e noi riprendiamo le solite cose.

Libri

Come ti cucino la Satira

Sabato 21 aprile, alle ore 18,00, nella splendida sala della Mutuo Soccorso a Forte dei Marmi, verrà presentato il libro di Mario Baldini “Come ti cucino la Satira” (Edizioni Franche Tirature). Il volume, ricco di vignette e disegni satirici, nonché di testimonianze illustri di artisti e intellettuali, sarà presentato su iniziativa dell’attuale vicesindaco Ermindo Tucci, che lo ha ritenuto un prodotto editoriale degno di attenzione. Durante la presentazione, che sarà condotta da Romano Battaglia, interverranno l’artista Arturo Puliti e Emilio Tarabella, che narrerà alcune vicende legate ai grandi personaggi storici fortemarmini prendendo spunto da un dipinto di Ercole Ferrari che Mario Baldini donerà in quell’occasione al Comune di Forte dei Marmi.

Storia del Credito Cooperativo

Il contributo delle BCC alla crescita dell’Italia L’avvento in Italia del Credito Cooperativo – attraverso le prime Casse Rurali – alla fine dell’ottocento, è stata la prima, reale, pratica opportunità per la gente comune di utilizzare servizi finanziari. In oltre cento anni e per tutto il ‘900, il Credito Cooperativo ha permesso a milioni di piccoli agricoltori, artigiani, operai, imprenditori, professionisti, operatori del sociale e alle loro famiglie di ricevere fiducia, di ottenere credito, di migliorare la propria condizione di vita, consentendo loro di realizzare le proprie aspirazioni, di costruire la propria prosperità, di far crescere le comunità locali e quindi un Paese intero. I nostri predecessori hanno introdotto nell’industria bancaria i concetti e le prassi della responsabilità, dell’impegno collettivo a vantaggio del bene comune, con l’obiettivo di promuovere princìpi differenti rispetto a quello del “più si ha, più è facile avere”, riuscendo quindi nell’intento di “includere” migliaia di persone nella vita economica e sociale. Il socio è la nostra ragion d’essere. Il nostro scopo è rispondere alle sue esigenze finanziarie. Il cliente è la nostra ragione di fare e fare sempre meglio. La misura della loro soddisfazione è il nostro successo. Nella nuova Europa unificata da una moneta comune, che abbatte frontiere e sembra trascurare i vecchi confini, il Credito Cooperativo – che origina dalle economie locali ed è l’artefice del loro sviluppo – non può non ripensare se stesso per costruire un futuro nuovo di solidarietà e di democrazia economica. Le Banche Cooperative, e con esse la Banca della Versilia e della Lunigiana, dalla semplice attività di erogazione di credito e raccolta di risparmio, sono diventate fornitrici globali di servizi, di prodotti e di soluzioni finanziarie. Di qualità. Senza dimenticare che la loro vocazione è quella di essere differenti per forza. Banche per le quali l’utile è uno strumento, non il fine. Le BCC hanno contribuito a costruire e a far crescere l’Italia, nella sua storia fatta di salti e di passaggi armonici, di strappi e di eccellenze. Di questa storia sono parte fondamentale. Si sono impegnate a cooperare in maniera nuova e più intensa tra banche, tra banche e organismi di servizio, tra banche e fabbriche di prodotti e soluzioni che hanno costruito nel corso degli anni. Cooperano come “sistema” di banche locali con altri “sistemi” cooperativi europei. Per tutto ciò, gli uomini e le donne che costituiscono il Credito Cooperativo si propongono da tempo di rispettare e promuovere la Carta dei Valori del Credito Cooperativo. Interpretando i princìpi che rendono la cooperazione di credito una formula viva e vitale per il Paese e per l’Europa. Dal movimento del Credito Cooperativo


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