Note di storia sul paesaggio agrario della Basilicata tra XIX e XXI secolo bc
Biblioteca del Centro Annali
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Note di storia sul paesaggio agrario della Basilicata tra XIX e XXI secolo a cura di P. Fuccella - A. Labella - E. M. LavorĂ no
Biblioteca del Centro Annali
Note di storia sul paesaggio agrario della Basilicata tra XIX e XXI secolo a cura di P. Fuccella, A. Labella, E. M. Lavoràno Direzione editoriale Maria Carmela Consiglio Calice Immagine grafica Palmarosa Fuccella ISBN 978-88-8458-111-2 © 2010 Calice Editori Rionero in Vulture (Pz) Prima edizione 2010 Stampa Grafiche Finiguerra Lavello (Pz)
Dipartimento Agricoltura Sviluppo Rurale Economia Montana
Volume realizzato con il contributo della Regione Basilicata Dipartimento Agricoltura, Sviluppo Rurale Economia Montana Tutti i diritti riservati. Questa pubblicazione non può essere riprodotta, filmata o trasmessa in alcuna forma o in alcun sistema elettronico, meccanico, di fotocopia, di registrazione o altro senza l’autorizzazione dell’editore.
Referenze fotografiche: Ministero per i beni e le attività culturali. - Archivio di Stato di Potenza. Archivio Luccioni Si ringraziano per la preziosa collaborazione: Valeria Verrastro, direttore dell’Archivio di Stato di Potenza; Michele Saponaro, Soprintendenza B.S.A.E. della Basilicata; Anna Abate, direzione generale Regione Basilicata. Si ringraziano inoltre tutti coloro che hanno gentilmente contribuito al buon esito di questo progetto.
Presentazione Sviluppo rurale, valorizzazione del paesaggio e innovazione nelle politiche regionali “Il Vulture è suggestivo, incanta. Gli oliveti e i vigneti sembra che non abbiano altra funzione che quella di rivestire le pendici del monte [...]. Incanta anche la terra nera delle pendici [...] ricca, generosa che si vorrebbe prendere a piene mani…”. Così scriveva nel 1978 l’autorevole agronomo rotondellese Vincenzo Valicenti, in uno dei suoi tanti studi dedicati alla nostra terra e al paesaggio agrario lucano. E ancora, una “terra generosa” diceva della Basilicata Guido Spera, stimato divulgatore agricolo ed eminente artista che illustrò il mondo agro-pastorale lucano della prima metà del secolo scorso. Ma della Basilicata scrittori, poeti, sociologi e antropologi, viaggiatori stranieri hanno ampiamente rappresentato luoghi, culti e folclore, e per vari autori il pane e il grano sono materia che diviene simbolo di questo territorio. “[...] Da noi il mondo è lontano, ma c’è odore di terra e di gaggìa e il pane ha il sapore del grano”, riportava il poeta tricaricese Mario Trufelli in una lirica pubblicata nel 1959 nella raccolta “Paese giorno e notte”. Insomma, la terra lucana è stata descritta in molteplici maniere quale metafora intensa ed emblematica di un Mezzogiorno pregno di asperità, umanità, testimonianze ancestrali, un teatro naturale fra cielo e terra tra sconfinati orizzonti, che disvelano la profonda bellezza di un mondo incontaminato e dalle radici contadine. Un mondo, come sosteneva Francesco Saverio Nitti, il quale intuì il nesso tra Mezzogiorno ed Europa, che deve trovare il modo di legare la propria visione di spazio locale a quello globale. Un tema aperto, quindi, per un nuovo confronto che la Basilicata rurale, conscia delle proprie radici ma anche delle potenzialità, descritte così acutamente nei contributi di studiosi e ricercatori, ha accettato convintamente. E lo ha fatto anche attraverso il Programma di sviluppo rurale, entrato oramai a pieno regime, i cui assi che contengono il miglioramento della competitività dei settori agricolo e forestale, dell’ambiente e dello spazio rurale e della qualità della vita nelle zone rurali, impegnano nell’insieme 875 milioni di euro, di cui 672 di partecipazione pubblica e 203 di sponda privata. Il nostro obiettivo, in conformità con le strategie europee, è rimettere al centro degli interventi regionali il settore primario riconoscendone l’importanza nel nostro territorio, puntando sull’innovazione, sulla qualità, sulla valorizzazione del paesaggio e sulle emergenze ambientali in un contesto di sviluppo ecosostenibile. Un programma di interventi coordinati teso non solo a frenare il processo di disarticolazione dell’agricoltura e di spopolamento dei nostri centri interni ma a costruire un modello lucano di agricoltura multifunzionale che sappia essere fattore di coesione e di integrazione fra territori e generazioni. Questa rivisitazione del paesaggio agrario lucano altri non è che la lettura di un percorso, l’anagramma di una società in cammino. Un compendio prezioso e un compagno di strada. On. Vincenzo Viti Assessore all’Agricoltura della Regione Basilicata
Indice
Cap. I Il paesaggio agrario della Basilicata nella storiografia nazionale e regionale dell’ultimo ventennio Angelo Labella
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Magia dell’orto e della montagna Lucio Tufano
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Cap. II Natura e paesaggio agrario lucano dell’Ottocento nelle osservazioni scientifiche di autori coevi e in alcune interpretazioni storiografiche contemporanee Costantino Conte, Angelo Labella, Ezio M. Lavorano
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Per il miglioramento dell’agricoltura. La Reale Società Economica nell’800 Michele Strazza
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Il feticismo da letame Lucio Tufano
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Cap. III Il paesaggio agrario lucano nel XX secolo Valerio Giambersio, Carmela Menchise
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Mercato e sviluppo nella zona di Metaponto tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento Nicola Lisanti
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Igiene, salute e paesaggio agrario nella Basilicata tra Ottocento e Novecento Luigi Luccioni
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Il paesaggio rurale italiano tra continuità e distruzione. Un caso lucano Fabio Fontana
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Storia amara del vino Lucio Tufano
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Appendice Il paesaggio lucano nella pittura fra ’800 e ’900 Palmarosa Fuccella
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Il paesaggio dei fotografi. Una ricognizione sulle immagini della Basilicata Pietro Dell’Aquila
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Il paesaggio agrario lucano nel documentario Rocco Brancati
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La Basilicata nella produzione cinematografica documentaria dell’Istituto Luce: 1928 - 1964 Pietro Dell’Aquila
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Glossario feudale – demaniale Ezio Maria Lavoràno
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Capitolo I Note di storia sul paesaggio agrario della Basilicata tra XIX e XXI secolo
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Nella pagina precedente e in copertina: Veduta dei mulini dei signori Siervo e Mazzei in territorio di Lagonegro. 1827; Antonio Cascino, disegnatore; mm. 580x435; non in scala; disegno a penna acquerellato; ASPZ, Intendenza di Basilicata, b. 622, fasc. 548 [su concessione del Ministero per i Beni e le AttivitĂ culturali. Archivio di Stato di Potenza, Â Aut. n.296 del 29 gennaio 2010]
Il paesaggio agrario della Basilicata nella storiografia nazionale e regionale dell’ultimo ventennio Angelo Labella
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a Basilicata dei calanchi: paradossalmente quest’unica immagine di “assenza” verrebbe fuori, se andassimo dietro a tutta la letteratura storiografica marcata dall’impronta del meridionalismo classico,quella di una Basilicata orrida e sfasciata idrogeologicamente- per riprendere G. Fortunato-, in cui, oltre la monotonia del latifondo cerealicolo-pastorale, “paesaggi agrari” più movimentati sarebbero comparsi solo negli ultimi cinquanta- settanta anni. Come è noto i calanchi materani sono stati, a partire dal secondo dopoguerra e dalla uscita del Cristo si è fermato a Eboli, l’immagine più tipica della Basilicata, schiacciata dal peso di una natura selvaggia e matrigna. La storia economica e sociale della Basilicata, inclusa quindi la storia del paesaggio agrario, è apparsa segnata, nella lunga durata, da una massiccia passività nell’accettazione dei vincoli ambientali. F. Assante, studiosa attenta di società rurali indagate nell’arco di più secoli, così spiega una storia lunga di utilizzo passivo, non specializzato, “promiscuo” del suolo. Lo squilibrio climatico ed ambientale condizionava […] le forme di utilizzazione del suolo e gli ordinamenti produttivi. Non solo. In epoca preindustriale, per una società essenzialmente agricola, alla specializzazione delle colture era di ostacolo il problema sempre difficile della sopravvivenza.
La sopravvivenza e quindi la produzione per l’autoconsumo è stata la chiave per spiegare, fino a tempi
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Angelo Labella
piuttosto recenti, l’uso produttivo del suolo all’interno di una economia quasi tutta agro- silvo- pastorale, in cui la pratica della cerealicoltura diffusa, con la sottrazione di grandi superfici al pascolo e al bosco, ha rappresentato l’unica rottura nell’arco di molti secoli. Perciò in una logica economica segnata dall’autoconsumo e non dal mercato, il sistema produttivo era caratterizzato da una estrema varietà di coltivazioni. L’aratorio s’incrociava con il querceto, con il castagneto, con il bosco ceduo, con il pascolo. Così pure la vigna s’intersecava con il gelso e con l’olivo; quest’ultimo con gli agrumi, ma anche con il ceduo e con il pascolo. In tutti i fondi alberati si insisteva nella semina di cereali e legumi, all’insegna dei contrasti tra interessi del suolo e del soprassuolo.
La Assante approfondisce, per la Basilicata, quanto L. Gambi aveva scritto, più in generale, per quell’Italia in cui «le strutture rurali sono da riportare a potenzialità più elementari», come avveniva «nelle zone più interne lungo la catena peninsulare, come le ondulazioni […] o le conche […] del Potentino e del Lagonegrese», dove l’azienda rurale tipicamente individualista si riduce a poderi minuscoli o è frazionata in pezzi di terra di ampiezza minima e lontani fra loro; e la famiglia […] esercita su questi frustoli di proprietà, con metodi e strumenti primitivi[…] ogni genere di coltura: dai cereali ai legumi, le patate e i pomodori, un po’ di olivi e un po’ di viti, qualche albero da frutta, ecc, e alleva con sacrifici un maiale e può mantenere solo uno o due sparuti animali da traino.
L’insistenza su pratiche agricole segnate dall’uso
di «metodi e strumenti primitivi» e, in più, su terreni distanti gli uni dagli altri continua a riportare in primo piano una interpretazione in chiave di permanente arretratezza dell’attività dei contadini lucani. In queste note cercheremo di documentare una evoluzione più articolata e movimentata del paesaggio agrario più tradizionale, quello del latifondo cerealicolo- pastorale, e di rintracciare in Basilicata la diffusione di quella «stabile azienda contadina [di cui] _ secondo E. Sereni _ nel Meridione e nelle Isole, non si [poteva] generalmente parlare [alla vigilia dell’eversione della feudalità], salvo che nei limitati settori di prevalente proprietà allodiale, o in quelli dove lo jus coloniae e i contratti di tipo enfiteutico hanno permesso la diffusione delle colture arboree e arbustive». L’ipotesi è quella di recuperare una cultura agronomica, nel Mezzogiorno, tra le migliori al mondo, secondo P. Bevilacqua, di cui erano in possesso soprattutto i proprietari di piccoli poderi, che a partire dalla viticoltura e dalla frutticultura [dalla selezione e l’innesto di ulivi, viti e alberi da frutto alle tecniche di scasso e di sistemazione idraulica e conservativa dei terreni] non si sono accontentati di sfruttare passivamente ed estensivamente i terreni ma si sono sforzati, già dal Settecento, di migliorare lentamente la produttività e l’utilizzabilità intensiva di piccole porzioni di terreno. Lo faremo ricorrendo a quella storiografia che, sull’urgenza di una rottura con una storiografia che spesso utilizzava le grandi opere dei meridionalisti classici come fonti storiche, ha consumato il distacco da quella congiuntura avviata nel secondo dopoguerra, quando «la storia del Mezzogiorno [in corsivo nel testo] contemporaneo ha fatto tutt’uno con la storia della “questione meridionale”, in un clima storiografico in cui non era « la vicenda storica effettiva delle regioni meridionali a ricevere attenzione e cura da parte degli storici […] con l’esame dei processi materiali e
Il paesaggio agrario della Basilicata nella storiografia nazionale e regionale dell’ultimo ventennio
politici della trasformazione che qualunque storia reale porta con sé» ma era piuttosto l’analisi e la denuncia dell’arretratezza e dei ritardi, la ricerca e l’enfasi sulla diversità dell’Italia meridionale rispetto al resto del paese, la polemica ideologica, spesso la recriminazione moralistica nei confronti dei governi
a connotare l’atteggiamento scientifico e culturale di chi si occupava di storia meridionale. Uno dei primi terreni affrontati dalla storiografia, vicina o meno che fosse all’impostazione metodologica, appena citata, del gruppo di storici ritrovatosi nell’IMES e intorno alla rivista Meridiana, a partire dai primi anni Ottanta del secolo scorso, è stao quello delle trasformazioni “modernizzanti” che hanno caratterizzato il Mezzogiorno preunitario. Sono passati ormai venticinque anni da quando il convegno Il Mezzogiorno d’Italia dall’antico regime all’unità. Forme e limiti di un processo di modernizzazione, tenutosi nel 1985, fu un’occasione per mettere a fuoco ipotesi di lavoro, categorie analitiche, fonti e metodi di indagine capaci di rendere tutta la varietà e, spesso, contraddittorietà delle trasformazioni registratesi, nel Mezzogiorno tra la fine del XVIII e la prima metà del XIX secolo
che si lasciavano alle spalle la storiografia che aveva usato la categoria dell’arretratezza «quale connotato essenziale e duraturo della storia meridionale», quella di tanti storici che, tra gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, avevano ricostruito un’immagine delle campagne meridionali, tra la seconda metà del XVIII e gli inizi del XIX secolo, riversando in queste ricerche
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le preoccupazioni e le speranze che alimentavano i conflitti sociali che tra gli anni ’40 e ’50 erano esplosi con asprezza nelle campagne meridionali e che, in un contesto politico- culturale segnato da un’intima connessione fra impegno civile e riflessione storiografica, spingevano a ricostruire in tutto il loro spessore storico i processi attraverso cui si erano formati e consolidati, fra ‘700 e ‘800, gli equilibri sociali che nel secondo dopoguerra entravano in crisi profonda.
La ricerca storica si è concentrata sulle regioni meridionali più dinamiche, tra cui la Puglia e in particolare la provincia di Capitanata, al centro di tanti lavori di storia dell’agricoltura tra Settecento e Novecento, che hanno indagato le trasformazioni colturali e ambientali, soprattutto quelle legate alla progressiva scomparsa della pastorizia transumante nell’area controllata dalla Dogana delle pecore di Foggia. Negli anni Ottanta- Novanta si è andata sviluppando una reinterpretazione della storia dell’agricoltura meridionale e pugliese, soprattutto quella dei primi trenta- quaranta anni dell’Ottocento, con implicazioni indirette anche su quella lucana. E. Cerrito rompendo con una tradizione storiografica e politico- culturale generalmente incline a considerare come binomi quasi indissolubili concentrazione della proprietà fondiaria e pauperismo e miseria diffusa, grande azienda cerealicola estensiva ed inefficienza e irrazionalità del sistema produttivo
documentava come più rilevante fosse l’incidenza dei redditi medi e alti, più sostenuto il livello di vita, più ro-
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Angelo Labella
busta e diffusa la presenza di attività secondarie e terziarie proprio nei comuni della pianura [pugliese] caratterizzati da un più alto livello di concentrazione della proprietà fondiaria e da una nettissima prevalenza della media e grande azienda cerealicola che produceva per il mercato, da un più alto grado di proletarizzazione del tessuto sociale e da più bassi di livelli di densità demografica.
S. Russo, approfondendo la crisi degli anni ’20 dell’Ottocento, ricostruiva «tensioni e processi di mobilità sociale […] e di riorganizzazione degli assetti produttivi e proprietari» in un quadro in cui i gestori di “masserie” di medie dimensioni, riducendo il campo di attività dell’impresa, selezionando e migliorando la qualità di razze e sementi, facendo crescere la produttività con la riduzione dei tempi di riposo della terra e con la restrizione delle aree lasciate a maggese nudo, riuscirono a sopravvivere meglio, ricorrendo soprattutto al nucleo familiare e alla sua massima potenzialità lavorativa, in una congiuntura economica in cui la riattivazione dei circuiti del commercio internazionale [...] e l’agguerrita concorrenza dei grani russi facevano crollare il prezzo dei cereali e, in Capitanata, mettevano in gravissime difficoltà, a vantaggio di mercanti ed incettatori, il gruppo dei massari o grandi coloni.
Il senso di tutta l’operazione storiografica era che l’immagine della Capitanata proposta da queste ricerche, anche se non divergeva radicalmente dalla visione tradizionale, era però incomparabilmente più varia, articolata e ricca di chiaroscuri rispetto a talune rigidezze di una tradizione storiografica generalmente propensa a sotto-
lineare soprattutto gli elementi di immobilismo e di stagnazione secolare nella vita economica e di più aspro conflitto nei rapporti sociali.
Tutti questi lavori, messi insieme, restituivano un panorama sociale e produttivo più mosso e più frammentato di quanto non si potesse sostenere fino a quel momento: c’era la scoperta, potremmo dire con qualche forzatura e con molta imprecisione, di una notevole incidenza dei “ceti medi” nella storia della società meridionale e di una vitalità della piccola e media azienda, quella che di solito era stata legata alla crescita della viticoltura avvenuta di lì a qualche decennio dopo. Anche in Basilicata si avviavano ricerche orientate a cogliere fattori di dinamismo e di “modernizzazione difficile”, per riprendere la nota espressione di Giuseppe Giarrizzo, in una regione in cui la permanenza dei caratteri dell’ancien régime, ancora per quasi tutto l’Ottocento, poteva pur apparire ancora prevalente. Giovani storici come A. Sinisi e S. Lardino affrontavano progressivamente, nell’arco di una quindicina di anni, questioni di storia dell’agricoltura, di storia sociale, di storia ambientale nell’ Ottocento misurandosi con le interpretazioni della storiografia inglese e francese. Non citeremo tutti i loro lavori ma solo quelli che più si legano al tema di queste note. A. Sinisi si è impegnata, con la sua tesi di dottorato di ricerca, Economia, istituzioni agrarie e gruppi sociali in Basilicata (1861-1914) a documentare, nella seconda metà dell’Ottocento con una proiezione nei primi anni del Novecento, il dualismo tra la Basilicata nord-orientale (parte del melfese e del materano), l’area in cui si sviluppava «un’agricoltura più ricca e dinamica proiettata verso il mercato esterno […] con importanti sbocchi commerciali pugliesi» e quella «sud-occidentale (buona parte dei circondari di Lagonegro e Potenza) in cui
Il paesaggio agrario della Basilicata nella storiografia nazionale e regionale dell’ultimo ventennio
l’agricoltura, dalla bassissima produttività, languiva anchilosata nei vecchi convincimenti […] impermeabile alle attività di propaganda […] di nuove pratiche agronomiche». La stessa Sinisi, qualche anno dopo, concentrando la sua ricerca sullo “stato” feudale di Melfi nel suo Il buon governo degli uomini e delle risorse significativamente sottotitolato Gestione di uno “Stato” feudale e governo del territorio nel Mezzogiorno fra Settecento e Ottocento, ha indagato le trasformazioni territoriali in un’area che includeva parti delle province di Basilicata, di Capitanata e Principato Ultra. Utilizzando come fonti «la normativa statutaria dei comuni lucani […] e la documentazione (fine XVIII secolo-prima metà del XIX) relativa allo “stato” feudale di Melfi, possesso […] Doria», ha fatto emergere «non tanto il trionfo dell’individualismo agrario, quanto le resistenze, i complessi rapporti tra comunità locali e nuove istituzioni statali, i vecchi conflitti sociali – tra allevatori e agricoltori, ex feudatari e comunità – che la disgregazione degli assetti dell’ancien régime rendeva più aspri». Da una ipotesi di ricerca legata ai nuovi indirizzi di storia del territorio e delle risorse ambientali la Sinisi si è spinta ad affrontare questioni come «il controllo politico dei mercati e l’organizzazione degli spazi urbani», all’interno delle quali «era possibile cogliere gli specifici e ambigui caratteri della nuova azienda latifondistica, le trasformazioni e le resistenze nelle forme di utilizzazione dello spazio rurale, i mutamenti nelle scelte di gestione economica e di intervento ambientale» che i Doria furono costretti ad avviare. S. Lardino, in una relazione tenuta al convegno su Patrioti e insorgenti in provincia: il 1799 in Terra di Bari e Basilicata, utilizzando come fonte i reclami inviati alla Camera della Sommaria, ha ricostruito il mosaico delle reazioni ai processi di sfaldamento delle forme consuetudinarie e comuni-
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tarie di utilizzazione della terra e all’emersione di un individualismo agrario che tentava di sradicare l’economia e la civiltà pastorale. Lardino si è preoccupato di cogliere le reazioni del ceto baronale, «i comportamenti diversificati e non omogenei, in una difficile congiuntura per un ceto che non poteva assistere impassibile al suo destino» in cui si poteva leggere una razionalità gestionale riconducibile ad una «valutazione comparativa dei vantaggi derivanti dalla soppressione delle servitù collettive e di quelli, di contro, derivanti dal mantenimento di quelle servitù, […] per il signore una fonte di entrate più cospicue rispetto ai risultati delle chiusure». C’erano poi comportamenti nobiliari che erano ispirati al «mantenimento di atteggiamenti paternalistici che facevano del barone il protettore della comunità e il garante […] della tradizione, di un antico ordine che non si voleva sconvolgere», con una «opzione di “economia morale”, funzionale ad una transizione dolce nella bufera di fine Settecento ed inizio Ottocento». Posizioni di questo tipo incoraggiavano l’opposizione delle popolazioni, che, in un’area interna in cui l’allevamento e lo sfruttamento dei boschi prevalevano largamente sulle colture agricole, vedevano minacciato il secolare equilibrio di un «microsistema fondato sulla libertà di spostamento stagionale degli armenti e delle mandrie»
verso i pascoli estivi sul Pollino e quelli invernali protetti lungo il corso del Sarmento e permettevano la conservazione della promiscuità dei pascoli, come avviene nella contea di Chiaromonte per i pascoli sul massiccio del Pollino. I lavori di A. Sinisi e S. Lardino hanno modificato l’immagine di una Basilicata immobile, l’hanno sottratta a «quella connotazione di staticità, di immodificabilità imposta dalla tradizione meridio-
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nalistica». Ma è soprattutto M. Morano, con il suo corposo Storia di una società rurale. La Basilicata nell’Ottocento a rifiutare, come ha scritto nell’introduzione G. De Rosa, «l’immagine di una borghesia, di una possidenza tutta parassitaria, assenteista, incolta […] l’immagine di una storia sociale della Basilicata immobile». G. De Rosa così continua: Grazie a Dio non c’è per lui nessun Cristo «che si è fermato a Eboli», ci sono invece gli uomini, piccoli e grandi proprietari, nullatenenti, braccianti, professionisti, che lottano, si battono per uscire dalle condizioni di arretratezza, ereditate dal regime feudale, dall’inerzia dei fruitori della rendita, dalle difficoltà fisiche e ambientali; […] c’è una borghesia che guarda anche ai modelli d’Oltralpe […] [una] borghesia di provincia [che] cerca soluzioni ai problemi della viabilità, della bonifica, della concimazione, delle rotazioni, della meccanizzazione agricola, dell’introduzione di nuove piante foraggiere, di nuovi metodi di stabulazione, della ricerca di sbocchi di mercato.
La sconfessione del vecchio schema sociologico e storiografico della polarizzazione sociale apriva la strada anche ad una parziale riscrittura della storia dell’agricoltura e del paesaggio agrario, soprattutto in Puglia: diventava centrale la graduazione e l’anticipazione dei processi di trasformazione colturale, in cui la complicata e contraddittoria trasformazione dell’economia agro-pastorale, dopo la soppressione della Dogana di Foggia, l’istituzione del Tavoliere delle Puglie e la divisione delle terre riservate al pascolo, la comparsa, più o meno massiccia del seminativo, perfino l’estensione dei paesaggi dell’orto, del vigneto, dell’oliveto venivano individuate come piste di lavoro praticabili. Per il paesaggio del seminativo viene individua-
ta una grande avanzata della cerealicoltura in Capitanata tra le due grandi crisi della metà del 1700 (in particolare quella del 1764) e la crisi degli anni Ottanta dell’Ottocento: questa crescita è fatta di fasi di brusca accelerazione e di rallentamento, in cui addirittura si registra un recupero congiunturale del pascolo. Il processo ha anche sfasature territoriali e congiunturali su cui agiscono le scelte dei piccoli produttori e quelle delle grandi aziende che producevano per il mercato interregionale ed internazionale, come aveva mostrato, già qualche anno prima, S. Zotta, per l’area del Vulture, segnalando, per la congiuntura economica che dalla espansione cinquecentesca culminò nella crisi di metà ’600, le scelte non coincidenti fatte «dai medi e grandi fittavoli che gestivano le masserie di campo dei Doria nella zona di Candela e dai piccoli terraggianti della contigua area collinare e montuosa del Vulture». Dopo la crisi dell’annata agraria 1764-65, in tutta l’area del Tavoliere (dal Fortore a settentrione, fino al basso Molise, dal Subappennino alle Murge di Gravina e di Altamura) si registra una crescita del seminativo con punte d’incremento del 144% per il grano e del 188% per le «biade» tra il 1760 ed il 1775. La crescita del seminativo nell’Ottocento è ancora più intensa nelle colline e nelle pianure, al confine con la Basilicata del Nord, (Candela, Ascoli, Cerignola, Stornara, Stornarella], in un’area che si estende fino all’Ofanto. In questo territorio, dove esistono ancora agli inizi dell’Ottocento rilevanti estensioni a pascolo, le superfici a grano praticamente quintuplicano, passando da 8.482 versure nel 1802-3, a 19.292 nel 1822-23, a 21.279 nel 1841, a 23.612 nel 1860, a 42.141 nel 1879-83, quando già si è avviata la trasformazione viticola in una parte dell’area.
Il paesaggio agrario della Basilicata nella storiografia nazionale e regionale dell’ultimo ventennio
Per la Basilicata il processo coinvolge massicciamente tutta l’area bradanica, dalle colline di Irsina [l’antica Montepeloso] al Bradano, a sud. Tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento, sulle alture della Basilicata, come sulle montagne e sulle colline degli Abruzzi, del Molise, della Calabria «vastissime benché imprecisate superfici di pascoli, di boschi, di macchie furono dissodate e sottoposte a coltura […] centinaia e centinaia di ettari di boschi e foreste vennero abbattuti, spesso col fuoco (debbio), per creare nuovi pascoli alle mandrie e soprattutto per far posto alla coltivazione del grano, della segale, del granturco». La produzione di cereali metteva in crisi o almeno attenuava la potenza della pastorizia, sempre più ostacolata o almeno frenata dalla riduzione dei pascoli. Il processo andava a incidere in profondità sugli assetti territoriali: era l’avvio dell’incrinatura del rapporto montagna – pianura. Come ha scritto P. Bevilacqua le alture diboscate, e in primissimo luogo le terre di pendio, private della più o meno antica copertura forestale, erano sottoposte a intensi processi di erosione del suolo [con] smottamenti di terre e frane […] che investivano talora interi paesi posti a valle, colture, strade […]. Il diboscamento delle terre di altura produceva alterazioni di grande portata perché i torrenti, costretti a trascinare a valle massi e detriti
con le piene della stagione invernale straripavano e allargavano i loro alvei fino a formare, in prossimità della foce, «impaludamenti e ristagni piuttosto estesi». «Vastissime benché imprecisate» _ ha scritto P. Bevilacqua _ a proposito delle superfici di pascoli e boschi bruciati e dissodati. In effetti il taglio dei boschi non è quantificabile: secondo C. Cagli sa-
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rebbero stati distrutti, nel corso dell’Ottocento, più di 200.000 ha di bosco, secondo Spera 170.000 ha; Morano propende, sulla scorta di quanto calcolato dal geografo Tichy, per un «diboscamento di circa 34.000 ha fino al 1868 (202.527 ha boschivi) e di altri 27.000 a tutto il 1889 (175.390 ha)». I boschi [che nel catasto napoleonico assommavano a circa 215.000 ha] coprirebbero, all’atto dell’unificazione nazionale, circa 240.000 ha. C’è stata probabilmente una sottovalutazione nel catasto napoleonico, come diremo più avanti, e insieme una sopravvalutazione del taglio. Il taglio fu comunque un processo traumatico di rottura di un assetto, sul cui ripristino nacque un dibattito tecnico su come rimboschire le pendici montane, per controllare le acque e recuperare le valli e le pianure all’agricoltura, e furono avviati interventi di rimboschimento. Nel dibattito tecnico intervenne, per la Provincia di Basilicata, la Guardia Forestale Donato De Luca: nel proporre un progetto per consolidare i terreni in pendio e misure urgenti a difesa dei boschi, così ricostruiva, nel 1847, sulle pagine del Giornale Economico-Letterario della Basilicata, il quadro del dissesto: la desolazione della pastorizia per la mancanza di pascoli, scarsezza dei legni per costruzioni e per fuoco […], la rarità delle piogge, l’impoverimento delle sorgive, le continue frane e gli scoscendimenti di terra, gli spaventevoli burroni, il rapido gonfiamento dei torrenti, le alluvioni, gli allagamenti […] per le più vistose pianure e pe’ campi i più ubertosi, che per ultimo si sono trasformati in pestiferi stagni ed in infette paludi a danno dell’agricoltura e della salute pubblica.
Uno studio di A. Famiglietti e D. Pierangeli segnala che il più grande diboscamento avvenne dal 1840 al 1860, che «a farne le spese furono i boschi
18 vicini ai centri abitati, di facile accesso» e che la faggeta, più in alto e priva di strade di accesso, veniva interessata solo sporadicamente da abbattimenti di alberi, che prima venivano provati con l’incisione di finestre aperte sul tronco, come avveniva ad Abriola, dove «era fiorente l’artigianato di seggiole» che richiedeva il legname di fibra adatta alla lavorazione. Gli stessi studiosi hanno poi documentato che la legislazione forestale emanata dall’amministrazione borbonica nel 1826 ebbe in Basilicata scarsissima applicazione: «probabilmente fu interessata solo la faggeta di Bella, ben servita dalla statale per la Puglia: qui - scrivono Famiglietti e Pierangeli- […] nel 1955 furono censiti molte centinaia di faggi secolari, certamente riserve della legge borbonica». L’estensione del seminativo conviveva comunque con la conservazione di allevamento e pastorizia in altre parti della regione. Nelle basse colline digradanti dal Vulture e nelle pianure contigue al bacino dell’Ofanto, cioè nei terreni fino a pochi anni prima inclusi nelle locazioni pugliesi di Canosa e lucane di Salsola, Camarda e S. Giuliano, che oggi appartengono a Melfi, Lavello, Montemilone e Venosa, quanto accade tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta dell’Ottocento incrociava processi fortemente conflittuali e dinamici tra i censuari, il principe Caracciolo di Torella, i “massari” di Lavello, Venosa, Andria, Spinazzola, i proprietari borghesi e aristocratici come i Fortunato di Rionero, gli Aquilecchia di Spinazzola (che si spostano a Lavello nei primi anni dell’Ottocento), gli Spagnoletti, i Porro e i Ceci di Andria: tutti intensificavano l’allevamento brado e soprattutto stanziale, conservando terreni riservati al pascolo e costruendo strutture fisse per il ricovero degli animali, e contemporaneamente estendevano la pratica dei seminativi. A Gaudiano i Fortunato già alla fine del Settecento fittavano terre a pascolo dalla Dogana e dal Vescovo di Melfi; nel 1814 «la famiglia Fortunato di-
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viene censuaria del Tavoliere con l’acquisto di alcune terre in località Monte della Quercia» cui nel 1818 aggiunge altre 287 versure di terre a pascolo nella posta di Monte della Quercia. Venti anni dopo, nel 1838, nella stessa località i Fortunato acquistavano altri 380 tomoli di terreno a pascolo e di 50 tomoli di terreno seminativo. Nel 1839 i Fortunato da medi allevatori diventavano possessori di un vasto latifondo: il vescovo di Melfi cedeva ad Anselmo Fortunato in enfiteusi perpetua, con un canone enfiteutico annuo di 2.800 ducati, tutte le terre della Mensa Vescovile di Melfi dell’ex fondo di Gaudiano. Nel 1842 i Fortunato completavano le acquisizioni comprando dagli Spagnoletti circa 450 versure di terra a coltura e a pascolo “attrezzate” con una piccola costruzione rurale risalente al 1810-1820. Giuseppe Caracciolo di Torella, in contrada Piano dell’Alvano, possedeva una grande estensione di terreno, parte utilizzata per il pascolo e parte come terreno seminativo: nel catasto murattiano (1814) risultano di sua proprietà 5.065 tomoli di terreno a pascolo e 135 tomoli di terreno seminativo. Qualche anno dopo, nel 1820, lo stesso Caracciolo cedeva una parte dei terreni a Vito Porro di Andria, proprietà che poi è passata in eredità nel 1835 a Nicola Ceci di Andria per finire ai Ceci-Ginistrelli di Andria. Greggi e mandrie occuparono questi terreni almeno fino alla metà del secolo. La masseria fortificata Alvano, ricostruita e ristrutturata a metà Ottocento, conserva ruderi della “varrata” (antico recinto per bovini) risalenti al 1790, un pozzo a cielo aperto con vasche per abbeveratoio, una fontana con copertura della volta in muratura, canale di adduzione e vasca-abbeveratoio. Un’altra “masseria”, quella della Marchesa, di proprietà del principe Caracciolo di Torella fino al 1814, passa nelle mani di massari pugliesi per finire poi ai Ceci di Andria, dopo il 1850: anche questa masseria fortificata con torrette e feritoie, costruita dopo il 1850, oltre
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ai magazzini e alle stalle a piano terra, era affiancata dalla “varrata” per i bovini. Tutta l’area tra il tratturello Alvano-Valle Cupa e il tratturello Lampeggiano, coperta da boschi di pioppi e querce, era utilizzata per la pastorizia e per l’allevamento allo stato brado del bestiame. A. Sinisi ha così sintetizzato il ruolo svolto dai grandi allevatori che continuavano a utilizzare boschi e pascoli demaniali. [I grandi allevatori], in particolare nelle zone collinari e pianeggianti della Basilicata orientale, ridussero le grandi “industrie” armentizie, avviando proprio nella prime metà dell’Ottocento un processo di integrazione tra agricoltura e pastorizia con le aziende cerealicolo-pastorali organizzate a «masseria», spesso dotate di nuovi edifici rurali anche per la custodia del bestiame.
La costruzione di masserie fortificate nell’agro di Lavello [Aquilecchia, Alvano, La Marchesa, Posticchia Sabelli, Viggiani], avviata intorno al 1810 e completata prima del 1860, si inserisce in un processo di specializzazione dell’industria armentizia e dell’allevamento stabulare, e si integra con la formazione, in altalena, di terreni seminativi. Questo processo, in cui la pastorizia (ovini, caprini) e l’allevamento brado e stabulare di bovini (vacche, bufale) appaiono ancora prevalenti, accrediterebbe i dati più generali riportati da G. Del Re, come la ricostruzione di G. Masi nel suo Le origini della borghesia lucana (1953). A proposito di G. Masi. La tesi attribuitagli che «era stata la pressione contadina ad impedire lo sviluppo economico della proprietà fondiaria, ancorandola a situazioni primitive e feudali» e che i movimenti contadini con le loro pressioni sulla terra avrebbero frenato ogni innovazione razionalizzatrice, fu molto criticata alla sua uscita.
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P. Villani, riprendendo le tesi di R. Villari, secondo cui la pressione contadina, pur manifestandosi come tendenza al ritorno verso situazioni primitive e feudali, mantiene intorno alla grande proprietà un’incertezza ed un’atmosfera di sorda e pesante ostilità […] base indispensabile per la futura formulazione di ogni programma rivendicativo e di rinascita
le interpreta come risposta polemica alle tesi di G. Masi. In realtà lo storico lucano aveva probabilmente “proiettato” sull’intera Basilicata i processi di altalena pascolo-seminativo che aveva individuato nell’agro di Lavello, di cui erano protagonisti i ceti proprietari-allevatori che non erano pressati dai contadini e che non avevano alternative nell’utilizzo di terreni che, coperti dagli straripamenti dell’Ofanto, spesso si impaludavano. I processi di crescita-diminuzione del pascolo e del seminativo, in una altalena non ancora dettagliata per tutta la prima metà dell’Ottocento in tutta l’area inclusa nei territori comunali di Melfi, Lavello, Montemilone e Venosa, segnano i confini in cui inserire le trasformazioni del paesaggio agrario della Basilicata orientale, anche se non le esauriscono. Quanto però la netta prevalenza, nel tempo e nello spazio, di colture seminative o del pascolo, abbia segnato piuttosto monoliticamente e abbia bloccato ogni minima traccia di rottura di questa uniformità, lo mostra una breve annotazione di S. Zotta, che, occupandosi dei primi venti anni del Settecento nello “stato” di Melfi, così raccontava una diversificazione delle colture, attribuita in gran parte all’economia contadina: rivalsa della zappa e dell’economia contadina, come esigono le vigne, in visibile espansione nei
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feudi Doria, come esigono i legumi, che guadagnano spazi colturali, come esige un cereale quasi sconosciuto, il mais, che prende il posto nel paesaggio agrario e nell’alimentazione dei contadini del principato di Melfi.
Ora, separandoci dalle vicende altalenanti di agricoltura e allevamento nell’area del basso Ofanto e di quella bradanica (cioè nei paesi di Lavello, Venosa, Montemilone, Palazzo S. Gervasio, Genzano di Lucania), recuperiamo uno sguardo d’insieme su tutta la Basilicata, aggiungendo che nel corso di questa introduzione, ma soprattutto nella sua parte finale, affronteremo un’altra traccia d’indagine, la diversificazione delle colture portata avanti dalle unità produttive contadine, per gli anni studiati da Zotta e per tutte quelle congiunture che nel corso dei due secoli hanno movimentato un paesaggio agrario, di cui per troppi anni si è citata la sostanziale uniformità schiacciata sul latifondo cerealicolopastorale. Storia del paesaggio agrario e cartografia I lavori di storia dell’agricoltura pugliese hanno suggerito una sistemazione più aggiornata, anche in termini cartografici, della storia del paesaggio. Un gruppo di studiosi pugliesi (oltre al più volte citato S. Russo, V. Pepe e R. Rago) si è concentrato sulla storia del paesaggio agrario in Capitanata, nella “presunzione”, coltivata con molta cautela, che potesse essere letta come suggestivamente tipica della vicenda del paesaggio agrario del Mezzogiorno continentale. Il paesaggio della provincia di Capitanata di fine Ottocento così viene ricapitolato a grandi linee da S. Russo:
Il Gargano resta il regno dell’albero, del boscoridotto forse a poco più della metà di quello settecentesco, ma ancor fortemente connotante- delle macchie di olivastri, degli oliveti ingentiliti dagli agrumi, mentre i cereali hanno guadagnato le vallette interne, i pendii meno sassosi, le radure tra le fustaie. Il Subappennino si ritrova quasi completamente seminato, tranne pochi pascoli, qualche bosco e le cinture suburbane degli oliveti e dei vigneti. Nella pianura del Tavoliere, dove la pastorizia era stata la «regola» e la cerealicoltura l’ «eccezione», se è generale la riduzione del pascolo e clamorosa l’ascesa del seminativo, la trasformazione arboricola e viticola che generalizza il «ristretto» di vigne arborate ed orti, attribuito solo a pochi centri dalle carte e dagli atlanti di fine Settecento, è comunque fortemente selettiva.
S. Russo scrive prudentemente che «la vicenda del paesaggio agrario della Capitanata, che pure è provincia complessa, non può essere la vicenda del paesaggio agrario del Mezzogiorno continentale» ma poi aggiunge che «tuttavia i tempi della costruzione e del rimaneggiamento delle forme del paesaggio crediamo siano gli stessi dell’intero Mezzogiorno, di questo più vasto, aspro e rugoso pezzo d’Italia» e che perciò con l’analisi delle trasformazioni di un ambito territoriale articolato [ si poteva] comporre un repertorio di indizi significativi per una nuova storia del paesaggio agrario, a trent’anni di distanza dalla prima […]su cui la ricerca storica ha lavorato a partire dai primi anni Cinquanta.
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Emerge così nettamente il quadro di rottura con le ricerche sulle campagne meridionali fatte negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta del secolo scorso: le trasformazioni nel paesaggio tratteggiate da Russo segnalano tutti i processi che, nel corso dell’Ottocento, il protagonismo della piccola azienda e l’attività della stessa grande proprietà, che spezzettava le grandi tenute con i contratti di miglioria, avevano avviato. Ricerche sui paesaggi agrari meridionali e lucani erano state avviate fin dalla metà degli anni Cinquanta, sulla scorta degli studi di L. Dal Pane e della scoperta dei catasti onciari carolini, prima utilizzati molto selettivamente [cfr. gli studi di G. Masi sulle origini della borghesia lucana e sul catasto onciario di Lavello]; poi sempre più intensivamente nelle ricerche di R. Villari, Mezzogiorno e contadini nell’età moderna [1961], P. Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione [1962] e F. Assante, Calopezzati. Proprietà fondiaria e classi rurali in un comune della Calabria (1740-1886), [1964]. I catasti onciari sono stati studiati sempre più capillarmente nei primi anni Ottanta, in seminari e convegni a cura del «Centro studi Antonio Genovesi per la storia economico e sociale», le cui relazioni sono state pubblicate in due volumi: 1. Aspetti e problemi della catastazione borbonica: atti del seminario di studi 1979-1983; 2. Territorio e società: Salerno, 10-12 aprile 1984 raccolti in Il Mezzogiorno settecentesco attraverso i catasti onciari (1986), a cura di M. Mafrici. La storiografia sul paesaggio agrario degli anni Sessanta e Settanta aveva mostrato un altro limite, non misurandosi con il tema della cartografia storica, del resto non molto praticata in Italia tanto che, per il Settecento e per i secoli precedenti, non c’erano state molte elaborazioni cartografiche né di storici né di geografi: fino agli anni Novanta le poche disponibili
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riguardavano soprattutto l’Italia centrale e settentrionale e poco o nulla invece c’era sul Mezzogiorno. L’assenza di elaborazioni cartografiche (oggi molto facilitate dalle tecnologie informatiche) aveva più di una spiegazione: una era legata all’uso del saggio come strumento di comunicazione più usato e riconosciuto dalla comunità degli storici. L’altra, più interna alla metodologia della ricerca e all’uso delle fonti, è spiegabile appunto con i caratteri distintivi degli “apprezzi” e dei catasti prodotti in età moderna. Come ha scritto S. Russo se gli apprezzi o i catasti preonciari sono spesso elaborati su base locale e non consentono elaborazioni per aree più vaste, gli apprezzi allegati al catasto conciario, elaborati normalmente nel periodo compreso tra il 1741 e il 1753, non sono stati utilizzati finora per ricostruire gli aspetti del paesaggio agrario e delle utilizzazioni del suolo non solo per i limiti della fonte - le perduranti esenzioni per alcune categorie di beni, le frequenti valutazioni «a corpo» delle masserie, non per singola coltura – ma anche per la totale assenza di quadri di sintesi che potrebbero essere ricostruiti solo con una faticosa elaborazione dei dati delle migliaia di proprietà che a volte compongono un territorio comunale.
Ed è proprio sul terreno della comunicazione storica, con la scoperta delle potenzialità della cartografia storica in sostituzione o affiancata al saggio, che gli storici dei paesaggi agrari di alcune università pugliesi innovano e rompono con il passato. Nell’arco degli ultimi dieci anni, questo gruppo di studiosi, utilizzando il catasto provvisorio del 1815 e quello del 1929, ha prodotto lavori cartografici sul paesaggio agrario e gli assetti colturali tra Ottocento e Novecento per la Puglia [S. Russo, Paesaggio agrario e assetti colturali in Puglia tra Ottocento
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e Novecento (con il contributo di V. Pepe), Edipuglia, Bari, 2001], per il Molise [S. Russo, Paesaggio agrario e assetti colturali in Molise tra Otto e Novecento, Edipuglia, Bari 2004] e per la Basilicata [V. Pepe, Paesaggio agrario e assetti colturali in Basilicata tra Otto e Novecento, Edipuglia, Bari 2005]. All’interno di una pratica storiografica molto impegnata nel produrre atlanti tematici S. Russo ha anche pubblicato Per un atlante dell’agricoltura italiana. Il seminativo nel primo Ottocento, Edipuglia, Bari, 2006. Le cartografie, progettate per documentare al meglio la ricostruzione storica e rendere comprensibile al massimo la questione storiografica affrontata e risolta dalla ricerca, sono usate per tematizzare « il mutamento nel lungo Ottocento». Una procedura metodologica, strutturata in più passaggi e quindi complessa, ha reso « paragonabili le classificazioni adottate nelle due differenti rilevazioni» (il catasto provvisorio o murattiano e il catasto agrario del 1929) i cui dati si sono utilizzati. Sono state mutuate le macro-categorie adottate… dal catasto agrario del 1929: seminativo semplice, seminativo con piante legnose, colture legnose specializzate, prati, prati- pascoli e pascoli permanenti [ nel Mezzogiorno si tratta quasi sempre di pascoli permanenti], bosco.
L’utilizzazione delle macro-categorie adottate nel 1929 ha comportato- di questo i redattori delle carte sono ben coscienti- il rischio di “impoverire” e di “forzare” la fonte precedente. È stata cancellata, adattata forzosamente, tutta una terminologia descrittiva usata nei catasti comunali provvisori per documentare la varietà delle associazioni colturali. Russo e Pepe sostengono la tesi che la grande varietà dei termini usati includeva una fisiologica ambi-
guità, quindi una oggettiva impossibilità di utilizzo produttivo. C’è stata forse troppa rassegnazione: al contrario, ci pare che almeno per una piccola regione come la Basilicata la varietà dei termini agronomici usati potesse essere restituita cartograficamente anche a costo di rendere più approssimativa la comparazione tra il 1815 e il 1929. Ci portano a questa recriminazione, che non vuole intaccare per niente i grandissimi meriti di questi studiosi, almeno due suggestioni. La prima ci è venuta dalla consultazione di alcune carte tematiche, prodotte con una corposa graduazione coloristica, riportate dello studioso portoghese J. Ramos de Carvalho all’interno del volume Storia e misura. Indicatori sociali ed economici nel Mezzogiorno d’Italia[secoli XVIII-XX], più volte utilizzato nel corso di questo lavoro. La seconda, di tutt’altro tipo, ci è venuta dalle ricerche sulle biodiversità vegetali in corso su piccole porzioni del territorio regionale: la scoperta di varianti locali genotipicamente individuate e caratterizzate ha permesso e permette in progress di ancorare specie di cereali e di frutti a territori comunali ben delimitati e di datarne il loro radicamento. Indagini di questo tipo possono dilatare incredibilmente il panorama agronomico lucano, riarticolando il rapporto tra colture e qualità e giacitura dei terreni, altitudini, andamenti climatici, mostrando tutta la competenza agronomica di cui erano capaci i contadini lucani piccoli proprietari nel Settecento e nell’Ottocento. Ci pare perciò che la “perdita” di queste varietà abbia comportato- secondo noi- il rischio, ideologicamente non avvertito, ma storiograficamente assunto problematicamente e risolto scegliendo di facilitare la comparazione, che si finisse per impoverire la varietà delle pratiche colturali, delle coltivazioni, delle pratiche di gestione e di sistemazione del terreno, riportando questa grande varietà ad una semplificatoria riduzione a pochi grandi categorie,
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non capaci di “sopportare” il peso della sovrapposizione degli utilizzi. O della “razionale” distribuzione delle attività su più terreni [da quelli più lontani dal paese a quelli più vicini], che appare una delle cifre distintive dell’agricoltura e della pastorizia in Basilicata non solo nel 1700 e nel 1800 ma anche in una parte del 1900. Paesaggio agrario e cartografia in Basilicata Anche in Basilicata molto è stato prodotto negli ultimi quindici- venti anni, in tema di ricerche e di cartografia sul paesaggio agrario lucano, prima del lavoro di Vincenzo Pepe, su cui ci soffermeremo più avanti. Il primo lavoro pionieristico di cartografia storica di M. Morano, Per una storia del paesaggio agrario nella Basilicata dell’Ottocento, pubblicato nel volume di studi raccolto in onore di Antonio Cestaro, curato da F. Volpe e stampato dall’editore Osanna di Venosa, segnalava il vuoto, in Basilicata, nel campo degli studi sul paesaggio agrario a partire dalla utilizzazione come fonte del catasto provvisorio o napoleonico e avviandosi a riempire quel vuoto, premetteva, con qualche eccesso di umiltà, di non pretendere di «colmare la lacuna» ma, più semplicemente, di raccogliere materiali utili ad impedire «assunzioni nel migliore dei casi sommarie, e comunque avulse da un preciso quadro comparativo». Appariva prevalente e forte l’aspirazione ad inserire la storia del paesaggio agrario lucano all’interno di un quadro comparativo con le altre regioni meridionali: il lavoro si inseriva in una stagione storiografica segnata dall’egemonia del “quantitativo” e del “seriale” e, più specificamente, dal dibattito critico sulle fonti più adatte ad una storia quantitativa dell’agricoltura. In questo senso Morano coglieva che
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il carattere descrittivo del catasto provvisorio esclude[va] la possibilità di una esatta perimetrazione delle variabili che concorrono alla definizione dell’assetto paesaggistico meridionale, le cui componenti si prestano ad una ricostruzione agevole sul piano figurativo quanto problematica su quello quantitativo e ancor più seriale, il solo funzionale ad una ponderazione così delle differenze zonali come delle trasformazioni colturali.
Il lavoro di Morano, schiacciandosi sul quantitativo e accorpando in istogrammi, uno per paese, le classificazioni dei terreni per classe [ripartizione ricavata dalle Matrici di Ruolo] e per colture [ripartizione ricavata per aggregazione degli Stati di Sezione] fa emergere con nettezza il quadro comparativo. In rapporto all’approccio seguito in queste note, segnaliamo comunque la sottoregistrazione delle aree urbane, che non incide quantitativamente sulle grandi proporzioni tra paesaggi, ma rischia di tradursi in una visione parzialmente alterata del paesaggio agrario vicino o interno ai centri abitati, soprattutto quelli di una certa consistenza demografica. La non registrazione, lo scarto dei «piccoli predi», delle aree urbane e di quelle in prossimità degli insediamenti urbani finisce per produrre una distorsione: l’eliminazione delle coltivazioni nei “frustoli” di terreno, con una significativa cancellazione delle colture di orti, giardini, vigneti, oliveti, quelle appunto praticate su piccole quantità di terreno con una intensificazione e una qualificazione del lavoro contadino. Veniamo così al più recente lavoro che V. Pepe, componente del gruppo di lavoro sopra citato, ha pubblicato con il titolo Paesaggio agrario e assetti colturali in Basilicata tra Otto e Novecento, Edipuglia, Bari 2005. È utile riprendere le avvertenze con cui Pepe puntualmente spiega il processo che ha portato alla
24 redazione di carte tematiche per paesaggi e per anno (1815 e 1929) e rende conto dei criteri utilizzati. Le forme di utilizzazione del suolo (o “qualità di coltura”) sono cinque (seminativo semplice, seminativo con piante legnose, colture legnose specializzate, pascolo e bosco). Nella individuazione sono stati seguiti i criteri di classificazione adottati nel Catasto agrario del 1929, secondo cui: - per superficie agraria e forestale si intendevano tutti i terreni messi a coltura, o quelli su cui cresceva una produzione spontanea utilizzabile; - per terreni seminativi semplici, quelli aratori a coltivazioni erbacee (inclusi gli orti) con una porzione massima di piante legnose non maggiore del 5%; - per terreni seminativi con piante legnose tutti quelli a coltura promiscua di piante erbacee e arbustive, agrarie o forestali con una porzione massima di piante legnose non maggiore del 50%; - per terreni a colture legnose specializzate tutti quelli coltivati a piante legnose agrarie (arboree o arbustive), inclusi canneti e giardini, coperti da vegetazione in una misura oscillante tra più del 50% e il totale della superficie; - per prati, prati-pascoli, prati permanenti (pascolo) i terreni non lavorati per almeno dieci anni e utilizzati prevalentemente per la produzione di foraggio, oltre i terreni “boscati e cespugliati”; - per boschi i terreni ad esclusiva o prevalente produzione legnosa o di “cortecce, resine, succhi, ghiande, foglie e frasche per mangime o per concia”, inclusi i “parchi”, con una copertura vegetale del più del 50% della superficie, e i castagneti da frutto. Riprendiamo un’osservazione già anticipata: la riduzione della varietà terminologica riportata nel catasto provvisorio del 1815 a quella usata per il ca-
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tasto del 1929 ha comportato una notevole perdita lessicale. Sappiamo che non è facile liberare da una strutturale ambiguità i termini usati nel linguaggio dell’agricoltura sette-ottocentesca per indicare le associazioni colturali, le cui varietà divergevano notevolmente da paese a paese, anche molto vicini: Pepe segnala, per esempio, che in due comuni limitrofi le tipologie colturali andavano dalle cinque di Acerenza alle ventidue di Oppido. La grande quantità di associazioni colturali fa sospettare una varietà di competenze agronomiche diverse da paese a paese che può essere letta in due modi: come una dipendenza dal patrimonio di sapere tecnico tradizionale accumulato in contesti geo-antropologicamente separati (associati all’immagine stereotipata dei paesi arroccati e chiusi nel loro isolamento) o come una differenza introdotta da una rottura attiva del quadro di sapere accumulato tradizionalmente per l’apporto di componenti esterne alla comunità, di una comunità aperta alle relazioni e agli innesti di competenze agronomiche. Oggi questi aspetti possono essere indagati per altre vie e con l’apporto di altri saperi. Si può risalire alla varietà delle colture locali, ricorrendo all’apporto di altri settori scientifici, come la ricerca dei genotipi delle specie botaniche. Progetti di ricerca per censire e catalogare biodiversità vegetali in alcune aree [quella del Pollino e quella della montagna materana] sono in corso in Basilicata. L’Università della Basilicata ha avviato un Centro per la raccolta, moltiplicazione e valorizzazione di essenze forestali autoctone per la conservazione delle biodiversità nei comuni del Parco Nazionale del Pollino: nel primo anno del progetto, una ricognizione delle specie da frutto ha portato a individuare 140 siti in cui sono state censite e mappate circa 40 varietà di frutticoli con 600 biotipi da tutelare. La ricerca sulle biodiversità del Pollino ha prodotto una così numerosa
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e varia campionatura di prodotti dell’orticoltura e della frutticoltura, maturata geneticamente nel corso di qualche secolo, da far scartare ogni ipotesi di riduzione del patrimonio orticolo e arboreo a poche specialità, frutto di una attività tutta giocata sulla passività e sulla ripetitività. La scoperta in un’area limitata della regione di una tale varietà suggerisce, quanto meno come ipotesi di ricerca, l’esistenza di una competenza molto estesa nei contadini frutticoltori, nel selezionare e innestare, nei loro orti, nei loro giardini, nelle loro vigne essenze vegetali “tracciabili” come varietà locali. Ma non solo nei frutticoltori: anche sulla storia del seminativo e della cerealicoltura ci possono essere ancora scoperte da fare o scavi da approfondire che porterebbero a riconsiderare la questione delle scelte colturali in termini di passività o di ricerca di adattabilità delle sementi alla qualità dei terreni e ai fattori climatici. Riportiamo qualche risultato delle ricerche in corso sui cereali. Citiamo l’antico grano Marzulla di Basilicata, chiamato anche Saragolletta o Triminia, studiato da Nicola «Columella» Onorati, il noto agronomo, secondo cui «i contadini distinguono diversi specie di grani chiamandoli alcuni duri e altri bianchi. I grani duri sono anche detti Saragolle […]. Il grano Marzuolo o Treminia è sempre una saragolla con acini durissimi». Il grano Marzulla era una varietà locale di frumento duro, molto coltivata in Basilicata fino alla metà del ‘900, in particolare nell’alto lagonegrese, dove copriva tra il 15 e il 40% dei seminativi. Oppure il frumento Risciola che copriva l’11% del totale dei frumenti teneri nella provincia di Potenza, con punte del 25% a Pignola e del 15% a Marsiconuovo (in paesi con altitudini di montagna) [nel 1926]. La coltivazione della Risciola è molto antica: nel 1835 L. Granata, professore di fisica chimica e agronomia, nel suo Economia rustica per il Regno di Napoli dice della Risciola o Rossola «di grano
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piccolo, biondo rossiccio, di farina bionda eccellente per pane», che è adatta a «terreni leggeri, montuosi e freddi». La semina della Risciola, che sopportava bene le basse temperature e le altitudini di montagna, poteva avvenire in terreni «leggeri ben drenati e concimati organicamente […] nella prima quindicina di ottobre», dopo le lavorazioni di preparazione del terreno fatte in estate. La Risciola è una varietà che si adattava ai terreni di montagna di paesi come Pignola e Marsiconuovo. La contaminazione con le ricerche geniche sulle biodiversità può aggiornare significativamente la storia dell’agricoltura lucana e quindi indirettamente anche quella del paesaggio agrario, in una misura e nei tempi che la storia potrà definire meglio. L’ambiguità più forte da sciogliere, nel passaggio da una fonte all’altra, è quella che coinvolge l’interpretazione puntuale delle grandi categorie di classificazione delle colture. V. Pepe avverte i lettori sulle difficoltà incontrate nel concreto e corretto uso di termini lessicali che coprono più estesamente aspetti del paesaggio agrario e forestale, di termini come “bosco”, “pascolo”, “incolto”. A questo proposito ci permettiamo di fare altre osservazioni per tentare di inserire aggiustamenti possibili e utili a sciogliere alcune incongruenze e modificare alcuni esiti piuttosto paradossali messi in luce dai dati catastali, per comune e per aree colturali, utilizzati nella cartografia. Un ostacolo forte ad una quantificazione dei paesaggi e ad una traduzione cartografica è rappresentato dalla difficoltà a fissare l’esatto confine tra pascolo e bosco, specie in presenza del pascolo boscato e cespugliato, o tra pascolo e incolto produttivo. Riportiamo prima la soluzione adottata da Pepe per sciogliere tutte le ambiguità che sono nate nel corso del lavoro, riservandoci di suggerire qualche variante nell’approccio.
26 Classificare quel che è “bosco” contrapposto a “pascolo” è particolarmente complicato: infatti - come scrive Pepe - «distinguere il bosco dal pascolo, soprattutto in presenza di espressioni ambigue come boscoso, seu macchioso oppure boscoso e cespuglioso» non è affare da trattare con l’accetta, o almeno così parrebbe a leggere le carte: a Brienza veniva classificato come «boscoso e cespuglioso» un terreno utilizzato «all’uso del pascolo ed a quello del legnare», su cui «le piante che coprono tali terreni sono cerrastri, e faggi, ma tenui, che poco si elevano dal suolo. Sono insomma una macchia» da cui si può ricavare il pascolo e la legna. La complicazione che nasce «dall’incerto confine tra pascolo e bosco» può essere però avviata a soluzione se si adotta un modello multifunzionale di relazione. Può essere risolto così il paradosso che non pochi boschi del catasto novecentesco, infatti, figuravano censiti come pascolo nel primo Ottocento. La soluzione, che solo una interpretazione qualitativa può suggerire, sta nel comprendere che - come è stato scritto per la Toscana- « l’incertezza terminologica» spesso è «relativa ad una realtà diversificata e polifunzionale, di conseguenza il più delle volte conflittuale per ciò che riguarda uso e definizione delle risorse naturali». Detto più esplicitamente, si può ragionare al plurale: si recupera così la multifunzionalità del bosco, spesso invece «appiattita su una monocoltura imprecisa» e riportata anche botanicamente a pascolo, secondo la funzione effettivamente svolta. Questa suggestione ci viene dalla lettura di alcuni lavori di D. Moreno e M. Armiero, che sono stati tra i primi in Italia a rifiutare un modello dicotomico sulla scorta di quanto aveva scritto lo storico inglese Rackham a proposito dell’uso del bosco nelle società mediterranee. La vicenda sui tempi lunghi della relazione bosco- pascolo e il sospetto dell’ «inefficacia del modello dicotomico colto/incolto, selva/
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pascolo» ci hanno spinto ad esplorare le potenzialità di una analisi dei processi reali di uso delle risorse. Come ha scritto M. Armiero, non ci sono così più solo «boschi ridotti e danneggiati a favore del pascolo» ma anche boschi in cui, per la nascita di contesti antropo-geografici virtuosi, «si sono storicamente integrati processi zootecnici e selvicolturali». Che Armiero citi boschi di alta montagna non attenua l’ipotesi che si possa riprendere la stessa suggestione per la Basilicata, o almeno per alcune parti della regione. Tanto più che, come ha scritto Maurizio Gangemi, «resta ancora inesplorata la storia delle pratiche, tecniche e saperi che si sono costruiti intorno alle diverse utilizzazioni delle risorse boschive» in Basilicata, come in altre regioni meridionali come la Calabria. In realtà a essere poco studiata è forse tutta l’economia montana in una regione in cui il paesaggio agrario di montagna occupa circa i 2/10 del totale. Ritorniamo alle pratiche e alle tecniche per la conservazione del bosco. Molta letteratura meridionale della prima metà dell’Ottocento segnalava che il pascolo nel bosco poteva mettere a rischio «la vegetazione arborea con la distruzione dei germogli più teneri più bassi» e compromettere cortecce e radici. A questa letteratura, che molto spesso integrava le lamentele e le richieste di tagliare boschi ormai compromessi per dissodare terreni e renderli seminativi, si contrapponevano le pratiche e i «saperi empirici di quanti sostenevano la compatibilità del pascolo con il bosco». A. Sinisi, che si è occupata della gestione dell’azienda Doria tra la fine Settecento e la prima metà dell’Ottocento, ha scritto che le tecniche di utilizzazione praticate nei boschi dello “stato” di Melfi erano le stesse documentate per la foresta di Montedimezzo, in Molise, studiata da P. Di Martino. Nei “pascoli boscosi” di Leonessa e Lagopesole
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particolari pratiche venivano messe in atto per «ottenere abbondanti erbaggi e altri prodotti necessari al nutrimento degli animali (ghiande, “frasca”) e, nello stesso tempo, per tutelare i diversi usi del bosco». Gli utilizzatori del bosco badavano a controllare la cenosi del bosco, la densità degli alberi in funzione della produzione di foraggi, i rapporti tra lo stato di arbusti e cespugli spinosi e le potenzialità di accesso degli animali per il pascolo nel bosco, il processo di ricrescita naturale del soprassuolo di cerro, la conservazione delle querce ad alto fusto in funzione della produzione di ghiande, e a utilizzare il frascame ricavato da potature e capitozze, i cascami arborei ed arbustivi durante il pascolo, il materiale legnoso per recinzioni, capanne e l’accensione di fuochi nell’esercizio dell’attività zootecnica transumante. Il taglio di cespugli spinosi e sterpeti che formavano la bassa macchia e ostacolavano l’accesso al pascolo era una delle operazioni tecnicamente più difficili: un taglio fatto male comportava che i cespugli spinosi ricrescessero più folti. L’autorizzazione agli affittuari e ai residenti a fare i tagli di questo tipo, da cui si potevano ricavare materiali per le fornaci di calce e per altri usi agro-pastorali e domestici, veniva concessa molto raramente. La Sinisi riporta che «nel 1794, per il “taglio delle spine” nelle difese di Leonessa furono utilizzate speciali zappe e fu inviato dallo stesso principe un “pratico Abruzzese”, ossia un lavoratore esperto in queste operazioni». Con molta cautela si procedeva poi alla concessione di alcuni usi delle risorse boschive, come il legname per costruire ovili, stando bene attenti a impedire il taglio degli “alberi fruttiferi”: una compromissione dello stato di questi alberi rischiava di ridurre la produzione di ghiande. Anche l’uso del frascame era concesso ma proprio il taglio dei rami e del fogliame era in assoluto la pratica più rischiosa, che spesso faceva nascere controversie: come riporta la Sinisi,
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nel 1777 «col pretesto della frasca [erano] stati recisi grossi rami d’alberi sino alla cima, e di alcuni [era] stata tagliata rotondamente anche la cima stessa, per provvedersi in quantità di legna da fuoco». L’utilizzazione del bosco fu soggetta a sempre maggiori restrizioni e questo suscitava proteste e controversie sempre più estese. Il pascolo nel bosco incontrava sempre maggiori ostacoli. «La lettura conflittuale delle relazioni tra attività silvane e pastorali incise, naturalmente, sulla normativa forestale del 1826»: chi introduceva animali nei fondi protetti rischiava ammende e perfino il carcere. Proprio la durezza della normativa e la diffusione della letteratura tecnica a tutela del bosco ci suggerisce che c’era una « estesa relazione tra boschi e pascoli». L’assegnazione di «confini mentali, legali, talvolta reali» agli «spazi agro-silvo-pastorali» era così - come ha scritto M. Armiero - un’operazione più «concettuale» che legata alla concreta pratica delle attività pastorali. A supporto di questo approccio ci limitiamo a presentare qualche campionatura documentaria, poiché i limiti di questo lavoro e delle nostre competenze non ci permettono di andare oltre. Lo facciamo con la “difesa della Forestella”, in agro di Venosa, vicina ai confini comunali con Lavello, «uno dei grandi corpi fondiari della parte settentrionale del territorio di Venosa, delimitata a sud dal tratturo regio», appartenente al Baliaggio della SS.ma Trinità. Di questa “difesa” abbiamo consultato due disegni [degli agrimensori Monaco e Pinto] e una relazione tecnica: i due disegni risalgono uno al 1743, l’altro al 1774; la relazione è di molti anni dopo. Può apparire una forzatura impropria e poco rappresentativa e probabilmente lo è: noi diciamo però che accostando i disegni alla relazione se ne ricava un grosso filo di continuità botanica e paesaggistica che appunto può essere preso a campione
Fig. 1
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29 Fig. 1 [Mappa dei territori del Baliaggio della SS.ma Trinità di Venosa] 1743. Angelo Antonio Monaco, regio agrimensore; Nicolò delli Frusci, notaio; mm. 450x295; pp. 110, mappe n. 92; ASPZ, Raccolta cartografica di agrimensori venosini (XVIII - XIX secolo), vol. 1* Fig. 2 Cabreus confectus sumptibus/Excellentissimi Domini Francisci Josephi Mariae Cicinelli / baiuli baiulatus /Sanctissimae Trinitatis / Civitatis Venusy 1774; Giuseppe Pinto, regio agrimensore; Nicola Savino, notaio; mm. 505x390, cc. 185, mappe n. 97; ASPZ, Corporazioni religiose, vol. 200* *Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività culturali. Archivio di Stato di Potenza, Aut. n.296 del 29 gennaio 2010.
Fig. 2
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di quel che poteva essere, non solo a Venosa, ma in molti altri paesi lucani un “fondo boscoso pascolatorio”, cioè un bosco riservato a molti usi, compatibili tra loro. La Forestella è stata rappresentata nel cabreo di Angelo Antonio Monaco del 1743: l’agrimensore venosino riproduce la trama molto fitta di un territorio quasi interamente boscoso riservato al pascolo di bovini e pecore, in cui, visibile nella parte alta del disegno, un filare di alberi segna, a sud, il confine con il Tratturo regio. Nel disegno di Giuseppe Pinto del 1774 la trama appare meno fitta. Dall’attenta lettura della perizia tecnica ricaviamo che il fondo boscoso pascolatorio denominato Forestella […] trovasi situato all’estremità nord- est dell’agro venosino ed alla distanza di circa tredici chilometri dall’abitato. La giacitura del suolo è in gran parte piana o lievemente inclinata con dolci sinuosità, pronunciandosi avvallata più risentitamente verso lembi sud, sud-ovest e nord-est. La qualità dello strato vegetale deve dirsi ferace, a quanto si rileva sì dal rigoglio della vegetazione come anche da un’analisi chimica […] la quale lo dimostrò composto di cinquanta parti di argilla, di trenta di carbonato calcare e di venti di silice; proporzioni queste che distinguono il terriccio [humus] volgarmente detto terreno franco.
L’analisi chimica del terreno parrebbe suggerire una trasformazione del bosco e un utilizzo più agricolo del terreno: in realtà la sopravvivenza del bosco non viene messa in discussione. Non anticipiamo gli anni in cui è stata stesa questa perizia. Ritorniamo alla lettura della relazione.
La intera superficie planimetrica di questa tenuta si calcola di circa tomoli 1050 pari a ettari 432,1170 e viene divisa e distinta in undici sezioni o contrade […] Carpinello, Piano Cavalliero, Piano de’ Daini, Piano Risceglie, Piano Cavallo, Lago Tre confini, Casalecchi, Valle Abruzzese, Parcone, Parchetiello e Vallone. Ad eccezione di alcuni spazi chiamati largali, in cui non trovansi che rarissime piante e qualche macchia, tutta la superficie dello stabile è coperta da bosco di alto, medio e basso fusto, da frutici e da macchie spinose. Le piante […] che in variato predominio incontransi distribuite nelle diverse contrade, sono la quercia e il cerro […]. Vengono in seconda linea il carpene e l’elix di cui la prima predomina nella contrada valle Abruzzese e l’altra trovasi raramente dispersa in tutte le contrade.
La qualità di “fondo boscoso pascolatorio” di buona qualità è appena attenuata dalla vegetazione che completa il quadro botanico: Voglionsi contare in terzo luogo gli alievi, vale a dire i viscigli e i virgulti d’ogni specie […]. In ultimo sono le macchie di suffrutici e di spina Vocaca disseminati pressoché in tutta la superficie così da riescire d’inceppamento non lieve allo sviluppo delle altre piante ed all’erbaggio il quale per l’ottima sua qualità è molto ricercato e forma uno dei più cospicui redditi annui di questo predio.
La vegetazione spontanea di “macchie di suffrutici e di spina” frena lo sviluppo delle altre piante e soprattutto dell’ “erbaggio”, che è il fattore di maggiore attrazione del bosco. Il bosco Forestella poteva essere reso ancora più adatto al pascolo:
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il bosco Forestella è suscettibile a somministrare ad epoca non lontana maggiori prodotti degli attuali. Difatti volendosi barbicare la spina Vocaca, che, come sopra si disse, ingombra quasi l’intera tenuta in guisa da impedire in moltissimi luoghi l’accesso non solo agli animali vaccini ma ai pecorini stessi, si procaccerebbe con ciò oltrecché un notevole aumento al prezzo di affitto del pascolo, anche un sommo vantaggio alla vegetazione delle giovani piante.
Un’altra trasformazione utile a incrementare la produttività del bosco poteva venire se giusta l’avviso dei pratici e dei periti tecnici forestali […] nella parte piana del bosco si volesse introdurre la coltivazione del pino e del larice invece dell’attuale della quercia e del cerro le quali richiedono un lunghissimo periodo di tempo per giungere a perfetta maturazione senza poter, in causa della giacitura, assumere se non piccole dimensioni, entro un secolo si avrebbe per risultato certo il raddoppiamento del prodotto boscoso, giacché le piante da surrogarsi oltre di occupare uno spazio minore di suolo e di maturare in un periodo minore di anni, supererebbero di gran lunga le dimensioni ed il valore unitario sopraccennate che al presente vi allignano.
Questa perizia, che è del 1871, mostra come un “fondo boscoso” potesse essere ancora utilizzato prevalentemente come “pascolo”. La difesa della Forestella viene censita regolarmente ad intervalli sufficientemente lunghi ad individuare la permanenza di una stessa copertura vegetale: nel 1574 viene definita “arborata di cerri et perazze… herbata li lingua pecorina ed altra sorta d’erba”; nel 1653, “con alberi cerze et cerri”; nel
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1774 «arborata di querce, cerri et altri arbori selvatici». Della perizia forestale del 1871 abbiamo riportato una descrizione piuttosto ampia. Nel 1903 tutta l’area è classificata come “bosco d’alto fusto”. Oggi però tutta la contrada che si estende ai margini di Boreano, tra Venosa e Lavello, è «catastalmente classificata come seminativo, ad eccezione di una piccola parte classificata come pascolo cespugliato», benché fino ad una trentina di anni fa il bosco fosse ancora abbastanza intatto. C’è anche un altro aspetto che, al di là della confusione tra “bosco” e “pascolo”, rende spesso incerta e approssimativa la quantificazione della estensione del bosco nell’Ottocento e quindi altrettanto incerta ogni comparazione diacronica. Non conosciamo i criteri di definizione usati nelle statistiche forestali ottocentesche che utilizziamo. Sappiamo solo che, a partire dalla legge forestale del 1819, vengono incluse tra i boschi anche le «terre salde con alberi selvaggi»: questa estensione comportò così che nella statistica forestale del 1855 fossero censitenell’area della Capitanata studiata da Russo- anche molte «mezzane» e alcune «poste» arborate. Così, in prima approssimazione, parrebbe legittimo ipotizzare una sopravvalutazione del bosco. C’è da credere però che, contrariamente a quanto l’uso di criteri più allargati potrebbe far sospettare, la quantità di superficie coperta da boschi, censita nel catasto provvisorio, sia inferiore a quella reale, perché molti boschi erano stati accatastati come pascolo. Per la Puglia Russo riporta alcuni dati: «i boschi comunali di Sannicandro Garganico […] non accatastati come bosco nel decennio francese, sono misurati in 10.720 moggia nel 1815 e in poco più di 9 mila qualche anno dopo». Nella stessa area garganica il «grande bosco della Badia di S. Marco in Lamis [720 versure nel 1858] non è accatastato come tale nel decennio francese»: viene confuso nella categoria del pascolo
32 [anche se descritto come bosco nelle operazioni di “verificazione”]. Per la Basilicata, in particolare per l’area del Vulture, una sottostima del bosco appare più che probabile in alcuni paesi alle pendici del vulcano [come Rapolla, Barile e Melfi] e a Venosa. A Rapolla il bosco coprirebbe appena il 2,1 % con un pascolo al 24,6%; a Barile il bosco sarebbe incredibilmente ridotto ad appena lo 0,7% con un pascolo al 4,7% e le colture legnose specializzate estese però per il 43,3%. Complessivamente più credibili appaiono i dati per Melfi [con Rionero], con un bosco al 23,4 %, un pascolo al 17,6%; ad essere sottostimate sono state le colture legnose specializzate con un modesto 6,2%. Per Venosa un 14,6% di bosco ed un 15,2% di pascolo ed il seminativo semplice esteso al 63,3% pure suscita perplessità. Passiamo ora ad analizzare in dettaglio i paesaggi cartografati da Pepe per cogliere appunto il «mutamento nel lungo Ottocento». Nel riprendere puntualmente il testo di Pepe, aggiungiamo anche nostre osservazioni utili a riprendere i fili di queste note, uno dei quali è l’incidenza della viticoltura nel paesaggio agrario lucano. I paesaggi: il seminativo All’inizio dell’Ottocento il seminativo semplice copre tra il 40 e il 60% dei terreni coltivati: la riduzione dei terreni a seminativo è molto massiccia a Matera e Potenza, ed in altri comuni più piccoli. Il seminativo si mantiene al di sotto di un terzo, con minimi che oscillano tra il 12 % di Montemilone e il 31,7 % di Tramutola, in una ventina di paesi: è quanto avviene nell’area nord-orientale vincolata al regime pastorale del Tavoliere [Montemilone, Genzano e Banzi]; in paesi di montagna come Avigliano,
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Ripacandida e Muro Lucano; sulla montagna di Maratea; lungo il medio corso del Sinni, a Chiaromonte e Teana, e dell’Agri, a Missanello; nell’area del Pollino [Noepoli, Cersosimo, Viggianello e Terranova di Pollino]; nel Materano, a Oliveto Lucano [con Garaguso e Calciano], a Montescaglioso e Bernalda. A Montemilone il seminativo copre il 12% dei terreni, a Genzano e Banzi il 30%. Per Genzano c’è da notare che nel suo territorio è inserita tutta l’area di Monteserico, già utilizzata dalla Dogana di Foggia come terreno riservato al pascolo dei locati e in parte lasciata alle semine. Dopo la soppressione della Dogana e l’istituzione del Tavoliere delle Puglie i censuari e i proprietari di Monteserico [i Dell’AgliCerti, i Dell’Agli, gli Spada, i Mennuni, gli Addone, i Ricotti, i d’Errico, i Veltri, gli Zazza] nel corso degli anni, accanendosi a comprimere gli usi civici dei genzanesi, continuarono a «versare un canone annuo di ducati 32 per ogni carro di terreno, cioè lire 2,26 per ogni tomolo di erbaggio» ed approfittarne, “fidando” la sola erba vernotica con entrate dodici volte maggiori del canone versato. Nella carta del 1929 la contrapposizione tra la zona montuosa occidentale e quella orientale, collinare e pianeggiante appare netta. Le aree a seminativo si sono ristrette notevolmente per la crisi agraria dell’ultimo quarto dell’Ottocento e la contemporanea crisi della piccola azienda contadina: sulla montagna da Potenza al Pollino c’è stato l’abbandono di molte terre marginali e poco produttive, ora riservate ad un pascolo povero o passate ad incolto. Nella Basilicata orientale si registra una notevole e più duratura diffusione della cerealicoltura, ancora in atto nei primi decenni del Novecento: è la coda della “modernizzazione” ottocentesca, accompagnata e sostenuta da fattori geografici [i terreni sono quasi tutti pianeggianti] e socio-economici [sono coinvolte molte aziende di medie e grandi dimensioni].
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Il processo di crescita della monocoltura cerealicola ha qui il suo epicentro [dopo che i boschi sono stati tagliati estesamente e le terre vergini, da secoli riservate al pascolo, sono state dissodate] con tassi che vanno dal 63,6% di Lavello all’80,3% di Genzano e con balzi in avanti, rispetto alla situazione del 1815, veramente notevoli, come nel caso di Montemilone, dove si passa dal 12 al 70,5%. C’e poi il seminativo integrato da piante legnose: questa associazione colturale è presente solo in alcuni paesi della Basilicata. Come scrive Pepe, «[è] una qualità di coltura […] quasi sempre caratterizzata dalla presenza sul terreno a seminativo di essenze arboree forestali […] una forma di transizione dal bosco al seminativo», una possibilità di doppia rendita [“il frutto della semina, nonché quello degli alberi addetti all’ingrasso de’ porci”]. Questa componente del paesaggio agrario era diffusa soprattutto nella parte centro-meridionale della Basilicata e, in particolare, nel vasto agro di Tricarico dove occupava ben 6.935 tomoli [2.854 ettari circa] pari al 14,2% della superficie agraria e forestale.
Ebbe una ulteriore diffusione nel corso dell’Ottocento; nel 1929 era presente quasi ovunque, «con percentuali in qualche caso particolarmente significative, come a Grassano dove arriva al 21,7%». I paesaggi: le colture legnose specializzate La carta del 1815 mostra che in tutti i comuni ci sono colture legnose specializzate, «che molto spesso si riducono al vigneto in coltura unica o associata all’olivo e ad altri alberi da frutta». La vite, utile alla produzione per l’autoconsumo del vino che integrava l’alimentazione contadina, ma anche, più di quanto si
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pensi, di quello che finiva nelle osterie e nei palazzi di Napoli e di altre città, era molto diffusa. La pratica della viticoltura ha inciso notevolmente sul paesaggio agrario delle campagne del Vulture: l’intensificazione della coltura della vite era avvenuta, tra ’500 e ‘600, con la concessione di terreni ad melioradum e con i contratti di pastinato sui terreni di proprietà di enti ecclesiastici, molto diffusi soprattutto a Melfi. I vigneti formavano parte del paesaggio agrario: la vigna veniva piantata bassa in filari ordinati [“rasule”] e sostenuti da paletti a più canne ricavate da canneti spesso vicini alle stesse vigne. La contiguità del canneto alla vigna in località vicine ai corsi d’acqua era molto comune nel territorio di Melfi: l’utilizzazione della canna come sostegno alle viti avveniva più spesso nelle aree coperte di vigneti che si affacciavano ai corsi d’acqua. Nel paesaggio agrario del Vulture non c’era la vigna maritata e la vite conviveva con alberi di olivo sparsi nel vigneto. La viticoltura crebbe ancora tra la fine del Seicento e i primi trent’anni del Settecento: oltre che a Rapolla, a Melfi, a Venosa, anche a Rionero, una terra in notevole crescita demografica per le immigrazioni dai paesi dell’Alta Irpinia e del salernitano, si piantavano vigneti, soprattutto nelle contrade di Piano dell’Altare e di S. Savino. Tutte le pendici del Vulture erano coltivate a vigneto, tra Melfi, Rapolla e Barile. I vigneti s’interrompevano a Rionero, dove c’era ancora il bosco, e riprendevano ad Atella. Le vigne erano concentrate nei terreni attaccati alle mura della città e in quelli immediatamente più vicini, come S. Martino, a Melfi, e la “Valle dei chierici” [oggi Piano della Chiesa], a Rapolla, e nei terreni collinari non lontani, come S. Maria del Monte e la Braida. Alla Braida l’Ordine Gerosolimitano possedeva 39 delle sue 58 vigne. La maggiore concentrazione di vigneti era sulle coste e i pianori tra Melfi e Rapolla, soprattutto al “Plano de
34 cruce” e in contrada Colignelli. Il pittore e scrittore inglese Edward Lear, in visita a Melfi, nel settembre 1847, si trattiene per quattro giorni e, oltre a disegnare e a intrattenersi con gli amici melfitani, visita le «terrazze a vigne». Le coltivazioni continuavano poi lungo le coste della fiumara dell’Arcidiaconata e proseguivano lungo il torrente Lapilloso, non lontano da Venosa: qui, a partire dalle mura della città, c’erano vigne che occupavano tutta l’area pianeggiante del Piani di Camera e si stendevano a ridosso della Fiumara di Venosa. La viticoltura del Vulture era ancora quasi tutta di autoconsumo, anche se molte botti finivano sui traini per Napoli, dove i vini del Vulture venivano utilizzati come vini da taglio, e per Foggia. Anche se cresce meglio su terreni sedimentari sabbiosi, su conglomerati mobili e su strati calcarei, e su terreni vulcanici, come quelli del Vulture, la vite veniva coltivata, in altre parti della regione, anche su terreni montagnosi, dove si ricavava un vino asprigno ma che veniva bevuto comunque. Un viaggiatore inglese, Richard Keppel Kraven, che viveva però stabilmente a Napoli, alla fine del mese di luglio 1818, passa per Lauria, «stranamente posta sul versante di un’alta montagna» e annota che c’erano moltissimi vigneti piantati “a spalliera”, come in Campania, che producevano un vino «di solito aspro, debole e acido». Altri viaggiatori, gli scienziati napoletani Luigi Petagna, Giovanni Terrone e Michele Tenore, in viaggio nel 1826 per la Calabria, addentrandosi per Lauria e Lagonegro, riportano nella loro relazione di viaggio che «fuori Castelluccio, le viti miransi maritate ad aceri alti abbastanza per potervisi coltivar sotto il grano e il granone». Aggiungono anche che «più appresso, dove la qualità del suolo si presta meno a questa doppia coltura, le viti son tenute basse, perché coltivate sole», e che «in questi campi ab-
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bondano anche i fichi, e non poche piante fruttifere». Le pagine del diario di viaggio degli scienziati napoletani, tra cui i botanici Terrone e Tenore, ci raccontano così di campagne particolarmente ben tenute e ben coltivate: il paesaggio di Castelluccio con quelle «non poche piante fruttifere» ci fa ipotizzare l’attività di vignaioli e frutticoltori specializzati. Uno dei paesi lucani in cui nel 1815 si registra la maggior percentuale di terreni occupati da vigneti è Fardella con il 17%. Tanti fardellesi possiedono vacche, pecore, capre «distinte in quelle di corpo e sterpe, ossia castrate e destinate alla vendita», maiali e scrofe: l’allevamento pare prevalere. Anche se Fardella ha una altitudine di 750 metri circa, tra le colture più praticate c’è anche quella della vite, in contrade come la Prastìa, Cozzicanino, la Nocella, il Piscicolo. Le contrade delle vigne sono pedologicamente formate da terreni abbastanza saldi [Prastìa è un toponimo dal greco plastos “pietroso”] o abbastanza impregnati di acqua [Piscicolo, dal latino pisciculus, rigagnolo]. Acerenza è un paese di alta collina (con una escursione altimetrica notevole di circa 600 mt.) in cui l’incidenza statistica delle vigne è maggiore della media: Morano riporta 1169 tt. su un totale di 16578, circa il 7%. Come osserva l’archeologo francese Lenormant, in visita ad Acerenza nella seconda metà di settembre del 1882, i vigneti attecchivano bene «sui pendii assolati»: il vino aveva una fama «non usurpata» e poteva essere accostato a «quelli di certe province francesi», anche se una vinificazione ancora primitiva impediva al vino di raggiungere la qualità dei vini francesi. Ma Lenormant la visita ad Acerenza la fa nel 1882 e quindi in anni in cui la viticoltura è in crescita. Ritorniamo così indietro nel tempo. L’Archivio diocesano di Acerenza, riordinato, inventariato e consultabile on line, conserva una quantità notevole di «concessione in enfiteusi»
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per impiantare vigne nei terreni a valle del paese. C’erano stati anni, nei primi del Settecento, in cui vigne erano state cedute e permutate: nel 1692, nel 1705, nel 1711, nel 1726. Intorno al 1740 si avvia un processo di crescita negli impianti di vigne. Le prime richieste, nel Settecento, per impiantare vigne risalgono al 1738, in contrada Scazzarello e in contrada Giurano. Il processo ha una sua intensificazione tra il 1774 e il 1777 con richieste per il Vallone della Pila (1774), la contrada Varcatorio(1776), la località S. Martino (1777), la località Le Frattine (1777). Qualche anno più tardi ce n’è una per la località Le coste dei vignali fracidi (1791). Anche se bisogna diffidare delle facili etimologie _ come ci suggeriva qualche anno fa V. Aversano _ questo toponimo ci dice che la viticoltura veniva praticata, o almeno tentata, in molte contrade, anche su pendii piuttosto scoscesi e che si impregnavano facilmente delle acque che penetravano negli strati ad una certa profondità. Ad Accettura, uno dei paesi della collina materana, nel 1815 c’erano molti vigneti: Morano riporta 452 tomoli di vigneti su un totale di 8716 tt, cioè il 5,18%. I ricercatori che stanno facendo una ricerca sulle biodiversità vegetali hanno scoperto che oggi c’è una scarsa diffusione della vigna ma che una volta non era così: uno degli intervistati depositari della memoria storica sullo stato dell’agricoltura nel paese ha riportato un’espressione del tipo «una volta ad Accettura c’era tanta vigna che si poteva impastare la malta con il vino». Negli anni dell’autarchia fascista le vigne e i terreni coltivati ad alberi da frutto furono convertiti a seminativi: oggi solo negli orti periurbani sopravvivono viti, tra cui alcune dell’antica Malvasia bianca di Basilicata. La sopravvivenza degli oliveti a tutt’oggi piantati anche in contrade lontane fa emergere la linea di frattura nelle pratiche colturali: quando ad Accettura
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furono costretti a tagliare e a sostituire con il seminativo terreni usati per vigneti e oliveti, tutti sacrificarono le vigne. Ma in anni in cui non ci saremmo aspettati tanti vigneti, come i primi anni dell’Ottocento, ad Accettura di vigne ce ne erano tante. La ricerca in corso ad Accettura ci suggerisce altre osservazioni. Accettura, con Oliveto Lucano, Garaguso e San Mauro Forte, sta nella parte alta della Valle della Salandrella, il bacino idrografico che «segna il passaggio tra le due grandi ripartizioni territoriali della Basilicata: la montagna e la pianura» e che proprio per questo è stato selezionato per l’indagine sulle biodiversità vegetali. Il bacino idrografico come area di passaggio emerge soprattutto nella composizione del paesaggio, in cui si registra un’alta incidenza degli orti. Accettura può essere presa a campione di un assetto del territorio segnato da due fattori tipici di molte comunità lucane: la dispersione della proprietà tra contrade distanti le une dalle altre, come strumento di assicurazione contro calamità naturali come piogge e nevicate abbondanti, e soprattutto grandinate; il possesso di piccoli appezzamenti disseminati secondo l’altimetria, per poter usare la terra in tutte le sue potenzialità. Il quadro di disseminazione appare perciò molto più “razionale” di quanto la letteratura meridionalistica ci avesse suggerito. Scopriamo così che oltre il paesaggio agrario della montagna [bosco e pascolo], nella parte più alta, si ritrovano, a quota più bassa, le foraggiere, i campi di cereali, e poi giardini e piccoli frutteti con viti sparse e olivi più fitti; se si scende verso il fondovalle ci sono poi gli orti. Nello stesso bacino della Salandrella c’è anche San Mauro Forte, [su cui ritorneremo più avanti nella parte finale di queste note]. A San Mauro Forte gli orti periurbani sono stati sostituiti da oliveti. Una comparazione tra paesi che insistono su una stessa area “geo-climatica” ha portato nel corso degli anni, dei decenni a
36 risposte assai divergenti nell’uso della terra. Proprio questa varietà di soluzioni ci dice quanto ancora sia da approfondire la storia del paesaggio agrario lucano che non voglia ridursi alla storia appiattita sui grandi latifondi [quello “feudale”, quello “borghese”, quello “contadino”]. L’analisi degli usi dei terreni periurbani porta da un’altra parte. Se ritroviamo vigne anche in paesi di montagna, nemmeno ci stupisce ritrovare l’ulivo, una pianta che entra nella coltivazione promiscua, tipicamente mediterranea. Lo ritroviamo nella vigna, nell’orto, nel giardino e nel sativo olivetato. La viticoltura e l’olivicoltura si sono andate riducendo fino al 1929, a causa «degli effetti della crisi dei decenni precedenti, aggravata dal divampare della filossera», tranne che in due aree, dove invece si potenzia una vocazione colturale già emersa un secolo prima: - nella regione del Vulture, dove si registra sia l’ ulteriore espansione del vigneto a Rapolla, a Ripacandida e, soprattutto, a Barile, sia una diffusione dell’oliveto a Lavello, Venosa e Melfi; - nel Metapontino [comuni di Montalbano Jonico, Pisticci, Bernalda e Montescaglioso], dove c’è soprattutto l’espansione dell’oliveto. In provincia di Potenza, sulla scorta dei dati del catasto del 1929, nella regione agraria di collina [regione agraria del Vulture] su 98.447 ettari di superficie agraria e forestale «le colture legnose specializzate occupano l’8,51%, di cui il 4,20% a vigneto ed il 3,44% a oliveto» contro un totale di appena il 2,50% nella regione agraria di montagna [l’1,49% a vigneto e lo 0,89% a oliveto].
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Il paesaggio silvo-pastorale: tra pascolo e bosco Il pascolo Già abbiamo visto come pascolo e bosco non siano facilmente separabili e quantificabili. Se però si sceglie di separare quello che molto spesso non è separabile, si può capire quello che scrive Pepe sul “paesaggio silvo- pastorale” e sul carattere “complementare” del pascolo rispetto al bosco. La presenza dell’uno è in genere inversamente proporzionale a quella dell’altro: laddove le percentuali del bosco risultano particolarmente alte altrettanto basse sono quelle del pascolo e viceversa.
Così si spiega che nella Basilicata occidentale più boscosa il pascolo scenda al 30%, con poche eccezioni come Muro Lucano [58,2%] e Marsico Nuovo [61,6%]. Nella Basilicata orientale il pascolo sale invece a valori compresi tra il 45,% di Lavello e l’86,5% di Montemilone. In realtà questi dati richiedono una maggiore cautela interpretativa: i boschi sono stati letteralmente ignorati. Utilizzati per il pascolo, sono stati facilmente ricompresi in questa categoria, come avverte lo stesso Pepe: «a Montemilone, Miglionico e Tursi la presenza reale di superfici boscate è occultata dal loro prevalente uso pascolatorio». Passiamo alla carta del 1929. Rispetto a quella del 1815, la carta del 1929 mostra una generale intensificazione delle tonalità di colore in buona parte della regione, tranne che nell’area del Vulture e lungo il confine nordorientale, da Lavello a Genzano, dove appunto l’espansione della cerealicoltura e delle colture legnose specializzate […] riducono drasticamente le superfici a pascolo.
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A sud di Potenza, nel Lagonegrese e nelle aree dei calanchi del Materano il pascolo aumenta: incidono su questa crescita soprattutto aree boschive quasi prive di alberi e terreni marginali, prima seminati e poi lasciati al pascolo e all’incolto. È quanto avviene in numerosi centri della Val d’Agri, da Moliterno ad Aliano, dove il pascolo raggiunge e supera il 50% con punte di oltre il 60% a Spinoso, San Martino d’Agri, Gallicchio e Missanello. Questa distribuzione del pascolo accompagna i processi di ridislocazione dell’allevamento: l’allevamento diminuisce progressivamente e sensibilmente sull’altopiano bradanico tra Lavello, Montemilone e Venosa [con una contrazione del 53,2% per i bovini, del 41,1% per i suini, del 59,9% per i caprini, del 33% per gli ovini] e si sposta verso la montagna. Il bosco La carta del 1815 mostra che «il bosco è presente con percentuali diverse in tutti i comuni, tranne che a Grassano e a Craco, paesi di calanchi» e che la copertura boschiva, che tende a essere sottostimata, è piuttosto bassa, oltre che a Potenza e Matera, solo nell’area del Materano compresa tra Miglionico, Nova Siri e il mare. La maggiore concentrazione di boschi è lungo la montagna dal Vulture a Potenza, da Ripacandida a Forenza, da Ruoti a Bella, a Avigliano, ad Atella. Tra Tolve e Tricarico, a Montescaglioso e nel Lagonegrese, a Chiaromonte, Noepoli e Terranova di Pollino il bosco raggiunge valori oscillanti intorno al 60%. Querce, cerri, faggi e abeti sono gli alberi più diffusi. I castagneti sono diffusi, oltre che a Barile, Rapolla e Melfi, a San Fele, Muro Lucano, Pescopagano, a Tramutola, Moliterno, Lagonegro, Rivello, Missanello, Castelluccio Superiore, Castelsaraceno. A partire dalla legislazione borbonica sulla “tutela” del territorio che vietava lavori agricoli sui terreni scoscesi, si era avviato un processo di “taglio”
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dei boschi legittimato dall’ambiguità della normativa. La legge n. 967 del 21 agosto 1826 con cui si normava l’uso dei boschi da parte dei proprietari privati “liberalizzava” l’uso dei boschi e il “taglio” delle piante: si poteva procedere alla “recisione” delle piante purché «senza disboscarsi [“disboscare”, secondo la definizione ministeriale, significava “il recidere tutti gli alberi cavandone le radici”] o dissodarsi”. Come ebbe a notare un osservatore attento alla conservazione dell’assetto del territorio e alla tutela del bosco, il Labollita, «in alcuni boschi privati nel Regno si sono quasi interamente recise le piante […] senza disboscarsi o dissodarsi». Negli anni tra il 1815 e il 1929 c’è stato in Basilicata un processo di taglio dei boschi che ha ridotto le aree boscate al 13% circa di tutta la superficie agraria forestale. Passiamo alla carta del 1929. La carta del 1929 presenta un quadro della situazione da cui emerge una presenza sempre più irregolare e circoscritta del bosco nel paesaggio agrario della Basilicata del primo Novecento. Alquanto rara, se non del tutto assente, nella parte orientale della regione, da nord a sud, da Lavello allo Jonio, la sua presenza è appena percepibile in molti centri situati lungo il medio e basso corso dell’Agri. Tassi superiori al 20% si registrano ancora in alcune isole […] distribuite a macchia di leopardo nella parte montuosa della regione:
a nord di Potenza, dove a Ruoti, Bella, Avigliano, Forenza, Atella, Ripacandida e Rionero i boschi oscillano tra il 30% e il 50% circa e a sud di Potenza, dove si scende a percentuali che oscillano tra il 20% e il 38% circa. Anche in alcuni paesi della montagna materana [Gorgoglione, Oliveto Lucano, Calciano, Cirigliano e Accettura] i boschi coprono una super-
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ficie che oscilla tra il 24 e il 38% circa. Più bassa è la copertura boschiva nell’area del Pollino, dove in molti paesi oscilla tra il 20 e il 24% circa. A Lagonegro i boschi occupano ancora il 64% circa di tutta la superficie agraria forestale. Dopo una ricognizione dei caratteri dei paesaggi agrari lucani ricavata dagli studi di Morano e Pepe sui catasti, da quello murattiano a quello del 1929, passiamo ora ad un approccio “qualitativo”, se così possiamo dire: ci ripromettiamo per questa via di risolvere alcune delle questioni controverse affiorate nella discussione dei lavori esaminati. Il paesaggio nei cabrei lucani Il tentativo che facciamo, con queste note e con altri saggi contenuti nel volume, è quello di integrare fonti fiscali e catastali con le fonti iconiche [come quadri e come mappe e piante riportate in cabrei e platee], per una lettura più qualitativa del paesaggio lucano tra ‘700 e ‘800. Ci pare opportuno riprendere un pezzo di Giuliana Biagioli [scritto per la Toscana ma adattabile in piccolo anche alla Basilicata] sulla “potenza” descrittiva dei cabrei: i cabrei toscani […] disegnati accuratamente, con la raffigurazione stilizzata delle varie essenze presenti nel coltivo, nel bosco o nell’incolto, colorati a seconda dell’uso del suolo, arricchiti con la rappresentazione delle case e degli altri edifici, con il tracciato di strade, viottole e corsi d’acqua, sistemazioni del suolo agrario in pianura e in collina, contenevano rappresentazioni dell’utilizzazione del suolo perfino utili più dei trattati degli agronomi per comprendere le pratiche in uso per una corretta gestione del suolo.
I cabrei riportano solo una parte del territorio rurale, quello incluso nelle grandi proprietà ecclesiastiche e laiche: quantitativamente non coprono tutto il territorio rurale, qualitativamente possono essere utilizzati per cartografie molto accurate, incluse quelle sulle tecniche di coltivazione [In Toscana quelle “a tagliapoggio”, a “piantata di prode di viti”]. La scoperta, lo studio e l’utilizzo dei patrimoni cartografici [cabrei, mappe, piante] allegati alla documentazione amministrativa e giudiziaria conservata negli archivi della Basilicata è avvenuta e sta avvenendo solo da pochi anni: le prime risalgono all’inizio degli anni Ottanta. Nell’arco di questi anni l’attività dell’Archivio di Stato di Potenza – con il lavoro di recupero e di inventariazione di una quantità consistente di materiale cartografico sul territorio di Venosa, conservati nelle raccolte degli agrimensori venosini formatisi alla Scuola Agrimensori della Dogana di Foggia [Angelo Antonio Monaco, agrimensore attivo nella seconda metà del XVIII secolo; Giuseppe Pinto, che nel 1774 consegue la patente di compassatore dopo aver sostenuto gli esami presso la Dogana di Foggia e redige le mappe del cabreo della SS. ma Trinità; Vito Montesano; Gerardo Pinto, figlio di Giuseppe] e di organizzazione di alcune mostre [dalla prima, Il disegno del territorio, all’ultima, del 2009, Il colore del passato] – e quella della Soprintendenza Archivistica per la Basilicata, con l’inventariazione on line del patrimonio archivistico degli archivi diocesani, avviata due anni fa e completata nel 2009 con l’apertura del portale www.diocesarch.it, hanno riportato in primo piano materiali cartografici di grande valore documentario, ancora non completamente utilizzati dalla ricerca. Il ritardo nella produzione di strumenti cartografici per la Basilicata, su cui, come per tutto il Mezzogiorno, hanno pesato i vizi di «una tradizione
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geografica più attenta ai “cimeli” che non all’articolato mondo del rilievo geometrico e topografico […] dedita a fare storia della cartografia e non cartografia per la storia» e della ricerca storica, che «scarsamente e occasionalmente ha usato queste fonti», – tanto da far nascere il luogo comune della povertà cartografica nel Mezzogiorno – è stato recuperato soprattutto da G. Angelini, che se ne è occupato a lungo in molti lavori citati in bibliografia. Lo stesso Angelini, con L. Di Vito e A. Groia, ha scritto con Venosa: saggio per una carta storica del territorio comunale [da cui abbiamo ripreso le citazioni appena riportate] una delle pagine più belle in materia di cartografia storica. Venosa: una città di agrimensori e di carte Platee e cabrei di enti ecclesiastici, redatti ad intervalli sufficientemente lunghi e contenenti le raffigurazioni geometriche di buona parte del territorio comunale di Venosa, «quasi tutte opera di tre soli agrimensori e [che] presentavano quindi una notevole omogeneità nella tecnica di rilievo e di rappresentazione»; altre fonti provenienti dagli archivi ecclesiastici: le serie settecentesche dei cabrei [uno della prima metà del XVIII secolo e uno della seconda metà] dei più importanti complessi fondiari [Baliaggio della SS. ma Trinità e Capitolo cattedrale]; carte dei monasteri di S. Benedetto e di S. Maria La Scala, della Commenda gerosolimitana di S. Marinella; i tre inventari integrati da mappe geometriche, datati tra il 1716 e il 1857, rinvenuti nell’archivio del Capitolo cattedrale della città; le copie ottocentesche delle platee dei conventi di S. Francesco, di S. Domenico, di S. Agostino e della mensa vescovile, documenti tutti «riconducibili agli studi di agrimensura che interessano l’agro venosino con continuità dalla seconda
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metà del XVI alla metà del XIX secolo» [cui si sono aggiunti altri materiali provenienti dagli Archivi di Stato di Foggia e Napoli] hanno permesso a G. Angelini, all’epoca Direttore dell’Archivio di Stato di Potenza, di stendere, insieme a L. Di Vito e A. Groia, un lavoro che ha rappresentato una svolta negli studi di storia urbana e di cartografia storica. Angelini, Di Vito e Groia hanno provato prima a leggere sistematicamente tutti i disegni [mappe, piante, schizzi ritrovati in platee e cabrei] e a controllarne sul campo l’attendibilità rappresentativa e poi hanno riportato tutte le informazioni con una restituzione cartografica in scala 1:25.000 sui fogli dell’Istituto Geografico Militare, orientando [il lavoro] su due temi fondamentali: il regime giuridico della proprietà, che ha consentito di ricostruire il quadro delle partizioni storiche omogenee del territorio; la dislocazione degli insediamenti rurali definita in particolare dagli antichi sistemi viari e dalla idrografia.
La sintesi del lavoro, metodologicamente innovativo per l’utilizzo incrociato dei cabrei disegnati dagli agrimensori venosini e di una ricognizione sul campo, ha portato alla redazione di due carte storiche sullo stato dell’agro della città nel XVIII secolo con le quali è possibile individuare i confini storici delle partizioni territoriali, ad eccezione dell’area di maggiore parcellizzazione intorno all’abitato, e […] ricomporre, per ciascuna di esse e complessivamente nel territorio comunale, il sistema di relazioni viarie, l’ubicazione di un numero rilevante di insediamenti rurali di gran parte dei quali si era smarrita la memoria, l’assetto della proprietà e il regime di conduzione della terra.
40 Utilizzando questo saggio abbiamo provato a sciogliere alcune delle questioni controverse elencate prima. Non pretendiamo che gli esiti possano essere accettati in toto e generalizzati; ci accontenteremmo solo di aggiungere qualche tessera. Una delle prime questioni da affrontare è la contrapposizione tra seminativo – paesaggio del grano e pascolo – paesaggio della pastorizia. Venosa e il suo territorio comunale, in parte in pianura e che includeva terreni riservati alle concessioni di pascolo della Dogana di Foggia, ha vissuto un permanente conflitto tra agricoltori e allevatori, che ha segnato i caratteri della storia economica e sociale tra Sette e Ottocento. L’asprezza di questa competizione aveva già comportato, nei due secoli precedenti, proprio quelle controversie sui confini giurisdizionali che hanno permesso a «soggetti giuridicamente forti e quindi produttori e conservatori di archivi» di raccogliere una quantità di fonti cartografiche come per nessun altro paese della Basilicata. La Dogana della mena delle pecore dal 1574 «assoggetta parte delle difese ai vincoli di pascolo riservato in qualità di erbaggi straordinari, ripetutamente misura e reintegra il tratturo regio MelfiCastellaneta che attraversa l’agro [di Venosa n.d.a] poco a nord della Fiumara e, intorno al 1720, redige la prima carta del territorio comunale». Da allora spesso i locati della Dogana entravano in conflitto con i venosini, che non garantivano l’erbaggio cui avevano diritto; i conflitti, questa volta all’interno della comunità, continuarono anche dopo la soppressione della Dogana, con la censuazione del Tavoliere e con la ripartizione dei terreni demaniali. Le famiglie di antica nobiltà, non ancora estintesi [come era capitato ai Granucci e ai Saracino], e quelle borghesi più ricche [gli Albanese, gli Altruda, i Basile, i Dell’Armi, i Lauridia, i Rapolla, i Santangelo, i Sozzi], nei primi anni dell’Ottocento, pratica-
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no in parte l’agricoltura e in parte l’allevamento; la maggior parte degli investimenti è riservata all’allevamento, nelle difese proprie o affittate: hanno “industrie di animali” la cui consistenza è stimata, nel catasto del 1807, in 729 capi bovini, 8362 pecore e capre, 2078 maiali. Il partito degli allevatori è ancora politicamente molto forte. Emanuele Lauridia, portavoce, con Filippo Lioy del partito degli allevatori, fa approvare nel 1817 dal consiglio decurionale, con l’appoggio di altri allevatori, come Vincenzo Rapolla e Francesco Frusci, la richiesta, da inviare al sovrano,di ritornare al vecchio regime di promiscuità con i censuari del Tavoliere di Puglia, cioè di poter retrocedere dalla affrancazione delle locazioni di Salsola e S. Giuliano, affrancate «nel 1808 in una col comune di Maschito per un canone […] al 5% nei primi dieci anni, e al 4% in successione di tempo, senza per questo trasferire a terzi la possibilità di riscatto». Quelle degli allevatori di Venosa non sono richieste isolate: in altri comuni se ne facevano dello stesso tipo. Piccoli e grandi allevatori «non intendevano rinunciare alla posizione speculativa di riversare sui locati il costo degli erbaggi», dei quali potevano continuare a usufruirne in regime di promiscuità. Tentavano di opporsi gli agricoltori, tra i quali Giulio dell’Armi, “portavoce” del “partito” in cui c’erano anche Domenico Calvini, Ferdinando Polese, Venanzio Rapolla, Giuseppe Santangelo, sostenendo che «le proprietà esentate da comunione di usi, e di dritti, potranno sempre migliorarsi, e vantaggiare sia nel ramo di coltura, sia nel ramo di pastura, lo che non potrà mai accadere quando le proprietà sono in promiscuità». Un’altra via di soluzione del conflitto poteva essere il passaggio dalla pastorizia «errante, come quella de’ Tartari e degli Arabi […] nemica in conseguenza di ogni ramo di Agricoltura, perché crede tolto al suo pascolo il terreno coltivato» alla
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pastorizia «sativa […] si associerebbe all’agricoltura, ed ambe profitterebbero di molto»: era la via che indicava il grande “economista agrario” altamurano Luca de Samuele Cagnazzi. Verso la metà dell’Ottocento, con l’ingresso sulla scena di altre famiglie, questa svolta si concretizza. L’agro di Venosa che si estendeva fino a Boreano, ai confini con Lavello, presentava un certo numero di strutture insediative produttive legate alla cerealicoltura e all’allevamento: per citarne solo qualcuna, nella contrada di Piano Regio la masseria Rapolla; a Mezzana la masseria Trentangeli, il Palazzone Trentangeli, la masseria Lagala; a Piano di Camera la masseria Briscese; a Ripa Potenza il Casino Santangelo; a La Sterpara la masseria Sterpara Soprana; a Le Calcare masseria Mugnolo; a La Marziana masseria Carrieri. Ma tutto l’agro, in tutte le direzioni, era “attrezzato” di decine di altre strutture, oggi ridotte a ruderi [masseria Tamburriello alla Grastatella; la masseria Principe a Pezza Cicoria]. Molte masserie anche fortificate attrezzavano ormai un paesaggio cerealicolo-pastorale fino ad allora piuttosto vuoto. Sulla scorta di un andamento così tratteggiato a grandi linee, per Venosa, per i primi venti- trent’anni dell’Ottocento parrebbe suggestiva una composizione interna del paesaggio agrario vicina a quella proposta, per tutta la Basilicata, da G. Del Re, il quale ipotizzava un 38% di aree a coltivo contro il 62 % di quelle riservate a pratiche silvo-pastorali, in contrapposizione a quanto emergeva dai dati catastali, con la prevalenza delle aree a coltura [56%] su quelle riservate al pascolo e coperte di boschi [44%]. I dati riportati da G. Angelini, ricavati dalle stesse fonti utilizzate da Morano e Pepe [dalla documentazione cartografica coeva agli anni che stiamo esaminando non si possono ricavare estrapolazioni e proiezioni statistiche], non ci permettono di andare
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dietro a questa suggestione. Per Angelini il territorio comunale è per il 65% occupato da seminativi; le isole boscose e macchiose, che si diramano intorno all’abitato, aperte agli usi civici o chiuse, classificate cioè come “difese”, formano il 21,5% del totale, cui si aggiunge un 6,8% di pascoli privati; le colture legnose coprono il 6,5% dei terreni coltivati: si tratta prevalentemente di vigneti [5,9%], oltre che di una modesta quota di oliveti e canneti. Il resto del territorio è occupato, lungo il corso della fiumara e intorno all’abitato, da orti e giardini. Qualche scarto tra i dati comunque emerge. Facciamo una comparazione con i dati riportati da M. Morano e da V. Pepe: - per i seminativi i dati in buona sostanza coincidono: 65% contro 63,3 [lo scarto è minimo, un +1,7%]; - per i boschi e per i pascoli, messi insieme, il 21, 5% e il 6,8% di Angelini divergono sia dal 16,49 % [tt. 6029] di Morano [lo scarto è di circa un + 12%] – Morano include un 13,45% di terreni saldi – che dal 14,6 % di bosco e dal 15,2% di pascolo riportati da Pepe: questi dati suggeriscono che i boschi siano sottostimati sia da Morano che da Pepe; - per vigneti, oliveti e orti i dati ritornano a essere coincidenti: 6,5% per Angelini [solo per vigneti e oliveti]; 6,04 [tt. 2209] - 0,41- 0,16 per Morano [che include anche gli orti]; 6,9% per Pepe. La cartografia prodotta da Angelini, in rapporto alle questioni controverse, ci permette di abbozzare queste provvisorie conclusioni, attendibili se accolte più come indicazione di un trend che su un terreno più rigorosamente e dettagliamente quantitativo: - la quantità di boschi e di macchie molto fitte è maggiore di quella che Morano e Pepe hanno assegnato a Venosa;
42 la quantità di vigneti è più o meno identica, anche se la distribuzione tra aree vicine alle mura e aree piuttosto esterne al paese non è la stessa che c’è nella maggior parte dei paesi lucani. Le concessioni enfiteutiche di terre del Capitolo cattedrale di Venosa permettono, già nella prima metà del Settecento, la formazione di un paesaggio in cui si distinguono piccoli appezzamenti a vigneto e colture intensive nell’area ad ovest di Venosa, ai confini con la “la difesa del Monte”. Nella seconda metà del Settecento, in particolare negli anni dal 1774 al 1785 in cui furono redatti i due cabrei [quello “Cicinelli” per il Baliaggio della SS.Trinità e quello dell’agrimensore Giuseppe Pinto per il Capitolo cattedrale], la ripartizione permette di localizzare tutti i possedimenti e facilita anche, per sottrazione, cioè in assenza di documentazione negli archivi ecclesiastici, l’operazione di individuare e delimitare, con «un esame attento delle confinazioni dei territori limitrofi», in un’area ad ovest della città, una fascia «formata di piccoli appezzamenti coltivati a vigneto-uliveto di proprietà di “particolari cittadini”». L’area è facilmente raggiungibile dal centro urbano «soprattutto per ragioni altimetriche essendo gli altri lati dell’abitato circondati da profondi valloni». L’uso di colture intensive in piccole porzioni di terreno molto frazionate in tutta l’area, piuttosto estesa sui fianchi che scendono da Bosco Monte, la si ricava indiziariamente «osservando l’organizzazione limitrofa della zona verso nord-ovest i cui stessi toponimi indicano le colture e l’estensione degli appezzamenti: “l’olivetiello di Silvio Morante”, “il tappeto di S. Benedetto”, “i Vignali”». Inseriamo qui un’osservazione di R. Colapietra che, recensendo una ricerca di B. Salvemini sulla Puglia, ne riprende, enfatizzandolo, «uno dei risultati più importanti nell’ambito dell’analisi della società cerealicolo- pastorale caratteristica della Murgia e
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più in particolare dell’estesissimo agro di Gravina», cioè la scoperta che «il vigneto è una carta importante che il contadino cerealicultore può giocare sul mercato monetario nei momenti non infrequenti di bisogno […] come integrazione monetaria da realizzare in un rapporto stretto con la città. In un certo senso il vigneto contadino, in questo contesto, non “ruralizza” ma “urbanizza” i contadini del latifondo». Il vigneto, in altri termini, non è usato solo per la produzione di autoconsumo ma spesso anche per andare sul mercato locale e delle città vicine, per “monetizzare” e cavarsela nei momenti di difficoltà. Di una via di Venosa Angelini, Di Vito e Groia – che, nel saggio più volte ripreso, hanno cartografato anche la viabilità, scoprendo di molti tracciati non solo quali località collegavano ma anche a quali traffici e scambi servivano – dicono che è quella che «fanno le carrette foggiane quando vanno a caricar vino nella terra di Ripacandida». L’interpretazione di Salvemini della funzione svolta dal vigneto a Gravina e l’osservazione di R. Colapietra possono essere estese anche a Ripacandida, a Venosa e ad altri paesi della Basilicata, come Melfi, come Fardella, come Accettura. Nel corso dell’Ottocento a Venosa, già nella prima metà del secolo, l’impianto di vigneti anche in grandi appezzamenti avvia una ancora più significativa trasformazione del paesaggio agrario: il grande vigneto, in contrada Toppo di Mosca, impiantato ad una altitudine di circa 450 metri, la cui mappa viene disegnata, nel 1861, in occasione della perizia sulle proprietà che formano l’asse ereditario del proprietario Luigi Rapolla, è uno di quelli che entrano in questo nuovo paesaggio. Toppo di Mosca è una contrada non vicinissima al paese: questo significa che la coltura viticola non è più solo una pratica tipica delle aree più vicine alle mura, come poteva essere l’area dei Vignali, a poche centinaia di metri dalla “Porta della Fontana Angioina”, sulla strada per Rionero.
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Fig. 3 - Cavallone seu piante di tutti li territorij, che si possedono dal Reverendissimo Capitolo della città di Venosa... 1716-19; Angelo Antonio Monaco, agrimensore; Domenico Maria D’Amato, notaio; 450x305; cc. 49; mappe n. 49; ASPZ, Atti depositati dalla Curia Vescovile di Melfi, Venosa e Rapolla, platea n. 1 (su concessione del Ministero per i Beni e le Attività culturali. Archivio di Stato di Potenza, Aut. n.296 del 29 gennaio 2010).
Completiamo l’analisi con una sommaria annotazione sugli orti. Il disegno di Angelo Antonio Monaco [1743] del Mulino della Trinità, con il sistema dei canali di levata e di scarico utilizzati anche per l’irrigazione degli orti nelle “ische”, i terreni conti-
gui alle fiumare, fa apparire abbastanza sostenibile l’ipotesi di una tendenza piuttosto diffusa alle coltivazioni orticole [anche oggi una delle produzioni più tipiche dell’agricoltura venosina, insieme alla viticoltura].
44 In conclusione ci pare che emerga una contraddizione tra la documentazione iconica [mappe e piante] e quella statistico-fiscale: le fonti statistico-fiscali tendono a sottostimare boschi, vigneti e orti sparsi nel territorio agrario di Venosa. Avremmo voluto soffermarci brevemente anche sugli horti [l’hortus, nel lessico della pomologia, è il “ristretto” recintato da un muro entro il quale si coltivavano alberi fruttiferi, oltre che olivi e viti] di Venosa, in particolare sui giardini di Palazzo Lauridia e del convento di S. Domenico, di cui osservammo una platea qualche anno fa: la temporanea impossibilità di accedere all’archivio diocesano ci impedisce di farlo. Il paesaggio dei “campi aperti” in un’area di latifondo cerealicolo-pastorale: San Mauro Forte Alla fine di questo itinerario facciamo tappa a San Mauro Forte, uno dei paesi lucani che meglio ha “conservato”, anche visivamente, i caratteri più tipici del paesaggio agro-pastorale, molto ben approfonditi da M. Gerardi nella ricerca Il paesaggio nel territorio di San Mauro Forte. L’economia agro-pastorale ha disegnato, nel paese materano, una grande uniforme distesa interrotta solo da «alberi isolati in piccoli gruppi, superstiti dei boschi preesistenti», un assetto paesaggistico, nemmeno modificato dalla frammentazione proprietaria, che «oggi sopravvive nei seminativi e nei pascoli che ricoprono le colline a nord e a sud del paese [e]ci restituisce uno dei più antichi paesaggi antropici». Questo assetto si è formato per l’uso della pratica del maggese, che prevedeva per ogni terreno la rotazione biennale, consistente in un anno di colture seminative e in un anno di riposo, e per l’assenza di qualunque tipo di chiusura [siepi o muretti lungo i confini] da parte dei contadini, che, da affittuari, non
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avvertivano l’urgenza di recintare i fondi: sono nati così campi “aperti”, in cui greggi e armenti potevano pascolare sulle ristoppie. Era in piccolo il sistema in uso nell’economia pastorale in terra di Capitanata studiata da John A. Marino: nel sistema a due campi era il fertilizzante ovino che contribuiva a reintegrare il suolo dei campi di grano a riposo […]. [Con il riposo] in ristoppia e nocchiarica la pastorizia veniva strettamente associata alla reintegrazione del suolo.
La monolitica compattezza delle “terre del grano” era stata appena incrinata dalle colture specializzate praticate nei “frustoli” all’interno delle mura [vite e ortaggi] e in terreni fuori delle mura [oliveti]: quando nel secolo XVIII il feudo di San Mauro venne riscattato da quattro acquirenti [Lauria, Arcieri, Scalese e Acquaviva, già amministratori dei feudatari che si erano avvicendati nella titolarità del feudo], 500 contadini erano beneficiari di terreni coltivati a oliveti, concessi con contratti di tipo enfiteutico, estesi circa un tomolo e localizzati a poca distanza dal centro, dalle case. La ricerca su San Mauro Forte può essere utilizzata come case study per la storia delle tecniche di coltivazione. Le citazioni degli studi di F. Assante e di L. Gambi, fatte all’inizio, ci facevano propendere per una assoluta “naturalità” delle coltivazioni, praticate con un passivo adattarsi ai caratteri geo- morfologici e pedologici dei terreni, la cui tendenza a scoscendere a valle non sarebbe mai stata “arginata”, intendendo questa espressione in senso reale e metaforico. In altri termini nel passato si è sempre scartata l’ipotesi che comunità e contadini in Basilicata potessero comportarsi con cautela nel tentare di proteggere almeno la conservazione della risorsa primaria, il terreno coltivabile ricco di humus. I processi
Il paesaggio agrario della Basilicata nella storiografia nazionale e regionale dell’ultimo ventennio
di degradazione della montagna sono piuttosto noti. Come scrive L. Gambi, a proposito dell’andamento del corso dei fiumi e del loro rapporto con le attività di deforestazione dei monti [in particolare fra i 500 e i 1000 m], «la spogliazione del loro rivestimento di fustaie o di cespuglietti [lasciava] le superfici montane salvaguardate solo da un fragile velo di erbe, e quindi agevole appiglio degli agenti atmosferici […] nei periodi molto piovosi, ovunque le pendici risulta[va] no più inclinate o formate da suoli erodibili, le acque dilavanti con disordine […] non più disciplinate dai boschi, via via decorticando i suoli misero a nudo la roccia o, inserendosi tra i giunti della roccia, furono l’inizio di ampi fenomeni franosi». Questo processo, descritto da Gambi, aggrediva molta parte dei monti della penisola inclusi anche i “rilievi molisani e lucani”. Nei territori collinari e montani l’instabilità del terreno e l’aggressione del dilavamento hanno spinto gli uomini ad elaborare tecniche di lavorazione del suolo sempre più adatte a “conservare” in superficie la terra più fertile, e utili a impedire che acqua e vento scorticassero ulteriormente il terreno e portassero alla luce pietre e roccia su cui si era depositato uno strato sottile di humus, con interventi di sistemazione dei suoli da coltivare, di difesa idraulica [l’allargamento di fossi e canali di scolo, la sistemazione dei ciglioni inerbiti a protezione delle scarpate, con l’impianto di siepi, di arbusti, di filari di viti, di ulivi piantati “a girapoggio”, e in ultimo i “terrazzamenti”] e di rimaneggiamento dei terreni per renderli più lavorabili. A San Mauro Forte tutto questo c’è stato solo in parte. Veniva praticata una delle più arcaiche tecniche di lavorazione del suolo: il rittochino, una forma di sistemazione idraulico-agraria dei terreni declivi che permette di regimare lo scorrimento delle acque e di ridurre i rischi di erosione e di smottamento del ter-
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reno. Il rittochino [o anche ritocchino] prevede che le lavorazioni [aratura, semina], la piantumazione di alberi, lo scavo delle scoline [per impedire che l’acqua ristagni o si infiltri più di quanto serva] avvengano verso il basso in modo da permettere all’acqua di scorrere e di non imbibere eccessivamente i terreni. I lavori si fanno seguendo la pendenza naturale del terreno: naturalmente la tecnica di far scorrere l’acqua in superficie comporta il rischio che lo strato di terreno più carico di humus tenda a scivolare a valle, trascinato dalle acque e così, per frenare la velocità dell’acqua, si ricorre, nella parte alta dell’appezzamento di terreno, a scoline dette capofossi, a fossi acquai, a “capezzagne”, cioè canali per lo sgrondo delle acque a monte dell’area coltivata e lungo il versante, tali da ridurre la lunghezza e la pendenza del deflusso. Quello che non facevano a San Mauro Forte lo facevano a Lagonegro. In questa area la piovosità tirrenica, come componente micro-climatica, e l’assenza di terreni coltivabili, come componente pedologica, erano i fattori che i coltivatori dovevano fronteggiare. Così si spiega il ricorso al “terrazzamento”: in un disegno a penna acquerellata, realizzato nel 1827 da Antonio Cascino, sui Mulini Siervo e Mazzei a Lagonegro, si scorge uno scorcio del territorio della città terrazzato a più livelli con un complesso sistema di irrigazione, di caditoie dell’acqua. Il disegno, proprio per il rigore dei particolari, suggerisce l’ipotesi che si usassero tecniche per la costruzione di muretti e canali utili, oltre che per il mulino, anche per pratiche colturali intensive. Una terrazza o, più spesso, una terrazza su un’altra e poi su un’altra, anche piccola, è un complesso sistema di gestione dell’acqua per drenarla, per innaffiare e per irrigare: si possono usare muretti per chiudere vie d’acqua, canali, piccole gallerie e serbatoi ma la costruzione idraulica si mantiene se un muro di pietre o una petraia naturale trattiene il terreno.
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Veduta dei mulini dei signori Siervo e Mazzei in territorio di Lagonegro. 1827; Antonio Cascino, disegnatore; mm. 580x435; non in scala; disegno a penna acquerellato; ASPZ, Intendenza di Basilicata, b. 622, fasc. 548 [su concessione del Ministero per i Beni e le Attività culturali. Archivio di Stato di Potenza, Aut. n.296 del 29 gennaio 2010].
L’uso di tecniche per far scorrere l’acqua, per canalizzarla e raccoglierla dove serve c’era proprio nei territori in cui orografia e pedologia dei terreni parevano renderlo più ostico e meno praticabile. Citiamo una relazione scritta da Petagna -Terrone -Tenore nel corso del loro viaggio da Napoli a Cosenza e ritorno, fatto tra il 3 e il 16 luglio 1826, in carrozza, lungo la “regia strada delle Calabrie” in costruzione nel tratto calabro- lucano a sud del Vallo di Diano. Il gruppo pernotta a Rotonda. Michele Tenore, Prefetto del Real Orto Botanico di Napoli, riporta compiaciuto nel suo diario: la strada fuori Rotonda è bellissima, e tutto vi è coltivato come non si può meglio. La quantità di acqua, che scende dai vicini monti è col più grande accorgimento impiegata nelle irrigazioni; né vi è parte di quell’esteso territorio, che l’industria degli abitanti non abbia reso irrigabile. Vi lussureggia perciò il granone, ma più di tutto ci siamo compiaciuti a vedervi estesamente coltivato il pomo di terra, che una delle nostre guide, per nome Michele Ferrara ci assicura di aver introdotto il primo, circa venti anni fa.
Il botanico non ci dice come viene praticata l’irrigazione ma solo che c’è “il più grande accorgimento” nell’impiegare “l’acqua che scende dai vicini monti”. Il disegno di Lagonegro ci può essere utile in questo senso.
Che le pratiche colturali, in un territorio montagnoso come quello del Lagonegrese, non fossero particolarmente agevoli e che per questo non fossero nemmeno censite ce lo dice un altro dato. Nel Lagonegrese la superficie agraria e forestale censita nel 1815 era largamente sottostimata: a Lagonegro rappresenta solo il 30,5%, a Lauria – dove la sottostima è minore – solo il 38,5% dell’analoga superficie riportata nel Catasto agrario del 1929. Questa sottostima è una eccezione perché, al contrario, per tutta la Basilicata – come fa notare V. Pepe – «la superficie agraria forestale [824.264 ettari] risulta piuttosto alta, pari all’86,7 % di quella del 1929». Per chiudere: l’esplorazione e la ricerca a tappeto negli archivi diocesani lucani, negli archivi privati di famiglie che hanno avuto un grande ruolo nella storia dell’agricoltura e dell’allevamento in Basilicata [come quello degli Aquilecchia di Melfi, di cui è stato appena completato un primo riordinamento] e negli archivi di stato di Potenza e di Foggia potrà portarci alla scoperta di altri documenti cartografici e iconografici con cui la storia del paesaggio agrario e quella delle tecniche di coltivazione in Basilicata potrà essere aggiornata ed integrata.
48 Bibliografia AA. VV., Produzione, mercato e classi sociali nella Capitanata moderna e contemporanea, [a cura di Angelo Massafra], Amministrazione Provinciale di Foggia, 1984 [nel volume sono riportati saggi di A. Massafra, M. Nardella, E. Cerrito, S. Russo, L. Cioffi] AA. VV., Storia dell’agricoltura in età contemporanea, a cura di Piero Bevilacqua, Venezia, Marsilio, 1991 Il colore del passato. Decorazioni e miniature nei documenti dell’Archivio di Stato di Potenza, Mostra documentaria, Archivio di Stato di Potenza, 20 aprile- 30 settembre, 2009 Gregorio Angelini, Agrimensura e produzione cartografica nel Regno di Napoli in età moderna, «Cartografia e istituzioni in età moderna. Atti del convegno, Genova, Imperia, Alberga, Savona, La Spezia, 3-8 novembre 1986», Roma [Pontedecimo, Genova, Brigati-Carucci], 1987 Gregorio Angelini, Agrimensori - cartografi in Basilicata tra l’Antico Regime e l’unità d’Italia, «Bollettino storico della Basilicata», 3, 1987, pp.189204 Gregorio Angelini, Il paesaggio agrario a Sud dell’Ofanto attraverso le fonti cartografiche, in «Studi in onore di Michele D’Elia: archeologia, arte, restauro e tutela archivistica», a cura di C. Gelao, Matera, Spoleto, R&R,1996, pp. 534-548 Gregorio Angelini, Luigi Di Vito, Antonietta Groia, Venosa: saggio per una carta storica del territorio comunale, «Storia della città», 49, 1989 Gregorio Angelini, La cartografia storica, «Storia della Basilicata 3 L’età moderna», a cura di A. Cestaro, Bari, Laterza, 2000 Marco Armiero, Misurare i boschi, in «Storia e Misura. Indicatori sociali ed economici nel Mezzogiorno d’Italia [secoli XVIII-XX]» a cura di Renata De Lorenzo, Milano, FrancoAngeli, 2007, pp. 238-259
Angelo Labella
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Biblioteca del Centro Annali
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SCHEDA Magia dell’orto e della montagna Lucio Tufano
I
monaci delle badie, gli eremiti dei monti bollivano i lauri, le castagne, le eriche, i decotti, le patate e i fagioli degli orti. Il vino del Vulture dissetava le sudate transumanze. I massari di campo portavano sulle tavole bianche delle badesse il ravanello, il diavolicchio, il cirasello peperoncino, tutte le ricette da papiro delle madri ostesse. Alle taverne del postiere sostavano il cavaliere, il soldato, il gendarme, il vaticale, il mercante di grani. Il sogno del trainiere era di rovesciare le botti nelle fiere. C’era nei piatti la campagna: l’acre, l’aspro, l’acerbo, il salato, il forte, il piccante nelle salse di sensuale mistura. C’era il rancio del soldato, il prelibato pasto del barone, il boccone fuggiasco del famelico attentatore delle querce, la sua fame selvatica, il suo agguato notturno, alle Crocelle, al Cuppulicchio, al Valico dell’ Alata. Erano pietanze sobrie, mano dopo mano, condite dalle attese, dalla fretta, dalla paura, dalla intensa fragranza delle boscaglie, dalle roventi mietiture, dalla trepidazione, dal pre-sapore delle tregue e delle pause, dalla assoluta assenza di alchimie. Il piatto di terra contiene le essenze dei tuberi, le radici, il sapore del buio e dell’umido: le povere stagionature del gusto, le scorze dei tronchi. Nelle balze di sole e di vento, nei terrazzi terrosi delle coste, nei fossi intrisi dai rigagnoli, nei fon-
52 di muschiati dei muretti, nei canaletti di viottoli e mortelle s’alzava in vapori il frazzo delle stalle, si ordivano le storie merlate delle verze. Precipitava il sapore diluito nella scodella ribollita, il buglione, i senapi, i tadd r’ cucozze, la scottiglia di spunzali, i testaroli, l’ acqua cotta. Mense degli orti stracariche di gusto di terra e di foglie, sacro pinzimonio di radici a fittone e cime a fasci. La fava del Mar Caspio riempiva le bocche dei pastori e degli aratori, mandava in deliquio le monache del convento. Una minestra di fave cavalline, d’inverno, tubetti e fave di Turingia, d’estate, con pane e cipolle è condita di “Vulgaris” solo per l’aristocratico ghiottone che ama invece decorare i pasticci di manzo e di reina, i teneri manicaretti di uccellini, gli intingoli alla salsa calda, la selvaggina all’agresto, il pollo alla diavola, la tortiera di coniglio, con insalata di borracina, luppolo e scorzanera, maggiorana e noce moscata, con peonia ed issopo. C’era poi la radice commestibile: l’intera famiglia delle “cicoriacee”, selvaggia erratica di Plinio che non gustava l’amarezza delle foglie, e la varietà costosa, più bianca delle nostre indivie, la scarola. II cavolo bianco dello sceicco aveva la sua corte di patate in ciottoli, rombi di Blanchard, barbabietole Mammouth, Brassiche rapa rapifere, sfere bianche di Pomerania, carote a coda di topo con colletto verde, spinaci, lattughe. Il cavolfiore è figlio del corsaro, “barbabieto” e navone, asparago e peperone, fragole al limone, fondine di clorofilla e sentine di sapore, la debosciata orgia dei sedani. Il più ricco è il pomodoro. Con origano o basilico entra nelle stagioni delle conserve, bottiglie, barattoli, nei grappoli rotondi appesi alle traveggole di cielo. Primaticcio orgoglio del mercato, sciabola dei piselli nani, bianchi e verdi riempipanieri, piatti del principe predisposti a como di Montone, piselli cap-
Lucio Tufano
puccini, pernice a macchie scure o con punteggiatura rossoporporina, cece bianco, cece nero, cicerchia, ingrassabue, lupino giallo-azzurro, veccia di velluto che pizzica la lingua ed il palato. Con il caldo la spugna del corpo si inzuppa nei bivacchi, straluna nel sole di luglio, nel grano coricato, nelle cicale assordanti, nelle pause, nei cammini tortuosi, peregrini, affardellati e si disseta di acetosella, di agretto, di cardo, di finocchio, di cetriolo. Le miniere di sale nel sudore dei trattori e i tratturi assolati sprofondano la sete nella fonte dei cocomeri. Chi va piano va lontano, gira, gira l’ortolano. C’era la sobrietà degli orti, arterie e vene, linfe e colori, teatro e fiaba nei carciofi, storia impressa nelle malinconiche cipolle, nel calore fumante dei paioli, nell’ acqua che bolle i cavoli brontolosi, la menta fragrante, i brodi impregnati di salvie e prezzemoli, di “acci” e midolli. Ancora indugiano le stagioni della raccolta, sconvolte nei brevi meriggi da trafitture di luce o da nembi di pioggia e si dissolve tra gli adulti castagni la prima timida brina. Il paesaggio si scorge nel cupo verde e nel giallo che sconfina. È qui che la terra svela i suoi silenzi, i colori della vendemmia, e si abbatte, nella foschia delle nebbie, nell’alito dei solchi, negli strati fradici di foglie, il crepitìo dei ricci. Ora nei campi non s’ode voce. Un tempo le cantilene ed i richiami animavano il giorno. Ora gli attrezzi sostano al fienile ed il minatore delle aie si reclude nello spazio angusto del paese. Venivano ancora i giorni di dicembre a dileguarsi nel solstizio, la trepidante attesa di Natale, al trascolorare del tizzone ardente al velo di cenere. Riemergevano i ricordi di storie perdute, di fatti di guerra e di pace, l’assorta presenza dei bimbi al racconto del nonno, al maturo melograno, alle castagne cotte che venivano prima del sonno a far gioiosa la sera col ritorno della favola bella.
Magia dell’orto e della montagna
C’era la castagna ingrediente e sostanza, antico amore dell’infanzia, supremo aiuto alle penurie, memoria degli affetti alimentati da carbonella accesa e spini. Nella città sorpresa dall’inverno, la prima nevicata ci esaltava nell’andare a scuola, quando dal rifugio di teli di sacco e di cartoni, afflitto dalle raffiche di neve, si diffondeva la fragranza delle caldarroste. Intenta a ravvivare la brace una vecchia, ravvolta nelle sciarpe, ingannava l’insidia del freddo. Ed era allora che una castagna riscaldava la mano che la stringeva nella tasca del cappotto. Quello era il tempo biblico della guerra e della precarietà, quando i fili dei destini umani erano tenui, pronti a spezzarsi, e la filosofia dell’esistenza si arrovellava nella fantasia del mangiare. Ed era la castagna a farne parte. Un sapore ancestrale, una visione d’abbondanza, le suggestioni della festa e della casa, quando le cose e gli esseri correvano incontro ad un ineluttabile fato. Discreto era il percorso della fame in direzione della sazietà, nelle provviste di castagne e noci. È anche per questo che la castagna ha il suo intreccio con la fiaba, con il racconto e la poesia, il suo ruolo nel folclore e nel rito, con le creature terragne degli alberi, con i proverbi e le leggende, con le spine dei ricci e con le crepe a forma di croce. La farina era nelle madie per dolci e pasta casereccia da utilizzare nelle lunghe invernate. “Castagna piccola farina grossa”, si dice ancora in alcune regioni dell’Appennino. Memore della sua infanzia nella valle del Serchio Pascoli scrive: «… i tuguri sentono il tumulto or / del paiolo che inquieto oscilla; / per te la fiamma sotto quel singulto/crepita e brilla: / Tu pio castagno, solo tu l’assai / doni al villano che non ha che il sole; / Tu solo il chicco, il buon di più, tu dai / alla sua prole... /».
53 E Sinisgalli in Corso Vercelli a Milano, per un saluto al padre: «Crepitano le castagne, / Cuociono nelle pentole le orecchie / Di porco, sotto gli ombrelli frigge / Il baccalà... / C’è già aria di neve quassù / E sotto i vecchi stracci nel tumulto / Mi vengono incontro i miei poveri / Morti. Mi danno il meglio, / quello che più mi piace, / Cibo premure pace. Che mi dici / Tu padre?».
Natura e paesaggio agrario lucano dell’Ottocento nelle osservazioni scientifiche di autori coevi e in alcune interpretazioni storiografiche contemporanee Costantino Conte, Angelo Labella, Ezio M. Lavoràno
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iproporre, in questa sede, alcuni brani tratti dalle opere di importanti autori, lucani e non, dell’Ottocento che, nei loro studi, si sono occupati dei quadri ambientali, del paesaggio agrario e delle vocazioni produttive dei territori, affiancati a brani di storici contemporanei, vuole essere da un lato un omaggio postumo a scienziati e osservatori di grande acutezza, qualche volta troppo facilmente dimenticati, dall’altro una sorta di percorso di feedback interpretativo, che vuole mettere a confronto, quasi contestualmente, descrizioni di luoghi e paesaggi, oltre a considerazioni e dati specifici sulle questioni attinenti l’agricoltura prodotte a distanza di oltre un secolo. Crediamo così di poter mettere a disposizione uno strumento per facilitare la comprensione dei ‘fatti ambientali’ che hanno segnato il nostro territorio, ripercorrendo dalle origini le tappe salienti di alcuni dei processi che hanno inciso profondamente sulla nostra realtà. La lunga fase di disboscamento/dissodamento selvaggio, per esempio, in origine visto come un fatto di progresso, cioè come una pratica per il recupero di terreni da coltivare, oggi, viceversa, ha assunto un’altra connotazione, soprattutto in rapporto alla permanenza di un grave dissesto idrogeologico. La scelta, a lungo meditata, di raccogliere e accostare brani ci è sembrata utile alla comprensione e alla visualizzazione immediata e comparata dei notevoli mutamenti avvenuti sul territorio, provocati dall’azione sconsiderata dell’uomo oppure dagli eventi naturali. I brani di seguito riportati, frutto di accorta selezione, sintetizzano tale peculiare approccio, in un quadro di nuova attenzione per la comprensione dei fenomeni e la salvaguardia conservativa di alcuni contesti.
58 Il filo rosso che abbiamo seguito nella individuazione dei brani è stato ripreso da una osservazione di Piero Bevilacqua che una ventina di anni fa citava l’originalità di Francesco Saverio Nitti nel segnalare, come fattori di modificazione della storia della Basilicata, i terremoti, la distruzione dei boschi, l’emigrazione […] «tre eventi a loro modo e in varia misura ‘catastrofici’, […] grandi agenti di trasformazione, […] forze spontanee, incontrollate e incontrollabili, che [avevano rotto] irrimediabilmente antichi e consolidati equilibri». L’originalità di Nitti stava anche nel mantenersi lontano «dalle categorie progressive del pensiero meridionalistico, tradizionalmente incardinate intorno alle nozioni di ritardo, progresso, arretratezza; scansioni concettuali di una storia comunque concepita come lento, ma sicuro e lineare progredire». L’implicazione di quanto scrive Bevilacqua è che il rapporto tra natura e paesaggio agrario, in Basilicata, andrebbe sottratto a una accettazione rassegnata e astorica della incidenza ineluttabile delle componenti fisiche del territorio ma anche al diffuso rifiuto della storiografia di attribuire agli uomini la razionalità di comportamenti economici all’interno della persistenza, storicamente segnata, di quadri ambientali compromessi.
«Come è noto, eventi e dinamiche ambientali […] sono stati ordinariamente espunti dai ‘fatti’ della ricostruzione storica […] spesso a dispetto dello spessore assunto […] nelle memorie locali e per alcuni aspetti nella stessa tradizione meridionalistica. […] Per alcuni aspetti, l’esclusione di questo strano événement che è il terremoto dall’economia della ricerca storica, rientra nella più generale rimozione
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della dimensione territoriale che la storiografia ha consumato fino a poco tempo fa. L’opera di distruzione [del terremoto] […] talora si realizzava in forme immediatamente meno visibili. Intanto un sisma distruttivo costituiva in genere causa immediata di carestie, sia perché spesso comprometteva l’annata agraria, sia perché normalmente venivano distrutte le scorte alimentari della comunità: grano, olio, e vino in primo luogo. Ma l’opera di devastazione più profonda e duratura riguardava forze produttive e strumenti di produzione, lavoro incorporato nella terra e nella tecnologia elementare di un’economia quasi esclusivamente agricola: case coloniche, granai, mulini, frantoi, bestiame, canali di irrigazione, terrazzamenti, aree coltivate». Da: PIERO BEVILACQUA, Terre del Grano…, 1992, pp. 10-12.
«Già nel novembre del 1807 la superior [sic!] valle dell’Agri fu scossa da violenta commozione. […] Dopo cinquant’anni, e dopo altre in altre epoche innocue ondulazioni della terra, il mostruoso disastro infuriò in così grandi proporzioni, che si allogherà [sic!] omai [sic!] nella storia generale del Reame, come quelli di miseranda ricordanza alle Calabrie nel 1783, e nel 1805 a quel di Molise. Qui alle due epoche gli stessi fenomeni a un dipresso àn [sic!] preceduto lo scoppio: dal novembre al dicembre del 1807 durò, non sempre uguale però, tal temperatura anormale che nuova vegetazione di fiori e di foglie rinverdì la natura; e fruttificarono anzi meli, mandorli, ciliegi. Oggi […] noi abitatori del Vallo udimmo cupe e prolungate detonazioni. […] Nella giornata del 16 un mugnaio del Moliternese avvisò lievemente torbide le pure linfe di una sorgente, che
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dà vita alle sue macchine. […] Io stesso alquanti dì prima del miserabile caso, mi dovevo dell’acqua, che torbidoccia presentavamisi [sic!]. […] Tutti, dopo la gran commozione, avvertirono cresciute le acque delle fonti e de’ fiumi; per tre giorni le fiumane del Vallo travolsero torbide e lutulente le acque. Il giorno del 16 dicembre 1857 […] già eran tutti a giacere, secondo il costume della provincia, quando poco oltre a 5 ore della notte una prima e violenta scossa ci balza esterrefatti dal letto; e nel cieco spavento dei brancolanti nel buio a covrirsi [sic!] di un cencio, ad accendere un lume, una seconda, feroce, fischiante e prolungata per 30 secondi, accese il cielo a sanguigne fiamme, commosse e sbalzò la terra, agitò l’aere[sic!] a fremito. La terra convulsa si dibatte, e le mura si schiantano, i tetti si sfondano, i palchi ruinano [sic!], le imposte si convellono [sic!]. […] Non più case, ma macerie, non edifizii [sic!] ma ruine, non un tetto o un comignolo discerne [sic!] sull’ampia superficie d un paese; ma una selva di travi e di sfasciumi, un caosse [sic!] di murice e di rottami; e inabissati cantoni, e sgominate fabbriche, e muraglie spezzate in due, o capitozze, o sconnesse, o spiombate; e non più traccia di strade, turbinato accumulo di ciottoli e calcina.[…] Tale è […] lo stato di tre paesi nella Valle dell’Agri, Montemurro, Saponara [oggi Grumento Nova] e Viggiano, già di vivaci industrie e di numeroso popolo fiorenti, e di civili ed agiati edifizii [sic!] abbelliti. Sulla sinistra dell’Agri è Montemurro. Posto sul declinar della pendice che digrada [sic!] alla fiumana, assiso ad un buon miglio da questa su banchi di plastica argilla, che covre [sic!] strati di pietra arenaria, era stretto ai due fianchi da due torrenti, che per lenta guerra al suolo cretoso scavarono […] altissime ripe, e assottigliarono di anno in anno il fil d’inferma terra, su cui sedeva il caseggiato. Questi torrenti […] eran causa di sfranamento al terreno
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circostante, quando alle acque invernali l’argilla si venia rammollendo: sicché al mancar della base la schiena tra’ duo [sic!] fossati si ricalcava, e crepacci e screpolature e strapiombi apparivano alle fabbriche del mal fondato paese. […] Questo al paese mal fermo suolo di creta in balìa de’ torrenti che poco a poco sel [sic!] portavano via, il disacconcio [sic!] materiale, onde erano murati gli edifizii [sic!], e il campare di quest’essi nell’alto su d’instabili basi, […] spiegano in parte come totalmente andò subissato dal recente tremuoto [sic!]. Un subbisso [sic!] di ciottoli e calcina, un caosse [sic!] d’impalcati e macerie, un commisto d’informi rottami, uno sfasciume confuso e indistinto, e frantumi di squarciate muraglie, e catolli [sic!] di smosse fondamenta, e una selva di travi con volto il vertice al cielo, e un petraio che un’internal [sic!] furia smosse e commescolò [sic!] per tutta l’area di un grande paese; e non più traccia di vie, non segno di spiazzo. […] Le mal cementate fabbriche tutte tutte si disfecero […]; non una delle vecchie impalcature sostenne il peso de’ ruinanti [sic!] tetti e degli alti solai. Crebbero di acque le fonti, i fiumi, i rigagnoli. […] Larghe crepacce comparvero per tutti i luoghi, e nel Vallo, e già lungo l’Agri e su pei monti d’intorno. Largo di cinque palmi e lungo di 30 è uno spaccato ancora aperto in quel di Tramutola […]. Grandissimi sull’Appennino tra Marsico e Sala, che intercettarono per qualche dì i traffici tra’ due paesi; e grande spaccatura al monte dell’Alpe presso Latronico, cava ancora intatta di marmo statuario. Si richiusero e presto. […] A Viggiano […] tutti si sfasciarono i rusticani abitacoli. […] A Marsico- vetere […] tra soliti accidenti è singolar vista quella di una casa di campagna, a cui le mura giù si arrovesciarono salde o di un pezzo, come libro squadernato. […] A Sarconi sulla sponda del maglio due terzi e più delle 300 casette
60 [erano ridotte] a ruderi e macerie […]. Né per tutto il Vallo lunghesso [sic!] l’Agri restò illeso uno de’ mille rustici abituri o civili casini, sparsi a governo della terra o a delizia del proprietario in quell’amena pianura. Se l’atmosfera risenta o influisca a si’ grandi fenomeni è dubbio. Dirò che ella non fu punto normal [sic!], perché dopo le assidue e larghissime piogge autunnali, al 25 di novembre sereno l’aere e s’intiepidì per 40 giorni. […] Chiusi i 40 dì, venne giù un nevischio crudele, […] e durò sul borea la rigida atmosfera, avvicendando nugoli e sereno e neve sino a’ 9 febbraio, quando si mostrò una prima e quieta pioggia […]. Al cader di gennaio il termometro scese fino a 5 gr. sotto lo zero; e una notte il Maglio gelò alle sue origini, non mai ricordato fenomeno a queste regioni. Da: GIACOMO RACIOPPI, Sui tremuoti di Basilicata…, 1858, pp. 7-11.
«La provincia di Terra di Bari e la porzione della Basilicata che da Melfi verso Canosa si distende su la sponda destra dell’Ofanto, si possono considerare come un solo gran bacino, che ha per confine verso settentrione la costa dell’Adriatico. Tutta questa grand’estensione di paese conformata in colline poco rilevate, ed inclinata dolcemente verso il mare, vuolsi riguardare come una digradazione degli Appennini della Basilicata, dalle cui gronde settentrionali le comunicazioni verso la costa sono brevi e facili. […] Per la fisica e topografica disposizione e conformazione […], naturali confini distinguono in diversi bacini le principali ubertose contrade, nelle quali per mezzo di facili comunicazioni l’agricoltura, la
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pastorizia, le industrie e il commercio delle diverse parti hanno stretti rapporti tra loro. […] Prima di discendere alla descrizione particolare di ciascun bacino, giova far precedere alcune generali considerazioni su i rapporti che hanno tra loro i contigui, e specialmente quelli che sono divisi dalla catena degli Appennini. In primo luogo, prendendosi in esame la catena anzidetta la quale dalla frontiera si distende alle vicinanze di Nusco, esso forma quasi nel mezzo tra i due mari una schiena che verso mezzogiorno scarica le acque nel Tirreno, e verso settentrione nell’Adriatico. Dall’estremità di questa parte della catena con direzione convergente due grandi rami si distendono fino alla punta di Gaeta e fino a quella della Campanella.[…] Dalla parte opposta le acque che discendono dalla catena e dalle sue diramazioni si versano in un gran numero di fiumi, che uniformemente con corso quasi perpendicolare si dirigono alla costa dell’Adriatico. Alle vicinanze di Nusco, donde prende origine l’Ofanto, la catena, come si è osservato, nell’avvicinarsi al mar Tirreno cambia andamento, e le sue diramazioni, invece di procedere verso l’Adriatico, si dirigono quasi perpendicolarmente al Gionio [allo Jonio]. […] Il bacino del Sele, quello della parte della Basilicata che pende verso il Gionio, quello di Terra di Bari e l’altro di Terra d’Otranto hanno rispettivamente strette relazioni fra loro con altri bacini contigui. I quattro principali rami del Sele che vengono da Caposele, dalle vicinanze di Muro e Potenza, da Casalnuovo pel vallo di Diano e da Piaggine, mettono in relazione la parte montuosa e la parte piana di quel bacino. Per la strada da Evoli [sic!] verso Atella, e per quella dall’Auletta per Potenza ad Atella, il bacino del Sele comunica con quello di Terra di Bari e con la porzione dell’altro della Capitanata,
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ch’è adiacente al corso superiore dell’Ofanto. Per la strada che si distende lungo il vallo di Diano, le valli dell’Agri e del Sinno e quella del Grati [sic!] sono in rapporto col bacino del Sele. Per la stessa strada si discende nelle marine di Sapri e Maratea. Da: CARLO AFAN DE RIVERA, Considerazioni su i mezzi…, 1833, vol. I, pp. 69-73.
«Della provincia di Basilicata Si estende la Provincia di Basilicata fra monti, valle, e piani, e tramezzata [sic!] da fiumi, dè quali a proprio luogo sì farà parola. Confina insieme all’Oriente col Golfo di Taranto, e a Mezzogiorno colla Calabria citeriore. Ha numero di città, e di terre, le quali in cose si particolarizzano, siccome si dirà. Nel suo tutto, questa Provincia, ha ottimi grani [parole riportate in corsivo come nel testo originale] saravolli, dalle cui farine semolose ne fanno i migliori maccheroni e le diverse altre paste. Con essi grani v’è l’ottimo olio, il soave vino, le sapite fruita [sic!], le tenere ertolizie erbe, le nutrienti carni i dilicati [sic!] latticini, l’abbondanza della caccia, e pur quella della pesca. V’è poi di maggior particolar produzione la piantagione del zaffarano; quella degli anisi, e delli coriandri, e con essi quella della bambagia. Vedesi [sic!] in vigore l’industria delle api , e quella della razza dei cavalli , e delle mule. La pastorizia è in vigore; ed è estesa la caccia di pelo, e di penna, siccome non è mancate la pesca. La maggior parte dei Popoli di questa Provincia portati sono per l’agricoltura dei campi, per il governo della pastorizia, e per le manifatiure di lana, e di cotone. Vediamo ove tali cose si trovano, e in qual città, e terra.
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Della Città di Matera La situazione di Matera è in mezzo a deliziose valli, e a fertile terreno. Qui v’è la fabbrica di buoni panni. Si lavorano fine calze di lana, e di cotone. Nelle campagne di questa città, oltre che trovasi il bolo armeno [argilla con ossido di ferro dalla tipica colorazione rossa], vi sono ottime uve, che danno buon vino; e pur uliveti l’olio dè quali è ottimo. Si fanno ottimi formaggi, ed ottimi anche salami; ed è pure abbondante la caccia. Della Città di Acerenza Sopra una collina sta situata Acerenza. Hla questa città, di particolare, ottima carne di castrato, capretti lattanti, dilicati [sic!] latticini, ed abbondanza di ogni sorta di caccia. Della Città di Venosa In ameno sito, e presso al fiume Ofanto sta la città di Venosa, nella quale è in vigore d’assai la pastorizia , è in vigore assai la pastorizia, tanto negli animali vaccini che pecorini per cui da questo luogo, oltre che si hanno grasse carni, si ha pure un buon commercio e di formaggi, e di butirri. Della città di Tricarico. Giace la città di Tricarico alle radici degli appennini; e perchè è irrigata da molti ruscelli, il suo suolo si rende particolare per 1’ ottima produzione dell’ erbe e piante ortolizie; e in dove le acque non corrono è buonissima la produzione del grano, e delle uve, che danno. piacevole vino. Della Città di Tursi. Sta la città di Tursi al pendio di un monte, ed in mezzo ad una campagna fertile in bambagia, in lino, ed in canapa, delle quali cose, oltre la vendita che se ne fa senza manifatturarle, se ne fanno anche, per commercio, tele , che son d’ assai ricercate. Nelle incolte campagne di questa città si trova quantità di polleggio, e con esso timo, origano, e tante erbe fioriste, ed aromatiche de’ quali fan pascolo le api, e
62 pe’ quali stan qui melti alveari, perciò si ha molto mele, e molta cera. Si hanno da questa città anche molti e buonissimi cacicavalli, e molti e buonissimi caci pecorini una cogli altri dilicati [sic!] latticini freschi. Della Città di Melfi Melfi è situata sopra di ameno colle che lo investe un placido fìumicello, ed una piantagione di alberi di ulivi, e di vigneti, dando gli uni ottimo olio e l’altre poderoso vino. Anche in questa città, come a Tursi, si fa estesa vendita di telerie di lino, di canapa, e di cotone. Delle Città di Ripolla [sic!], e di Muro Vicino Melfi sta Rapolla, e Muro, non lungi dal fiume Ofente [sic!]. In Rapolla è particolare l’olio, ed il vino che sono in vendita per la Provincia; ed in Muro i salami porcini. Delle Città di Lavello, e di Montepeloso Non lungi dal fiume Ofento [sic!] fa sede Lavello, che ha di particolare un soavissimo vino, e dilicate [sic!] ricotte; e Montepeloso, che sta sopra un colle, è particolare per la bontà, - e grossezza dei legumi. Della città di Potenza Lo stare di Potenza è sopra un colle, ch’è ubertoso in aromatiche erbe, che servono di pascolo agli animi di macello, per cui si hanno ottime carni. Il suo pian terreno, oltre che da’ frutti supiti, uve metute, v’è pure la gran piantagione della rubia, che vale per la tintoria nera. Della città di Ferrandina A canto del fiume Salandro Ferrandina è situata. Questa terra da l’occupazione a moltissime donne, poiché han l’arte di tessere una certa tela di bambagia e lana, la quale, per varj usi, è molto ricercata, e gira il commercio sotto al nome di ferrandina. Nella campagna di questa terra la massima coltura è quella della bambagia, ma l’olio, ed il vino, non son derrate scarse nemmeno.
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Della Città di Maratea Vicino al mar Tirreno, e sopra un monte s’innalza la città di Maratea. Ha un porto ch’ è di trafico [sic!] per tutti i naturali della Basilicata. L’esteso suo monte è pieno di vigneti, che oltre le uve dolcissime che danno, soddisfano anche co’ loro soavissimo vino, ed i suoi piani abbondano di uliveti, l’olio dè quali è perfettissimo. Della Terra,di Moliterno, Montescaglioso, e Montalbano. Moliterno, ch’è in delizioso rialto, da di particolare olio, e vino. E la città di Montescaglioso ancor essa da buone pannine, ben tessuti tappeti a più colori di lana, e pur fine calze di bombagia. E poiché vanta dell’antico, con facil riuscita si trovano, in scavando, e Etruschi vasi, ed altro dell’ antico fare. E da Montalbano si ha l’ottimo grano, ch’è grosso e pesante, ed anche si ha quantità di regolizia [liquirizia]». Da: VINCENZO CORRADO, Notiziario delle particolari produzioni…, 1816, pp. 66-71.
«Con una superficie di circa 10 mila chilometri quadrati, la Lucania ha un territorio variato quasi tutto da monti e colline; perlocchè [sic!] offre gran numero di belle ed aperte fertili vallate lungo il corso dei suoi fiumi e fiumane, e non pochi altipiani e pianure più o meno estese in molte località. […] La catena degli appennini scendendo dai Picentini ed Irpini entra nella nostra regione, tra Caposele e Conza, dove sono le sorgenti del Silaro e dell’Aufido [Ofanto], e vi forma grossi gruppi di monti e colline largamente disseminati sulla sua superficie dal nord al sud e verso l’ovest. Al confine con la Bruzia [attuale Calabria], innalza le
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più alte cime, ed attraversa tutta quest’altra regione […]. Un altro ramo fra Banzi e Venosa dirigendosi verso est […] fino al capo Iapigio [in Puglia]. Le più alte cime dei monti lucani sono il Dolcedorme del Pollino al confine con la Calabria, ed il Papa del Sirino di Lagonegro i quali oltrepassano i 2000 metri; i più famosi però sono il Vulture presso Melfi, e l’Alburno di Postiglione. […] Tante montagne e colline […] generano vallate multiformi ed acque correnti senza numero, che scorrono per esse e si riversano nei mari circostanti. Moltissimi sono i nostri fiumi; Sboccano [sic!] nel Tirreno il Silaro, il Salso, il Franco, la Iungarella, il Lento, la Molpa, il Mengardo, il Lao o Laino. Sboccano nel [sic!] Ionio, il Cochile, il Ravanello, il Sinni, l’Agri, la Calandrella, il Basento ed il Bradano. Il solo Ofanto sbocca nell’Adriatico. Sono poi affluenti del Silaro, il Negro ed il Calore; affluente dell’Ofanto, l’Olivento; ed affluente del Sinni il Serapotamo. […] Pochissimi laghetti offre la regione nostra, e sono: il Lagopesole sorgente dal Bradano a 500 metri di altezza sul livello del mare […]. Seguono i due laghetti del Monte Vulture, già crateri di questo vulcano, […]. Il quarto è quello di Lagonegro. Succedono quelli di Palo, dell’Abate e di S. Maria. Ultimo è il piccolo laghetto di Calciano. […] Il clima è assai variabile, oscillando dal fitto inverno al colmo della state [sic!], a seconda delle differenti altezze e venti dominanti […]. Quindi nelle parti montuose e mediterranee, cade abbondante la neve, e vi dura a lungo col gelo, e si risente freddo intenso nell’inverno, si gode una deliziosa està [sic!]: al contrario nelle pianure del [sic!] Ionio, l’inverno è mitissimo, e l’estate riesce assai penosa per caldo e la sete e per giunta la malaria. […] Venendo ai prodotti agricoli […] è la nostra regione adatta a ogni genere di coltura; vi si coltivano benissimo i cereali, i legumi, la frutta, l’ulivo e la vite. Gli
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agrumi nelle parti più meridionali e sulle spiagge dei due mari». Da: ANGELO BOZZA, La Lucania …, 1888, pp. 41-47.
«Nel caso della Basilicata […], oltre ad essere lambita dall’Ofanto, la regione è solcata in senso perpendicolare da cinque fiumi, e principali tributari, sfocianti nello Jonio: il Bradano col Basentello; il Basento con il Camastra; il Cavone o Salandrella; l’Agri con il Sauro e il Sinni con il Sarmento. Di questi, il primo è fin dal nome una tipica fiumara. Gli altri, pur presentando un apprezzabile volume d’acqua, sono a carattere torrentizio con lungo tratto alluvionale in prossimità della foce. Risultano quindi interessati da piene che vanno dall’autunno alla primavera con periodi di massima che rispecchiano l’andamento pluviometrico delle stagioni. Le magre ricadono di norma da luglio a settembre, si estendono da giugno ad ottobre e possono comprendere maggio e novembre. Le piene sono poi tipiche dei fiumi pluviali, […] che portano ad una rapida raccolta delle acque, con piene brevi e impetuose. Il regime torrentizio dei fiumi, […] è la causa prima dell’imperversare della malaria, piaga endemica delle province meridionali. […] Questo immane flagello si riflette nella sua portanza non solo sull’andamento demografico e sullo stato fisico delle popolazioni, ma sugli stessi cardini di strutturazione socio – produttiva. Certo il latifondo […] trovato nell’imperversare della malaria un’ulteriore forza coesiva che ha concorso a renderlo pressoché invulnerabile a qualsiasi spinta innovativa. […] Il secolare stato malarico delle campagne interveniva a condizionare anche un secondo e non meno importante fattore,
64 quello corografico, caratterizzato dall’aggregazione di grossi – in relazione alla densità regionale – centri urbani, l’ubicazione dei quali è la riprova del peso esercitato dalla malaria nella sedimentazione se non nella determinazione dei processi insediativi». Da: MICHELANGELO MORANO, Storia di una società rurale…, 1994, pp. 8-9.
«Dalla regione montana settentrionale facile è il passaggio alla regione centrale [in corsivo nel testo n.d.a], per i monti Alburni, che riuniscono la catena degli Appennini del Principato Citeriore a quelli della Basilicata. La montagna di questa vasta provincia l’attraversano per tutte le direzioni, le più cospicue branche di esse si dirigono dal Nord-Ovest al Sud-Est, elevandosi più presso il Tirreno che sul [sic!] Jonio. Le montagne della regione centrale appartengono quasi esclusivamente a questa provincia [quella di Basilicata n.d.a.]. La calce carbonata stratificata ne compone la maggior parte. Questa formazione si prolunga fino a Casalnuovo a dodici miglia da Lagonegro. Da quel punto si presenta lo schisto argilloso ferrifero, che variamente modificato si estende per gran parte di quella regione. A mezza strada tra Lauria e Lagonegro ricomparisce il calcare, ma esso presenta notabile diversità da quello dianzi descritto; giacché appartiene alla calce carbonata compatta bigia con venature di calce lamellare bianca. Questa solidissima roccia, di cui al presente si rivestono tutt’i ponti della nuova strada di Calabria, annunzia la vicinanza dei monti primitivi. […] Dalla cima del Sirino, che figura tra i più elevati monti di questa regione, bello è il vedere il corso de’ due principali fiumi della Lucania l’Acri [sic!]
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e il Siri che nascono dalle viscere di quel gruppo di monti. […] Calcari sono le vette del Sirino, e nel calcare sono incastrati ciottoli di silice piromaco, ma le basse falde di esso, e gran parte delle colline di questa regione sono di schisti argillosi ferriferi, e di diverse rocce di transizione che si danno la mano con quelle [..] di Lagonegro e del Vallo di Novi. Spingendo innanzi il cammino, e per contrade più mediterranee inoltrandoci, […] il calcare stratificato si mostra nuovamente dappertutto. Prolungasi […] da Lauria sino al principio del Vallo di Cosenza. Il monte Pollino sul confine di quella regione spande le sue […] diramazioni verso la Basilicata al Nord, e verso la Calabria al Sud. […] Calcare è il Pollino con tutte le sue dipendenze. […] A rendere compiuta la rivista de’ monti della regione centrale, uopo è retrocedere verso l’interno della Basilicata, ed osservare i bassi monti che all’Oriente sulla limitrofa provincia di Terra di Otranto si estendono, e legansi alle murgie della provincia di Bari. La geologica composizione di questi bassi monti rileva da depositi sottomarini di poco antica formazione. Essi sono perciò generalmente composti di un tufo conchiglifero tenero e fragilissimo. Le acque dell’Adriatico, che altre volte coprirono quelle basse contrade, manifesti indizi della loro presenza han lasciato nella salina qualità de’ terreni della Daunia, su quali facilmente fioriscono i muriati ed i nitrati terrosi ed alcalini. Nella stessa pianura del Tavoliere, scavando pozzi a poche tese di profondità non se ne ottiene che acqua salmastra. […] Dai monti della Basilicata traggono origine il Basento ed il Bradano, che bagnano la parte orientale di quella provincia, e si scaricano nel Golfo di Taranto». Da: MICHELE TENORE, Cenno sulla geografia fisica e botanica…, 1827, pp. 10-15.
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«Il clima di queste contrade [Principato Citra, Principato Ultra e Basilicata] è vario secondo i luoghi e la natura della superficie. Nella parte del Principato citeriore che confina con la provincia di Napoli e col mare è dolcissimo; è caldo, in quel sito di Basilicata che tocca il seno Tarentino: ma generalmente parlando, il rigore del verno [sic!] si sente meno nella provincia di Salerno [tranne la parte ingombra di alti e spessi monti] e in quella di Avellino: e meno in questa che nella Basilicata, perché quest’ultima è più montuosa della seconda, e la seconda più della prima. […] La disposizione del territorio di Basilicata rende questa provincia acconcia a quasi tutte le produzioni delle quali è capace il suolo del regno di Napoli. Nelle pianure in riva al [sic!] Ionio coltivasi con successo la bambagia [il cotone n.d.a.], la regolizia [la liquirizia n.d.a.], e vivono bene gli agrumi. La coltivazione del tabacco vi era quasi universale prima dello stabilimento della regia, e primeggiava l’erba santa di Avigliano. Pochi sono i gelsi […] ma pochissimi sono i siti dove non potrebbero prosperare; le api vi starebbero assai bene, ma questa utilissima e dilettevole industria vi è negletta! Il canape vi si coltiva in ogni luogo ma non basta a’ bisogni della provincia: la coltivazione del lino vi è scarsissima quantunque molti siti potrebbero darlo eccellente. Non v’ha quasi comune che non sia provveduto delle sue vigne: ed i terreni di Montalbano, di Pisticci, di Tursi, le colline poste appiè [sic!] del Vulture dalla parte orientale composte di materiali vulcanici lo produrrebbero eccellentissimo se si usasse un poco di arte nel manifatturarlo, mentre anche oggi il vino di Rionero, di Barile, di Rapolla, di Ripacandida, di Maschito abbenchè [sic!] fatto senz’alcuna diligenza è pure uno de’ migliori del nostro paese. Gli oliveti sono pochissimi, ma l’olio in generale è fino e di ottima qualità.
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Le frutta gentili di ogni genere son quasi in tutti i siti. Ma i prodotti principali della terra di questa provincia sono i cereali, ed i pascoli naturali sia ne’ boschi sia su i monti e su le colline senz’alberi. Produce la Basilicata forse il miglior frumento del regno, e specialmente i grani teneri e bianchi; gran copia di orzo, poca avena perchè poca se ne coltiva, segala in abbondanza ne’ siti montuosi, frumentone in ogni luogo, eccetto che in quelli più vicini alla provincia di Lecce con cui confina, ed al mare, ed in quella parte del piano di Venosa ch’è limitrofa alla Capitanata. Da: LUIGI GRANATA, Economia rustica per lo regno di Napoli…, 1835, pp. 39-41.
«[…] il fattore dominante in una società rurale va comunque riferito al complesso [rapporto] suoloclima. Se il primo variava con la composizione chimica e il secondo in rapporto alle zone altimetriche, è soprattutto nel carattere subarido di quest’ultimo che va individuato il principale ostacolo ad una generale riconversione produttiva. […] la siccità si pone quindi quale fattore fisico insormontabile ai fini di un radicale rinnovamento delle tecniche colturali. [Infatti] la siccità estiva e l’eccesso di piovosità iemale ne limitavano i vantaggi […], se non in tutto, le generali aspettative. Anche sotto questo riguardo [rapporto intensità-durata dell’azione solare ai fini dello sviluppo vegetativo] l’eccesso di luce, quindi di calore, determina fra l’altro uno spreco d’acqua, elemento carente nelle campagne meridionali. Perfino nella cerealicoltura l’intensità luminosa risulta nel Mezzogiorno superiore all’optimum [corsivo dell’autore] delle piante, dato dalla luce tenue e diffusa delle giornate nuvolose o piovose ma cal-
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de. [...] la maggiore erogazione di energia calorica si risolverebbe in danno per mancanza di umidità. […] Nell’insieme, queste componenti costituivano per l’agricoltura meridionale altrettanti coefficienti ostativi, atti a spiegare tanta parte delle defettività […] [e] la secolare arretratezza del Mezzogiorno».
tendo di raccogliere, con le poche spese di semina e quasi senza lavoro, abbondanti cereali […]».
Da: MICHELANGELO MORANO, Storia di una società rurale…, 1994, pp. 11-14.
«[La] distruzione dei boschi […] causa modificatrice della realtà [della Basilicata] […] non è semplice riduzione dello spazio occupato dalla foresta, secondo una versione storicamente indeterminata che anche il pensiero meridionalistico ha talora contribuito ad accreditare. […] Il fenomeno ha il suo pieno e gigantesco svolgimento a cavallo fra la metà del secolo XVIII e il primo cinquantennio del secolo successivo. […] Non è un fenomeno esclusivamente meridionale [e lucano]. In quei cento anni si dibosca un po’ ovunque, in Italia: non è che il capitolo di un processo di straordinaria portata che investe in vario modo l’intera Europa occidentale. […] Come ha mostrato S. Van Bath, nel suo splendido affresco di storia comparata, nella vicenda agraria dell’Europa medioevale e moderna ogni fase di prosperità [che è poi ogni congiuntura di alti prezzi globali e di incremento demografico] porta con sé l’allargamento dell’area di coltura, il dissodamento di nuove terre, il taglio o l’incendio dei boschi».
«L’attività sismica […] contribuiva […] a far nascere ad accelerare un altro fenomeno catastrofico di alcune regioni del Mezzogiorno: le frane. Lo scorrimento a valle del terreno, lento o repentino che fosse, […] segnava profondamente la vita di molte comunità, soprattutto appenniniche, del Mezzogiorno […] ma soprattutto della Basilicata; le frane coinvolgevano talora direttamente gli insediamenti umani, impedivano costruzioni viarie più rapide, il ripopolamento dei fondi valle». Da: PIERO BEVILACQUA, Terre del Grano…, 1992, p. 11.
«I disboscamenti offrivano ai proprietari facile modo di realizzare d’un tratto il valore accumulatosi da secoli, mentre l’avidità del lucro immediato e la grandissima estensione dei boschi, creduta interminabile, distoglieva il pensiero dagl’incalcolabili danni che ne derivavano alla pastorizia. La legge forestale del 1877 parve porre un freno; tuttavia dopo di essa si disboscarono in Basilicata oltre 137.000 ettari di boschi. Le terre disboscate offrivano nei primi anni una feracità portentosa, permet-
Da: PIETRO LACAVA, La Basilicata, 1903, p. 30.
Da: PIERO BEVILACQUA, Terre del Grano…, 1992, p. 26.
«Dopo la legge forestale del 20 giugno 1877 su 343,912 ettari ne furono svincolati e disboscati per 137,819, ma la distruzione della corona dei monti data da tempo più antico, poiché dal 1861 in poi si accentuò senza norme regolatrici la dissodazione dei
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beni demaniali-comunali. Che immensa ricchezza distrutta! E quali disastrose conseguenze! Industria armentizia fiorente ed ora presso che finita. Monti e piani saldi e ora franati; torrenti prima inesistenti ed ora senza freno e devastatori; aria prima purissima e ora malsana; abbondanza di piogge con la loro benefica influenza e conservazione di acqua, ed ora disturbi e cambiamenti atmosferici nocivi all’agricoltura ed acqua inquinate e mancanti». Da: PIETRO LACAVA, La Basilicata, 1903, pp. 49-50.
«I fiumi senza ritegno occupano un chilometro e più, portano via interi poderi senza che si tenti neppure di difenderli; alla foce coprono di ciottoli larghezze sterminate, e quando sono a pochi chilometri di distanza gli uni dagli altri, confondono i loro sassi e formano piccole pianure di pietra e di sabbia; le campagne sono deserte di case coloniche, i contadini accatastati nei luridi paesi, sono costretti a perdere metà della giornata o della notte per andare al lavoro. Alla vista di quella desolazione, il forestiero è tentato di credere che in quel paese, ogni anno dopo il raccolto, avvenga qualche grande sciagura, qualche invasione, qualche conquista che tolga i frutti di tutto il lavoro dell’anno ed impedisca di mettere nulla da parte per migliorare i campi, per togliere la febbre;oppure che da secoli e secoli i raccolti cattivi si siano seguiti senza tregua […], oppure che il quel paese viva una qualità di uomini speciale, che, in mezzo a terre coltivate, abbia conservato l’imprevidenza dei selvaggi delle praterie d’America […]». Da: LEOPOLDO FRANCHETTI, Condizioni economiche ed amministrative…, 1875, p. 64.
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«Devesi considerare come parte del bacino della Basilicata sul Gionio [il mar Jonio] lo spazio compreso tra i corsi del Bradano e del Lato. Dall’altra parte della costa convien seguire il confine della Basilicata con la Calabria citeriore il quale si distende lungo il corso del fiume di Canna; e per conseguenza secondo una tale confinazione la costa dell’anzidetto bacino ha la lunghezza di 5a [50 n.d.a] miglia. Finalmente immaginandosi tirate le linee dalla foce del Lato a Castellaneta, da Castellaneta a Montepeloso [oggi Irsina], da Montepeloso a Francavilla e da Francavilla alla foce del fiume di Canna, il poligono che ne risulta della superficie di 1200 milia quadrate in circa, comprende la parte più fertile del bacino della Basilicata sul Gionio [sic!]. I quattro fiumi principali Bradano, Basente [sic!], Agri e Sinno intersegano il descritto bacino, e le loro valli […] generalmente ampie, si dilatano per alcuni tratti, e specialmente presso la costa, in estese pianure signoreggiate da colline poco rilevate e di dolci pendenze. In questa vasta regione l’industria dell’uomo non avendo fatto mai nulla per regolare il corso delle acque, le valli e le pianure sono quasi da per tutto soggette all’infezione delle acque stagnanti. A questa cagione vuolsi principalmente attribuire l’essere tutt’i comuni situati su l’alto dei colli ad una distanza considerabile dalle terre le più ubertose. Molto più infette sono le pianure adiacenti alla costa, nelle quali altra volta fiorirono le cospicue città di Metaponto, di Eraclea e di Siri. Quelle campagne tanto rinomate per la loro fertilità ora sono affatto deserte, ed i comuni men lontani dalla costa per la distanza di 10 in 12 miglia sono quelli di Castellaneta, Bernalda, Montalbano e Tursi. […] La bonificazione delle valli de’ fiumi i cui letti hanno considerabile pendìo, e delle pianure ad esse contigue, non può richiedere opere difficili e di grave
68 spesa, poiché facilmente si può dare scolo con brevi canali a’ terreni palustri, o questi si possono colmare con le torbide che menano seco i fiumi stessi. Molte bonificazioni si opererebbero e si conserverebbero per effetto di un’industriosa coltura, e per l’osservanza di un regolamento di polizia rurale che imponesse a’ proprietari l’obbligo di badare agli scogli de’ rispettivi fondi e di mantenere netti i fossi, e che vietasse rigorosamente gli abusi che potessero apportare alterazione al corso delle acque. Né molto difficile può riuscire la bonificazione della zona delle terre piane in riva al mare che ha la lunghezza di 3° [30 n.d.a] miglia e la larghezza media di 10. Rispetto alla porzione maggiore ch’è compresa tra il fiume di Canna ed il Bradano, le copiose torbide che in tempo di piene trasportano tutti i fiumi che l’intersegano, sarebbero atte a colmare nel giro di pochi anni gli stagni ed i terreni palustri giacenti presso la costa. I canali medesimi che servirebbero per le colmate, sarebbero utili per le irrigazioni, che per l’abbondanza delle acque si possono estendere nelle vaste pianure delle valli superiori e della zona adiacente al mare. Inoltre, in una così grand’estensione di campagne piane di un suolo argilloso, se prima ch’esse fossero preparate per la coltivazione, s’irrigassero nell’autunno con le acque torbide, la belletta mista alla sabbia calcarea che quelle depositerebbero, sarebbe un fecondante concime. In riguardo alla bonificazione della rimanente parte della zona compresa tra il corso de’ fiumi Bradano e Lato, le diligenti osservazioni locali debbono indicare gli spedienti più opportuni, qualora le torbide de’ due anzidetti fiumi non potessero giugnere [sic!] a colmar gli estesi stagni che vi si trovano». Da: CARLO AFAN DE RIVERA, Considerazioni …, 1833, vol. I, pp. 224-228.
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«L’insufficienza di dati statistici e di documenti ufficiali impedisce di stabilire con precisione quali fossero le condizioni economiche di Basilicata, anteriormente all’unificazione della Patria. Molti scrittori del tempo, sull’ex-reame delle Due Sicilie, ci ricordano la vita di quelle provincie [sic!] che […] bastavano a loro stesse, con mezzi sufficienti a soddisfare gli scarsi bisogni ed a permettere e accumulare risparmi. […] Il benessere materiale era grande per chi sapeva contentarsi di una vita modesta e tranquilla. […] A differenza delle altre provincie [sic!] più vicine alla capitale, la proprietà media era maggiormente diffusa e la stessa nobiltà, scarsa di numero ma ricca di censo fondiario, non rifuggiva dall’attendere all’amministrazione delle proprie terre. Ogni famiglia ritraeva dal fondo quanto occorreva al proprio sostentamento; il superfluo vendevasi localmente nelle fiere o nei mercati vicini. Il piccolo proprietario non rifuggiva dal prestare giornate nelle terre altrui. L’abbondanza di mano d’opera, spesso pagata in natura, permetteva di lavorare bene e profondamente le terre, mentre in quelle inculte [sic!] trovava largo sviluppo l’industria armentizia». Da: PIETRO LACAVA, La Basilicata, 1903, p. 4.
«La grande proprietà è addensata nei comuni […] sul litorale ionico, le grandi tenute dai 3.000 ai 6.000 ha. dei Berlingieri, dei Ruffo, dei Federici, dei Malvezzi. Molti latifondisti risiedono fuori della regione […] come il principe Doria, che visitò una sola volta i suoi possedimenti di Basilicata, o come il barone Berlingieri, cupa figura di feudatario, che si presentava con i suoi ospiti per la caccia al cinghiale nel solo periodo delle festività natalizie, a Policoro,
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seduto sempre a sinistra nella vettura per il timore di attentati. […] I fittavoli pagano annualmente al barone Berlingieri 7.400 quintali di grano, fra duro e tenero. Un terzo del [“feudo”] è seminativo; un sesto a colture arboree pregiate: oliveti e agrumeti; un sesto a pascolo; il resto è paludoso e sterile. Vi lavorano in maniera stabile 210 salariati fissi, che vivono in bianche casupole ai piedi del castello baronale; ma da ottobre a maggio, dalle montagne lucane o calabresi, dalla Puglia, arrivano dai 1.000 ai 1.200 avventizi. Migliaia di capi di bestiame _ soprattutto ovini e caprini, ma anche ovini e suini, oltre ai bufali _ nel periodo estivo monticano nei boschi di Castelsaraceno, di Moliterno, di Lagonegro. La produzione annua è di 20.000 quintali di grano duro; di 60 quintali di pecorino; 90 di provoloni; 30 di ricotta; 2.227 [?] di liquirizia. Qui si produce per il mercato». Da: NINO CALICE, Lotte politiche e sociali…, 2008, pp. 56-57.
«Il latifondo cerealicolo così come lo conosciamo dalla letteratura otto-novecentesca, non era solo il tardo retaggio del passato, non costituiva tanto l’ibrido prodotto della troppo lenta dissoluzione di vecchi rapporti pre-capitalistici [quanto] un vero e proprio sistema […] inseparabile dal peculiare assetto territoriale che esso stesso era venuto producendo, e in cui aveva finito con l’assestarsi, fra l’ultima metà del secolo XVIII e la prima del secolo successivo». Da: PIERO BEVILACQUA, Terre del Grano…, 1992 p. 42.
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«[la] Basilicata dominata dal latifondo, spesso confuso con la grande proprietà terriera e che invece, come espressione naturale, e quale cardine di strutturazione sociale, rimanda a una serie di fenomeni pregressi, dalla lunga durata; la lontananza dei siti insediativi; le vaste superfici nude o quasi di vegetazione arborea e prive di corsi d’acqua; la mancanza di una rete viaria e, per giunta, l’imperversare della malaria […]. E’ in tale processo cumulativo, e perciò storico [corsivo dell’autore], che va ricercata l’origine plurisecolare del latifondo. La persistenza o, peggio, l’aggravio di tali condizioni spiega la tenacia con la quale ha potuto resistere ai reiterati attacchi cui è stato sottoposto. Non a caso non è valsa a sradicarlo l’eversione della feudalità, in una con l’incameramento e l’alienazione dei beni ecclesiastici e con le ripartizioni demaniali». Da: MICHELANGELO MORANO, Storia di una società rurale…, 1994, p. 15.
«Lagonegro è situato nel centro di un bacino di monti, in mezzo de’ quali scorre il Torbido, giustamente così chiamato per le acque limacciose e brune che trasporta. L’antico paese era secondo il solito fabbricato su un erto monte, ove rimangono tuttora diverse abitazioni, e la Chiesa comunale. Con miglior consiglio successivamente il paese è venuto a stabilirsi nell’alto piano che attraversa parte di questa vallata; cosicché al presente gode di più amena situazione in un luogo piano, decorato di vasta piazza, e di molte moderne abitazioni. La natura di questi monti è tutt’altra di quella della limitrofa provincia di Principato Citeriore […]. [I monti] sono principalmente composti di schisti argillosi, e le colline ad essi addossate son quasi
70 tutte di vere argille. I terreni, che loro sovrastano non sono perciò i più felici per l’agricoltura, e la situazione istessa [sic!] del paese rendendone il clima rigido per gran parte dell’anno, ne accresce la sfavorevole condizione; malgrado ciò, il contorno di Lagonegro è coltivato dappertutto, e ad eccezione degli ulivi, che difficilmente vi allignano, non vi mancano vigne e colture di cereali e di ortaglie, i frutti a nocciulo [sic!] vi scarseggiano e solo vi riescono le ciliegie. Abitando un suolo ingrato, questi cittadini si sono perciò rivolti alla pastorizia e alle manifatture. Oltre a 30,000 pecore compongono la massa della pastorizia di questo distretto; per esse conservasi il metodo della pastorizia errante, e perciò nell’inverno si portano gli armenti a pascolare lungo le marine di Policoro. Questa industria comincia a rilevarsi dalle perdite sofferte; giacché altre volte oltre a 100,000 pecore formavano la base della pastorizia di quel distretto. Molto si lavora la lana per fabbricarne panni e cappelli, e di questi due articoli si fa sufficiente commercio anche fuor del distretto. Mercoledì 5 luglio Alle ore 5 partiamo da Lagonegro; la strada ascende radendo i monti che occupano la parte meridionale di questo bacino. […] Dopo un’ora di cammino incontriamo folti boschi di cerri. Ne’ luoghi dissodati si coltiva la segala. […] Giunti alla vetta del monte, piega la strada verso il villaggio detto Bosco. Ivi abbiamo veduto coltivarsi per pastura il Lathjrus alatus [si tratta della cicerchia] Ten [Tenore]. La rigidezza del clima di queste contrade è contestata dal ritardo della vegetazione. La ginestra, che presso di noi [i viaggiatori sono napoletani n.d.a.] va in fiore ai primi di maggio qui appena apre i suoi bottoni. Avvicinandoci a questo villaggio cessano i boschi e si trovano campi coltivati con ulivi, fichi, grano e lino. La riuscita degli ulivi in questa regione
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notabilmente più elevata di Lagonegro, benché più meridionale, dimostra che i nuovi saggi dovrebbero farsi per provare a far crescere l’albero di Minerva anche su i monti di quel Capoluogo. […] Prima di Lauria, passiamo altra acqua […]. Quivi si è rifatto di fresco un ponte di legno con teste di ponte ed argini in pietra da taglio. Pittoresca è la veduta della cascatella, che da varii punti del monte di Lauria si precipitano sulla sottoposta valle, a vista di quel villaggio: animando diversi molini, o riunendosi in vasche, ove buona mano di valide e ben fatte contadine viene ad attingere acqua, o a lavar pannilini [sic!]. Lauria è diviso in superiore ed inferiore: addossato alla rupe e quasi inaccessibile è il primo, meno scosceso e lungo la consolare è il secondo. Due serie di mediocri abitazioni costeggiano la strada, e tra queste notansi diverse botteghe, ove alla rinfusa vendon i comestibili [sic!] di ogni genere, vino ed altri prodotti. […] Buoni salami possono provvedersi in questo paese, formaggi non già, che si risentono dell’istessa [sic!] grossolana fabbricazione di quei della Calabria. Bisogna eccettuarne i caciocavalli ed i così detti raschi, che sono formaggi di ottima qualità. Oltre al solito pane nero, secco e mal fermentato, che ci accompagna da Eboli, ci siamo per un momento rallegrati, vedendo a vendere altra specie di pane bianco, e d’apparente buono esteriore. L’illusione si è dileguata bentosto, perché abbiamo trovato esser questo apparecchiato con pasta bollita, ma non fermentata […]. Ripigliando la salita per sortire da Lauria, la strada costeggia la Chiesa comunale [e] continua, attraversando il territorio di quel comune, tutto ben coltivato di vigne, ulivi, ed alberi fruttiferi. Abbandonate le coltivazioni, di cui le meglio intese son cinte di mura, la strada procede per estesi campi di biade, sparsi di castagni e di querce. L’Ononis ologophylla [specie di pianta erbacea n.d.a] ed il Papilio Urtioae [specie di farfalla n.d.a] hanno accresciuto le nostre
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collezioni [Petagna, Tenore e Terrone], i viaggiatori che hanno scritto questa relazione scientifica-diario, erano il primo [Petagna] professore di zoologia e direttore del museo zoologico universitario, il secondo [Tenore] direttore del Real Orto Botanico di Napoli e titolare della cattedra di botanica, il terzo [Terrone] botanico n.d.a.] e lungo questo tratto di strada, che il lento procedere del legno per quest’aspro monte ci ha fatto preferire di fare a piedi. […] Alle due pomeridiane noi siamo nel centro di quest’alto piano [è quello del Galdo n.d.a], non gran fatto diverso da quello di Campotenese, e degli altri che successivamente s’incontrano, attraversando questa catena di monti. Una sorgente di acqua, detta la fontanella, opportuna per abbeverare gli armenti, scaturisce ivi dappresso. Il resto del paese [della contrada n.d.a] è denudato di alberi; cosicché dai monti che lo circondano, precipitose scendono nell’inverno le acque che lo inondano da per tutto. Il suolo per essere coperto delle crete che vi trasportano le alluvioni non è il più felice per la coltura; malgrado ciò, tutto, ne’ siti meno bassi, vedesi seminato di segala e di frumento, e ne’ siti piani prospera il granone. Tutti questi campi sono sparsi di tuguri, presso de’ quali ne’ siti più elevati errano greggie [sic!] di pecore. Questi tuguri per essere sempre costrutti di fabbrica e coperti di tegole, e quasi di fresco imbiancati, fanno fede dell’agiatezza de’ loro padroni. […] Lasciato quell’ingrato suolo, ci siamo trovati in mezzo a boschi di castagni e di cerri sparsi di coltivazioni di biade e lino: […] noi siamo pochi discosti da Castelluccio. La strada per un ora circa di camino prima di questo paese, sembra aperta fra continui giardini piantati di querci [sic!], noci, ciliegi, e viti». Da: LUIGI PETAGNA, GIOVANNI TERRONE, MICHELE TENORE, Viaggio in alcuni luoghi della Basilicata…, 1827, pp. 28-35.
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«Sotto diverse proporzioni, combinazioni e gradi di fertilità si presentano nei terreni [della Basilicata] le ordinarie sostanze argillose silicee e calcaree più o meno ricche di terriccio. La densità degli strati […] varia […] da mezzo piede a molti di essi: la più alta è in fondo alle valli o nelle pianure aggiacenti alle falde dei monti. Quasi tutte pendici montuose, abbassate per cagione delle alluvioni o di altre cause fisiche, mandarono colle acque i loro frantumi a formar depositi nelle località più basse: non poche di quelle alture addivennero incolte e nude per l’intemperanza dei diboscamenti. La coltivazione è quasi totalmente regolata dalle consuetudini passate di padre in figlio. I terreni si lasciano nel riposo fino a tre anni con deplorabile noncuranza: mal si adopra l’aratro; si gettano i semi alla rinfusa, e non si guarda alla scelta dei siti per certe piantazioni; alle piante parassite si concede libera propagazione. Da Pescopagano al fiume Bradano, e da Melfi a Maratea, non si incontrano che campagne trascuratamente coltivate; le acque dei fiumi vi corrono licenziose, gran parte della contrada marittima è ricoperta da stagni e marazzi; più di ogni altra quella di Policoro presso la foce dell’Acri [sic!]. Le proprietà territoriali dividonsi più in grandi che in piccole frazioni. Per lo più sogliono darsi i campi in affitto a triennii ed a sesennii [sic!] mercè convenute prestazioni di generi, oppure in società. Sogliono seminarsi annualmente moggi 576,959 in grani e granoni; 125380 moggia in orzo e avena; 61,500 moggia in legumi di diverse specie e varietà. I bovi e l’aratro non vengono impiegati che nelle basse valli, e nei piani aggiacenti alle montagne: altrove tutti i lavori campestri si fanno con la zappa. In generale la rotazione è triennale; nel primo anno maggese, nel secondo granaglie; nel terzo granaglie in terre forti, oppure segale, orzo ed avena nelle leggeri [sic!]. Circa una terza parte dei terreni coltivati
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resta ogni anno in riposo, ad eccezione di alcune contrade ove provvidamente non si lascia inoperosa. Nelle maggesi si semina il frumentone, ed in mezzo alle sue piante si spargono fagioli, molti perdendone. Nei terreni concimati e lavorati zappa il prodotto delle granaglie è maggiore che in quelli rivoltati con l’aratro e non ingrassati. Nei primi, se sono pianeggianti o marittimi, ogni misura di sementa ne produce sino a dodici negli anni fertili; dieci nei mediocri; otto negli scarsi: e se quei campi sono montuosi, le annue raccolte sogliono estendersi dai cinque sino ai nove per uno. Nei campi poi che furono solamente arati, la massima raccolta è di otto per uno, di quattro n’è la minore. I terreni più ricchi in granaglie si trovano verso il Mare Jonio: quelli che producono le migliori specie, sono in S. Mauro, in Stigliano, in Craco, in Salandra, in Montalbano, in Potenza, in Avigliano, in Oppido, in Acerenza, in Senise, in Pietrafesa [oggi Satriano di Lucania], in Picerno, in Vignola [oggi Pignola], in Gorgoglione, in S. Quirico [oggi S. Chirico Nuovo], in Calvello, in Genzano. La media annua può desumersi dal prospetto seguente: Grani diversi Granone Orzo Avena Fave Fagioli Piselli Ceci Lenticchie Cicerchie
moggi “ “ “ “ “ “ “ “ “
2,635,255 175,036 280,412 395,733 935,544 35,289 38,608 53,106 54,477 49,284
Ascendono ordinariamente ad un milione e settecentomila tomola i grani di diverse qualità che si
consumano dagli abitanti; a cinquecentoventimila quei che si seminano; a trecentottantamila il sopravanzo che si estrae per Napoli e per le coste di Amalfi. Avvertasi che la classe indigente fa gran consumo di granone e di segale. La coltivazione della bambagia [cotone n.d.a] forma ricco oggetto d’industria in molti circondarj [sic!]; soprattutto nei luoghi marittimi, e nelle vicinanze del golfo di Taranto ove è sciolto e grasso il terreno. La maggior quantità e bontà di questa raccolta si ottiene nelle tenute di Montescaglioso, Tramutola, Ferrandina, Salandra, S. Mauro, Craco, Grassano, Bernalda, Grottole, Pomarici [Pomarico], Tursi, Santarcangelo, Stigliano e Montepeloso [oggi Irsina]: quando le piogge non scarseggiano, l’annua raccolta suole ascendere a mille cantara. La sementa del lino e della canapa viene fatta con cura più speciale nei distretti di Potenza e di Lagonegro, che in quei di Melfi, e di Matera: annualmente se ne sogliono fare 6000 cantara del primo e 5000 della seconda; Tursi e Tramutola vantano il vino migliore. L’industria dei filugelli [bachi da seta n.d.a.] è praticata in poche località; tra queste si distinguono S. Mauro, Carbone, Chiaromonte, Teana, ed Abriola: la media raccolta giunge raramente alle 1000 libbre di seta. Per lo più le vigne sono coltivate in terreni tufacei e talvolta in argillosi-calcarei: le viti si sostengono con palme o piccoli pali, legandole ad essi in forma piramidale. Negli anni di media raccolta si ottiene più di 1,200,000 barili di vino; e questo non invidierebbe la qualità vantate dagli stranieri, se fossero adoperate le debite cure enologiche. I petrosi colli vicino a Maratea danno vini spiritosi e delicatissimi: sono assai bianchi anche quelli di Montalbano, Pisticci, Marsico-Vetere [così nel testo originale], Cirigliano, Ferrandina, Laurenzana, Pietrafessa [oggi Satriano di Lucania], Chiaromonte, Maschito,
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Barile, Melfi, Senise etc. Il più vigoroso e quello che raccogliesi sulle falde del Volture [sic!]: dicesi che quando si ripone nelle botti vi si getta un poco di acqua auctoritate Praetoris, pur nondimeno non potrebbe bevesi [sic!] senza aggiungerne altra ancora. In Ferrandina ed in Melfi si fa un moscado [sic!] di ottima qualità. In pochi comuni si trovano vaste piantazioni di olivi: occupano terreni siliceo-argillosi sulle pendici esposte a levante e a mezzodì. Entrano in fioritura sul cadere di Aprile; è raro che in Giugno non sia terminata. Nei forti calori estivi la siccità, le nebbie, il soffio impetuoso di certi venti, gli insetti fanno cadere una gran parte delle olive. Quando la loro raccolta non è contrariata da quelle ed altre cause, se ne sogliono mettere insieme 50,000 staja circa: l’olio che se ne estrae, è per conseguenza molto inferiore ai consumi; per supplire ai quali se ne provvede nei distretti limitrofi del Principato, della Calabria e di Terra di Otranto. L’olio di migliore qualità si ottiene nei territorii di Baragiano, Vietri, Potenza, Balvano, S.Arcangelo, Marsico nuovo [sic!], Gallicchio, Armento, Pietragalla, Ferrandina, Melfi, Maratea, Roccaimperiale [Rocca Imperiale, oggi in Calabria]. Gli alberi da frutta sono ovunque, e ne somministrano di buona qualità; in alcuni territorii sono squisiti. Le pesche, volgarmente dette percoche, di Montalbano, i fichi di S. Arcangelo, Missanello, Pisticci, Ferrandina e Tursi, e i frutto d’inverno di Carbone, Castelluccio, Rivello, Teana e Trecchina sono di ottima qualità: a Roccaimperiale è molto propagata la coltivazione degli agrumi. Tutte le popolazioni soprabbondano di piante ortensi: la coltivazione delle patate si è talmente aumentata in vari luoghi, da formare il cibo giornaliero delle famiglie povere. Le piante ombrellifere del coriandolo e dell’anicio sono indigene di vari terreni, ma in altre si coltivano con molto guadagno.
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Avanti la proibizione il tabacco, specialmente in Senise, dava vistoso profitto, poiché da un campo della superficie di un moggio si ricavava il frutto di circa cento ducati. In certi terreni leggeri e aridi nasce spontaneo lo zafferano, ma non se ne ha veruna cura. Gli aviglianesi potrebbero trarne notabile partito. Il rosmarino, il timo ed il serpillo vegeta da per tutto: ove si tengono api, si ottiene perciò odoroso ed ottimo miele. La Basilicata più di ogni altra Provincia del Regno è ingombra di boschi di alto e basso fusto. Ogni specie di alberi e di arboscelli vegetano ivi benissimo. Nelle contrade di Accettura, Oliveto, Garaguso e Salandra, danno gli orni trenta cantara circa di buona manna. Gli abeti non sono molti e latamente [sic!] disseminati; scarseggiano altresì di pece. Soprabbondano invece di ghiande e faggiole le querce e i faggi. I legnami da ardere sono in quantità di gran lunga superiore ai bisogni della popolazione. Nella vasta estensione delle pendici e cime montuose trovano le mandre [sic!] in ogni tempo fresca e abbondante pastura. Ove più ove meno, sono dappertutto buone erbe ed i fieni naturali […]. Nel 1824 fu compilato il seguente prospetto degli animali domestici di questa Provincia: Pecore Capre Vacche Bovi Majali Cavalli Muli Asini
Capi “ “ “ “ “ “ “
503,196 101,742 23,979 32,749 168,383 8,960 3,711 16,053
Vere razze di cavalli non esistono: scarso è il numero delle giumente gentili, le quali però danno buoni e forti poledri [sic!]. Il maggior numero di ca-
74 valli si trova nei territori di Potenza, Matera, Ferrandina, Venosa, Forenza etc. Per la massima parte questi animali sono destinati alla trebbia ed altri servigi [sic!] campestri. Hanno i bovi una notabile bianchezza: sono reputati i più grandi di ogni altra parte del Regno: i migliori nascono e si allevano nelle campagne di Potenza e Avigliano. I formaggi pecorini e vaccini riescono di eccellente qualità: ignorasene [sic!] la quantità media annua: ricercati assai sono quelli di Potenza, di Craco, di Avigliano, di Muro, di Tursi, di Marsico Nuovo, di Pietragalla, di Montescaglioso, di Pomarica [sic!], di Tito. La raccolta annua delle lane, buone e mediocri, ascende a 15,000 cantara circa. I pollami sono in grande abbondanza, di molto pregio ed a buon mercato». Da: ATTILIO ZUCCAGNI ORLANDINI, Corografia…, 1845, pp. 461- 468. «Fra ruderi di travolgimenti onde nabissarono [sic!] gioghi di monti e valli incurvarono il dorso, fra gli orrori della distruzione e l’incantesimo delle cose create, alternansi le maggiori varietà di superficie. Sovra di quasi undicimila chilometri quadri, un sol’ottavo è di piano: due terzi a colli, a’ pendii: un quinto di giogaie montuose, sovrastanti a bassure e precipizi nefari [sic!]: il Lagonegro, più ch’altro de circondari, ne ha irto o squarciato il petto, ond’appena un ventesimo della ampiezza sua è pianura, un decimo colline: in quella vece ben mezza della superficie piana allieta quel di Matera, ha vaghezza di colli ubertosi: solo penuria, ed è di sua ventura, di inospitali cigli e balze e frane. Melfi e Potenza con varia ragione tramezzano quegli estremi. Li prodotti seguono la varietà della cultura: le culture quelle della superficie. Della quale valga il
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conoscere come ben un quarto sia di strade o sentieri, d’alvei a torrenti e fiumi, di sodaglie, rocce e paludi. Altrettanta superficie tolgono alle coltivagioni [sic!] le macchie boscose: un ottavo il pascolo degli armenti: forse il doppio la incuria umana, tal che terreni vergini di aratro e di marra null’abbiano offerto mai all’uomo che nulla loro chiese: il restante, appena un terzo dell’ampia regione è volto a vigne, oliveti, sementa varie e lini. Onde un solo ettare [sic!] di suol ferace per ogni abitatore: e da quello il frangersi degli omeri o l’acque irrigatrici, o la ubertà del suolo, o la clemenza del cielo, han da trarre cibo bastevole. Ma la virtù del terreno non sovviene, mercè di bonifici o migliorie, quella che pure è scienza l’agricoltura: il suolo squarciato dal sole meglio che dalla marra: l’aratro gli è quel di Trittolemo [secondo la mitologia a lui Demetra insegnò l’arte dell’agricoltura]: la irrigazione gli viene dal cielo: eppure vi spicciano sorgenti purissime e scorrono per ogni dove; ma scorrendo squagliansi, non irrigano: meno ancora salgono o scendono a’ paesi. Niun esempio dalla creazione in poi, a meno dell’età in cui prosperò la Magna Grecia, di opere intese a prosciugare i piani sommersi, disseccare i paludosi, allacciare le acque, riporle in rivi, volgerle a fecondità di campi o ricolti: onde l’agricoltura più che un’industria è un’impresa, un’avventura d’incerto successo, un giuoco nel quale le carte le tiene Iddio e vince il puntatore se quei fa piovere ed a tempo.[…] Mutano poi dall’uno all’altro de’ circondari le culture e le industrie dei campi. Primeggiano nel Materano, come il meno alpestre, biade e uliveti: la vite inghirlanda i colli e gli scarsi piani del Potentino. Nel Melfese e nel Lagonegro irti di boscaglie e gioghi vi hanno piuttosto segni di culture che larga cultura». Da: ENRICO PANI ROSSI, La Basilicata, 1868, pp. 28-30.
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«La politica commerciale iniziata da Cavour, e che ebbe la sua sanzione nel trattato del 17 gennaio 1863 [stipulato con la Francia], favoriva l’agricoltura: Ed un paese essenzialmente agricolo, come la Basilicata, non poteva non risentirne. Nel movimento di larga esportazione di materie prime che l’Italia praticava, non poteva certo la Basilicata pel difetto di comunicazioni concorrere nell’istessa [sic!] misura e con profitto uguale d’altre regioni più favorite: tuttavia grano, lana, formaggi, legname, bestiame, vino, olio, frutti secchi che per loro natura non richiedono rapidi trasporti, venivano largamente esportati, mentre i cereali inferiori ed i legumi servivano più particolarmente al parsimonioso consumo locale. Soprattutto poi la Basilicata non risentiva la concorrenza delle altre provincie [sic!] le quali trovavano nei mercati esteri soddisfacente impiego ai loro prodotti. Né i nuovi bisogni della civiltà […] ancora allontanavano dalla terra una popolazione cresciuta nella parsimonia e nel lavoro». 29.
Da: PIETRO LACAVA, La Basilicata, 1903, p.
«Il clima, freddissimo […] nella parte alpestre di Basilicata, […] copert[a] di neve tre o quattro mesi all’anno, caldo alle spiagge dei due mari e nelle pianure ondulate della Basilicata pugliese, […] sembrava per la sua varietà, prestarsi alla divisione delle colture ed in conseguenze ad un attivo commercio interno. La coltura degli alberi fruttiferi, agrumi, viti, ulivi, che esigono, i due primi sempre, i terzi in alcuni casi, le continue cure del lavorante, sembrava promettere un patto colonico dove il contadino, dividendo col padrone i frutti della terra, interessato quanto lui ad assicurare la riuscita, vivesse vita agiata. E se la
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conformazione fisica del paese, montuoso al centro, privo di porti naturali alla marina, rendeva difficili le comunicazioni e il commercio interno ed estero, sembrava che la fertilità del suolo, il gran valore di alcuni suoi prodotti […] avessero a dare tanta ricchezza di avanzo […] e promettessero tali guadagni in compenso, da spingere all’opera i proprietari più inerti, i capitalisti più timidi. Oggi le condizioni dell’agricoltura sono mutate di poco fuorché in parte dei luoghi dove possono prosperare facilmente le colture arboree, agrumi, ulivi, fichi, viti, con spesa d’impianto piccolissima in confronto del prodotto; le terre o sono incolte, pastura incerta al bestiame grosso o minuto che vaga all’aperto giorno e notte, in ogni stagione, oppure sono coltivate a cereali e a civaie, qualche volta a cotone, ed allora sono grattate con aratri il cui vomere, lungo 30 o 35 centimetri, è largo alla base 8 o 9 centimetri. La mancanza di concime è cagione che convenga lasciar riposare i campi ogni due o tre anni per un tempo più o meno lungo secondo la fertilità o il grado di esaurimento della terra, ed il prodotto del suolo è così scarso, le spighe del grano sono così rade, che, nel mese di settembre, prima dell’aratura, si distinguono a mala pena gli steli delle spighe dai campi seminati, dai fili d’erba secca dei terreni incolti o lasciati a riposo. Soltanto lungo una parte dei fiumi perenni, dei lavori d’irrigazione che innaffiano per lo più solamente la parte più bassa della valle e spesso potrebbero, con poca spesa di più, giovare ad estensioni molto maggiori, permettono una coltura più variata e più abbondante. La sola coltura per la quale si anticipi un capitale un poco maggiore in opere di irrigazione più accurate, o in pozzi con maneggi per trarre acqua dove manchi l’acqua corrente, è quella degli agrumi, dove
76 il tornaconto è grandissimo per l’alto prezzo che si è sempre pagato pei loro frutti, e che è cresciuto in questi ultimi anni, in certi momenti, fino al triplo dell’antico. Adesso [la relazione è stata pubblicata nel 1875] come quattordici anni addietro, sono pochissimi luoghi dove è tratto partito delle ricchezze inestimabili del suolo e del clima. […] In Basilicata si possono citare le terre irrigate della valle superiore dell’Agri e di alcuni punti del suo corso inferiore, gli orti di Senise, e vigne di Potenza, di Rionero e Melfi, gli uliveti di Ferrandina. Ma fuori di quelli e di pochi altri luoghi dove il tornaconto delle colture arboree, la facilità delle irrigazioni, la intelligenza e la costanza di alcuni pochi proprietari sono stati cagione che la produzione fosse maggiore, l’agricoltura si può quasi dire allo stato selvaggio. Si vedono colline che sembrano fatte apposta per la coltura, appena coltivate; gli altipiani dell’Appennino abbandonati alla felce, le sue pendici in gran parte diboscate […] le pianure e le colline del Materano e del Melfese sono in parte del tutto incolte, in parte a riposo da uno e spesso più anni, in parte grattate dagli aratri in modo che le erbacce e gli steli del raccolto precedente sono appena smossi; nei terreni argillosi del mezzogiorno di Basilicata, colline intere sono state portate via dalle acque; dei rigagnoli, prima appena visibili, si vanno scavando fosse profonde dieci e più metri, il suolo è dappertutto tormentato, tagliato, franato, forato, e qua e là qualche guglia di terra tenuta in piedi qualche anno di più da una pianta cresciuta a caso il quel punto del suolo, sembra rimasta per mostrare quanto sarebbe stato facile salvare anche il resto». Da: LEOPOLDO FRANCHETTI, Considerazioni…, 1875, pp. 58-64.
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«Le cause che indussero a favorire la produzione del vino in Italia ebbero anche in Basilicata la loro influenza, e rapidamente in alcune zone di essa si cominciò la trasformazione, impiantando numerosi ed estesi vigneti che assicuravano vantaggiosi prodotti. Ma questo periodo di fallaci illusioni e relativo benessere racchiudeva in sè [sic!] il germe dei futuri danni. […] [Intorno al 1880 c’era] la massima valutazione dei fondi da parte dei Crediti fondiari. […] A quell’epoca, secondo dati cortesemente favoritimi dal direttore generale della Banca d’Italia, i terreni seminativi in piano venivano valutati da lire 800 a lire 1,200 l’ettaro e quelli in colle da 500 a 800; i terreni pascolativi in piano avevano il valore di lire 400 a 600 ed in montagna da 300 a 500. Con uguale cortesia mi furono comunicati i dati valutativi dal direttore generale del Banco di Napoli, che corrispondono da lire 797 a lire 125 ad ettaro per terreni seminativi in piano o ortalizi, per i vignati e frutteti da 32129 a 2588, per i seminativi macchiosi o semierbosi o alberati da 390 a 797, per gli olivetati 1602 e per i boschivi 715. Quanta differenza dai prezzi odierni! […] Il periodo di relativo benessere cominciò a decrescere dopo la tariffa doganale 1° luglio 1878 che già congiurava ai danni dell’agricoltura. Nel 1885 vedevansi [sic!] i primi sintomi del male e nella relazione ufficiale del Ministero d’agricoltura sull’ammontare dei fitti così si diceva: “Nella provincia di Potenza soltanto per alcune contrade si notava qualche aumento di fitti: ora però si lamenta il ribasso del quale sono cause […] l’emigrazione, che sottrae molte e valide braccia ai lavori campestri, e la ripartizione dei demani comunali che tramutò molti contadini in proprietari. Lamentasi [sic!] nella estesa Basilicata la grave mancanza delle
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macchine agrarie e se ne richiede larga diffusione. È manifesta la sofferenza dei proprietari e dei fittaiuoli, mentre per converso si possono dire sensibilmente migliorate le condizioni degli operai per i salari accresciuti e per i prezzi menomati dei viveri». Da: PIETRO LACAVA, La Basilicata, 1903, pp. 30-31.
«Il Ministero di agricoltura ha soppresso dal 1896 la rilevazione dei dati per la maggior parte dei prodotti. Notizie più abbondanti si hanno dal 1884 al 1895, ma incomplete. […] Il difetto maggiore si ha per i prodotti dell’industria armentizia, riferendosi i dati ufficiali per pochi anni soltanto alla lana, ai formaggi, al burro, alla ricotta ed ai latticini diversi. […] Impressiona la diminuzione […] nella produzione dei generi di consumo locale, quali il granturco, le patate, le leguminose. Il granturco […] da 513.000 ettolitri rappresentanti la media 1879-83, scende a 55.000 nel 1902. […] La diminuzione è cominciata sensibilissima nel 1888, ed è diminuita la stessa superficie coltivata, che da 37.133 ettari è stata ridotta a 18.000. Per le leguminose e le patate […] possiamo constatare che le prime da ettol. 208,172 diminuiscono a 119,353 nel 1895 su una superficie [passata] da ettari 21,235 ad ettari 20,033, cioè ridotta di circa 1200 ettari; le seconde scendono […] da quintali 640,353 a 191,472 con una variazione di superficie coltivata da 16,344 a 13,107 ettari». 31.
Da: PIETRO LACAVA, La Basilicata, 1903, p.
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«Col decrescere dell’industria armentizia, […] ha rapporto quello dell’avena, dell’orzo, della segala, del fieno, dell’erba, e dei prati artificiali. L’avena […] da ettolitri 642,305 nella media 1879.83 scende ad ettolitri 300606 nel 1895 con una diminuzione d’oltre 10,000 ettari di superficie coltivata; l’orzo da 281,532 ettolitri scende nello stesso anno ad 88,872 con una superficie in meno di 9,000 ettari circa: la segala da 15,291 ettolitri giunge pure nel 1895 ad ettolitri 8,288, riducendosi a metà della superficie coltivata. Il fieno e l’erba da Q. 477,521 e 1,062,382 nella media 1879-83 diminuiscono rispettivamente a 180,228 e 365,571 quintali: così la produzione dei prati artificiali scende nell’istesso [sic!] periodo da 365,470 a 39,438 quintali. […] Una diminuzione si verifica anche nelle coltivazioni più costose, ed i vigneti vengono ridotti da 41,531 ettari, quanti erano nel 1894, ad ettari 36,000 nel 1902. La produzione vinicola è in conseguenza diminuita: a confronto del massimo di ettolitri 688,475 ottenuto nel 1892 sulla superficie di 40,268 ettari stanno i 480,000 ettolitri ottenuti nel 1902, annata prospera di fronte alle altre anteriori. Così nella coltivazione del grano, che è uno dei maggiori prodotti della Provincia e che richiede annualmente minore impiego di denaro, si verifica pure una diminuzione, sia nella superficie coltivata che da 188,766 secondo la media 1879-83 è ridotta a 130,000 nel 1902, sia nella produzione annuale scesa da 1,661,538 ad 1,100,000 ettolitri. […] Diminuita è pure la superficie coltivata a castagne, ridotta da ettari 3,545 nel quinquennio 187983 ad ettari 2,938 nel 1895, con una produzione da quintali 32,586 a 18,596. Scomparsa del tutto è la coltivazione della canapa e del lino. […] Fanno eccezione nell’aumento della superficie coltivata gli oliveti e gli agrumeti. Nella provincia ai pini, abeti, faggi e querce rimasti sulle poche vette
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non ancora vandalicamente disboscate fa riscontro l’ulivo e l’arancio nella costa Ionica e Tirrena. La produzione dell’olio segna una linea a salti, non saprei dire se per difetto di esattezza delle notizie statistiche, o per causa di malattie che affliggono l’ulivo. Nel quinquennio 1879-83 si ebbero in media da 36,978 ettolitri su 14,104 ettari di superficie coltivata fino a 58,000 ettolitri nel 1897 con una superficie coltivata di ettari 24,247, e segna un notevole aumento il 1901 giungendovi alla cifra eccezionale di 70,000 ettolitri. Ugualmente a salti è la produzione agrumaria. Così nel quinquennio 1879-83 si ebbero 46,050 centinaia di frutti da 21,399 piante, e 62,000 centinaia di frutti nel 1902 da 30,000 piante, mentre si verifica una notevole diminuzione in confronto dell’annata 1890 nella quale da 26,549 piante si ebbero 69,227 centinaia di frutti». 13.
Da: PIETRO LACAVA, La Basilicata, 1903, p.
«Né va dimenticata l’industria armentizia. I capitali venivano a preferenza investiti in essa, ed enti e privati facevano a gara per avere numerosi greggi che l’ordinamento sociale dei tempi, le estesissime boscaglie e la vastità dei pascoli largamente favorivano. Un complesso di cause politico-sociali […] portò coi tempi nuovi un radicale cambiamento dando prevalenza maggiore alla coltivazione delle terre. Cominciò allora la decadenza dell’industria armentizia, resa in seguito più rapida dalle disagiate condizioni economiche che spingevano a realizzare denaro con prontezza e nei modi anche più rovinosi, prima per acquistare beni ecclesiastici e demaniali, poi per far fronte all’esigenze dei creditori del fisco ed a spese maggiori della vita.
Secondo dati statistici raccolti con paziente cura dal Racioppi nella sua storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, nell’intera regione s’avevano nel 1822 capi 788,718 di bestiame, cioè 503,000 pecore, 101,734 capre, 57,600 buoi e vacche, 126,384 maiali. Nel 1840 le sole pecore venivano numerate in 757,119; cifra più alta di tutte le altre provincie [sic!] e che lascia supporre un corrispondente aumento nelle altre specie di bestiame. Nel 1875 si era già discesi a 556,614 capi tra bovini, ovini, caprini e suini, secondo la statistica pubblicata dal Ministero di Agricoltura. E secondo quella pubblicata dal Ministero stesso per l’anno 1881, la discesa continua ancora giungendosi a 538,824 in tutto, cioè 41,364 bovini, 359,833 ovini, 112,394 caprini, e 25,929 suini. Da notare, quale indice di gravissimo disagio economico, è l’eccessiva diminuzione dei suini, ramo d’industria che, per il modestissimo capitale occorrente e per la possibilità di adibirvi fanciulli non atti ancora al faticoso lavoro dei campi, è volentieri e più facilmente praticata. 16.
Da: PIETRO LACAVA, La Basilicata, 1903, p.
«Parrebbe […] che con un reddito così scarso dovesse essere impossibile vivere. E così sarebbero realmente se non concorressero talune peculiari condizioni. La persona del produttore e quella del consumatore quasi sempre coincidono: così la spesa della mano d’opera rientra direttamente in quella del consumo. Inoltre grandissima è la parsimonia lucana e pei contadini costituisce una potente risorsa il sec-
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cume [pere, mele e fichi secchi], di cui le statistiche non tengono conto alcuno, e l’uso civico. […] Troviamo da un lato che la superficie coltivabile si è ridotta e dall’altro che l’industria armentizia è diminuita. Sembrano due fatti contraddittori, ma l’apparente contraddizione si spiega. La prima si è ridotta perché la terra cui è venuto a mancare quel concime naturale e prezioso, che le veniva dai numerosi armenti, si è depauperata e non rende di fronte alla spesa di produzione; la seconda è diminuita e decade continuamente perché le fitte boscaglie, le pingui macchie o fratte [selve basse] furono disordinatamente disboscate e con maggior disordine dissodate per averne nei primi anni lauti prodotti, ed ora sono quasi tutte franate od addivenute brulle per natura del terreno argilloso e per mancanza di reggimentazione [sic!] delle acque, e non vi nasce più un fil d’erba; è diminuita perché il proprietario se ne è disfatto per sopperire ad altri bisogni, o per liberarsi dalle tasse; è diminuita perché mancano i capitali per l’allevamento e perché è inaridita ogni sorgente di vita di fronte alla pressione tributaria». Da: PIETRO LACAVA, La Basilicata, 1903, pp. 21-22.
«Pochissimi proprietari in epoche più felici, dove la condizione dei luoghi e la facilità di accesso lo permettono, hanno cercato d’introdurre razionali culture e l’uso di macchine e di concimi chimici, ma sono rari nantes. L’agricoltura langue da per tutto, ed appena si rompono le zolle con l’aratro a vomero [sic!] ed a chiodo […] per affidarvi lo scarso seme spesso tolto ad imprestito [sic!] con gravissima usura.
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Quanto ai contadini, alla loro vita, agli squallidi tuguri in cui hanno ricetto [sic!], minacciati spesso in molti abitati da paurose frane, nulla dirò io per tema che mi si tacci d’esagerazione. […] In tale stato di disagio economico non sono avvenuti in Basilicata e speriamo non avverranno, né moti violenti ed incomposti né ribellioni. La fierezza Lucana non permette patire, e si emigra». Da: PIETRO LACAVA, La Basilicata, 1903, pp. 24-25.
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Costantino Conte - Angelo Labella - Ezio M. Lavoràno
Bibliografia VINCENZO CORRADO, Notiziario delle particolari produzioni delle province del Regno di Napoli, seconda edizione. Migliorata ed accresciuta da un discorso a difesa dell’Agricoltura, e Pastorizia, Napoli, Stamperia del Giornale delle Due Sicilie, 1816 LUIGI PETAGNA, GIOVANNI TERRONE, MICHELE TENORE, Viaggio in alcuni luoghi della Basilicata e della Calabria citeriore effettuito nel 1826, Napoli, Tipografia francese, 1827 MICHELE TENORE, Cenno sulla geografia fisica e botanica del Regno di Napoli, Napoli, Tipografia Zambraja, 1827 CARLO AFAN DE RIVERA, Considerazioni su i mezzi da restituire il valore proprio a’ doni che ha la natura largamente conceduto al Regno delle due Sicilie, II ed., voll. I-II, Napoli, Stamperia e cartiera del Fibreno, 1833 LUIGI GRANATA, Economia rustica per lo Regno di Napoli: contenente i principi ed i calcoli onde stabilire su i campi arabili i buoni sistemi d’industria campestre e prevederne i risultamenti.Trattato elementare teorico – pratico, II ed., Napoli, Tipografia del Tasso, 1835 ATTILIO ZUCCAGNI-ORLANDINI, Corografia fisica, storica e statistica dell’Italia e delle sue isole: corredata di un atlante, di mappe geografiche e topografiche, e di altre tavole illustrative, suppl. vol. 11, Firenze, 1845 GIACOMO RACIOPPI, Sui tremuoti di Basilicata nel dicembre 1857, Napoli, Stab. Tipografico della Gazzetta dei Tribunali, 1858 ENRICO PANI ROSSI, La Basilicata, Verona, G. Civelli, 1868 LEOPOLDO FRANCHETTI, Condizioni economiche ed amministrative delle province napoletane: Abruzzi e Molise-Calabrie e Basilicata: appunti di viaggio, Firenze, Tip. della Gazzetta d’Italia, 1875
ANGELO BOZZA, La Lucania. Studii storico-archeologici, vol. I. Rionero, Tipografia Torquato Ercolani, 1888 PIETRO LACAVA, La Basilicata. Lettera aperta all’onorevole Maggiolino Ferraris, estratto dalla «Nuova Antologia», 1° maggio 1903, Roma, 1903 PIERO BEVILACQUA, Terre del Grano Terre degli Alberi, Rionero in Vulture, Calice editori, 1992 MICHELANGELO MORANO, Storia di una società rurale. La Basilicata nell’Ottocento, con prefazione di GABRIELE DE ROSA, Roma-Bari, Gius. Laterza & Figli, 1994 NINO CALICE, Lotte politiche e sociali in Basilicata 1898-1922, ristampa e postfazione a cura di Angelo Labella, Rionero in Vulture, Calice editori, 2008 [19741]
La trasformazione del paesaggio agrario in Basilicata nel XX secolo Valerio Giambersio, Carmela Menchise
“E la mestizia infinita delle nostre pianure desolate e la tristezza solenne dei nostri monti lasciano tracce indelebili nell’anima nostra e noi siamo veramente un popolo perché abbiamo un’anima collettiva” Francesco Saverio Nitti, 1896
L’evoluzione del concetto di paesaggio
P
er comprendere compiutamente l’evoluzione del paesaggio agrario in Basilicata nel XX secolo bisogna considerare qual è stato il dibattito culturale e normativo che si è sviluppato in Italia e nel contesto internazionale a partire dall’inizio del novecento, in relazione al paesaggio in generale e poi specificamente relativamente al paesaggio agrario. Questa doverosa premessa, lungi dall’essere il pretesto per una sterile dissertazione, serve a chiarire gli equivoci che può generare il termine stesso di ‘paesaggio agrario’ che coniuga due elementi dei quali il primo ha subito una trasformazione notevole proprio durante il secolo passato. Come spiegato anche più avanti nel saggio di Palmarosa Fuccella, il paesaggio, così come è inteso in senso moderno, è infatti un concetto acquisito solo nel 1500 come tematica autonoma all’interno della cultura e della storia dell’arte occidentale. Ernst H. Gombrich parlando de La Tempesta del Giorgione, nota infatti come in questo dipinto “…per la prima volta pare che il paesaggio in cui gli attori si muovono non sia un semplice sfondo, ma abbia la sua autonomia e sia il vero tema del quadro”. Il paesaggio presuppone infatti l’esistenza non solo di una veduta ma almeno la presenza di uno spettatore
104 che sia in grado di interagire, di animare e soprattutto di comprendere e dare un senso al panorama percepito. Dunque i termini antinomici di soggetto e sfondo, di natura ed artificio, di ambiente selvaggio e di azione umana risultano gli elementi inscindibili che sono alla base di ogni discorso possibile sul paesaggio e la diversa modulazione di questi componenti, generata dai mutamenti storici, tecnologici, sociali ed economici, determina una evoluzione del concetto di paesaggio. È così che la veduta chiusa nei margini in un quadro, con l’affermarsi del barocco e poi con il neoclassicismo, diviene un elemento troppo riduttivo per contenere il paesaggio, le prospettive sono talmente dilatate che danno l’illusione di sfondare le volte, gli spazi divengono così ampi che necessitano una fruizione dinamica, una partecipazione dello spettatore che elabora molteplici vedute in una esperienza quadridimensionale, dove il tempo è un elemento fondamentale. Questa nuova visione può arrivare anche a ricomprendere un intero territorio così come avviene, per esempio, nelle architetture urbane della Roma settecentesca o, in un ambito rurale, nella reggia di Versailles o anche nella reggia di Caserta. Per questa via si arriva alla celebre definizione formulata da William Morris che, sul finire dell’ottocento, considera l’architettura come “l’insieme delle modifiche e della alterazioni operate sulla superficie terrestre, in vista delle necessità umane, eccettuato il puro deserto”. Dunque l’architettura ed il paesaggio arrivano di fatto a coincidere per cui ogni cosa racchiusa nell’orizzonte, compresa la natura trasformata per gli scopi umani, compone il paesaggio. In questo modo non vi sono più vedute principali e vedute secondarie ma l’intero orizzonte che viene attraversato dallo sguardo e tutto ciò che l’uomo modifica “per le
Valerio Giambersio e Carmela Menchise
proprie necessità” (e dunque non solo per fini estetici) può essere considerato architettura e quindi arte. Da questo caposaldo deriva in modo evidente la definizione formulata da Emilio Sereni a metà degli anni ’60 che definisce paesaggio agrario “quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale”. Siamo così giunti alla premessa del concetto di territorio che di fatto include e supera quello di paesaggio e che negli anni ’90 è stato definito da Alberto Magnaghi come «un organismo vivente ad alta complessità, un neoecosistema in continua trasformazione prodotto dall’incontro tra eventi culturali e natura, composto da luoghi (o regioni o ambienti insediativi) dotati di identità, storia, carattere, struttura di lungo periodo, che formano i ‘tipi’ e le individualità territoriali ed urbani».
Parallelamente a questa evoluzione del concetto di paesaggio elaborata a livello culturale ve ne è un’altra, altrettanto mutevole, elaborata in Italia a livello giuridico sempre nell’ambito del ventesimo secolo e che va anch’essa considerata. L’art. 1 della legge sulla protezione delle bellezze naturali del 1939 [L. n. 1947/1939] definiva meritevoli di tutela le bellezze panoramiche come “quadri naturali e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di queste bellezze”. Come si può notare siamo anche in questo caso si fa riferimento al concetto di ‘quadro’ e si prevede l’istituzione di appositi elenchi restringendo il campo di applicazione della legge; viene tuttavia introdotto lo strumento del piano territoriale paesistico, considerato soprattutto uno strumento vincolante, relativamente
La trasformazione del paesaggio agrario in Basilicata nel XX secolo
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alle “vaste località incluse nell’elenco”. In questa definizione e nella struttura della legge del 1939 è esplicito il riferimento ad una concezione che vede il paesaggio come una specie di fenomeno eccezionale, prezioso ed unico, riferibile concettualmente alla natura e non alle attività umane di trasformazione e che va anzi soprattutto tutelato per evitare che queste azioni non regolamentate possano deteriorarlo o distruggerlo. Non è un caso che quasi contemporaneamente, sempre nel giugno del 1939, sia stata varata con legge separata la normativa italiana sulla tutela delle cose di interesse artistico e storico [L. n. 1089/1939] e vale anche la pena di considerare che la legge urbanistica è stata approvata solo nel 1942 [L. n. 1460/1942]. Questo impianto normativo, costituito in epoca fascista, vede concettualmente distinte le normative relative alla tutela del patrimonio storico e artistico da quelle sulla protezione delle bellezze naturali ed entrambe queste ultime appaiono quasi antitetiche a quelle che disciplinano la trasformazione del territorio. Pur confermando le leggi esistenti l’art. 9 della Costituzione Italiana, introduce qualche elemento di innovazione poiché afferma che “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione” non solo unificando i termini del paesaggio e del patrimonio storico ed artistico ma legandoli al concetto più ampio della promozione della cultura e della ricerca. Come evidenzia Salvatore Settis questa impostazione deriva dalla tradizione italiana delle normative su beni culturali che risalgono all’epoca preunitaria e che sono sempre state orientate in primo luogo alla conservazione e alla tutela al fine di evitare la dispersione dell’enorme patrimonio culturale italiano che ha peraltro la caratteristica di essere diffuso su tutto il territorio nazionale. La creazione di elenchi
di “cose notevoli” è in questa ottica il primo passo per la tutela che va garantita in via prioritaria con norme, vincoli, divieti e prescrizioni. È da sottolineare come questa impostazione ha consentito in moltissimi casi l’effettiva conservazione di beni che, altrimenti, sarebbero andati distrutti, dispersi o trafugati ed ha di fatto consolidato un primato italiano nel campo della conservazione e della tutela dei beni culturali. Tuttavia l’applicazione di questa logica al paesaggio, che per sua natura è un elemento vivo assai dinamico, nel quale si incrociano il piano della fruizione estetica ma anche quello dell’uso delle risorse a fini produttivi, è risultata presto assai problematica. Non è un caso che, di fronte ad una mancata attivazione dei piani paesaggistici, la cosiddetta ‘legge Galasso’ [L. n. 431/1985] negli anni ’80 interviene per estendere gli ambiti tutelati arrivando a sottoporre a vincolo considerevoli porzioni del territorio nazionale ponendo nei fatti la questione della possibilità reale di pensare alla conservazione di un paesaggio isolato dal contesto in cui esso è collocato. Una ulteriore evoluzione normativa è stata poi determinata a partire da metà degli anni ’70 dalla progressiva attivazione delle Regioni che hanno sempre più ampliato le proprie competenze fino alla riforma del Titolo V della Costituzione [L. n. 3/2001], suscitando nuovi conflitti in materia paesaggistica con le attribuzioni concorrenti del Ministero per i Beni Culturali e delle Soprintendenze. Si arriva così nel 2004 dopo un percorso tortuoso, che qui tralascio per limiti di trattazione, alla formulazione contenuta nel Codice per i Beni Culturali e del Paesaggio [D. L. n. 42/2004] che al comma 1 dell’art. 2 definisce che “il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici” riunificando nei fatti la distinzione preesistente e muovendosi, pur con qualche incertezza, nella
106 direzione del recepimento dei principi sanciti dalla Convenzione Europea del Paesaggio. Questa Convenzione è un documento adottato nel luglio del 2000 dal Comitato dei Ministri della Cultura e dell’Ambiente del Consiglio d’Europa, sottoscritto nell’ottobre delle stesso anno a Firenze e definisce che il termine paesaggio “designa una parte di territorio, così come percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni.” ed inoltre all’art. 2 specifica che la convenzione “si applica a tutto il territorio delle Parti e riguarda gli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani. Essa comprende i paesaggi terrestri, le acque interne e marine. Concerne sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiana, sia i paesaggi degradati”. Come si vede anche a livello normativo il paesaggio viene ormai trattato come un bene da considerare nella sua interezza e dove il concetto di “veduta notevole” lascia il posto a quello di un territorio popolato e sul quale si intrecciano e si stratificano molteplici “fattori naturali e umani”. Per quanto riguarda i limiti di questo saggio si evidenzia come la Convenzione fa esplicito riferimento agli spazi rurali ed anche il Codice mette in risalto tale aspetto specificando che nell’ambito dei piani paesistici va riservata particolare attenzione alla salvaguardia delle aree agricole che sono addirittura associate, in questo articolo, ai siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco. Sulla base delle definizioni sopra riportate e considerando i principi teorici fin qui acquisiti, si comprende come il concetto di paesaggio agrario, declinato in una regione coma la Basilicata che fino agli anni ’50 ha fondato la sua economia in modo prevalente sull’agricoltura, diviene uno degli elementi più rilevanti per l’interpretazione non solo della morfo-
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logia e dell’ambiente naturale ma soprattutto per la comprensione delle dinamiche sociali, culturali ed economiche che hanno consentito la trasformazione di questa regione nella seconda metà del ’900. Più che pensare ai cambiamenti del paesaggio agrario della Basilicata come ad una sequenza diacronica di ricostruzioni ambientali o di vedute, che al massimo possono descrivere più o meno fedelmente un passato ormai lontano, si tratterà dunque di ricercare gli intrecci di cause e di motivazioni legate all’attività umana che hanno determinato la trasformazione del paesaggio agrario nel ventesimo secolo in una dinamica continua che ha le sue premesse nel processo di unificazione dell’Italia ed arriva fino alle vicende contemporanee. Bisogna ricordare infine che in questa dinamica, paradossalmente, appare particolarmente importante il ruolo svolto dal travolgente e spesso incontrollato processo di sviluppo delle aree urbane regionali e che nella sostanza si propone come uno ‘specchio’ rispetto a quanto è avvenuto nell’ambito del paesaggio agrario. La trasformazione del paesaggio agrario in Basilicata Dall’unità d’Italia all’inizio del ‘900 Il passaggio dalla fine dell’ottocento all’inizio del novecento è stato cruciale per quanto riguarda il paesaggio agrario del Mezzogiorno ed anche della Basilicata per due fenomeni collegati. Anzitutto sono andati a compimento l’eversione della feudalità e la vendita dell’ingente patrimonio ecclesiastico confiscato dopo la costituzione dello Stato unitario; in secondo luogo, in conseguenza di tale nuovo assetto fondiario, si è registrata una accelerazione
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dell’opera di disboscamento della regione che di fatto ne ha trasformato in modo radicale il paesaggio. Come sottolinea Emilio Sereni «[...] nelle provincie dell’Italia meridionale e insulare, dall’età del Risorgimento all’Unità, l’evoluzione delle forme del paesaggio agrario appare dapprima dominata, piuttosto che dagli agenti di una rivoluzione agronomica, da quelli che operano nel senso di un largo (se non profondo) sconvolgimento dei rapporti di proprietà sulla terra. [...] Tra il 1861 e il 1899, il ritmo delle quotizzazioni si fa più serrato, nel corso di meno di trent’anni 193.000 ettari vengono ripartiti tra 202.000 quotisti: ma, ancor più rapidamente di quel che non fosse avvenuto nei decenni precedenti, le piccole quote assegnate ai lavoratori agricoli delle campagne meridionali si riconcentrarono nelle mani di pochi ‘galantuomini’: proprio così, anzi – oltre che con l’usurpazione dei demani comunali – si vengono ingrossando i patrimoni terrieri della nuova borghesia terriera meridionale».
Per quanto riguarda la situazione specifica della Basilicata la vendita dell’ex patrimonio ecclesiastico diviene l’occasione imperdibile per la costituzione di nuove grandi proprietà terriere ed a tal proposito sono illuminanti le riflessioni di Raffaele Giura Longo: «La borghesia lucana [...] si applicò a spartirsi le spoglie di quella crisi religiosa, ponendo le mani sull’enorme proprietà ecclesiastica confiscata privatizzandola a proprio esclusivo ed individuale vantaggio ed anche a proprie spese, cioè indebitandosi oltre ogni ragionevole limite, cercando poi di rivalersi a carico delle classi subalterne dei fittavoli e dei salariati ed intensificando il semina-
107 tivo a danno delle splendide e rigogliose, oltre che necessarie, foreste».
Per avere un’idea della dimensione di questi cambiamenti basti considerare che dal 1866 al 1915 sono stati venduti in Basilicata oltre 6.700 lotti di immobili rinvenienti dai soppressi enti ecclesiastici per un valore di 12 milioni di lire dell’epoca. La spesa sostenuta per l’acquisizione di questi patrimoni gravò sulla nuova borghesia terriera in modo così pesante da non consentire alcun altro investimento per trasformare in senso moderno le aziende acquisite. A tal proposito Manlio Rossi Doria evidenzia che: «L’immissione sul mercato, tuttavia, di una così imponente massa di beni fondiari assorbì la massima parte dei patrimoni liquidi e dei risparmi, scoraggiò investimenti produttivi e sottopose i nuovi proprietari a un indebitamento, i cui oneri divennero insopportabili allorquando, pochi anni dopo, la crisi agraria abbassò i prezzi agricoli e falcidiò i redditi fondiari». [Rossi Doria, 2003]
In più si fa notare che questa vendita avvenne all’indomani della vittoria sul brigantaggio e pertanto: «vennero esclusi dal beneficio i contadini nel senso che a loro vantaggio, a differenza delle privatizzazioni demaniali precedenti, non si previde neppure in via di principio una qualsiasi forma di accesso diretto alla terra. Ciò sanciva molto pesantemente la sconfitta dei contadini e delle tendenze democratiche risorgimentali e costituiva il risultato politico più cospicuo raggiunto nel Mezzogiorno d’Italia dallo Stato liberale, che dava in tal modo un segnale preciso alla borghesia meri-
108 dionale, invitandola ad affrettare ed assecondare la costruzione del blocco industriale-agrario, come unica alleanza possibile e consentita tra nord e sud del Paese». [Giura Longo, 1992]
Il patto alla base di questa alleanza era basato sulla politica che ha introdotto i dazi a protezione dei prodotti industriali e, simmetricamente, i dazi a protezione della cerealicoltura meridionale che incideranno notevolmente ed in modo negativo sulla riconversione agricola di vaste aree del Sud e saranno una delle cause che contribuiranno ad aumentare il divario tra l’economia meridionale e quella del Nord. [Rossi Doria, 2003] Questa politica è infatti definita addirittura come un ‘pactum sceleris’ con il quale i monopolisti industriali comprarono la complicità dei latifondisti meridionali favorendo l’affermazione della coltura granaria estensiva, spesso a scapito delle superfici boschive, [Pepe, 2005] costituendo un formidabile ostacolo al progresso agronomico nel Mezzogiorno. La saldatura tra Stato unitario e borghesia agraria in Basilicata è ancor più evidente se si considera che proprio gli esponenti maggiori della classe politica post-unitaria beneficiarono di questa situazione diventando nuovi grandi proprietari a scapito soprattutto dei contadini, del tutto esclusi da questo processo, e dei ceti ecclesiastici. A tal proposito nota acutamente Sereni che «ove, ad una notevole estensione della proprietà borghese, non corrisponde una analoga riduzione della proprietà feudale, che continua anzi sovente a dominare, con la sua impronta, tutti i rapporti sociali in quel dato ambiente, nel quale la stessa nuova grande proprietà borghese finisce così con l’assumere colorito e caratteristiche semifeudali».
Il paesaggio agrario della Basilicata si affacciava
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dunque al nuovo secolo sostanzialmente trasformato ed il dato più rilevante è senza dubbio la deforestazione che non tarderà a far sentire i suoi effetti. I dati precisi sul fenomeno non sono noti a causa di alcune discrepanze sui sistemi di rilevamento dei dati nelle varie epoche; tuttavia si riportano solo due stime per avere un’idea della dimensione dell’aggressione subita dal patrimonio boschivo della regione. Nel 1860 erano presenti in Lucania circa 380.000 ha di foreste mentre nel 1930 erano poco più di 130.000 per poi passare a 150.000 negli anni ’50 [Fontana, 2004]. Tali dati convergono con quelli complessivi riguardanti il Mezzogiorno e le Isole riportati da Sereni che evidenzia come dai 2.094.000 ettari di bosco del 1860 si passi ai 1.371.000 del 1911 ed ai 1.277.000 del 1929 e fa notare come disboscamenti di tale «entità spaventosa [...] già avviati nel Mezzogiorno dopo l’eversione dalla feudalità, incidono ormai paurosamente sulla degradazione del paesaggio meridionale. In poco più di un cinquantennio, la superficie delle selve si riduce, in queste regioni, quasi della metà, in conseguenza di disboscamenti e di dissodamenti inconsulti, che minacciano ormai l’integrità stessa del suolo agrario e degli abitati di intere provincie».
È da notare che in precedenza il bosco era ampiamente utilizzato per gli usi civici come risorsa naturale in grado di integrare il reddito misero dei contadini sia per la raccolta della legna, sia per l’approvvigionamento della materia prima per gli artigiani del legno, sia infine come risorsa per la produzione di bacche utilizzate come mangime per l’allevamento degli animali domestici. Tutti questi usi vennero progressivamente meno, immiserendo ancor più il ceto dei contadini passando da un assetto fondiario basato sui campi aperti ad un sistema caratterizzato
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dai campi chiusi. Questa trasformazione incide non poco anche sul paesaggio tanto che Sereni osserva che sono tutt’ora visibili le tracce «che le quotizzazioni dei demani realizzate in questa età, hanno lasciato nel paesaggio meridionale, con i resti di muretti a secco o di macerie, destinate a chiudere i piccoli lotti dei singoli assegnatari. Generalmente, lo sappiamo, questi piccoli lotti furono rapidamente riassorbiti e riconcentrati nella nuova media e grande proprietà borghese dei galantuomini. [...] Lo stesso latifondo nobiliare, d’altronde, si vien sovente adeguando, per questo verso, alle nuove esigenze ed alle nuove norme giuridiche caratteristiche per una società ormai dominata, nel suo complesso, dai rapporti di proprietà capitalistici: sicché anche qui, se non sempre di un regime di campi chiusi, si può ormai
109 generalmente parlare, anche nel Mezzogiorno e nelle Isole, di un regime di proprietà chiuse, ben più severamente che per il passato delimitate e sorvegliate ai loro confini».
Iniziano ad emergere in questo periodo dal paesaggio prima del tutto desolato «il nereggiare degli appezzamenti a maggese, gli stecconati, le siepi, i fossati che chiudono le proprietà e i campi» [Sereni, 2007]. In questo panorama sostanzialmente negativo una nota positiva è costituita dagli ‘agricoltori distinti’ che, pur rimanendo casi sostanzialmente sporadici, introdussero in Basilicata già alla fine dell’ottocento le prime innovazioni tecnologiche, di cui si parlerà in seguito, e le prime innovazioni organizzative soprattutto nella conduzione delle aziende agricole di grande dimensione [Sinisi, 1989].
Tav. 1 – Il viaggio di Zanardelli in Basilicata Fonte: AA.VV., La borghesia tra ottocento e novecento in Basilicata, Calice Ed., 2006, p. 73
110 Dalla legge Zanardelli al fascismo «Percorsi più giorni distese di monti, nudi, brulli, senza qualsiasi produzione, senza quasi un filo d’erba e avvallamenti altrettanto improduttivi. Si correva per ore ed ore senza trovare una casa, ed al desolato silenzio dei monti e delle valli succedeva il piano mortifero, dove fiumi sconfinati scacciarono le colture, straripando, impaludarono. E vidi ad esempio il letto dell’Agri, e l’acqua vagente non avere quasi corso in quelle sterminate arene». [Zanardelli, 1902]
È questo il ‘paesaggio agrario’ della Basilicata che si manifesta a Zanardelli durante il suo viaggio del 1902: il fenomeno del disboscamento, che in soli cinquant’anni aveva dimezzato le foreste lucane, è
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riportato in tutta la sua cruda evidenza ed in tutta la sua pericolosità non solo nella retorica ma anche nelle analisi tecniche condotte a seguito del celebre viaggio del Presidente del Consiglio. «Se si parte dalla metà circa del secolo passato – scriveva l’ingegnere Sanjust per Zanardelli – si constata che in quel periodo di tempo la Basilicata con una doppia superficie di bosco, con una fiorente industria armentizia, conseguiva una produzione assai più elevata dell’attuale. [...] Intanto le montagne denudate, profondamente corrose, venivano ridotte a terreno sterile; intanto i corsi d’acqua accresciuti di violenza minavano alla base le colline lucane, rendendo instabili e pericolanti numerosi abitati». [Giura Longo, 1992]
Tab. 1 - Categoria delle opere e somme stanziate in base alle L. del 31 marzo 1904 e del 9 luglio 1908 Fonte: A. Sinisi, op. cit., p. 384
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A seguito del viaggio di Zanardelli nel 1904, dopo la sua morte, verrà varata la Legge speciale per la Basilicata con la quale sarà inaugurata una serie di provvedimenti legislativi che Giolitti utilizzò per intervenire nel Mezzogiorno ricercando un nuovo equilibrio in grado di garantire l’unità nazionale minacciata dalle agitazioni sociali nel Sud e dalle dure reazioni dei governi precedenti. La legge Zanardelli [L. n. 140/1904] come è noto fu giudicata, per aspetti diversi, non adeguata ai problemi che intendeva affrontare da Nitti, Fortunato e Ciccotti ed in effetti, pur realizzando una serie di interventi necessari, così come descritto nella tabella seguente, risultò limitata nelle risorse disponibili e rallentata anche a causa di un non ben articolato decentramento dei poteri al Commissariato istituito dalla legge speciale così come segnalato da Zanotti Bianco. Certamente parziale fu il programma dei rimboschimenti che, pur disponendo di incentivi, fu seguito solo da pochi grandi proprietari perché i vincoli forestali erano mal visti dalla generalità dei coltivatori in quanto limitavano le possibilità dei piccoli proprietari presenti nelle aree montuose i cui redditi erano già ridotti dalla scarsa fertilità dei terreni a loro disposizione [Sinisi, 1989]. Anche le opere di bonifica furono solo parzialmente realizzate poiché si attuarono piccoli interventi nelle zone dei laghi [Lagopesole, Calciano, Garaguso] non riuscendo ad incidere in modo efficace nelle aree più vaste come la piana di Atella e la fascia Ionica. Infatti la realizzazione di opere di regimentazione nella pianura e nei letti dei fiumi, con colmate, arginature, canalizzazioni risultarono effimere, perché non collegate con interventi ‘a monte’, con i rimboschimenti e gli sbarramenti che avrebbero dovuto regolare i flussi idrici evitando i fenomeni di piena incontrollata, di accumulo dei detriti e di siccità nei torridi mesi estivi. Né, d’altra parte, si era
riusciti ad utilizzare le acque sovrabbondanti per realizzare un sistema di irrigazione ed, anzi, si resero sterili anche alcuni terreni prima destinati al pascolo intervenendo in modo improvvido sul sistema delle dune per cui i proprietari rifiutarono di pagare il contributo di propria competenza vedendo minacciati i propri interessi economici. Pertanto: «L’intervento statale dell’età giolittiana, nonostante ponesse tra i suoi principali obiettivi la sistemazione idraulico-forestale dei bacini montani e le bonifiche, non riuscì a creare nuove forme di integrazione produttiva tra montagna e pianura». [Sinisi, 1989]
Tuttavia furono finalmente poste le basi teoriche per la soluzione dell’annoso problema che era causa anche delle infestazioni malariche che all’epoca erano una piaga dalle dimensioni inimmaginabili per noi contemporanei. È sufficiente leggere le note tracciate vividamente da François Lenormant sul finire dell’Ottocento per avere un’idea della gravità del fenomeno: «Metaponto è un deserto e vi si arriva attraverso un deserto. Quarantaquattro chilometri separano Taranto dalla stazione di Torremare e in tutto questo percorso lungo la costa non si incontra un’abitazione umana ad eccezione delle case dei cantonieri che sorvegliano la ferrovia, costruite ad intervalli regolari ai margini della strada ferrata. [...] Per gli uomini della compagnia delle ferrovie meridionali, essere distaccati su questo tratto della linea è quasi una sentenza di morte a breve scadenza, come le stazioni del Gabon per i nostri soldati di fanteria e di marina; e tuttavia c’è sempre gente pronta ad intraprendere questa terribile partita con la malattia [...]. L’assenza di abitanti
112 comporta l’assenza di colture. A stento di tanto in tanto si incontra un campo che, a rari intervalli, è scalfito da un aratro identico da sempre a quello del tempo favoloso quando il re Morges insegnava l’agricoltura agli aborigeni».
A proposito della bonifica delle aree paludose l’ingegnere Angelo Omodeo nel 1922 chiariva i termini tecnici della questione e tracciava le linee guida per la sua soluzione anticipando, nei fatti, la necessità di attuare quello che oggi si chiamerebbe un “piano di bacino”: «Non sembra a me, che si possa in Italia meridionale, trattando di bonifica, prescindere dall’irrigazione. I due problemi sono strettamente connessi nelle finalità economiche, e in molti casi nella soluzione tecnica. Infatti è fuori delle zone pianeggianti da difendere e da irrigare, è nelle alte vallate che si trova l’origine dell’acqua a volte dannosa, a volte utile: e che spesso con opere razionali si può trasformare da dannosa ad utile, e non solo per irrigare, ma talora anche a scopi industriali. [...] Quindi un’unica direttiva organica, deve presiedere alla sistemazione montana, al rimboschimento, ai laghi artificiali, alla produzione di energia, alle arginature, all’irrigazione, alla bonifica, compiti e funzioni diversi, ma coordinati in un solo sistema». [Sinisi, 1989]
Tuttavia, pur avendo consentito la legge speciale del 1904 la concessione gratuita per un ventennio delle acque pubbliche, il progetto proposto dall’ing. Omodeo per la realizzazione di uno sbarramento sul Bradano di 27.000 kmq per produrre energia elettrica e per consentire l’irrigazione di 20.000 ettari nel Metapontino non fu realizzato. Anche relativamente all’irrigazione la legge speciale non riuscì a conse-
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guire gli obiettivi prefissati; il progetto di utilizzare le acque dell’Alta Valle dell’Agri a fini irrigui, che prevedeva la costruzioni di due canali di raccordo e di un canale principale di 14 km e che poteva garantire l’irrigazione di 1600 ettari, infatti, fu a lungo ostacolato [Sinisi, 1989]. Riuscì invece ad essere attuato, sempre su progetto di Omodeo con l’intervanto dello Stato insieme a capitali privati, l’invaso di Muro Lucano sul quale Nitti puntò per sperimentare la sua visione innovativa di un Mezzogiorno capace di produrre energia idroelettrica per sviluppare un proprio sistema industriale. Non solo fu realizzato l’invaso con le risorse della Legge speciale, ma nel 1914 fu costituita la Società Lucana per imprese idroelettriche con capitali privati, che riuscì a gestire, negli anni venti, la distribuzione dell’energia elettrica in gran parte della regione completando anche un nuovo impianto in Val D’Agri [Sinisi, 1989]. La legge Zanardelli dunque non riuscì ad incidere in modo significativo sul paesaggio agrario lucano e tuttavia, come fa notare Giura Longo, «è facile riconoscere che quell’intervento era destinato a modificare in una certa misura i punti di riferimento essenziali per la società lucana, almeno in tre ordini di fattori: il primo riguardò il rilancio del credito come indispensabile sostegno alle attività produttive ed alle imprese soprattutto agricole; il secondo interesso i centri abitati minori, ma ancor di più il capoluogo, che attraverso il programma di intensificazione delle opere pubbliche venne attrezzandosi con moderne funzioni amministrative e con un nuovo assetto urbano; il terzo – di gran lunga il più importante – attiene più da vicino alle campagne, che allora poterono giovarsi almeno sulla carta di un serio piano di in-
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terventi tesi al risanamento delle zone malariche e paludose e che videro pertanto poste su basi più concrete le prospettive di rilancio e di bonifica, poi effettivamente realizzate sia pure con forte ritardo di almeno mezzo secolo dall’approvazione di quella legge».
Per comprendere quale fosse lo stato del paesaggio agrario in Basilicata all’indomani della Legge Zanardelli è indispensabile far riferimento all’inchiesta sulle condizioni dei contadini nelle provincie meridionali e in Sicilia [1906-1910]. Questa inchiesta fu realizzata da una Commissione parlamentare presieduta dal Sen. Eugenio Faina e Francesco Saverio Nitti fu incaricato di redigere la relazione su Basilicata e Calabria avvalendosi dell’egregio lavoro svolto dal prof. Eugenio Azimonti che era stato nominato delegato tecnico per la Basilicata [Cestaro, 2002]. Lo stesso Manlio Rossi Doria, nel celebre discorso tenuto a Potenza presso il Teatro Stabile nel 1947, per descrivere la situazione dell’agricoltura lucana, citò esplicitamente i risultati di questa relazione. La circostanza deve far riflettere sia sul fatto che indubbiamente la relazione di Azimonti era stata penetrante ed estremamente valida, tanto da risultare ancora attuale dopo quarant’anni, sia sul fatto che in tutto questo tempo non molto era cambiato nel paesaggio agrario lucano, anche a giudizio di uno studioso come Rossi Doria che così introdusse il suo famoso discorso: «Quattro sono le grandi circoscrizioni che bisogna distinguere: 1. la Lucania alta, della montagna; 2. la Lucania bassa, delle Marine, della piana di Metaponto, della valle dell’Ofanto, di una parte della valle del Bradano;
113 3. la Lucania felice, l’angolo vulcanico del Vulture, tutto a vigneti, oliveti, frutteti; 4. la zona intermedia, la zona tra le marine e la montagna, la zona delle argille, del grano, del latifondo contadino». [Rossi Doria, 1989]
Questa sintesi dello studio di Azimonti, in verità molto dettagliato, ricco di dati e di notazioni assai approfondite sui caratteri sociali, economici ed agronomici di ciascuna delle zone descritte, restituisce la fotografia di una regione ampia caratterizzata da una notevole diversificazione dei suoi paesaggi agrari poichè, come si fa notare nell’introduzione alla relazione: «Ciascuno dei suoi quattro circondari è più vasto di molte provincie italiane, ma la popolazione vi è rada». [Azimonti, 1996]
Azimonti supera la visione di Giustino Fortunato che descriveva le condizione del Mezzogiorno e della Basilicata come caratterizzate da uno ‘sfasciume pendulo’ generalizzato, che si ritrova ancora nella descrizione di Zanardelli riportata all’inizio del paragrafo; egli invece compie lo sforzo di analizzare, senza retorica e con metodi moderni, l’effettiva situazione presente nel territorio regionale riuscendo ad articolare una visone precisa del territorio della Basilicata, così solida da resistere nei decenni. In estrema sintesi Azimonti descrive la zona della montagna come caratterizzata da un paesaggio agrario dominato dai pascoli di cattiva qualità e dalle foreste di alta quota ‘sopravvissute’ al disboscamento. Qui la capacità produttiva era assai limitata, i grandi possidenti erano pochi mentre prevaleva la proprietà terriera di media dimensione per la quotizzazione dei beni demaniali ed ecclesiastici che aveva causato il fenomeno della “polverizzazione” della proprie-
114 tà che erano coltivate per lo più con una rotazione triennale di granturco, grano ed avena. La zona delle Marine interessava prevalentemente l’attuale provincia di Matera e si caratterizzava per una qualità dei suoli senz’altro migliore che consentiva colture intensive, quali frutteti ed oliveti accanto a quelle estensive. In quest’area era presente, ancora in modo drammatico, il fenomeno della malaria ma qui erano presenti gradi possedimenti, fino a 6.000 ettari, nelle zone di Policoro e Scanzano, che i latifondisti tendevano ad affittare ad un unico gestore o a un’azienda di tipo capitalistico. Si riscontrava l’esistenza di una media proprietà diffusa, mentre meno rilevante era la presenza della piccolissima proprietà rispetto alle altre zone. La deforestazione era stata qui particolarmente aggressiva, soprattutto nella collina, dove si era fatto posto ai pascoli ed alla coltura del grano mentre sopravviveva un ‘relitto’ delle foreste originarie nel bosco di
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Policoro che era tutelato in quanto riserva di caccia privata del barone Berlingieri. La Lucania felice, quella Azimonti ha denominato “Colline arborate del Melfese” che si estende nell’area del Vulture, pur caratterizzata da un clima più mite e dotato di un suolo vulcanico di buona qualità all’epoca dell’indagine dell’Azimonti vedeva una prevalente presenza di parcellizzazione fondiaria anche per i vigneti e gli oliveti che erano lì dominanti. Il vino Aglianico era già esportato al Nord come succedaneo del Barbera e contribuiva ad aumentare il redito di molti agricoltori tanto che già nel 1908 esistevano numerosi esportatori di vino, 53 esportatori per l’estero e ben 216 esportatori per il mercato interno; anche per quanto riguarda l’olio, esistevano 27 esportatori per l’estero e 186 per il mercato interno [Sinisi, 1989], tuttavia queste potenziali risorse erano sottoutilizzate per la mancanza di una organizzazione produttiva efficiente.
Tav.2 – Francesco Saverio Nitti, 1917 Fonte: AA.VV., Francesco Saverio Nitti, Mostra fotografica documentaria, Regione Basilicata, 2003
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La zona intermedia, chiamata dall’Azimonti “zona collinare o centrale”, caratterizzata da un clima rigido d’inverno e caldo d’estate, era coltivata con grano in modo preponderante alternato però a vigneti ed oliveti, e risultava dominata dalla presenza di una proprietà fortemente parcellizzata, a causa delle quotizzazioni avvenute in epoca precedente. Tuttavia il demanio era ancora ampio, erano presenti piccole estensioni boschive ed erano garantiti gli usi civici di legnatico e transito di bestiame. Questa analisi molto accurata realizzata dall’Azimonti, stimato dallo stesso Giustino Fortunato come uno studioso che era stato in grado di penetrare la realtà meridionale meglio di molti altri, è certamente alla base della relazione finale che Nitti stenderà per la commissione parlamentare. Tuttavia, come osserva giustamente Cestaro, lo statista lucano va oltre definendo un orizzonte che travalica i limiti della sola, pur accurata, analisi.
Con straordinaria lungimiranza, considerando i tempi in cui egli viveva, Nitti aveva infatti acquisito la consapevolezza che la modernizzazione e l’industria, che richiedevano la disponibilità di ingenti capitali, sarebbero stati i fattori dominanti per l’economia italiana nel nuovo secolo. Per questo bisognava strutturare una strategia che, considerando ormai inevitabile ed auspicabile in prima battuta lo sviluppo industriale del Nord che partiva fortemente avvantaggiato, fosse capace di agganciare progressivamente il Sud a questa dinamica. La sua visione strategica si basava su due elementi: l’emigrazione, che a suo giudizio avrebbe di fatto migliorato le condizioni di vita e la produzione agricola, per quanto possibile, con l’alleggerimento della pressione demografica e con le rimesse degli emigrati; e l’attivazione di una politica industriale che potesse sfruttare nel Mezzogiorno nuovi impianti per la produzione di energia idroelettrica. Riguardo all’emigrazione è da dire che, se il fenomeno che era considerato positivamente da Nitti, che ne vedeva anche le potenzialità di innovazione culturale nei riguardi della società meridionale da troppo tempo chiusa in sé stessa, da altri era giudicato preoccupante ed infatti Zanardelli aveva dato specifico incarico, tramite il regio Commissariato per l’emigrazione, di predisporre un’inchiesta poiché il fenomeno aveva raggiunto proporzioni allarmanti: se nel triennio 1897-1899 avevano lasciato la Basilicata circa 8-9.000 emigranti, nell’anno 1900 erano state registrate circa 11.000 partenze e ben 17.000 nel 1901. Ritornando alla relazione sulla Basilicata Nitti proponeva la creazione di un grande demanio forestale poiché «la ferma convinzione dello statista era che un forte impegno di risanamento del territorio e dell’ambiente umano e civile, insieme alla lotta alla malaria, all’analfabetismo, al disboscamento, pote-
«Quattro, secondo Nitti, erano le ‘cause modificatrici’ che avevano inciso profondamente sulla Basilicata: i terremoti, il disboscamento e il conseguente disordine delle acque, la malaria e l’emigrazione. Se quest’ultima aveva accelerato il processo di trasformazione, modificando le mentalità ed i costumi, le prime tre erano state piuttosto ‘cause ritardatrici’ che avevano agito ‘con straordinaria violenza». [Cestaro, 2002]
Inoltre, era ben chiaro a Nitti che l’arretratezza del sistema agricolo e sociale della Basilicata e del Mezzogiorno in generale poteva essere superata solo attraverso l’investimento di nuovi capitali, arrivando a dichiarare esplicitamente che era necessario sviluppare “lo spirito capitalistico, che ora difetta e che è sempre nelle società moderne la scala per cui si sale alla ricchezza.”
116 vano avviare a soluzione la questione meridionale» [Cestaro, 2002]. Purtroppo però questa visione andava supportata da un investimento politico ed economico che come abbiamo visto, ancora una volta, non si ritenne di dover compiere a livello nazionale e, come conclude Cestaro: «Le speranze e le previsioni di Nitti non si avverarono per una serie di nuove esigenze politiche, che portarono alla legge per il suffragio universale, alla guerra di Libia (1911-12) ed alla grande Guerra (1915-18), in un contesto politico di diverso spessore, in cui non c’era posto per la questione meridionale».
Si arriva così alla vigilia del fascismo, che sviluppò una politica tesa a rinsaldare il patto con i grandi proprietari agrari e che, andando ad attuare la rigida politica di stabilizzazione monetaria della “Quota 90” a ridosso della crisi del 1929, impattò in modo disastroso sul debito che venne rivalutato e causò una caduta dei prezzi agricoli provocando una ulteriore crisi per i piccoli e medi proprietari. Fu varata a quel punto una serie di provvedimenti per l’agricoltura basata sulla politica granaria, sulla politica doganale e sulla bonifica [Filadelfia, 2004]. La politica granaria, al di là della retorica della cosiddetta “battaglia del grano” che voleva rendere autosufficiente l’Italia in quel settore, favorì nel Mezzogiorno i latifondisti assenteisti e mise in crisi le altre coltivazioni. Arrestata la valvola di sfogo costituita dall’emigrazione, inoltre, la concomitante politica rivolta all’incremento demografico contribuì a far aumentare la pressione sul territorio del Mezzogiorno che già aveva subito, come abbiamo visto, una notevole serie di decisioni sfavorevoli che non poco avrebbero condizionato anche il periodo successivo.
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In Basilicata il regime fascista, reso consapevole delle crescenti tensioni sociali dai funzionari locali, decise nel 1927 di creare una nuova provincia, quella di Matera, che avrebbe dovuto diventar ella “provincia ionica” posta a presidio dell’intervento di bonifica del metapontino [Giura Longo, 1992]. La vicenda della bonifica della piana di Metaponto, iniziata con la legge del 1865 sugli espropri di pubblica utilità proseguì fino al 1921, con una serie di decreti di espropriazione, che riguardarono il latifondo abbandonato e per lo più paludoso. Nel 1925 venne fu istituito il Consorzio di Bonifica di Metaponto per una superficie totale di circa 42.000 ettari [Giura Longo, 1992] e nel 1931 venne istituito il Consorzio di Bonifica del Bradano, successivamente unificato a quello di Metaponto. L’intervento tecnico scelto dal Consorzio di Bonifica fu quello delle colmate naturali e si attuò il prosciugamento del lago di Santa Palagiana; furono costruiti argini sul Bradano e sul Basento; fu realizzato un canale navigabile con una darsena per piccole imbarcazioni e venne avviato un programma di forestazione in prossimità degli argini dei fiumi e si diede avvio alla costruzione della rete di bonifica. Fu anche iniziata una politica sugli insediamenti rurali quali borgo Venusio vicino Matera [il cui primo nucleo, composto da venti abitazioni, una scuola e un forno, era stato fondato intorno agli anni 20 in epoca nittiana] e soprattutto sorse Marconia nell’agro di Pisticci che, in epoca successiva al fascismo, divenne un vero e proprio nucleo urbano rilevante nel panorama della Basilicata piuttosto che il borgo rurale o la colonia di confinati politici che si era immaginato [Giambersio, 2007; Giura Longo, 1992]. Tuttavia la costosa e disastrosa avventura bellica fascista da un lato, e la pressione dei proprietari espropriati, che spesso “subentrarono a sé stessi non
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più come proprietari ma come affittuari di quelle terre una volta bonificate”, impedirono di fatto di attuare il programma vero e proprio della lottizzazione delle terre demaniali che, anche se sollecitato dal Ministero delle Finanze nel 1938, in realtà rimase solo un’intenzione [Giura Longo, 1992]. Così il programma di bonifica fascista andò lentamente e letteralmente arenandosi: la colmata naturale non aveva sortito gli effetti attesi e si pensò al prosciugamento meccanico delle paludi che persistevano; lo stesso canale navigabile non solo si andava insabbiando ma aumentava anziché diminuire il fenomeno della malaria. In conseguenza di questo fallimento del programma di bonifica si decise, invece di intervenire per porre rimedio e portare a compimento il programma iniziato sin dai primi anni del secolo e per il quale si erano attuati gli espropri, di restituire quanto espropriato ai vecchi proprietari risolvendo formalmente la questione solo sulla carta. La soluzione del problema della bonifica del metapontino era così ancora rimandata ed arriverà a compimento solo nel dopoguerra.
divenne cruciale anche a livello nazionale perché incarnò uno dei primi momenti di confronto, ideologico e pragmatico insieme, tra i contrapposti schieramenti politici proprio al principio della ‘guerra fredda’. Dopo una prima risposta violenta culminata con la repressione dei moti contadini per l’occupazione delle terre e con i tragici scontri di Melissa in Calabria e di Montescaglioso in Basilicata, arriva finalmente la risposta politica e viene varata la Riforma Agraria [L. n. 230/1950; L. n. 841/1950].
Il dopoguerra e la Riforma Agraria Gli interventi di epoca fascista, che avevano peggiorato lo stato già misero dei braccianti e dei piccoli proprietari soprattutto nel Mezzogiorno, sommati alle distruzioni causate dal periodo bellico, avevano creato le condizioni sufficienti per far esplodere, nei primi anni del dopoguerra, la richiesta di soddisfare i bisogni primari legati alla stessa sussistenza di quanti operavano nelle campagne meridionali. Così la condizione di intollerabile miseria dei contadini e dei braccianti da un lato, l’assenteismo dei latifondisti dall’altro, avevano generato il fenomeno dell’occupazione delle terre nel Sud e subito la questione
«La problematica emersa era connessa al permanere di vastissimi latifondi, prevalentemente ubicati nelle aree collinari interne della regione. In molti casi tali latifondi erano coltivati da famiglie di contadini legate al proprietario da contratti agrari di mezzadria; questi prevedevano un sistema lavorativo basato essenzialmente sull’impegno di tutte le forze familiari del colono, innescando un delicato equilibrio tra forza lavoro impiegata, reddito prodotto ed estensione dei poderi dati in affitto, equilibrio che si incrinò allorquando, all’indomani dell’8 settembre 1943, i braccianti occuparono le terre dei latifondi, innescando movimenti per la rivendicazione delle terre che si diffusero nelle tradizionali aree latifondistiche del Lazio, della Puglia, della Sicilia e della Basilicata. Qui le lotte contadine esplosero nel materano come nelle campagne del potentino [Atella, Rionero, Melfi, Venosa, Corleto Perticara, Avigliano, Senise]. Il Governo italiano dunque promulgò una serie di leggi che approdarono alla Legge istitutiva degli Enti di Sviluppo per l’applicazione della Riforma Fondiaria, orientata all’espropriazione, trasformazione ed assegnazione delle terre al fine di distribuire la proprietà, promuovere lo sviluppo, superare l’arretratezza, sollevare la pressione sul bracciantato agricolo». [Menichini – Caravaggi, 2006]
118 Questo intervento normativo, nel clima di scontro ideologico caratteristico degli anni del dopoguerra, viene da molti considerato in primo luogo uno strumento usato dai partiti di centro per ostacolare la presa politica comunista e socialista nel mondo contadino e solo successivamente uno strumento di sviluppo economico e di progresso sociale [Sacco, 1982]. Lo stesso Giampaolo D’Andrea, storico ed insieme esponente di spicco della Democrazia Cristiana lucana, pur sottolineando i punti positivi della Riforma evidenzia che: «La riforma parziale, di cui è difficile negare l’efficacia per quel che concerne la liquidazione del latifondo e l’avvio del processo di trasformazione delle campagne meridionali, incontrò la forte opposizione delle destre e l’ostilità delle sinistre, che la giudicava inadeguata e ne percepivano l’insidia in termini di spostamento dell’influenza politica nelle campagne, ove la Dc avrebbe potuto giovarsi della presenza degli operatori degli enti incaricati della realizzazione del progetto di riforma». [D’Andrea, 2002]
La riforma, pur limitata ad un ambito territoriale che non raggiunge nemmeno il 5% della superficie agraria e forestale complessiva del Paese, ha comunque ridotto l’estensione della proprietà latifondistica essendo stati assegnati 762.000 ettari, a 109.000 famiglie di braccianti e di contadini poveri [Sereni, 2007]. Inoltre il nuovo assetto non si limitò solo alle terre espropriate ma costituì uno stimolo per i proprietari assenteisti che si videro costretti ad intervenire sui fondi lasciati in stato di abbandono per scongiurare i provvedimenti di esproprio più vasti ed incisivi che pure erano richiesti in quel periodo e determinarono un immediato aumento della pro-
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duttività e una diversificazione delle colture se si considera che «le terre che, in mano ai latifondisti, avevano fornito una produzione lorda vendibile media certo ancora di molto inferiore a quella di 71.000 lire per ettaro rilevata nel 1953, in mano agli assegnatari la vedono già salita a 95.000 lire nel 1956, a 115.000 lire nel 1958; mentre la profondità delle trasformazioni che la conquista della terra da parte dei contadini induce nei sistemi e nel paesaggio agrario degli ex-latifondisti ci è significata – oltre che dalla scomparsa dei “riposi” – dalla parte rilevante che le foraggere e le colture industriali vengono assumendo nella rotazione agraria, e da quella parte, pure crescente, che gli impianti arborei e l’allevamento moderno sempre più assumono nell’impresa dell’assegnatario». [Sereni, 2007]
Così che la lotta per le terre ha determinato una trasformazione del paesaggio agrario del Mezzogiorno forse più ampia di tutti gli altri interventi programmati a partire dall’inizio del novecento. Tra i più visibili effetti di questa trasformazione «si possono annoverare quelli riferibili alla pratica liquidazione, nella maggior parte del Paese, del sistema agrario tradizionale a campi ed erba, e di quello a maggese nudo, che erano restati, fino alla vigilia della seconda guerra mondiale, caratteristici per vaste plaghe ad economia latifondistica della maremma toscana e romana, del Mezzogiorno e delle Isole, e che erano venuti anzi estendendosi nel corso della guerra stessa [...] Ma le più visibili e decisive trasformazioni del paesaggio agrario “risultano, piuttosto, dall’introduzione – nel quadro informe del latifondo – degli elementi di una organizzazione, di un piano paesaggistico:
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che (per quanto sovente, in concreto, discutibile e criticabile) ci documenta pur sempre quel che la nostra umanità associata è capace di compiere, là dove essa coscientemente, e secondo un piano, concentra le sue energie su di un terreno, magari naturalmente e storicamente ostico, per improntarlo a forme adeguate alle proprie esigenze di progresso economico e sociale». [Sereni, 2007]
In Basilicata, a seguito della riforma agraria, furono espropriati circa 59.000 ettari, si determinò nei fatti “la sconfitta del vecchio blocco agrario e la diffusione dell’azienda diretto-coltivatrice” [Giura Longo, 1992] e si permise la realizzazione di «opere che hanno lasciato un’impronta indelebile sull’assetto paesaggistico dei luoghi: si convertirono ampie superfici di seminativi in aree a coltivazione arborea, si ampliarono le superfici irrigue,
119 furono migliorate le tecniche colturali, il territorio fu punteggiato di manufatti destinati alla formazione (Scuola Agraria di Piano del Conte, Istituto zootecnico di Baragiano) e alla ‘civilizzazione’ delle campagne. Questo assetto territoriale è facilmente riconoscibile in particolari aree dell’entroterra lucano, laddove, cioè, sussistevano i più estesi latifondi e insisteva una maggiore concentrazione di bracciantato agricolo con relativa disoccupazione. In particolare, furono interessati i terreni della valle dell’Ofanto, della Valle di Vitalba, della Val d’Agri, della collina materana (Latifondo di Doria, Berlingieri, Turati, Viaggiani, Conti, Scafarelli) mentre furono tralasciate le aree montane interne in prossimità di Potenza e quelle del Lagonegrese, ove le condizioni orografiche non avevano mai consentito la creazione di grosse concentrazioni fondiarie». [Menichini – Caravaggi, 2006]
Tav. 3 – Foto aerea della fascia Ionica lucana. Fonte: D. Adamesteanu, op. cit., p.12
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Tav. 4 – Divisioni delle terre nel Metapontino e nel territorio di Heraclea in epoca greca. Fonte: D. Adamesteanu, op. cit. p. 79
Ma la trasformazione più evidente del paesaggio agrario, in conseguenza dell’intervento di riforma, si ebbe nel Metapontino dove si attuò un piano predeterminato organizzato per fasce parallele alla linea di costa e che vede susseguirsi alla battigia la duna mediterranea e poi una fascia lussureggiante di pineta alle spalle della quale si distende la pianura coltivata attraversata dalle infrastrutture viarie e ferroviarie. Questa profonda trasformazione, più volte progettata e più volte accantonata a partire dall’inizio del novecento, si compie dunque a partire dagli anni cinquanta, consentendo finalmente il superamento della malaria sia grazie all’azione dei nuovi pesticidi, sia in conseguenza del prosciugamento
delle aree paludose, strutturando un nuovo paesaggio agrario, del tutto inedito per la Basilicata. «Gli interventi di bonifica, correlati a quelli di assegnazione delle terre in applicazione della riforma agraria, determinarono la parcellizzazione del suolo agrario, restituito a condizioni di utilizzo, in fondi di forma rettangolare o quadrata, di estensione sufficiente al sostentamento di un nucleo familiare, e la realizzazione di una fitta e regolare rete di strade, di canali per il drenaggio e di canali irrigui che in gran parte hanno ricalcato gli schemi della bonifica risalente alla colonizzazione greca. Lo spirito della Riforma, improntato a risolvere il problema della rivendicazione delle
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Tav. 5 – Il territorio della bonifica Fonte: S. Menichini, L. Caravaggi, op. cit., p. 48
terre da parte dei contadini asserviti alle grandi famiglie di latifondisti, problema esploso già dal primo dopoguerra, prevedeva anche opere civili finalizzate a garantire agli assegnatari condizioni di vita più evolute: sorsero così le piccole case coloniche, annesse alle quote di terreno assegnate e disposte ordinatamente lungo gli assi viari secondo moduli distributivi preordinati, e i centri di servizio per la popolazione, che conservano anche oggi ben leggibile l’impostazione tipologica e morfologica di luogo ‘urbano’ di aggregazione divenuti, in molti casi, il nucleo originario di veri e propri centri urbani». [Menichini – Caravaggi, 2006]
Qui come altrove in Italia il paesaggio agrario è stato trasformato introducendo elementi ordinatori «visibili persino all’osservatore profano che – transitando per una via di grande comunicazione, o dalla cabina di un aereo – consideri i lineamenti, ora definiti e precisati, di un paesaggio dominato, per il passato, dalla informe desolazione del latifondo. [...] Là dove, per contro, nell’interesse degli ex proprietari assenteisti, l’estensione della proprietà coltivatrice è stata abbandonata la spontaneità della ‘fame di terra, dei contadini, o addirittura sollecitata nel senso di un accesso individuale alla proprietà stessa, l’effetto [...] – lungi dal risultar quello di una nuova e più organica elabo-
122 razione delle forme del paesaggio agrario – è stato quello di una loro estrema frammentazione, fino ai limiti di una vera e propria disgregazione: che si esprime, sovente, nell’ulteriore estensione, dapprima, di un paesaggio di campi a pìgola, a maglie sempre più ristrette, nel quale la polverizzazione e la dispersione delle parcelle prelude non di rado, al loro abbandono da parte dell’imprenditore contadino, proprietario, affittuario o colono che sia». [Sereni, 2007]
Queste considerazioni di Sereni trovano puntuale riscontro nel resoconto di un viaggiatore come Carlo Belli, sensibile umanista, interessato all’archeologia piuttosto che all’agricoltura, che ha visitato Metaponto a metà degli anni ottanta e che non può fare a meno di rilevare l’integrazione profonda tra paesaggio ed opere agricole lì realizzato: «Immensa e spettrale è la pianura di Metaponto; ma se gli uomini appaiono qui più piccoli della misura normale, non è tanto per il confronto con la vastità del paesaggio, quanto per la intensità delle sacre luci che lo irrorano. Avvolti in codesti raggi obliqui che hanno i colori abbaglianti delle trasfigurazione raffaellesca, uomini e donne vivono una vita che si direbbe senza stagioni: non varia, immobile, carica di religiosità. Coltivano campi sterminati e dormono in casette bianche, ognuna delle quali è dedicata ad un Santo. [...] Metaponto non esiste più come città, come paese, come nucleo edilizio configurabile visibilmente in vie e in piazze. Metaponto è tutta la zona di bonifica che si stende tra il Bradano ed il Basento, avendo come perno non una torre o un campanile, ma un tempio dorico al di fuori della città antica. [...] Un secolo prima il Francois Lenormant così aveva descritto il paesaggio agrario dello stesso territorio “Tutta la
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superficie della pianura circostante, tra il Bradano e il Basento, è coltivata dai contadini che scendono a lavorare dal grosso paese di Bernalda, situato a circa otto chilometri, sulle prime falde della montagna. [...] Il sistema di avvicendamento praticato qui, come in tutta la zona in cui ci troviamo, comporta due anni di maggese per uno di raccolta. Con braccia in quantità sufficiente e un’acconcia coltura, in tutto il territorio di Metaponto si otterrebbero facilmente due raccolti all’anno. Qui non esiste un sentiero battuto o coperto di ghiaia; si è costretti a camminare attraverso le campagne, il cui suolo grasso e naturalmente irrorato dalle infiltrazioni dei due fiumi, dopo qualche giorno di pioggia si trasforma in un mare di fango».
Negli anni cinquanta, a seguito della diffusione dell’opera di carlo Levi e delle indagini antropologiche di studiosi nazionali ed internazionali, la Basilicata è al centro del dibattito sulla riforma agraria e Matera, la “capitale del mondo contadino”, diviene un caso di studio così che nel 1951 si costituisce la “Commissione di studio della città e dell’agro di Matera”. Su impulso dell’attività sviluppate in quegli anni a Matera da Adriano Olivetti si prova quindi ad applicare una innovativa visione dello sviluppo territoriale adottando un modello che deriva dalle esperienze realizzate per la pianificazione degli interventi della Tennessee Valley del New Deal americano. «Non mi svegliarono, di primo mattino, le campanelle dei greggi, come a Grassano, perché qui non vi sono pastori né pascoli, né erba; ma il rumore continuo degli zoccoli degli asini sulle pietre della strada, e il belar delle capre. È l’emigrazione quo-
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tidiana: i contadini si levano a buio, perché devono fare chi due, chi tre, chi quattro ore di strada per raggiungere il loro campo, verso i greti malsani dell’Agri o del Sauro, o sulle pendici dei monti lontani». [Levi, 1945]
Per cambiare questo sistema di uso del suolo agricolo del tutto irrazionale, descritto da Levi, si progettò l’insediamento del borgo rurale La Martella ad opera dall’Unrra-Casas [Sacco, 1983]. A tal fine si programmò di realizzare non solo l’intervento edilizio pensato in linea con le modeste tradizioni locali, ma soprattutto di attuare l’idea di un nuovo modello di gestione del territorio rurale, superando anzitutto il problema del pendolarismo che costringeva i contadini ad estenuanti spostamenti per raggiungere dalla città gli appezzamenti da coltivare, ed affiancando alle azioni infrastrutturali ed edilizie anche interventi immateriali e di formazione per determinare un riassetto anche sociale, oltre che economico, della realtà rurale. «Quali che possano essere state le critiche rivolte alla Martella, l’affermazione del concetto di urbanizzazione delle campagne, che ne prefigurava il progetto, aveva un tal valore di rottura, in quel tempo, in quella situazione politica e nella campagna meridionale, da rendere del tutto trascurabili le critiche formali che si possono fare». [Fabbri, 1986]
Purtroppo l’esperimento non darà i frutti sperati e la cronaca pungente di Leonardo Sacco, apparsa già nel 1955 sul “Il Mondo”, ricostruisce la vicenda evidenziando il ruolo ‘normalizzatore’ svolto dall’Ente di riforma e raccontando tutta l’amarezza del fallimento di quel modello alternativo che viene lentamente logorata e volutamente sfibrata dalle logiche di potere.
123 Più in generale a livello nazionale dopo un avvio positivo, infatti, i Centri e gli Enti sorti a supporto della riforma agraria in un primo momento «impegnati a coordinare secondo un piano aziendale l’iniziativa individuale degli assegnatari e ad assolvere in forme associative e comunitarie fondamentali funzioni tecniche ed economiche (piani colturali, operazioni meccaniche di bonifica, di lavorazione e di raccolta, trasformazione industriale dei prodotti agricoli, acquisti e vendite, finanziamento ecc.)» [Sereni, 2007], furono progressivamente smobilitati nel timore che davvero la riforma fondiaria potesse prende piede al di là delle iniziali intenzioni governative. In definitiva in Basilicata la riforma determinò certamente la costituzione del polo produttivo agricolo della fascia ionica tuttavia, se inquadrata in un orizzonte storico più ampio, si deve considerare che “si compiva nel XX secolo una riforma che si sarebbe dovuta realizzare nel XVIII secolo” e nei fatti si riuscì a perseguire «un obiettivo riformatore giusto e necessario, ma ‘anacronistico’, raggiunto cioè in ritardo, quando ormai la società contadina stava per essere assorbita e dissolta nella società industriale. Quell’intervento tradivo e parziale rappresentò, infatti, secondo la valutazione dello studioso francese Henri Mendras ripresa da Pasquale Villani, ‘il modo italiano di creare una classe di contadini moderni per subito dissolverla nella società industriale». [Giura Longo 1992]
124 La modernizzazione Nel dopoguerra si genera il fenomeno nuovo che determina una vera svolta epocale per il paesaggio agrario: l’economia italiana, dopo un periodo di transizione, si rivolge decisamente verso lo sviluppo del settore industriale e l’agricoltura diventa sempre più marginale. I centri di produzione industriali sono collocati a Nord mentre la massa della manodopera, in conseguenza delle precedenti politiche demografiche, si trova al Sud; le fabbriche e le attività terziarie in travolgente sviluppo sono concentrate nei centri urbani verso i quali le masse contadine sono irresistibilmente attratte in considerazione del nuovo modello di vita e del maggiore benessere lì percepibile; si attiva così un nuovo fenomeno migratorio che sostituisce quella verso le americhe dell’inizio secolo. In Basilicata la tendenza alla concentrazione urbana si rileva in modo chiaro dalla lettura degli andamenti demografi dal 1909 al 2001 e si evidenziano dunque due fenomeni, che sono del resto ben conosciuti: - la consistente emigrazione degli anni ’60 e ’70 originata dalla mobilità di una parte rilevante della manodopera lucana verso le aree fortemente industrializzate del nord Italia e del centro Europa; - il contemporaneo accentramento della popolazione nei due capoluoghi provinciale che fa registrare un incremento quasi pari al 200% per il capoluogo regionale tra il 1931 e il 1961. Queste due dinamiche stringono come una morsa le aree interne che conoscono fenomeni di spopolamento a volte drammatici dal punto di vista sociale [Giambersio 2007]. «Secondo le statistiche, è calcolato che dal 1951
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al 1981 emigrarono dalla regione circa 255.000 lucani, dei quali ben 123.926 andarono via tra il 1961 e il 1971. La popolazione complessiva della regione, perciò, passava dai 644.297 abitanti del 1961 ai 603.054 del 1971, con una perdita netta di 41.243 cittadini. Se poi si riflette sul fatto che gli abitanti dei due capoluoghi di provincia, nello stesso periodo, passavano, in Potenza, dai 43.545 del 1961 ai 56.597 del 1971 e, in Matera, dai 38.562 del 1961 ai 44.513 del 1971, si avrà che ben 13.052 lucani si diressero a Potenza e altri 5.951 a Matera, per un totale di 19.003 unità. Se ne deduce che la provincia interna perdeva in tutto, in dieci anni, 60.246 abitanti, cioè il 15 per cento circa della propria popolazione. Era in atto, insomma, un vero e proprio processo di desertificazione [...]». [Caserta, 2002]
I fenomeni dello spopolamento e della concentrazione non sono legati solo alla difficile situazione dello sviluppo economico locale, ma sono determinati dalla crisi di una tradizionale visione del mondo e dall’affermarsi di nuovi modelli di vita dinamici e socialmente condivisi, che hanno rotto equilibri statici secolari. I nuovi valori e la percezione di quanto accade al di là delle catene montuose dell’appennino, hanno insomma introdotto cambiamenti epocali sempre più rapidi in una struttura economica e sociale rimasta come ‘bloccata’ fino agli anni precedenti la seconda guerra mondiale, così come ha intuito Carlo Levi muovendo da un punto di vista culturale, e così come ha motivato acutamente Manlio Rossi Doria. «La Basilicata ha mantenuto a lungo e in gran parte conserva ancora i caratteri originali di un’antica società rurale, che risalgono qui, come in molte altre parti del Mezzogiorno interno, ai tempi delle
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popolazioni pre-greche e pre-romane. [...] Tagliati fuori durante lunghe epoche, privi di strade e di porti dopo la scomparsa delle colonie greche della costa jonica, chiusi dai monti nelle singole valli, i loro abitanti sono vissuti esclusivamente e sempre di pastorizia e di una primitiva e dispersa agricoltura, priva (salvo poche eccezioni) di stabili sedi in campagna. L’aspetto saliente che ancor oggi sorprende nel paesaggio della Basilicata - e in genere delle zone interne del Mezzogiorno - è vedere da un lato, la mancanza di case, di alberi, di strutture aziendali nelle campagne, dall’altro l’insediamento concentrato delle popolazioni in borghi più o meno grossi, situati per lo più nei luoghi più alti del territorio. Molteplici spiegazioni sono state tentate per questo particolare aspetto del paesaggio, ma la più convincente è quella che lo connette alle caratteristiche delle risorse naturali e ai possibili modi di una loro utilizzazione in base alle conoscenze tecniche del passato». [Rossi Doria, 1990]
125 Storicamente i piccoli paesi dell’Appennino lucano sono dunque nati ed hanno prosperato come centri di riferimento per un più o meno esteso e ricco territorio agricolo circostante, ed hanno comunque rappresentato per secoli, un modello di vita sociale, di organizzazione del territorio e delle risorse, che si inquadrava in un contesto statico, sostanzialmente autarchico, spesso caratterizzato da uno sviluppo economico, sociale e culturale limitato [Giambersio, 2007]. È questo il panorama delle campagne lucane che resiste fino alla seconda guerra mondiale, e che viene registrato in modo assai efficace da Carlo Levi: «Amavo salire in cima al paese, alla chiesa battuta dal vento, donde l’occhi spazia in ogni direzione, su un orizzonte sterminato, identico in tutto il suo cerchio. Si è come in mezzo a un mare di terra biancastra, monotona e senz’alberi: bianchi e lontani paesi ciascuno in vetta al suo colle».
Tav. 6 - Reddito globale privato e pubblico per settori economici al lordo delle duplicazioni e rettifiche nel 1959 Fonte: Elaborazione su dati SVIMEZ
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Tav. 7 - Rapporto fra le superfici dei seminativi alberati e dei seminativi nudi in Italia Fonte: E. Sereni, op. cit, p. 452
Nel dopoguerra quel mondo arcaico sarà travolto definitivamente dalle dinamiche nuove e pervasive, descritte di seguito come fenomeni veri e propri di deterritorializzazione, che ne modificano alla radice i termini di riferimento sociali, culturali ed economici. Tuttavia ancora negli anni ’50 l’intero territorio della Basilicata era descritto come “una grande campagna” e si parlava del Mezzogiorno intero come di una “terra senza città” [Fabbri, 1986], la prevalenza
di centri tipicamente agricoli era assai netta [Viganoni, 1992] ed ancora alla fine degli anni cinquanta la Basilicata si caratterizzava, come si evince dalla tabella seguente, per la presenza di un apparato industriale complessivamente debole e, mentre l’agricoltura assumeva ancora un peso determinante per l’economia regionale: pochissime erano le aziende di medie e grandi dimensioni rispetto al gran numero di piccoli e piccolissimi impianti produttivi; pressoché assente era la grande industria evoluta tecno-
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logicamente e l’industria manifatturiera ed edilizia agivano unicamente sul mercato locale con tecniche produttive e gestionali ancora tradizionali. Del resto il fenomeno, come rileva Viesti, riguarda gran parte del Mezzogiorno tanto che
A questa situazione fece fronte ancora una volta una forma di intervento straordinario a regia nazionale; nel 1950 venne istituita la Cassa per il Mezzogiorno, e per arginare i formidabili moti migratori in precedenza descritti, si attuò un programma che prevedeva la costituzione di nuovi poli industriali e che, progressivamente, anche in Basilicata avrebbero spostato il baricentro della produzione verso il settore industriale e terziario a scapito di quello agricolo [Giambersio, 2007]. La stessa agricoltura, che fino ad allora era ancora caratterizzata da un uso del suolo del tutto irrazionale, tanto che Manlio Rossi Doria definiva questa non agricoltura ma vera e propria ‘pazzia’, è stata investita in quel periodo da innovazioni tecnologiche e nuovi processi organizzativi che, in breve tempo, hanno compiuto una vera e propria rivoluzione ridefinendo tutti i parametri sui quali si era faticosamente agito durante la prima metà del novecento. Su questi processi, non sempre e totalmente positivi come sottolinea Sereni negli anni ‘60, hanno influito
«[...] fino alla fine degli anni Cinquanta il Sud non ha alcun significativo sviluppo industriale, proprio mentre l’industria del Nord viene ricostruita e ampliata, e trae grande vantaggio dalla crescita del mercato interno e dagli iniziali successi all’esportazione, dai bassi salari e dalla loro dinamica molto più lenta rispetto alla crescita delle produttività. Le produzioni meridionali sono ancora principalmente basate su attività artigianali (fornai, sarti, ciabattini, falegnami, fabbri) o di piccolissime imprese (materiali da costruzione) orientale alla domanda locale. Alla fine degli anni Cinquanta l’industria manifatturiera rappresenta ancora solo il 13 % circa dell’economia meridionale, poco più di un terzo del suo peso al Nord».
Tav. 8 – Forze di lavoro in complesso per settore di attività economica in Puglia, Basilicata e Calabria dal 1954 al 1960 (migliaia di unità) Fonte: Elaborazione su dati SVIMEZ
128 “gli sviluppi della meccanizzazione, l’orientamento della politica degli investimenti pubblici, l’adesione del governo italiano al cosiddetto ‘mercato comune europeo’, e la brusca inversione del corso della politica granaria delle classi dominanti italiane». [Sereni, 2007] Negli anni del boom economico si andava compiendo così la transizione dell’Italia da paese agricolo a paese industrializzato svuotando all’improvviso di contenuto tutta la questione collegata al riassetto dell’agricoltura. «nel complesso, il processo decisivo per la configurazione di nuovi rapporti di forza nelle nostre campagne è stato proprio quello di una crescente subordinazione della nostra agricoltura, presa nel suo insieme, al nuovo strapotere dei monopoli industriali, commerciali e finanziari. [...] i gruppi monopolistici dominanti – già per la loro origine alieni dalla considerazione degli interessi più propriamente agricoli – son stati sempre più larga-
Tav. 9 - Andamento dell’occupazione nel periodo dal 1951 al 1975. Fonte: Elaborazione dati Giunta regionale (anno 1978) ed elaborazioni Territorio SPA su dati ISTAT.
Valerio Giambersio e Carmela Menchise
mente indotti a ricercare il loro massimo profitto non solo e non tanto nel quadro di uno sviluppo produttivo, almeno, della nostra agricoltura, che consentisse loro più larghi margini di sfruttamento, magari, nel corso del processo produttivo agricolo stesso, quanto piuttosto in un vero e proprio sistematico saccheggio della nostra agricoltura, realizzato attraverso il pieno controllo (di cui essi dispongono) del processo di circolazione e di distribuzione dei prodotti agricoli e di quelli necessari agli agricoltori, attraverso la politica fiscale e quella degli investimento, del credito, e così via». [Sereni, 2007]
La forte connotazione agricola dell’economia lucana, continua fino agli anni ’60 ad essere assimilabile a quella delle regioni limitrofe, Puglia e Calabria, come si evince dal grafico seguente, infatti, il settore agricolo continua ad assorbire in larga misura la forza lavoro presente sul territorio, anche dopo gli anni ’50, mentre si assiste al decollo del settore
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industriale che già dal ’60 assorbe un terzo della forza lavoro complessiva, nelle tre regioni meridionali. La svolta avviene, nel ventennio che va dal 1951 al 1975, periodo che coincide con l’attivazione dei nuovi flussi migratori, ed in cui l’agricoltura in Basilicata perde oltre la metà degli occupati nel settore, in controtendenza del dato relativo agli altri settori: l’industria ed il terziario occupano nel 1975 più della metà degli occupati settoriali degli anni ’50, tant’è che Giura Longo riporta che
L’andamento e la trasformazione della forza lavoro regionale appare ben evidente anche dai dati riportati da Giura Longo in riferimento al decennio dal 1965 al 1975, allorquando il peso dell’agricoltura si riduce sensibilmente dal 54% al 39%, con una perdita di ben 31.000 occupati, mentre il terziario vede un incremento di 16.000 occupati l’industria registra un aumento di circa 13.000 occupati, mentre crescono di 3.000 le persone in cerca di occupazione. A partire da allora e fino alla fine del secolo è proseguita nella sostanza questa tendenza, che anzi si è accelerata, e che ha determinato sempre più una marginalizzazione del settore agricolo, non solo rispetto a quello dell’industria, ma anche e soprattutto rispetto a quello dei servizi che, negli ultimi decenni, hanno conosciuto, un nuovo sviluppo grazie soprattutto all’evoluzione ed alla diffusione dei mezzi informatici e telematici. Come tutti i settori dell’economia anche l’agricoltura in Basilicata ha vissuto una modernizzazione attraverso la progressiva meccanizzazione che era
«Nel decennio a cavallo tra gli anni ’60 e gli anni ’70, dunque, e per la prima volta nella sua storia, la Basilicata assisteva ad una profonda trasformazione dei suoi caratteri originari, conquistando le posizioni di una più articolata ed equilibrata composizione sociale. Questo risultato, senza dubbio positivo, riassume il dato principale della storia sociale ed economica della Basilicata contemporanea e costituisce l’indicatore più idoneo a misurare l’ampiezza delle trasformazioni ivi allora registrate».
Tav. 10 - Macchine agricole e motori agricoli vari (1960-1990) Fonte: elaborazione dati ISTAT
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Tab. 2 - Gli invasi costruiti in Basilicata Anno di ultimazione dei lavori 1955
1959
1963
1968
Denominazione dell’invaso e principali caratteristiche Invaso di San Giuliano (fiume Bradano), capacità 107 Mmc (bacino sotteso di 1.631 kmq, 101,6 m.slm.), uso irriguo per il territorio della Basilicata per il 50%). Traversa di Gannano (fiume Agri), capacità 2,6 Mmc (bacino sotteso di 1.490 kmq, 99 m.slm.), uso irrigazione. Il serbatoio per l’irrigazione delle aree del Consorzio di Bonifica di Bradano e Metaponto è alimentato dell’invaso del Pertusillo posto più a monte. Invaso del Pertusillo (fiume Agri), capacità 155 Mmc (bacino sotteso di 630 kmq, 532 m.slm.), uso plurimo (irriguo per il territorio della Basilicata per il 32,3%). Invaso del Camastra (torrente Camastra), capacità 41 32 (bacino sotteso di 350 kmq, 534,6 m.slm.), uso plurimo (irriguo per il 13,3%, potabile e industriale per la restante parte).
1974
Invaso del Basentello - Serra del Corvo – (fiume Basentello), capacità 41 Mmc (bacino sotteso di 267 kmq, 269 m.slm.), uso irriguo.
1981
Invaso del Pantano (torrente Tora - Pignola), capacità 5,5 Mmc (769,2 m.slm.), uso industriale.
1983
Invaso di Monte Cotugno (fiume Sinni), capacità 530 Mmc (bacino sotteso di 890 kmq, 255,8 m.slm.), uso plurimo (irriguo per la Basilicata per il 41,9%).
1990
Invaso di Genzano (torrente Fiumarella), capacità 57 Mmc (bacino sotteso di 37 kmq, 443 m.slm.), uso irrigazione.
1994
Invaso di Acerenza (fiume Bradano), capacità 47 Mmc (bacino sotteso di 142 kmq, 457 m.slm.), uso irrigazione.
1996
Traversa di Trivigno (fiume Basento), capacità 0,45 Mmc, uso irriguo.
1996
Invaso di Marsico Nuovo (fiume Agri), capacità 7 Mmc (bacino sotteso di 26 kmq, 786,6 m.slm.), uso irrigazione.
Fonte: Elaborazione dati Autorità di Bacino Regione Basilicata.
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iniziata, in realtà, già a fine ottocento quando si cominciarono ad utilizzare per lo più gli aratri in ferro, che sostituirono quelli a chiodo, e macchine a vapore per i frantoi e le trebbiatrici [ne erano presenti 6 nel circondario di Matera, 1 nel comune di Genzano e 5 nel circondario di Melfi]. Nel 1904, secondo l’analisi di Sinisi, esistevano ben 57 trebbiatrici sul territorio regionale, di cui 13 nel comune di Genzano e 9 nel comune di Irsina. Ad inizio secolo, infatti, emergono i cosiddetti ‘agricoltori distinti’ per o più grandi proprietari ed affittuari del melfese e della costa ionica [Sinisi, 1989] che per primi introdussero macchine agricole e strumenti moderni per migliorare le produzioni agricole, ad esempio incrementando la viticoltura e l’olivicoltura. La diffusione delle trebbiatrici e delle mietitrici avvenne nelle zone del materano e del melfese per risparmiare sul costo della manodopera e non per modificare fattori ambientali negativi, come nei territori malarici e paludosi della Basilicata orientale; in tali zone infatti risultava più economica la coltivazione estensiva dei cereali. La diffusione degli aratri in ferro costituì un indubbio progresso, ma vi erano gravi ostacoli ad una trasformazione più radicale della cerealicoltura estensiva. Il territorio orientale della regione continuò ancora per poco ad essere segnato dalla transumanza che per secoli aveva dettato ritmicamente, nello spazio e nel tempo, i percorsi naturali, seguendo le direttrici che andavano dalla pianura ionica alla costa adriatica del foggiano e percorrendo le antiche vie dei tratturi regi. A partire dagli anni ’50, infatti, i pascoli iniziano a perdere la loro importanza, a vantaggio della produzione primaria e, se da un lato emerge una forte spinta ad utilizzare superfici agricole come le pianure per scopi industriali, ed aumentano le reti viarie di collegamento sul territorio, dall’altro crescono le tendenze incentivanti della produzione
agricola, la diffusione della meccanizzazione agricola, con la conseguente messa a coltivazione di aree anche meno vocate e l’abbandono delle campagne. Si registra dal 1960 al 1990 un crescente l’impiego dei mezzi meccanici nelle produzioni agricole che è evidenziato nel grafico seguente; si tratta di macchine agricole tra cui trattici, mietitrebbiatrici, motofalciatrici, motocoltivatori, motozappatrici, motoagricole ed altri motori agricoli. Per comprendere il rivolgimento epocale introdotto dell’innovazione tecnologica nel paesaggio agrario lucano, può essere utile considerare quanto scrive l’archeologo Dinu Adamesteanu: «Nelle prime riprese aeree la città di Metaponto, nonostante i danni subiti nei primi decenni del ‘900, appariva talmente ben articolata da permettere di fissare il suo intero impianto urbano. Anche in qualche altra fotografia aerea ripresa durante l’ultima guerra si notano bene la cinta delle mura, l’impianto ortogonale e l’area sacra della colonia achea. Ma la città ha sofferto un grave colpo dopo il 1956, allorquando, con la riforma Agraria, sono stati introdotti in agricoltura i potenti mezzi meccanici. Sulle riprese aeree effettuate dal 1964 in poi, infatti, tutte le ‘anomalie’, che una volta indicavano anche i quartieri della città, sono sparite quasi completamente».
Altro elemento determinate, legato alle nuove tecnologie disponibili, è stata la realizzazione delle imponenti infrastrutture di sbarramento “a monte” dei fiumi, che finalmente compiono il disegno concepito ad inizio secolo da Nitti e dall’ing. Omodeo, che consentono l’irrigazione di migliaia di ettari di terreno agricolo. Nell’uso delle acque per l’irrigazione non si registrarono sviluppi significativi nemmeno a seguito della legge speciale del 1904 tanto
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Tav. 11 – Sistema delle infrastrutture idriche primarie in Basilicata Fonte: Basilicata Regione Notizie n. 122-129/ 2009, p. 135
La trasformazione del paesaggio agrario in Basilicata nel XX secolo
Tav. 12 – Le principali vie di comunicazione in età contemporanea. Fonte: S. Menichini, L. Caravaggi, op. cit., pag. 48
133 che nel 1917 erano irrigati circa 9.000 ettari per lo più nelle valli Dell’Agri e del Sinni e l’irrigazione, per lo più, era realizzata con “canali scavati nel terreno, [...] dighe in ciottoli, fascine e pali che andavano distrutte ad ogni piena” [Sinisi, 1989]. A parte l’eccezione dell’invaso di Muro Lucano, di cui si è già detto, alla seconda metà del secolo sono riconducibili le costruzioni dei principali invasi sul territorio lucano, in gran parte destinati ad uso irriguo. La svolta tecnologica consentì dunque già agli inizi degli anni ’70 di rendere irrigui oltre la metà delle aree irrigabili: “70.000 ha di superficie, su un’area irrigabile complessiva pari a circa 130-140.000 ha” [Piano Regionale di Sviluppo 1994-96], permettendo l’introduzione in vaste aree interne di una agricoltura moderna, basata su colture arboricole ed orticole di pregio e più remunerative. Come si evince dai riferimenti di seguito riportati, la costruzione di tali opere, per le loro caratteristiche, quali capacità massima e dimensione del bacino sotteso, ha rappresentato sicuramente un elemento di impatto notevole sul paesaggio agrario. Tuttavia questo importante programma di sbarramenti sulle aste fluviali, insieme alle altre alterazioni degli ambienti naturali, ha causato anche conseguenze negative non trascurabili riducendo l’apporto di sedimenti ed inerti che si depositano a valle degli sbarramenti. A partire dagli anni ’50 il litorale ionico, è stato infatti interessato da forti processi erosivi che hanno determinato rilevanti fenomeni di arretramento della linea di riva, lo smantellamento di ampi settori di spiaggia e di parte dei cordoni dunali che, ad oggi, hanno arrecato danni rilevanti ai sistemi naturali, ai sistemi antropici ed alle attività economiche presenti nell’area costiera [Vita, 2009]. Per lo sviluppo agricolo della Basilicata è anche determinante il nuovo assetto delle infrastrutture viarie regionali, che a partire dal dopoguerra, rom-
134 pono l’isolamento atavico sia della regione verso l’esterno, sia di molte aree interne in precedenza inaccessibili, aprono prospettive inedite per la commercializzazione dei prodotti agricoli e rivoluzionano la stessa percezione delle distanze nella geografia regionale [Giambersio 2007]. Tali infrastrutture segnano profondamente le principali fondovalli, con strutture in cemento armato tipiche della viabilità a scorrimento veloce, e caratterizzano il paesaggio agrario lucano contemporaneo con viadotti, gallerie, barriere prima del tutto assenti. Una fotografia, scattata negli anni ’70 da Henri Cartier-Bresson, mostra un contadino lucano che semina ‘a braccio’, ripetendo un gesto antichissimo su un campo arato i cui limiti sono definiti dai piloni di un viadotto moderno che taglia il paesaggio, e riesce a sintetizzare questi travolgenti cambiamenti in una singola immagine memorabile che diviene un emblema per la trasformazione del paesaggio agrario lucano. Fenomeni analoghi sono ovviamente presenti in tutto il territorio nazionale ma qui in Basilicata la loro dirompente modernità contrasta in modo più evidente con gli echi di una tradizione contadina ancora radicata perché preservata dal lungo isolamento. Una interessante lettura delle trasformazioni del paesaggio italiano, che nella grandi linee inquadra quanto avviene in Basilicata nel contesto nazionale, si ricava dagli studi condotti da Alberto Magnaghi che individua un discrimine importante nel fenomeno della ‘deterritorializzazione’ che egli fa discendere direttamente dal processo di ‘fordizzazione’ accelerata che hanno subito a livello internazionale le produzioni industriali. In poche ma significative parole: «Il processo di deterritorializzazione, date le condizioni storico-geografiche in cui è avvenuta la trasformazione, è stato imponente: esodo dai si-
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stemi urbani pedemontani e vallivi alpini, abbandono dell’ ‘osso’appenninico, marginalizzazione dell’armatura urbana storica delle piccole e medie città, esodo dal Sud, costruzione delle aree metropolitane dell’ ‘ellisse padana’ come esito del processo di massificazione del lavoro». [Magnaghi, 2000]
Il risultato di questo processo accelerato che, in pochi anni, ha trasformato in modo decisivo il paesaggio italiano restituisce un territorio destrutturato con gli spazi aperti che, secondo la lettura proposta da Magnaghi dei fenomeni territoriali, vengono smembrati in: - Spazi usati per l’ ‘urbanizzazione delle periferie industriali metropolitane’: ossia gli spazi che accolgono le nuove conurbazioni dove vengono inglobati ed in massima parte cancellate le precedenti fragili strutture dei borghi periurbani, dei tessuti rurali ed agricoli marginali alle città per far posto ai centri di produzioni, le fabbriche, ai quartieri dormitorio, alle sempre più imponenti infrastrutture di trasporto, ai centri commerciali; - Spazi, prevalentemente di pianura, adatti all’insediamento dell’ ‘industria verde’ che vengono letteralmente ‘rasi al suolo’ per le esigenze connesse ad un’agricoltura meccanizzata basata sull’uso intensivo della tecnologia e della chimica e che ha fatto progressivamente scomparire elementi caratterizzanti il territorio agrario italiano quali la ‘piantata’, i canali, i filari, i microclimi, i borghi rurali e le cascine; - Gli ‘spazi costieri destinati al tempo libero’ di quanti sono all’interno di questo ciclo produttivo di massa e dove si sviluppa un’industria della vacanza che produce conurbazioni lineari litoranee;
La trasformazione del paesaggio agrario in Basilicata nel XX secolo
135 Tab. 3 - Occupati per settore economico Fonte: PSR Basilicata 2007-2013, op. cit., p. 82
Tav.13 – Carta delle aree rurali. Fonte: PSR Basilicata 2007-2013
Il paesaggio della ‘collina e della montagna’ che viene di fatto abbandonato e destinato al degrado progressivo ambientale e sociale pur essendo rilevante sia dal punto di vista dimensionale [si tratta in sostanza di tutta l’area appenninica] sia per storia. In sostanza l’analisi spietata del Magnaghi restituisce un territorio che “nella sua accezione complessa ed integrata di ambiente fisico, ambiente costruito ed ambiente antropico, viene semplicemente sepolto, ridotto allo spazio astratto, atemporale dell’economia.” -
Lo stato attuale Il territorio rurale lucano Tutti i cambiamenti intercorsi dal dopoguerra ad oggi hanno determinato un assetto territoriale che supera in modo sostanziale quello descritto dall’Azimonti all’inizio del secolo, che era ancora presente nell’immediato dopoguerra. L’assetto del territorio contemporaneo è descritto nei documenti
di programmazione predisposti dalla Regione Basilicata per l’utilizzo dei fondi dell’Unione Europea tra i quali il principale è il Programma di Sviluppo Rurale della Basilicata 2007-2013 predisposto dalla Regione Basilicata ed approvato dalla Commissione Europea con Decisione CE n. 736/2008 sulla base del Regolamento CE n. 1698/2005. In tale ottica è centrale il concetto di sviluppo rurale, che afferma il valore della dimensione territoriale rispetto a quella settoriale ed in tale contesto la Basilicata, secondo le indicazioni comunitarie, è stata classificata interamente rurale. Nello specifico, i territori rurali della Basilicata sono: L’Area B ‘Area rurale ad agricoltura intensiva specializzata’ - Pianura del Metapontino che comprende i sei comuni di pianura situati nella fascia ionica del Metapontino. Essa si caratterizza per: - la diffusione di un’agricoltura intensiva specializzata in coltivazioni orticole e frutticole; sono concentrate la maggior parte delle associazioni di produttori ed è stato istituito il Distretto agroalimentare di qualità del Metapontino. Le perduranti inadeguatezze delle dotazioni logistiche
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e infrastrutturali e carenze dell’organizzazione e dell’integrazione nelle filiere agricole e agro – industriali, producono tuttavia una costante sottoremunerazione dell’attività agricola. una vocazione turistica poiché oltre il 42% delle infrastrutture turistiche e dei posti letto alberghieri regionali sono qui concentrati. Sono presenti pertanto problemi di competizione nell’uso delle risorse primarie, di impatto ambientale e di sostenibilità dell’attività agricola. In questo territorio, infatti, si concentrano le zone vulnerabili ai nitrati, ma sono presenti anche territori ad alto valore naturalistico con presenza di Siti di Importanza Comunitaria [SIC] e Zone a Protezione Speciale [ZPS].
L’Area D.1 – ‘Area ad agricoltura con modelli organizzativi più avanzati’ che comprende 61 comuni e racchiude il Parco Nazionale del Pollino e il Parco della Val d’Agri e quello in via di istituzione del Vulture. Essa presenta: - un’ampia varietà di habitat naturali, zone SIC e ZPS; Tab. 4 - Destinazione della Superficie Agricola Utilizzata (SAU) Fonte: PSR Basilicata 2007-2013, op. cit., p.83
il livello della la redditività dell’agricoltura alquanto bassa e terreni poco produttivi; - realtà agroalimentari di eccellenza, legate a produzioni di qualità quali l’Aglianico del Vulture; - un’elevata presenza di addetti all’industria agroalimentare [il 47,3% del totale regionale] sia per la presenza di opifici a valenza nazionale, sia la presenza di una rete di piccole e medie strutture di trasformazione, quali ad esempio, le cantine e gli oleifici nell’area del Vulture; - una scarsa dotazione dei servizi e di infrastrutture, non solo relativamente alla viabilità, ma anche alla dotazione di infrastrutture turistiche. L’Area D.2 – ‘Aree interne di collina e montagna’ che comprende 64 comuni e copre il 53% circa della superficie territoriale lucana, compreso i due capoluoghi. Essa si caratterizza per: - il maggior rischio di abbandono della attività agricole infatti gli occupati in agricoltura sono il 9%, il valore più basso delle tre aree, e la maggior parte sono anziani, con problemi legati alle difficoltà di adeguamento delle competenze e di apertura alle innovazioni; -
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la gran parte della superficie è investita a seminativi [67%] e circa il 28% a prati pascolo, con bassi livelli di redditività delle colture, dovuti alla scarsa qualità dei terreni ed alla diffusione della monocoltura; la presenza di una cerealicoltura estensiva e forti caratteri di naturalità, sia per la presenza di superficie protetta, di zone SIC e ZPS, sia per la diffusa presenza di foreste, ambienti fluviali e lacustri, con elevati livelli di biodiversità.
principali e per l’area del Metapontino. Se i comprensori rivenienti dall’azione della Riforma Fondiaria, necessitano di più incisive azioni di manutenzione, il Vulture Alto Bradano e la Val d’Agri è invece il territorio regionale meglio dotato, per i miglioramenti intervenuti in seguito all’insediamento FIAT; di contro la peggiore dotazione stradale si riscontra nei comuni delle aree interne di collina e di montagna. Relativamente alle infrastrutture telematiche [ICT] per le aziende agricole e le popolazioni rurali, le aree rurali risultano in generale meno servite rispetto a quelle urbane, tant’è che per la sola infrastrutturazione informatica i dati relativi al “Piano regionale per il superamento del digital divide” evidenziano una significativa sottodotazione di questi servizi nelle aree rurali, in particolar modo in quelle interne. Per questo nell’ambito del Programma Operativo Regionale 2000-2006, la Regione Basilicata ha attivato il progetto integrato Basitel 2 finalizzato a promuovere l’impiego diffuso di strumenti, servizi e applicazioni, basati sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Tra le componenti infrastrutturali che potenzialmente influenzano il territorio e la sua crescita troviamo da un lato la dotazione di strutture ricreative e culturali, che in regione risulta piuttosto scarsa, dall’altro la dotazione di strutture ricettive, per la quale la maggiore concentrazione si rileva nella pianura metapontina. A tal proposito è interessante citare due progetti di ricettività “L’Albergo Diffuso” del GAL COSVEL che ha creato 165 posti letto con interventi di recupero delle abitazioni in disuso, ed il progetto “Il Borgo della Cattedrale” del GAL SSR Aristeo che ha ripristinato vecchie unità immobiliari esistenti nel centro storico di Acerenza [PSR Basilicata 2007-2013]. Anche il settore agrituristico lucano, nel breve periodo compreso dal 1988 fino al 2004, ha cono-
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In generale, all’interno dei territori dell’Area D è maggiormente sentito il problema dell’invecchiamento della popolazione e del progressivo spopolamento dei piccoli comuni. Dal punto di vista dell’occupazione, il settore primario, in termini di percentuale di addetti, riveste maggiore importanza nell’area rurale B ad agricoltura intensiva, con il 21% degli occupati. Nella altre due aree D1 e D2 ha rilevanza il terziario, che assorbe rispettivamente il 54,3% ed il 60,9% degli occupati, per la presenza in questi territori dei due capoluoghi di provincia, ove sono maggiormente concentrati gli uffici pubblici e i servizi. Circa la destinazione agricola, l’area B presenta il carattere maggiormente intensivo con le dimensioni medie aziendali più basse rispetto al dato regionale. Nell’area B, oltre 1/3 della superficie agricola utilizzata è investito in coltivazioni legnose agrarie; nelle aree D1 e D2 i prati permanenti ed i pascoli coprono circa il 30% della superficie agricola utilizzata. Le infrastrutture presenti non risultano sempre adeguate alle esigenze delle popolazioni rurali e delle imprese, ancor meno per quelle residenti in aree montane a vocazione agro silvo-pastorale. La viabilità rurale, come estensione, risulta complessivamente soddisfacente in regione, specie per i territori situati in prossimità delle arterie stradali
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sciuto una forte crescita, raggiungendo le 253 unità su tutto il territorio regionale. Le fattorie didattiche rappresentano un altro esempio di iniziativa di diversificazione dell’attività agricola, capace di legare l’attività dell’azienda agricola all’ambiente in un’ottica di sostenibilità. In Basilicata è una delle esperienze più recenti ed innovative del territorio, ancora poco presenti: secondo i dati del censimento nazionale del settore al 2002 risultano attive sei fattorie didattiche di cui quattro biologiche. La fotografia dell’ agricoltura lucana attuale Il suolo regionale risulta costituito prevalentemente da Superficie Agricola Utilizzata [SAU] per oltre il 58% del territorio regionale [Italia 51,9%], a seguire dalle aree forestali e naturali per il 40,2% [Italia 42%], in minima parte da aree artificiali 1,44% [Italia 4,7%], ed infine le zone umide ed i corpi idrici che rappresentano lo 0,3% del territo-
Incidenza % seminativi
rio lucano [Rapporto APAT 2005]. Inoltre, secondo l’analisi dei dati ISTAT relativi al censimento generale dell’agricoltura del 2000, nel decennio 19902000, la superficie agricola utilizzata ha subito una riduzione complessiva del 14%, in maggior misura in montagna. Nel 1999, in Basilicata si registra il tendenziale decremento del valore aggiunto del settore agricolo, tanto che, secondo quanto riportato dalla Conferenza regionale per l’Agricoltura 1999: “la ripartizione del valore aggiunto lucano mostra la predominanza del settore terziario che contribuisce, nel 1997, al valore totale per il 64%”, contro il valore dell’agricoltura per il 7,52% e dell’industria per il 28,5%.”. Dal punto di vista occupazionale, la diminuzione dell’offerta di lavoro ha interessato tutti i settori di attività, ma il settore agricolo ha subito in media un calo maggiore perdendo circa il 30% rispetto al 1990. Nello stesso periodo, diminuisce notevolmente anche il peso totale degli addetti al settore agricolo sugli addetti totali, con una riduzione di ben 3,2 punti percentuali
Incidenza % prati permanenti
Incidenza % coltivazioni legnose agrarie
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dal 1990 al 1996, mentre l’industria si riduce solo di 1,6 puntied il settore delle altre attività aumenta di 4,8 punti percentuali. In termini di utilizzazione dei terreni agricoli, allo stato attuale, il paesaggio agricolo lucano, come quello italiano, è costituito da seminativi, che rappresentano il 62% della superficie agricola utilizzata, con punte molto elevate nell’Alto Bradano dove i seminativi sfiorano il 90%. Nel decennio 1990-2000 la superficie destinata a seminativi si è ridotta di circa 50 mila ettari ovvero del 13,4%, con una conseguente diminuzione del suo valore medio per azienda che è passato da 6,19 a 5,98 ettari. In termini di produzione primaria vale la pena richiamare alcuni dati della recente analisi regionale: - Le colture prevalenti continuano ad essere quelle cerealicole con circa il 45% di SAU, rappresentate da oltre 210 mila ettari a frumento. - Le coltivazioni legnose agrarie coprono il 10,5% della SAU, ovvero 56.265 ettari e sono praticate dal 70,3% delle aziende. - L’olivo è la coltivazione più diffusa con 28.750 ettari e con un incremento sia del numero delle aziende [+7,6%] sia della superficie [+12%] rispetto al decennio precedente. - Gli ettari investiti nella coltivazione della vite sono 8.737 distribuiti in circa 24.000 aziende. Rispetto ai dati del 1990 si nota come si sia verificata una forte contrazione sia del numero delle aziende viticole [-35%] sia della superficie investita [-33,6%], mentre le produzioni di qualità sono in netta espansione e costituiscono una delle produzioni agricole più floride: la vite per la produzione di vini DOC ha avuto un incremento del 498,9% in termini di aziende agricole, con un aumento del 192,2% della superficie investita. - Per gli agrumi e i fruttiferi si registrano, tra i due
censimenti, aumenti sia in termini di aziende [+47,2%] che di superficie investita [+34,5%]. Significativa è la riduzione delle aziende e della superficie investita a prati permanenti e pascoli, sicuramente correlata alla riduzione dei capi allevati, e particolarmente problematica in relazione alle possibili conseguenze legate all’abbandono di tali terreni, in particolare in montagna. Le aziende che praticano l’allevamento del bestiame, al 2000, sono 20.306 in diminuzione rispetto al dato del precedente censimento [-29,2%]. [PSR Basilicata 2007-2013].
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In corrispondenza di tali dati il Censimento della agricoltura del 2000 restituisce la cartografia di tre differenti paesaggi agrari caratterizzati rispettivamente da una prevalenza di superfici destinate a seminativo, a coltivazioni legnose agrarie ed a prato permanente, così come evidenziato nella tavola seguente. Nello stesso decennio 1990-2000 si assiste ad una lieve diminuzione del numero delle aziende agricole pari all’1,7%, mostrando una maggiore stabilità che nel resto del Sud e in Italia. Tale riduzione del numero di aziende agricole, connessa alla contemporanea riduzione della superficie agricola utilizzata, risultata pari a circa l’11% dal 1990 al 2003, ha confermato il permanere di una situazione di marcata polverizzazione aziendale. Infatti, secondo i dati dell’ultimo Censimento, complessivamente le aziende con meno di 5 ettari di superficie agricola utilizzata rappresentano il 75,1% del totale regionale, sono circa 30.138 [36.8%] le aziende che hanno meno di un ettaro di superficie agricola utilizzata, quelle fino a 2 ettari rappresentano il 17,4%, mentre quelle con più di 100 ha sono appena lo 0,7. Il contesto strutturale agricolo lucano attuale mostra le disfunzioni intrinseche sia in termini di
140 utilizzazione ottimale dei fattori produttivi, che di rapporti con il mercato dei capitali e con la commercializzazione, tant’è che è la stessa organizzazione del lavoro nell’agricoltura lucana a risentire dell’eccessiva parcellizzazione delle aziende e delle forme di gestione non sempre funzionali alle necessità di innovazione tecnologica del settore. Dal PSR 20072013 si rileva anche che in Basilicata: - la quasi totalità delle aziende è a conduzione diretta, con prevalente manodopera familiare, a conferma di un modello di gestione sostanzialmente tradizionale, con limitati elementi di managerialità; - circa l’assetto della proprietà in generale, la forma giuridica più diffusa è l’impresa individuale, e solo una minima parte è rappresentato dalle società di capitali e dalle società di persone; - relativamente al possesso del terreno ed alla conduzione, la prevalenza delle aziende è di sola proprietà del coltivatore, in minima parte è in affitto e la maggioranza delle aziende è condotta direttamente con prevalente manodopera familiare, mentre le aziende condotte con salariati sono residuali; - la quasi totalità delle imprese ha una dimensione media aziendale corrispondente a quella della microimpresa, con un numero di addetti tra 1 e 9. Le caratteristiche strutturali e produttive del settore primario lucano, insieme alla conformazione orografica del territorio ed alle sue peculiarità pedoclimatiche, che hanno fortemente condizionato le possibilità di sviluppo della struttura e dell’economia agricola regionale, continuano dunque a ‘segnare’ anche il paesaggio agricolo attuale. Negli ultimi decenni è però da evidenziare un cambiamento culturale che vede capovolgere il concetto di ‘natura matrigna’ che si trova spesso riferito
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dai meridionalisti all’inizio del secolo relativamente all’assetto idrogeologico della Basilicata e si introduce il concetto di ambiente naturale come ‘risorsa da tutelare’. Si chiude così il cerchio e si passa da quella che era una cultura profondamente legata alla terra, considerata soprattutto come strumento primario di produzione da piegare alle esigenze umane con interventi ‘eroici’ di bonifica e risanamento, e si giunge al concetto di ‘natura fragile’, perché ormai domata dalla tecnologia, tipico delle società post-industriali dove la terra non è più altro che un supporto per iniziative imprenditoriali e produttive di vario genere e la natura è un elemento raro, da relegare nelle ‘riserve’. In conseguenza di questa nuova prospettiva vengono riconsiderate le potenzialità delle risorse ambientali e della biodiversità, che fanno ripensare alle intuizioni di Nitti che risultano quanto mai attuali, ed anche la programmazione regionale “ha impostato la propria politica di sviluppo sulla protezione del patrimonio naturale esistente” [PSR Basilicata 2007-2013]. A tal proposito è da notare che secondo i dati ISTAT del 2004, il potenziale produttivo in termini di energia rinnovabile per la Basilicata è ben più alto del dato nazionale quindi, nelle prospettive dello sviluppo rurale lucano, è significativo senz’altro anche l’apporto delle foreste regionali alle tematiche come quella della riduzione dei cambiamenti climatici attraverso lo sviluppo di nuove fonti energetiche ‘pulite’. La superficie forestale regionale della Basilicata, secondo i primi risultati dell’Inventario Forestale Nazionale è pari a 355.324 ettari, circa il 35% della superficie regionale, di cui 152.211 ha compresi in aree protette. La superficie forestale ricade per oltre il 60% in provincia di Potenza ed il 66% circa della proprietà è pubblica, differenziata tra Stato, comuni e altri enti [PSR Basilicata 20072013].
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Prospettive Le ultime tendenze del sistema agricolo lucano risentono dei mutamenti in atto dal livello locale a quello globale [demografico, economico, sociale e culturale]. Di fronte ai cambiamenti climatici, alla necessità di tutelare la biodiversità, di favorire la diffusione delle tecnologie informatiche attraverso la banda larga, di favorire la produzione di energie rinnovabili, si assiste all’introduzione di nuove pratiche colturali a basso impatto ambientale. Ad ogni livello, le nuove scelte politiche per il settore agricolo e forestale riprendono contenuti, strategie ed obiettivi del Libro Bianco della Commissione Europea [COM n.147/2009] tra cui la riduzione dei “gas serra” del 20%, rispetto al dato del 1990, ai fini di una produzione sostenibile anche per il comparto agricolo e forestale. Le opzioni regionali rispettano anche le stesse finalità previste dal cosiddetto “Pacchetto clima – energia” in tema di aumento del 20% di produzioni di energia da fonti rinnovabili e relativamente all’esigenza di contenere le emissioni dell’agricoltura. Sono forti le spinte provenienti dalla globalizzazione: si chiede all’Unione europea di fare spazio ai prodotti del Paesi poveri eliminando sostegni, protezionismi doganali e premi per le produzioni [Coviello, 2009] e l’attuale riforma della Politica Agricola Comunitaria [PAC], rappresenta l’evoluzione della cornice di riferimento per il settore agricolo. La nuova politica agricola comunitaria di incentivo alla produzione costituisce il cosiddetto primo pilastro della PAC e prevede la riduzione del sostegno diretto alle produzioni ed aiuti non più connessi ai quantitativi di produzione, ma sempre più legati al rispetto delle regole di sostenibilità ambientale. Tale politica, insieme alle attuali condizioni di mercato, caratterizzate da forti cadute dei prezzi dei prodotti
141 agricoli, ha determinato le condizioni favorevoli per la riduzione quantitativa delle produzioni agricole. A livello comunitario, la nuova politica agricola europea trova il suo equilibrio con la maggiore attenzione attribuita alle politiche di sviluppo rurale, il cosiddetto secondo pilastro della PAC, ponendo maggiore attenzione alle tematiche ambientali, favorendo il presidio del territorio rurale, garantendo la salubrità dei prodotti, sostenendo le innovazioni organizzative e di profilo dell’impresa agricola ed incentivando la diversificazione e la multifunzionalità dell’azienda, definendo così un nuovo ruolo dell’imprenditore agricolo sul territorio e promuovendo un diverso concetto di utilizzo delle risorse territoriali. La politica agricola comunitaria, iniziando con l’introduzione dell’obbligo della messa a riposo delle superfici agricole ‘Set-aside’, aveva avuto già una valenza ambientale, in connessione agli effetti positivi sulla fertilità dei terreni e sulla biodiversità, favorendo nel contempo la riduzione dell’inquinamento delle acque e dei suoli. La progressiva attenzione alle politiche ambientali emerge con evidenza nel sistema agricolo lucano dall’adesione di molte aziende al biologico, che è stata incentivata a partire dal 1992 con il sostegno comunitario “secondo i dati del Dipartimento Agricoltura, Sviluppo Rurale e Economia Montana, ad oggi sono presenti ben 5.360 aziende e 115.230 ettari di coltivazioni biologiche” [PSR Basilicata 2007-2013]. «Negli ultimi anni è notevolmente aumentata la superficie utilizzata per l’agricoltura ecocompatibile, che trova in Basilicata condizioni particolarmente favorevoli, sia legate a fattori climatici, sia per le caratteristiche tecniche ed economicosociali dell’attività agricola, che limita l’attività intensiva a circa un terzo della superficie utilizzata
142 e produttiva in generale, determinando un ridotto apporto degli inquinanti dovuti agli insediamenti. Inoltre, risulta molto diffusa sul territorio l’adozione del codice della buona pratica agricola e le pratiche legate al benessere degli animali». [PSR Basilicata, 2007-2013]
In effetti la programmazione comunitaria incide sul paesaggio agrario lucano poiché, utilizzando la leva degli incentivi pubblici, ha influito sulle politiche agricole nazionali a partire dall’adesione dell’Italia al Trattato istitutivo dell’Unione Europea e fino ad oggi supportando sia il sistema pubblico che quello imprenditoriale privato orientandone gli investimenti agricoli e forestali sul territorio regionale. Attualmente in Basilicata è attivo il Programma di Sviluppo Rurale [PSR] per il periodo 2007-2013, in attuazione del Regolamento [CE] n. 1698/2005 per lo Sviluppo Rurale, con una dotazione finanziaria pari a circa 875 milioni di euro, di cui circa 387 milioni di euro di contributo comunitario. Come risulta dall’analisi degli obiettivi e assi di intervento del PSR, le attuali politiche comunitarie regionali puntano sulle azioni connesse all’uso del suolo, all’organizzazione ed alla qualità delle produzioni agricole, ovvero sulle componenti fondamentali di impatto sul paesaggio agrario. Si tratta di azioni determinanti sull’utilizzo delle risorse, sia per le scelte pubbliche sia per quelle imprenditoriali private, poiché determina investimenti di diversificazione dell’economia rurale, di infrastrutturazione ed offerta di servizi per favorire il presidio del territorio, di valorizzazione e tutela del patrimonio rurale, di qualificazione colturale mediante innovazioni di prodotto e di processo, ma soprattutto favorendo sempre più gli aspetti ambientali. Si sostiene di fatto l’aspetto organizzativo e strutturale delle aziende
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agricole e forestali, anche attraverso l’implementazione di modelli organizzativi capaci di completare i processi, dalla produzione alla commercializzazione, puntando molto sulla qualità dei prodotti e dei servizi forniti, al fine di migliorare la competitività dei mercati nazionali ed internazionali, ad esempio promuovendo la logica delle filiere per i diversi comparti produttivi. Nell’ottica di una lettura del paesaggio agrario non è trascurabile il mutamento in atto a livello economico-sociale che sta imponendo il passaggio da un’economia agricola di crescita senza regole ad un’economia agricola di equilibrio con lo sviluppo della qualità della vita nelle aree rurali e con un approccio sostenibile in termini ambientali e di responsabilità sociale nell’uso delle risorse. Inoltre in questi anni si registra una nuova tendenza che, se pur limitata a casi non generalizzabili, evidenzia una nuova attenzione per il comparto primario dell’economia che è visto dai ceti dell’alta borghesia lucana, che dispongono di capitali da investire e di conoscenze tecniche ed imprenditoriali di primo rilievo, come un settore stabile per investimenti di lungo periodo. Questi nuovi imprenditori agricoli, spesso anche di età giovane, con l’introduzione di innovazioni di processo e di prodotto puntano sull’eccellenza e sulla qualità dei prodotti agricoli [il vino Aglianico in primo luogo ma anche l’olio e altri prodotti tipici] e sulla diversificazione dell’offerta, realizzando anche strutture produttive e agrituristiche di elevata qualità. Una ulteriore opportunità di diversificazione ed integrazione, che probabilmente andrà ad incidere in modo considerevole sul paesaggio agrario lucano nei prossimi anni, sarà riconducibile alla produzione di energia tramite l’installazione ad esempio di pannelli solari e di impianti di mirco-produzione eolica che si stima possano contribuire in modo significativo non solo a diminu-
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ire i fabbisogni energetici delle aziende agricole ma anche, in prospettiva, potranno diventare una vera e propria fonte di reddito alternativo. Tale circostanza ripropone, dopo un secolo l’intuizione di Nitti che vedeva strettamente collegato il destino dello sviluppo dell’agricoltura con le opportunità connesse alla produzione di energia. I modelli di agricoltura sostenibile, la multifunzionalità dell’azienda agricola, sono dunque le nuove strade anche per l’agricoltura lucana e le nuove attività di servizio nelle aree rurali diversificheranno anche l’economia agricola regionale. La pratica di colture poco redditizie come il grano e altri cereali lasceranno il posto alle nuove pratiche colturali ecocompatibili, alle colture legate alla domanda crescente di bioenergie, e lentamente si assisterà al ridisegno anche della mappa dell’agricoltura lucana.
Un primo passo in tal senso è rappresentato dalle “Linee guida per la progettazione integrata del paesaggio della Basilicata” che è un documento di indirizzo, redatto sulla base dei principi della Convenzione Europea del Paesaggio, dove sono tracciate le metodologie della pianificazione paesaggistica coniugate a livello regionale e dove, oltre alla definizione di un quadro conoscitivo del paesaggio regionale è impostata anche una guida al riconoscimento dei paesaggi ed una guida alla progettazione del paesaggio. Il paesaggio agrario ha un ruolo importante in questo lavoro che individua, sin dalle premesse, l’opportunità di
La nuova pianificazione paesistica La Regione Basilicata si era già dotata, sulla base della Legge regionale n. 3 del 1990, di ben 6 Piani Paesaggistici Territoriali [PPT] di area vasta per un totale di circa 2.597 kmq corrispondenti a circa il 25% della superficie regionale. Questi piani di prima generazione avevano come riferimento la legge nazionale precedente al nuovo Codice per i Beni Culturali, di cui si è parlato in precedenza, e ne è pertanto prevista una revisione ed un superamento. Un nuovo assetto per il paesaggio agrario lucano potrebbe essere favorito dal lavoro che attualmente sta predisponendo la Regione Basilicata, e specificamente il Dipartimento Ambiente, Territorio, Politiche della Sostenibilità che ha attivato una serie di ricognizioni propedeutiche alla redazione del Piano Paesaggistico Regionale che è attualmente in via di definizione.
«diffondere e ampliare una diversa e innovativa cultura del paesaggio inteso come bene storico ambientali i cui valori e significati vanno ricercati nelle complesse interrelazioni tra risorse fisco naturalistiche, risorse storiche, risorse sociali e simboliche, risorse dell’eccellenza agroalimentare». [Menichini – Caravaggi, 2006]
Già nella fase di analisi, nel quadro conoscitivo, si evidenzia poi l’importanza del settore agricolo al quale viene dedicata una specifica mappatura tematica. «La mappatura dell’indagine tematica sul settore agricolo ha evidenziato come la localizzazione sul territorio dei gruppi obbedisca a regole completamente svincolate da quelle della vitalità socio-economica nel suo complesso. Ciò testimonia il fatto che non esiste un ‘modello agricolo di successo’, cui si associa un buon andamento complessivo delle variabili demografiche ed economici. L’analisi ha messo in evidenza la presenza di 6 gruppi di comuni ben identificabili anche a livello geografico:
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Tav. 15 – Vista attuale della piana di Metaponto Fonte: foto di A. Cimmino da AA.VV. “Linee Guida per una corretta gestione del paesaggio”, op. cit. p. 18
• un primo gruppo in cui ad una prevalenza del seminativo e del pascolo (63%) come forma di utilizzazione dei terreni si associa una dimensione media elevata delle aziende (13,9 ha) ed una bassissima percentuale di conduttori/proprietari. I comuni appartenenti a questo gruppo sono situati nella parte interna della regione, con un’estensione che raggiunge il confine settentrionale con la regione Puglia; • un secondo gruppo in cui la presenza del seminativo (67%) si accompagna invece ad una dimensione aziendale nettamente inferiore (7%), con il 41% delle aziende sotto 1 ettaro. Le aree geografiche interessate da queste caratteristiche sono il materano, il potentino ed il melfese; • il terzo gruppo si connota per un’elevata presen-
za di boschi (34%) e una dimensione aziendale nella media regionale. Si tratta del territorio appenninico di confine con la Campania e la Puglia; • il quarto gruppo è connotato dalla specializzazione a frutta della produzione agricola (24%) e coincide in buona parte con la parte meridionale della costa jonica; • la forte presenza di coltivazioni a vite (19,9%) connota invece il quinto gruppo, composto da appena 4 comuni, due dei quali a ridosso della costa tirrenica; • l’ultimo gruppo, anch’esso costituito da 4 comuni, tra i quali Maratea, è invece caratterizzato dalla prevalenza dell’olivo (57%) e dalla più ridotta dimensione media delle aziende (appena 5,5 ha)». [Menichini – Caravaggi, 2006]
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Inoltre la rilevanza del paesaggio agrario è messa in rilievo in quanto, tra le risorse storico-culturali, le linee guida comprendono importanti esempi di trasformazione agricola del paesaggio quali gli interventi di bonifica realizzati nel Metapontino negli anni cinquanta e considerano come risorsa paesistica l’eccellenza agro-alimentare presente in regione. Un altro lavoro estremamente interessante è costituito dal risultato di un progetto della Comunità Europea Interreg III Medocc dal titolo “Linee guida per una corretta gestione del paesaggio” al quale ha attivamente partecipato la Regione Basilicata. In questo documento, realizzato in collaborazione con 13 regioni italiane, spagnole e francesi e greche, si definiscono le buone pratiche per una corretta gestione del paesaggio nell’area del Mediterraneo occidentale. Lo studio, che fornisce una serie di elementi metodologici mutuati da una vasta serie di esempi elaborati su scala internazionale, si basa su quattro ambiti tematici considerati preminenti nel paesaggio Mediterraneo ed il primo di questi riguarda proprio i paesaggi agrari. La relazione finale dello studio evidenzia che «I paesaggi agrari tradizionali sono attualmen te sottoposti a intensi e rapidi processi di trasformazione. Questo dipende da fattori, pressioni e impatti differenti a seconda delle regioni. Ciò nonostante, si possono identificare dinamiche e problematiche comuni e generalizzate. Alcune sono inerenti alla logica ed al funzionamento del mondo agrario (abbandono di certe pratiche agricole, deterioramento del patrimonio costruttivo tradizionale, intensificazione dell’allevamento, ecc.). Altre sono dovute ad agenti esterni (aumento delle urbanizzazioni a bassa intensità, moltiplicazione delle reti di infrastrutture, aumento delle attività e strutture perirubane, ecc.). In generale, comunque, va progres-
145 sivamente scomparendo l’immagine dello spazio rurale contrapposto allo spazio urbano e compare un amalgama di spazi aperti e spazi costruiti con un’immagine aleatoria, indefinita e banale che i cittadini non sentono come propria. [...] Si tratta di contribuire, in definitiva, a dirigere l’evoluzione dei paesaggi agrari verso paesaggi dalle nuove caratteristiche che mantengano però dei valori e una qualità globale». [AA.VV., Linee Guida…, 2007]
Conclusioni Il paesaggio è riconosciuto dalla cultura occidentale come bene culturale solo di recente e la sua stessa definizione ha subito, negli ultimi decenni, una notevole evoluzione. Il paesaggio agrario, in quest’ottica, è definito da Emilio Sereni «quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale». Oggi, il concetto di paesaggio arriva a sovrapporsi a quello di territorio inteso come “un organismo vivente ad alta complessità” un vero e proprio ecosistema risultato di una stratificazione complessa di “fattori naturali ed umani”. Per questo un discorso sul paesaggio agrario deve estendersi e considerare le cause profonde delle trasformazioni del territorio. D’altra parte anche le normative italiane, strutturate in passato sulla base del principio prevalente di tutela, hanno di recente recepito la Convenzione Europea del Paesaggio, che amplia il concetto di paesaggio, introducendo un significativo cambiamento nelle modalità di approccio alla materia. Per quanto riguarda la Basilicata il ventesimo secolo è un momento cruciale per il paesaggio agrario di questa regione in quanto in questo periodo storico vengono individuati i problemi strutturali del territo-
146 rio lucano che derivavano da interventi di disboscamento e di errato utilizzo del suolo susseguitisi nel secolo precedente e particolarmente accelerati nel periodo post unitario. Ad inizio novecento, con la legislazione speciale dello stato liberale, viene definita la strategia per la soluzione di questi problemi che tuttavia il fascismo non sarà in grado di attuare e per una parziale soluzione bisognerà attendere la realizzazione della riforma agraria, approvata nell’immediato dopoguerra a seguito del movimento contadino per l’occupazione delle terre. Con la riforma il latifondo, prima dominante, viene ridimensionato e l’assetto del paesaggio agrario lucano viene definito dai piani della riforma agraria, dei quali il più significativo è senz’altro quello che è attuato nella fascia Ionica, e da interventi più sporadici nelle aree interne. Tuttavia la riforma agraria, che senza dubbio ha avuto un impatto significativo sulla modernizzazione e sulla ristrutturazione del paesaggio, arriva troppo tardi poiché già negli anni ’60 si avvia la trasformazione dell’economia nazionale e regionale e si affermano l’industria ed i servizi come nuovi settori predominanti. Il fenomeno dell’emigrazione ha contribuito ancor più in quegli anni alla marginalizzazione dell’agricoltura che non è più l’elemento determinante per la definizione moderna del paesaggio lucano che in quegli anni viene trasformato soprattutto con gli interventi infrastrutturali causati dalle nuove concentrazioni urbane, dalla edificazione della viabilità a scorrimento veloce, dalla realizzazione dei nuovi poli industriali e dalla progressiva attuazione degli schemi idrici utilizzati sia per l’agricoltura che per l’industria. Lo stato attuale vede in aumento il fenomeno della ‘polverizzazione’ delle aziende agricole prevalentemente organizzate su base familiare e che inci-
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de sul sistema agricolo, determinando una debolezza del settore. Interessanti prospettive si hanno, però, per un mutato approccio culturale all’agricoltura che, a seguito dell’affermazione della cultura ecologica, ha rivalutato le produzioni di qualità e biologiche, così come le attività diversificate, che in Basilicata possono trovare spazi idonei e che sono sostenute da alcuni imprenditori di nuova generazione, ancora non molto numerosi ma significativi per la qualità delle produzioni, che tornano ad investire nel settore agricolo introducendo innovazioni di processo e di prodotto ricercando nuovi standard per le produzioni agricole tipiche. Il paesaggio agrario viene inoltre studiato e tutelato, sia tramite i vincoli ambientali e gli strumenti paesaggistici attualmente in vigore a livello regionale e nazionale, sia tramite lo strumento del nuovo Piano Paesaggistico Regionale in via di definizione. Si chiude quindi un ciclo: il secolo si è aperto con la frase pronunciata da Zanardelli “combattiamo insieme la battaglia contro le forze della natura e contro le ingiurie degli uomini” che sintetizza la visione di una ‘natura matrigna’ da combattere in modo quasi ‘eroico’ per costruire una prosperità basata sul corretto utilizzo del bene primario della terra, e si chiude con la nuova visione di una ‘natura fragile’, da proteggere contro la prevaricazione dell’azione umana, che destruttura il territorio e minaccia gli elementi primari del paesaggio contemporaneo. Nel mezzo c’è tutto il cambiamento del paesaggio agrario della Basilicata che si pone come lo specchio per la questione urbana esplosa nel dopoguerra e che in larga parte coincide con l’evoluzione della società, dell’economia e della stessa identità regionale.
La trasformazione del paesaggio agrario in Basilicata nel XX secolo
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