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“Sologno, e poi Parigi”. Per una topologia della formazione malaguzziana1 1. Luoghi da abitare… Si può tentare di stabilire un percorso formativo per luoghi nel cammino percorso da Loris Malaguzzi?2 Il criterio topologico viene esplicitamente suggerito in un suo dattiloscritto autobiografico. É un reperto di memoria - come tale è stato ritrovato da Laura Artioli in deposito, presso le carte private in possesso del figlio - di estremo interesse, giacché tradisce un lungo e solitario lavoro alchimistico: l’autore vi ha significativamente fatto “precipitare” i composti contraddittori dell’esperienza per trarne un frammento di verità autobiografica. 3 Siamo dinanzi a una verità esperienziale, tanto più suggestiva in quanto richiede d’essere situata nello spazio per farsi tramandare. Se è vero ciò che dice Wittgenstein che è importante sapere dei luoghi dove si parla, io ne ho avuti tre di luoghi dove ho appreso a parlare e a vivere .4
Il primo luogo ad essere enunciato è Sologno, paese montano alle falde del Prampa, nell’Alto Appennino Reggiano. Si tratta, inoltre, del solo luogo dello spirito che abbia una consistenza geografica, trovandosi affiancato ad una costruzione simbolica - l’asilo sorto nel 1945 dalle ceneri della guerra a Villa Cella - e ad una cesura epocale che vi assume valenza metaforica, la Liberazione. L’esperienza di Cella, cui se ne affiancarono immediatamente altre grazie all’impegno dell’Unione Donne Italiane e di alcuni Comitati di Liberazione Nazionale, risulta oggi ricompresa e dunque rimemorata in funzione di quella più complessiva delle scuole comunali dell’infanzia di Reggio Emilia.5 Questo testo è apparso su “Ricerche Storiche”, a. XXXII, n. 86, dicembre 1998, pp. 31-51; viene qui ripresentato con lievi rimaneggiamenti stilistici. “Sologno, e poi Parigi” è un detto popolare diffuso in questa località dell’Appennino reggiano. 2 L’esperienza pedagogica di Loris Malaguzzi (Correggio, 1920-Reggio Emilia, 1994) si trova oggi al centro di numerosi studi, per la notorietà internazionale acquisita dalle scuole comunali dell’infanzia di Reggio Emilia. Il presente articolo venne concepito sull’onda di un progetto di ricerca condotto da Istoreco per conto del Comune di Reggio Emilia, della Reggio Children srl e dell’Associazione Amici di Reggio Children dal titolo “La cultura dell’infanzia e l’esperienza delle scuole materne comunali di Reggio Emilia”; ricerca poi sfociata nel testo curato da Ettore Borghi, Antonio Canovi, Ombretta Lorenzi, Una storia presente. L’esperienza delle scuole comunali dell’infanzia a Reggio Emilia, Rs Libri, Reggio Emilia, 2001. 3 Loris Malaguzzi, Che io infilassi la strada dell’insegnare, a cura di Laura Artioli, “Ricerche Storiche” n. 84, maggio 1998; la curatrice, confrontando tre diverse versioni, ha posto in luce qualche incertezza dell’autore circa il numero reale di questi “luoghi” (tre, o soltanto due?). 4 Ib., cfr. p. 51. 5 Renzo Barazzoni, Mattone su mattone. Storia della scuola per i bambini 25 aprile di Villa Cella, Assessorato SCI e nidi comunali, Reggio Emilia, 1985. 1
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Quanto alla Liberazione, considerato che il giovane Malaguzzi diviene comunista pur restando alieno da ogni impegno militare, è la linea di demarcazione che serve a definire l’appartenenza al campo semantico antifascista. La vocazione creativa - pedagogica e politica - di Malaguzzi prende dunque coscienza di sè confrontandosi con il significato dell’evento-guerra. Si trattò di un processo sofferto, stando alla medesima confessione postuma. Ma vorrei aggiungere i luoghi della guerra, della Liberazione, della gente, delle vicende che seguirono. Soprattutto degli impeti che con la pace anelano a ripulire le strade sporche della follia. [...] Non so se la guerra, legata agli eventi cospirativi del prima e del dopo, nella sua tragica assurdità, può essere un’esperienza che spinge al mestiere dell’educare come uno dei tanti ricominciamenti possibili per vivere e lavorare per il futuro. Specie quando quella finisce e i simboli della vita ricompaiono con una violenza pari a quella conosciuta ai tempi della distruzione. Non so bene. Ma credo che sia lì il luogo dove cercare. Il luogo dove ho vissuto nella maniera più intensa patti di alleanza con i bambini, la gente, i reduci delle prigionie, i partigiani della Resistenza: convivendo con un mondo devastato, quando le idee e i sentimenti rivolti al futuro sembravano immensamente più forti di quelli che si fermavano al presente. E quando pareva che non esistessero più cose difficili e incapaci di superare le barriere dell’impossibile.6
Malaguzzi offre così a se stesso, mentre ricompone il proprio quadro esistenziale, la suggestione di una guerra “liberata”, cioè di un’umanità dolente che sa - ha saputo, saprà nuovamente - scegliere per liberarsi. É in tale “cospirazione”, come la definisce altrimenti, che va a situare “le genesi della mia scelta di stare coi bambini e di starci tutta una vita”.7 Questa che viene trasmessa ai posteri, come ben si vede, costituisce una precisa investitura affidata alla Politica. Una politicità che tutto tiene: pervade l’identità soggettiva e ne connota lo stile engagé, trascende l’azione personale per nutrire il legame sociale. Fare della politica la propria educazione sentimentale significa, in particolare, prefigurare quella polis ideale dove la cittadinanza si fa etica dell’abitare. Prassi, ed utopia, tanto più interessante in un presente che vede moltiplicarsi l’intangibilità dei “non luoghi”. “Perché proprio a Reggio Emilia?”, si sentono ripetere - ad ogni incontro - gli operatori delle scuole comunali dell’infanzia. Al fuoco di questo crogiuolo affatto scontato, dove il “mestiere dell’educare” viene coniugato con i “sentimenti rivolti al futuro”, è stata cucinata la particolare “ricetta” inventata da Loris Malaguzzi. La qualità pedagogica e istituzionale raggiunta è il punto sensibile di comparazione, l’esito cui legare - in una sorta di percorso indiziario - quei topoi che si può con ragione ritenere significativi per la costruzione dell’esperienza complessiva delle scuole comunali dell’infanzia di Reggio Emilia.
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Loris Malaguzzi, Che io infilassi la strada dell’insegnare, cfr. pp. 53-54. Ib., cfr. p. 53.
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Per “ritornare” a Sologno, il primo e il meno metafisico tra i luoghi che hanno scandito la formazione magistrale di Malaguzzi, ho così avuto bisogno di condurmi, a ritroso, dall’Istituzione (l’apertura della prima scuola comunale dell’infanzia, nel 1963) all’Educatore.
2. Il Partito Voi conoscete, anche i compagni di base conoscono, anche attraverso sensazioni, magari un poco confuse, tratte dalla loro esperienza personale di genitori le condizioni della scuola italiana. [...] circa il suo vecchiume, circa la svogliatezza e il disamore che i ragazzi hanno dopo un po' che abbiano frequentato la scuola. L’educazione che molte volte offende e va contro i nostri principi, e i principi democratici [...]. La sua strutturazione in senso classista, il fatto che a dieci anni il nostro ragazzo abbia già il destino segnato, e per lui si apra in maniera decisiva una scelta, sia nel senso di una scelta verso la scuola subalterna, o sia nei termini di una scelta invece verso una scuola per dirigenti o futuri dirigenti. 8
Il passo è tolto dalla corposa relazione introduttiva che Loris Malaguzzi propone al Comitato Federale del Pci di Reggio Emilia, il 17 aprile 1961, il cui odg portava in calce: “Contro il piano decennale Fanfani per la riforma democratica della scuola”. Si tratta di una relazione corposa, la quale risente da un lato dell’incandescenza della situazione giovanile - vi si commenta, esplicitamente, il fenomeno dei teddy boys - mentre dall’altro partecipa del clima di apertura del centro-sinistra, tra i cui risultati vi sarà in effetti la prima riforma della media unificata (nel 1963). Malaguzzi, militante nel Pci sin dal 1945, costituisce all’epoca una presenza costante nel paesaggio politico di Reggio, prima come giornalista e poi da pedagogista. Non rientrava però tra gli intellettuali “organici” del partito. Al Comitato Federale arriva soltanto nel 1959, peraltro portandovi immediatamente una nota vivace, in ciò favorito dalla preoccupata urgenza che - nel biennio 1959-1960 - suscita la freschissima “questione giovanile” (cui vengono dedicate alcune sedute assai interessanti). Dopo di che, nel volgere di pochissimi anni, di Malaguzzi nei verbali del Federale si perdono le tracce; se pure ne fa parte, evidentemente o non partecipa o non interviene (l’ultimo intervento documentabile, per quanto ho trovato, risale al 1982). É insomma un compagno aduso a stare negli “organismi collaterali”, come si evince dall’approccio del suo primo intervento, dedicato alla situazione del movimento cooperativo. Dopo i saluti di prammatica - “Compagni, è la prima volta che partecipo ad un CF, ed è la prima volta che io faccio le mie esperienze ad un livello così alto nella nostra Federazione” - tesse un elogio del cooperatore “integrale”, che tale sa essere non solo per ragioni utilitariste ma per l’universalità del proprio sguardo.9 E ricorda un passaggio importante per la propria formazione, quando insegnava ai partigiani nel Convitto Scuola di Rivaltella. Verbali Comitato Federale Pci Reggio Emilia, seduta 17 aprile 1961, in deposito presso il Polo Archivistico di Reggio Emilia. 9 Verbali Comitato Federale Pci Reggio Emilia, seduta 3 ottobre 1959, in deposito presso il Polo Archivistico di Reggio Emilia. 8
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É non a caso, lasciatemi qui ricordare un fatto al quale io sono legato, a particolari ricordi, è non a caso che oggi a capo di quasi tutte le coop di produzione e lavoro della nostra provincia vi sono dei compagni, quei ragazzi che studiavano con noi al Convitto di Rinascita. Voglio dire che là hanno potuto abbinare alla loro consapevolezza politica anche l’insegnamento tecnico, l’insegnamento culturale.
L’approccio educativo di Malaguzzi vi appare estremamente preoccupato di nutrire i processi formativi con la farina dell’attualità politica. Resta cioè convinto, riassumo qui un’espressione assai in voga tra i compagni comunisti, che “la politica te la ritrovi dentro la minestra che mangi ogni sera”. Non pare interessargli più che tanto la formazione di bravi professionisti, piuttosto di persone consapevoli del tempo in cui sono immersi. Il suo comunismo sta in questo raccordo sociale che avverte come tassello fondamentale, cui volgere e piegare le “tecniche”. Nel medesimo Comitato Federale, dà conto di un’esperienza condotta l’estate precedente in un campeggio cooperativo a Canazei. Qui i bambini erano stati sensibilizzati sul problema della guerra in Algeria, “realisticamente versando 10-20-30-40 lire per acquistare medicinali per i popoli coloniali”. Il pedagogista ne trae quindi l’auspicio che “una educazione spinta e diretta su questa strada indubbiamente contribuisce anche alla formazione sociale dei nostri piccoli figli di cooperatori”.10 Piuttosto che ideologo e sostenitore di testi precostituite, Malaguzzi si presenta come lo sperimentatore di una concreta prassi pedagogica, adattata in progetti e contesti associativi e istituzionali differenti, meno nella scuola di stato, in modo più approfondito nel movimento educativo militante (in primis i “Pionieri” e i “Falchi Rossi”). 11 Siamo cioè nell’ambito di quella pedagogia alternativa, tanto più vivace in quanto minoritaria, espressa all’epoca da intellettuali ed educatori impegnati sul versante laico e di sinistra come Margherita Zoebeli, Ernesto Codignola, Gianni Rodari, Bruno Ciari, Mario Lodi, ecc. L’intervento del 1961, per l’evidente snodo cronologico che rappresenta, funge da approdo di un percorso politico determinato: in quei mesi la giunta comunale, con Franco Boiardi assessore all’istruzione, sta accingendo a predisporre il lancio della prima scuola comunale dell’infanzia.12 Mi pare, peraltro, che il progetto educativo e democratico, pienamente inserito nel percorso politico locale, esprima piena sintonia con l’intera riflessione che aveva poco prima lacerato l’Associazione dei Pionieri; esperienza considerata chiusa dal Pci, così come per i Convitti Scuola, in dipendenza
Verbali Comitato Federale Pci Reggio Emilia, seduta 3 ottobre 1959, in deposito presso il Polo Archivistico di Reggio Emilia. 11 Cfr. Michela Marchioro, L’Associazione Pionieri d’Italia, “RS”, n. 80, 1996; Marco Fincardi, Pionieri e Falchi Rossi. Associazionismo infantile comunitario e modelli educativi “sovietici” in una provincia emiliana, “L’Almanacco”, n. 28, 1997. 12 Cfr. l’intervista a Franco Boiardi ed Anna Appari registrata da Antonio Canovi e Ombretta Lorenzi, il 13 maggio 1998, nell’ambito del progetto di ricerca “La cultura dell’infanzia e l’esperienza delle scuole materne comunali di Reggio Emilia”. 10
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della convinzione che occorreva fare un passo indietro sul fronte della militanza per investire in senso riformatore nella scuola di stato, spezzandone insomma il monopolio clericale e l’uso classista della selezione.13 I risultati di quella strategia si prestano ovviamente a valutazioni difformi od almeno dubitative. Basti pensare all’esperienza, coeva, svolta a Barbiana da don Lorenzo Milani: fautore di una prassi educativa socializzante, fortemente critica nei confronti della separatezza tra vita e saperi coltivata in seno alle strutture scolastiche, viene a propria volta volentieri tacciato di radicalismo e così emarginato dalle istituzioni.14 É però vero che, sul piano locale - con ciò intendendo quello spazio di governo che ricadeva sotto l’influenza del municipio - quel genere di riflessione consentì con maggiore consapevolezza e con nuove risorse di riaprire il discorso sul versante dell’educazione primaria sino ad allora gestito conflittualmente e senza grandi pretese dall’associazionismo politico e religioso. In quei primi anni ’60, dietro la spinta del movimento delle “magliette a strisce” e grazie ai maggiori spiragli aperti con l’entrata del Psi nel governo nazionale, pur scontando ritardi e difficoltà d’ordine burocratico, il tema della formazione riconquista dunque una centralità nell’agenda politica. Sono d’altronde, per l’Italia rurale, gli anni della “grande trasformazione”, con milioni di famiglie in via di inurbamento e protagoniste della più grande migrazione interna mai conosciuta.15 Vale allora la pena di riprendere, per esteso, il passaggio conclusivo la relazione di Malaguzzi, ove lo sdegno verso la scuola fino ad allora conosciuta in Italia fa il paio con lo sguardo teneramente utopico (anche patetico, con il senno di poi) rivolto all’esperienza che prende a modello comparativo, la “giovane” Unione Sovietica krusceviana i cui eroi erano gli cosmonauti volti alla conquista dello spazio siderale. Dicevo prima che tutte le questioni passano attraverso la scuole e vorrei ricordare e concludere e ricordare a tutti noi che attraverso la scuola è sempre passata la storia di poi, la storia del domani. E dobbiamo fare in modo, affrontando consapevolmente, seriamente, appassionatamente il problema della scuola, dobbiamo fare in modo che i nostri sforzi migliori vengano gettati in questa lotta perché le nuove generazioni non abbiano, non conoscano la scuola che noi abbiamo conosciuto, con le sue deficienze, con i suoi infingimenti, con le sue storture morali e storiche e abbiano invece queste nuove generazioni una scuola degna dell’avvenire dell’uomo così come già si prefigura con il volo al di sopra e attorno alla terra di un giovane astronauta sovietico. A quel passaggio di politiche educative hanno dedicato pagine appassionate quanto malinconiche Lia Finzi e Girolamo Federici: I ragazzi del collettivo. Il Convitto Francesco Biancotto di Venezia 1947-1957, Marsilio, Venezia, 1983. 14 Penso, ovviamente, allo scandalo che suscitò Lettera a una professoressa, Scuola di Barbiana, LEF, Firenze, 1967; ma anche al processo per vilipendio delle Forze Armate che aveva fatto seguito alla Lettera ai Cappellani militari composta nel 1965: L’obbedienza non è più una virtù, LEF, Firenze, 1968. 15 L’economista francese Florence Vidal, analizzando tale macrocontesto, assume l’esperienza delle scuole comunali dell’infanzia di Reggio Emilia come emblematica del modello industriale insediatosi nella Terza Italia. Scrive la Vidal [nostra traduzione]: “Reggio Emilia, da parte sua, ha creato una scuola materna modello, la scuola Diana, dove un pedagogista eccezionale, Loris Malaguzzi, immagina dei programmi innovativi, fondati sulla personalizzazione dell’insegnamento. […]. Per visitarla, bisogna iscriversi su di una lista d’attesa di parecchi mesi. Essa è citata come una delle dieci migliori scuole del mondo da Newsweek, 2 dicembre 1991”. Cfr. Histoire industrielle de l’Italie de 1860 à nos jours, Seli Arsan, 1998, cit. pp. 178-179. 13
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Una scuola cioè che liberi dall’angoscia, dal pregiudizio, che liberi dalla paura del dogmatismo, in nome della ragione, della fiducia non solo dell’uomo, ma nella fiducia di tutti gli uomini, cioè non dal cielo, come diceva ieri il compagno Sereni, ma dalla terra tragga le sue strade, per le sue magnifiche, ulteriori e pacifiche avventure. 16
3. L’Associazione Pionieri d’Italia Facendo costantemente capo all’approdo malaguzziano - che nel 1961 sa coniugare politica istituzionale e pedagogia popolare - risulta utile soffermarsi sull’inchiesta dedicata all’Api, uscita in due puntate per “Il Progresso d’Italia” nel maggio 1950.17 Siamo, a quell’epoca, nella fase di rilancio delle organizzazioni di massa da parte di un Pci che non si è ancora ben ripreso dallo choc della sconfitta patita il 18 aprile 1948. Davvero alti sono i toni della polemica con il mondo cattolico, scontro tanto più patito in quanto a condurlo con stile da “crociata” nazionale contro le associazioni ricreative della sinistra - quando Reggio Emilia costituiva il pilastro organizzativo a livello nazionale per i Pionieri come per i Falchi Rossi - è proprio il vescovo della città, Beniamino Socche.18 L’articolo, per l’occasione, prende le mosse da una progettata quanto dalla Curia vituperata esperienza di “Repubblica dei ragazzi”.19 Dopo aver rilevato che “nell’attacco polemico si è additato Reggio come la gran patria del vizio e del traviamento infantile”, Malaguzzi tiene a cogliere della vicenda i risvolti eminentemente politici.20 [...] il grido d’allarme lo si comprende benissimo e lo si giustifica: è un monopolio che si sfalda sotto l’urto ed il lievitare di una realtà sociale e politica che ha già montato l’argine. É una tradizione, ritenuta dogmatica che si spezza, sotto la sollecitazione di urgenze che traggono la loro forza e linfa da un’evoluzione storica che non può essere arrestata. […] Così l’Api e l’Udi diventano organizzazioni demoniache, pervertitrici, erotiche, scandalose, scuole di perdizione e di rovina morale e materiale. Così si giunge a florilegi di menzogne, nemmeno concepibili, che danno la misura esatta del doloroso svanimento intellettuale di chi li pronuncia: “Prima di entrare a far parte dell’Api i bimbi sostengono un esame. La prova d’esame consiste in questo: bestemmiare Dio e i Santi per un minimo di 5 minuti. Solo chi supera felicemente l’esame può entrare nelle file dell’Associazione”. Le brutture che alimentano florilegi come questi sono di una pornografia morale che fa allibire.
Verbali Comitato Federale Pci Reggio Emilia, seduta 17 aprile 1961, in deposito presso il Polo Archivistico di Reggio Emilia. 17 Loris Malaguzzi, Una nostra inchiesta sui ragazzi dell’A.P.I. Non solo figurini o le bambole ma qualcosa di nuovo li interessa, “Progresso d’Italia”, 27 e 28 maggio 1950. 18 Paolo Trionfini ha dedicato osservazioni significative al contesto apertamente conflittuale in cui prese avvio il vicariato di Socche, cfr. Cattolici e comunisti in Emilia-Romagna. Conflitto, competizione e problemi comuni (19481953), “Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia”, set.-dic. 1992, pp. 385-410. 19 L’esperienza concretamente consumata a Felina nell’estate 1950 fu in effetti brevissima: bastò il progetto sovversivo di un campeggio eletto a “libera e ideale Repubblica” per mobilitare i benpensanti, sino a provocarne la chiusura d’autorità con ordinanza del Prefetto di Reggio Emilia; un passo di inaudito autoritarismo personalmente ispirato dal vescovo Socche. Ne diede conto il settimanale della Federazione comunista di Reggio Emilia, “La Verità”, nei numeri del 20 e 27 agosto 1950. 20 Loris Malaguzzi, Una nostra inchiesta sui ragazzi dell’A.P.I, cit., “Progresso d’Italia”, 27 e 28 maggio 1950. 16
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4. Il Convitto Scuola della Rinascita “Luciano Fornaciari” Il Convitto Scuola della Rinascita “Luciano Fornaciari” di Reggio Emilia, organizzato secondo i principi dell’autogoverno e tendente alla formazione culturale e professionale di giovani capaci e privi di mezzi, particolarmente provati dalla guerra, chiede di essere incluso nella Federazione nazionale delle collettività di giovani, da Lei promossa. 21 È il testo di una lettera spedita nel gennaio 1949 da Loris Malaguzzi - all’epoca presidente del
Convitto partigiano di Rivaltella - al prof. Ernesto Codignola, rappresentante dell’Unesco per l’Italia. Testimonia del grado di coinvolgimento del pedagogista reggiano in quella che rappresentò con poche altre analoghe (Venezia, Milano, Roma) un’esperienza pilota in campo nazionale. Ancora un tassello che si aggiunge alla convinzione interiore, nutrita da Malaguzzi, per pratiche educative popolari e libertarie. La sua entrata nel Convitto avviene infatti nel clima del post Liberazione, quella breve stagione in cui - come il protagonista ha avuto modo di ricordare a Marco Fincardi “era possibile tutto”, e si stava “dentro una specie di avventura”.22 Facemmo le cose sul serio anche qui, occupando prima Rivoltella, e lì facemmo una scuola per meccanici agrari, ma sempre lavorando su delle ipotesi… Nel senso che si scelse questa formazione perché già si pensava che potesse essere utile per le cooperative agricole. L’altra qui in città era per capi-cantiere. Si trattava di professioni assolutamente nuove, inusuali. […] Poi c’era una élite di professori, che credo nessuno potesse avere allora, perché erano i nomi più prestigiosi di giovani che stavano crescendo e che poi diventeranno… Insomma, era gente che si era autoselezionata. […] Si ospitavano reduci. Era tutta gente adulta, giovani partigiani o partigiani invece già di una certa età, gente di circa trent’anni che aveva fatto setto otto anni di guerra militare. Venivano da tutte le parti d’Italia, ecco. Ed io ero solo il docente di lettere, però, aggravandosi le cose, siccome gli animatori e i fondatori erano partigiani, mi ricordo che in un consiglio di insegnanti si determinò che fossi io il direttore di questa scuola convitto, perché in qualche modo ero il più “pulito”, pulito nel senso che non ero stato un partigiano. E siccome godevo… Insomma, ci voleva una figura più indipendente. E di lì cominciò dal ’48 in avanti una battaglia feroce con il Ministero: qualcuno lo voleva chiudere, qualcun altro lo voleva aperto, quindi tutto un casino, fino a che non si rinchiuse tutto. Diventammo persino editori, per dimostrare: facemmo dei testi per la scuola! C’è stata una battaglia forte, fino a che nel ’52 si chiuse e finimmo anche quell’esperienza lì.
5. Le “Reggiane” Fare una scelta di campo comunista significa, nella Reggio Emilia del post Liberazione, rendersi massimamente prossimi agli operai delle “Reggiane”, l’Officina per antonomasia. I suoi vastissimi Lettera raccolta nell’ambito della ricerca sopra citata “La cultura dell’infanzia e l’esperienza delle scuole materne comunali di Reggio Emilia”. 22 Le citazioni sono tratte dall’intervista di Marco Fincardi a Loris Malaguzzi, registrata il 12 marzo 1992 nell’ambito di una ricerca sul “mito sovietico” condotta assieme ad Antonio Canovi, Marco Mietto, Maria Grazia Ruggerini. Per una restituzione collettanea, cfr. Antonio Canovi, Marco Fincardi, Marco Mietto, Maria Grazia Ruggerini, Memoria e Parola: le “piccole Russie” emiliane. Osservazioni sull’utilizzo della storia orale, “Rivista di Storia Contemporanea”, n. 3/1994-95. Di Marco Fincardi, C’era una volta il mondo nuovo: la metafora sovietica dello sviluppo emiliano, Carocci, Roma, 2007. 21
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stabilimenti avevano dato l’impronta al nuovo quartiere industriale di S. Croce Esterna, dove Malaguzzi approdò ragazzo, nel 1929. Come ha tenuto ad annotare: “Tutta l’adolescenza e gli studi magistrali ebbero questo teatro alle spalle”.23 Nasce così, nel settembre 1945, la poesia “Compagno Operaio”, pubblicata dal settimanale comunista “La Verità”.24 Compagno operaio mi pare oggi di avere sempre sapute le tue canzoni In esse io ritrovo l’essenza di me stesso. Essa viene oggi alla luce da abissi confusi e scuote da sè la polvere. Oggi mi conosco, mi tengo. So perché son nato e vissuto perché ho sofferto e pianto. Oggi so perché io vivo. Mi pare oggi d’aver sempre avute le mani sporche di carbone, di aver sempre bevute le fiamme degli alti forni, di aver sempre battuto sulle incudini gocce roventi di sudore. Una mazzata di maglio, compagno operaio, ha saldato la nostra stretta di mano.
Malaguzzi, a quanto se ne sa, non mutò particolarmente le proprie abitudini, che non erano esattamente quelle di impugnare la mazza nè tanto meno il maglio. Andava, in effetti, impegnandosi per il “popolo operaio”: con la promozione dell’educazione popolare, alla sua maniera. Questo è il contenuto della seconda notizia che lo riguarda, sul medesimo numero de “La Verità”. Vi si ritrova coprotagonista di una lodevole iniziativa di solidarietà, perseguita - siamo a ridosso della Liberazione, e bene o male regge ancora il patto interpartito stretto nel Comitato di liberazione nazionale - in diretta collaborazione con don Angelo Cocconcelli, un prete strettamente legato all’esperienza resistenziale. Il resoconto, nella sua linearità, rispondeva a tali esigenze di “conciliazione” ideologica.25 La Scuola del Popolo di S. Pellegrino ha chiuso in data 20 u.s. il corso delle Scuole Medie. La Sezione Comunista locale, promotrice dell’iniziativa, sente il dovere di ringraziare il prof. Loris Malaguzzi, dirigente dei Corsi e gli insegnanti Grasselli Daniele, Barigazzi Laura, Barigazzi Ada che hanno collaborato con tanta passione al funzionamento della Scuola. Sente inoltre il dovere di ringraziare il Provveditore agli Studi e il Parroco di S. Pellegrino, don Cocconcelli, per l’assistenza e gli aiuti dati nel campo organizzativo e nell’arredamento scolastico. Cfr. Che io infilassi la strada dell’insegnare, cit., cfr. p. 51. “La Verità”, 30.9.1945. 25 Ib. 23 24
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6. La Madonnina dell’Appennino Proseguendo di balza in balza, ci si imbatte in un pezzo - pubblicato su “Il Solco Fascista” all’apparenza di pur “colore”, ambientato in una non meglio precisata borgata dell’Appennino. Siamo nel 1942. Malaguzzi, dopo una breve esperienza a Reggiolo, ha già svolto un anno di insegnamento a Sologno. Il pretesto dell’argomentare è la ridislocazione di una “madonnina”.26 Episodio semplice e toccante di fede, di amore e di virtù, sane prerogative della nostra gente di montagna.
L’incipit del racconto - “non è una novella, nè un parto della fantasia”, come tiene a precisare riproduce lo stereotipo tradizionale di una montagna costantemente ai margini del flusso della modernità e perciò, in qualche modo, ancora incontaminata. Si tratta, a ben guardare, di un tema politico. I valori della tradizione e della comunità locale vengono rappresentati nella figura retorica dell’Alpe: un ambiente mistico e silente, ma anche ben disposto ad accogliere pellegrini, la cui armonia viene sovvertita dall’irruzione di una nota moderna che è percepita come violenta intromissione. Il silenzio è sacro in questi tempi di giugno: è il silenzio di Dio. Di Dio che benedice la terra, e la terra risponde coi suoi frutti miracolosi. È il silenzio della natura orgogliosa che ammira, tacita se stessa e le sante fatiche dell’uomo. (...) Ma un bel giorno quel silenzio, che sembrava avesse avvolto in una solitudine di tomba quel piccolo angolo di paradiso, fu invaso da un lottar di picconi e di badili, da un rumore stridulo e assordante di macchine e di motori. Era la civiltà che giungeva. E profanava inesorabilmente quella solitudine d’altro mondo.
Demolito il tempietto, l’immagine sacra viene riproposta - in maniera poco appropriata - sul ciglio della strada. Poi, una sorta di miracolo: la nonnina che aveva eletto il tempietto a luogo di colloquio con il figlio militare in Russia (e del quale non ha probabilmente più notizie) se lo ritrova per incanto a fianco del focolare... Con la maschera di un finale vagamente patriottico, riaffiora l’incipiente lutto di una guerra che si è fatta talmente pervasiva da giungere sino ai monti. Attorno a questa primigenia percezione dell’Appennino - in quanto luogo remoto, e però scosso dal dolente stato di necessità della guerra, se pensiamo che qui insistette il fronte nel lunghissimo inverno 1944-45 - verrà intessuto lo straordinario legame tra Malaguzzi e Sologno. Al topos folclorico del viaggio intrapreso alla ricerca di culture trapassate ed esotiche - fissato in Europa nel corso di questi ultimi tre secoli - ne viene opposto uno incentrato sulla condivisione dell’innocenza. E sarà bene ribadire che, in un caso come nell’altro, siamo di fronte a degli stereotipi. 27 Loris Malaguzzi, La Madunina d’la Muntagna, “Il Solco Fascista”, 28.6.1942. A proposito del particolare “sguardo”, insieme domestico ed esotico, proiettato sull’Appenino Reggiano, rinvio alla Presentazione da me curata nell’edizione anastatica del Viaggio Agronomico per la montagna reggiana e dei mezzi per migliorare l’agricoltura delle montagne reggiane, Parco del Gigante, 1998, compilato due secoli or sono dall’agronomo Filippo Re. Cfr. anche Gabriella Bonini, Antonio Canovi (a cura di), Narrazioni intorno a Filippo Re. 26 27
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La percezione semplificata di Sologno e dell’Alto Appennino come luogo che resta al di fuori della storia è certo il frutto di una gerarchia altimetrica, dove la direzione dello sguardo viene determinata da chi sta più in basso: il pianzàn, l’uomo di pianura, in contrapposizione al muntanàr, l’uomo di montagna. Le modalità di insediamento a Sologno - stazione sulla via del sale che si snocciola lungo un crinale a schiena d’asino, dedita alla pastorizia e ai commerci oltre che ai campi - radicano l’economia e la cultura del paese ad un’esistenza assai mobile, migrante e perciò non periferica. La mobilità che ha caratterizzato l’esistenza storica di molti borghi di montagna, attraverso la pratica dei tradizionali mestieri ambulanti - dal pastore all’arrotino al seggiolaio, ma anche dei cavatori come dei primi librai -, fa anzi di queste genti un soggetto assai più mondano del classico contadino di pianura insediato stabilmente nel proprio fazzoletto di terra.28 Si tratta di una rete geografica e sociale via via accantonata dall’attuale predominanza delle linee di scorrimento vallive, la cui decadenza diviene manifesta già con il processo di unificazione ferroviaria della nazione. L’identità regionale appenninica, centrata sulla comunicazione tra i due versanti, ha così assunto nel corso del Novecento i connotati di una mera sopravvivenza folclorica. Basti riprendere in mano, a questo proposito, il catalogo etnografico assemblato a Sologno tra le due guerre mondiali da Paul Scheuermeier; per confrontarlo, semmai, con gli scatti di poco successivi di un altro noto fotografo, Paul Strand, questa volta dedicati a Luzzara, sul Po. Ci si rende immediatamente conto della profonda diversità folclorica - e con ciò intendo, alla lettera, la “conoscenza del popolo” - dei materiali etnografici raccolti tra la pianura e la montagna, entrambe colte alla soglia della grande trasformazione imposta dall’introduzione delle macchine.29 Se la capacità di resistenza dei caratteri formativi l’etnema rinfocola nei momenti di crisi della comunità, non v’è da stupirsi di come l’ambiente di Sologno dovette impattare - nel fuoco della guerra di occupazione nazifascista - su di una sensibilità accesa come quella di Loris Malaguzzi. Ne rimase talmente suggestionato da indurlo a tradurre il topos regressivo del primitivo nell’epifania rousseauiana della comunità originaria. 30 Quando a fine anno ci dicemmo addio c’erano già i tamburi di guerra e i primi esami dell’università. Da allora in poi scuola, università e guerra correranno in parallelo. Non erano, per i miei 19 anni, ancora tre realtà. Erano tre avvenimenti che per immaturità e incoscienza non mi apparivano nè impercorribili, nè unificabili, nè drammatici come narravano in famiglia. Con questo ingenuo stato d’animo l’anno dopo salii a fare il maestro a Sologno di Villa Ritratto poliedrico di uno scrittore scienziato, Diabasis, Reggio Emilia, 2006. 28 Una bella testimonianza di questa percezione mondana che il pastore tratteneva di sé, ponendosi in confronto con la staticità del contadino che lo ospitava durante l’inverno, la restituisce Giovanni Sassi, intervistato nella sua abitazione di Sologno il 31 agosto 1997 nell’ambito del progetto di ricerca “La cultura dell’infanzia e l’esperienza delle scuole materne comunali di Reggio Emilia”. 29 Cfr. Appennino Reggiano nelle immagini di Paul Schuermeier. Sologno, a cura di Laura Gasparini, AGE, Reggio Emilia, 1995; Paul Strand, Un paese, Alinari, Firenze, 1997. 30 Cfr. Che io infilassi la strada dell’insegnare, cit., cfr. p. 44; cito, di seguito, la versione “C” proposta “Ricerche Storiche” (cit., n° 84, maggio 1998) da Laura Artioli.
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Minozzo, alle falde del Cusna. Un piccolo borgo di cui non sapevo l’esistenza. Sapevo che dovevo fare, per raggiungerlo, molti chilometri a piedi. Non ricorderò gli sgomenti iniziali. Dirò solo che fu un’esperienza straordinaria.
In che modo Sologno diviene un luogo fondativo dello spirito nella formazione di Loris Malaguzzi? Retrocediamo un attimo in questo cammino bio-topografico. Malaguzzi nasce nel 1920 in una famiglia che, a Reggio Emilia - il padre è capostazione -, possiamo definire piccolo-borghese. Cresce in una scuola fascistizzata dove si coltiva il culto della gerarchia. Aderisce di malavoglia alla prospettiva di impiegarsi in una società corporativa dove tutto gli appare preordinato e prevedibile. Alle Magistrali viene iscritto d’ufficio dal padre, alla cui “preveggenza”, a quanto ci dice, deve il primo incarico lavorativo a Reggiolo. Siamo tra il 1939 e il 1940, nel vivo dei mesi in cui l’Italia fascista prepara l’entrata in guerra. Loris è diplomato e in età di leva, eppure non sa decidere sul da farsi. Offre di sè l’immagine di un giovane stordito, in cerca della propria vocazione. Dichiara, in particolare, la propria incoerenza nei confronti della montante epopea guerriera cui, pure, non mostra di sapersi ribellare. Si tratta di un atteggiamento che poi volgerà ad una spiegazione generazionale.31 D’altronde io ero, come tutti quelli della mia età, un passeggero pronto ad imbarcarsi su tutte le navi.
Quando si trova per la prima volta di fronte ai bambini, reagisce emozionalmente.32 Nè loro, nè io sapevamo niente. Capii che quella era la irresponsabile seduzione che ti apriva le porte del mestiere.
Vi possiamo leggere l’abbozzo di un atteggiamento che diventerà poi manifesto (l’abbiamo già intravisto nei topoi che inanellano il suo particolare legame con la Politica): la scelta di non essere saggi. A Sologno arriva la prima volta il 30 ottobre 1940; per restarvi, salvo alcune discese in città o per sostenere gli esami universitari ad Urbino, sino al 30 giugno seguente. 33 Ed è così che, nella confessione a posteriori, Sologno viene eletto, a futura memoria, luogo primigenio di riconoscimento. Lassù a 800 metri, per due anni di seguito, imparai mille cose: l’arte di camminare a piedi, di orientarmi con alberi e rocce, di capire i sentieri fasulli e quelli veri, di guadare torrenti, di scoprire la generosità dei castagni, la cordialità dei silenzi, le incredibili capacità arrangiative della gente, i lacci per acchiappare le lepri, gli infiniti spessori della miseria in una terra di confine da cui gli abitanti continuavano a fuggire.
Cfr. Che io infilassi la strada dell’insegnare, cit., cfr. p. 44. Cfr. Che io infilassi la strada dell’insegnare, cit. cfr. p. 45, 33 Loris Malaguzzi si laurea a Urbino nel 1946 con una tesi dedicata a La pedagogia di Fichte. 31 32
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A legarmi di un’amicizia profonda coi quindici ragazzi dagli zoccoli di legno, ingiaccati, con giacche enormi ereditate, dalla parlata stretta con l’u francese, curiosi, furbi, dagli occhi sicuri, a mezzadria di fatto con la scuola e le pecore, coi compiti e i lavori della stalla, delle carbonaie e dei campi.
In tal senso, dacché il riconoscersi implica uno sguardo riflesso ed induce ad un processo relazionale, la permanenza del giovane maestro diviene un evento memorabile per l’intera comunità locale. Lo si comprende proprio seguendo la struttura narrativa scelta da Loris per raccontare se medesimo in relazione con Sologno. Domina, da un lato, lo scenario dell’Arcadia.34 A far funzionare la scuola in una stalla appena evacuata, ad accendere e riaccendere la stufa ogni mattina per via della legna verde, a lottare ogni giorno coi ritardi dei ragazzi, aiutandoli spesso ad asciugare i calzini bagnati, a rifornirli di quaderni su quaderni del patronato scolastico. Ad amare con gratitudine il mulo di Fortunato che viaggiava ogni giorno fino a Castelnuovo Monti per rifornire di riso, vino e salumi i 146 abitanti, 147 con me.
Sologno non è però un romitorio, ma villaggio dove si esprime la civiltà della festa.35 Ad attendere con desiderio le anomalie dell’allegria gentile poi chiassosa e sbracata della domenica che mischiava messa e osteria e che finiva a notte fonda coi ragazzi e le donne che venivano a prendersi i fratelli, i padri, i mariti.
Ed è precisamente sulle “anomalie” che si concentra il giovanissimo Loris, cogliendo nella sociabilità - piuttosto che nel ruolo istituzionale del maestro - la chiave d’accesso al paese. Lo spazio della socialità risultava tanto più significativo per la straordinarietà della congiuntura bellica, con una comunità paesana preoccupata di autoproteggersi e preservare la propria identità: prima, alla chiamata degli uomini alla guerra, quindi, passato l’8 settembre 1943, per far fronte al brutale regime di occupazione (pagato con l’incendio di alcune case al termine di un rastrellamento). Il tempo della guerra, a Sologno come nei paesi sotto il crinale, ha così nutrito la memoria degli anni a venire; mentre il tempo della ricostruzione, a questa altimetria, coinciderà con la grande emigrazione. Poi, con il boom e la società del benessere, le “rondinelle” hanno rallentato il passo del loro ritorno, salvo il ritrovarsi attorno al Ferragosto, per rimemorare e tramandare l’epoca eroica in cui seppero salvaguardare - contro i grandi mali del secolo - la coesione della propria comunità.
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Cfr. Che io infilassi la strada dell’insegnare, cit., cfr. pp. 45-46. Cfr. Che io infilassi la strada dell’insegnare, cit. , cfr. p. 46.
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7. Sologno Loris Malaguzzi visse a Sologno l’inverno e la primavera del 1944, quando la Val d’Asta viene messa a ferro e fuoco. Si può comprendere come ne sia divenuto memoria presente. L’affetto tributatogli nell’agosto del 1998, nel corso di un’iniziativa condotta sul “filo della memoria” assieme ai suoi ex scolari e compagni d’osteria, ha ampiamente oltrepassato l’alone di curiosità e simpatia di norma riservato ai vecchi amici che si sono fatti strada. 36 É stata, per gli abitanti di Sologno, l’occasione in cui dar la stura al ricco repertorio aneddotico che ogni memoria collettiva alimenta e conserva quale autorappresentazione. I pianzàn presenti hanno piacevolmente toccato con mano cosa avesse significato - per i nativi - l’incontro con quel maestro eterodosso e anticonformista. Molti tra gli scotmaj ancora oggi in voga a Sologno presero a circolare precisamente grazie alla capacità inventiva del giovane maestro, il quale da par suo ne fu immensamente ripagato, ritrovandosi educatore al servizio di un’intera comunità. Malaguzzi è divenuto insomma cittadino onorario di Sologno, non per i successi professionali mietuti (peraltro non così noti a persone che hanno trascorso l’esistenza tra montagna ed emigrazione) ma per quanto seppe condividere nel comune stato di necessità. Rimane nella memoria collettiva il maestro di città che giunse in un paese remoto, dove l’insegnamento mancando lo stabile adeguato - si teneva in abitazioni private, gomito a gomito con l’osteria. Piuttosto che storcere il naso, quel maestro si lasciò avvolgere dagli umori di quell’ambiente intessuto di contiguità: giocando alle carte, suonando la fisarmonica, bevendo il vino in compagnia, imparando a sciare. Così prendendo parte alla vita quotidiana, quel maestro seppe tradurre il tradizionale ruolo autoritario dell’insegnante in una funzione sociale. Mentre tutt’attorno si consumavano la battaglia di Cerré e l’eccidio di Cervarolo, lui andava organizzando un teatrino cui presero parte gli abitanti, chiamati a rappresentare collettivamente e ironicamente - con l’ausilio dei soprannomi - la propria comunità. L’invenzione di quel “quadro vivente”, nutrito di macchiette sarcastiche, fungerà negli anni del dopoguerra da mappa identitaria, atta a ricomporre entro un comune sistema di referenza le troppe spinte centrifughe. Lo ha ben testimoniato Jone Bartoli. Inviata dal Pci nella terra “bianca” di Sologno - siamo alla metà degli anni ’50 - raccolse tra i pochi compagni questa opinione: “Qui ci vorrebbe Malaguzzi, con lui sì che ci comprendiamo…”.37 L’incontro venne organizzato presso la sala parrocchiale di Sologno sabato 22 agosto 1998, dietro proposta dell’Associazione amici di Reggio Children e di Istoreco, con il supporto fondamentale del prof. Giuseppe Fontana. La “scoperta” del legame tra Sologno e Malaguzzi era avvenuta l’anno prima, il 12 agosto 1997, quando approdando al borgo insieme a Laura Artioli, Carla Nironi e Angelo Castellani provammo lo stupore di tante abitazioni pronte ad aprirsi per ricordare con gioia. 37 Riassumo qui il senso di una frase pronunciata a latere dell’intervista di Maria Nella Casali e Ombretta Lorenzi a Jone Bartoli l’8 luglio 1998, registrata nell’ambito del progetto di ricerca “La cultura dell’infanzia e l’esperienza delle scuole comunali di Reggio Emilia”. 36
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La scuola, va detto, ha assunto nel tempo una centralità inusitata in questa come in altre comunità appenniniche. Dapprima subita passivamente - tutto sommato, all’ombra dei castagni, la cosa più importante era imparare a far di conto -, poi rivendicata quale viatico alla modernità, infine ridotta alla chiusura dal calo demografico. Attorno alla scuola si sono così cristallizzati molti ricordi del “tempo che fu”, dai bambini che sciamavano ai “bravi” maestri che vi esercitarono il proprio severo offizio. In altri termini, la memoria “con” e “per” la scuola viene oggi assimilata ad una lotta di riconoscimento: del proprio posto nella comunità d’origine, e tra questa e il mondo esterno. Non a caso, il falegname “rosso” del paese situa qui, grazie al contatto educativo primario con il maestro venuto dalla città, la propria conversione politica.38 Eh, di lui mi è rimasto intatto il modo come gestiva la scuola. Era diverso da tutti i maestri di allora. Per raccontarle qualche episodio che mi è rimasto impresso. Allora c’era un branco di ragazzi alla prima elementare, eravamo un bordello di ragazzi e poi malnutriti, malvestiti; e di lui notavamo proprio l’esigenza di vedere i ragazzi curati, ci teneva molto a questo fattore e gli dispiaceva… Mi ricordo un particolare. Arrivavano i ragazzi che proprio non si dedicavano, arrivavano così per dire, andavano a scuola per modo di dire, e lui gli diceva… Faceva degli esempi di questo tipo, in classe: - “Lo sai che se non studi, se non t’impegni rimarrai un somaro?”. E poi gli diceva: - “Lo sai che cosa vuol dire somaro?” - “No” - “Lo sapevo che non lo sapevi…”. Per dimostrargli che cos’era un somaro, gli diceva: - “Tu vieni qua, tu, mettiti lì…”. L’altro gli montava in spalla, poi la faceva girare intorno alla classe, ma non con violenza. Poi gli diceva: - “Il somaro deve portare la soma, allora se tu non studi, se tu non impari, ti riduci ad essere uno che porta la soma per tutta la vita”. Aveva delle cose diverse da tutti gli altri maestri. Era una cosa eccezionale e mi è rimasto impresso il modo come insegnava. Lui veramente aveva creato un clima per me diverso dagli altri maestri. Dopo di lui ho fatto fino alla terza elementare. E poi l’ho conosciuto ancora a Reggio. E l’ho fatto venire qui a fare un comizio. Ero segretario della sezione qua, allora una volta a Reggio l’ho trovato a un congresso e c’ho detto: “Loris, lei mi deve fare un favore, mi venga a fare un comizio a Sologno”. Quando uscivano dalla chiesa, lì dal salone parrocchiale, c’avevo preparato un banchetto, e lui ha fatto il discorso. Mai vista tanta gente a un comizio! La gente è andata fuori di testa a sentire Loris Malaguzzi, perché era rimasto… Eh! era rimasto un personaggio, proprio di attrazione, perché era diverso, aveva qualcosa in più.
La reciprocità del riconoscimento ha sostenuto e reso possibile i percorsi successivi di entrambi. La comunità solognese si è dispersa per il mondo senza smarrire la memoria delle radici; il giovane maestro, compresa la profonda politicità della propria disciplina, si ritrova uomo “dalla parte dei più deboli, della gente che più portava con sé speranze”.39 E così può concludere, a partire da Sologno, la confessione di Malaguzzi.40 Per quanto abbia spesso restaurato i miei pensieri sono sempre rimasto in quella nicchia. Non ho mai provato rimpianti per quella scelta e per ciò che ho lasciato o mi sono strappato di dosso. Si tratta di Arrigo Belli, sempre intervistato collettivamente nel corso dell’indagine sul terreno condotta il 12 agosto 1997, nel solco del progetto di ricerca “La cultura dell’infanzia e l’esperienza delle scuole materne comunali di Reggio Emilia”. 39 Cfr. Che io infilassi la strada dell’insegnare, cit., cfr. p. 50. 40 Cfr. Che io infilassi la strada dell’insegnare, cit., cfr. p. 54. 38
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8. Luoghi per educare Pierre Nora, a partire dalle proprie ricerche dedicate alla costruzione dell’identità nazionale francese, ha divulgato tra gli storici la nozione di luogo della memoria.41 Si tratta, precisamente, di spazi che fungono da deposito per le memorie collettive che abitano il nostro presente. Ciò avviene a partire da avvenimenti che, per più disparate ragioni, radicano processi di riconoscimento. Sono quindi gli usi pubblici a configurare un determinato contesto di memoria in quanto spazio simbolico di rimemorazione. Non si tratta, è bene dirlo, di un riscatto indolore. Rammemorare, come ha osservato Maurice Aymard, significa esprimere la capacità ad obliare: “il luogo di memoria” denuncia, altrimenti, un sentimento di perdita e di caducità.42 La medesima tensione, rispetto alle cornici spazio-temporali che reggono il nostro essere-nel-mondo, l‘ho avvertita nelle parole pronunciate da Loris Malaguzzi per il cinquantenario del Centro Italo-Svizzero di Rimini.43 Io sento che mi manca una territorialità di ordine culturale di ordine civile di ordine politico.
Ritorna, con evidenza, l’approccio “topologico”, e prima che alla Cultura, alla propria esperienza quotidiana di educatore. Loris Malaguzzi, come viene ricordato da vari amici e compagni di strada, non fu tra gli intellettuali “organici” e di punta della sinistra reggiana. Sergio Masini lo rappresenta come una persona che ha corso su di un doppio binario: radicato “dentro” ad un ambiente popolare e di aristocrazia operaia, molto legato alla “strada”; soltanto in un secondo tempo impegnato a proiettare tutto ciò “fuori” dal proprio ambiente, nei circuiti istituzionali e intellettuali. 44 Renzo Bonazzi, da par suo, lo ricorda costantemente sotto traccia, mai davvero protagonista nei luoghi “deputati”, già nel percorso scolastico scelto (al Liceo classico predilige l’Istituto magistrale, dove è tutt’altro che uno studente modello).45 La sua visibilità cresce con gli anni, per una serie di attività collaterali, per poi fissarsi attorno alla
Pierre Nora, La notion de “lieu de mémoire” est-elle exportable?, in Lieux de Mémoire et Identités Nationales, Rencontre France-Pays Bas, Amsterdam, maggio 1992. 42 Maurice Aymard, fatta propria la premessa che esistono “due dimensioni del passato, collettiva e individuale, che danno al nostro presente il suo significato e la sua ricchezza”, esprime la seguente avvertenza metodologica: “Questa leggibilità viene in effetti minacciata e impoverita dall’oblio, che erode dall’interno il lavoro della memoria. Questa frontiera fragile fra oblio e memoria, l’uno e l’altra necessari alla nostra vita e complementari, costituisce per lo storico un terreno privilegiato, che gli permette di affermare la sua presenza di attore sociale” . Cfr. la Prefazione allo studio da me compilato, Cavriago ad Argenteuil. Migrazioni Comunità Memorie, RS Europa Libri, Reggio Emilia, 1999. 43 L’intervento, pronunciato il 25 maggio 1991, funge da presentazione al volume Una scuola una città. Il Centro educativo italo-svizzero di Rimini, Marsilio, Venezia, 1991. Malaguzzi venne invitato dalla fondatrice del Centro, Margherita Zoebeli, per via delle lunghe frequentazioni in comune, di cui ha fornito diretta testimonianza il direttore succedutogli alla guida della struttura, Sapucci. Cfr. l’intervista registrata il 3 ottobre 1997 nell’ambito della ricerca sopra citata “La cultura dell’infanzia e l’esperienza delle scuole materne comunali di Reggio Emilia”. 44 Cfr. gli appunti stesi da Laura Artioli nel corso del colloquio con Sergio Masini, il 14 aprile 1997, nell’ambito del progetto di ricerca “La cultura dell’infanzia e l’esperienza delle scuole comunali di Reggio Emilia”. 45 Intervista a Renzo Bonazzi di Antonio Canovi e Ombretta Lorenzi, registrata l’11 maggio 1997 nell’ambito del progetto di ricerca “La cultura dell’infanzia e l’esperienza delle scuole comunali di Reggio Emilia”. 41
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costruzione delle scuole comunali dell’infanzia. Ma è questo un approdo maturo, varcata la soglia dei quarant’anni. Prima dell’istituzione, e della notorietà, c’è tutto un percorso “sotto traccia”, ed il criterio topologico credo possa servire a restituirne meglio ciò che lui ha tenuto a definire il “gioco cospirativo” della propria esistenza. Sologno è il luogo del mito: sta in fondo al pozzo dei desideri, è luogo generativo, indimenticabile ma a suo modo inenarrabile. Villa Cella è il luogo dell’homo faber, l’acqua del pozzo con la quale dissetare tutti (coloro che sono di buona volontà), ed è memoria collettiva, in quanto “non ti abbandona più”. La Liberazione è il rito di passaggio, la lingua che consente di narrarsi, rappresentarsi, essere-nel-mondo.