Sicilian Geographic - Belice

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SICILIAN GEOGRAPHIC AGOSTO 2007

MARSALA

Belìce La valle della memoria

GIBELLINA - L’ARTE DEL RICORDO • POGGIOREALE - COME POMPEI Belìce


Scuola del Viaggio • Marsala 2007


Affrontare la memoria con la cultura è una sfida che Gibellina ha intrapreso a partire dagli anni ’80.

L’arte del ricordo Quel che resta di un’idea. Cemento su pietre.

Testo e fotografie di Chiara Di Piano

“Q

uesta era casa mia”. Andrea si commuove ancora indicando il luogo nel quale trascorse la sua infanzia.

Oggi, Andrea gestisce un agriturismo in città e si dedica, con impegno, al piccolo museo fotografico allestito in quella che era la chiesa del paese. “Ha riaperto da due mesi”, spiega, “l’incuria e l’inciviltà avevano trasformato questo posto in un immondezzaio”.


A gennaio del prossimo anno ricorre un tragico anniversario. Sono trascorsi quarant’anni dal sisma che colpì la Valle del Belice situata nella Sicilia Occidentale in un’area divisa tra le province di Palermo, Trapani e Agrigento. Nella notte del 15 gennaio 1968 Gibellina, il paese più colpito dell’area, contò tra i suoi abitanti 400 morti e un migliaio di feriti. Nulla, o quasi, rimase integro, 70.000 persone in tutta la regione colpita si trovarono senza tetto. Per la popolazione seguirono 14 lunghi anni in campi apprestati con baracche provvisorie. Scioperi e proteste infervorarono quel periodo di incertezza scandito dallo slogan: “Gridano le pietre di Gibellina!”. Le grida delle pietre, ridotte in poco tempo a cumuli di macerie, sono state ascoltate. La disperazione e l’annientamento non hanno lasciato posto solo alla rassegnazione. A partire dagli anni Settanta Gibellina è stata ricostruita ex novo in un sito posto a circa 18 Km di distanza. La nuova città è sorta in mezzo alla campagna ai piedi della collina dove oggi si trovano i resti di Gibellina Vecchia.

La ferita lasciata dal sisma è ancora viva ed evidente. Testimonianze della tragedia sono raccolte nel piccolo museo recentemente riaperto vicino ai ruderi. Scuola del Viaggio • Marsala 2007


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Sulle rovine della città è stata creata una monumentale opera d’arte da Alberto Burri, pittore di arte informale ed astratta, famoso per la serie dei “Cretti”. Il “Cretto” di Gibellina Vecchia è stato realizzato con cemento armato che ricopre i resti dell’antico centro abitato e si presenta al visitatore come uno spazio surreale nel quale lo scorrere del tempo sembra essersi interrotto e scolpito per sempre. L’impianto della città, delle vie e degli isolati è stato mantenuto, l’effetto creato è quello di un labirinto nel quale è piuttosto facile smarrirsi.

Le indicazioni per i ruderi di Gibellina preparano all’impatto con i nuovi ruderi costituito dal dedalo di vicoli che, ricalcando la vecchia pianta del paese, percorrono tutto il “Cretto”, ormai destinato a diventare rudere anch’esso.

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Gibellina è diventata il più vasto memoriale ad opera di Alberto Burri che negli anni ‘80 ricopri di cemento armato i ruderi emergenti. Il Cretto, simile ad un labirinto, restituisce l’antico tessuto urbanistico del paese.

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Il vecchio cimitero guarda ancora oggi quello che fino al gennaio 1968 era stata Gibellina

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Le fotografie risalenti all’epoca mostrano come il colore originario, il bianco, si sia sporcato fino ad assumere la colorazione grigiastra di oggi. Altri famosi architetti e artisti internazionali hanno partecipato attivamente alla realizzazione della nuova area urbana di Gibellina, sorta strategicamente nelle vicinanze dell’autostrada. Orgoglio e memoria sono parole chiave per comprendere lo spirito di rinnovamento e l’originalità che hanno guidato il processo di ricostruzione. Il sindaco Ludovico Corrao, primo cittadino per oltre 25 anni, incarna perfettamente lo spirito con il quale Gibellina ha affrontato il travaglio che ha portato dalle macerie al rinnovamento. Tutti in città ricordano con affetto l’impegno e la passione che Corrao profuse per abbellire il nuovo insediamento. Ad anni di distanza, però, ciò che rimane di questo impegno sono solo architetture decontestualizzate e un centro urbano poco vivibile. Le installazioni e le opere di artisti e architetti contemporanei quali Pomodoro, Quaroni e Consagra (sua la “Stella” posta

all’ingresso della città) sembrano schegge di creatività perse in un ambiente che non sembra comprenderle. È facile percorrere le vie di Gibellina Nuova senza incontrare alcun passante per ore. Il nucleo residenziale, poi, nonostante risalga solo ad una trentina di anni fa, sembra già risentire dell’usura. Ciò che non si può fare a meno di notare, però, chiacchierando con gli abitanti disponibili a conversare con i turisti è il profondo senso di attaccamento alla storia e alla memoria. Andrea spende una parola con tutti coloro che fanno visita al piccolo museo della città vecchia e invita calorosamente ad approfondire la conoscenza delle vicende che hanno interessato il paese facendo visita al Museo delle Trame Mediterranee in località Case Di Stefano (un antico baglio per la produzione vinicola). Gibellina Nuova ha avuto l’ambizione di diventare un polo di arte ed architettura contemporanea, ma non ha avuto la caparbietà di coltivare questa sua attitudine con interventi di restauro e abbellimento della città che assume, così, l’aspetto di un guscio vuoto nel quale non è facile vivere.

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La vita culturale di Gibellina rimane comunque viva. Decidendo di farvi visita in estate, tra luglio e settembre, ci si può imbattere nelle suggestive rassegne di teatro, musica, poesia e arti visive che spesso si tengono proprio al Cretto di Burri. La tragedia che ha travolto la valle del fiume Belice, la distruzione e il senso di perdita causato dall’urto sismico hanno avuto effetti diversi sulla popolazione e sulla conformazione delle città. I paesi meno colpiti hanno tentato di restaurare ciò che era andato distrutto mantenendo l’assetto del centro urbano. Gibellina e Poggioreale, invece, sono state ricostruite da zero in aree diverse, lontane decine di chilometri dal luogo di origine. Ciò che distingue le due città, un tempo confinanti, è la diversa reazione alla tragedia. Poggioreale è fuggita senza tentare di recuperare i propri palazzi, l’ampia piazza centrale, gli affreschi. A Gibellina l’arte ha ricoperto la tragedia con il cemento. Le pietre hanno gridato, ma ora giacciono mute. •

Una delle opere d’arte situate nella nuovo centro: “Aratro” La tragedia di Didone di A.Pomodoro 1986.

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Come una Pompei anni ‘60 (d.C.), Poggioreale e i suoi ruderi a quarant’anni dalla tragedia siciliana.

Belìce fenice Rinasce dalle ceneri la memoria sospesa di un paese. Testo e fotografie di Vincenzo Cammarata

“Io

sono l’ultimo nato in paese. Sono nato il 17 ottobre del 1967”. Salvatore è il titolare del Bar Culmone. Ba-

rista figlio di barista. Con orgoglio mostra la foto appesa accanto al “vietato fumare” che ritrae la putìa dove suo padre abbandonò l’attività quando lui non aveva ancora compiuto il terzo mese di vita. Una vita che sarebbe drammaticamente cambiata da quella fredda notte di gennaio.

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Poggioreale e Salaparuta e tutto il territorio compreso fra le provincie di Trapani, Palermo e Agrigento, riforniscono gran parte della produzione vitivinicola della Sicilia Occidentale.

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Salvatore Culmone titolare del Bar Culmone, ultimo nato a Poggioreale vecchia prima del sisma del 1968.

Come per Salvatore, per altre settantamila persone, la notte fra il 14 e il 15 di gennaio del 1968 segna lo spartiacque fra due vite estranee e differenti. Anzi tre, se consideriamo la scomoda fase dei containers. Tre fasi della vita collettiva di un’întera vallata, quella del fiume Belìce che fu epicentro di un violento sisma. Si raggiunsero i nove gradi della scala Mercalli, quindici i comuni coinvolti. Poggioreale, Salaparuta, Santa Ninfa, Santa Margherita, Gibellina, Partanna. Questi sono alcuni dei nomi dei centri dove quattrocento persone, intere famiglie persero la vita. Una tragedia che colpì emotivamente tutta l’Italia e che, forse, se non fossimo, nella pigra terra del Principe di Salina, sarebbe stata interpretata come una paradossale opportunità per una nuova stagione di rinascita. Ricominciare dove? Ricominciare come? Comuni come quello di Partanna furono ricostruiti nello stesso luogo, salvando il salvabile. Altri, come Gibellina, sfruttando al meglio la tragedia, decise di insediarsi nei pressi dell’autostrada, e di trasformarsi in polo culturale internazionale, con risultati monumentali visibili a tutti. Poggioreale, invece, dopo il periodo di transizione comune a tutti gli altri centri, decise di investire tutti i finanziamenti nazionali e comunitari nella costruzione ex novo della nuova Poggioreale. “Si poteva benissimo tenere il viale principale. L’avete visto com’era bello? Poi abbattevano tutto intorno, invece di spendere tre miliardi per una piscina usata soltanto dai piccioni!” Salvatore, trasformatosi momentaneamente in esperto urbanista, non è d’accordo con quanto fatto per la sua Poggioreale e cita sempre, quale esempio di valorizzazione, Gibellina (pur non facendo alcun riferimento al colossale memoriale in cemento armato di Burri). L’impressione è che l’aspirazione ad eguagliare il vicino comune artistico sia stata disillusa dagli amministratori locali che si sono succeduti alla guida di Poggioreale.

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Monumento alle vittime del terremoto. La sequenza dei cognomi uguali indica la scomparsa di famiglie intere.

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Esistono vari modi per ricordare eventi traumatici collettivi. Poggioreale sembra aver sospeso la decisione sul ricordo, sulla memoria. Quasi come mettere in cantina o in soffitta un baule di biancheria ricamata che nessuno userà mai. Troppo bella per usarla, troppo personale per regalarla ad altri. Il decreto n°356 del 5 gennaio 1982, ben esposto davanti al cancello che dovrebbe scoraggiare l’ingresso ai ruderi della città vecchia, parla chiaro. “È vietato il transito di persone e mezzi nelle vie del vecchio centro urbano”. Intimazione che non incute sicuramente paura o sensi di colpa se inascoltata. Basta chiedere per ottenere tutte le indicazioni necessarie a raggiungere il vicino sentiero alternativo per aggirare il monito, e con esso il cancello d’ingresso. Scorazzare più o meno spensierati all’interno della città fantasma è quindi una pratica frequente per i numerosi avventori che, già incuriositi dal clima di desolazione imperante, ne approfittano a fine giro per portare a casa un reperto di moderna archeologia, sia esso un foglio di fotoromanzo o una bottiglia d’acqua minerale naturalmente carbogassata “Appia”. Poco importa se il souvenir non è proprio del 1968. Probabilmente è il lascito di “ere” successive che con il loro passaggio hanno voluto contribuire in modo additivo all’ecologia del sito. Belìce 19


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La scritta “DVX” sovraintende quel che rimane della piazza. Insieme al monumento ai caduti della Seconda Guerra Mondiale sono i testimoni storici della vita del paese fino al gennaio 1968.

Durante questi anni gli screpolati intonaci delle fatiscenti architetture si sono trasformati nelle quinte di numerose produzioni cinematografiche e spesso accade di dover sospendere l’esplorazione per ascoltare in silenzio i lunghi ciak del regista di turno. Non si può quindi essere completamente sicuri sull’originalità o, quantomeno, sulla originarietà delle scarpe spaiate che ogni tanto spuntano qui e lì fra i cardi selvatici. A Poggioreale, nel vecchio paese, i ruderi e la natura stanno iniziando a fondersi. Diventa sempre più arduo addentrarsi fra la selva di spine e di rovi e sempre più eccitante sfidare le poche scale rimaste in piedi. Una delle caratteristiche principali di Poggioreale è l’atemporalità del paese, dove perfino l’anacronistica scritta “DVX”, di littorica origine, è stata per più di vent’anni testimone della vita dell’agorà del paese.

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I balconi semidistrutti e le case abbandonate, fanno da sfondo alle numerose scarpe spaiate che raccontano di fughe frettolose e di paura. Quasi come una Pompei delgli anni ‘60 (d.C.)

Più avanti nella visita, altri affreschi ci ricordano la funzione di ogni edificio, un po’ come a Pompei. Oggetti alle pareti, macchinari giganti semi arrugginiti ci segnalano con puntualità l’ufficio Posta e Telegrafi, il macellaio, l’ambulatorio, il meccanico, la scuola, il teatro, la chiesa: un susseguirsi di botteghe e case padronali. Dalla pianta della città, che si sviluppa sull’asse del corso principale, si diramano poi le varie strade. Allontanandosi dalla piazza principale, superando il monumento ai caduti davanti ad una chiesetta in stile neoclassico, a un centinaio di metri verso la parte bassa del paese si possono ancora vedere le macchine del frantoio dei fratelli Salvaggio. Anche Salvatore in tempi più recenti accompagnava il padre a prendere l’olio appena spremuto dalle massiccie macchine snocciolatrici e dai pesanti torchi.

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Adesso i Salvaggio vivono nella nuova cittadina proprio dietro il bar di Salvatore. Salvatore Culmone quest’anno compierà quarant’anni. Appare più giovane della sua età, meno restio a parlare o sospettoso di chi quella tragedia l’ha vissuta per intero e siede fuori dal bar. Alle loro spalle, lontano, il campanile. Il punto più alto del paese vecchio, gnomone di una meridiana che paziente aspetta la naturale decomposizione di un paese cadavere da quarant’anni. •

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Il punto piĂš alto del paese: il campanile che ancora oggi domina, immobile e tenace, la valle del BelĂŹce.

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