Himera Splendidissima

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Civitas Splendidissima Termini Imerese

Monte San Calogero

Zona Industriale

Area di Himera Tempio della Vittoria

A cura di Gabriele Miccichè Testi di Pietrangelo Buttafuoco Marco Mele Fotografie di Vincenzo Cammarata

In alto Mappa di Termini e dintorni. Elaborazione grafica da Google Map A pagina 8 Phiale aurea (fine del IV inizio del III secolo a.C.) Antiquarium di Imera, Termini Imerese

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Sommario

per

Si ringraziano Fabio Bagnasco, Franco Battiato, Salvatore Burrafato, Alessandro Calosci, Massimiliano Fuksas, Mimì La Cavera, Manlio Sgalambro, ed Edoardo Geppini, Giacomo Seminara, Stefano Vassallo

Direzione Artistica Gabriele Miccichè Produzione ready-made, Milano Nadine Bortolotti, Gabriele Miccichè Grafica: Monica Maltarolo, Simona Varisco Redazione e ricerca testi: Carla Casalini, Maria Paola Lodigiani, Carla Perazzi, Stefano Palumbo Consulenza scientifica Erminia Scaglia 2010© Med Studios Per le foto © Vincenzo Cammarata Stampato in Italia

Premessa Luca Josi

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Splendidissima? Pietrangelo Buttafuoco

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Termini Imerese, una storia Fotografie di Vincenzo Cammarata

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Un sogno fatto a Termini Marco Mele

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Le immagini storiche

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Elenco delle fotografie

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Si ringraziano Fabio Bagnasco, Franco Battiato, Salvatore Burrafato, Alessandro Calosci, Massimiliano Fuksas, Mimì La Cavera, Manlio Sgalambro, ed Edoardo Geppini, Giacomo Seminara, Stefano Vassallo

Direzione Artistica Gabriele Miccichè Produzione ready-made, Milano Nadine Bortolotti, Gabriele Miccichè Grafica: Monica Maltarolo, Simona Varisco Redazione e ricerca testi: Carla Casalini, Maria Paola Lodigiani, Carla Perazzi, Stefano Palumbo Consulenza scientifica Erminia Scaglia 2010© Med Studios Per le foto © Vincenzo Cammarata Stampato in Italia

Premessa Luca Josi

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Splendidissima? Pietrangelo Buttafuoco

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Termini Imerese, una storia Fotografie di Vincenzo Cammarata

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Un sogno fatto a Termini Marco Mele

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Le immagini storiche

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Premessa

Quando uno scrittore per ambientare le sue storie può dare sfogo, senza nessun freno, alla sua fantasia: sceglie il meglio. Sarà andata così anche per i creatori del Mito (da Diodoro Siculo in poi) che tra un’infinità di luoghi in cui far vivere i loro epici racconti scelsero Himera e le sue Terme per rievocare il riposo di Ercole/Eracle. Nasceva in quella leggenda una delle prime SPA, “Salus Per Aquam”, della storia, (la beauty farm degli antichi). E una ragione ci sarà stata se tra migliaia di possibili luoghi dell’immaginario il Mito crebbe proprio lì: perché Termini Imerese e la sua terra forse ne erano la naturale scenografia. Nel secolo scorso, quello della maturità industriale, la fabbrica del racconto arricchì le sue armi d’immagini e suoni. Questi artifici necessitavano di un luogo fisico in cui crearsi e realizzarsi. L’Occidente, allora, per diffondere la sua epica, il suo mito, scelse la California con le sue spiagge, le sue colline, i suoi boschi. La sua luce. Tutti i colori di quella terra aiutarono a spiegare, realizzare e comporre il racconto della sua epopea. E nacque Hollywood. Noi abbiamo pensato di ritrovare, oggi, la possibilità di dar vita ad un nuovo racconto dell’immaginario in Sicilia, la terra che ha incubato e ispirato tanti capitoli imprescindibili nella narrazione dell’avventura umana. Un Architetto che abita e veste il mondo, Massimiliano Fuksas, e un’industria del presente televisivo e cinematografico, i Med Studios, si sono incontrati per dar vita ad un luogo che ospiterà nuove produzioni e nuovi episodi di questa saga della fantasia. Solo così può nascere un’industria del XXI secolo che consegni a questa terra straordinaria, e ai suoi talenti, un nuovo capitolo della sua storia. E del suo fascino. Luca Josi Presidente

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Premessa

Quando uno scrittore per ambientare le sue storie può dare sfogo, senza nessun freno, alla sua fantasia: sceglie il meglio. Sarà andata così anche per i creatori del Mito (da Diodoro Siculo in poi) che tra un’infinità di luoghi in cui far vivere i loro epici racconti scelsero Himera e le sue Terme per rievocare il riposo di Ercole/Eracle. Nasceva in quella leggenda una delle prime SPA, “Salus Per Aquam”, della storia, (la beauty farm degli antichi). E una ragione ci sarà stata se tra migliaia di possibili luoghi dell’immaginario il Mito crebbe proprio lì: perché Termini Imerese e la sua terra forse ne erano la naturale scenografia. Nel secolo scorso, quello della maturità industriale, la fabbrica del racconto arricchì le sue armi d’immagini e suoni. Questi artifici necessitavano di un luogo fisico in cui crearsi e realizzarsi. L’Occidente, allora, per diffondere la sua epica, il suo mito, scelse la California con le sue spiagge, le sue colline, i suoi boschi. La sua luce. Tutti i colori di quella terra aiutarono a spiegare, realizzare e comporre il racconto della sua epopea. E nacque Hollywood. Noi abbiamo pensato di ritrovare, oggi, la possibilità di dar vita ad un nuovo racconto dell’immaginario in Sicilia, la terra che ha incubato e ispirato tanti capitoli imprescindibili nella narrazione dell’avventura umana. Un Architetto che abita e veste il mondo, Massimiliano Fuksas, e un’industria del presente televisivo e cinematografico, i Med Studios, si sono incontrati per dar vita ad un luogo che ospiterà nuove produzioni e nuovi episodi di questa saga della fantasia. Solo così può nascere un’industria del XXI secolo che consegni a questa terra straordinaria, e ai suoi talenti, un nuovo capitolo della sua storia. E del suo fascino. Luca Josi Presidente

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Splendidissima? di Pietrangelo Buttafuoco

paesazzi sparpagliati nella terra che fu felice prateria di ninfe, di eroi, e di divinità guerriere e cacciatrici. Lo sono diventati tutti, paesazzi. Perfino le città. Avere avuta la città splendente – una città in cui si parla greco, latino e arabo – avere smarrito poi nel tempo volgare l’abbagliante carico di grandezza in cambio della distruzione della propria identità fa di ogni paesano, di ogni paesanuzzo – sia esso di Termini Imerese, di Agira, di Priolo, di Gela o di Milazzo – un Eteocle scisso nel cui scudo incidere la fabula del proprio destino: “Lui stesso contro se stesso, portando quell’emblema di orgoglio, diventa l’eponimo del suo destino”. Cosa deve essere abitare poeticamente i luoghi dove funesta è precipitata la mannaia della consumazione planetaria, fare di una lingua di terra eterna un provvisorio da zona industriale? Brutto, quindi. Nella fatica di concepire il brutto in Sicilia. Un inaudito ossimoro tra l’orizzonte che fu meta per i peregrinanti dèi e la mestizia di un paesaggio domato dalla furia democratica, al punto di farne una periferia, con tutto quel vasto mare colore del sogno reso vano dai prefabbricati eretti a pelo d’acqua e dall’umanità

Brutto ma proprio brutto come può essere un pretenzioso fabbricato di cemento e infissi in alluminio anodizzato. Brutto e, dunque, grottesco nel prospetto. Un rutto da mancato piano regolatore come tanti ce ne sono di sfiati nello sfascio meridionale e che danno l’idea di cosa vanno a diventare i luoghi un tempo – molto ma molto tempo fa – cantati come splendidi. Paesazzi, appunto. Sono croste di case su cui i pilastri incompiuti s’issano a modo di cresta. E sono paesazzi dove le automobili vi stagnano al pari di piattole su verghe un tempo vigorose. Ad andar per mare, aggrappati alle corna di un toro, come fece nell’aurea età Eracle, il figlio di Zeus e Alcmena, ancora oggi si scorge verso Himera un profilo remoto e regnante. È un mondo splendido. Ad andar per terra, invece, stringendo il volante di una macchina, nel profilo di Termini s’indovina la presenza di un alveare abbandonato dalle api. Insomma, paesazzi dove la memoria di glorie e di magie è scivolata via per espettorare un importante casermone, chissà perché subito lavato dalla pioggia per nutrirne la barba ammuffita di sabbia rancida. E sono tanti i

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Splendidissima? di Pietrangelo Buttafuoco

paesazzi sparpagliati nella terra che fu felice prateria di ninfe, di eroi, e di divinità guerriere e cacciatrici. Lo sono diventati tutti, paesazzi. Perfino le città. Avere avuta la città splendente – una città in cui si parla greco, latino e arabo – avere smarrito poi nel tempo volgare l’abbagliante carico di grandezza in cambio della distruzione della propria identità fa di ogni paesano, di ogni paesanuzzo – sia esso di Termini Imerese, di Agira, di Priolo, di Gela o di Milazzo – un Eteocle scisso nel cui scudo incidere la fabula del proprio destino: “Lui stesso contro se stesso, portando quell’emblema di orgoglio, diventa l’eponimo del suo destino”. Cosa deve essere abitare poeticamente i luoghi dove funesta è precipitata la mannaia della consumazione planetaria, fare di una lingua di terra eterna un provvisorio da zona industriale? Brutto, quindi. Nella fatica di concepire il brutto in Sicilia. Un inaudito ossimoro tra l’orizzonte che fu meta per i peregrinanti dèi e la mestizia di un paesaggio domato dalla furia democratica, al punto di farne una periferia, con tutto quel vasto mare colore del sogno reso vano dai prefabbricati eretti a pelo d’acqua e dall’umanità

Brutto ma proprio brutto come può essere un pretenzioso fabbricato di cemento e infissi in alluminio anodizzato. Brutto e, dunque, grottesco nel prospetto. Un rutto da mancato piano regolatore come tanti ce ne sono di sfiati nello sfascio meridionale e che danno l’idea di cosa vanno a diventare i luoghi un tempo – molto ma molto tempo fa – cantati come splendidi. Paesazzi, appunto. Sono croste di case su cui i pilastri incompiuti s’issano a modo di cresta. E sono paesazzi dove le automobili vi stagnano al pari di piattole su verghe un tempo vigorose. Ad andar per mare, aggrappati alle corna di un toro, come fece nell’aurea età Eracle, il figlio di Zeus e Alcmena, ancora oggi si scorge verso Himera un profilo remoto e regnante. È un mondo splendido. Ad andar per terra, invece, stringendo il volante di una macchina, nel profilo di Termini s’indovina la presenza di un alveare abbandonato dalle api. Insomma, paesazzi dove la memoria di glorie e di magie è scivolata via per espettorare un importante casermone, chissà perché subito lavato dalla pioggia per nutrirne la barba ammuffita di sabbia rancida. E sono tanti i

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presenza rovina l’intera casbah di Mazara, orgoglio del Mediterraneo. Tutto il mondo è paese ma il paesazzo s’è fatto solo in Sicilia. Ogni paesano, ogni paesanuzzo che ci abita in Sicilia, vive sulla propria pelle la lacerazione tra ciò che furono le proprie mura e ciò che sono diventate stante la condizione d’infelicità della periferia. Come a Termini Imerese, generata da Terme e Himera, anche ad Agira, il mio paese (il paese di Diodoro Siculo, lo storico, i cui libri sono una delle prime fonti da cui attingere per il racconto di Terme e Himera), vi arrivò Eracle vittorioso sull’Idra. Vi arrivò per scavarvi un lago. Il fatto in sé è mito ma a maggior ragione è vero. Oggi vi passeggio e là dove c’era lo specchio d’acqua oggi c’è un terrazzamento addobbato di aiuole e alberi dove vi troneggia, innalzato su un’edicola di guasto gusto, san Filippo il Nero vittorioso sul Demonio. È evidente la continuità nel solco della spiritualità eroica greca, il cristianesimo, infatti, non cancella l’impronta, piuttosto la conferma in un travestimento, ma l’esaurirsi di questa estrema identità nel vuoto pneumatico del consumismo residuale scinde ulteriormente la condizione del paesanuzzo. Ciò che, infatti, si dilegua oggi, è la centralità della città, la stessa religiosità, quella religio del tenere legato il génos al luogo. Solo un delirio di manìa, solo una trance e la possessione che possa portare fuori da questo tempo restituirebbe continuità a ciò che altrimenti risulta spezzato. Dall’età di Eracle ad oggi, relegando lo stesso Filippo il Nero al passato, è venuto meno l’istinto di rito,

affidata solo alla residuale lingua dei tempi novissimi: precari nientemeno. Brutto, perciò. I mali che si vedono, dopo i morti, si abbattono sui vivi, su noi che siamo contemporanei. E al viaggiatore incauto che si chiederà cosa sarà mai quel palazzo (dove ancora s’odono gli echi di vacui discorsi inaugurali), in tutti i paesazzi, due potranno essere le risposte possibili. E non si scappa: o è una pretura o una chiesa. I palazzi di Giustizia o, i templi, fatti nuovi. Pilastri di calcestruzzo alzati sulla vasta plaga dell’umanità ordinaria. Quello contro cui si sbatte il muso a Termini Imerese, giusto per fare un esempio, è un tribunale, brutto ma proprio brutto da passare inosservato, da farsi abitudine per i residenti. Il solito vizio assai diffuso della mai digerita estetica del far nuovo. Ed è a forza di far nuovo che si sono generati i paesazzi. Sono cresciuti secondo regola di geometra o, peggio, architettato al modo del farla continentale la città. Un progetto, infatti, si trova sempre in un cassetto. A Mazara del Vallo dove amano essere originali, faccio ancora un esempio, alle due risposte di cui sopra ne aggiunsero un’altra: un bel municipio. E una sorta di mostro fatto nuovo, carico di calcestruzzo, con finestre e finestroni, più torre e tetto altoatesino – praticamente una totale cacata sistemata in una delle piazze più belle d’Italia, tra il palazzo vescovile, il portico del seminario e lo sfondo di palme saracene – attende una salvifica carica di tritolo (prossimamente verrà ridimensionato e de-alluminizzato). Una totale cacata che con la sua mefitica

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– diventa anche tema politico. Ogni metafora è pratica pubblica civile e quello della strada incompleta, della fabbrica Fiat sempre in forse, non è solo uno scambio ambiguo tra finto progetto di riscatto e crudo risultato della storia, ma un accontentarsi anche delle illusioni. Non ci sono i sensali, sono spariti i mezzadri, i braccianti e gli uomini chiamati a raccogliere quei limoni che non si coltivano più. Da tempo immemore non si producono le belle campagnole, le jeep, volute da Mimì La Cavera. Paesazzi, insomma. Tutto il mondo che arrivava in paese non viene più. I palermitani vengono a vivere in paese. Gli affitti sono convenienti. E si dorme bene perché, infine, tutto il grande paese che è il territorio meridionale è un unico dormitorio. Presa dall’autostrada, e non dal mare, aggrappati alle corna di un toro, è come un’unica periferia Termini Imerese e così pure ogni sputo cristallizzato di case raccolto intorno agli slarghi. Neppure l’asse di sviluppo si decifra e – piano piano, mattone dopo mattone – la città che fu la villeggiatura per eccellenza, una sorta di Spa dove Eracle si ricompensò delle sue fatiche, la si scorge mentre accomoda il proprio culone di cemento sulla mirabile carambola di due mari: il golfo di Termini e il golfo di Palermo. È un qualcosa che riguarda tutti i paesi e i paesani. Passeggiando per i paesazzi, divorati dalle millanta pratiche per abusivismo dove un’unità immobiliare consta di quattro piani (alluminio anodizzato compreso), si scovano le superbe e magnifiche allusioni al tempo che fu con certi pezzi di muro antico presi a morsi dal cemento. Giusto perché in questa grande terra

ciò che faceva di un luogo parte comune di un cosmo completo di bellezza e sacralità. Quel che c’era una volta in un paese non è più restato in una qualsiasi trasfigurazione poetica. La lectio di Baaria, il film di Giuseppe Tornatore, è stata un’altra metafora della spezzata continuità tra la splendente sacralità del luogo e l’oblio imposto alla memoria contemporanea. Quel che c’era una volta, infatti, in un paese con i suoi magazzini di limone, il suo Bar Aurora e la sua folla di muratori chiamati al lavoro all’alba per far sputare blocchi e impasto alla montagna, non esiste se non come esperienza “scissa” del paesano Tornatore. Tanto è vero che perfino la cima della montagna non c’è più, tanto è stata svuotata dalle cave. E quel che c’era una volta, quella fame chiamata “pitittu”, quella contro cui si muoveva la fatica dei braccianti a giornata, non c’è più e però non si trova lavoro. La parabola di Termini Imerese è tutta svelata nel computo socio-economico del disastro sperimentato sulle spalle degli operai, mentre il resto dei paesazzi di Sicilia precipita nel baratro del tanto peggio sempre peggio, quando poi tanti vanno a bussare al Comune per un posto e chissà se ancora, in tutta la regione, “gli aventi diritto” vagolano davanti allo sportello del Banco di Sicilia simili a pale di ficodindia incurvate dalla siccità. Sono i famosi disoccupati col “reddito minimo garantito”. Ma adesso, dunque, è tema sentimentale il luogo detto de “La Splendidissima”. È qui, infatti, che il paese – fatto metafora di un deserto che cattura l’immenso territorio della provincia mediterranea

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presenza rovina l’intera casbah di Mazara, orgoglio del Mediterraneo. Tutto il mondo è paese ma il paesazzo s’è fatto solo in Sicilia. Ogni paesano, ogni paesanuzzo che ci abita in Sicilia, vive sulla propria pelle la lacerazione tra ciò che furono le proprie mura e ciò che sono diventate stante la condizione d’infelicità della periferia. Come a Termini Imerese, generata da Terme e Himera, anche ad Agira, il mio paese (il paese di Diodoro Siculo, lo storico, i cui libri sono una delle prime fonti da cui attingere per il racconto di Terme e Himera), vi arrivò Eracle vittorioso sull’Idra. Vi arrivò per scavarvi un lago. Il fatto in sé è mito ma a maggior ragione è vero. Oggi vi passeggio e là dove c’era lo specchio d’acqua oggi c’è un terrazzamento addobbato di aiuole e alberi dove vi troneggia, innalzato su un’edicola di guasto gusto, san Filippo il Nero vittorioso sul Demonio. È evidente la continuità nel solco della spiritualità eroica greca, il cristianesimo, infatti, non cancella l’impronta, piuttosto la conferma in un travestimento, ma l’esaurirsi di questa estrema identità nel vuoto pneumatico del consumismo residuale scinde ulteriormente la condizione del paesanuzzo. Ciò che, infatti, si dilegua oggi, è la centralità della città, la stessa religiosità, quella religio del tenere legato il génos al luogo. Solo un delirio di manìa, solo una trance e la possessione che possa portare fuori da questo tempo restituirebbe continuità a ciò che altrimenti risulta spezzato. Dall’età di Eracle ad oggi, relegando lo stesso Filippo il Nero al passato, è venuto meno l’istinto di rito,

affidata solo alla residuale lingua dei tempi novissimi: precari nientemeno. Brutto, perciò. I mali che si vedono, dopo i morti, si abbattono sui vivi, su noi che siamo contemporanei. E al viaggiatore incauto che si chiederà cosa sarà mai quel palazzo (dove ancora s’odono gli echi di vacui discorsi inaugurali), in tutti i paesazzi, due potranno essere le risposte possibili. E non si scappa: o è una pretura o una chiesa. I palazzi di Giustizia o, i templi, fatti nuovi. Pilastri di calcestruzzo alzati sulla vasta plaga dell’umanità ordinaria. Quello contro cui si sbatte il muso a Termini Imerese, giusto per fare un esempio, è un tribunale, brutto ma proprio brutto da passare inosservato, da farsi abitudine per i residenti. Il solito vizio assai diffuso della mai digerita estetica del far nuovo. Ed è a forza di far nuovo che si sono generati i paesazzi. Sono cresciuti secondo regola di geometra o, peggio, architettato al modo del farla continentale la città. Un progetto, infatti, si trova sempre in un cassetto. A Mazara del Vallo dove amano essere originali, faccio ancora un esempio, alle due risposte di cui sopra ne aggiunsero un’altra: un bel municipio. E una sorta di mostro fatto nuovo, carico di calcestruzzo, con finestre e finestroni, più torre e tetto altoatesino – praticamente una totale cacata sistemata in una delle piazze più belle d’Italia, tra il palazzo vescovile, il portico del seminario e lo sfondo di palme saracene – attende una salvifica carica di tritolo (prossimamente verrà ridimensionato e de-alluminizzato). Una totale cacata che con la sua mefitica

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– diventa anche tema politico. Ogni metafora è pratica pubblica civile e quello della strada incompleta, della fabbrica Fiat sempre in forse, non è solo uno scambio ambiguo tra finto progetto di riscatto e crudo risultato della storia, ma un accontentarsi anche delle illusioni. Non ci sono i sensali, sono spariti i mezzadri, i braccianti e gli uomini chiamati a raccogliere quei limoni che non si coltivano più. Da tempo immemore non si producono le belle campagnole, le jeep, volute da Mimì La Cavera. Paesazzi, insomma. Tutto il mondo che arrivava in paese non viene più. I palermitani vengono a vivere in paese. Gli affitti sono convenienti. E si dorme bene perché, infine, tutto il grande paese che è il territorio meridionale è un unico dormitorio. Presa dall’autostrada, e non dal mare, aggrappati alle corna di un toro, è come un’unica periferia Termini Imerese e così pure ogni sputo cristallizzato di case raccolto intorno agli slarghi. Neppure l’asse di sviluppo si decifra e – piano piano, mattone dopo mattone – la città che fu la villeggiatura per eccellenza, una sorta di Spa dove Eracle si ricompensò delle sue fatiche, la si scorge mentre accomoda il proprio culone di cemento sulla mirabile carambola di due mari: il golfo di Termini e il golfo di Palermo. È un qualcosa che riguarda tutti i paesi e i paesani. Passeggiando per i paesazzi, divorati dalle millanta pratiche per abusivismo dove un’unità immobiliare consta di quattro piani (alluminio anodizzato compreso), si scovano le superbe e magnifiche allusioni al tempo che fu con certi pezzi di muro antico presi a morsi dal cemento. Giusto perché in questa grande terra

ciò che faceva di un luogo parte comune di un cosmo completo di bellezza e sacralità. Quel che c’era una volta in un paese non è più restato in una qualsiasi trasfigurazione poetica. La lectio di Baaria, il film di Giuseppe Tornatore, è stata un’altra metafora della spezzata continuità tra la splendente sacralità del luogo e l’oblio imposto alla memoria contemporanea. Quel che c’era una volta, infatti, in un paese con i suoi magazzini di limone, il suo Bar Aurora e la sua folla di muratori chiamati al lavoro all’alba per far sputare blocchi e impasto alla montagna, non esiste se non come esperienza “scissa” del paesano Tornatore. Tanto è vero che perfino la cima della montagna non c’è più, tanto è stata svuotata dalle cave. E quel che c’era una volta, quella fame chiamata “pitittu”, quella contro cui si muoveva la fatica dei braccianti a giornata, non c’è più e però non si trova lavoro. La parabola di Termini Imerese è tutta svelata nel computo socio-economico del disastro sperimentato sulle spalle degli operai, mentre il resto dei paesazzi di Sicilia precipita nel baratro del tanto peggio sempre peggio, quando poi tanti vanno a bussare al Comune per un posto e chissà se ancora, in tutta la regione, “gli aventi diritto” vagolano davanti allo sportello del Banco di Sicilia simili a pale di ficodindia incurvate dalla siccità. Sono i famosi disoccupati col “reddito minimo garantito”. Ma adesso, dunque, è tema sentimentale il luogo detto de “La Splendidissima”. È qui, infatti, che il paese – fatto metafora di un deserto che cattura l’immenso territorio della provincia mediterranea

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preesistente “oppidum quoddam in primis Siciliae clarum et ornatum”. Ciò spiegherebbe lo stretto contatto con i Sicani, la popolazione indigena con la quale i nuovi arrivati convissero per lo più pacificamente. Anche nel patrimonio mitico, infatti, accanto agli dei olimpici sono presenti divinità naturali legate alle acque proprie della popolazione indigena preesistente. Ma nel VI secolo a.C. scoppiò una guerra tra Imeresi e Sicani che portò i primi a chiedere aiuto al tiranno di Agrigento Falaride nonostante il saggio ammonimento del poeta Stesicoro, che per l’occasione compose la celebre favola del cavallo e del cervo, in cui il destriero per non aver la peggio, chiede aiuto all’uomo e ne diventa schiavo. La richiesta di aiuto costò infatti agli Imeresi la perdita della libertà. “Colui che, paventando la miseria, lascia ciò che è prezioso più dell’oro – l a libertà – poi deve sopportare, triste, un padrone e servire in eterno poiché incapace di godere il poco”. Il vero nome di Stesicoro che letteralmente vuol dire “colui che gestisce il coro” era Tisia. Nato proprio ad Himera, testimonia con la grandezza della sua attività poetica, l’alto livello culturale che Himera poteva vantare. Nel 484 Terone, tiranno di Agrigento, aveva occupato Himera per garantirsi un accesso al mare sulle coste settentrionali, costringendo alla fuga Terillo, signore della città. Questi chiese aiuto ai Cartaginesi, mentre Terone strinse alleanza con Gelone di Siracusa. La battaglia si consumò davanti alle mura di Imera nel 480 a.C.,“nello stesso giorno in cui gli Elleni vinsero a Salamina il re di Persia” secondo la narrazione

fatta solo di paesi, il gusto del raccontare non prescinde dalla poesia e dalla nostalgia. Perché poi, sopraffatti, ci si fa poeti e malinconici. A costo di farselo tutto nuovo il paese. Anche se preso in prestito. Perfino nelle lontane terre d’oltre mare, in Africa. Come accade nella costa meridionale di Sicilia, dove grazie agli immigrati ritorna un’identità forte, perfino mitica. Giusto per ben figurare nella trasfigurazione perché lo spot obbligato, è sempre lo stesso, immerso nella luce siciliana: “che rende più violenta la collera e più malinconica la felicità”. La memoria, svegliare alla memoria la gloria che fu, metterla in esercizio e dunque darle vita eroica può farsi solo ad occhi chiusi sulle pagine aperte di pergamene, libri e tra i ruderi di pietre che sanno di noi più di quanto noi stessi possiamo conoscere, resi dimentichi dalla soggezione del far tutto nuovo. Narra il mito che Eracle figlio di Alcmena e Zeus, dopo aver attraversato lo stretto di Messina aggrappato alle corna di un toro, si ristorò alla fonte di acqua calda che le Ninfe avevano fatto scaturire dal terreno in suo onore. Nacquero così le terme di Himera. Tra il fiume Torto a ovest e l’Imera settentrionale a est su una zona pianeggiante in direzione della spiaggia, nel 648 a.C. i Calcidiesi di Zancle, l’odierna Messina fondata un secolo prima dai Greci, insieme ad un gruppo di Siracusani fuoriusciti in seguito alla guerra civile che dilaniava la città, edificarono la colonia di Himera, tra quelle greche “la più lontana e isolata”, come racconta Tucidide, un avamposto ellenico sulle coste settentrionali della Sicilia. Cicerone parla di un

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costituiva un ostacolo e un pericolo per l’espansione cartaginese in Sicilia. Nel 409 a.C. l’esercito di Annibale pone l’assedio, la città resiste fino allo spasimo, ma poi deve arrendersi. Ecco la cronaca: “I barbari si dettero ad una lunga e spietata strage di tutti quelli che erano sopravvissuti. Gli uomini catturati, circa tremila, furono condotti nel luogo in cui Amilcare, nonno di Annibale era stato ucciso da Gelone e dopo molti tormenti, tutti furono trucidati” come Diodoro Siculo narra: tra le opere d’arte alcune vennero trafugate dai vincitori altre abbattute, come una statua raffigurante le sembianze di Stesicoro. Dopo duecentoquaranta anni “Himera possente che era stata, tra le città della Sicilia una delle più famose e delle più ricche di opere d’arte” secondo il computo di Cicerone, cessava di esistere. Diodoro Siculo sostiene che i Cartaginesi fondarono sullo stesso territorio, non lontano da Himera, Terme, mentre Cicerone – secoli dopo – sostiene che furono i profughi della catastrofe a stabilirvisi. Probabilmente le due tesi possono conciliarsi. Il nuovo agglomerato sorse dunque non lontano dalla città antica, nel luogo sacro alle Ninfe dove un tempo Eracle si era dissetato. Dopo la conquista romana di Cartagine, Scipione Emiliano restituì alla città le opere d’arte sottratte dai Cartaginesi. Ecco, un’infinità di memorie, pietre e narrazioni dimorano nei luoghi che furono città e oggi sono sotto la coltre sonnacchiosa di un lungo autunno fatto di pomeriggi e, però, non andate via. Non lasciate la Sicilia. È il posto più ghiotto del mondo. E non solo perché c’è il mare e il sole

di Erodoto, mentre Diodoro Sicuro anticipa di due mesi, al luglio del 480, la data facendola combaciare con quella delle Termopili. Il significato simbolico non cambia. Davanti alla città di Stesicoro, infatti, Gelone e Terone sconfissero Amilcare re dei Cartaginesi che, secondo una prima versione, venne ucciso dallo stesso Gelone, secondo un’altra tesi si suicidò alla vista della flotta distrutta. L’esito della battaglia assegna la vittoria ai Greci contro le potenze “barbare”. I Cartaginesi per intercessione della moglie di Gelone, Damarete, ottennero condizioni ragionevoli. Dovettero pagare un tributo di duemila talenti e costruire due templi, di cui uno pare a Siracusa, e l’altro, denominato tempio della Vittoria, ad Himera. I Cartaginesi in segno di ringraziamento, onorarono Damarete offrendole una corona d’oro che fu poi trasformata in argento e divenne una medaglia commemorativa a ricordo della vittoria. La stessa Damarete sarebbe riuscita ad ottenere che i Cartaginesi cessassero il rito del sacrificio dei fanciulli ai loro dei. Terone impose alla città il governo del proprio figlio Trasideo che risultò oppressivo. L’eco dell’ammonimento di Stesicoro è di nuovo inascoltata. La città chiede aiuto a Gerone, succeduto a Gelone. È una mossa fatale. Il tiranno di Siracusa svela a Trasideo la volontà dei suoi sudditi. La reazione è inesorabile. La popolazione venne decimata su suo ordine, tanto che nel 476 per ripopolare la città dovette offrire la cittadinanza a chiunque la desiderasse. Ma ormai la fine di Himera incombe. La città

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preesistente “oppidum quoddam in primis Siciliae clarum et ornatum”. Ciò spiegherebbe lo stretto contatto con i Sicani, la popolazione indigena con la quale i nuovi arrivati convissero per lo più pacificamente. Anche nel patrimonio mitico, infatti, accanto agli dei olimpici sono presenti divinità naturali legate alle acque proprie della popolazione indigena preesistente. Ma nel VI secolo a.C. scoppiò una guerra tra Imeresi e Sicani che portò i primi a chiedere aiuto al tiranno di Agrigento Falaride nonostante il saggio ammonimento del poeta Stesicoro, che per l’occasione compose la celebre favola del cavallo e del cervo, in cui il destriero per non aver la peggio, chiede aiuto all’uomo e ne diventa schiavo. La richiesta di aiuto costò infatti agli Imeresi la perdita della libertà. “Colui che, paventando la miseria, lascia ciò che è prezioso più dell’oro – l a libertà – poi deve sopportare, triste, un padrone e servire in eterno poiché incapace di godere il poco”. Il vero nome di Stesicoro che letteralmente vuol dire “colui che gestisce il coro” era Tisia. Nato proprio ad Himera, testimonia con la grandezza della sua attività poetica, l’alto livello culturale che Himera poteva vantare. Nel 484 Terone, tiranno di Agrigento, aveva occupato Himera per garantirsi un accesso al mare sulle coste settentrionali, costringendo alla fuga Terillo, signore della città. Questi chiese aiuto ai Cartaginesi, mentre Terone strinse alleanza con Gelone di Siracusa. La battaglia si consumò davanti alle mura di Imera nel 480 a.C.,“nello stesso giorno in cui gli Elleni vinsero a Salamina il re di Persia” secondo la narrazione

fatta solo di paesi, il gusto del raccontare non prescinde dalla poesia e dalla nostalgia. Perché poi, sopraffatti, ci si fa poeti e malinconici. A costo di farselo tutto nuovo il paese. Anche se preso in prestito. Perfino nelle lontane terre d’oltre mare, in Africa. Come accade nella costa meridionale di Sicilia, dove grazie agli immigrati ritorna un’identità forte, perfino mitica. Giusto per ben figurare nella trasfigurazione perché lo spot obbligato, è sempre lo stesso, immerso nella luce siciliana: “che rende più violenta la collera e più malinconica la felicità”. La memoria, svegliare alla memoria la gloria che fu, metterla in esercizio e dunque darle vita eroica può farsi solo ad occhi chiusi sulle pagine aperte di pergamene, libri e tra i ruderi di pietre che sanno di noi più di quanto noi stessi possiamo conoscere, resi dimentichi dalla soggezione del far tutto nuovo. Narra il mito che Eracle figlio di Alcmena e Zeus, dopo aver attraversato lo stretto di Messina aggrappato alle corna di un toro, si ristorò alla fonte di acqua calda che le Ninfe avevano fatto scaturire dal terreno in suo onore. Nacquero così le terme di Himera. Tra il fiume Torto a ovest e l’Imera settentrionale a est su una zona pianeggiante in direzione della spiaggia, nel 648 a.C. i Calcidiesi di Zancle, l’odierna Messina fondata un secolo prima dai Greci, insieme ad un gruppo di Siracusani fuoriusciti in seguito alla guerra civile che dilaniava la città, edificarono la colonia di Himera, tra quelle greche “la più lontana e isolata”, come racconta Tucidide, un avamposto ellenico sulle coste settentrionali della Sicilia. Cicerone parla di un

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costituiva un ostacolo e un pericolo per l’espansione cartaginese in Sicilia. Nel 409 a.C. l’esercito di Annibale pone l’assedio, la città resiste fino allo spasimo, ma poi deve arrendersi. Ecco la cronaca: “I barbari si dettero ad una lunga e spietata strage di tutti quelli che erano sopravvissuti. Gli uomini catturati, circa tremila, furono condotti nel luogo in cui Amilcare, nonno di Annibale era stato ucciso da Gelone e dopo molti tormenti, tutti furono trucidati” come Diodoro Siculo narra: tra le opere d’arte alcune vennero trafugate dai vincitori altre abbattute, come una statua raffigurante le sembianze di Stesicoro. Dopo duecentoquaranta anni “Himera possente che era stata, tra le città della Sicilia una delle più famose e delle più ricche di opere d’arte” secondo il computo di Cicerone, cessava di esistere. Diodoro Siculo sostiene che i Cartaginesi fondarono sullo stesso territorio, non lontano da Himera, Terme, mentre Cicerone – secoli dopo – sostiene che furono i profughi della catastrofe a stabilirvisi. Probabilmente le due tesi possono conciliarsi. Il nuovo agglomerato sorse dunque non lontano dalla città antica, nel luogo sacro alle Ninfe dove un tempo Eracle si era dissetato. Dopo la conquista romana di Cartagine, Scipione Emiliano restituì alla città le opere d’arte sottratte dai Cartaginesi. Ecco, un’infinità di memorie, pietre e narrazioni dimorano nei luoghi che furono città e oggi sono sotto la coltre sonnacchiosa di un lungo autunno fatto di pomeriggi e, però, non andate via. Non lasciate la Sicilia. È il posto più ghiotto del mondo. E non solo perché c’è il mare e il sole

di Erodoto, mentre Diodoro Sicuro anticipa di due mesi, al luglio del 480, la data facendola combaciare con quella delle Termopili. Il significato simbolico non cambia. Davanti alla città di Stesicoro, infatti, Gelone e Terone sconfissero Amilcare re dei Cartaginesi che, secondo una prima versione, venne ucciso dallo stesso Gelone, secondo un’altra tesi si suicidò alla vista della flotta distrutta. L’esito della battaglia assegna la vittoria ai Greci contro le potenze “barbare”. I Cartaginesi per intercessione della moglie di Gelone, Damarete, ottennero condizioni ragionevoli. Dovettero pagare un tributo di duemila talenti e costruire due templi, di cui uno pare a Siracusa, e l’altro, denominato tempio della Vittoria, ad Himera. I Cartaginesi in segno di ringraziamento, onorarono Damarete offrendole una corona d’oro che fu poi trasformata in argento e divenne una medaglia commemorativa a ricordo della vittoria. La stessa Damarete sarebbe riuscita ad ottenere che i Cartaginesi cessassero il rito del sacrificio dei fanciulli ai loro dei. Terone impose alla città il governo del proprio figlio Trasideo che risultò oppressivo. L’eco dell’ammonimento di Stesicoro è di nuovo inascoltata. La città chiede aiuto a Gerone, succeduto a Gelone. È una mossa fatale. Il tiranno di Siracusa svela a Trasideo la volontà dei suoi sudditi. La reazione è inesorabile. La popolazione venne decimata su suo ordine, tanto che nel 476 per ripopolare la città dovette offrire la cittadinanza a chiunque la desiderasse. Ma ormai la fine di Himera incombe. La città

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si va sullo scooter e poi pedonalizzare il più possibile. Quando le città diventano prateria a disposizione dei bipedi (quando insomma le polis si restituiscono all’agorà), questi stessi centri diventano meritevoli di chiasso e vita. E poi anche di commercio. Io me ne sono andato via. Ho lasciato la Sicilia. Ho abbandonato una casa che resta chiusa per undici mesi l’anno e vivo lontano da quelle mura dove è rimasta appiccicata l’ombra della mia giovinezza. Anno dopo anno tutto diventa più difficile. Ho ben chiaro il ricordo degli emigrati. Se ne vedevano sempre durante le vacanze: a Natale, a Pasqua, per Ferragosto. I paesi si riempivano di automobili dai colori più sgargianti. C’erano targhe da farci un atlante, tante ce n’erano. Le tasche dei bambini, beneficiari di un Bengodi proletario, erano piene di tavolette di cioccolata, caramelle e perfino pacchetti di sigarette. Quali fantasmi riconsegnati alla vita dalle cartoline di auguri, gli emigrati, ritornati a casa, seminavano la gramigna salvifica del dubbio a quelli costretti a restare. Loro erano, ieri, quello che oggi sono gli immigrati venuti da un Sud ancora più remoto del nostro orizzonte: l’unico presepe possibile fatto di vita vera. Insomma: un pezzo di mondo portato in valigia. E io che me ne sono andato via mi sono sempre sentito un emigrato per aver fatto i conti con l’idea dell’abbandono. Chi se ne va, infatti, abbandona: la casa, la propria storia, i sogni perfino. Il posto più avventuroso deve essere quello dove le nuvole vanno a sfasciare i tuoni della stagione rotta: magari anche la Madonie, i Nebrodi e poi ancora gli Erei. E poi ci sono

per dieci mesi l’anno ma perché solo qui, nella terra di Polifemo e di Ibn Hamdis, è possibile realizzare il capolavoro detto “qualità della vita”. Certo, facendo un calcolo tra costo, benefici, servizi e possibilità, c’è solo da spararsi nel restare in Sicilia e però: che meraviglia l’idea stessa del fermarsi qui. Fosse solo nelle città comode: a Ragusa, a Catania, a Siracusa, a Palermo. Una meraviglia. Per non dire della campagna, del mare, del paese e del silenzio di un appuntamento disteso nel tempo lungo di giornate infinite: tutto è bellissimo se poi l’esistenza è benedetta dal lavoro. E per lavoro non si parla del “posto”. S’intenda piuttosto la soddisfazione di creare, inventare, sognare e realizzare. Il lavoro, infatti, è un processo concreto dove tutto si determina secondo la febbre della vita. Altrimenti perché, in passato, avremmo fatto dell’edilizia una festa barocca? Perché, dunque, nel paesaggio rurale, ci saremmo inventati una gioia bionda qual è il grano e poi sfornare una malinconia possente come la vita dei campi: poesia universale della sconfitta? Siamo vinti perché abbiamo un vantaggio da scontare: la Sicilia è veramente il luogo dove da sempre il mondo ha voluto darsi appuntamento. Ecco, la Sicilia è il centro di tutte le possibilità. E il giorno in cui sarà evidente che, insomma, la Sicilia non è una periferia, capiterà di doversi adeguare all’affollarsi di richieste del rispettabile pubblico. E perciò: raccogliere l’immondizia (come minimo); rispettare le regole, non mafiare, non cadere al ribasso secondo voga televisiva, mettere il casco quando

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favore di vento. Un mondo che accorcia le distanze è una terra che si fa deserto. Quando le città del mondo erano messe in fila lungo la strada statale 121 – partenza da Palermo, sosta pranzo a Termini Imerese – sembrava che ci si potesse improvvisare pellegrini di una grande avventura: ogni tappa era un capitolo del libro universale, a Regalbuto si compravano i biscotti a forma di “S”, a Misterbianco sfavillavano le luci dell’area commerciale, a Catania, infine, lungo il viale Mario Rapisardi, cominciava la città ed era un presepe fatto di colori, vita ed emozioni. Quello che raccontava il romanzo degli anni passati: un destino vivo.

i raggi del sole distesi lungo il sentiero di Kore, divinità rapace di bellezza e fuoco. Quando gli aerei decollano, sono questi stessi raggi che fanno da tappeto alle fughe dei viaggiatori. Chissà perché, poi, la bellezza è tutta risolta nella perfezione della campagna. Ma chi se ne va se la perde la possibilità di mettere in opera il sogno, anzi, peggio: si passa la vita intera a sognare quello che in età tarda non si potrà più fare. Quel proverbio terragno, “Casa per quanto stai, terra per quanto vedi”, è un assioma degno del regno ideale di Platone. E la Sicilia è veramente lo Stato ideale pensato dal filosofo. Se solo ci fosse la possibilità di restarci e non, al contrario, l’obbligo di andarsene via. Io che me ne sono andato ci torno sempre in Sicilia. E tornare senza restare è una condizione di assoluta malinconia. Ad avere una patria ci si risolve al destino dei senza dimora. In effetti se ne vanno via i ragazzi. Quelli più svegli, quelli che sanno studiare e quelli che sanno lavorare, sono tutti fuori. Ma noi cerchiamo sempre le possibilità ulteriori da quando il nostro luogo è diventato una clinica dove nascere per poi scappare via. C’è solo da aspettare che il vento della moda giri il muso nel verso a favore, a

E certo che poi se ne vanno i ragazzi. Di quelli intelligenti, infatti – quelli che sono svegli e curiosi delle cose e degli alfabeti – non se ne trova uno che voglia restare. E di restare qui, in Sicilia, non se ne parla. Nel mondo che ha accorciato le distanze il deserto è conseguenza. Stiamo in Sicilia per non restarci. Degno di una fatica d’Eracle è restare in Sicilia. Ce ne andiamo via per non lasciarla mai. E magari nel frattempo dormiamo. Il sonno del dopopranzo.

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si va sullo scooter e poi pedonalizzare il più possibile. Quando le città diventano prateria a disposizione dei bipedi (quando insomma le polis si restituiscono all’agorà), questi stessi centri diventano meritevoli di chiasso e vita. E poi anche di commercio. Io me ne sono andato via. Ho lasciato la Sicilia. Ho abbandonato una casa che resta chiusa per undici mesi l’anno e vivo lontano da quelle mura dove è rimasta appiccicata l’ombra della mia giovinezza. Anno dopo anno tutto diventa più difficile. Ho ben chiaro il ricordo degli emigrati. Se ne vedevano sempre durante le vacanze: a Natale, a Pasqua, per Ferragosto. I paesi si riempivano di automobili dai colori più sgargianti. C’erano targhe da farci un atlante, tante ce n’erano. Le tasche dei bambini, beneficiari di un Bengodi proletario, erano piene di tavolette di cioccolata, caramelle e perfino pacchetti di sigarette. Quali fantasmi riconsegnati alla vita dalle cartoline di auguri, gli emigrati, ritornati a casa, seminavano la gramigna salvifica del dubbio a quelli costretti a restare. Loro erano, ieri, quello che oggi sono gli immigrati venuti da un Sud ancora più remoto del nostro orizzonte: l’unico presepe possibile fatto di vita vera. Insomma: un pezzo di mondo portato in valigia. E io che me ne sono andato via mi sono sempre sentito un emigrato per aver fatto i conti con l’idea dell’abbandono. Chi se ne va, infatti, abbandona: la casa, la propria storia, i sogni perfino. Il posto più avventuroso deve essere quello dove le nuvole vanno a sfasciare i tuoni della stagione rotta: magari anche la Madonie, i Nebrodi e poi ancora gli Erei. E poi ci sono

per dieci mesi l’anno ma perché solo qui, nella terra di Polifemo e di Ibn Hamdis, è possibile realizzare il capolavoro detto “qualità della vita”. Certo, facendo un calcolo tra costo, benefici, servizi e possibilità, c’è solo da spararsi nel restare in Sicilia e però: che meraviglia l’idea stessa del fermarsi qui. Fosse solo nelle città comode: a Ragusa, a Catania, a Siracusa, a Palermo. Una meraviglia. Per non dire della campagna, del mare, del paese e del silenzio di un appuntamento disteso nel tempo lungo di giornate infinite: tutto è bellissimo se poi l’esistenza è benedetta dal lavoro. E per lavoro non si parla del “posto”. S’intenda piuttosto la soddisfazione di creare, inventare, sognare e realizzare. Il lavoro, infatti, è un processo concreto dove tutto si determina secondo la febbre della vita. Altrimenti perché, in passato, avremmo fatto dell’edilizia una festa barocca? Perché, dunque, nel paesaggio rurale, ci saremmo inventati una gioia bionda qual è il grano e poi sfornare una malinconia possente come la vita dei campi: poesia universale della sconfitta? Siamo vinti perché abbiamo un vantaggio da scontare: la Sicilia è veramente il luogo dove da sempre il mondo ha voluto darsi appuntamento. Ecco, la Sicilia è il centro di tutte le possibilità. E il giorno in cui sarà evidente che, insomma, la Sicilia non è una periferia, capiterà di doversi adeguare all’affollarsi di richieste del rispettabile pubblico. E perciò: raccogliere l’immondizia (come minimo); rispettare le regole, non mafiare, non cadere al ribasso secondo voga televisiva, mettere il casco quando

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favore di vento. Un mondo che accorcia le distanze è una terra che si fa deserto. Quando le città del mondo erano messe in fila lungo la strada statale 121 – partenza da Palermo, sosta pranzo a Termini Imerese – sembrava che ci si potesse improvvisare pellegrini di una grande avventura: ogni tappa era un capitolo del libro universale, a Regalbuto si compravano i biscotti a forma di “S”, a Misterbianco sfavillavano le luci dell’area commerciale, a Catania, infine, lungo il viale Mario Rapisardi, cominciava la città ed era un presepe fatto di colori, vita ed emozioni. Quello che raccontava il romanzo degli anni passati: un destino vivo.

i raggi del sole distesi lungo il sentiero di Kore, divinità rapace di bellezza e fuoco. Quando gli aerei decollano, sono questi stessi raggi che fanno da tappeto alle fughe dei viaggiatori. Chissà perché, poi, la bellezza è tutta risolta nella perfezione della campagna. Ma chi se ne va se la perde la possibilità di mettere in opera il sogno, anzi, peggio: si passa la vita intera a sognare quello che in età tarda non si potrà più fare. Quel proverbio terragno, “Casa per quanto stai, terra per quanto vedi”, è un assioma degno del regno ideale di Platone. E la Sicilia è veramente lo Stato ideale pensato dal filosofo. Se solo ci fosse la possibilità di restarci e non, al contrario, l’obbligo di andarsene via. Io che me ne sono andato ci torno sempre in Sicilia. E tornare senza restare è una condizione di assoluta malinconia. Ad avere una patria ci si risolve al destino dei senza dimora. In effetti se ne vanno via i ragazzi. Quelli più svegli, quelli che sanno studiare e quelli che sanno lavorare, sono tutti fuori. Ma noi cerchiamo sempre le possibilità ulteriori da quando il nostro luogo è diventato una clinica dove nascere per poi scappare via. C’è solo da aspettare che il vento della moda giri il muso nel verso a favore, a

E certo che poi se ne vanno i ragazzi. Di quelli intelligenti, infatti – quelli che sono svegli e curiosi delle cose e degli alfabeti – non se ne trova uno che voglia restare. E di restare qui, in Sicilia, non se ne parla. Nel mondo che ha accorciato le distanze il deserto è conseguenza. Stiamo in Sicilia per non restarci. Degno di una fatica d’Eracle è restare in Sicilia. Ce ne andiamo via per non lasciarla mai. E magari nel frattempo dormiamo. Il sonno del dopopranzo.

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Termini Imerese Una storia

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che possono essere catalizzati nei luoghi del racconto televisivo o cinematografico (in Gran Bretagna è stata realizzata una vera e propria mappa che permette di visitare i luoghi collegati a film o telefilm di successo). Per un’area come Termini Imerese, la fabbrica della serialità televisiva e audiovisiva rappresenta un potenziale di sviluppo, un volano in grado di moltiplicare, come vedremo, i fattori di crescita dell’economia locale. La fabbrica seriale dei testi narrativi, da una parte, è legata al paese in cui è localizzata da una miriade di tentacoli, ideativi e produttivi. Dall’altra il consumo del prodotto seriale diventa rito quotidiano – per circa ventuno milioni di italiani – con funzioni comunicative e simboliche. Il teleromanzo popolare, a sua volta, ha diversi tentacoli che lo riavvolgono al suo pubblico: i forum, i blog, i fan club, le convention, i siti tematici: lo spettatore partecipa al rito quotidiano non solo con la visione, ma attraverso una sorta di cooperazione con la produzione. Il pubblico della serialità televisiva, in più, costituisce un flusso turistico di pregio, in quanto destagionalizzato, pronto a venire in qualsiasi momento a conoscere dal vivo i personaggi e i luoghi che passano attraverso la finestra televisiva quotidiana. Solo la fiction seriale genera tali fenomeni, non effimeri e contingenti, di mobilitazione e fidelizzazione del pubblico. La produzione industriale del racconto televisivo

Questo è il secolo dell’immagine; meglio dell’immagine digitale, mobile e riproducibile, pervasiva. È anche il secolo della riscoperta della natura, della ricchezza dei territori e dei loro frutti: dell’ingegno, del talento, della terra. L’industria della comunicazione e dell’audiovisivo trasforma il pensiero creativo dell’individuo in esperienza collettiva, in narrazione organizzata. La produzione televisiva seriale, di tipo industriale, realizza ogni giorno una puntata di un mondo complesso e per riuscirci utilizza il meglio che trova o che scopre nel territorio dove opera o pone le basi per individuare ciò di cui ha bisogno (capacità artigianali, paesaggi, storie, talenti). La produzione seriale è possibile solo con la nascita di Studios dove vi sia un’organizzazione del lavoro, creativo e fisico, che parta dall’ideazione, in un apposito reparto, per arrivare sino alla messa in onda, passando dalla pre alla post-produzione. Questa Fabbrica della serialità provoca una serie di effetti virtuosi, diretti e indiretti, a favore del territorio con il quale si alimenta: e qui sta una specificità dell’industria dell’immagine e dell’immaginario rispetto all’industria pesante, che lascia solo desolanti esempi di archeologia industriale. Effetti virtuosi: a livello mondiale si studiano da anni i modelli per valutare il cosiddetto “effetto moltiplicatore” di un investimento audiovisivo, arrivando intorno un fattore 2,5-4 rispetto all’investimento diretto nel prodotto, escludendo da tale stima i flussi turistici Sopra e nelle pagine successive il concept architettonico di Massimiliano Fuksas per i Med Studios di Termini Imerese 86

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Un sogno fatto a Termini di Marco Mele*

che possono essere catalizzati nei luoghi del racconto televisivo o cinematografico (in Gran Bretagna è stata realizzata una vera e propria mappa che permette di visitare i luoghi collegati a film o telefilm di successo). Per un’area come Termini Imerese, la fabbrica della serialità televisiva e audiovisiva rappresenta un potenziale di sviluppo, un volano in grado di moltiplicare, come vedremo, i fattori di crescita dell’economia locale. La fabbrica seriale dei testi narrativi, da una parte, è legata al paese in cui è localizzata da una miriade di tentacoli, ideativi e produttivi. Dall’altra il consumo del prodotto seriale diventa rito quotidiano – per circa ventuno milioni di italiani – con funzioni comunicative e simboliche. Il teleromanzo popolare, a sua volta, ha diversi tentacoli che lo riavvolgono al suo pubblico: i forum, i blog, i fan club, le convention, i siti tematici: lo spettatore partecipa al rito quotidiano non solo con la visione, ma attraverso una sorta di cooperazione con la produzione. Il pubblico della serialità televisiva, in più, costituisce un flusso turistico di pregio, in quanto destagionalizzato, pronto a venire in qualsiasi momento a conoscere dal vivo i personaggi e i luoghi che passano attraverso la finestra televisiva quotidiana. Solo la fiction seriale genera tali fenomeni, non effimeri e contingenti, di mobilitazione e fidelizzazione del pubblico. La produzione industriale del racconto televisivo

Questo è il secolo dell’immagine; meglio dell’immagine digitale, mobile e riproducibile, pervasiva. È anche il secolo della riscoperta della natura, della ricchezza dei territori e dei loro frutti: dell’ingegno, del talento, della terra. L’industria della comunicazione e dell’audiovisivo trasforma il pensiero creativo dell’individuo in esperienza collettiva, in narrazione organizzata. La produzione televisiva seriale, di tipo industriale, realizza ogni giorno una puntata di un mondo complesso e per riuscirci utilizza il meglio che trova o che scopre nel territorio dove opera o pone le basi per individuare ciò di cui ha bisogno (capacità artigianali, paesaggi, storie, talenti). La produzione seriale è possibile solo con la nascita di Studios dove vi sia un’organizzazione del lavoro, creativo e fisico, che parta dall’ideazione, in un apposito reparto, per arrivare sino alla messa in onda, passando dalla pre alla post-produzione. Questa Fabbrica della serialità provoca una serie di effetti virtuosi, diretti e indiretti, a favore del territorio con il quale si alimenta: e qui sta una specificità dell’industria dell’immagine e dell’immaginario rispetto all’industria pesante, che lascia solo desolanti esempi di archeologia industriale. Effetti virtuosi: a livello mondiale si studiano da anni i modelli per valutare il cosiddetto “effetto moltiplicatore” di un investimento audiovisivo, arrivando intorno un fattore 2,5-4 rispetto all’investimento diretto nel prodotto, escludendo da tale stima i flussi turistici Sopra e nelle pagine successive il concept architettonico di Massimiliano Fuksas per i Med Studios di Termini Imerese 86

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regione, invece, i film che vi sono stati girati in location esterne? Loro stessi, certo, con le magie dei loro piani-sequenza e dei panorami visti in soggettiva. Scene a volte indimenticabili, ma finite, concluse, con un indotto per il territorio congiunturale, che si esaurisce nel breve termine. La fabbrica seriale dà molto di più, perché diventa parte integrante del territorio, dal quale ogni giorno ricava le materie prime con le quali realizzare il prodotto “finito” da immettere nel circuito del consumo rituale. La materia prima principale è la risorsa uomo, il talento. Non più solo e tanto comparse destinate, in un gioco di parole, a “scomparire” alla fine del film, ma volti e persone destinate a restare, a far parte dell’orizzonte fisico e creativo della fabbrica, a crescere con lei. Formazione continua di sceneggiatori (nella serialità televisiva vi è una pluralità di figure professionali che concorrono alla scrittura delle storie che compongono il racconto: dagli story liners agli script editors), registi, costumisti, truccatori, attori, falegnami, dialoghisti, operatori di ripresa. Più la fabbrica va avanti nel tempo, lo dimostrano tutti i casi, come quello di Un posto al sole per Napoli, più utilizza talenti del luogo, sia nei suoi teatri, sia lavorando all’esterno, tra la gente, le case, gli spazi. I talenti locali, a loro volta, in un rapporto di scambio quotidiano, apportano alla Fabbrica la conoscenza della terra e della società in cui vivono. Non solo individui, però: la Fabbrica della serialità televisiva è un fattore di crescita per le piccole e medie imprese che agiscono sul territorio: dalle forniture di materiali (come quelli per le scenografie) a quelle di servizi (catering, trasporti, auto di scena). Il tutto inserito in un sistema integrato di un possibile e auspicabile Distretto audiovisivo, dove ogni piccola impresa può trovare altri clienti, mettere a frutto la sua specializzazione a vantaggio dell’occupazione sul territorio e crescere ulteriormente, grazie, tra l’altro, alle produzioni

deve avere alla base un nucleo ideativo e produttivo, una Fabbrica in grado di tenere il passo della messa in onda e della fruizione quotidiana, lineare, e di mettere in magazzino le scorte da rieditare per quella non lineare: il consumo della serialità non ha fine, come le sue storie. Tale Fabbrica dell’audiovisivo seriale non sforna oggetti materiali, identici, inerti. Non produce automobili che vanno altrove e non lasciano traccia nel tessuto produttivo e culturale della zona. La fabbrica dell’era immateriale si fonda sulla creatività e sul talento, in primo luogo di quelli locali, permettendo loro di esprimersi attraverso i ritmi del lavoro organizzato, finalizzato all’obiettivo di realizzare ogni puntata in un tempo determinato. Si tratta di mettere a punto una catena di montaggio che parta dalla sceneggiatura per arrivare alla post-produzione e alla messa in onda, ricca d’opportunità per il tessuto produttivo e artigianale circostante, quante poche altre a livello industriale. La formazione delle diverse figure professionali richieste dalla serialità televisiva è uno dei compiti della Fabbrica. Nulla può essere occasionale, provvisorio, privo di professionalità. Da qui la necessità di una formazione finalizzata alla crescita e da una specializzazione delle capacità artigianali e dei talenti individuali locali che, allo stesso tempo, dia la possibilità, per i ritmi a cui si lavora nel ciclo continuo della serialità industriale, di una loro valorizzazione in altre produzioni e quindi di un loro ricambio, allargando, nel tempo, il cerchio della risorse umane coinvolte e riqualificate. La fabbrica della serialità restituisce, moltiplicandole, ricchezza e potenzialità ideative e produttive all’intero territorio, ponendolo in grado di attrarre altri talenti e altri “sogni” produttivi, altri romanzi popolari, avendo a disposizione le strutture della fabbrica stessa, le risorse umane arricchite dalla formazione e quelle tecnologiche della Fabbrica (montaggio digitale, effetti speciali). Quanto hanno lasciato alla regione, a ciascuna

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regione, invece, i film che vi sono stati girati in location esterne? Loro stessi, certo, con le magie dei loro piani-sequenza e dei panorami visti in soggettiva. Scene a volte indimenticabili, ma finite, concluse, con un indotto per il territorio congiunturale, che si esaurisce nel breve termine. La fabbrica seriale dà molto di più, perché diventa parte integrante del territorio, dal quale ogni giorno ricava le materie prime con le quali realizzare il prodotto “finito” da immettere nel circuito del consumo rituale. La materia prima principale è la risorsa uomo, il talento. Non più solo e tanto comparse destinate, in un gioco di parole, a “scomparire” alla fine del film, ma volti e persone destinate a restare, a far parte dell’orizzonte fisico e creativo della fabbrica, a crescere con lei. Formazione continua di sceneggiatori (nella serialità televisiva vi è una pluralità di figure professionali che concorrono alla scrittura delle storie che compongono il racconto: dagli story liners agli script editors), registi, costumisti, truccatori, attori, falegnami, dialoghisti, operatori di ripresa. Più la fabbrica va avanti nel tempo, lo dimostrano tutti i casi, come quello di Un posto al sole per Napoli, più utilizza talenti del luogo, sia nei suoi teatri, sia lavorando all’esterno, tra la gente, le case, gli spazi. I talenti locali, a loro volta, in un rapporto di scambio quotidiano, apportano alla Fabbrica la conoscenza della terra e della società in cui vivono. Non solo individui, però: la Fabbrica della serialità televisiva è un fattore di crescita per le piccole e medie imprese che agiscono sul territorio: dalle forniture di materiali (come quelli per le scenografie) a quelle di servizi (catering, trasporti, auto di scena). Il tutto inserito in un sistema integrato di un possibile e auspicabile Distretto audiovisivo, dove ogni piccola impresa può trovare altri clienti, mettere a frutto la sua specializzazione a vantaggio dell’occupazione sul territorio e crescere ulteriormente, grazie, tra l’altro, alle produzioni

deve avere alla base un nucleo ideativo e produttivo, una Fabbrica in grado di tenere il passo della messa in onda e della fruizione quotidiana, lineare, e di mettere in magazzino le scorte da rieditare per quella non lineare: il consumo della serialità non ha fine, come le sue storie. Tale Fabbrica dell’audiovisivo seriale non sforna oggetti materiali, identici, inerti. Non produce automobili che vanno altrove e non lasciano traccia nel tessuto produttivo e culturale della zona. La fabbrica dell’era immateriale si fonda sulla creatività e sul talento, in primo luogo di quelli locali, permettendo loro di esprimersi attraverso i ritmi del lavoro organizzato, finalizzato all’obiettivo di realizzare ogni puntata in un tempo determinato. Si tratta di mettere a punto una catena di montaggio che parta dalla sceneggiatura per arrivare alla post-produzione e alla messa in onda, ricca d’opportunità per il tessuto produttivo e artigianale circostante, quante poche altre a livello industriale. La formazione delle diverse figure professionali richieste dalla serialità televisiva è uno dei compiti della Fabbrica. Nulla può essere occasionale, provvisorio, privo di professionalità. Da qui la necessità di una formazione finalizzata alla crescita e da una specializzazione delle capacità artigianali e dei talenti individuali locali che, allo stesso tempo, dia la possibilità, per i ritmi a cui si lavora nel ciclo continuo della serialità industriale, di una loro valorizzazione in altre produzioni e quindi di un loro ricambio, allargando, nel tempo, il cerchio della risorse umane coinvolte e riqualificate. La fabbrica della serialità restituisce, moltiplicandole, ricchezza e potenzialità ideative e produttive all’intero territorio, ponendolo in grado di attrarre altri talenti e altri “sogni” produttivi, altri romanzi popolari, avendo a disposizione le strutture della fabbrica stessa, le risorse umane arricchite dalla formazione e quelle tecnologiche della Fabbrica (montaggio digitale, effetti speciali). Quanto hanno lasciato alla regione, a ciascuna

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possibilità di ri-conoscere i luoghi, i volti, i paesi visti, o meglio vissuti, attraverso il romanzo seriale realizzato nella Fabbrica. E di conoscere la Fabbrica stessa, il set dove si ricrea, ogni giorno, una scena diversa, una storia sovrapposta alle precedenti. Un parco a tema sulla serialità e la fiction televisiva, collegato ai set della Fabbrica, sarebbe a sua volta un moltiplicatore di risorse, di occupazione, di energie in movimento, di turismo. Gli esempi dall’estero dimostrano lo straordinario successo dei Parchi a tema, dove poter realizzare anche spettacoli ed eventi, dove sviluppare lo sfruttamento commerciale del merchandising collegato alla popolarità delle serie, dove avere ristoranti e bar collegati alle tradizioni gastronomiche siciliane, ma al tempo stesso internazionali, rafforzando di necessità, in quantità e qualità, l’offerta alberghiera. Con un fondamentale rilancio del turismo congressuale grazie a questo rafforzamento infrastrutturale del territorio di Termini Imerese. Un Festival della lunga serialità, oltre ad attrarre pubblico, permetterà di costruire quelle alleanze con studios europei e mondiali che possono portare in Sicilia e alla Fabbrica seriale nuove opportunità produttive. Siamo tornati a valle della Fabbrica, tra il pubblico della seriatà televisiva, dove le nuove tecnologie propongono consumo d’audiovisivo in mobilità, nel tempo e nel luogo voluto, mentre in tutto il mondo, milioni e milioni di persone continuano a compiere il loro rito quotidiano in diretta, all’interno del palinsesto. La Sicilia, attraverso la Fabbrica della fiction, può navigare nel mondo e attrarlo a sé, per ricavarne ricchezza economica, culturale e ambientale.

attratte dalla Fabbrica, nazionali o internazionali. È un rapporto ideale, certo: nessuno nasconde quanto ogni Fabbrica porti inevitabilmente contraddizioni, conflitti, problemi da risolvere, talvolta creativamente, ogni ora e non solo ogni giorno. Siamo arrivati ad un altro punto cardinale della Fabbrica dell’immaginario: la quale lavora utilizzando non solo il materiale umano, ma anche la luce, i colori, i suoni e i rumori, i fondali e i tramonti della terra dove opera, persino i suoi sapori. La Sicilia può offrire alla Fabbrica dei sogni (e della realtà, riprodotta e resa racconto, storia) un’esperienza visiva senza paragoni. La luce, il mare e i suoi rumori, le ombre tra le case dei pescatori, le voci dei mercati e del porto diventano elementi della narrazione seriale, la cambiano e cambiano con essa. La terra reale diventa anche terra dell’immaginazione per gli spettatori, Ragusa Ibla diventa la Vigata di Montalbano, Lumera è il luogo ideale, ma mostrato e vissuto dagli spettatori come concreto e reale, da visitare e conoscere, in cui si svolge Agrodolce. L’industria televisiva solo dalla produzione seriale può trarre linfa e alimento per lavorare senza interruzioni e reinventarsi ogni giorno, a costi medi inferiori rispetto al prodotto breve e “concluso”, anche se la Fabbrica di Termini Imerese, come ogni altra, dovrà avere la flessibilità per realizzare qualsiasi prodotto audiovisivo, dallo spot al documentario. La sua economia è in diretto rapporto con gli input del territorio e quelli del mercato. È un’economia di moltiplicazione degli effetti, perché sia a livello ideativo sia a livello produttivo e post-produttivo ha bisogno ogni giorno di apporti dal territorio, di luoghi da riscoprire e valorizzare. Difficile stimare quanto valga ogni ora prodotta in termini di utilizzo e valorizzazione degli input del territorio, ma sicuramente ogni ora produce risorse per il territorio, a partire dalla sua immagine, con la

*Marco Mele è un giornalista de “Il Sole 24 Ore” specializzato in economia dei media e grande appassionato di lunga serialità televisiva.

Massimiliano Fuksas, nel suo studio, mostra il plastico dei Med Sudios di Termini Imerese 92

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possibilità di ri-conoscere i luoghi, i volti, i paesi visti, o meglio vissuti, attraverso il romanzo seriale realizzato nella Fabbrica. E di conoscere la Fabbrica stessa, il set dove si ricrea, ogni giorno, una scena diversa, una storia sovrapposta alle precedenti. Un parco a tema sulla serialità e la fiction televisiva, collegato ai set della Fabbrica, sarebbe a sua volta un moltiplicatore di risorse, di occupazione, di energie in movimento, di turismo. Gli esempi dall’estero dimostrano lo straordinario successo dei Parchi a tema, dove poter realizzare anche spettacoli ed eventi, dove sviluppare lo sfruttamento commerciale del merchandising collegato alla popolarità delle serie, dove avere ristoranti e bar collegati alle tradizioni gastronomiche siciliane, ma al tempo stesso internazionali, rafforzando di necessità, in quantità e qualità, l’offerta alberghiera. Con un fondamentale rilancio del turismo congressuale grazie a questo rafforzamento infrastrutturale del territorio di Termini Imerese. Un Festival della lunga serialità, oltre ad attrarre pubblico, permetterà di costruire quelle alleanze con studios europei e mondiali che possono portare in Sicilia e alla Fabbrica seriale nuove opportunità produttive. Siamo tornati a valle della Fabbrica, tra il pubblico della seriatà televisiva, dove le nuove tecnologie propongono consumo d’audiovisivo in mobilità, nel tempo e nel luogo voluto, mentre in tutto il mondo, milioni e milioni di persone continuano a compiere il loro rito quotidiano in diretta, all’interno del palinsesto. La Sicilia, attraverso la Fabbrica della fiction, può navigare nel mondo e attrarlo a sé, per ricavarne ricchezza economica, culturale e ambientale.

attratte dalla Fabbrica, nazionali o internazionali. È un rapporto ideale, certo: nessuno nasconde quanto ogni Fabbrica porti inevitabilmente contraddizioni, conflitti, problemi da risolvere, talvolta creativamente, ogni ora e non solo ogni giorno. Siamo arrivati ad un altro punto cardinale della Fabbrica dell’immaginario: la quale lavora utilizzando non solo il materiale umano, ma anche la luce, i colori, i suoni e i rumori, i fondali e i tramonti della terra dove opera, persino i suoi sapori. La Sicilia può offrire alla Fabbrica dei sogni (e della realtà, riprodotta e resa racconto, storia) un’esperienza visiva senza paragoni. La luce, il mare e i suoi rumori, le ombre tra le case dei pescatori, le voci dei mercati e del porto diventano elementi della narrazione seriale, la cambiano e cambiano con essa. La terra reale diventa anche terra dell’immaginazione per gli spettatori, Ragusa Ibla diventa la Vigata di Montalbano, Lumera è il luogo ideale, ma mostrato e vissuto dagli spettatori come concreto e reale, da visitare e conoscere, in cui si svolge Agrodolce. L’industria televisiva solo dalla produzione seriale può trarre linfa e alimento per lavorare senza interruzioni e reinventarsi ogni giorno, a costi medi inferiori rispetto al prodotto breve e “concluso”, anche se la Fabbrica di Termini Imerese, come ogni altra, dovrà avere la flessibilità per realizzare qualsiasi prodotto audiovisivo, dallo spot al documentario. La sua economia è in diretto rapporto con gli input del territorio e quelli del mercato. È un’economia di moltiplicazione degli effetti, perché sia a livello ideativo sia a livello produttivo e post-produttivo ha bisogno ogni giorno di apporti dal territorio, di luoghi da riscoprire e valorizzare. Difficile stimare quanto valga ogni ora prodotta in termini di utilizzo e valorizzazione degli input del territorio, ma sicuramente ogni ora produce risorse per il territorio, a partire dalla sua immagine, con la

*Marco Mele è un giornalista de “Il Sole 24 Ore” specializzato in economia dei media e grande appassionato di lunga serialità televisiva.

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Le immagini storiche Le immagini presenti nel testo di Pietrangelo Buttafuoco sono elaborazioni grafiche delle seguenti opere

Gandolfo Ferrara, Veduta della città di Termini e campagna vicina alla Ginestra superiore, dal Nord al Sud, 1821 incisione Museo Civico di Termini Imerese

Alfred Metzener, Termini, 1870 xilografia (Xilographische Anstalt von Brend’Amour & Comp, Dusseldorf) Pubblicata in: G. F. Hoffweiler, Sicilien. Schilderungen aus Genwert und Vergangenheit, Lipsia 1870 Biblioteca Comunale, Palermo

François Bossuet, Veduta di Termini dal ponte medievale sul torrente Barratina, 1875 dipinto ad olio su tela Museo Civico di Termini Imerese

B. Schauroth, Plan des Castellz zu Termini, 1823 disegno su carta Archivio Militare, Vienna

Una curiosità: una figurina del dado Liebig della serie Sicile Historique raffigurante la battaglia d’Imera. Molto liberamente ispirata all’immagine riprodotta a fianco

Gelone alla battaglia di Imera del 20 settembre 480 a.C., 1890 xilografia da un dipinto di Giuseppe Sciuti (1888, collocazione ignota) Collezione privata 94

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Le immagini storiche Le immagini presenti nel testo di Pietrangelo Buttafuoco sono elaborazioni grafiche delle seguenti opere

Gandolfo Ferrara, Veduta della città di Termini e campagna vicina alla Ginestra superiore, dal Nord al Sud, 1821 incisione Museo Civico di Termini Imerese

Alfred Metzener, Termini, 1870 xilografia (Xilographische Anstalt von Brend’Amour & Comp, Dusseldorf) Pubblicata in: G. F. Hoffweiler, Sicilien. Schilderungen aus Genwert und Vergangenheit, Lipsia 1870 Biblioteca Comunale, Palermo

François Bossuet, Veduta di Termini dal ponte medievale sul torrente Barratina, 1875 dipinto ad olio su tela Museo Civico di Termini Imerese

B. Schauroth, Plan des Castellz zu Termini, 1823 disegno su carta Archivio Militare, Vienna

Una curiosità: una figurina del dado Liebig della serie Sicile Historique raffigurante la battaglia d’Imera. Molto liberamente ispirata all’immagine riprodotta a fianco

Gelone alla battaglia di Imera del 20 settembre 480 a.C., 1890 xilografia da un dipinto di Giuseppe Sciuti (1888, collocazione ignota) Collezione privata 94

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Elenco delle fotografie

Pag. 4 Didrachma d’argento di Himera, 480-470 a.C. circa, collezione privata Pag. 8 Phiale aurea, Antiquarium di Himera, fine del IV, inizi del III sec. a.C., Termini Imerese

Le foto di Vincenzo Cammarata Pag. 24, le ciminiere della centrale termoelettrica Enel “Ettore Majorana” in contrada Tonnarella Pag. 26, veduta della città dalla stazione ferroviaria Pag. 28, veduta del porto dalla Serpentina Paolo Balsamo Pag. 30, veduta della città e del monte San Calogero dal Belvedere Pag. 32, corso Umberto e Margherita angolo via Giuseppe Mulé Pag. 34, via Sant’Orsola Pag. 36, via Roma, scalinata monumentale (XVIII sec.) Pag. 38, chiesa Maria SS. Annunziata (XV sec.) Pag. 39, Himera, uno dei numerosissimi reperti rinvenuti in occasione della ricerca archeologica preventiva alla realizzazione, del raddoppio ferroviario Fiumetorto-Cefalù. Pag. 40, vico Serraino Pag. 42, via Roma Pag. 44, Belvedere, le rampre che conducono alle terrazze panoramiche del castello Pag. 46, Grand Hotel delle Terme, la terrazza del foyer

Pag. 47, il giardino d’ingresso Pag. 48, Grand Hotel delle Terme, la piscina termale per la cura delle vasculopatie Pag. 49 , Grand Hotel delle Terme, ingresso Pag. 50, Grand Hotel delle Terme, terrazza del Roof Garden e uno scorcio del quartiere “Tinta” Pag. 52, veduta della cupola in maiolica della chiesa Maria SS. Annunziata e del campanile della Maggior Chiesa Pag. 52, particolare del gonfalone processionale raffigurante la Crocefissione tra le figure dolenti della Madonna e San Giovanni (tempera su tavola - metà XIV sec.), Museo Civico “B. Romano” Pag. 54, particolare del portale di ingresso al giardino della chiesa Maria SS. Annunziata e la cupola in maiolica Pag. 56, una veduta, dalle terrazze del Grand Hotel delle Terme, della chiesa Maria SS. Annunziata, del campanile della Maggior Chiesa e del quartiere “Rocchecelle” Pag. 58, cinemateatro “Eden” Pag. 60, porto, Stabilimenti “Mormino” Pag. 62, veduta della città dal mare Pag. 64, acquedotto romano Cornelio (II sec. d.C.), Ponte a doppia arcata sul torrente Barratina in contrada Figurella Pag. 66, ponte monumentale sul fiume San Leonardo (XVIII sec. edificato sui resti di un ponte di epoca romana)

Finito di stampare nel novembre 2010 presso le Arti Grafiche Leva Sesto San Giovanni (Milano)

Pag. 68, la centrale termoelettrica Enel “Ettore Majorana” in contrada Tonnarella Pag. 70, particolare dell’oleodotto di approvvigionamento della centrale Pag. 72, resti del Tempio della Vittoria nell’area archeologica di Himera (480 a.C.) Pag. 74, resti del Tempio della Vittoria nell’area archeologica di Himera (480 a.C.) ed il massiccio del Monte San Calogero (1326 m.) Pag. 76, cancelli di ingresso dello stabilimento Fiat di Termini Imerese Pag. 78, resti del Tempio della Vittoria nell’area archeologica di Himera (480 a.C.) Pag. 80, capannone industriale in stato di abbandono nell’Agglomerato Industriale di Termini Imerese Pag. 82, uno scorcio del porto commerciale e, sullo sfondo, il monte San Calogero (1326 m.) Pag. 84, Agglomerato industriale, lo scorcio di un area in stato di abbandono Pag. 85, Himera, alcuni reperti rinvenuti in occasione della ricerca archeologica preventiva alla realizzazione del raddoppio ferroviario Fiumetorto-Cefalù.


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Elenco delle fotografie

Pag. 4 Didrachma d’argento di Himera, 480-470 a.C. circa, collezione privata Pag. 8 Phiale aurea, Antiquarium di Himera, fine del IV, inizi del III sec. a.C., Termini Imerese

Le foto di Vincenzo Cammarata Pag. 24, le ciminiere della centrale termoelettrica Enel “Ettore Majorana” in contrada Tonnarella Pag. 26, veduta della città dalla stazione ferroviaria Pag. 28, veduta del porto dalla Serpentina Paolo Balsamo Pag. 30, veduta della città e del monte San Calogero dal Belvedere Pag. 32, corso Umberto e Margherita angolo via Giuseppe Mulé Pag. 34, via Sant’Orsola Pag. 36, via Roma, scalinata monumentale (XVIII sec.) Pag. 38, chiesa Maria SS. Annunziata (XV sec.) Pag. 39, Himera, uno dei numerosissimi reperti rinvenuti in occasione della ricerca archeologica preventiva alla realizzazione, del raddoppio ferroviario Fiumetorto-Cefalù. Pag. 40, vico Serraino Pag. 42, via Roma Pag. 44, Belvedere, le rampre che conducono alle terrazze panoramiche del castello Pag. 46, Grand Hotel delle Terme, la terrazza del foyer

Pag. 47, il giardino d’ingresso Pag. 48, Grand Hotel delle Terme, la piscina termale per la cura delle vasculopatie Pag. 49 , Grand Hotel delle Terme, ingresso Pag. 50, Grand Hotel delle Terme, terrazza del Roof Garden e uno scorcio del quartiere “Tinta” Pag. 52, veduta della cupola in maiolica della chiesa Maria SS. Annunziata e del campanile della Maggior Chiesa Pag. 52, particolare del gonfalone processionale raffigurante la Crocefissione tra le figure dolenti della Madonna e San Giovanni (tempera su tavola - metà XIV sec.), Museo Civico “B. Romano” Pag. 54, particolare del portale di ingresso al giardino della chiesa Maria SS. Annunziata e la cupola in maiolica Pag. 56, una veduta, dalle terrazze del Grand Hotel delle Terme, della chiesa Maria SS. Annunziata, del campanile della Maggior Chiesa e del quartiere “Rocchecelle” Pag. 58, cinemateatro “Eden” Pag. 60, porto, Stabilimenti “Mormino” Pag. 62, veduta della città dal mare Pag. 64, acquedotto romano Cornelio (II sec. d.C.), Ponte a doppia arcata sul torrente Barratina in contrada Figurella Pag. 66, ponte monumentale sul fiume San Leonardo (XVIII sec. edificato sui resti di un ponte di epoca romana)

Finito di stampare nel novembre 2010 presso le Arti Grafiche Leva Sesto San Giovanni (Milano)

Pag. 68, la centrale termoelettrica Enel “Ettore Majorana” in contrada Tonnarella Pag. 70, particolare dell’oleodotto di approvvigionamento della centrale Pag. 72, resti del Tempio della Vittoria nell’area archeologica di Himera (480 a.C.) Pag. 74, resti del Tempio della Vittoria nell’area archeologica di Himera (480 a.C.) ed il massiccio del Monte San Calogero (1326 m.) Pag. 76, cancelli di ingresso dello stabilimento Fiat di Termini Imerese Pag. 78, resti del Tempio della Vittoria nell’area archeologica di Himera (480 a.C.) Pag. 80, capannone industriale in stato di abbandono nell’Agglomerato Industriale di Termini Imerese Pag. 82, uno scorcio del porto commerciale e, sullo sfondo, il monte San Calogero (1326 m.) Pag. 84, Agglomerato industriale, lo scorcio di un area in stato di abbandono Pag. 85, Himera, alcuni reperti rinvenuti in occasione della ricerca archeologica preventiva alla realizzazione del raddoppio ferroviario Fiumetorto-Cefalù.


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