Scuola di comunicazione Luca Toschi*
Al mio maestro di Scuola Città “Pestalozzi” che mi ha insegnato ‘come fanno’ i burattini.
0. Non più idee vs. cose. Ovvero della comunicazione Ci ripetono incessantemente che uomini e cose, nella scuola e nella società tutta, stanno cambiando, cambieranno inevitabilmente. Cosa pensare di questo martellamento quotidiano, diretto o indiretto, di cui siamo fatti oggetto? A cosa sta mirando? E cosa cambia veramente, cosa non cambia? cosa è bene che non cambi? cosa è urgentissimo che si trasformi totalmente? E come? Affermare l’inevitabilità del cambiamento, di per sé, o è una constatazione che tutti possono fare, oppure rinvia all’altra banalità: l’innovazione e la sua provvidenziale necessità. Per lo più tecnologica: che altro non è, poi, che un potente cavallo di Troia per introdurre cambiamenti mirati all’affermazione di valori dove la nostra umanità appare sempre più secondaria, debole merce di scambio. Di certo oggi il mondo cambia in una modalità (velocità, quantità, natura…) mai vista prima; ma assumerne il governo, deciderne l’indirizzo, stabilirne le finalità e le relative priorità dipende da noi, e non da interventi illuminati dall’alto o dall’emergenza di masse organizzate, con vecchie e nuove tecnologie. Che questa immensa trasformazione nasca da noi ce l’hanno fatto dimenticare ad arte i tanti Signori della complessità, in lizza fra di loro per il controllo socio-economico di cortili, piazze, rioni, città, territori, aree del nostro pianeta. Niente di nuovo, né di strano, o di scandaloso, se non fosse che le terre di conquista sono sempre più vaste e, mirando direttamente alla nostra mente e ai nostri principi più profondi, individuali e collettivi, non lasciano più spazi di libertà per operazioni di ribellione e di conflitto. L’insidia è nel fatto che donne e uomini si stanno dimenticando che il senso della loro vita, il valore etico – religioso o laico poco importa – del loro esistere lo si gioca sulla possibilità di esercitare una libera scelta, sempre e *
Ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, Facoltà di Scienze della Formazione, Università di Firenze.
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comunque, e cioè di potersi avvalere della creatività che tutti noi abbiamo e che va dalla nostra interiorità all’universo mondo. Una creatività che, a maggior ragione, deve riguardare, prima ancora dell’uso delle tecnologie, la loro progettazione che consiste, più di ogni altra cosa, nella scelta di obiettivi etici e politici letti al futuro. Viceversa, l’aumento della presenza delle nuove macchine nella nostra vita pubblica e privata è stato fatto passare come un felice crescendo di funzionalità, di offerte di impieghi – ultima spiaggia di quel mito di un provvidenziale progresso che tanto fatichiamo a mettere in discussione senza abbandonarci al pessimismo e alla depressione –, di strumentazioni fenomenali quanto neutrali nel loro utilizzo, che assecondano le strategie di chi le adopera, servitori ubbidienti degli utilizzatori di turno. Ogni valutazione e discussione sui fini ultimi che ne motiverebbero l’uso, l’applicazione e, ripetiamolo, innanzi tutto la loro progettazione, tacciono perché ritenute scontate al punto da apparire il loro semplice ricordo un fastidioso ostacolo. La domanda, cioè, dovrebbe essere posta in maniera totalmente diversa: non “A cosa serve un computer? Un’auto, un telefono, la scuola? La ricerca, il mercato, la casa?...”, ma “A che cosa deve servire un computer? Un’auto, un…?” restando sempre pronti, attenti a cambiare progetto sulla base degli effettivi usi e delle concrete applicazioni. Chi si sentirebbe oggi di porsi queste domande senza avere la certezza di apparire ridicolo. Già mi sento io così, per avere soltanto sollevato la questione. Eppure, è questa posizione che fa, nella sostanza, torto prima di tutto alle stesse tecniche, vecchie e nuove. Dietro ogni macchina – allargando lo scenario potremmo dire dietro ad ogni componente del sistema sociale – c’è stato e c’è sempre un progetto di priorità e di obiettivi: indipendentemente dal fatto che essa sia stata ideata e realizzata per ‘migliorare’ la velocità o la memoria, la mobilità o la longevità, la produttività o la socialità. Ciò vale anche per quella tecnologia che si presenta come un immenso magazzino d’attrezzi messo a disposizione per poter scegliere liberamente in base alle necessità di volta in volta dominanti. La macchina, e quanto essa comporta, viene e va verso un progetto, sempre, concorrendo a scrivere l’ambiente in cui noi operiamo. Un progetto che rimanda ad una precisa visione della realtà, ad una sua grammatica. Anche se ciò, misteriosamente quanto fortunatamente, non impedisce che, per esempio, l’orologio, secondo alcuni nato nei monasteri benedettini del 1100-1200 per scandire le ore della preghiera, sia poi diventato lo strumento principe per un uso totalmente diverso. Così come è accaduto per altre 136
numerose scoperte tecnologiche. Il disegno del progetto primario delle macchine, infatti, può essere anche stravolto e sterzato verso fini contrari, ostili, radicalmente conflittuali rispetto ai piani originari come dimostrano la ricerca sull’atomo o la rivoluzione russa. Ma sia che si voglia accogliere il nuovo, valorizzarlo, favorendone l’affermazione, o, viceversa, sia che si senta l’urgenza di contrastarlo e di rindirizzarlo verso obiettivi diversissimi o opposti, è necessario misurarlo su due piani distinti quanto inscindibili: – delle intenzioni, nascoste o dichiarate che siano; – degli effetti che concretamente provoca. Insomma la valutazione non deve essere fatta sulla base di quello che esso ricorda, ripropone, del suo albero genealogico, valoriale e strumentale, ma rigorosamente tenendo conto del futuro implicito di cui è concretamente, operativamente, ‘carnalmente’ portatore e genitore: del suo infuturarsi. L’errore in cui si tende a cadere è quello di pensare alla tecnica e alla relativa organizzazione come ad un’utensileria sempre più efficace e stupefacente con cui possiamo ‘scrivere’ ‘testi’ nuovi della realtà. Ma nessuno, mai, si azzarda a discutere la grammatica a cui si ispirano i progetti di quella utensileria. Il futuro di cui si parla in proposito è semplice memoria del passato, una memoria letta come accumulazione, potenziamento del già vissuto. Memoria non immaginativa, di macchine non di uomini, almeno che questi ultimi non abbiamo deciso di fare concorrenza alle prime. L’idea dominante, cioè, che abbiamo della grammatica della tecnologica – ma non solo di quella come si vedrà più avanti – è vecchia, appartenendo all’uomo che ha sì preparato l’età della complessità, ma che ha anche rinunciato, almeno per il momento, a viverla, a subirla. Nel migliore dei casi egli ne riconosce l’esistenza a livello biologico, cognitivo, sociale, ne ammira e ne spiega la novità antropologica, ma nel profondo non crede di poterla vivere in termini di costruzione, di creatività, di organizzazione contrapposti al passato; non riesce ad andare oltre affermazioni e spiegazioni anche brillanti e originali ma generalmente poco vitali, nel senso che sono incapaci di generare realtà nuove, persino di credere di poterlo fare davvero. La mancanza d’idee-strumento al futuro, accompagnata all’ossessiva paura dell’errore, fa sì che anche quelle sue spiegazioni, quelle denunce, quegli scenari inediti per l’umanità, restino in un orizzonte culturale dove ogni giorno risorge, con la civetteria della consapevolezza, la vecchia e superata contrapposizione fra pensare ed essere, la dicotomia storica fra sapere e saper fare, fra analisi del sistema e sviluppo concreto di altri sistemi, fra enunciazione del problema e strumenti per la sua soluzione, fra creatività e metodo 137
creativo, fra progetto e realizzazione materiale, fra, da una parte, scelte etiche, morali, politiche e, dall’altra, attività di natura economica, politica, educativa, religiosa, etc. Una biforcazione che bene si riassume in una visione delle grammatiche della realtà, intese come entità immobili, contrapposte all’infinità varietà dei progetti, delle macchine e dei testi. Una separatezza fra matrici e relative realizzazioni che si basa su una visione unidirezionale delle loro relazioni che, costantemente, va dalle prime alle seconde, che persiste e insiste anche quando si ammettono possibili influenze dei testi sulle grammatiche. Quest’ultima possibilità di condizionamento, infatti, quando e se è riconosciuta, lo è solo sul piano delle onde lunghe della storia, così lunghe che mai, concretamente, possono essere vissute nello spazio e nel tempo brevi dell’agire del singola persona o gruppi. Credo che s’inizierà ad andare oltre l’attuale situazione di crisi nel momento in cui ci si renderà conto che la dicotomia fra lo spazio-tempo della ricerca, dell’ideazione, dell’immaginazione e lo spazio-tempo della realizzazione, della verifica, della dimensione effettuale dell’esperienza appartiene ad una visione vecchia, passata della realtà che nessuna macchina potrà cambiare se non saremo noi a volerlo. La possibilità di vivere nel futuro, cioè, sta nella costruzione del senso di questa nuova relazione, nel riconoscere e potenziare questa terra di mezzo, di comunicazione, che sta emergendo come un nuovo arcipelago fra i due storici continenti del nostro essere, un nuovo continente che non si limiterà soltanto ad affiancarsi a quelli esistenti ma che ne trasformerà nel profondo la costituzione, la struttura e le dinamiche evolutive. Oggi, non solo le grammatiche devono essere riscritte, non solo i testi possono incidere sulle grammatiche, ma, appunto, le relazioni, i nessi fra queste due sfere dell’agire umano stanno mostrando una trama così ‘complessa’ che ciò che da sempre è apparso essere una funzione gerarchicamente trasmissiva da un estremo all’altro del processo, comincia a mostrare di avere, a sua volta, le proprie grammatiche e i propri testi. Accade così che il ricordato processo che andava dal progetto alla realizzazione – sia che si trattasse della produzione di scarpe o di servizi di vitale importanza – risulta totalmente stravolto. Quell’intervallo che univa il piano alla sua materializzazione, il conoscere all’esperire, il cui livello d’affidabilità era identificato nella maggiore o minore possibilità di assicurare la transizione da un ‘vallo’ all’altro con il minor numero di ‘disturbi’ e ‘rumori’, sta rivelandosi così ricco di progettualità e di attuazioni da far intravedere scenari mai immaginati prima. 138
Quest’area di comunicazione fra ‘scrivere’ pensieri e ‘scrivere’ cose, a mano a mano che cambia, sta spingendo a considerare la dimensione progettuale come una dimensione fortemente effettuale ma anche – attenzione, non è meno importante – viceversa. Le idee saranno davvero tali solo quando si porranno come idee-cose, configurandosi sempre più come manufatti che hanno in sé gli strumenti per trasformarsi in cose; mentre le cose, ponendosi finalmente come cose-idee offriranno – si trattasse anche di una semplice caffettiera, che dall’alto della sua funzionalità sta a ancora ad aspettar qualcuno che la migliori – tutti i dispositivi necessari per ridefinirsi, per correggersi e trasformarsi, insomma per dare vita a nuove idee. In questo teatro di definitivo abbandono della cultura dei due spazitempi – idee vs. cose; scelte ideali vs. vincoli materiali –, ecco emergere la necessità non più prorogabile di porre al centro di tutta la scena la nostra umanità, dove morale, etica e politica sono idee-cose e al tempo stesso coseidee: quindi non più generiche promesse, destinate ben presto a perdersi dietro i polveroni del fare operoso della concretezza; ma neanche fideistiche operosità, che ben presto ci porteranno a domandarci il senso di tutto questo girare a vuoto. In questo scenario, la comunicazione, questa misteriosa terra di mezzo fra idee e cose, svolge un ruolo fondamentale. A cominciare dalla scuola. 1. Scuola di comunicazione Proviamo a vedere le cose da un punto di vista diverso. Non è vero che a scuola non s’insegna a comunicare. S’insegna, eccome; e non solo per imparare a ‘stare’ a scuola, dal momento che quel comportamento comunicativo poi l’applicheremo a tutto il nostro vivere sociale; non ultimo all’uso di altri media che non siano la scuola. Lo si fa in maniera indiretta, non esplicita, e cioè facendo ‘naturalmente’, ‘semplicemente’ scuola. Da quella mattina in cui genitori stranamente sorridenti e positivi, insolitamente attenti a indicarti i colori di quella bella giornata, ti consegnano premurosamente a giovani o meno giovani donne alle quali parlano del tuo pannolino e della tua pennichella con imbarazzante confidenza, la scuola di comunicazione non aprirà mai più i battenti per farci uscire. E già questa dinamica la dice lunga su cosa debba essere la comunicazione e a che cosa debba servire. 139
La scuola è l’ambiente di comunicazione per eccellenza; la comunicazione è un metacurriculum che ci accompagna per tutta la vita dentro e fuori i processi formativi. Che non ci sia la materia specifica dedicata alla comunicazione non deve confondere, anzi è la conferma della natura trasversale dell’ambito disciplinare della “Comunicazione”, di quale centralità essa abbia raggiunto. È proprio il fatto che la comunicazione sia dentro ogni prodotto formativo, identificando l’organizzazione dei contenuti con la modalità di comunicarli, anzi subordinando l’assetto disciplinare, curricolare al modo di comunicarlo, che l’ha resa così invisibile, così naturale da essere diventata fortissima. Perché, può essere opportuno ricordarlo da subito, la comunicazione efficace è come il potere: tanto più è forte tanto più è inavvertita, perché è il tempo, è lo spazio, è il contenuto. Appare come l’aria, senza di quella non ci sarebbe niente: e dalla stanza giochi, con le costruzioni rigorosamente in legno, alle aule – informatiche e non – dell’università, la comunicazione, nelle sue molteplici forme, opera incessantemente: non solo per tras-ferire, tras-mettere contenuti e comportamenti, ma specialmente per educare al fatto che, al di là della natura delle relazioni possibili fra docenti e allievi, la sola, vera comunicazione è quella gerarchicamente strutturata, trasmissiva, combinatoria e mai, come, viceversa, dovrebbe essere, generativa. Essa chiude, non apre al futuro, garantisce la salvaguardia di ricordi privi di qualsiasi portata prospettica, salvo quella, naturalmente, di conservare e mantenere il modello che vuole le cose rigorosamente separate dalle idee. La comunicazione è sempre stata un processo fondamentale per l’organizzazione materiale e simbolica della società, in tutti i suoi aspetti. In questa prospettiva la scuola opera su almeno due fronti: 1. dell’omogeneizzazione dei significati nelle loro varie componenti, per cui crea una cultura condivisa; 2. dell’educazione a cosa è la comunicazione trasmissivo-gerarchica e a come funziona. Una strategia per la quale è essenziale salvaguardare e rafforzare la – viceversa discutibilissima – separazione fra contenuti (1) e comunicazione (2): perché quest’ultima deve essere efficace per tutti i contenuti, veicolare cioè tutto lo scibile, indipendentemente dalle materie da trattare, sia in termini di comportamento in classe che di interazione con gli strumenti per insegnare e apprendere (ma Dio come ha studiato la fisica?). Per cui, dal punto di vista della comunicazione formativa, fra matematica e letteratura, fra filosofia e il tanto auspicato inglese, fra chimica e storia dell’arte etc. le differenze restano minime. Se non altro si pensi alla continuità spaziale fra i vari cur140
ricula disciplinari segnata solo da scansioni di tipo temporale (l’ora di… segue l’ora di… e poi l’ora di…), per il resto un’aula è buona a tutto, quell’architettura comunicativa può funzionare per studiare qualsiasi argomento, tanto che le stesse gite scolastiche sono ormai un’occasione di socializzazione extra curricolare non di incontro con altri spazi educativi, mentre altre aule non ci sono e se ci sono, come quella d’informatica, se ne stanno, per lo più, ben chiuse a chiave alla fine di qualche corridoio. Si rifletta sull’omogeneità dei linguaggi curricolari: un libro di matematica, se non fosse per i segni grafici e diacritici che lo distinguono, per struttura comunicativa equivale all’antologia della letteratura; e così per la chimica, per storia dell’arte; per la filosofia dove un libro fittissimo di parole, un banco, un’aula ristretta, le schiene dei compagni etc. etc.., insomma il classico ambiente scolastico, è ritenuto un luogo ideale per parlare dei principi fondamentali della condizione umana, del significato della conoscenza e dell’esistenza. Di che cosa stupirsi? La comunicazione scolastica, ben supportata dall’editoria va bene per tutto, è onnivora rispetto ai media originari (dal teatro alla poesia, dalla caduta dei gravi agli affreschi di Giotto, dall’Apologia di Socrate – ma perché i testi filosofici non devono essere mai letti nell’originale? Così chiari rispetto a tanta manualistica – alla Commedia dantesca), è un racconto, un riassunto infinito, dove la copia, il commento – magari di Benigni – è senza eccezione meglio dell’originale perché la comunicazione “è” il testo: qui a scuola e sempre. È un racconto delle conoscenze di base buono per tutte le stagioni, destrutturabile ai minimi termini e assemblabile in base alle peculiarità più varie (dall’insegnante e dagli allievi), una libertà che con il passare degli anni gli studenti potranno esercitare con maggiore autonomia. Ma soprattutto la scuola era\è funzionale ad educare proprio alla natura e alle finalità dei processi informativi-comunicativi extra- e post-scolastici, secondo la prospettiva che li vuole sì in incessante evoluzione sul piano delle tecniche ma, al di là di ogni trasformazione dei meccanismi e dei relativi linguaggi, caratterizzati sempre da una continuità assoluta in termini di funzione sociale: conservare e rafforzare la cultura dominante. Le è attribuita, quindi, un’azione di tipo omeostatico capace di assorbire il cambiamento delle condizioni esterne ed interne ai saperi consolidati, garantendo al tempo stesso la salvaguardia delle relazioni, dell’impianto strutturale di base, indipendentemente proprio dall’identità delle componenti. La comunicazione ha continuato da sempre a fare riferimento ad una sua metagrammatica, secondo la quale essa poteva avvalersi di infinite variabili a livello di stile e di mezzi, ma mai avrebbe potuto abbandonare i binari, 141
storicamente ben definiti, che consistono nel trasferire e consolidare un preciso script sociale, mediante le conoscenze consolidate, una ben definita trama gerarchica di relazioni, il proprio paradigma, un modello comunicativo che rispecchia, più di qualsiasi altro elemento, una precisa visione antropologica. La scuola non si è mai spostata da questa visione della comunicazione di cui essa rappresenta l’espressione più alta; per questo è assai più di un luogo comune rilevare che, se una persona vissuta tanto tempo fa si trovasse per magia in una nostra classe, ma anche in un corso di formazione per adulti, riconoscerebbe immediatamente il contesto e quanto sta avvenendo. Proviamo, allora, a ipotizzare che la scuola costituisca un ambiente di comunicazione così forte e fondante che rispetto a lei la tanto demonizzata televisione continui a sembrare una scolaretta; anzi proviamo a ridefinire il rapporto fra le due, sostenendo che la televisione è stata scolarizzata da subito, e la sua indubbia forza di oggi sta proprio nell’avere assunto un modello comunicativo assai simile a quello scolastico, dalla cronaca di un evento all’ampio inserto pubblicitario, dallo spettacolo serale alla trasmissione per casalinghe e pensionati alla mattina, ai veri telegiornali e previsione del tempo. Fra un programma televisivo o un videogioco e una lezione scolastica o uno stesso manuale le differenze non sono poi così marcate: l’impianto comunicativo, anche là dove l’interazione può apparire garanzia di una controtendenza, resta di tipo trasmissivo-gerarchico. Uno spettatore che sia stato invitato a partecipare ad un programma televisivo, direttamente oppure online, con la sua sudditanza, magari solerte o strafottente o buffonesca o silenziosa, con la sua sindrome da esami che non finiscono mai, evoca un clima comunicativo assai tipico di ogni classe. Se non ci piacciono la televisione, Internet, i videogiochi, i cellulari tipo iPhone e chi più ne ha di luddismo tecno-mediale ne metta, e vogliamo cambiarli, allora cerchiamo di lavorare decisamente sul modello trasmissivo, formativo, didascalico, educativo della comunicazione, di cui la scuola è il (mass) medium per eccellenza: il resto verrà da sé. Il fatto, storicamente eclatante, che la scuola sembra aver perso, negli ultimi decenni, la percezione della sua forza e il valore del suo modello, magari lanciandosi all’inseguimento di media vecchi e nuovi, e dei relativi linguaggi, dopo averli opportunamente criminalizzati, non deve impedire di capire la potenza paradigmatica, esemplare di questo medium, a cui tutti gli altri, pur fra tante variabili per natura e tecnica, hanno finito per adeguarsi. Nuove tecnologie per prime: la scuola le ha e le sta fagocitando, compresi quei cellulari che offrono una vita sociale in pillole multimediali del tutto 142
analoga ai contenuti che sono proposti a scuola e che si ipotizza verranno sempre più rifilati a suon di asset multimediali. E questo non perché la scuola abbia un maggior appeal della televisione o di Internet o dei cellulari ibridi o dei videogiochi, che – si continua a ripetere come conferma che sono un elemento della realtà con cui anche la scuola dovrà confrontarsi – hanno superato per fatturato il cinema. Il punto, naturalmente, non è questo: il fatto è che la scuola resta il modello comunicativo cui tutti, ma proprio tutti, si ispirano, con i suoi insegnanti, i suoi libri rivisitati dai nuovi linguaggi forti del mercato, le sue aule antiche come la clausura o nuove come i container o nuovissime come un’aula online: e non sembri una generalizzazione impropria o superata sostenere che l’intera società tende a porsi come una scuola: non a caso, appena varcato il ricordato portone, ancora piccoli, l’aula diventa una nuova casa. Quale altro medium si accende tutti i giorni verso le otto e qualche cosa e si spenge quando si va a dormire? se ci riesce staccare con la mente e con il cuore; e questo dall’età di due o tre anni fino a quando non si sa più (continuo a sognare che il mio esame di maturità aveva un vizio di forma e che devo ridarlo: come spiegare che non ricordo più niente? Che il vaso della mia mente si è svuotato di tutti quei contenuti?). Dalla pubblicità degli effetti speciali che ti riconosce per strada al giornale multimediale che ti ‘rilegge’ le notizie in base ai tuoi interessi e alle tue opinioni ai giochi satellitari di Pechino del fortunatissimo 08.08.2008 al serial più interattivo che si possa immaginare alla versione più rivoluzionaria del social networking alle più recenti tecniche di persuasione per prevenzione o terapia etc. etc., l’ambiente comunicativo della scuola (la sua miseria in Italia non deve ingannare, è una principessa vestita da povera, tanto che è una delle poche aree sociali in cui seguitano a fare la loro comparsa santi ed eroi) continua ad essere vincente. Perché penso che fra il sistema nervoso della comunicazione scolastica e quello della società tutta, nelle sue infinite manifestazioni, ci sia una continuità assoluta e ineludibile; indispensabile per illudersi di conservare un modello di umanità, con i relativi contenuti, che oggi mostra a chiunque tutti i segni di una crisi epocale. Il paradigma, infatti, che ormai da decenni è entrato in crisi è quello, lo si ripeterà più volte, trasmissivo-gerarchico di risorse destrutturate al massimo così da non permettere ai docenti e agli allievi di esprimere la propria personalità-libertà né a livello di micro né di macro contenuti, di esercitare un’intelligenza proiettata verso la creazione, la progettazione di ciò che ancora non c’è relativamente ai problemi e ai bisogni dell’uomo. La parola 143
futuro è negata, salvo in chiave allarmistica e sinistra. Non deve confondere, cioè, la libertà di assemblaggio che è concessa dal sistema. Si tratta, infatti, di un’autonomia apparente, perché lo spettro è ampio, ma risponde in ogni suo singolo elemento ed in ogni sua struttura portante ad una stessa, unica visione, logica della realtà, che, stando ai numeri e alle proporzioni fra docenti bravi e mediocri, non è mai messa in discussione. Gli insegnanti hanno la libertà di scegliere cosa comporre (bottom-up) con i tanti pezzi che la scatola di costruzioni offre loro (top-down), agli studenti quella di esercitare un’intelligenza replicante. Si prevede che, prossimamente, più sarà costosa la confezione di costruzioni, più i nostri giovani rampolli avranno un futuro luminoso d’ingegneri. Una visione della comunicazione fortemente caratterizzata dalla gestione, dall’amministrazione della conoscenza e della cultura al passato, non certo orientata ad un loro ampliamento, ancor meno ad una loro rilettura, valutazione critica: non nominiamo neppure l’ipotesi che da un percorso formativo e dalla relativa comunicazione possano (debbano?) nascere saperi e, in prospettiva, culture sempre nuove. La trasmissione in questo contesto, quindi, può essere agevolmente anche a due vie; sostenerla in nome dei valori più diversi costa poco, perché non incide né inciderà minimamente sulla sua natura che ricorda quella delle nuove catene di montaggio, dove il progetto è in mano agli ingegneri anche quando sono – e lo saranno sempre più – gli stessi acquirenti a lavorarvi alacremente (prosumer). I migliori insegnanti, oggi, sono identificati senza indugi in quelli che riescono a ‘far studiare’; che ci riescano con la disciplina, con il coinvolgimento, con il fascino personale, con l’esca di tecnologie alla moda, poco significa di nuovo. Questo sistema comunicativo non può che avere questa scuola e questa società e questi media. Il che se sembra suggerire, da parte mia, una priorità di responsabilità nella situazione attuale, l’impressione è corretta. La scuola ne è la principale responsabile, né si può fare ricorso al fatto che la scuola è come la vuole la politica: la scuola non esiste, esistono donne, uomini, ragazze e ragazzi. Hai voglia te, forte di una solida cultura accademica, di assumere, per capire la comunicazione nella e della scuola, modelli d’analisi di tipo meccanico, fisiologico, psicologico, simbolico, sistemico, cibernetico, o di qualsiasi altro genere; di dare tutta l’importanza che meritano alle caratteristiche personali di chi comunica, al punto da affermare che in un processo comunicativo esistono solo soggetti attivi; di dare risalto alla complessità, alla grammatica implicita in ogni tecnica; di evidenziare gli schemi culturali e i contesti: resta il fatto che la comunicazione formativa, didascalica, educati144
va non ha il compito di generare niente di nuovo, né da parte del docente (la sua capacità creativa, quando decide di ricorrervi, si esaurisce nella scoperta di nuovi strumenti e forme di coinvolgimento degli allievi: magari la lavagna elettronica) né degli studenti. L’obiettivo resta quello di tras-ferire, trasmettere saperi e relativi comportamenti. Altra creatività è secondaria. Il passato è l’autorità indiscussa: un passato non più classico – magari, sarebbe stato il portatore d’importanti anticorpi – ma semplicemente quotidiano; rassicurante perché routinario, dove lo slogan, della Vodafone, “Life is now” può confondersi con le parole del monologo d’Amleto oppure suscitare le ire di gruppi di cattolici integralisti. Un passato ben sostenuto da nuove tecnologie che ne garantiscono un loop, un ciclo ininterrotto. 2. La Città a scuola Quanto ho fin qui sostenuto contiene anche elementi paradossali, per molti aspetti superficiali e inesatti; e poi è ingiusto verso tanti e tanti insegnanti e studenti di ieri e di oggi. La scuola è ricca d’esempi che vanno nella direzione opposta; né mancano maestri del pensiero e della pratica pedagogica che hanno indicato strade del tutto diverse. Nondimeno penso che i grandi numeri della scuola vadano in questa direzione e non in un’altra, una convinzione che, per quanto urti chiaramente i tanti distinguo che sul piano scientifico è impossibile non registrare, si rafforza col passare del tempo. Eppure, nonostante questa ferma convinzione, a volte mi capita di pensare che queste ipotesi siano solo indice di un problema irrisolto in chi sta scrivendo, che lo ha spinto a radicalizzare alcuni particolari oltre i limiti di ogni correttezza. Una sua difficoltà mai giustificabile, certo, ma comprensibile per il fatto di essere stato, chi scrive, studente di Scuola Città “Pestalozzi”, nel quartiere fiorentino e, allora, malfamato di Santa Croce, e lì di avere vissuto un’esperienza ‘comunicativa’ che poi ha capito, sulla sua propria pelle, essere stata fuori dai modelli, allora come oggi, dominanti. Né gli dà consolazione sapere che quella scuola è stata ed è oggetto di studio da parte di illustri colleghi pedagogisti e sociologi, perché, fuori di terza persona, prima il fatto di aver evidente, nel mio curriculum scolastico, quel periodo trascorso a Scuola Città, successivamente l’incapacità di togliermi di dosso i segni di quell’esperienza anche dopo il normale ciclo scolastico, hanno provocato nei miei confronti continue richieste di garanzie e verifiche, oltre ad una diffusa diffidenza che oggi mi ‘di-verte’ ma che, quando ero giovane, è stata molto dolorosa e difficile da vivere. 145
Del resto, come non concordare con quei sospetti dal momento che in quella scuola • non si stava a sedere tanto perché – ci spiegavano – per pensare ci si deve muovere; • non si avevano libri di testo ma i libri ce li facevamo noi, per noi e per gli studenti che sarebbero venuti, e si era così convinti che fossero una cosa seria che, alla fine dell’anno, si correva in libreria a vedere se erano in vetrina; • non si aveva la nostra classe ma si andava in tante classi; • si studiava nella grande cucina della scuola, preparando il vitto del giorno, o in officina riparando le tante cose che si rompevano, o in giardino o nella biblioteca grande della scuola, aiutando gli altri compagni a trovare quello di cui avevano bisogno; • se qualcuno taceva, voleva dire che non stava bene, perché le spiegazioni non esistevano senza domande; e se non si domandava, la lezione non poteva andare avanti... ma tutti facevano presto a imparare, e allora ci insegnavano a fare le domande; • si pensava lavorando la carta, il legno, il rame, l’ottone, usando attrezzi diversi; • s’inventava la realtà perché il percorso non era dalla realtà all’immaginario ma viceversa; • si passava l’intera giornata nella convinzione che quello che stavamo facendo era importante, molto importante e che la Giunta Comunale, quella che, riunendosi nella ricordata biblioteca, mandava avanti le attività della scuola-città, poteva risolvere anche i tanti problemi di cui discutevano i nostri genitori, e che ci insegnavano ad ascoltare e capire; • si chiedeva aiuto, oltre che agli insegnanti, ai compagni quando si aveva bisogno, a maggior ragione durante le prove di verifica, ma quelle richieste non sembravano una cosa avvilente o furbesca, erano un fatto serissimo, mentre i libri erano sempre aperti sotto i nostri occhi; • l’esercizio della memoria era terribilmente selettivo, perché quello che dovevamo sapere era tanto, diverso e non catalogabile; • si stava a turno in Portineria – ambita come poche altre attività – per indirizzare chi veniva, registrando tutto, e quando arrivava la posta la portavamo nei vari uffici, dove stavano persone che non sembravano maestri o maestre, ma che invece sapevano tutto, da quanti chili di patate andavano in cucina a quanti pezzi di gesso erano in magazzino, e avevano le cartelle con tutti i nostri nomi. • E poi si recitava, in classe e nel teatro, ma tanto. All’inizio avevi paura, poi finivi con il divertirti: ma per farlo ti facevano studiare e studiare perché la finzione là, in quella scuola, era una cosa molto seria. 146
– Caro Toschi, ricordi personali, niente di nuovo né di particolarmente significativo per chi ha studiato quella realtà ritenuta a torto o a ragione assai interessante da un punto di vista storico. – Certamente, me ne scuso; ma era appunto la denuncia di un mio limite. Oppure no? Perché il problema mi pare essere non solo mio, e cercherò di chiarir(me)lo con questi ulteriori e brevi ricordi. In prima Media, andando in quella che tutti dicevano essere una scuola molto seria di Firenze, la “Carducci”, chi scrive si trovò davanti una comunicazione assai diversa. • Chi fa domande è perché non ha capito; • chi si muove è perché non sa applicarsi; • “una materia alla volta, non confondiamoci le idee”; • che “prima s’impara e poi…”, ma non ho mai capito che cosa avrebbe dovuto succedere dopo quel “poi”; • che la grammatica è la premessa indispensabile per tutti i testi, dal disegno al latino; • che i temi possono essere anche di fantasia ma a condizione che dicano qualche cosa di sensato. Gli fu detto, insomma, che non aveva memoria, che non aveva volontà, che non aveva voglia, che non aveva capacità di concentrazione, che era un precipitoso e dispersivo; ma gli fu detto anche di essere un sognatore, un astratto, un incorreggibile teorico, divagante, privo di concretezza, ignaro che il “bene uccide il meglio”, … scusate il lapsus, fin troppo chiaro per illustre il problema che la cosa continua a rappresentare per me …, volevo dire, naturalmente, “il meglio uccide il bene”. In conclusione quello che potrebbero lamentare legittimamente i miei venticinque? dieci? due? lettori di oggi. Oggi mi preme ribadire che la maggior parte di chi usciva da quella scuola si trovava letteralmente non in un’altra scuola ma in un altro mondo, un mondo che comunicava in maniera irriconoscibile, e cioè che dava alla comunicazione un significato del tutto diverso da quello a cui era stato educato. Ecco il punto. Meno male che c’era l’ora di Religione, perché veniva un prete con il naso rotto – prima aveva fatto il boxeur, succedeva anche nelle migliori scuole –, che, dal momento che si parlava dell’Ente supremo di cui – sosteneva lui – pochi o nessuno capiva molto, si appassionava nel farti dire l’indicibile, pensare l’impensabile e immaginare l’inimmaginabile. Per il resto, la ginnastica si faceva in una cappella affrescata, dismessa. Insomma: anni e anni per disintossicarmi da tutto ciò che avevo disim147
parato a Scuola Città. Con scarso successo. Quell’ambiente comunicativo, infatti, non era una scatola, una carrozzeria che avrebbe potuto comprendere qualsiasi contenuto: era una diversa percezione del tempo e dello spazio, un ‘contenitore’ terribilmente ‘contenutizzante’, se così si può dire, e il primo messaggio che mi risultò chiaro – dopo la seconda volta che finii in Presidenza alla “Carducci”, con tanto di rapporto perché “suggerivo” e chiedevo “suggerimenti” ai miei compagni – fu che la comunicazione non è un linguaggio, uno strumento che cambia in base all’uso che se ne fa, ma che tipologie diverse di comunicazione rimandano a valori e a politiche del tutto diverse. A Scuola Città docenti e studenti organizzavano tempi e spazi come credevano meglio – anche se poi, una volta presa una decisione, gli impegni erano ineludibili, e severamente controllati –, e avevi la sensazione che lo studio del mondo assomigliasse molto ad una scoperta, anche da parte dei docenti, e che quello stesso mondo cambiasse, cambiando le domande, e che quindi le domande avevano già una pesante ipoteca sulle risposte. Che la vita della Scuola dipendesse da te come la vita di una Città: una percezione che poi scoprii essere opposta a quella dominante fuori da Scuola Città, segnata dalla scelta di insegnarti che le cose e le persone ‘sono’, sospese in una realtà che, se anche raccontata con grande attenzione al divenire della storia, risulta sempre uguale a se stessa al punto da apparire assai poco realista se non fosse più realista del re, e cioè funzionale stupendamente alla conservazione dei poteri consolidati, e della cultura dominante da millenni. A chi manifestasse qualche dubbio circa la genericità di queste affermazioni consiglierei di andare a rileggere le bellissime pagine di Platone o di Aristotele rispettivamente sull’educazione e sulla retorica (della comunicazione). – Caro Toschi, ormai dovresti aver raggiunto l’età per rassicurarti sul tuo passato. Per il resto, fior di studiosi, da Postman a Illich (solo per citare alcuni degli originali in questo mondo di copia e incolla), hanno spiegato la necessità di descolarizzare la società, di liberare la scuola dalla sua funzione conservatrice e di avviare, all’interno della scuola stessa, un’attività diretta, specifica per educare i giovani alle dinamiche materiali e simboliche dei mass\personal media (Media Education). Anzi molti pensano, a destra e a sinistra e al centro, che oggi lo scenario è cambiato al punto che magari gli studenti studiassero come allora alla mia “Carducci”! E magari gli insegnanti sapessero le cose che sapeva quella mia vecchia, meravigliosa insegnante di latino delle medie (piccola piccola, sempre trinata in nero e convinta monarchica ma per questo… rigoro148
samente antifascista)! E qualcuno, forse, più concreto di altri, potrà arrivare a sostenere che questo progressivo, diffuso abbassamento di livello è dovuto al modello Scuola Città, che ha finito con il prevalere: anche per questo succede che, in questa estate del 2008, si autorizza-consiglia, ai docenti negli Stati Uniti d’America, di andare armati a scuola. Per quanto mi riguarda, però, penso esattamente il contrario: che il livello sempre più basso della scuola, la sua crisi d’identità, nonostante il lavoro e l’impegno di tanti insegnanti e studenti, non sia l’effetto del lento ma inesorabile venir meno dei contenuti di una volta, ma che i contenuti come categoria educativa e formativa stiano scomparendo perché non sentiamo più nostre le domande, i progetti, i valori morali ed etici da cui quei contenuti erano scaturiti. Perché la tragedia della seconda guerra mondiale, la prima forma di globalizzazione in assoluto, insieme al micidiale codicillo atomico, aveva sì tracciato, sull’orizzonte i profili minacciosi dei cavalieri dell’Apocalisse, ma aveva altresì fatto scorgere i segni inconfondibili di un nuovo umanesimo, i cui principi ideali, dalla classicità in poi, non erano naturalmente sconosciuti, ma ignote, perché mai vissute prima, erano le condizioni, le possibilità spirituali e materiali in cui si cercava finalmente di attuarli. L’uomo, infatti, si trovava a sperimentare un’epoca segnata, come mai era accaduto nella sua breve storia, da possibilità concrete di agire su cose, organismi, entità simboliche, fantasmi, mentre la prossimità con l’orrore, provocato non dalla natura ma dall’uomo stesso, lo spingeva a vedere tale attuazione come l’unica possibilità di sopravvivenza della stessa umanità. Purtroppo il nostro presente è segnato dalle debolezze che le generazioni successive a quella della guerra e del dopoguerra hanno dimostrato di avere nell’interpretare quel prezioso bagaglio d’obiettivi e d’aspettative, ben presto ridotte a icone retoriche. I movimenti successivi, dal Sessantotto all’ecologista, dal no global al virtuale etc. hanno fatto proprio il modo trasmissivo-gerarchico di concepire la comunicazione, la cultura di una comunicazione essenzialmente intesa come tras-porto di cose, idee, persone, soprattutto di merci, merci che con il passare del tempo sono diventate sempre più avariate, contenuti che sempre più appaiono pretesti per usare la televisione, il computer, il cellulare nelle sue versioni ormai sempre più ibride e tanti ma tanti media: compresa la scuola. Quando una società come la nostra pensa che i gravissimi problemi in cui si trova siano riducibili a questioni di gestione, di macchina o di organismo da migliorare, magari operando sul piano delle risorse; quando una società non accetta la realtà, che ogni comunità vive di condivisione e di consenso sul piano dei valori profondi, senza i quali qualsiasi progetto non 149
è nemmeno un progetto, e che è dal confronto su quel piano che bisogna ripartire, non piegando i vecchi saperi ai nuovi scenari ma elaborando una comunicazione che abbia come obiettivo quello di generare saperi e competenze adeguate a tempi radicalmente nuovi, quella società sta spengendosi. E la scuola ne è la causa prima. E quanto prima essa troverà il coraggio di dirselo, uscendo da questo ridicolo vittimismo verso gli altri media, riconoscendo quindi l’indiscussa centralità del suo modello comunicativo e del suo modo di intendere i contenuti, tanto prima si avvierà a conclusione la crisi che tutti stiamo vivendo. Il significato di queste mie affermazioni, il cercare qui di proporre alla riflessione ipotesi critiche diverse da quelle consolidate e ormai ripetitive nella letteratura scientifica e divulgativa, nasce, quindi, dal valutare una stanchezza non personale ma storica. Più in particolare, il comunicare – con i relativi cambiamenti nell’insegnare e nell’apprendere – deve trovare il coraggio di fare i conti con una società che sta chiudendo un’epoca e che sta cercando la speranza e la forza necessarie per dare vita ad un’altra totalmente diversa. Il passaggio è dalla comunicazione della conoscenza, intesa ormai essenzialmente come trasferimento, alla comunicazione della conoscenza come idea di una nuova socialità tutta da costruire nella comunicazione. Precisazione centrale, poiché riconosce alla comunicazione non un semplice modo per essere ma di essere, negando alla stessa, appunto, una natura tecnicamente neutrale, poiché fra una comunicazione amministrativa ed una critica la differenza sta nell’incompatibilità delle rispettive funzioni e finalità rispetto all’intero sistema sociale: per la prima di tipo trasmissivo, ripetitivo, conservativo, per la seconda di tipo generativo, creativo, conflittuale. Precisata questa prospettiva, ecco allora l’urgenza di parlare del recupero della centralità dei contenuti, ma non genericamente intesi, come asset imparziali, privi di contesto perché buoni per tutti i contesti, per tutte le stagioni, ma dei contenuti di una stagione della nostra storia ancora da scrivere. Si ha fame e sete di questo tipo di contenuti, così come si avverte una crescente intolleranza verso le metodologie (dalla pedagogia alla comunicazione) che celebrano solo se stesse. Di qui il bisogno di immergersi in questo genere di contenuti ricchi di progetto e non pescati in repository analogici o digitali: dalla storia alla fisica, dalla letteratura alla filosofia, dalla matematica all’arte, dalle lingue straniere all’educazione civica, alle scienze, a nuove materie magari da attivare, alla fisica si ha voglia di inseguirli, impararli, raccontarli, viverli da soli e in compagnia, in cerca di prospettive adeguate ai bisogni del nostro tempo. 150
La comunicazione, quindi, non come imbalsamazione con accattivanti abbellimenti, ma come strumento indispensabile per questa attività di ricerca e di costruzione. Sono questi i momenti in cui si vede se la società e la cultura che la esprime sono in grado di elaborare la propria fine, di rinunciare cioè alla propria sopravvivenza e continuità a tutti i costi, se riescono a capire, predisponendo per sé un ruolo nuovo, che il loro valore si esprime ora nella capacità di lasciare, abbandonare la propria centralità, il ruolo propulsivo avuto fino ad oggi, contribuendo così alla realizzazione del necessario salto di sistema che, d’intensità diversissime, nel nostro caso presenta i caratteri di tipo inequivocabilmente epocale. Le culture, infatti, sembrano essere grandi quando capiscono che è giunto il momento di abbandonare il governo delle cose e degli uomini confidando che la positività del lavoro da loro svolto fino a quel punto possa esprimersi nell’azione di una cultura nuova: che è e deve essere fuori dal loro controllo, libera e conflittuale. Questo è il momento in cui la comunicazione, cessando la sua consueta funzione d’omeostasi sociale, favorisce lo scollamento, la rottura, la discontinuità. La Scuola Città raccontava di una nuova modalità di concepire la comunicazione, che passava da una comunicazione della socialità a una comunicazione nella e per la socialità. La formazione che ricevevamo non era mossa da un’architettura dell’esistente, ma da un progetto al futuro: che è un progettare ontologicamente inedito e tutto da scoprire poiché la validazione di ciò che è creato non può trovare conferma in quello che già sappiamo e quindi ogni creazione comporta una dose di rischio molto alta. Non solo le parti danno una somma diversa dalle aspettative, ma ciò che è generato comporta l’incognita della non-riscontrabilità, è cioè sbilanciato verso un mondo che nella sua totalità, dai valori alle cose che li interpretano, deve essere sperimentato. Questa impostazione, per la quale si fanno domande senza la certezza delle risposte, mentre si fanno affermazioni senza la sicurezza della sostenibilità delle conseguenze che da esse possono derivare, ha fatto sì che la sperimentazione investisse la realtà nella sua interezza, in un tutt’uno fra scuola e polis. E non stupisce che parte fondamentale di quella modalità educativa fosse il sistema anticonvenzionale seguito nelle verifiche continue che si facevano a Scuola Città. Le quali, sentite da noi studenti con i patemi d’animo consueti, tenevano in gran conto il fatto che chi è educato a creare il nuovo deve sì conoscere molto bene l’esistente, il bagaglio dei contenuti consolidati, ma il suo compito non si esaurisce in questo: deve evitare, cioè, la trappola rassicurante del ri-conoscere, di restare invischiato 151
nel ripetere il passato senza interpretare il presente e immaginare il futuro. Ne usciva fuori un conflitto fra conoscenza di ciò che è e ideazione di ciò che potrebbe essere, fra conservazione e progresso, dove lo studente rischiava, agli occhi dei più, di assumere posizioni assai ambigue, consistenti nel voler essere vecchio e nuovo al tempo stesso, conservatore e rivoluzionario. Un’ambiguità che, naturalmente, non apparteneva ai giovani ma che esprimeva, come già accennato, la diffusissima incapacità di afferrare la situazione in cui persisteva la cultura del tempo, incapace di cogliere il grande indebolimento in cui malamente sopravvivevano i vecchi contenuti, ad iniziare dai loro paradigmi, inadeguati ad elaborare alcun che di adeguato al tentativo di attraversare la soglia antropologica che stava davanti. E che ancora non abbiamo varcato; anche se oggi questa ambiguità pare superata dalla dominante logica della tifoseria, dell’appartenenza ad un gruppo non per conoscenza ma per disperazione – definita, a conferma della crisi che stiamo attraversando, fede –: una logica che legittima grandi passioni ben sostenute dai tanti balletti e giri di valzer da parte di chi, in nome della complessità, passa da un programma all’altro con una facilità che denuncia la superficialità di entrambi i fronti, sempre più simili. E come l’importante ricerca della complessità, di costruire un mondo non più definibile né definitorio, sia rapidamente e furbescamente scivolata verso un ‘concreto’ opportunismo. Ma nel cercare una sponda operativa, fattiva a quella situazione di compresenza di vecchio e di nuovo, stava il significato del perché quella scuola avesse assunto come metafora quella del governo della Città, di una città sì, ma che ancora non c’è, e che i ragazzi dovevano progettare attraverso l’analisi e il governo dell’esistente. Quella scuola, cioè, non negava assolutamente le grammatiche, nonostante quello che continuavano e continuano a dire i cattivi maestri; affermava che le grammatiche di quel\questo tempo erano\sono inadeguate: e che si doveva lavorare sì sui testi ma con l’obiettivo strategico e fondamentale di cambiarle in maniera radicale, e con esse il tipo di relazione che da sempre aveva caratterizzato il loro rapporto con i testi. Qui, in questa ridefinizione della natura e dei contenuti delle grammatiche e della relativa comunicazione, stava la svolta rappresentata da quella piccola comunità fiorentina ben oltre il ristretto ambito scolastico. Gli addetti ai lavori, infatti, sanno bene che la comunicazione extra- e post-scolastica vive di ‘formazione’ ed ‘educazione’: dal telegiornale alla pubblicità, dai talk show ai reality, da una cronaca di una partita di calcio ad un programma sulla cucina maremmana etc. etc., tutti vogliono salire in cattedra e formare, educare, persuadere: anche se negano di volerlo fare, affer152
mando di voler essere obiettivi oppure di voler soltanto intrattenere. La nostra comunicazione scoppia di voglia di spiegare l’esistente, trasmettere informazioni certificate e garantite, di convincere – per il nostro bene, naturalmente –, dalla scuola alla politica al marketing; di capire che il sapere sta nel sapere e non nel cercare, perché altri lo hanno già fatto. O lo stanno facendo per noi, meglio di noi; quando sarà pronto ce lo venderanno. Vogliamo introdurre l’educazione ai media nella scuola? Iniziamo con lo spiegare quanto di scuola ci sia nei media. 3. Nuovi paradigmi Con queste brevi note vorrei rivolgermi a coloro che non si sono mai riconosciuti nella grammatica della comunicazione trasmissivo-gerarchico, né a scuola né altrove; né con le vecchie né con le nuove tecnologie. Né intendono, spinti da una crisi che sembra infinita, aggrapparsi alla farsa-speranza che, male che vada, quel modello è comunque il meno peggio. Che sentono arrivato, cioè, il momento di cambiare la loro azione di docenti e prima ancora di persone ma che non riescono ad orientarsi, perché né si sentono rappresentati da un movimento o da una figura di spicco – durano il tempo di una moda o di un’uscita pubblica – ma neppure ritengono possibile un intervento personale che non tenga conto di uno scenario culturale e politico più ampio e condiviso. Che sono ormai convinti che non sarà un buon governo, un uomo della Provvidenza o un determinato evento a mettere la scuola nella condizione di riscrivere la propria identità sociale e, nello specifico di questo mio intervento, comunicativa. Che sono stufi di seguire corsi che promettono innovazione ma alla fine dei quali sembra che l’obiettivo raggiunto consista nella sempre maggiore consapevolezza che i Corsi non finiscono mai. Gli Esami invece sono finiti, come se si fosse capito che ogni verifica seria scoraggia gli allievi e indebolisce il look del prodotto formativo. Che non ne possono più di una tecnologia che vende sogni i quali non permettono di vivere ‘diversamente’ il loro quotidiano, che poi è tutto quello che hanno e che amano. Che insomma stanno a scuola per quei ragazzi e ragazze, ignoranti, egoisti, autistici, già macchine per comprare e vendere, e chi più ne ha più ne metta perché un po’ di ragione c’è senz’altro, ma che danno il senso a quello che forse è il lavoro più bello del mondo: quelle ragazze e quei ragazzi per la stragrande maggioranza dei quali la scuola rappresenta l’unica possibilità di prendersi cura di sé per un breve periodo della loro vita. 153
La comunicazione a scuola, per tutte queste giovani persone in transito verso il mercato del lavoro, non deve essere una tecnica da apprendere ma uno stile di vita, una bussola fatta di valori e quindi anche di progetti, individuali e sociali, con cui orientare anche le scelte tecniche. Ma perché le parole di questo saggio possano dare, seppure piccolo, un contributo concreto all’impegno che tanti docenti stanno mettendo nel loro tentativo quotidiano di cambiare la scuola in meglio, penso che il modo più efficace sia quello di avviare un dialogo con le mie venticinque lettrici\lettori che parta da queste mie riflessioni ma vada ben oltre; grazie a loro, se loro lo vorranno. Venticinque, se sarò fortunato. E sarò fortunato 1. se meriterò l’attenzione di almeno venticinque colleghe\i e la loro conseguente disponibilità a riflettere con me su ciò che scrivo qui e a discuterlo altrove, e cioè sulla rete; 2. se arriveremo a dialogare davvero, perché oggi mi pare che quello che manchi non sia certo l’attrezzatura per comunicare, ma la voglia, la fiducia che comunicare oggi sia possibile e utile – il tempo verrà di conseguenza –; 3. se insieme riusciremo a dire qualche cosa di nuovo per tutti noi. Quindi se saremo capaci d’interrompere anzi ‘divertirci’ verso altre sequenze da quei consueti algoritmi di pensiero e d’azione che segnano il nostro vivere quotidiano e che hanno la presunzione di porsi come unica garanzia contro la possibilità, da noi tanto temuta, d’incorrere in errori e in colpe imperdonabili. Anzi, diciamo che in questa minuscola area d’analisi e di riflessione che stiamo cercando di realizzare – e di cui la parte online può rappresentare un momento fondamentale se governato dalle vostre esperienze e dai vostri bisogni manifesti – più si riuscirà a deviare da parameri e norme consolidate e rassicuranti, più cercheremo cioè di costruire scenari sfacciatamente divertenti, meglio sarà. Per questo vorrei che, dopo queste note, ci si spostasse in un’area di comunicazione dove il dialogo può essere forte e improntato a registri più quotidiani, e, discutendo di quanto avviene o potrebbe avvenire nelle classi e fuori, si cercasse di dare voce a quel magma informe che solo scaturisce dagli errori di questa nostra, strana gioventù. Una gioventù non anagrafica, s’intende, ma storica, perché relativa all’epoca che noi stiamo vivendo, un’epoca neonata e che, indipendentemente dall’età di ognuno di noi, continuiamo ad affrontare con menti e corpi vecchi assai. Un’epoca particolarissima per la storia dell’umanità, che risulta vitale, vitalizzante e rigogliosa come mai, e che però è soffocata sempre più da un senso di morte diffuso, ciclotimico, arrogante nell’ostentare da una parte 154
managerialità dall’altra eccitate passioni, dove le nuove tecnologie, invece che essere uno dei motori possibili per scrivere una società nuova nel profondo, ammantate come sono di aurea provvidenziale e, conseguentemente, adoprate secondo scenari antichi, superati, si prestano ad essere piuttosto sintomi di una crisi che risorse preziose. Non stupisce, quindi, che alla tanto celebrata comunicazione, così come oggi è interpretata e utilizzata – dalle aule della scuola a quelle dei mercati e dei parlamenti mondiali –, sia affidato il compito di sostenere la continuità a tutti i costi con il vecchio, di difenderne l’inviolabilità, magari rafforzandone l’immagine con effetti speciali. Ad essa, infatti, è attribuita una funzione, come già rilevato, essenzialmente omeostatica e per cui essa sembra aver rinunciato alla sua principale missione, a maggior ragione in un tempo e in uno spazio che hanno visto esplodere Hiroshima e svelare la mappa del DNA, che è quella di creare un mondo diversissimo da quello vecchio. Finito di ripetere questo, in forza di quanto appena sostenuto, va dichiarato esattamente il contrario: e cioè che la nostra realtà offre tanto, moltissimo di ‘di-verso’, un ‘di-verso’ di-vergente dai piani globali e omogeneizzanti di chi trae immensi profitti da questa situazione, un ‘di-vergente’ che in quanto tale è strategicamente taciuto, ignorato, ma che pure è assai più forte, micidiale nella sua azione inarrestabile, delle trame di faccendieri e trafficanti. Perché la stessa comunicazione è sì strumento in mano a forze conservatrici e liberticide, ma al tempo stesso è, assai di più e nonostante loro, generatrice di realtà nuove rispetto alle quali tante azioni di normalizzazione potrebbero rappresentare niente: l’onda lunga della comunicazione, così come si è venuta definendo negli ultimi decenni, potrebbe risultare solo sfiorata dai pirati dell’economia e della politica. La ragione, infatti, per cui ho accettato con entusiasmo di collaborare a questa importante iniziativa rivolta alla scuola sta nella convinzione – per i più senz’altro ingenua se non peggio – che un nuovo umanesimo stia ‘semplicemente’ aspettando di emergere strutturalmente, direi politicamente, ma che già sia dentro di noi e nelle cose; non per astratto e volontaristico ottimismo ma perché un’analisi del nostro passato e presente ci conforta spingendoci a credere che secoli e secoli di storia hanno contribuito alla creazione delle condizioni favorevoli che ci stanno davanti. E che se ancora questo nuovo umanesimo non è diventato sistema, ciò sia a causa di gravi contraddizioni riscontrabili in quella cultura del cambiamento che molti affermano di voler seguire ma che nei fatti ostacolano. Questo saggio con il suo baricentro nella rete vorrebbe contribuire a rimuovere alcuni di questi ostacoli che sembrano essenzialmente teorici e che rafforzano questo ritardo, 155
continuo rinvio a vivere il nostro tempo e spazio secondo una visione ‘progressista’ – sì, il mio assunto si basa sull’idea antiquata e superata per molti che il progresso è un dato storico ineludibile, che esiste un’asse del bene e del male su cui si può andare avanti e indietro –. In questa prospettiva la scuola può svolgere un compito fondamentale proprio per la sua struttura, assai particolare e senza paragoni possibili, che, pur essendo articolata e vastissima, continua a ruotare (lato insegnamento\apprendimento, socializzazione, organizzazione) attorno ad unità operative di base, le classi, e a situazioni di rapporti assai stretti fra i vari attori. Qui indirizzi e scelte macrostrutturali trovano la loro misura interpersonale e fortemente legata al territorio, proponendo un glocal d’incontro fra macro e micro assai prezioso, sia come ambiente d’analisi che di sperimentazione. Risulta chiaro, infatti, che ormai non è più il tempo delle indicazioni governative né dei movimenti spontanei dal basso per cambiare la situazione di crisi in cui stentatamente sopravviviamo; e in questo quadro la personadocente e la persona-studente, nonostante il discredito che su di esse è venuto dall’esterno e dall’interno della scuola, assieme all’ambiente condiviso da entrambi, possono avere un ruolo centrale nell’attuale fase di rifondazione scolastica e sociale. Ogni scuola, ogni aula, ogni singola comunità comunicante di docenti e di allievi può costituirsi, non come “un pezzo della” scuola nuova, ma come “la” scuola nuova. Perché uno dei punti focali della condizione storicamente eccezionale, senza precedenti, che ci troviamo a vivere, e che offusca i nostri parametri cognitivi prima ancora che mentali, è il persistere della convinzione che esista da qualche parte un testo della società futura già scritto e definito, seppure ancora naturalmente da precisare e articolare, da interpretare. Una specie di cripto-fatalismo determinato dalla fissità non tanto dei testi culturali – di culture ce ne sono tante e diverse – ma delle matrici grammaticali che permettono queste grandi diversità. Un determinismo grammaticale che può assumere molte sembianze: da quella secondo cui si progredisce sempre e comunque, a quella del persistere di costanti storiche per cui niente di nuovo sotto il sole. In questa errata convinzione, è di scarso rilievo la differenza fra un nuovo testo sociale indicato dall’alto e quello il cui progressivo svelamento è opera di infiniti soggetti, dal basso, ognuno operando e agendo nella propria, specifica dimensione, per quanto ben collegato a tutti gli altri in forza delle nuove tecnologie. Lo dimostra il succedersi di tanti uomini della Provvidenza e di altrettanti movimenti spontanei, più o meno networked, che non solo non hanno smosso di molto una situazione vecchia ormai di decenni, ma hanno contribuito a perpetuarla, aggravandone i problemi. 156
La verità, quindi, non è cosa da svelare, gradualmente o traumaticamente a seconda dei momenti storici, ma è da costruire attraverso una duplice azione individuale e sociale: da una parte di ricerca e sperimentazione locale, dall’altra di continuo confronto a livello globale. Per essere ancora più chiari, al limite del semplicismo, non c’è da nessuna parte una qualche verità (contenuti) che, per azione decisa di uno o diffusa di molti, fra gli alti e i bassi della storia, sia destinata ad emergere, e con essa il relativo sistema sociale. E allora, per trovare la nostra strada al futuro, sarà necessario il massimo d’iniziativa e d’intraprendenza individuale o di piccoli gruppi, che riesca ad operare al di fuori o contro il flusso storico dominante, accompagnato da una condivisione sul piano sia dei valori e degli ideali a cui ispirarsi. Parole queste ultime ormai desuete, se non irritanti per il significato di astrattezza, di teoricità, di inconsistenza che si portano dietro nell’opinione corrente, orientata alla concretezza, alla misura pratica delle cose e degli uomini, ma che, viceversa, sembrano gli script sempre più necessari per uscire dalla situazione in cui ci troviamo. Perché ogni concretezza e praticità, senza una bussola di valori e di ideali, rischia di essere fuorviante, ingannevole: ad iniziare da chi vuole misurare la salute e l’educazione pubblica e privata in termini di bilancio finanziario, legato a questo o a quell’esercizio, fino a chi sostiene, in nome di un sano realismo, che l’ordine pubblico lo si ottiene mandando ogni domenica attorno agli stadi sempre più poliziotti e carabinieri a fronteggiare il mal-essere e l’ignoranza di centinaia di migliaia di tifosi intossicati. Perché quel realismo presenta un baricentro operativo orientato inevitabilmente verso il passato, a cominciare dal concetto di bilancio che non può ridursi ai geroglifici numerici in rosso o in nero; così come la sicurezza è sì premessa indispensabile per ogni vivere sociale, ma ormai è molto di più di quella fisica, poiché fra di noi si aggirano fantasmi di tale violenza che, al confronto i mostri passati di mitologica memoria impallidiscono. È arrivato il tempo di ridiscutere tutto, nel profondo. L’attuale, diffusa adesione al divenire continuo e sempre più accelerato delle cose, senza alcun progetto sul piano dell’essere che non sia quello di scegliere nel grande magazzino dei prodotti definiti da sole dinamiche di mercato, si è rivelata disastrosa anche per i mercati; esattamente come quando si parlava e si combatteva per idee che rifuggivano da ogni verifica sul piano della loro realizzazione storica, materiale, concreta. Aver diviso le due realtà della nostra condizione di uomini, terra di mezzo fra finito e infinito, è stato ed è un errore dalle conseguenze immense: oggi siamo schiavi di protocolli, procedure e processi autoreferenziali di cui non si valuta la natura degli obiet157
tivi, tanto meno il senso che essi mostrano avere in termini etici, di valori. Né la soluzione può essere quella di stabilire semplicemente la priorità della visione critica su quella amministrativa. Il nuovo paradigma della realtà si basa proprio sull’interazione continua e generativa fra opposti, fra contrari, andando in questo contro la vecchia cultura che li considera alternativi in un’alternanza di momenti in cui predomina l’uno sull’altro: come dire che quando la situazione è tipica delle vacche grasse ci si può permettere di seguire gli ideali; quando le vacche dimagriscono, non resta che fare ricorso il prima possibile e con il massimo dei consensi, alla concretezza dei bilanci e dei relativi conti. Questa contrapposizione-alternanza fra le consolazioni dei sogni delle idee e le durezze della realtà delle cose deve finire. Perché i nostri sogni diventano sempre più spesso tormenti, oppure condizioni fittizie, consolatorie, aree di ristoro per la mente e il fisico; perché, nei nostri conti, i calcoli trattano gli uomini come cose, e questo a molti non piace, per ora. La comunicazione, quindi, così come è stata intesa fino ad oggi, cosa può fare se non continuare a trasmettere e a creare le consuete gerarchie? Che ordine può costituire se non quello già costituito? Cosa può organizzare se non perpetuare e aggravare l’attuale crisi che ci vede tutti coinvolti? Lo stesso quadro cambia in maniera sostanziale ed emozionante se cominciamo a parlare dell’altra comunicazione, che nell’attuale incertezza concettuale e terminologica chiamerò la “buona comunicazione” e che, al contrario, può e già sta facendo tanto perché questa realtà non solo cambi in meglio, ma prenda una direzione di obiettivi e di propositi del tutto diversa. La buona comunicazione, infatti, opera almeno su quattro piani: 1. crea cose-idee-cose che, progettando un futuro migliore, ne rappresentano gli strumenti operativi per attuarlo; 2. genera saperi, conoscenza, competenze adeguate al salto di sistema che la nostra storia sta vivendo; 3. attiva e garantisce un processo reciprocamente generativo fra grammatiche e testi della realtà, in tutti i suoi aspetti; 4. crea una comunità di cultura conflittuale con quella oggi dominante, dando vita ad un tessuto sociale antropologicamente mutato. Questo significa che là dove c’è scuola nuova – può essere rappresentata anche da un gruppo minimo di persone – la scuola nuova, se è tale veramente, non avrà più bisogno per esistere di un consenso consolidato, di una maggioranza acquisita. Questo non è più quel tempo: per governare questa crisi dal fronte progressista è necessario abbandonare i vecchi parametri di ‘governo’ e capire che le cose vanno cambiate al di fuori di riconoscimen158
ti esterni (maggioritari) alla nuova cultura, senza temere di creare una realtà parallela a quella dominante, perché se questa sarà quella giusta troverà la forza per diventare di governo; finché anch’essa, nel ciclo naturale delle società futura, sarà soppiantata da altro. Un rischio? Sì, che qualsiasi forza di progresso deve correre se vuole cambiare davvero in meglio la nostra condizione di uomini: far vivere in piccolo quello che vorrebbe diventasse sistema. La buona comunicazione può essere risolutiva per trasformare tentativi cellulari, minimali ma progettati per porsi come strumenti per un mutamento totale della società (compresa quella scolastica), in un progetto ideale e politico socialmente rilevante, risolutivo: la comunicazione, quindi, può andare oltre il semplice e vecchio “fare sistema” fra diversità convergenti secondo la tradizionale visione centralistica della realtà, seppure rivisitata alla luce di una supposta valorizzazione dello spontaneismo, dell’emergentismo della base. Essa, infatti, può creare l’ambiente per definire la natura profonda del sistema stesso e la sua successiva realizzazione, un progetto però – ripetiamolo – che non si affermerà per ampliamenti successivi di aree sempre più vaste fino alla conquista del dell’intero territorio geopolitico, perché le varie, affioranti isole di progresso non si limiteranno a riscrivere il vecchio continente ma ne genereranno uno nuovo, che è sconosciuto perché sono proprio quelle esperienze d’eccellenza a idearlo, progettarlo, sperimentarlo: a ‘scriverlo’. E potrà essere utile ribadire che il progresso a cui qui si fa riferimento spesso è qualche cosa che è lontano da quelle sorti progressive dell’umanità, da quella fede nel miglioramento continuo e inevitabile della nostra condizione di uomini, messo così a dura prova non tanto dalle riflessioni di provenienza conservatrice o manifestatamene reazionaria, quanto dalle violenze ideologiche del secolo scorso, dalle atrocità prima e durante la seconda guerra mondiale e termonucleare, dalla successiva guerra fredda e dalla improvvisa e inaspettata scoperta dei limiti dello sviluppo del nostro pianeta. Qui per progresso, cioè, non si comprende niente di lineare, sommatorio, inevitabile e inarrestabile. Né s’intende un obiettivo finale, né una speranza in un futuro già scritto: ma semplicemente una condizione, meravigliosamente umana, ottenuta per bontà divina o altro, che l’uomo può decidere di scegliere o di rifiutare; ma anche, che l’uomo può non riuscire a concretizzare al di là delle sue buone intenzioni. Soprattutto, quindi, il diritto dovere dell’uomo di partecipare alla creazione di questo mondo interrogandosi continuamente – in tal senso, ebbe dubbi Dio durante la creazione, forse potremmo avere l’umiltà di provarne anche noi – se quanto sta generando “è cosa buona” oppure non lo è. 159
Un progresso per concretizzare il quale la scelta delle risorse è già un fatto essenziale, poiché diventa fondamentale decidere che cosa si debba intendere per risorse. A quel punto, le risorse a disposizione per materializzare una realtà nuova potrebbero sorprenderci, svelandosi immense, e lo scenario risultare assai diverso da quello che credevamo; certamente meno cupo e inevitabile. Se non altro, potrebbe rivelarsi un’occasione per spezzare questa situazione di deriva politica e sociale che ci trascina senza rotta, o peggio secondo rotte che non condividiamo per niente, ma che non facciamo molto per mutare salvo ripeterne incessantemente – dubito con correttezza – le coordinate. Per dare vita ad un reale e concreto e fattuale conflitto fra il passato e il presente, solo così un altro mondo (scuola) non “sarà” possibile ma già “è”. I conflitti, oggi quasi demonizzati, anche se i loro surrogati appaiono assai più crudeli e spietati del passato, sono parte del divenire dell’umanità; l’illusione che si possano cancellare è funzionale soltanto al sistema di volta in volta dominante. Senza conflitto, dal nucleo famigliare alla scuola, all’intera società semplicemente non si “è”. 4. Bussola indispensabile: morale e politica… se vi pare poco Quindi: ci troviamo sempre, a tutti i livelli, davanti alla necessità di ridefinire i concetti di particolare e generale, e la relazione che ne caratterizza il rapporto. Bisogna lavorare sulle tante, diversissime micro-realtà tenendo presente la necessità, sulla base di quanto andiamo agendo nel nostro ambiente personale, di una contestuale progettazione dell’ambiente macro-strutturale. Un movimento, individuale e collettivo, incessante, che ci vedrà passare dall’infinitamente piccolo, del nostro agire individuale e di piccole comunità, all’infinitamente grande, proprio di un agire che ormai raccoglie non solo vaste, vastissime comunità, ma tutti gli esseri umani. Bisogna trovare il coraggio di uscire dall’esperienza personale e di confrontarla a livello sempre più ampio, nel tentativo di costruire un nuovo tessuto socio-politico ed economico che valorizzi quanto emerge dalle micro-realtà d’impronta personale, le realtà del possibile se voluto e ‘saputo’; avere la forza di ammettere che queste ultime da sole non possono andare oltre una debole sopravvivenza di tipo consolatorio e personalistico, a meno che, appunto, non si mettano in attento ascolto di quanto, sulla base proprio delle loro esperienze, emerge a livello generale, pronte ad assumersi la responsabilità di porsi 160
come indirizzo strategico oppure a recepirne indicazioni anche profondamente correttive. Perché le future grammatiche necessitano della divergenza di testi inediti, né più né meno di quanto i testi inediti necessitano della convergenza verso grammatiche nuove. Questo andare e venire fra strutture e singoli elementi, fra generale e particolare, fra grammatiche e testi, fra globale e locale, sarà una caratteristica fondamentale non solo della comunicazione ma della costruzione della nuova socialità e un riferimento metodologico fondamentale per chi voglia superare l’attuale situazione d’instabilità. In questo scenario, l’azione comunicativa dell’insegnante, del gruppo di studenti, della singola classe, eventualmente della scuola, insomma del piccolo, acquista una centralità indispensabile, strategica: e gli attori coinvolti lo devono sapere, devono lavorare in questa prospettiva, e devono farlo non per ragioni consolatorie ma perché questa consapevolezza è l’indispensabile bussola per questo mondo. Si ha l’obbligo d’entrare nel particolare, quasi perdersi dentro un fare minuto e specifico; di uscire, poi, nel generale, ai limiti dell’astrattezza più inconcludente, mutando incessantemente prospettiva così da analizzare e valutare entrambe le misure della realtà. Un DENTRO ↔ FUORI continuo, al punto da segnare quella terra di mezzo, ↔ come il terzo polo del divenire, tutto da scoprire e da costruire, certamente non meno importante dei punti di partenza e di arrivo. Un viaggio infinito estraneo al consueto concetto di transizione, di inizio e fine, di stare e andare, di tempo e di spazio. Tutto ciò in nome di una nuova visione dell’identità e della relazione. Eppure la necessità oggi fortemente sentita di trovare punti di riferimento costanti e duraturi, identitari, pare risolversi nella contrapposizione fra chi sostiene la continuità delle grammatiche, enti astratti quanto immutabili, garanti della nostra umanità (top-down), e chi, al contrario, ha sposato la necessità del continuo divenire dei testi (bottom-up), secondo una prospettiva che fa del mutare continuo il proprio essere; su di un piano politico, si potrebbe dire fra chi è per il decentramento (“ognun per sé e Dio per tutti” vs. “piccolo è grande”) e chi è per una politica centralizzata (“libertà non è fare tutto quello che si vuole”), fra chi è per l’ospedaletto, molto umano, del paesino di 9.000 anime e chi opta decisamente per il policlinico, dove c‘è tutto al meglio ma dove l’uomo è poco più che un numero. Appare chiaro che l’elemento di forte criticità che emerge da queste due forme contrapposte ma complementari d’ignoranza e d’incompetenza consiste nell’incapacità di formulare un qualsiasi progetto, perché solo un piano chiaro e forte può dire che tipo di relazione stabilire fra piccolo e grande, e 161
cosa sia concretamente piccolo e cosa grande, cosa significhi decentralizzare e cosa centralizzare, dove finisca la Toscana e dove inizi Roma, tanto per essere chiari; ma anche l’Europa, il mondo tutto. L’organizzazione sostenibile non può sostituire le idee. In entrambe le ipotesi di soluzione. Naturalmente ideali, valori morali, principi ispiratori sono tenuti da tutti prudentemente su uno sfondo molto fondo; salvo farli ballare per una sola notte, quella delle elezioni, come ballerine di quinta fila. Apparentemente indiscutibili (chi mette in discussione la giustizia, l’uguaglianza, la dignità umana? almeno per ora), ma tutto è apparenza e inganno come accade sempre quando le idee non diventano cose. È il segno dell’avvenuta rottura fra la ricordata triade (con il relativo ambiente da essa generato) e i principi etici, l’umanesimo, che la dovrebbero non solo ispirare, indirizzare, ma ne dovrebbero essere parte attiva, forza fisica, quasi carnale. Insomma è la conseguenza dell’avvenuta separazione fra principi e cose: per tornare al ristretto ambito di questo intervento, fra un tipo di comunicazione e vari tipi di contenuti. La scuola risente di questa situazione, ne è diretta espressione e, piaccia o non piaccia, causa importante. Perché non ha saputo cambiare la propria comunicazione in funzione di una nuova società, ma ha pensato di salvaguardare vecchi privilegi con azioni di restyling: tanto è vero che questa scuola, con le sue macerie, è quanto di più funzionale a questa società che si rifiuta di accettare un nuovo paradigma della nostra umanità, schiacciata fra pulpiti rossi, bianchi e neri. Sono gli attuali concetti di linguaggio e di comunicazione che vanno rivisti a favore di altri, ontologicamente diversi; e il modo migliore per farlo non credo che sia quello di imporre nuove grammatiche cadute dall’alto o prendere un testo che sembra meglio di altri e farne un nuovo paradigma comunicativo, magari perché seduttivo dal punto di vista tecnologico. Accettare la complessità significa prima di tutto conoscerla e, nel caso della comunicazione, iniziare a riflettere sul fatto che essa si basa su almeno quattro elementi: 1. le grammatiche; 2. i testi; 3. la relazione che contraddistingue il rapporto fra grammatiche e testi; 4. l’ambiente comunicativo, espressione della triade precedente e che distingue ogni epoca. Operativamente significa comprendere la necessità di lavorare per azioni tanto delimitate e realizzative quanto fortemente fondatrici e istitutive, 162
interventi d’eccellenza che mirino diritti alla realizzazione di aree sociali, private e pubbliche, che rispondano a valori e a politiche radicalmente diverse da quelle oggi vincenti. E qui la parola “politica”, come si sarà compreso, non si riferisce all’attuale geografia nazionale e internazionale di natura partitica, che rappresenta quanto di più inadeguato si possa immaginare per andare incontro alle esigenze di questa incredibile fase storica, ma al senso profondo dell’essere e fare società che ogni individuo libero ha dentro di sé. Costruire, insomma, nuovi contenuti e relativi ambienti (nel caso specifico, la scuola, uno fra i più sensibili) deve procedere per realtà particolari, per azioni specifiche ma non per questo estranee ad esigenze e visioni condivise da molti altri che, inevitabilmente minoranze, qualora abbiano costruito fra di loro una buona comunicazione nell’accezione qui indicata – questa è la chiave di volta –, possono dare vita ad una forza generativa di un’efficacia eccezionale, inimmaginabile. La rete sarà fra diversi che hanno in comune la costruzione di un progetto, ognuno a modo suo ma proprio per questo ispirati, alla ricerca di una visione comune dell’uomo che verrà. Perché l’uomo nuovo sembra aspirare alla condivisione di valori e di scelte morali pur nella diversità delle espressioni individuali e collettive. Realizzazioni, cioè, la cui forza sta nell’essere, considerando l’essere non come dimensione assoluta e metafisica di una realtà immutabile ma, al contrario, come forza di chi e di che cosa trova nel vivente, nella capacità cioè di essere nonostante lo strapotere di forze contrarie e contrapposte, la sua legittimazione. Il semplice fatto di essere avrà ricadute immense, inimmaginabili sulla base dei modelli fino ad oggi vincenti, liberticidi nei confronti di tutto ciò che non si adegua e si uniforma. La scuola nuova, cioè, è là dove c’è un maestro, un’allieva\o etc. che credono nel valore e nel significato di quello che fanno, al di là delle logiche di potere che ne denunciano l’assoluta insignificanza. Quello che conta non è il peso digitale (leggi numerico in senso lato) di ciò che stanno facendo, di quanto siano maggioranza e di quanto la tendenza generale vada in quella direzione. Verifiche della qualità di progetti che si basino su questi parametri rendono già vecchi quei progetti stessi. Concretizzazioni che si sviluppano a macchia di leopardo, in continua espansione, per zone, per aree (dall’operato individuale a quello di piccoli, medi, ma anche grandi gruppi) in incessante rafforzamento, crescita, secondo un’aspettativa che vada oltre la cultura della testimonianza intesa come atto perdente sul piano pubblico ma vincente su quello personale, privato. Mirate, invece, con la forza della loro esistenza, della loro azione specifica, a vincere le resistenze provenienti dalla società e dalla cultura a loro contrarie, e perciò attente a studiare gli effetti e 163
a monitorare le dinamiche che il nuovo, finalmente reso esistente, pur con tutti i suoi difetti e limiti, provoca e attiva. Azioni opportunistiche, attente a che niente vada perso, sprecato della propria esistenza, come una volta si faceva nelle culture contadine, perché il loro senso si basa sul primato, indiscusso e non fazioso, della conoscenza che non è mai ri-conoscenza, che resta tale, quindi, anche quando emergono dati che non piacciono, che contraddicono le aspettative. Azioni consapevoli del fatto che la conferma della bontà di quanto stanno rendendo reale avrà un aspetto inaspettato, inimmaginabile, sarà libera da riferimenti a parameri di qualità consueti. E la forza di chi crede in queste micro-realtà con cui costruire il nostro futuro, dal peso specifico per il momento insignificante, investendovi il suo tempo più prezioso, sta proprio in quelle ragioni che sono interpretate come causa della loro congenita debolezza: sono persone che rivelano uno scarso senso di realtà perché schiacciate dagli ideali; mostrano poca concretezza perché perse nell’affermazione astratta dei valori; hanno un’innata vocazione alla sconfitta perché rifuggono dalla gestione dell’esistente, inteso dai detrattori – sia chiaro – unicamente come punto d’arrivo e non come punto di partenza per costruire la storia; sono troppo politicizzate, perché riportano tutto all’organizzazione e al governo dello Stato Città. E però queste micro-realtà sono e continuano ad essere, finché l’imprevedibile possa avvenire per strade altrimenti inimmaginabili. La nuova umanità che siamo chiamati a generare ha bisogno proprio di ideali, di valori, di politica: di una bussola che indichi gli obiettivi e che aiuti a riconoscere le risorse che, se non schiacciate dalla corrente monetizzazione e dalla democrazia numerica che tutto sta corrompendo, possono rivelarsi così ricche e numerose da risultare imbarazzanti per chi soffre della diffusa tendenza al rinvio, in attesa di tempi migliori, e allo scoraggiamento: questi ultimi sentimenti così ben comunicati da convincerti che entrambi sono, senz’altro, motivati, frutto di un’intelligente e avveduta consapevolezza. Il progresso – altro dall’innovazione che molti inseguono – è quando e dove si decide che sia, perché se riusciamo a viverlo allora già c’è: per fede, per speranza e, in sostegno di una trilogia che oggi appare ridicola ma che, al contrario, penso segni il significato più segreto e profondo della nostra umanità, per carità. E la fede, naturalmente, non è quella cieca, ma scaturisce dalla consapevolezza dei limiti del nostro sapere, della necessità di correre il rischio di essere, prima ancora di qualsiasi definizione o paradigma; la speranza non è quella ultima a morire, estrema allegria di naufraghi, ma è il diritto che sentiamo di avere ad aspirare al bene e alla felicità, oggi più che mai; e la carità non è quella che si spera facciano agli insegnati perché 164
i loro stipendi sono ormai ridotti a compensi da fame, ma è la convinzione che l’errore possa essere molto di più di una colpa da espiare o far espiare, e cioè una risorsa da valorizzare. Ancora una volta: valori, ideali, scelte etiche, morali e politiche; ma questi devono abbandonare il loro antico e perdurante modo di essere che li ha posti, da sempre, fuori dalla realizzazione concreta delle cose. Così come le cose necessitano di un senso che è prima di tutto la definizione dell’universo dei valori a cui tendono. Il mondo che abbiamo davanti, in attesa di essere costruito, ha bisogno di cose-idee e di idee-cose. Le dinamiche che ci avvolgono e ci trascinano esprimono idee – molte delle quali vanno combattute – inscindibili dalle cose (dalle macchine della burocrazia a quelle digitali dei nuovi media). La buona comunicazione è un modo di vivere la nostra socialità e interiorità, e in quanto tale va vista sì come uno strumento per trasformare le idee in cose e le cose in idee, ma anche, e soprattutto, come una fondamentale garanzia perché le cose possano a loro volta creare idee e le idee originare cose. I vecchi processi comunicativi, quindi, caratterizzati da algoritmi mirati ad una sempre maggiore efficienza meccanica, dovranno essere sostituiti da una comunicazione, che, pur avendo precise regole, biblioteche di sequenze operative, presenti però una natura assai diversa da quelli esisitenti. Essa, infatti, dovrà porre il proprio baricentro non sul passato, sulla certezza dei cicli, dei corsi e dei ricorsi e dei relativi risultati, ma in avanti, su un futuro tutto da costruire, da generare sulla base di un progetto. Perché la comunicazione possa essere, in questa futura polis ‘di-vergente’, sempre più generativa sarà necessario che ci si liberi al più presto dall’idea della rivoluzione (violenta, pacifica, silenziosa, sanguinosa, floreale etc. etc.) che, per costruire, prima deve distruggere; purché si abbandoni, ugualmente, la linea riformista – dura o morbida – che considera ogni sistema gradualmente migliorabile. Al suo posto va seguita una strategia effettivamente corrispondente alla novità rappresentata dai nostri tempi. Essa si basa sulla convinzione che il vecchio sistema sia arrivato ad un punto di crisi tale che, se continua a resistere, e potrebbe resistere ancora a lungo facendo danni incalcolabili e irreparabili – qui sta la vera emergenza –, è perché il nuovo non si è ancora emancipato da una specie di sudditanza filiale, da un infantilismo congenito, e da un familismo duro a morire, e continua a cercare un consenso, un’autorizzazione, un via libera che il vecchio potere non dovrebbe negargli per un’indiscutibile, a suo parere, evidenza dei fatti. Peccato che nessuna evidenza, oggettiva condizione, verrà mai riconosciuta da chi scorge in quella pur innegabile realtà la ragione della propria fine; e l’anagrafe di tanti docenti 165
ancora in attesa del riconoscimento istituzionale del loro ruolo sta lì a dimostrarlo, così come il progredire geometrico della loro ignoranza professionale. Rivoluzionari o riformisti (di tutto l’arco politico) non hanno capito che la logica dei due tempi, destruens e construens, sia a livello macro che micro, appartiene ad una fase storica finita, che il tempo e lo spazio in cui viviamo vogliono che ci ispiri ad una logica per la quale la società la si fa facendola, nel senso che al vecchio va affiancato il nuovo purché quest’ultimo non sia un bluff. Il punto è che spesso ciò che si presenta e si dichiara nuovo altro non è che una forma di conflitto d’interessi e di potere all’interno del vecchio sistema: da qui nasce l’ambiguità di chi dichiara di voler cambiare il sistema e al tempo stesso ritiene che senza abbattere il sistema non sia possibile intervento alcuno. Nel caso qui discusso della scuola e in genere della formazione, il nuovo dovrà decidere ‘semplicemente’ di scontrarsi sul piano della realtà delle cose, fattivamente, con il vecchio, rinunciando, per cominciare, a cercare di essere legittimato dal sistema che intende cambiare, dando vita ad una nuova scuola e accettando la conflittualità e il rischio terribile che, così facendo, ne scaturirà. Perché niente offende maggiormente il potere che ignorarne il potere di certificazione: fosse pure della sua stessa morte. Una prospettiva tutta da capire, e su cui anche personaggi che nella loro vita hanno deciso di restare all’interno del sistema, come don Lorenzo Milani, così impegnato non a caso proprio sul fronte scolastico, hanno molto da insegnarci. A scuola, la buona comunicazione deve materializzarsi in una ricerca, condivisa, orientata al conoscere, facendo attenzione a valorizzare le differenze e le peculiarità dei soggetti e delle cose coinvolte per andare oltre i soggetti e le cose stesse, per creare, quindi, in un processo incessante e assai spesso sorprendente rispetto alle aspettative iniziali – ma non per questo esente da un’accurata progettazione –, nuove realtà. Un progetto che deve essere dichiarato e sottoscritto dai suoi principi ispiratori negli obiettivi, nelle modalità operative, negli strumenti da utilizzare e attentamente monitorato, secondo la precisa convinzione che le idee migliori sono quelle che in fase di analisi e di applicazione accettano di essere valutate e ripensate fino al punto da progettare e realizzare altro da se stesse. Nella relazione docenti-allievi, più in particolare, non c’è dubbio che un insegnante debba onorare la propria funzione assumendosi la responsabilità di dare una sua visione delle cose, di ‘trasmettere’ e (perché no?) il suo personale bagaglio di dati e di relative interpretazioni, compromettendosi in valutazioni e giudizi (se non ha perso la fiducia nel poterne avere). L’attenzione al ruolo attivo degli studenti credo vada misurata sulla base di quanto 166
e come il docente ‘rischia’ il loro giudizio, presentando, pur in uno scenario vasto e variegato, proprie idee sulle cose e sugli uomini. Ma al tempo stesso egli deve porsi verso di essi in maniera da favorire, da parte loro, un’altrettanto forte competizione creativa, sollecitando negli allievi una ricerca autonoma, ma per questo non meno rigorosa e puntuale, di dati e d’interpretazioni, favorendo al massimo tutte le visioni che aspirino ad attivare dinamiche contrastive rispetto a quanto da lui sostenuto. Questo è il cuore del “di-vertire” a cui si è fatto riferimento. Certamente l’impostazione che si sta dando alla scuola e all’università negli ultimi decenni, giocata sul modello pseudo-imprenditoriale (magari fosse almeno imprenditoriale davvero!) “studente = cliente”, porta in direzione opposta, in quanto il sacrosanto rispetto dei diritti degli studenti è banalizzato – vorrei dire brutalizzato – riducendolo alla massima che “il cliente ha sempre ragione”. Il docente, così, temendo il disappunto dei suoi allievi, la loro naturale e provvidenziale tendenza a contrapporsi, a criticare, ignorare l’esistente, non agevola questo loro vitale atteggiamento, fondamentale perché possano costruire la loro cultura, la loro società, la loro personalità su solide basi. Pessime leggi, modestissimi curricula professionali, dominati da un’innaturale contrapposizione fra metodologie e contenuti – entrambi modesti fino al rossore –, una mediocre e scadente classe dirigente (amministrativa – politica – sindacale), compensi avvilenti, problemi di ‘genere’ nel personale ormai imbarazzanti (lo sarebbero anche se fossero tutti uomini), hanno spinto la classe docente, sempre più confusa per la costante perdita di prestigio e di funzione sociale, ad abdicare al suo ruolo fondamentale: le conseguenze sul piano comunicativo non si sono fatte attendere, causando una progressiva quanto inarrestabile sfocatura del ruolo cre-attivo del docente, sempre più timoroso di porsi come guida, come ‘maestro’, tanto è diventato insicuro circa la propria identità. I valori dominanti poi hanno fatto il resto: con il risultato di rapinare gli studenti del loro diritto di crescita e di acquisizione d’autonomia e quindi di costruzione della propria identità. Non ultimo sul piano professionale, come si può riscontrare agevolmente nelle nostre esperienze quotidiane. Per cui, cari maestri, professori di tutte le scuole e di tutte le università, ricordatevi che quegli allievi saranno poi i professionisti a cui voi e i vostri cari potreste, un giorno, aver bisogno di rivolgervi, per una concreta necessità… Vi fidereste? Questa tendenza all’invisibilità della classe docente è stata robustamente sostenuta da politiche di anni. Questa politica del male minore, e cioè di rifugiarsi dietro un’idea di servizio, di assistenza ad un percorso che lo studente dovrebbe compiere in autonomia e in libertà da vincoli e indirizzi di 167
qualsivoglia genere, questa rinuncia al confronto personale – di personalità, di individui concreti –, generazionale e culturale, brodo primordiale di qualsiasi innovazione e progresso reali, liberatorio di risorse, d’intelligenze nuove, ha indebolito il ruolo dell’educatore-formatore, che è finito sempre più con l’assumere quello di facilitatore, di steward, di assistente di un supposto selfservice formativo degli allievi. Oppure, il che è del tutto equivalente, giudice sempre più ignorante. La borsa dei già ricordati valori sociali, battuta giorno dopo giorno dai media, impegnata a sostenere la figura del compratore libero e autonomo davanti ad un mercato sempre più democratico e liberale, il sistema sanguigno e nervoso della società, una compravendita senza limiti, attenta a personalizzare le sue offerte commerciali, ha contribuito a identificare nel docente una figura debole, estranea alle dinamiche di mercato che la stanno facendo da padrone dalla Sanità all’Agricoltura, legittimando un atteggiamento da parte degli studenti meno avveduti (la stragrande maggioranza in crescita verticale) di disinteresse se non di sufficienza verso i propri docenti, con la conseguente caduta libera dei risultati ottenuti. A scuola e poi nella società. 5. Praticità, concretezza e altri luoghi comuni In questa eclisse della persona – sia lato discente che docente – le nuove tecnologie della comunicazione, e con esse la questione dei relativi linguaggi, hanno giocato un ruolo di grande ambiguità. Esse, infatti, hanno favorito da parte di molti docenti sensibili ai bisogni di rinnovamento della scuola, in cerca giustamente di una riqualificazione professionale, un interesse verso le ICT di per sé ineccepibile se non fosse (stato) vissuto, al di là di un diffuso profumo molto trendy, come elemento a sé rispetto, non solo ad un approfondimento dei contenuti culturali di base ma anche di quelli naturalmente disciplinari. È accaduto così che, mentre questi ultimi venivano sempre più ridotti a pretesto per l’apprendimento delle buone pratiche tecnologiche, si è rafforzata una fuorviante convinzione che linguaggi e contenuti stessero in due aree diverse, complementari ma separate, che appartenessero a due fasi distinte dell’apprendimento e quindi dell’elaborazione creativa. Il che, naturalmente, era in linea con la nostra cultura novecentesca (tutta: di destra, di sinistra, di centro, cattolica, laica etc.) pervicacemente radicata ad una logica di netta contrapposizione delle forme (leggi comunicazione) ai contenuti, in questo riproponendo un’idea di linguaggio assai palestrato, ossia legato ad un esercizio fine a se stesso. Non solo: ha com168
portato anche che nel nostro modo di avvicinarci all’innovazione tecnologica dominasse l’idea di un non-diritto a valutare la tecnologia stessa, concentrando ogni valutazione sulla nostra maggiore o minore capacità d dare vita a sequenze di atti, a procedure cognito-meccaniche. In altre parole, la nostra è (stata) una posizione tipica di consumatori piuttosto che di ideatori, i quali tendono a riconoscere l’esistenza di bisogni sulla base non di un progetto definito, ma delle funzionalità che un oggetto acquistato può offrire. Una scelta che ha inciso pesantemente anche sulla crisi dell’industria dell’area tecnologica nel nostro paese, contribuendo a diffondere l’idea che l’innovazione sia un prodotto che non nasce dall’interno del sistema paese, ma che viene dall’esterno, possibilmente a pagamento (si sa, quando si paga tutto è più chiaro e garantito). In questo scenario, si sono affollati anche nella scuola luoghi comuni che ormai si rischia avere sdoganato come premesse metodologiche imprescindibili. Eccone alcuni: 1. l’innovazione scolastica passa solo attraverso le nuove tecnologie; 2. il ritardo italiano nello studio delle materie scientifiche è confuso con il ritardo nell’uso delle ICT; 3. la rete è oggi lo spazio più adeguato alla comunicazione e alla socializzazione; 4. i giovani conoscono i linguaggi delle nuove tecnologie della comunicazione assai meglio dei loro insegnanti, che in proposito non hanno niente da insegnare e giustamente, quando entrano in classe, avvertono in proposito un profondo imbarazzo; 5. i bambini sembrano naturalmente portati a quei linguaggi, apprendono con grande facilità da soli, si aiutano fra sé; 6. si è creato un divide generazionale circa il mondo digitale che non potrà sanarsi se non con un avvicendamento, appunto, generazionale; 7. le nuove tecnologie aiutano a risvegliare l’interesse dei giovani negli studi; 8. i linguaggi digitali, dal digital writing ai video, sono facilitati dalle nuove macchine che riducono o addirittura azzerano ostacoli e problematiche presenti nelle vecchie tecniche della comunicazione; 9. last but not least: i giovani cercano un ruolo attivo nel loro apprendimento, un’interazione e una personalizzazione che il digitale facilita moltissimo; 10. etc. etc. Si tratta d’affermazioni che possono essere tanto vere quanto false, come tutti gli stereotipi, eppure ognuna di esse sta incidendo molto nell’attuale fase di ripensamento della scuola. Non c’è corso d’aggiornamento o di perfezionamento che non affronti direttamente alcuni di questi punti, men169
tre significativi interventi politici degli ultimi anni ne hanno tenuto gran conto. L’origine del successo che, più o meno, tutte queste asserzioni stanno incontrando, credo vada ricercata proprio nella più volte richiamata ambiguità che avvolge oggi il concetto e le pratiche della comunicazione, e il rapporto fra questa e le tecnologie, e di cui il precedente florilegio di luoghi comuni bene rappresenta la natura: l’efficacia della comunicazione dipende dall’uso che se ne sa fare, come con qualsiasi strumento; essa va valutata sul piano della sua capacità di persuadere, convincere, indurre, per il resto non è né buona né cattiva; e così via discorrendo. Allora perché stupirci se negli ultimi dieci anni la comunicazione si è progressivamente venuta identificando con il mondo digitale, forte come nessun altro di multinazionali e transnazionali con dimensioni economicofinanziare da favola? Quanto è accaduto nella scuola è stato ancora una volta emblematico del modo in cui le ICT si sono inserite nella nostra società. Gli eclatanti ritardi e gli errori strategici, compiuti dalla politica e dalla cultura che la sostiene, hanno obbligato i singoli (docenti da una parte ma anche aziende, enti vari dall’altra) a farsi carico di sperimentazioni isolate, senza una politica d’indirizzo e di sviluppo se non quella di non averla. La mancata progettazione a livello generale dell’uso delle nuove tecnologie – ma il discorso vale anche per le vecchie – ha rafforzato, specie dopo l’avvento d’Internet, l’idea che queste potessero miracolosamente risolvere problemi annosi, senza che fosse necessario mettere in discussione il modello comunicativo della nostra società, negando alla comunicazione la funzione essenziale di ideare, progettare, sviluppare, monitorare in tutti i settori sociali, dall’economia alla politica, dalla formazione alla ricerca etc.. Per questa ragione il digitale è stato considerato in sé innovativo, senza capire che come una grande azienda non può avvalersi con profitto delle ICT senza riorganizzarsi radicalmente, fino a ripensare la natura della sua stessa mission, così la scuola aveva bisogno ancora di più di quei saperi e di quelle competenze che fin troppo rapidamente sono state abbandonate, e non certo soltanto per investirle nello studio dei libretti d’istruzione, dei manuali delle varie macchine e programmi: il problema del progressivo indebolimento della formazione dei docenti era già presente da tempo. La modalità vincente di inserire quel poco che si è inserito di ICT nella scuola è stato più il sintomo di una crisi in corso che la causa. Non c’è dubbio. In altre parole, non si è capito che le nuove tecnologie erano non la causa ma l’effetto di esigenze e di criticità che emergevano dalla storia degli ultimi decenni, e che la digitalizzazione in quanto tale non significa(va) pro170
prio niente, se non un pericoloso rinvio nell’affrontare dei nodi che certamente le ICT non potevano risolvere. Era un po’ come quando negli anni della contestazione studentesca ed operaia, si pensava che bastasse sostituire la letteratura, la matematica, la filosofia o il greco con la lettura dei giornali, con l’analisi dei TG o dei film per cambiare la “scuola di classe”: i più avveduti proponevano di studiare le materie della “controinformazione” nel pomeriggio, in aggiunta ai curricula tradizionali anche se rivisti (Leopardi meglio di Manzoni, Pollock di Giotto, Marx di Kant, l’antropologia strutturale della geografia etc. etc.). I testi, con il nostro modo di usare le ICT, sono diventati ben presto dei pretesti. Al di là della complessità che ha comportato la loro realizzazione. Una cosa ben allineata con la strategia formativa della comunicazione della scuola, solo che alle vecchie e nuove tecnologie si è affiancata una nuova idea, molto funzionale, come si è visto, al mercato: le macchine possono riuscire là dove l’uomo ha fallito. Il che sarebbe persino ovvio – almeno dalla scoperta della ruota in poi – se tale ovvietà non venisse interpretata come una sorta di delega alla macchina e al suo linguaggio, e non solo in fase operativa, di uso, ma anche in fase di progettazione della macchina stessa, considerata sempre più un momento di decisioni di tipo meccanico del tutto estranee a scelte di strategia etica e ‘politica’. Anche la scuola, sia sul fronte di chi crede e spera nell’innovazione tecnologica sia su quello, assai più vasto, di chi non ci crede, soffre pesantemente di questa supposta neutralità della cultura delle tecnologie. Ma la cosa più preoccupante è registrare, in chi vede in queste ultime una tematica con cui, comunque, è necessario confrontarsi, la convinzione che esse possano: • rilanciare il ruolo del docente, se non altro come docente delle tecniche del presente-futuro; • permettere di ri-raccontare in maniera semplice e accattivante cose che altrimenti gli studenti non potrebbero mai sostenere; • introdurre l’innovazione sempre negata, basta trovare i soldi necessari per acquistare tecnologia e relativa formazione per i docenti; • rafforzare il modello trasmissivo-gerarchico, che ne esce rafforzatissimo da questa visione delle tecnologie e dei relativi linguaggi; • far trionfare la cultura del fai da te (docenti\discenti), poiché la comunità altro non deve essere che un immenso repository buono per tutte le necessità; • spostare lo scontro dal progetto sociale alle modalità comunicative; • permettere di cambiare tutto per non cambiare niente, nemmeno la comunicazione; • etc. 171
– Un momento, Toschi. Tu parli di comunicazione, come è e come dovrebbe essere, ma intanto che scrivi di queste cose così generiche i tuoi potenziali venticinque lettori se ne sono già andati altrove. Sì perché quanto stai dicendo non significa molto sul piano dei riferimenti concreti alla quotidianità, al fare scuola ogni giorno: non danno un know how adeguato alle aspettative e ai problemi che ci hanno spinto a stare qui a sentire quello che avevi da dire per poi poter dire a nostra volta quello che pensiamo. Oggi, se non l’hai ancora capito, le persone hanno bisogno non di discorsi generali, che troppo facilmente diventano generici, ma di indicazioni semplici, operative, concrete, soprattutto di capire facendo. È dal fare che ci aspettiamo di comprendere: quello che non accettiamo più è che prima ci siano dati i quadri teorici e poi le pratiche, che arrivano sempre tardi e male. Già visto grazie, e i risultati sono questi. Quanto stai dicendo, infatti, ci sta obbligando faticosamente e senza costrutto ad immaginare, quasi fantasticare quali possano essere le ricadute davanti ai nostri bambini e ragazze delle tue osservazioni. Come esperto della comunicazione e in particolare delle nuove tecnologie dovresti saperlo bene. Come si fa ad imparare ad usare una lavagna interattiva multimediale se non ci mettiamo sopra le mani? Che competenze possiamo acquisire? 1 E poi, cerca di scrivere in maniera strutturata, per punti chiari e brevi: così da capire velocemente cosa leggere e cosa saltare: scegliere, costruire il proprio testo sulla base di esigenze specifiche e irripetibili, questo è quello di cui abbiamo bisogno. Ognuno di noi è un caso a sé, e se vogliamo raggrupparci per comunità d’interessi e di pratiche vogliamo decidere noi con chi e come. Ti chiediamo, cioè, di formulare il tuo ragionamento per contenuti minimi, per asset, che sono piccoli ma autoconsistenti e restano più facilmente nella memoria e possono essere combinati, manipolati secondo le esigenze dei tuoi lettori, che così diventano autori. Il lettore vuol essere interattivo, critico, autonomo dai percorsi dell’autore a cui non vuole firmare 1
Si tratta di importantissime problematiche che stiamo approfondendo al “Communication Strategies Lab” dell’Università di Firenze, insieme all’Agenzia Nazionale per lo Sviluppo dell’Autonomia Scolastica - ex INDIRE. Al progetto, iniziato ormai cinque anni fa, partecipano numerosi vostri colleghi, molti dei quali collaborano al corso di perfezionamento Comunicare e insegnare con la Lavagna Interattiva Multimediale (http://www.csl.unifi.it/lavagnadigitale/) e al corso d’aggiornamento Imparare a parlare in pubblico con le nuove tecnologie e la LIM (http://www.csl.unifi.it/comunicarelim/). Un gruppo di ricerca, composto sempre da vostri colleghi, non meno attivo, è quello che fa capo al Master l’E-tutor negli ambienti di apprendimento on line, da me diretto presso l’Italian University Line (http://www.iuline.it/).
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alcuna delega in bianco. Tu fornisci gli elementi, il resto sta a noi, nel rispetto dell’autonomia, della creatività individuale, del riconoscimento delle diversità, dell’altro. E poi non si capisce dove conduca questo tuo vagare; non vediamo la mappa del tuo ragionamento. Noi non vogliamo leggere per leggere, vogliamo consultare, scorrere, cercare e trovare: perché le domande ci sono già chiare e tu dovresti aiutarci a raggiungere le risposte migliori, nel minor tempo possibile. Tanto più che di tempo ne abbiamo tutti ben poco, nonostante che si sia – o si aspiri ad essere – statali. Come te, del resto. Abbiamo diritto di sapere, da subito, da dove si parte e dove si arriva, di disporre di percorsi alternativi, quindi di ricevere algoritmi funzionali alle nostre esigenze, procedure efficaci, riproducibili e riadattabili al nostro fare. Il controllo deve essere ben saldo nelle nostre mani. Andiamo dalle cose verso le idee e non viceversa. – Caro lettore, il bello è che anch’io ne ho abbastanza di pulpiti, di effetti speciali, di scenari che ignorano la realtà dei fatti, di agronomi che non stanno mai nelle vigne del testo. E allora concedetemi ancora una possibilità, miei venticinque lettori potenziali. Aspettate, non saltate ad altro, restate su queste mie pagine: datemi ancora un po’ di tempo. Lo so che il lettore non ne ha molto, che, cronometro alla mano, non resta su una pagina web o su un canale televisivo più di tanto; che, se dopo un numero minimo di clic non ha trovato quello che cerca, passa altrove e che la mitica Minerva è diventata la civetta dei menu, dinamici o statici che siano. Che il lettore guarda ai titoli e, al massimo, ai sottotitoli. Lo so. Cercherò di essere chiaro, paratattico eppure indicizzato, operativo, tecnologico, insomma una “Guida all’uso” cartacea e online, che voi potrete adoprare come meglio credete, personalizzandola come meglio riterrete. Fornirò menu e mappe d’orientamento della mia conoscenza, così che voi possiate capire subito se vi interessano. E se ancora non basta, userò immagini e video, e soprattutto strumenti mobili come il cellulare, così sarò sempre con voi, 24 ore su 24; né mancherà un’accattivante colonna sonora che allevierà il vostro lavoro. Riuscirò a farvi imparare, a insegnarvi a fare senza che voi nemmeno ve ne accorgiate, perché riuscirò ad essere leggero, leggero, quasi invisibile. Per questo sarò mimetico, riuscendo ad essere come voi mi volete, e poi, grazie alla sinestesia, attiverò sfere sensoriali sempre diverse così da non affaticarvi. Evitando di farvi perdere altro tempo ad ascoltarmi, cercherò di fare di ognuno di voi un autore originale. Le mie saranno pillole di saperi e competenze, in tutto e per tutto orientate al saper fare. Insomma cercherò di fare quello che, si dice, chiedono a voi i vostri gli studenti. 173
Cosa non si farebbe e direbbe per non perdere gli studenti! E venticinque lettrici\lettori!!! Ma come si fa a valorizzare il ruolo del discente, a farne un coautore, anzi l’autorità per eccellenza e al tempo stesso riuscire a difendere il ruolo di docente? A non perdere gli studenti? A indurli a non voltare pagina? A trattenerli, rigorosamente per il loro bene, nel mio corso? Cercherò di trovare per me un corso per aspiranti commessi viaggiatori. Ma dove finisce un entertainer, un presentatore, un venditore ed inizia un tecnico, un esperto? È questo il problema? Ancora una volta solo questioni di comunicazione? Di linguaggi? Ma cos’è la comunicazione? e cosa sono i linguaggi? potrebbe recitare un comico non privo d’ingegno. Sempre e comunque tutto sembra tornare lì; e anch’io lì torno, ormai, forse, rimasto solo, ma male che vada sarà sempre comunicazione intrapsichica, un dialogo, cioè, con me stesso. Purché io non venga a noia anche a me stesso, e in questa estate calda il rischio è forte. Ma andiamo a vedere dove ci porta questo ragionamento, secondo una visione anche della scrittura che, come accade nelle situazioni concrete della ricerca, vive nelle motivazioni e negli obiettivi, cerca di rifuggire il più possibile da un’impostazione manualistica della realtà, che vorrebbe spiegare tutto in maniera lineare, onnicomprensiva e coerente. La comunicazione, infatti, come ricerca impone l’umiltà della rinuncia alla trattazione sistematica ma anche a quella illusoria ‘concretezza’ algoritmica e routinaria che oggi incontra tanto, e mentre non interrompe mai la verifica riflessiva, spinta da quest’ultima, finisce con dare luogo a ripetizioni e ad esiti persino contraddittori: proprio come accade nelle situazioni concrete. Nel caso in cui voi, lettrici e lettori, vi siate già imbattuti sia in ripetizioni che in contraddizioni o incongruenze, attribuitele senz’altro non ad una mia incuria, frettolosità – magari –, ma ad effettive difficoltà di spiegazione, a idee che aspirano alla chiarezza e alla coerenza ma che ancora ne sono ben lontane. 6. Le derive della comunicazione. Relitti e risorse Atto primo Passato il momento, infatti, del successo, quando tutto era comunicazione, sarà anche per la scarsa prova data da tanti laureati in corsi di laurea in Scienze della Comunicazione, sempre più prossimi a quella condizione d’inflazione che hanno vissuto anni addietro le facoltà di Lettere (ma alme174
no lì un po’ di storia, filologia, letteratura, filosofia, linguistica, geografia si faceva), la comunicazione da qualche tempo solleva un sentimento di comprensibile stanchezza se non di motivata diffidenza. Tutto comunica, tutti comunicano, tutti hanno i titoli per farlo, e se non ce l’hanno, iscrivendosi a un po’ di corsetti e tirando qua e là quello che hanno fatto da sempre, eccoli comunicatori. E allora, se vogliamo parlare operativamente di comunicazione e scuola, se non vogliamo risolvere la questione con una materia in più e qualche computer da infilare nei curricula scolastici, va ulteriormente approfondito cosa si nasconde dietro questa parola, così condivisa eppure tanto confusa da rivelare evidenti sintomi da onnipotenza semantica e, conseguentemente, da sollevare crescenti esitazioni nel ricorrervi. Un’operazione pesantissima, scoraggiante, non solo per i miei ormai perduti venticinque lettori, ma per chiunque, nondimeno necessaria per uscire da un’indeterminatezza di cui stiamo pagando prezzi altissimi. E li sta pagando specialmente la comunicazione, un’occasione storica per la nostra società, faticosamente costruita nei millenni, che rischia di andare persa. Un dato fondamentale è il fatto che la comunicazione sta vivendo una forte contraddizione. Da una parte essa è comunemente presentata come l’antidoto ideale rispetto, come minimo, alla fatica e alla noia, uno strumento – tanto più efficace quanto più basata sulle nuove tecnologie – per agevolare, facilitare, rendere fruibile la conoscenza all’insegna della valorizzazione delle diversità dei soggetti coinvolti; dall’altra chiunque, se fornito di un po’ di buon senso, è consapevole che comunicare oggi si rivela sempre più frustrante perché finisce, per lo più, con l’aumentare il rumore già assordante in cui viviamo; privatamente e pubblicamente. A meno che la comunicazione non diventi infinita, che il suo sole (magari sotto forma di cellulare o di community) non tramonti mai, come accade per tutte le addiction. Una contraddizione che nasce dal fatto che, passato il momento della promessa, dell’ennesima lusinga, per lo più legata alle fantastiche potenzialità di sempre nuove tecnologie ma non soltanto a quelle, questa deriva comunicativa che ci sta trascinando finirà, prima o poi, per abbandonarci su qualche spiaggia già affollata di relitti personali e collettivi, lasciandoci più delusi e soli; per di più con nuove ‘cose’ comprate di cui non sapremo come disfarci. Una realtà difficile da negare, sia che si parli d’aziende pubbliche o private, di istituzioni, di gruppi grandissimi o minimi, di organizzazioni varie, di persone singole. Ma io credo che proprio nel momento in cui si denuncia la nostra condizione di uomini e donne alla deriva, quella stessa deriva può essere trasformata in una risorsa fenomenale, poiché deriva è per coloro che hanno rinunciato alla 175
speranza di governare quella forza, di progettare gli effetti di quell’immensa energia che noi – non sarà mai ripetuto abbastanza – abbiamo cercato e trovato. Ed è proprio da quelle spiagge, dove si sono accumulati tanti ma tanti rottami di varia provenienza, che dobbiamo ricominciare. Quindi da un bilancio onesto d’esperienze fatte, dai personali percorsi: dall’essersi immersi nella ricerca dell’innovazione tecnologica a tutti i costi, pensando che il valore del proprio lavoro stesse nella sperimentazione dell’inedito; oppure, al contrario, dall’aver cercato di difendere quello che altri identificavano con la tradizione, sostenendo che salvaguardare quella classicità era la bussola indispensabile per la costruzione di ogni futuro. Analizzare e valorizzare la nostra storia personale, questa pare essere la premessa indispensabile per interpretare l’esigenza d’innovazione sentita da più parti e per vincere la paura che sta sempre dietro ai facili innamoramenti così come agli addii impossibili, perché è da lì che occorre ricominciare. È vero: lo scenario, a chi rifiuta di essere manipolato da strategie di marketing economico e\o politico, può apparire desolante, molto prossimo al day after atomico che ci ha accompagnato negli ultimi decenni del secolo passato, a quotidiano memento che il clima della guerra fredda non sono finiti, e che la cultura dell’eterna emergenza ha solo mutato d’abito. Ma quegli stessi, tristi e perdenti resti, se si riesce a farli diventare finalmente nostri, ecco che possono trasfigurarsi in un patrimonio prezioso, e tanti naufragi, nostri e degli altri, rivelarsi tappe imprescindibili di una storia verso un nuovo umanesimo, verso un’inedita centralità dell’uomo che vada oltre il circolo vizioso del prosumer, del consumatore che si fa produttore. Perché, forse, noi non vogliamo essere né consumatori né produttori: ma uomini che creano in libertà la loro esistenza. E quella stessa deriva, a condizione sempre che sia governata da ragioni morali e politiche che pongano la nostra umanità al centro del nostro essere quotidiano e storico, può diventare un’energia potente che non travolge e trascina; al contrario, essa può sostenere l’aspirazione inseguita dall’uomo da sempre – da quando almeno, se ne ha memoria – di essere non solo attore in commedia, ma anche autore di testi e, così facendo, artefice delle grammatiche della propria vita. La comunicazione è il cuore della lunga lotta combattuta dall’uomo per entrare nei meccanismi più reconditi della natura, per diventare autore dell’ingegneria sociale e di quella naturale. Ma, come se fosse stato preso da un senso di sgomento anche per la possibilità di commettere errori irreparabili, da qualche decennio egli sembra volersi sottrarre a ciò che ha costruito e che per così tanto tempo ha perseguito: essere lui l’artefice delle trame più pro176
fonde del mondo. È successo così che la comunicazione – da sempre un’arma a doppio taglio non c’è dubbio, ma mai così forte come negli ultimi decenni – sia diventata da un strumento di liberazione uno strumento di schiavitù. E se quest’ultima espressione può sembrare forzata, basti il buon senso a misurare la forza che hanno assunto i fantasmi della comunicazione (dal mercato delle notizie a quello dei bisogni più materiali, da quello dei sogni a quello delle aspettative, prima di tutto dei bambini). Si è trattato e si tratta da parte dell’uomo di una pericolosissima negazione della propria storia, delle proprie ideologie e religioni, tanto più che il meccanismo messo in moto da noi è inarrestabile, per cui ignorarlo non può certo significare eliminarne gli effetti: e questi ultimi sono noti a tutti, sotto forma di allucinazioni di massa, di malesseri epidemici, di affettività stravolte, di linguaggi disturbati. Né serve illudersi che le scoperte compiute sulla natura e sulla società, susseguitesi con un’accelerazione impressionante negli ultimi due secoli, possano convivere con la vecchia visione della condizione umana da cui sono state originate, dove il libro della natura e dell’uomo era considerato comunque scritto una volta per tutte, una concezione secondo cui “conoscere” significava soprattutto “ri-conoscere”, capire si identificava con un’azione di svelamento del già esistente. Oggi, di fatto, il lungo percorso compiuto dall’uomo per diventare scrittore delle grammatiche della propria realtà materiale e spirituale, è governato globalmente dallo strapotere dei Signori del Mercato, assunto a valore metafisico, assoluto, a dato imprescindibile e indiscutibile per ogni forma possibile dell’essere: unico parametro provvidenzialmente stabile, certo, da contrapporre ad una realtà considerata altrimenti sempre più fluttuante, liquida, nei suoi valori oggettivi. Si è quindi assistito ad un tradimento della centralità dell’uomo. Ed è significativo di un bilancio assai negativo delle forze del grande pensiero laico che oggi solo alcune religioni mostrino il coraggio e si sentano nella condizione di poter mettere in discussione quei Signori del Mercato, attaccando senza mezzi termini l’idea che solo quelle leggi siano identificabili con l’operatività concreta, con la capacità di agire materialmente; siano cioè l’unico baluardo contro i deliri, i sogni di mondi altrimenti impossibili; che questa sia l’unica economia possibile anzi è l’economia del possibile. Così stando le cose, che fra i Signori del Mercato spicchino i Signori della Comunicazione non appare un caso, poiché la deriva comunicativa sta fruttando grandi capitali, e per quei pochi pirati che, viaggiando sui vari governi e le tante istituzioni inter\sopranazionali, ne traggono profitti immensi, è una deriva ricchissima: avrebbe detto Lord Polonius in Hamlet: “Though this be madness, yet there is method in ‘t” (a. II. sc. 2). 177
La comunicazione, in questo quadro decisamente negativo, è tante cose, tutte raggruppabili sotto alcune macrocategorie, fra le quali rivestono rilevanza quella degli I. strumenti comunicativi per controllare, dominare culturalmente e quindi economicamente; e quella degli II. effetti caotici che una comunicazione fuori progetto – salvo i ricordati arrembaggi economici – produce inevitabilmente e contro le aspettative dei suoi Signori. Atto secondo Eppure, nonostante tutto questo, forse proprio per questo, per quel mistero (laico o religioso che sia) che accompagna da sempre la nostra storia, la comunicazione è anche esattamente il contrario di quanto appena detto, è causa, ed effetto al tempo stesso, di dinamiche di segno contrario. Ed è da qui che ritengo si debba ripartire, nel rispetto di una storia comune e privata che va riconosciuta e ripresa, nella scuola come nella società tutta. La comunicazione, cioè, è la fonte di dinamiche eccezionalmente positive, sia per le prospettive che ha fatto e fa intravedere sia per le realizzazioni compiute. Sempre intorno alla comunicazione gravitano, direttamente o indirettamente, quei nomi che verbalizzano una realtà in fase di creazione: accoppiamenti, accordi, accostamenti, affinità, agganci, aggregazioni, aiuti, analogie, associazioni, attinenze, avvicinamenti, etc. collaborazioni, collegamenti, concordanze, connessioni, consonanze, continuità,
contributi, correlazioni, etc. fusioni, etc. incontri, influenze, interazioni, interconnessioni, interrelazioni, etc. legami, etc. nessi, etc. partecipazioni, etc. rapporti, 178
reciprocità, relazioni, richiami, rimandi, riferimenti, rispondenze, etc. scambievolezze, similarità, somiglianze, etc. unioni, etc. vicendevolezze, vicinanze, etc.
I termini qui elencati (ovviamente con i rispettivi contrari poiché se si può unire si può anche dividere) sono, ovviamente, soltanto una sommaria indicazione di quelli che potrebbero essere i lemmi di una futura enciclopedia della comunicazione che a molti apparirà fin troppo generica. Ma credo sia un prezzo da pagare se può aiutare a capire come tutti rimandino alle capacità effettive ed operative che ha la comunicazione di operare sullo spazio e sul tempo della nostra realtà, sull’architettura delle cose e degli esseri viventi: dalla genetica alla politica, dall’economia all’etica e alla morale, dai sentimenti alle idee, dalle emozioni ai paesaggi del pianeta in cui viviamo, di creare realtà mai viste, sentite, pensate. Possibilità eccezionali che – ripetiamolo per l’ennesima volta – hanno segnato la storia dell’uomo: lasciarle alla deriva, nel migliore dei casi di pochi pirati o incoscienti, sarebbe cosa mostruosa. Un punto fondamentale, infatti, del ragionamento che stiamo cercando di condividere, e che rappresenta anche un segno vincolante, ineludibile del nostro tempo, è che la comunicazione genera realtà incessantemente, anche mentre sto scrivendo e mentre voi leggete queste parole, realtà comumque dense di futuro. Essa, più che un’occasione, una possibilità, è un dato di fatto, certo, vivente, è l’ambiente generativo in cui siamo immersi che crea e si crea ininterrottamente; è un meccanismo che abbiamo messo in moto e che ora procede malgrado noi. Per questo, solo intervenendo con un programma radicale, di rottura rispetto alla società, alla politica, alla cultura da cui proveniamo – quelle che ci hanno portato fin qui ma che ora non possono essere più in grado di governare quanto hanno prodotto, perché hanno provocato un vero e proprio salto di sistema – potremo fare della comunicazione un’occasione storica mai vissuta dall’umanità. In questa prospettiva la comunicazione come forza che procede comunque, e che ci pone davanti a responsabilità di progetto e di relativo governo, l’ormai classica contrapposizione fra apocalittici e integrati, peraltro andata ben oltre la sua definizione originaria, non ha gran significato. Sembra convincere di più l’opposizione anzi la lotta dura fra chi crede nel valore della conoscenza come progetto al futuro e chi lo nega. Fra chi pensa cioè che la conoscenza altro non sia che la sciagurata mela di paradisiaca memoria e chi ritiene che in essa vi sia il senso profondo della vita umana. Chi pensa che sapere sia male, crei il male perché allontana l’uomo dai progetti di Dio, religioso o laico che sia, e chi è convinto che il significato profondo della nostra condizione umana stia proprio in quel “seguir virtute e canoscenza”. Che cioè quel Dio non ci abbia dato semplicemente un 179
libro da leggere, attrezzandoci, con adeguati lessici e grammatiche, alla sua decifrazione e interpretazione, relegando il nostro compito a quello di ripetere quanto già creato, bensì ci abbia reso partecipi della creazione infinta coniugando “virtute” con “canoscenza”. Ma per tornare alla tematica, ben più modesta, che qui trattiamo, va ricordato con fermezza che essa non può essere affrontata pensando di potersi sottrarre a precise prese di posizione rispetto alle grandi questioni sociali, politiche ed esistenziali che la determinano: magari affermando che di teorie, ideologie, idee astratte è lastricata la strada dell’attuale inferno. Perché lo strapotere delle tante supposte pratiche e delle molte presunte competenze – sarebbe più appropriato definirle meccaniche routine – è la causa prima del processo degenerativo in cui siamo immersi, della deriva segnata da un’idea d’operatività, praticità troppe volte interpretata come rinuncia a direzioni e priorità, come contrapposizione pragmatica alle teorie e alla ricerca di senso, come opzione per algoritmi e procedure prive di creatività, di rischi, che non siano quelli dei super-iper-mega-mercati: scegliere fra la vasta offerta di prodotti. L’errore cioè non è mai stato nella centralità delle cosiddette ‘ideologie’, intese come l’insieme dei principi e delle idee di un progetto per l’uomo, ma nell’aver perso la fiducia e il coraggio di sperimentarne e verificarne laicamente, al di fuori cioè di ogni dogmatismo, integralismo, la realizzazione. Si crede sempre di più per paura e non per coraggio, così come si agisce sempre di più per sfiducia in quello che si fa e non per convinzione. La parte buona della fase che stiamo vivendo, infatti, non è certo il frutto del bisogno di aver cercato un orientamento, una direzione, inseguito un’utopia, di aver sognato progetti impossibili. Ma esattamente il contrario. E, per quanto riguarda la comunicazione la scelta che dobbiamo fare – senza la quale ogni affermazione, sperimentazione appare irrilevante – è se riteniamo che essa sia uno strumento per la conoscenza, la quale, appunto, non solo allarga quotidianamente i confini dei territori del nostro essere ma, alla luce dei risultati raggiunti dall’uomo negli ultimi millenni, ci ha trasformati in architetti e artefici del nostro ambiente interiore ed esteriore. Oppure, viceversa, se essa debba porsi, come di fatto sta facendo, quale baluardo potente, quale vallo insuperabile, scavato a difesa della nostra condizione di sempre, e cioè di un’identità individuale e comune che riteniamo, al di là del manifestarsi storico sempre diverso, sostanzialmente eterna, immutabile. Personalmente mi riconosco in chi pensa che sia saggio per l’uomo accettare la sua condizione di continua trasformazione, individuale e collettiva, e che, invece di subirla o tanto peggio negarla, debba progettarla – pur 180
nei limiti sempre assai ristretti che gli sono concessi – e svilupparla compiendo precise scelte d’ordine etico, morale e politico. In questa prospettiva, l’alternativa non è fra cambiamento e conservazione, fra salvaguardia e rischio di perdere la nostra umanità. Ma fra viverla o morirne di paura: e di morte in giro mi pare che ce ne sia molta, magari imbelletata, anche di nuove tecnologie. La nostra condizione di uomini, al contrario, la storia che noi abbiamo costruito (nel bene e nel male, certamente, ma il primo appare assai più ricco di futuro), dovrebbe trasmetterci una gran voglia di vivere, di vivere la nostra umanità nella sua interezza e complessità. Quello che oggi sta avvelenando la comunicazione, la nostra identità comunicativa, di singoli, gruppi, aziende, istituzioni etc. etc., credo sia proprio questa paura di conoscere, e cioè di comunicare per conoscere e, conoscendo, di generare nuova realtà. Una rinuncia dovuta ad un diffuso pessimismo, ad un senso di rinuncia – spesso non privo di analisi e motivazioni – circa le possibilità della conoscenza e il valore della comunicazione. Per questo c’è una dominante tendenza ad interpretare l’energia comunicativa come una deriva ineluttabile, trasformando la comunicazione da strumento per vivere e progettare l’uomo nuovo, da strumento di progresso – una parola oggi caduta in disuso e, quando evocata, considerato il segno di un’ingenua concezione delle cose – in macchina per intimorirlo, lusingarlo, addormentarlo, in apparato per confondere gli obiettivi morali e politici che hanno permesso la nascita di questa nostra, meravigliosa fase storica. La quale non era alla deriva; ma lo sta andando, sotto la regia di una precisa visione, oggi dominante, dell’individuo e della società, artefice di conseguenti scelte economico-politiche. A questa prospettiva, quindi, di crisi infinita – quanto pensano di poterla far durare questa nottata? –, di caduta inevitabile, va opposta un’analisi cruda e dura della realtà, dei giochi di potere e delle ignoranze che ci dirigono e comandano, sostenuta da una decisa consapevolezza che ci si trova davanti ad una complessità in nessun caso esperita prima. Così come va contrapposta, a chi sostiene l’idea della crisi come elemento strutturale, organico alla condizione dell’uomo moderno, un’intelligenza nuova delle cose basata sulla convinzione liberatrice che il cambiamento che stiamo vivendo è, al contrario, il senso ultimo di millenni di storia passata, e che, se ben interpretato dalle nostre idee e azioni, ci potrà portare assai oltre questa fase, che, più che liquida, appare oggi sempre più ingessata, cementata; se non altro, come dimostra l’affannosa quanto sempre perdente rincorsa del divertimento, terribilmente noiosa. Insomma: deriva e noia, fatalismo e mancan181
za di voglia di vivere, altro non sono che gli strumenti ultimi di chi vuole impedire all’uomo l’ingresso nella sua Storia. Credo che in quest’ultima prospettiva la comunicazione potrà trasformarsi da ‘solipsismo’, più o meno tecnologico, in una risorsa meravigliosa, costruita faticosamente nel tempo lungo della nostra storia, per dare vita ad un mondo nuovo; rivoluzionario a cominciare dalla sua stessa concezione. Una forza generativa che si esplica incessantemente in tantissime forme ma che possono essere raggruppate, ancora una volta, come per la visione destruens della comunicazione, in due macrocategorie. Quella degli I. strumenti comunicativi, con cui è possibile inventare, ideare, sviluppare, creare una società che ha deciso di uscire dalla preistoria nella quale, pur fra alti e bassi, è vissuta fino ad ora; strumenti di una forza inaudita, inimmaginabili soltanto pochi decenni fa, inediti nella concezione perché oggi essi non rispondono soltanto ad una necessità d’uso ma recano al proprio interno gli elementi necessari per il loro stesso sviluppo: il mezzo ha tutti gli elementi necessari per riprogettarsi. E la macrocategoria degli II. effetti prodotti dall’immane azione comunicativa planetaria, volontaria e involontaria che sia, portatrice di progetti o semplicemente casuale, imprevedibili e imprevisti, che, se opportunamente colti, potranno rivelarsi quasi provvidenziali per la forza d’urto di cui possono essere portatori contro i piani globali e locali degli stessi Signori della Deriva e offrire infinite occasioni per farci intravedere mondi affatto diversi da quelli che oggi dominano. Insomma: la grande energia comunicativa è la nostra attuale possibilità di unire e di dividere l’uomo e le cose come mai era stato praticabile – del resto tale capacità era considerata, e in parte lo è ancora, peculiarità divina, un po’ tabù –; è la nostra diffusa, concreta possibilità di s\collegare tutto a tutto, tutti a tutti, tutto a tutti; è l’espressione, almeno potenzialmente, della nostra libertà. Il punto è che questa energia non è stata governata, almeno fino ad oggi, come era necessario per essere all’altezza dei risultati storici di cui essa è espressione. La conseguenza è un proliferare di comunicazioni – dalle città ai virus – che in questi termini, e cioè in assenza di programma e di governo, appaiono strumento per minare e non per migliorare la nostra umanità, mantenendola al di qua di quella soglia storica che ancora non siamo riusciti a varcare. La comunicazione, cioè, in questo contesto è un’immane forza generativa, che ‘si e ci infutura’ senza sosta, ma priva di progetto, se si esclude quello di pura gestione dell’esistente che sta dietro ai giochetti di pochi gruppi di reale potere economico. Nessuno sembra rendersi conto che met182
tere mano alla grammatica della realtà e della condizione umana (dall’ambiente alla mente, dall’economia alla politica, dalla salute alla fantasia etc. etc.), è cosa che incide non solo sul senso, ma sulle stesse possibilità di sopravvivenza (se non biologica, certo mentale) dell’uomo. Atto terzo È tutto da scrivere. Non da interpretare, ma da scrivere appunto. Ad iniziare dalla scelta di porre le agenzie dell’educazione e della ricerca al centro dell’intero processo di costruzione socio-economica. Bisogna ripartire dall’iniziativa di realtà piccole, i cui soggetti però abbiano la chiara consapevolezza, la corretta metodologia e l’aspirazione di stare inventando una società che finalmente dia un senso alla nostra storia di millenni. La nuova polis deve partire da lì, dagli educatori e dai ricercatori i quali non dovrebbero più porsi come supporter o sponsor o testimonial di questo o quel partito, ma diventare essi i politici, nell’accezione che qui si è cercato di spiegare: i soldati e i filosofi della polis. Una condizione imprescindibile perché questo avvenga è che educazione e ricerca abbandonino quella modalità comunicativa di tipo trasmissivo-gerarchico di cui si è ragionato, e che sostengano il valore primo della conoscenza, facendo della comunicazione generativa il loro strumento essenziale. Una conoscenza che ha bisogno del ruolo critico e creativo dei docenti, chiamati ad offrire scelte e interpretazioni, le loro, insieme agli strumenti necessari perché gli allievi, le nuove generazioni, possano cercarne e contrapporne altre. Una visione, se non altro, dei ‘contenuti’, questa, in totale contrasto con le metodologie oggi dominanti. Non c’è più un copione che possa guidare le nostre azioni come è accaduto tanto tempo fa; il nostro impegno non può limitarsi all’ermeneutica in chiave rappresentativa di una sceneggiatura antica come il mondo antico. È vero, ovunque si guardi, si avverte una grandissima e struggente nostalgia per quel passato, magari rivestito alla tecnologica. A chi vuole o cerca di capire, risulta facile scorgere le sagome di mercanti-burattinai che si aggirano per le rovine. È una nostalgia che prende donne e uomini, giovani e vecchi, ignoranti e colti, ricchi e poveri, di destra di sinistra di centro, istituzioni, enti, aziende, imprese etc.. Gli speculatori trovano facile organizzare arrembaggi al pubblico e al privato perché le difese messe in campo contro le loro rapine non tengono conto del fatto che essi rappresentano il vecchio e non hanno niente a che vedere con alcuni pirati d’altri tempi, le cui sgrammaticature hanno rappresentato l’anticipazione della grammatica nuova di un nuovo mondo. 183
Il nuovo non è qualche cosa che può essere appreso nelle modalità comunicative consuete a cui ci ha abituato la scuola e la nostra società. È prima di tutto un atteggiamento, un modo di essere, una filosofia di vita, qualcosa di lontanissimo da un patrimonio da trasmettere generazione dopo generazione. Ogni forma di gerarchia, da quelle sociali a quelle logiche, vacilla o è fuorviante. I saperi, le pratiche, le competenze, le conoscenze in genere stanno progressivamente perdendo la loro natura di grammatiche e diventando sempre più testi, testi sì ma di un mondo che si sta allontanando assai rapidamente. Se si potesse affermare che la vita era la rappresentazione teatrale, l’evento con cui le varie generazioni rivivevano, reinterpretandoli, gli script di sempre, si potrebbe affermare, conseguentemente, che la scuola è sempre stata la lunga e faticosa preparazione, l’anticamera infinita delle prove. Indispensabili, fondamentali, quanto pesanti, defaticanti fino provocare crisi profonde in comparse e primi attori. Oggi questo rapporto fra preparazione alla vita e vita appare non reggere più. Come se, apertosi il sipario, ciò che si è imparato a dire e a fare, quello che si ricorda oltre a quello che si pensa, non corrispondesse più a quello script, il cui apprendimento è costato a tutti così tanto. Come se quello che emerge dal buio mormoreggiante della sala evocasse ambienti e situazioni del tutto diverse. Ed ecco allora la necessità di scrivere, sulla scena, ammesso e non concesso che si tratti ancora del palcoscenico, un nuovo copione, sotto i riflettori, gli occhi, gli orecchi dei colleghi attori e del pubblico. Qual è il copione, qual è l’interpretazione, dove finiscono gli attori e dove comincia il pubblico, dove finisce il teatro? Senza voler evocare pirandelliane memorie, ma volendo rimanere nel mio settore, penso che la comunicazione debba decidere, a scuola così come nella società tutta, se vuole restare un modo per insegnare\studiare un vecchio, nobile copione che, però, per quanto presentato come nuovo e tecnologicamente innovativo, perde sempre più di autorevolezza e di capacità operative; oppure se intende rinnovare se stessa, trasformarsi in uno strumento di lettura della nuova realtà in cui siamo immersi, di conoscenza di realtà mai sapute né vissute, e quindi di scrittura di un mondo che ancora non c’è e che dipende da noi come sarà. Per far questo, naturalmente, si deve decidere a quale umanità nuova s’intende dar vita. A cominciare da una semplice domanda: si comunica per vivere o si vive per comunicare? Perché in quest’ultimo caso, visti i costi delle varie tariffe e dei mezzi di comunicazione – dall’auto ai cellulari di ultima generazione –, l’inflazione galoppante, la crisi mondiale delle risor184
se energetiche, la bomba demografica, che, detto per inciso, con la comunicazione ha molto, ma molto a che fare, forse sarebbe meglio… … senza fine - Mah. Io, caro Toschi, ho retto fino a questo punto nella speranza che, prima della fine, tu dessi delle indicazioni operative utili, da tenere presenti al momento di entrare in classe. Dici che la soluzione è provare a fare qualche cosa, ma non spieghi cosa e come lo si può fare. Il tuo ragionamento è finito con il sembrare più una perorazione che un manuale d’istruzioni. Sì, ho capito che di guide all’uso ce ne sono anche troppe, che sono riduttive e fuorvianti: ma intanto quelle ci sono e chi le segue cerca di mettere in atto qualche cosa, ma qui si resta come sospesi. Abbiamo compreso, in parte anche concordiamo; e allora? Che si fa ora? Da cosa e come diamo inizio a questo cambiamento? Saranno pure domande modeste ma per noi sono fondamentali, perché portano l’idea, il progetto nel nostro operare giornaliero. - Mah, cara lettrice o caro lettore che non sei soddisfatta\o di questa lettura. Mi dispiace di non aver meritato la tua fiducia. Io ho provato a ragionare in un altro modo. A lasciarmi dietro le spalle il tempo di quei manuali che funzionano finché le cose sono state costruite per adeguarsi a loro; di quel senso pratico ubbidiente a categorie santificate quanto lontane proprio dalla realtà che dicono di voler celebrare. Così come ho cercato, nei miei ragionamenti, di tenermi lontano da quegli idealismi appassionati che coprono, con le loro vibrazioni e i loro innamoramenti, o brutalità di vario genere o ignoranze mostruose. Non pensavo certo di riuscirci, m’illudevo di provarci. Comunque, a parziale correzione di quanto finora sostenuto, cercherò, qui di seguito, di riassumere in 15 essenziali punti il senso di quanto discusso, facendo così mia quella modalità comunicativa ritenuta oggi, da più parti, la più efficace: 1. Dove c’è […] c’è casa; 2. Be inspired; 3. […] vuol dire fiducia; 4. Connecting people; 5. Il futuro che non c’era; 6. Vivere senza confini; 7. Open your mind; 8. Go create; 9. Spazio alle idee;
10. You can; 11. Accendiamo il presente per illuminare il futuro; 12. La potenza è nulla senza controllo; 13. Noi siamo scienza, non fantascienza; 14. Il buco con la menta intorno; 15. e mo’... e mo’... . 185
Il punto 16, quello con cui sintetizzare questo lavoro, è ben rappresentato dalle parole lette dal premio nobel Dario Fo: “Questo film lo dedichiamo ai folli. Agli anticonformisti, ai ribelli, ai piantagrane, a tutti coloro che vedono le cose in modo diverso. Costoro non amano le regole, specie i regolamenti e non hanno alcun rispetto per lo status quo. Potete citarli, essere in disaccordo con loro; potete glorificarli o denigrarli ma l’unica cosa che non potrete mai fare è ignorarli, perché riescono a cambiare le cose, perché fanno progredire l’umanità. E mentre qualcuno potrebbe definirli folli noi ne vediamo il genio. Perché solo coloro che sono abbastanza folli da pensare di poter cambiare il mondo lo cambiano davvero”. Che testo è questo? Quello della famosa campagna pubblicitaria della Apple “Think different”, di qualche anno fa. Chi volesse un’ampia bibliografia di questi 16 punti, la potrà trovare all’indirizzo http://www.csl.unifi.it/, alla pagina relativa alla presente pubblicazione. Spero che, anche in questo caso, non si resti troppo delusi. La mia e-mail: luca.toschi@unifi.it. Casangelo, primo giorno d’autunno del 2008.
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