Parole alla deriva

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Giorgio Giliberti, nato nel 1955, fotografo di professione, dopo le prime esperienze come fotoreporter ha sviluppato la sua attività nel campo della pubblicità, della moda, dell’industria e dell’editoria d’arte. Collaboratore di numerose testate e riviste di settore, tra cui “IBC. Informazioni, commenti, inchieste sui beni culturali”, progetta e realizza personalmente marchi, dépliants, cataloghi e pubblicazioni, continuando la propria ricerca espressiva attraverso esposizioni ed edizioni di foto d’autore. Le più importanti riviste di fotografia hanno pubblicato e recensito le sue immagini, che hanno suscitato l’interesse della critica in diverse occasioni. www.gilibertifotografia.it




Parole alla deriva fotografie

Giorgio Gilibe rti testi

Vittorio Fe rorel l i



Il mare è un artista. Lo pensa, a volte, chi sfiora con le dita un sasso levigato. Chi segue e risegue le curve di una conchiglia. O chi guarda quegli strani oggetti compositi, raccolti chissà dove dalle correnti, e deposti sulla sabbia. Alghe, radici, residui plastici, frammenti di rete... Legati insieme da qualcosa. E se il mare ama l’arte, non c’è da meravigliarsi che sia anche un poeta. Il suo alfabeto è fatto di segni misteriosi, incisi dalle correnti sugli alberi che vengono dal largo. Ogni pezzo di legno, una pagina alla deriva. Parole inviate al futuro dalle sponde più distanti. Versi da tradurre nella nostra lingua e da meditare, assaporandoli lentamente. Mentre il vento fa tacere i rumori del mondo.




Dall’arco della vita scocca una freccia. Vibra la corda. Risuona come lira. Finché non va al segno. Ed è silenzio.


L’oracolo crudele. La musica suadente. Nel mito greco, le forme contrapposte con cui la parola di Apollo si manifesta nel nostro mondo sono rappresentate da due oggetti. L’arco, un’arma che può colpire da lontano, dice che il dio sa essere distruttivo. La lira, uno strumento che accompagna da vicino il canto, allude alla possibilità che il suo intervento porti del bene. Circa 2500 anni fa il filosofo Eraclito cita questi oggetti in due distinti frammenti, vicini tra loro e misteriosamente imparentati con quello ritrovato sul legno che qui si può vedere. Il primo frammento di Eraclito gioca sul suono delle parole greche che stanno per “arco” e per “vita”. Un suono quasi uguale. Biòs e bìos, cambia appena un accento. Dice il filosofo: “Dell’arco il nome è vita, azione la morte”. Il secondo frammento rivela che questa contraddizione è solo apparente: la vera conoscenza inizia soltanto quando si comprende che gli opposti coincidono. E per fare un esempio di armonia tra elementi che sembrano in contrasto, il sapiente cita proprio l’arco e la lira. Nell’arco la vibrazione della corda produce morte, nella lira bellezza. Ma i due strumenti sono costruiti con lo stesso materiale: le corna di un capro. Morte e bellezza sembrano provenire dallo stesso dio. Così come arco e lira sembrano dare lo stesso suono. Chi non lo comprende rimarrà nell’ignoranza, pur continuando a vivere come se niente fosse. Oppure, un giorno, lo capirà a sue spese, passando attraverso il dolore chiarificatore di una tragedia. E, per strano che possa apparire, potrebbe persino dirsi fortunato.




Meravigliose le tue carezze, sorella mia e sposa, più del vino meravigliose. E l’odore che tu emani supera ogni balsamo. Favi che stillano, le tue labbra, o sposa, miele e latte sotto la tua lingua, e l’aroma delle tue vesti è come il profumo del Libano.


Un tempo, quando un re dell’Oriente desiderava una nuova concubina, ogni città del regno mandava alla corte sei vergini. Ognuna di loro, coperta da un pesante vestito di cotone, doveva danzare per ore e ore sotto il sole più caldo. Soltanto dopo avere affondato il naso, una dopo l’altra, in quelle vesti intrise di sudori, il re sceglieva la sua preferita. L’importanza degli odori e dei sapori in un incontro amoroso è celebrata nel modo più solenne dal Cantico dei Cantici, di cui su questo legno si ritrovano alcuni distici. Il poema, considerato uno dei libri ispirati, è tra i più commentati della tradizione ebraica e cristiana, e da secoli divide gli interpreti. Rimane la distanza che ci separa da quel tempo lontanissimo, quando il vino era tramite di conoscenza, strumento di veggenza. Nel Cantico, come in tutto l’Antico Oriente, il frutto della vigna è una metafora dell’amore, così come la vigna è un’immagine del corpo femminile. Bere vino, e ancor più fare l’amore, portano all’ebbrezza, e di qui alla conoscenza della verità. Nei versi che sull’albero seguono questi, altre parole di lingue lontane evocano altri alberi, diversi dalla vite. Sono le piante e i frutti odorosi che crescono nel giardino irrigato dai liquidi emanati dalla donna. Nardo, curcuma, alcanna, càlamo, cinnamono... La conoscenza ultima si può forse presentire nell’istante sospeso in cui si sente un profumo. La parola finale del Cantico, non a caso, è besamim. Balsami.




Là sul fondo tuo padre ha la fossa. Di corallo, ora, son fatte le ossa, e dov’eran gli occhi ormai sono perle. Niente di niente di lui si perde ma nel mare si va a mutare in qualcosa di raro e singolare.


Sono tradotte con una certa libertà, è vero, ma sono proprio loro, le parole del canto di Ariel, lo spirito della metamorfosi che si dà tanto da fare nella Tempesta di Shakespeare. I tre versi finali furono incisi anche sulla lapide di Shelley, il poeta annegato durante una burrasca nel mare di Lerici nel 1822. In una delle tasche della sua giacca fu ritrovata una copia delle ultime poesie scritte da Keats. Tre poeti inglesi uniti da due tempeste, ma anche dalla fede nella propria capacità di creare immagini. Nel Sogno di una notte di mezza estate viene detto che il matto, l’amante e il poeta vivono tutti e tre di immaginazione. Uno vede diavoli dove non ce ne sono. L’altro scorge bellezza dove non la trova nessuno. L’ultimo, il poeta, sposta di continuo i suoi occhi dalla terra al cielo e, man mano che l’immaginazione dà corpo alle nuvole, la sua penna le modella, fino a dare a quel “nulla fatto di aria” un nome nuovo e un nuovo mondo. Shelley, che proprio con il nome di “Ariel” aveva battezzato la barca su cui poi troverà la morte, chiedeva con forza al vento dell’Ovest di portarlo con sé, di sollevarlo nel cielo dell’immaginazione poetica, come se fosse una foglia, una nuvola o un’onda. Amava Keats anche per questo, perché come nessun altro sapeva che la poesia mostra l’essenza autentica della condizione umana e che essere poeti vuol dire abitare nella nebbia, nell’ombra, nell’attesa. Nello spazio sospeso tra i pensieri e le cose. Dove nulla si crea e nulla si perde, ma tutto si può trasformare.




Pioggia a primavera – proprio ora le cose diventano splendide.


Davvero una sorpresa ritrovare su questo pezzo di legno un celebre haiku della poetessa giapponese Chiyo-Jo. Vissuta nel corso del 1700 nell’odierna Hakusan, questa donna decise di entrare in un monastero buddhista dopo la morte del marito e vi trascorse il resto della vita perfezionandosi nell’arte di scrivere testi come quello qui tradotto, composti di sole diciassette sillabe. In questo haiku si possono riconoscere le caratteristiche più importanti di una forma particolarissima di poesia. La brevità. Il riferimento esplicito a una delle stagioni dell’anno. La pausa alla fine del primo verso (che in giapponese corrisponde a una sillaba, ya, e che noi, per rendere la sospensione, risolviamo con un tratto). Ma soprattutto l’impossibilità, o meglio l’inutilità, di darne una interpretazione. È questo ciò che delude, in componimenti del genere, chi è sempre a caccia di un significato più profondo. Non c’è un senso che non sia quello che si può leggere nelle poche parole che fanno tutta la poesia. Dicono ciò che dicono, senza rimandare ad altro. Come scriverà Fernando Pessoa (che forse conosceva i versi di Chiyo-Jo, o forse no), le cose non hanno significato: hanno esistenza. Perché, se c’è qualcosa di più strano dei sogni di tutti i poeti, è che quanto vediamo sia realmente ciò che appare essere. E che non ci sia nulla da comprendere.




Dolce è la palude con i suoi segreti, finché non incontriamo un serpente; ed è allora che rimpiangiamo il villaggio, e il nostro andare via diventa una corsa sfrenata, quella che solo i bambini conoscono. Una serpe è il tradimento dell’estate, e l’inganno è la sua meta.


Dal frammento giunto a noi su questo albero si può comprendere quanta influenza ebbe la Bibbia nella formazione di Emily Dickinson. “Da bambina andavo spesso nei boschi,” – ricorda la poetessa americana – “mi dicevano che il serpente mi avrebbe morsa, che avrei potuto raccogliere un fiore velenoso, che gli spiriti maligni mi avrebbero portata via”. L’animale che indusse Eva a mangiare il frutto staccato dall’Albero della Conoscenza è il “diavolo”, parola che indica colui che separa ciò che in origine era unito. Dopo quel morso, non si può conoscere senza tradire l’estate. Non si può conoscere senza essere ingannati. Alla fine dell’Ottocento, pochi anni dopo che questi versi furono scritti, lo storico dell’arte Aby Warburg lasciò l’Europa per un viaggio nel SudOvest degli Stati Uniti, dove conobbe i riti degli indiani Pueblo, prima che fossero cancellati dai cristiani. Restò affascinato soprattutto dalle danze con i serpenti vivi, con cui i nativi, identificando le serpi con i fulmini, invocavano la pioggia. Ricordando quelle danze in una celebre conferenza, Warburg riconobbe nel serpente un simbolo universale, che gli uomini di tempi e luoghi diversi chiamano in causa per rispondere alla stessa domanda: da dove vengono la morte, il dolore e la furia degli elementi? Se avesse potuto parlare con Emily Dickinson, forse Warburg le avrebbe ricordato l’episodio biblico del Serpente di bronzo. Durante la traversata del deserto, gli ebrei si lamentano con Dio delle loro sofferenze; Dio, allora, prima manda tra loro dei serpenti letali, poi indica a Mosè il rimedio: “Fòrgiati un serpente velenoso e mettilo sopra un’asta: chiunque sarà morso, se lo guarderà, resterà in vita”. Perché ciò che uccide, a volte, può anche guarire.




Oh, che sarà, che sarà che vanno sospirando nelle alcove che vanno sussurrando in versi e strofe che vanno combinando in fondo al buio che gira nelle teste, nelle parole che accende candele nelle processioni che va parlando forte nei portoni che grida nei mercati, che con certezza sta nella natura nella bellezza quel che non ha ragione né mai ce l’avrà quel che non ha rimedio né mai ce l’avrà quel che non ha misura?


Sono i versi iniziali di una canzone di Chico Buarque de Hollanda, il poeta e cantante brasiliano che trovò rifugio in Italia negli anni in cui il suo paese conosceva la dittatura. Fu scritta per il film tratto dal romanzo di Jorge Amado Dona Flor e i suoi due mariti, ma racconta qualcosa che va oltre le vicende amorose narrate in quelle pagine e in quei fotogrammi. In effetti non è facile dire cosa racconti esattamente questa canzone, e lo stesso autore, interpellato in proposito, disse che non lo sapeva e che, anche a saperlo, non sarebbe stato capace di spiegarlo meglio di così. È come se, in pochi versi, fossero concentrate tutte le domande con cui tentiamo di arginare il mistero che ci circonda ogni volta che ci fermiamo a pensare alla nostra vita, alle sue svolte imprevedibili, alle attrazioni improvvise, alle passioni spietate, agli innamoramenti. Cosa sarà questa forza inarrestabile che muove il mondo? Che nome darle, come resisterle (ammesso che abbia un senso resisterle)? Nessuno, in fondo, può dirlo. “Persino il Padreterno da così lontano / guardando quell’inferno dovrà benedire / quel che non ha governo, né mai ce l’avrà / quel che non ha vergogna, né mai ce l’avrà / quel che non ha giudizio”.


G. Colli, La nascita della filosofia, Milano, Adelphi, 1975. Eraclito, Dell’origine, traduzione a cura di A. Tonelli, Milano, Feltrinelli, 1993.

Cantico dei Cantici, nuova versione, introduzione e commento di G. Barbiero, Milano, Paoline, 2004. Il Cantico dei Cantici, a cura di G. Ceronetti, Milano, Adelphi, 1975. W. Shakespeare, La tempesta, traduzione di A. Lombardo, Firenze, Garzanti, 1984; W. Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate, traduzione di P. C. Ponzini, Firenze, Garzanti, 1977. P. B. Shelley, Poesie, a cura di R. Sanesi, Milano, Rusconi, 1971. J. Keats, Lettere sulla poesia, a cura di N. Fusini, Milano, Feltrinelli, 1984.

Il muschio e la rugiada. Antologia di poesia giapponese, a cura di M. Riccò e P. Lagazzi, Milano, Rizzoli, 1996. F. Pessoa, Poemi di Alberto Caeiro, a cura di P. Raule, Milano, Edizioni La Vita Felice, 1999. E. Dickinson, Silenzi, a cura di B. Lanati, Milano, Feltrinelli, 1990. A. Warburg, Il rituale del serpente. Una relazione di viaggio, traduzione di G. Carchia e F. Cuniberto, Milano, Adelphi, 1998. C. Buarque de Hollanda, O que será (À flor da terra), 1976, traduzione di I. Fossati.




Vittorio Ferorelli, classe 1971, lavora all’Istituto per i beni culturali della Regione EmiliaRomagna dal 1997. Caporedattore della rivista “IBC. Informazioni, commenti, inchieste sui beni culturali”, ha partecipato alla cura di quattro volumi: uno sul cinema (Federico Fellini autore di testi. Dal “Marc’Aurelio a Luci del varietà), uno di museografia (La coda della gatta. Scritti di Ettore Guatelli: il suo museo, i suoi racconti) e due raccolte di articoli giornalistici: Ma questa è un’altra storia. Voci, vicende e territori della cultura in Emilia-Romagna (1978-2008) e Una parola dopo l’altra. Interviste e conversazioni sulle pagine di “IBC”. Nel 2012, con il fotografo Matteo Sauli, ha pubblicato Al bordo della strada. Diario di viaggio sulla Statale 9 - Via Emilia. www.vittorioferorelli.com



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