SARDONIA
Foto alinari
Ventisettesimo Anno / Vingt Septième Annèe
Dicembre 2020/Décembre2020
Eleonora d’Arborea Efisio Marini Storia dei Giudicati : Torres Origini del Natale Concetta Scaravaglione Progetto Towanda Tziu Antoni Cuccu Callu ‘e crabittu Lenzuoli SOSpesi Marisa Iotti Giordano Bruno Rossana Corti Zitkala-Sa https://www.vimeo.com/groups/sardonia https://www.facebook.com/sardoniaitalia
Cagliari Je T’aime Programma di creazione di Esposizioni e Manifestazioni Artistiche nella città di Cagliari a cura di Marie-Amélie Anquetil Conservateur du Musée du Prieuré Directrice de la revue “Ici, Là bas et Ailleurs” Espace d’exposition Centre d’Art Ici, là bas et ailleurs 98 avenue de la République 93300 Aubervilliers marieamelieanquetil@gmail. com https://vimeo.com/channels/ icilabasetailleurs Vittorio E. Pisu Fondateur et Président des associations SARDONIA France SARDONIA Italia créée en 1993 domiciliée c/o UNISVERS Elena Cillocu via Ozieri 55 09127 Cagliari vittorio.e.pisu@email.it http://www.facebook.com/ sardonia italia https://vimeo.com/groups/ sardonia https://vimeo.com/channels/ cagliarijetaime SARDONIA Pubblicazione dell’associazione omonima Direttore della Pubblicazione Vittorio E. Pisu Maquette, Conception Graphique et Mise en Page L’Expérience du Futur une production UNISVERS Commission Paritaire ISSN en cours Diffusion digitale
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uesto numero interamennte compilato a Parigi, per ritrovare l’atmosfera che é stata la nostra da ormai cinquant’anni, ma che non ci ha mai impedito di conservare un legame con la Sardegna, con Cagliari e sopratutto di svilupparlo attraverso le pubblicazioni, le emissioni televisive e le manifestazioni e mostre organizzate con “Cagliari Je t’aime”. Ho voluto scegliere come immagine di copertina il cantiere della ricostruzione della Torre di San Pancrazio a Cagliari, che mi é sembrata, appena l’ho vista, una metafora della situazione che stiamo vivendo, durante la quale non solo la pandemia sconvolge completamente la nostra quotidianeità ma anche le intemperie naturali si aggiungono ad un periodo di per sé già catastrofico per tutte le attività umane sia commerciali che artistiche. Purtroppo l’anno già particolarmente calamitoso ci riserbava qualche altra brutta sorpresa causata da numerosi nubifragi che purtroppo hanno sottolineato la nostra memoria molto labile (in Sardegna fenomeni di questo genere si ripetono quasi ogni decenni con regolarità) e la testardaggine con la quale continuiamo a non imparare da queste catastrofi ed al contrario perseverare nel credere che il cemento ed il mattone siano una risposta (come ho sentito affermare sopratutto in questi periodi) che se produce guadagni immediati per alcuni, riserva amare sorprese quando la natura ci fa comprendere che contiamo veramente poco affronte delle sue esuberanze periodiche. Continuiamo quindi a parlarvi delle manifestazioni, mostre, spettacoli ed azioni culturali che hanno attirato la nostra attenzione, certo in modo molto soggettivo ed eccletico, sperando comunque di suscitare la vostra curiosità e se qualche volta vi parliamo di qualche artista che conoscete già o che abbiamo già ospitato in queste pagine é semplicemente perché lo amiamo veramente. Ci é sembrata anche molto interessante la storia della vita di Zitkala-Sa che dovrebbe insegnarci di come sia possibile conciliare culture ed attitudini molto diverse e quasi opposte tra di loro e riuscire non solo a creare delle iniziative di cui la società tutta intera nella sua diversità puo’ trarre benefici non indifferenti ma anche la raccolta della memoria, delle tradizioni orali, artistiche e musicali é necessaria per aiutarci a progredire in un mondo che sta affrontando in questo momento forse uno dei suoi cambiamenti più radicali, anche se forse non ce ne rendiamo completamente conto on non vogliamo ammetterlo, rifugiandoci nelle nostre vecchie ed inutili certezze. Sperando che questa pandemia ci insegni qualcosa, almeno che la nostra assenza permette agli animali ed anche ai vegetali di ritrovare il loro habitat naturale, e che probabilmente dobbiamo cambiare programma al più presto, non mi resta che augurarvi una felice fine di quest’anno disgraziato e darvi appuntamento in Gennaio per incominciare finalmente gli anni ‘20 del XXIsimo secolo. V.E. Pisu
Eleonora d’Arborea. Dipinto di fantasia di Antonio Caboni 1881
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er il contesto in cui si mosse, il destino e l’importanza delle sue scelte, maturate in assoluta autonomia di giudizio e di azione, la figura di Eleonora d’Arborea si è tinta quasi da subito di tratti leggendari. «La figura più splendida di donna che abbiano le storie italiane, non escluse quelle di Roma antica…» la definirà Carlo Cattaneo. Il padre Mariano IV de Bas d’Arborea si forma in Catalogna, dove viene armato Cavaliere. Nel 1336 sposa Timbora de Roccaberti dalla quale ha tre figli: Ugone, la nostra Eleonora e Beatrice. Eleonora trascorre la sua giovinezza presso la corte di Arborea (vicino ad Oristano), che sotto il giudicato trentennale del padre, uomo colto ed intelligente, attraversa una stagione vivace e raffinata, forte dello stesso clima che caratterizza in quel volgere di anni gran parte dell’Europa. A Mariano succede il figlio Ugone, fratello di Eleonora, pirata e condottiero, definito dai più fiero e crudele. Eleonora sposa Branca Leone D’Oria, figlio illegittimo di Brancaleone Doria e di una certa Giacomina, nonché pronipote del grande Branca Doria, della nobile famiglia ligure; Branca Leone aveva già due figli illegittimi (Giannettino e Nicolò) ed era signore di Castelgenovese (oggi Castelsardo) di Monteleone, di Casteldoria e numerose altre contrade nel nord della Sardegna.
Eleonora d’Arborea
Molins de Rei1340 Oristano 1404
Dal loro matrimonio nasceranno due figli, Federico e Mariano. Il 16 settembre 1382 Eleonora, dimostrando un alto senno politico e una chiara visione dell’avvenire dinastico e strategico della sua casata, stringe un accordo con il Doge della Repubblica di Genova, Nicolò di Guarco, che aveva grandi interessi e possedimenti in tutta la Sardegna settentrionale; Eleonora gli fa promettere che la figlia Bianchina avrebbe sposato il suo primogenito Federico. Di mezzo c’era un prestito di quattromila fiorini d’oro e un accordo nel quale il Doge si impegnava a restituire la somma nel termine di dieci anni, scaduti i quali avrebbe dovuto restituire il doppio. L’anno che segue la stesura di questo accordo il fratello di Eleonora, Ugone, viene assassinato nel suo palazzo da alcuni congiurati. Si pone a questo punto il problema della successione. Eleonora è decisa a tutelare l’onore del fratello ucciso ma anche a garantire a suo figlio Federico il trono di Arborea: si proclama Juighissa de Arbaree ricollegandosi alla tradizione dell’antico diritto regio sardo per il quale le donne potevano succedere al trono del loro padre o fratello. La nuova Giudicessa sa che nessun intralcio deve venir posto dagli Aragonesi, intenzionati a conquistare l’intera isola, e decide quindi di inviare il marito Branca Leone D’Oria in Spagna (segue pagina 4)
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Foto unione sarda
(segue dalla pagina 3) presso la corte del re Pietro IV il Cerimonioso affinché sostenga presso il re la sua volontà. Eleonora intanto percorre l’intera isola per impadronirsi di tutte le posizioni e di tutti i castelli che erano stati del fratello Ugone iniziando con grande determinazione l’opera di riordino e di espansione del Giudicato. Pietro IV, compresa la gravità della situazione e ritenendo sconveniente avere una famiglia così potente in Sardegna, contravviene ad ogni norma dell’ospitalità e annuncia a Branca Leone D’Oria che sarebbe rimasto in suo potere fino a che non avesse ricevuto in consegna il figlio Federico e non fosse riuscito a ridurre la moglie all’obbedienza. In caso contrario sarebbe stato inviato l’esercito contro i ribelli. Branca Leone, ostaggio, accetta le condizioni. Ma Eleonora preferisce la guerra con gli Aragonesi alla resa ignominiosa ed alla consegna del suo primogenito al re. Disobbedisce così al marito che dal carcere le scongiura di cedere. Eleonora comincia a visitare ad una ad una le ville e i borghi. Convoca magistrati, anziani, tutto il popolo di liberi e di servi facendo giurare fedeltà al figlio Federico. Ottiene un completo successo: giungono a migliaia dai campi i guerrieri per stringersi intorno a lei nel nome della giustizia e del popolo sardo. Le disponibilità finanziarie
della casa D’Oria le permettono di stipendiare ufficiali forestieri per l’addestramento dell’esercito. Dopo due anni di inutili scontri non si giunge a nulla. Eleonora si rende conto che la sua ostinazione condanna il marito alla reclusione. Tenta di farlo evadere dalle fortificazioni di San Pancrazio a Cagliari, dove è recluso; corrompe servi e guardiani, ma uno di questi rivela la trama al governatore e il piano fallisce. Comincia allora a stringere un primo trattato di pace, ma nel mezzo delle negoziazioni il re muore. Nello stesso anno, il 1387, muore anche il primogenito Federico, al quale succede il fratello Mariano V, sempre sotto la reggenza della madre Eleonora. Il secondo trattato di pace, molto più gravoso del primo, è firmato solo dopo un anno dalla morte del re, ma passa un intero altro anno prima che Branca Leone venga liberato. Eleonora e Branca Leone, feriti nell’orgoglio per essersi dovuti piegare al ricatto regio, cominciano a non rispondere più alle lettere del governo nelle quali si chiede ragione dell’irrequietezza che serpeggia in Arborea. In Sardegna è di nuovo guerra, anzi guerriglia, e il 1 marzo del 1392 viene emanato un atto di accusa contro Eleonora ed il marito, condannati a morte in quanto ribelli e spergiuri. Si parla ogni tanto di nuove trattative di pace e gli ambasciatori fanno la spola tra Cagliari e Oristano per esporre
proposte (e tramare insidie). Eleonora capisce che è arrivato il momento di ristabilire nel regno un po’ di ordine e tranquillità. Guidata dal suo profondo senso storico modifica in base alle esigenze presenti le norme (66) dettate dal padre creando così nel 1392 la nuova Carta de Logu, che con i suoi 198 capitoli è considerata “il maggior monumento legislativo della Sardegna medievale”. Un atto che resterà memorabile nella storia dell’isola e che regolerà la vita giuridica e sociale del popolo sardo per quattro secoli. Eleonora sceglie di far redigere la Carta in arborense, chiaro segno del suo intento di farne conoscere il contenuto al popolo (carta de logu = carta del popolo). In questo distillato di modernità e saggezza la Giudicessa introduce concetti giuridicamente arditi per quei tempi, di una sconcertante attualità. Sancisce che tutti gli uomini sono uguali davanti alla legge (siamo nel 1300!). Dà importanza al valore soggettivo del reato distinguendo chi uccide con animo delliberadu e pensadamenti da chi lo fa senza intenzione. Regola lo stupro. Che poteva riguardare donna maritata o fidanzata. Nel primo caso il violento veniva colpito con una multa. Nel secondo caso oltre alla multa e sussidiariamente al taglio del piede, aveva l’obbligo di sposare la donna ma solo si plaquiat a sa femina.
Decisamente un concetto rivoluzionario. Regola l’adulterio. Si alcunu homini entrarit pro forza a domo de alcuna femina cojada et non l’happat happida carnalmenti paghi lire cento e se non paga entro quindici giorni abbia mozzo l’orecchio. Regola il bruciare delle stoppie, che ancora oggi in Sardegna provoca gravissimi incendi. Le stoppie debbono essere bruciate prima del giorno di S. Maria chi est a die octo de capudanni, l’otto settembre. Regola il testamento. La cultura del giudicato è molto scarsa, mancano i notai, Eleonora quindi abilita i parroci e gli scrivani di curatoria a ricevere i testamenti affinchè il volere dei defunti venga sempre rispettato. Regola ancora le aggressioni, i furti, l’usura, i falsi, le negligenze dei giudici, le testimonianze, le usucapioni, la caccia, la pastorizia, le questioni fiscali, il commercio e tutto ciò che riguarda la vita giuridica, amministrativa e sociale del giudicato. Intanto la guerra continua ad avvicendarsi a trattative di pace. Ma una grande e terribile piaga si propaga in quegli anni in Sardegna, la peste, che nel 1304 si porta via anche Eleonora, la regina guerriera, la saggia legislatrice. Gli stessi spagnoli, suoi grandi nemici, le renderanno omaggio estendendo la Carta de logu a tutta la nazione sarda. Alessandra Cortese
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EFISIO MARINI
Foto www.efisiomarini.it
bbiamo tutti ricevuto un regalo che, per dirla in modo educato, è stato un po’ troppo ponderato. Eppure, nella lista dei doni bizzarri e indesiderati, questa tabella data a Napoleone III è la numero uno, e non ci si avvicina nemmeno. Nel 1866 il naturalista italiano Efisio Marini realizzò una tavola unica nel suo genere utilizzando resti umani pietrificati. Sì, avete letto bene: cuore, cervello, fegatini, polmoni, orecchie (avete capito bene) hanno fatto da sfondo alla pièce de résistance, un piede pietrificato che adorna la parte superiore della tavola. Un po’ di contesto: Efisio Marini era noto per il suo lavoro di conservazione e pietrificazione dei cadaveri senza fare tagli o iniezioni, quindi non è che questo tavolo sia stato del tutto inaspettato da lui. Detto questo, non siamo sicuri del tipo di rapporto che Marini avesse con Napoleone III, e se Napoleone accettò il dono o se lo rifiutò (vedi cosa abbiamo fatto noi?) e lo negò. La tavola è ora esposta al Museo di Storia della Medicina di Parigi.
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re 11 di venerdì 2 maggio 1902, lo stesso anno della legge di pareggiamento dell’Ateneo di Cagliari, suggellato da una epigrafe marmorea dettata dal parlamentare e professore, già sindaco e prossimo sindaco, Ottone Bacaredda. E’ una lapide diversa questa che, un mese avanti, viene affissa nella prima colonna a sinistra del vasto atrio del palazzo universitario, a Castello: celebra Efisio Marini, medico e sperimentatore, che in vita da quel sindaco-mito non ha avuto, per paradossale che sia, altro che dispiaceri. Di Marini questa lastra di marmo chiaro reca, alla sommità, le sembianze in un altorilievo bronzeo opera di Giuseppe Boero. La dedica l’ha dettata Giovanni Bovio, filosofo e deputato, leader del repubblicanesimo postmazziniano ed esponente di punta, anche, dell’area democratico-progressista del Grande Oriente d’Italia, che di Marini è stato amico negli anni forse più bui della vita. (E di Bovio sarà lo stesso Boero – Fratello massone anche lui, cresciuto alla scuola di scultura di Ettore Ferrari prossimo Gran Maestro di Palazzo Giustiniani, iniziato nella romana loggia La Regola e in forza dal 1903 alla cagliaritana Sigismondo Arquer – a rea-
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lizzare, nel 1905, il busto in marmo bianco, che verrà collocato nello square delle Reali, faccia alla stazione ferroviaria e spalle all’erma di Verdi). Bovio – va ricordato – ha celebrato altri sardi. Nel febbraio 1888, a pochi mesi dalla morte, Giovanni Battista Tuveri: sue sono le parole dello stellone incassato in un fornice del Monumentale, fra la seconda e la terza prateria; nel dicembre 1896 Vincenzo Brusco Onnis, altro mazziniano, con l’epigrafe marmorea pure essa fissata in una parete del grande camposanto di Bonaria, giusto di fronte a quella di Tuveri. Ed ecco adesso, terza della serie, la dedica ad Efisio Marini «che attenuando laforza corruttrice / placò la morte / non la fortuna / né l’ignavia dei vivi / che lasciarono spegnere tanta fiamma / senza alimento». Per il finale ammonimento: «O Italiani / la giustizia postuma è rimorso». Così il testo, che rimanda esplicitamente alle ingiustificate e anzi malevole incomprensioni che si abbatterono, soprattutto dagli ambienti accademici locali, sul capo di Marini, cui fu negato il meritato insegnamento universitario, costringendolo a lasciare definitivamente Cagliari alla volta di Napoli. Tardiva riparazione. Ad onorarne la memoria, adesso, con il rettore Fenoglio, preside della facoltà di Medicina, ed i suoi colle-
ghi del senato accademico, è soprattutto il prof. Carlo Fadda, insigne giurista di origini sarde e cattedra napoletana, anche lui buon amico (fra i rari) dello scomparso. Quasi mezzo secolo più tardi – già in uno dei primissimi numeri de Il Convegno, che iniziò le sue pubblicazioni nel 1946 come periodico della cagliaritana Associazione Amici del libro – è Nicola Valle che, richiamando la lapide boviana come unico riconoscimento a tanto valore, scrive: «Speriamo che Luigi Crespellani, sindaco umanista, voglia rimediare all’oblio immeritato, intitolando a lui almeno una strada». Ciò che si avvererà alcuni anni più tardi – nel 1955 – nel battesimo delle strade attorno alla via Pessina, giusto di spalle al palazzo di Giustizia, ancora relativamente fresco di inaugurazione e ancora incompiuto. Nello stesso numero del Convegno – giugno 1946 – esce la prima delle due puntate biografiche dedicate da Francesco Alziator ad Efisio Marini, che con lui ha condiviso la nascita nel quartiere della Marina: circostanza che sembra aggiungere sempre, negli scritti dell’ancora giovane professore, un supplementare pathos evocativo, un soffio romanzesco (e qualche innocente invenzione) alla biografia nuda e cruda. (segue pagina 8)
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Foto lay rodriguez
(segue dalla pagina 7) Dopo gli sconquassi della guerra che hanno seppellito anche la casa familiare dei Marini, è il primo e tempestivo ricordo di un grande cagliaritano cui farà seguito, purtroppo, un lungo silenzio, soltanto negli anni fra ’80 e ’90 parzialmente (ma non banalmente) rimediato. La complessa personalità e l’alto profilo scientifico del pietrificatore di cadaveri sono destinati infatti a un lungo, troppo lungo e soprattutto immeritato silenzio, fra la rimozione delle vecchie generazioni ingrate e la placida ignoranza delle nuove. ato a Cagliari nel 1835, conseguì ben due lauree in Medicina e in Scienze Naturali all’Università di Pisa. Appassionato di Paleontologia e dello studio dei fossili, approfondì le materie fino a giungere, tramite esperimenti durati cinque anni, alla scoperta della formula chimica che consentiva di conservare perfettamente i cadaveri. Riuscì non solo ad arrestare il processo di decomposizione ma “a conservare ai tessuti e ai muscoli l’elasticità e la plasticità che possedevano in vita”, assicurando ai corpi trattati con il suo metodo “una condizione permanente di freschezza, flessibilità, morbidezza e colorito naturale”. La morte dello storico Pietro Martini, avvenuta nel febbraio del 1866, gli offrì l’occasione per dimostrare che si poteva impedire la decomposizione dei cadaveri.
leggi anche Marcello Serra https://www.comune. cagliari.it/ mediatecafb/1985/ Efisio_Mameli?fbclid= IwAR1-9-JLDb2m5Eg PiJ_Y2VC-daflJfhjR5Hx ZjIr3CFfKC8f3GZPOtw HqTE
Sottopose la sua salma al processo da lui ideato, utilizzando una miscela di sali e altre sostanze la cui formula rimase segreta. Quattro mesi dopo, riaperto il sepolcro alla presenza di autorevoli testimoni, tra cui un fotografo, il corpo del Martini risultò perfettamente intatto, così pure alla seconda riesumazione, avvenuta otto mesi dopo, alla terza, ben sedici anni dopo, fino a quella fatta nel 1898, sempre con il medesimo risultato. La sua fama crebbe in Europa ma, a causa delle invidie di suoi concittadini, decise di trasferirsi a Napoli e poi a Parigi dove, in occasione della Esposizione Universale del 1867, ebbe modo di presentare i risultati delle sue scoperte tanto da guadagnarsi l’ammirazione di Napoleone III che gli conferì la Legion d’Onore. Scelse poi di rientrare a Napoli per continuare i suoi studi e la sua attività accademica. Dopo la sua morte la sua fama era quasi caduta nell’oblio. Solo nel 2001, grazie a Giorgio Todde, medico e scrittore cagliaritano, purtroppo recentemente scomparso, che lo trasformò nel detective scienziato protagonista dei suoi romanzi, si è ritrovata memoria della figura di questo scienziato geniale e della sua opera. Marcello Serra, gli ha dedicato un articolo dell’Almanacco di Cagliari, Anno 1985, “La vita dopo la morte”. Gianfranco Murtas 2013
STORIA DEI GIUDICATI:TORRES
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il Giudicato di Torres fu uno dei quattro Stati in cui si divise la Sardegna medievale dopo il collasso (o forse in seguito ad una (quasi) indolore evoluzione) del dominio bizantino sull’isola. Dai tempi del grande Belisario la Sardegna era diventata parte dell’Exarchaton d’Africa, ma l’avvento degli arabi aveva tagliato fuori questo avamposto occidentale dai collegamenti diretti con Costantinopoli. Fu in tale contesto d’incertezza politico-militare che, sotto la pressione delle scorrerie dei musulmani, l’isola si divise in regni governati da sovrani detti judikes o giudici. Il Giudicato o Rennu di Torres ricomprendeva quasi tutta l’attuale provincia di Sassari, Gallura esclusa, e alcune sezioni delle province di Nuoro e Oristano. Vasto circa 6.500 km², era diviso in diciannove distretti amministrativo-militari detti curadorias, i cui nomi sono utilizzati ancora oggi per indicare tali aree: Flumenargia, Nurra, Romangia, Coros, Montes, Anglona, Nulauro, Ulumetu, Figulina, Nughedu, Montacuto, Nugor, Nurcara, Caputabbas, Meilogu, Planargia, Costavalles, Marghine, Montiferru, Sarule e Ozan. Lo Stato prese il nome dalla sua prima capitale, quella Turris Libisonis – attuale Porto Torres – fondata dallo stesso Ottaviano Augusto quasi mille anni prima.
Nel Medioevo venne anche citato, in epistole e documenti ufficiali, come Regno del Logudoro, forse in ricordo di un’antica popolazione che viveva nell’area al tempo delle catalogazioni tribali dei romani. Il Giudicato di Torres fu retto per la maggior parte dei suoi tre secoli di vita dalla casata dei Lacon-Gunale, dotata di un leggendario fondatore chiamato Comita de Lacon (molto probabilmente barbaricino, proveniente dal territorio dell’attuale Laconi). La famiglia è stata forse frutto di un amalgama tra famiglie greco-romane e dell’interno nata in risposta al temibile nemico esterno musulmano, che ormai minacciava entrambe. Difatti, uno dei primi judikes che conosciamo a grandi linee è Gonnario Comita di Lacon-Gunale, che unì nella sua persona le corone di Torres e Arborea per respingere, con l’aiuto pisano e genovese, un tentativo di occupazione dell’isola da parte del signore di Dénia, Mujāhid al-ʿĀmirī, passato alla storia come Museto o Mugeto. Per quasi mezzo secolo, tra il 1004 e il 1044, si combatté in lungo e in largo tra Sardegna, Corsica, Toscana, Lazio e isole Baleari. Una coalizione di sardi, pisani e genovesi riuscì infine a distruggere tale minaccia, riportando il Tirreno in mani cristiane. (segue pagina 10)
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Foto giselanto
(segue da pagina 9) Sparito il pericolo islamico, i judikes di Torres – e anche quelli degli altri giudicati – dovettero vedersela contro i loro ex alleati, Pisa e Genova, che iniziarono un gioco fatto di commerci ma anche d’influenza sull’isola. Tra il 1082 e il 1113 governò Costantino I, che promosse la colonizzazione di vaste terre del rennu. Il problema è che non si limitò a concedere dei possedimenti alla chiesa, come spesso accadeva all’epoca, ma anche a nobili laici “continentali” quali i genovesi Doria e i toscani Malaspina. Questi fondarono città e castelli come Castelgenovese, Monteleone Roccadoria, Bosa e più avanti anche Alghero, che aumentarono la prosperità economica dello Stato ma al contempo insediarono dei veri e propri “cavalli di Troia” dentro il Logudoro, in quanto tali signori rimasero fedeli agli interessi delle loro città d’origine, diventando quindi un elemento di instabilità politica che portò al collasso il sistema giudicale nel XIII secolo. Come se tutto questo non bastasse, si misero in mezzo anche le lotte intestine itra-familiari. Morto Costantino I, infatti, salì al trono il piccolo Gonnario II. Il suo potere fu osteggiato dai parenti della casata Athen, che si unirono
sotto il fratellastro di Gonnario stesso, Saltaro. Per tale motivo il futuro judike dovette scappare a Pisa fino alla maggiore età, per poi tornare con l’aiuto militare di questi ultimi verso il 1130. Gli Athen si arroccarono nel sud del paese, nell’area di Pozzomaggiore, dove il sovrano dovette andarli a stanare. In tale contesto vennero gettate le fondamenta dello strategico castello di Burgos, che ancora oggi domina la regione del Goceano, e soprattutto si compì il massacro degli Athen presso la chiesa di San Nicola di Trullas, in cui questi ultimi avevano sperato di ricevere asilo dopo la sconfitta militare sul campo. Forse per lavarsi la coscienza per il tanto sangue versato, nel 1147 Gonnario partì per la Terrasanta. Al suo ritorno passò da Montecassino, dove incontrò Bernard di Clairvaux. Questo evento cambiò la vita al sovrano, che da un lato incentivò l’arrivo dei cistercensi nel suo regno, mentre dall’altro lo portò ad abbandonare la corona e farsi monaco a sua volta, morendo a Clairvaux in “fama sanctitatis” tra il 1181 e il 1192. Il suo erede, Barisone II, dovette fronteggiare assieme al fratello Pietro Torchitorio III – judike di Calari – le ambizioni dei sovrani d’Arborea prima e dei pisani poi.
Con l’aiuto dei Doria, che gli assicurarono il sostegno di Genova, respinse un’invasione del comune toscano che puntava a detronizzarlo. In risposta tutti i cittadini di Pisa vennero espulsi dal Giudicato di Torres. Tale politica anti-pisana fu perpetrata dal successore Costantino II, che dovette confrontarsi con il nuovo judike filo-pisano di Calari, Guglielmo Salusio IV di Lacon-Massa. Non fu però una scelta fortunata. Quest’ultimo, infatti, lo sconfisse in battaglia e prese il castello di Burgos – il meglio munito di Torres – in cui catturò la moglie dello stesso Costantino, Prunisinda. Come supremo atto di sfregio, Guglielmo violentò la regina e la portò poi a Santa Igia, la capitale di Calari, in cui questa morì di stenti e forse per le violenze subite. All’epoca Pisa era all’apice della sua influenza e prestigio, perciò Costantino subì, oltre ai drammi politico-militari e familiari, anche la scomunica, comminata dall’arcivescovo di Pisa. Il figlio dello judike scomunicato, Comita, dovette ricorrere sia alla guerra che alla diplomazia per rimettere in sesto il destino di Torres. Rafforzati ancor di più i legami con Genova, sconfisse la famiglia pisana dei Visconti che aveva preso possesso dei giudicati di Calari e di Gallura facendoli diventare degli Stati clienti del comune toscano.
Rappacificatosi con Pisa da una posizione di forza, poté lasciare al figlio Mariano II uno Stato solido e relativamente tranquillo. Questi fu l’ultimo sovrano capace di interpretare una politica forte e indipendente, districandosi tra Pisa, Genova e il Papato. Purtroppo, alla sua morte nel 1232 lasciò un erede di appena undici anni, Barisone III, che non ebbe la forza di contrastare con i suoi tutori lo strapotere delle sempre più ingombranti famiglie non sarde dei Doria e dei Malaspina. Il fulcro di tale ribellione fu Sassari, ormai diventata il centro economico più importante del Logudoro, ma pieno di partigiani genovesi. Nel 1236 il giovanissimo sovrano venne ucciso a Sorso durante una sommossa, forse raggiunto dai sicari assoldati dai Doria e dai Malaspina, che puntavano a smembrare il paese per godere di una maggiore indipendenza. Dell’antica famiglia giudicale rimase la sola Adelasia, sorella di Barisone, che era stata data in sposa ad Ubaldo Visconti, judike di Gallura, che per un breve periodo governò anche Torres. Morto senza eredi anche quest’ultimo nel 1238, si aprì una furiosa corsa alla mano di Adelasia, portatrice per sangue del titolo giudicale. Dopo vari maneggi che ripercorrevano le lotte che squassavano il mondo cristiano tra il Papa (segue pagina12)
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Foto camù
(segue da pagina 11) e l’imperatore Federico II, quest’ultimo riuscì a far sposare Adelasia con il suo figlio preferito, Enzo di Hohenstaufen, che nominò subito Rex Sardiniae. Il Papa Gregorio IX, furioso, fece partire una raffica di scomuniche che colpirono a pioggia Federico II, Enzo e Adelasia stessa. Per il breve tempo in cui risiedette in Sardegna, Enzo pose la propria capitale a Sassari – prima stava ad Ardara e prima ancora a Turris, anche se va detto che la corte giudicale era una corte itinerante, senza una vera e propria “capitale” in senso stretto. Ad ogni modo, complice lo spirito battagliero e le guerre che coinvolgevano l’augusto genitore in Italia, ben presto Enzo lasciò l’isola, andando a combattere i nemici del padre. Questo portò al riavvicinamento tra Adelasia e la Santa Sede, che sciolse il matrimonio tra quest’ultima ed Enzo nel 1245, revocandole la scomunica qualche anno dopo. Torres cadde allora nella più totale anarchia e si concluse de facto nel 1259, con la morte senza eredi di Adelasia, ultimo membro della casata. In seguito il suo territorio venne diviso tra i Doria, i Malaspina, il libero comune di Sassari e il Giudicato di Arborea, che combatterono tra loro fino all’avvento del nuovo nemico d’oltremare: i catalano-aragonesi. AM
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epoca dei Giudicati fu un’ epoca di crescita per l’ isola, nonostante le guerre tra i giudicati, che aprirono le porte alle interferenze dei pisani, genovesi e Aragonesi. Le notizie storiografiche però non consentono di avere certezza sul passaggio dall’autorità bizantina centrale alla nascita dei quattro giudicati autonomi. A fronte dell’unica fonte incontrovertibile costituita dalla epistola di Papa Gregorio VII il 14 ottobre 1073 ai quattro Giudici (Orzocco, Torchitorio, Mariano, Costantino) che, citando i loro antiqui parentes palesa il radicamento storico delle generazioni giudicali, per quanto riguarda le nebulose fasi tra il IX e l’XI secolo si ritiene che vi sia stata una evoluzione graduale avvenuta in un contesto di rapporti sempre più rarefatti con Bisanzio a fronte di nuovi rapporti ed equilibri. Dal 705, con l’avanzata dell’Islam verso l’Europa iniziarono le scorrerie dei corsari musulmani provenienti dal Nordafrica e dalla Spagna. Le incursioni improvvise non trovarono efficace opposizione nell’esercito bizantino. Cessate le scorrerie improvvise, dopo una stasi di dieci anni, Arabi e Berberi islamizzati si riorganizzarono e tornarono questa volta con un più ampio schieramento di forze cercando di occupare la parte meridionale della Sardegna. Fu a seguito di queste offensive che il re longobardo Liutprando inviò alcuni messi a Cagliari - tra il 721 e il 725 - per trattare l’acquisto delle spoglie di Sant’Agostino
custodite in città e preservarle da possibili profanazioni. Andata a buon fine la trattativa i Longobardi portarono le spoglie in salvo a Pavia, custodendole nell’Arca di San Pietro in Ciel d’Oro. A Cagliari restarono le vesti del santo. Le fortificazioni sarde resistettero a diversi attacchi, tanto che in una missiva dell’851 papa Leone IV chiederà aiuto allo Judex Provinciae (giudice della provincia) della Sardegna per la difesa di Roma[6], ma con la caduta nell’VIII secolo dell’Esarcato d’Africa con sede a Cartagine, e soprattutto con l’affermarsi della presenza araba in Sicilia (827) la Sardegna restò scollegata da Bisanzio e dovette necessariamente rendersi economicamente e militarmente autonoma. Un indizio dell’autonomia da Bisanzio lo si evince dalla notizia della missione condotta in autonomia dai sardi presso Ludovico il Pio (814 - 840)[7], successore di Carlo Magno, in vista di una coalizione anti araba con i Franchi i quali, all’epoca, detenevano la Corsica. Nell’anno 840 - il geografo arabo Ibn Khordadbeh relaziona sulla presenza in Sardegna di un batrìq, console di Sardegna, Baleari e Corsica; Nel 851 - papa Leone IV scrive allo Iudex Sardiniae per chiedere l’invio di un reparto militare a Roma e la fornitura di lana marina, il bisso, per la confezione degli indumenti pontifici; Nel 864 - papa Niccolò I stigmatizza le unioni di natura incestuosa (matrimoni fra consanguinei) che intercorrono da anni tra gli Iudices sardi (usa quindi il plurale);
872 - papa Giovanni VIII invia una lettera indirizzata ai Principes Sardiniae; 915 - l’imperatore Costantino VII Porfirogenito tra i vari ufficiali imperiali cita un arconte per la Sardegna. Bisanzio lasciò al governo di Sardegna, Corsica e Baleari un arconte, che aveva sia poteri civili che militari, con sede a Cagliari. Con la battaglia della Meloria del 1284 e la definitiva sconfitta di Pisa, Genova ebbe il controllo sostanziale dei territori turritani. Il Giudicato venne dunque diviso tra i Doria, Malaspina e Spinola a nord, e il giudicato di Arborea, così del vecchio territorio giudicale rimase solo il territorio comunale di Sassari dove i cittadini, nel 1294, con l’appoggio dei Doria, si costituirono in Libero Comune, guidato da un podestà inviato annualmente da Genova col compito di governare in conformità agli statuti sassaresi. Con l’ ascesa del Giudicato d’Arborea, che per ben due volte (1368-1388 e 13921409) riuscì a governare su quasi tutta l’ isola, riuscì a tenere testa agli Aragonesi fino al 1420. Sembra che lo stato e le condizioni della popolazione rurale cambiò moltissimo nel corso di cinque secoli, passando da una sorta di servitù della gleba alla quasi completa libertà di tutti i cittadini nel periodo di Eleonora d’Arborea (e ciò forse spiega l’appoggio popolare dei Sardi alla giudicessa per il timore che il successo dei Catalani avrebbe, come poi successe realmente, imposto un ritorno alle condizioni servili di tipo feudale). Federico de Simone.
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Foto camminodifrancesco.it
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a prima testimonianza della Natività di Cristo con la data del 25 dicembre risale al 336. Essa è stata rivenuta nel Chronographus di Furio Dionisio Filocalo, un calendario illustrato per l’anno 354, accompagnato da testi e illustrazioni. È molto probabile che la data sia stata scelta per sostituire la festa del Natalis Solis Invicti, festeggiata per l’appunto nella notte tra il 24 e il 25 dicembre. Durante il tardo impero romano con l’appellativo di Sol Invictus si indicavano diverse divinità come Helios e Mitra, che finirono per essere assimilate, nel periodo della dinastia dei Severi, all’interno di quello che fu definito “monoteismo solare”. Il culto del Sol Invictus ha origine dalle celebrazioni del rito della nascita del Sole in Siria ed Egitto, in cui i celebranti uscivano dai santuari a mezzanotte, annunciando che la Vergine aveva partorito il Sole, raffigurato come un bambino. L’imperatore Eliogabalo, in carica tra il 218 e il 222 d. C., tentò di imporre a Roma il culto di Elagabalus Sol Invictus, il Dio Sole di Emesa, la sua città natale, ma alla sua morte esso fu abbandonato. Nel 272 l’aiuto della città di Emesa fu fondamentale per permettere a Roma di sconfiggere la sua più
http://www.annamariapierdomenico. it/2019/12/22/natale-dal-sol-invictus-alla-tradizione-cristiana/
pericolosa nemica, la Regina Zenobia del Regno di Palmira. L’imperatore Aureliano dichiarò di aver avuto la visione del dio Sole che interveniva in loro aiuto, poi trasferì a Roma i sacerdoti del dio Sol Invictus e ufficializzò il culto solare di Emesa, edificando un tempio sulle pendici del Quirinale e creando un nuovo corpo di sacerdoti. Si ritiene che proprio Aureliano scelse la data Dies Natalis Solis Invicti, ponendola alla fine della festa romana più antica, i Saturnali. Dal 17 al 23 dicembre, a Roma si festeggiava Saturno, dio dell’agricoltura. Le celebrazioni iniziavano con sacrifici e grandi banchetti, durante cui i partecipanti si scambiavano l’augurio io Saturnalia, accompagnato da regali simbolici, detti strenne. Durante questi festeggiamenti era sovvertito l’ordine sociale e gli schiavi potevano considerarsi temporaneamente degli uomini liberi e comportarsi di conseguenza. Inoltre veniva eletto tramite estrazione a sorte un princeps, a cui veniva assegnato ogni potere e che veniva vestito con una buffa maschera e colori sgargianti. Il princeps, oltre ad essere una caricatura della classe nobile, personificava una divinità infera preposta alla
Tra i cristiani dei primi secoli non vi era interesse per il giorno in cui Cristo era venuto al mondo, in quanto la data di nascita era considerata molto meno importante di quella del concepimento, in cui aveva avuto luogo l’incarnazione del Verbo. Col passare del tempo questa situazione mutò. Giovanni Crisostomo, uno dei dottori della chiesa martirizzato nel 407 d. C., sottolineò come nella nascita «l’Epifania, la santa Pasqua, l’Ascensione e la Pentecoste, hanno il loro fondamento e il loro scopo». Senza Natale, non ci sarebbe potuto essere altro.
custodia delle anime dei defunti, ma anche protettrice delle campagne e dei raccolti. Nel 330, dopo aver abbracciato la fede cristiana, l’imperatore Costantino emanò un editto che faceva coincidere il festeggiamento della natività di Gesù con la festività pagana della nascita di Sol Invictus. Papa Giulio I, verso la metà del IV, ufficializzò la data del Natale, ma fu solo con l’editto di Tessalonica di Teodosio I (380 d. C.) che il culto del Sol Invictus fu definitivamente abbandonato. Attualmente il Natale cade il 25 dicembre sia per le chiese cristiane occidentali che seguono il calendario gregoriano sia per quelle orientali che seguono il calendario giuliano, che prima lo festeggiavano il 7 gennaio (cosa che ancora accade nelle chiese slave e copte). Il reale anno di nascita di Gesù non è esplicitamente riportato né dai Vangeli (nello specifico Matteo e Luca) né da altre fonti del tempo e la datazione tradizionale all’anno 1 a.C. risale al monaco Dionigi il Piccolo nel VI secolo. Poiché i Vangeli fanno riferimento agli ultimi anni di regno di re Erode il Grande, gli studiosi generalmente datano la nascita di Gesù tra il 7 e il 4 a.C. Nemmeno il giorno preciso della nascita di Gesù è riportato nei Vangeli.
Il Presepe Il presepe è una rappresentazione della Natività di origine medievale basata sui versetti dei Vangeli di Matteo riguardo l’infanzia di Gesù. Il termine deriva secondo alcuni dal latino “praesaepe”, cioè greppia, mangiatoia, secondo altri da “praesepire”, cioè recintare. La più antica raffigurazione della Vergine con Gesù Bambino risale al III secolo e si trova nelle Catacombe di Priscilla, sulla Via Salaria a Roma. In seguito molti grandi maestri della pittura italiana ci hanno donato raffigurazioni della natività, chiamate anch’esse “presepi”. Ricordiamo tra gli altri Botticelli con l’Adorazione dei Magi, (segue pagina 16)
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(segue dalla pagina 15) Giotto con la Natività della Cappella degli Scrovegni a Padova e Piero della Francesca con la Natività della National Gallery di Londra. Anche nella scultura non mancano esempi, come ad esempio i bassorilievi di Luca e Andrea Della Robbia. Com’è nata questa tradizione? San Francesco d’Assisi, tornato da qualche anno dalla Palestina, voleva rievocare la scena della Natività a Greccio (ora in provincia di Rieti), che trovava molto simile a Betlemme. Dopo essere stato autorizzato da papa Onorio III realizzò il suo proposito e nel 1223 il primo presepe vide la luce. L’albero di Natale L’importanza rituale dei sempreverdi è diffusa fin dall’antichità, i Celti li decoravano durante le celebrazioni relative al solstizio d’inverno e i Romani usavano ornare le loro case con rami di pino durante le Calende di gennaio. Un posto speciale era riservato all’abete. Per i Vichinghi questi alberi erano sacri a Odino e venivano tagliati, portati nelle case e decorati in concomitanza con la notte più lunga dell’anno. Per gli Egizi l’abete era correlato con la nascita del dio di Biblo, i Greci lo ritenevano simbolo di rinascita e i Germani lo associavano alla nascita del fanciullo divino. In aggiunta, nella Bibbia
il simbolo dell’albero è spesso presente, a cominciare dall’Albero della vita posto al centro del paradiso terrestre. L’uso dell’albero di Natale non tardò ad affermarsi anche nelle tradizioni cristiane. Nonostante la Chiesa delle origini ne avesse vietato l’uso, per il Cristianesimo l’abete diventò ben presto simbolo di Cristo e della sua immortalità. Secondo alcuni l’albero di Natale come lo conosciamo nacque a Tallinn, in Estonia, nel 1441, quando nella piazza del municipio fu eretto un grande abete, attorno al quale i giovani ballavano insieme alla ricerca dell’anima gemella. Altri ritengono invece che l’albero di natale sia originario della regione di Basilea in Svizzera. Questa usanza, nata come pubblica, entrò nelle case nel XVII secolo in Renania. In Francia le prime descrizioni note dell’albero di Natale risalgono al 1521 a Sélestat in Alsazia. Gli storici concordano sul fatto che l’Alsazia è il paese in cui ha avuto origine l’usanza dell’albero di Natale. Dall’Alsazia la tradizione si diffuse in Germania, poi nel corso del XIX secolo raggiunse l’Austria, la Cecoslovacchia, l’Inghilterra, gli Stati Uniti e la Francia. In seguito, questa usanza fu trasmessa ai nobili di altre famiglie europee da regine e re di origine tedesca.
A Parigi fu la principessa tedesca Hélène de Mecklembourg, duchessa di Orléans (nuora del re Luigi Filippo) a piantare un albero di Natale nel giardino delle Tuileries nel 1837. Solo pochi anni dopo l’usanza fu incoraggiata dall’imperatrice Eugénie. Si diffuse subito dopo la guerra del 1870, con la perdita dell’Alsazia e della Lorena, e l’albero di Natale divenne il simbolo del Natale nel 1918. L’albero di Natale fu decorato molto presto con mele, arance, giocattoli... Candele, palline di vetro e altre decorazioni in carta, cera, legno o ferro e luci apparvero più tardi nel XVIII secolo. Albero del paradiso, albero della luce, albero del dono, un vero albero magico. Fu solo nella seconda metà del XX secolo che i doni, divenuti troppo pesanti, scesero ai piedi dell’albero vicino agli zoccoli e alle scarpe. Si dice che il primo albero di Natale del Quebec sia stato piantato a Sorel nel 1781 dal generale tedesco Von Reidesel. Ma fu solo negli anni Venti che questa usanza si diffuse nelle città del Québec. Negli anni ‘30, l’albero di Natale faceva parte dell’arredamento di tutte le case delle città e delle campagne del Quebec. In Italia la prima ad addobbare un albero di Natale fu
la regina Margherita, nella seconda metà dell’Ottocento. La tradizione dell’albero di Natale venne introdotta nei futuri Stati Uniti d’America negli anni quaranta del XVIII secolo dai coloni provenienti dalla Moravia. Divenne presto una festa prevalentemente chiassosa, caratterizzata da bevute, schiamazzi notturni, inversione sociale, ecc. Per questi motivi, i Puritani, che si opponevano ad una festa giudicata poco “sobria”, in quanto per loro il Natale doveva essere un giorno di digiuno e penitenza. In seguito, nel 1659, la Corte Generale del Massachusetts vietò le celebrazioni del Natale. Nel 1832, Harriet Martineau descrisse l’albero di Natale come la tradizione natalizia più popolare negli Stati Uniti. Agli inizi del XX secolo, un americano su tre possedeva un albero di Natale. Dal 1923 viene allestito annualmente vicino alla Casa Bianca il National Christmas Tree: l’idea venne al presidente Calvin Coolidge, che fece decorare con 2.500 palline luminose un abete dell’altezza di 48 piedi A New York viene invece allestito annualmente dal 1931 nel Rockfeller Center: http://doigts-de-fee.overblog.fr/pages/Petite_Chronique_de_lAncien_Temps_ le_sapin-147172.html
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CONCETTA SCARAVAGLIONE
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ggi, certifico, senza ombra di dubbio, che non esiste una sola pagina in italiano dedicata alla “regina della pietra” Concetta Scaravaglione. Neanche dalla Calabria, da dove giunse nella pancia della mamma a Ellis Island, con la famiglia dalla provincia di Cosenza (probabilmente da Morano Calabro, altri fonti indicano Spezzano della Sila). Cosa che di fatto la renderebbe l’artista più famosa della regione di sempre, e una delle maggiori in assoluto. Un artista di successo, ma solo per gli Stati Uniti, il che non è poi una cosa da poco... Nata a New York nel 1900 da una famiglia di povera gente, rimane ben presto orfana del padre insieme ad altri 8 fratelli ed è costretta a rimboccarsi le maniche. In una sua biografia scrive che il lavoro e la fatica sono sempre stati parte della storia della sua famiglia. “Ci sono sempre stati degli Scaravaglione che hanno lavorato con le loro mani. Fin dall’infanzia creare è stato per me il divertimento più grande. Quando ero giovane costruivo scaffali, tavolini e persino delle sedie per le bambole e, cosa di cui ero molto fiera, un carretto espresso su cui correvo su e giù per i marciapiedi affollati di Little Italy”. Con queste parole Concetta Scaravaglione ricorda-
va la sua infanzia fatta di un continuo movimento e di grande frenesia. “Nel quartiere dove sono nata le strade brulicavano di vita. Nessuno si annoiava. Non riesco a ricordare un secondo della mia vita nel quale non fossi in fermento...”. Concetta, insomma, si innamora della creatività, torna da scuola che frequenta nel Lower East Side di Manhattan, incoraggiata dalla sua insegnante, e dice ai suoi che vuole studiare arte, provocando stupore e scompiglio. Sono emigranti e anche in alta società, metti pure a Madison Avenue, una donna artista non sarebbe stata vista di buon occhio. Le viene però in soccorso uno zio anticonformista che la supporta e la aiuta economicamente a compiere i primi passi. “Se fossi nata in Italia - dice Concetta - non sarei mai diventata scultrice. Le opportunità offertemi dalle scuole americane -gratuite- non le avrei certo incontrate in un paese in Calabria”. Si iscrive alla Art Students League, dopo che la National Academy of Design aveva eliminato la classe speciale di scultura per ragazze, ma anche qui è l’unica donna.
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La famiglia ingozza, ma rimarrà da allora sempre distante, cosa che la farà molto soffrire, come scrive più volte ai suoi fratelli. Ma non lascerà mai le sue radici, continuando ad aiutare i parenti rimasti in Calabria, mandando soldi e pacchi alimentari, divenendo una delle tante “zie d’America”. Ha un carattere solare, entusiasta, che la fa sentire sempre una privilegiata, anche quando vincerà a 35 anni la Widener Gold Medal alla Pennsylvania Academy of Art and Letters. A 45 anni ottiene una borsa dall’American Academy of Arts and Letters e due anni dopo il Prix de Rome dell’American Accademy in Rome. Sempre la prima donna ad aggiudicarsi premi così importanti, esclusivio dominio dei maschi. Da un punto di vista artistico è una modernista, che parte ed evolve lo stile liberty di matrice yankee per adeguarsi alla nuova architettura. Ai grattacieli, dove ancora trovano spazio fontane, monumenti e bassorilievi. Una scultura compatta, fisica, che diventa stile americano. Non a caso espone al Rockfeller Center che proprio quell’arte e quello stile impone nel mondo. Un’arte, sicuramente, “maschia”. E in effetti doveva avere un grande fibra quella don-
Articolo pubblicato da Palazzi A Venezia del dicembre 2020. vedi https://issuu.com/vittorio.e.pisu/docs/pavdecembrecomplet2020
na, perché appare minuta nelle foto anche di età matura, e sceglie, invece, di plasmare la più dura delle materie, dove il pennello è sostituito dalla mazzetta e occorre vera forza fisica e lavori in una nube di polvere e sedimenti. L’italiana, come viene chiamata, grazie alla borsa di studio riesce anche a tornare in Italia, e lavorare a Roma (1948). Ha già iniziato a insegnare, e dal 1941 al 1945, aveva tenuto un suo corso al Sarah Lawrence University mentre, a partire dal 1952 inizia la sua collaborazione con il Vasar College (a private, coeducational, liberal arts college in the town of Poughkeepsie, New York, founded in 1861), dove rimarrà per 16 anni. Nonostante le soddisfazioni da docente, Concetta Scaravaglione rimase sempre e soprattutto un’artista. Le sue opere sono ampiamente rappresentate nei musei e nelle collezioni americane e la sua scultura è presente, insieme a quelle di altri artisti italiani, nel Triangolo Federale a Washington. Dalle foto assomiglia a Tina Pica, cosa che me la rende ancora più simpatica. Il suo cognome appare impronunciabile, molti dei suoi parenti lo cambiano per americanazzarlo in Scarvalone. Lei no. Tosta e testarda. Muore nel 1975. ilmuseoimmaginario.blogspot.com/
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Foto mancaspazio
uella della violenza sulle donne è storia antica, tragedia in corso, cronaca nera di ieri come di oggi. Raccontarla, denunciarla, contraddirla fino ad annientarla è il compito di ogni società civile e di ogni linguaggio esistente: da quello verbale, recentemente costretto a coniare un neologismo atroce e inequivocabile come “femminicidio”, a quello artistico nel suo senso più ampio, dalla letteratura alla musica passando per il visivo e l’audiovisivo. Tuttavia, come sempre capita nelle narrazioni, anche in questo caso la tentazione retorica (o, peggio, estetica) è un rischio insidioso, quasi un automatismo in incognito che finisce col banalizzare la gravità individuale dei singoli episodi ricorrendo a simboli e simulacri generici, riconoscibili nell’immediato ma destinati a perdere progressivamente la loro efficacia. A diventare, insomma, riferimenti abituali, consueti, scontati: subdoli e transitori come un livido che scompare, come una frattura che si ricompone, come una cicatrice che si mimetizza con l’incarnato. Perché il corpo, quando il pericolo del decesso viene scongiurato e i traumi fisici non sono irreversibili, sceglie sempre, e per istinto naturale, il risanamento e la rinascita. Ma l’anima?
Dal 9 novembre al 4 dicembre le riproduzioni fotografiche delle opere di Luciana Aironi saranno affisse sui muri di Nuoro per promuovere una campagna di sensibilizzazione tramite manifesti e locandine di medio e grande formato, la cui realizzazione è stata resa possibile grazie al contributo economico di privati, enti e attività commerciali.
I postumi interiori di ogni donna che subisce un abuso sono traumi impossibili da misurare ricorrendo alla durata di un ricovero ospedaliero, alla frequenza di una medicazione, alla dimensione di una sutura. E talvolta, perché si palesino in tutto il loro abominio di strascichi e deviazioni dal punto di vista psicologico, non hanno nemmeno bisogno della degenerazione del contatto fisico: è sufficiente quella delle parole. Le opere create da Luciana Aironi in occasione del progetto TOWANDA, promosso dalla galleria MANCASPAZIO in occasione del 25 novembre 2020 e curato da Chiara Manca e Cecilia Mariani, sono la rappresentazione inequivocabile di come i maltrattamenti subiti vadano a intaccare per sempre l’interiorità delle vittime: insulti e soprusi verbali, atteggiamenti persecutori e manipolatori calcificano e riecheggiano “dentro” con lo stesso dolore che può dare la rottura di un osso in seguito a un’aggressione. Per questo le lastre radiografiche – tutte appartenenti a soggetti femminili che le hanno messe a disposizione dell’artista – recano una triplice impressione ottenuta tramite linoleografia: da una parte, in nero, le bugie e le giustificazioni che le vittime raccontano a se stesse per camuffare episodi di violenza fisica e verbale; dall’altra, in rosso, la stampa di tutti quei “cerotti” (concreti e simbolici) che le stesse vittime tendono ad
applicare nel (vano) tentativo di nasconderne l’evidenza e, con essa, il dolore; dall’altra ancora, in bianco, numeri e parole che possono davvero dare una svolta a esistenze segnate dal maltrattamento. Se quelle del corpo umano sottoposto ai raggi x sono immagini già di per sé crude in quanto immediatamente riconducibili a uno stato di malessere, in questa occasione a renderle ancora più disturbanti è la certezza che in molti (troppi) casi l’appuntamento con il peggiore dei finali – la morte, da sempre legata all’iconografia dello scheletro – sia solo rimandato. Con la loro esibita sgradevolezza, i lavori di Luciana Aironi non intendono fare sconti: pretendono tutta l’attenzione possibile da parte della collettività, esattamente come farebbe una richiesta d’aiuto gridata a piena voce. Contro ogni indifferenza o reticenza, l’artista le pone di fronte ai nostri occhi ben sapendo quanto possa rivelarsi faticoso sopportarne la visione: uno sforzo necessario, un atto richiesto, addirittura preteso, che mira a suscitare una commozione autentica e fattiva, la stessa che caratterizza la consapevolezza del fenomeno nella sua osservazione al di là di ogni discorso ozioso e di ogni fuorviante apparenza. Con il suo nome evocativo, il progetto TOWANDA intende richiamare alla mente quel desiderio di giu-
stizia e di liberazione delle vittime dai loro oppressori reso esplicito dal personaggio di Evelyn Couch (interpretato da Kathy Bates) in una memorabile scena del film Pomodori verdi fritti alla fermata del treno (1991), trasposizione diretta da Jon Avnet del romanzo di Fannie Flag Pomodori verdi fritti al caffè di Whistle Stop (1987). Una parola quasi magica, TOWANDA, che ha confermato l’importanza e l’incidenza del linguaggio in ogni circostanza della vita, e dunque anche nell’ambito della violenza di genere. Nella settimana dal 23 al 29 novembre, inoltre, MANCASPAZIO ha promosso un’asta benefica on line con opere di artiste sarde (Luciana Aironi, Emanuela Cau, Beatrice Marinoni, Laura Saddi, Daniela Spoto) e la vendita di calzature da donna al prezzo di 5 e 10 euro: il ricavato dell’asta e della vendita delle calzature é stato interamente devoluto all’associazione Onda Rosa di Nuoro. Che sia bon ton o sbarazzina, determinata, sfacciata o romantica, qualsiasi donna può essere o essere stata una vittima di violenza.
Troverete Per le vie di Nuoro: i cartelloni con le opere realizzate per l’occasione da Luciana Aironi.
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Foto Massimo Locci
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ziu Antoni Cuccu” era un editore di San Vito. Ma non era solo un editore: era un profondo appassionato della lingua e della poesia sarda. Raccoglieva le poesie, le trascriveva in piccoli libri che nessuno voleva pubblicare, e che allora lui stesso pubblicava. E qui libri, racchiusi in una valigia, Antoni Cuccu li vendeva, in giro per le piazze dell’isola. Lui, le poesie e la valigia. Tziu Antoni Cuccu è morto nel 2003. La biblioteca di Villa Verde, a lui intitolata, il 17 settembre 2015 ha cominciato a catalogare il Fondo Antoni Cuccu che già da oggi può essere consultato attraverso l’Opac sardegna andando in”biblioteca Comunale Villaverde” e digitando semplicemente Cuccu in ricerca libera. Dopo l’inaugurazione del 26 giugno della biblioteca Comunale intitolata a “Tziu Antoni Cuccu”, visto l’entusiasmo e l’interesse attorno alla figura e all’opera dell’editore sanvitese, dopo avere ricevuto dal figlio Vittorino un importante numero di libri da lui editi e altre pubblicazioni, oltre alla tesi di laurea donata da Marta Vizzarri e il film “La valigia di Tidiane” donato da Umberto Siotto, l’obiettivo è costituire nella biblioteca un fondo che abbia come oggetto Antoni Cuccu. In questo fondo verranno
raccolte non solo pubblicazioni ma anche audiovisivi e testimonianze inedite sulla sua figura e opera. Fa riflettere il fatto che per poterle pubblicare Tziu Antoni ha raccolto e trascritto le poesie. Ciò che pubblicava lo vendeva direttamente girando per i paesi dell’intera isola, con una valigia e un lenzuolo che metteva in terra per poggiare i libretti. Così lui ha contribuito a far conoscere la poesia sarda degli improvvisatori che cantavano a bolu. Con questi preziosi libretti ci ha tramandato gare e ottave che diversamente avremmo perso per sempre. Tziu Antoni era di San
ANTONI CUCCU Vito, piccolo paese del sud est dell’isola dove nacque nel 1921. Andava in giro per le feste popolari, ascoltava le poesie della tradizione orale (quelle degli improvvisatori), le trascriveva in dei libricini, le pubblicava a sue spese e poi le vendeva in giro per le piazze. “Lo faccio io – diceva – dal momento che nessun altro lo fa”. Girava l’isola prima con una vecchia Bianchina e poi con una Panda scassata. Dormiva lì, assieme ad una valigia di cartone piena di libretti. Era la sua casa e la sua libreria viaggiante. Ad ogni festa paesana arrivava, stendeva un lenzuolo bianco e ci pog-
giava sopra le poesie. Le vendeva, guadagnandoci poco o nulla “ma a me interessa salvare la lingua sarda”. Lo ha sempre fatto in silenzio, sino al giorno della sua morte, nel 2003. Oggi quella valigia mal combinata è diventata uno dei più preziosi luoghi di memoria del popolo sardo. L’eredità di Antoni Cuccu è stata raccolta da un ragazzo immigrato dal Senegal in Italia negli anni 90, Cheick Tidiane Diagne • La sua storia è stata raccontata nel corto “La valigia di Tidiane Cuccu” (di Antonio Sanna e Umberto Siotto). bibliovillaverde@tiscali.it Tel. +39 0783 939187.
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Foto gabrieleboi
CALLU’E CRABITTU
orse su callu ‘e crabittu è stato il primo vero formaggio consumato dai nostri antenati europei. La sua semplicità e arcaicità lo pongono all’anno zero dell’addomesticamento dei ruminanti e ai primordi della fabbricazione di formaggi. Deve essere stata una gran scoperta capire che l’abomaso dei ruminanti lattanti conteneva un corredo enzimatico adatto a far coagulare il latte e a farne formaggi. Da quella scoperta casuale è partita l’avventura dei casari, che nei millenni hanno saputo caratterizzare migliaia di tipologie diverse di caci, partendo dalla stessa materia prima, il latte. Su callu ‘e crabittu altri non è che l’abomaso dei capretti non ancora svezzati; normalmente viene usato per far coagulare il latte e quindi per la produzione dei formaggi, ma nelle zone interne dell’Isola, dal Sarrabus-Gerrei all’Ogliastra sino al Barbagia, viene anche conservato come prelibatezza gastronomica e consumato tagliato a fette, dopo una certa lavorazione e una sapiente stagionatura. Il sapore è piccante, la crema di su callu infatti concentra tutte le proprietà e i sapori del latte caprino e degli enzimi contenuti nell’abomaso del capretto. Si può acquistare direttamente nei minicaseifici sparsi un po’ in tutta l’Isola e anche direttamente dal pastore di fiducia, che lo prepara con una cura maniacale essendo una specialità spesso riservata al consumo familiare. È uno dei 205 Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Sarde-
https://reportergourmet. com/153828/su-callu-e-crabittu-il-formaggio-spalmabile-piu-antico-del-mondo-che-arriva-dalla-sardegna.html
gna, riconosciuti dalla Regione Sardegna e dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali. Il pastore si avvale di una tecnologia produttiva semplice e arcaica. L’abomaso del capretto lattante viene svuotato dopo l’ultima poppata; il latte presente nell’abomaso viene filtrato, eliminando eventuali impurità e mescolato con latte fresco crudo di capra, il tutto è reinserito nell’abomaso e chiuso con spago alimentare alle due estremità. Viene appeso ad asciugare e maturare in luogo fresco e asciutto. Alcuni, lo fanno affumicare leggermente con due erbe caratteristiche della macchia mediterranea sarda, cisto (murdegu) e lentisco (modditzi). Il profumo delle erbe lo aromatizza in modo particolare. Mentre su callu sta maturando è possibile estrarre il caglio praticando un piccolo foro nella parte inferiore dell’abomaso; mentre la parte superiore è già solidificata ad opera degli enzimi, quella inferiore è ancora liquida. Bastano 25 cc di questo prezioso liquido per cagliare 50 litri di latte di capra e produrre il formaggio. Dopo circa 30/ 45 giorni di maturazione su callu ‘e crabittu (o casu de crabiddu, o caggiu de crabittu secondo le zone) è pronto. A questo punto si porta a tavola tagliato a fette o aprendo la sacca con un coltellino ed estraendo il contenuto con un cucchiaio, scenograficamente. Si consuma da solo, come una archeo-leccornia, o con del buon pane carasau e un bicchiere di vino rosso, sardo naturalmente, e di buona struttura. Alessandra Guigoni
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Foto monteleone rocca doria
ilvia Capiluppi si racconta e ci racconta tutto sul suo progetto dei LenzuoliSOSpesi arrivato in questi giorni al n.100 in questa lunga intervista sul filo rosso che lega persone, affetti, luoghi e ricordi in un’unica straordinaria narrazione. Barbara Pavan: Silvia Capiluppi e i LenzuoliSOSpesi. Ma non solo. Come è nata la tua ricerca artistica con il filo? SC: Il progetto dei LenzuoliSOSpesi è nato da un sogno ed è la manifestazione dell’esperienza di vita. All’alba del 14 febbraio 2018 sognai di ricamare il mio nome con il Filo Rosso su un Lenzuolo Bianco. Prima di quel momento avevo ricamato solo delle fotografie; da ragazzina mi divertivo a cucirle con la macchina a pedale e nel febbraio 2012 avevo iniziato a cucirle a mano. Mentre ero bloccata in casa per la rottura di una rotula, il Maestro Ercole Pignatelli mi propose di lavorare su due stampe della fotografa Ornella Cucci. Sulla prima creai una tenda con trentasei corde, nei cinque colori degli elementi della tradizione tibetana e 108 nodi scorpione di protezione; sulla seconda intervenni con un collage di fotografie, che avevo scattato ad una ballerina nel 2000 e ricamai con il filo rosso e
SILVIA CAPILUPPI un intervista di Barbara Pavan silviacapiluppi@ymail.com https://www.facebook. com/Pacifier-Pratiche-di-Evasione-di-Massa-179760286085299/ www.lenzuolisospesi.com
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LENZUOLI giallo delle puje indiane. Da quella esperienza nacque l’idea della mostra performativa ed esperienziale “Venti Veggenti – φtra la Luce”, che inaugurai nel novembre dello stesso anno a Vigevano, coinvolgendo 40 artisti e i bambini e dove si creò un dialogo grazie al filo con cui tessei 20 telai a raggiera dal centro dell’ex spazio industriale – studio dell’artista Carlo Vella – e ricamai le scritte su alcune mie fotografie e sui lavori degli artisti coinvolti. Seguì poi nel 2013 la video installazione “La Pupilla della Dea” e “Balam Project”, che mi guidò sino a Kathmandu. Insomma, il filo è lungo passando dai lavori per il Padiglione Tibet, a cura di Ruggero Maggi, alla tessitura nel 2014 dell’iride arcobaleno “Sri Eye” – l’installazione dedicata al terzo occhio della Dea dell’Abbondanza Lakshmi – in un tubo dell’acqua del diametro di 2.5 metri, presso il MAF – Museo Acqua Franca di Milano, dove poi l’anno seguente ho ricamato 21 zanzariere metalliche, per l’installazione “PIN”, dedicata alla ghiandola pineale. BP: I LenzuoliSOSpesi: un progetto in fieri a cui sei molto legata. Me lo racconti? SC: LenzuoliSOSpesi prende forma anche dal desiderio di comprendere gli esseri umani, osservandoli talvolta con lo sguardo di un’antropologa, o forse in
I SOSPESI
senso un po’ più lato di un’anemologa; nasce dall’egoismo di voler essere felice, circondata da persone felici, che sorridono per tutto ciò che sono e hanno; nasce dai giochi che facevo da bambina con le mie sorelle, quando costruivamo le capanne degli indiani con coperte e lenzuola, (da cui nacque anni dopo l’installazione “La Nave Itzà”, presso l’Acquario Civico di Milano, dove stesi/sospesi un labirinto/capanna di lenzuola ed invitai le persone a dedicare i loro pensieri d’amore all’acqua contenuta in fialette) unite poi ad altre fialette); nasce dall’esperienza di Progetto Nodo (il collettivo ad energia femminile, che fondai nel 2009 per la libera condivisione della bellezza e del sapere). Stavo cercando qualcosa e quel qualcosa forse ha trovato me. Mentre passavo l’ago, seguendo i tratti a matita degli 83 nomi di donne (nomi di sorelle, cugine, amiche, nomi di regine, di eroine e di dee, insieme lungo l’antico filo rosso, per raccontare che siamo tutti uniti da un’unica antica radice e che il nome che portiamo è stato scelto per noi, forse per riattivare antiche memorie) prese vita il 1° Lenzuolo, “Genogramma – il lenzuolo della Sorellanza”, e non avevo idea che avesse avuto inizio il racconto dell’infinita storia d’amore. Mai avrei immaginato che dopo alcuni giorni Ornella Cucci m’inviasse la fotografia del nome di sua sorel-
la, ricamato da lei con il filo rosso su un lenzuolo bianco; che Nubya Freitas da Silva mi scrivesse da Barcellona, per dirmi che vedendomi ricamare aveva iniziato anche lei a ricamare i nomi delle donne della sua famiglia – ne ricamò 127, tra cui anche il mio; che mi invitassero insieme a Marisa Albanese alla 1° Residenza per artisti presso T.A.NA. per ricamare i due Lenzuoli che intitolai “Il Libro della Storia – mi racconti la Storia? Scriviamola insieme”. La parola LenzuoliSOSpesi, prende spunto dalla tradizione napoletana del “caffè sospeso” – perché i Lenzuoli oltre ad essere regalati, sono da sempre sospesi nei vicoli di Napoli – e custodisce un S.O.S. , acronimo per me di Sail Our Souls e anche di Soul Our Sails. Dico sempre che i LenzuoliSOSpesi sono catalizzatori di impegno sociale condiviso; arazzi contemporanei, in una nuova forma di graffitismo metropolitano, con un medium – l’ago e il filo rosso – che invita al tempo lento e alla gioia di stare insieme. I Lenzuoli possono essere tappeti volanti, mantelli magici, veli, sudari, grandi bandiere di preghiera Lung-ta, che condividono il loro messaggio d’amore, con tutto il creato. Sono porte d’accesso alla gioia e all’abbondanza. Sono vele di un grande veliero salpato nella notte (segue pagina 26)
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(segue dalla pagina 27) del 9 marzo 2018, quando, in occasione dell’inaugurazione della mostra di Paola Rizzi, – per la presentazione del libro “Un gelato per Amore”, scritto da Roberta Colli e Massimilano Scotti, il cui ricavato di vendita è devoluto all’Associazione Kore – fui invitata a realizzare una perfomance e al grido di “Liberi tutti!” prese forma la 1ª PEM – Pratica di Evasione di Massa – di Pacifier, la Donna Falco pacificatrice, rieducata ai sensi grazie al contatto con le persone amorevoli, che l’hanno aiutata a liberarsi dallo chaperon – il copricapo per l’addestramento dei falchi, che privandoli della vista fa sì che s’immobilizzino, rinunciando a volare. I Lenzuoli sono scrigni di anime amanti e vanno trattati con rispetto. Abbiatene cura, mentre loro si prendono cura di noi. Io: Dopo il primo lenzuolo, ne sono stati attivati quasi 100, ad oggi. Come funziona l’attivazione? Chi ti contatta abitualmente e come? SC: Di solito chi sceglie di dare inizio ad un nuovo Lenzuolo mi contatta tramite Facebook, scrivendomi su Messenger sul mio profilo personale o sulla pagina di “Pacifier – Pratiche di Evasione di Massa”, dove al momento sono caricati gli album fotografici, i video e le informazioni dei quasi 100 LenzuoliSOSpesi; esiste anche il sito in costru-
zione http://www.lenzuolisospesi.com, dove già ora è possibile compilare una scheda, indicando i propri dati di contatto, una descrizione del Lenzuolo che si intende ricamare e il titolo che si propone. Anche se si ricamano prevalentemente nomi, il titolo funziona da connettore delle persone, che parteciperanno. Segue una telefonata, per parlarne e poi viene assegnato un numero in progressione, che dovrà essere ricamato sul Lenzuolo stesso, così da poterlo riconoscere, quando verrà esposto insieme ad altri. Ho dato pochissime “regole”, perché so che spesso ne abbiamo necessità per non perderci e perché ricordo il professor Corrado Levi che all’inizio del corso di Composizione III ad Architettura ci disse: “Questa è probabilmente l’ultima occasione che avrete per essere liberi; fuori di qui ci saranno i committenti, i regolamenti comunali…Date spazio alla fantasia e divertitevi!” Il primo nome ricamato sul 1º Lenzuolo “Genogramma – il lenzuolo della Sorellanza” È semplice! Basta avere un lenzuolo bianco, possibilmente matrimoniale – così c’è più spazio – magari di quelli delle nonne, tessuti a mano per il loro corredo o preparati per il nostro; chiusi ormai da tantissimi anni negli armadi e felici di tornare a respirare nel vento, per condividere i sogni. Se non l’avete potete chiede-
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re! A me, ad esempio, Maria Cristina Tebaldi e Monique Anghileri ne hanno donati tantissimi. E poi occorre una matita, un ago e il filo rosso. Il filo rosso è presente in tante antiche tradizioni, dalla Pūjā indiana, ai rituali tibetani, al filo rosso fatto girare intorno alla tomba della grande matriarca Rachele; dona protezione e forza per immaginare il nostro mondo, ricordando che, come disse James Hillman, l’anima è l’atto stesso dell’immaginare. Le curatrici e i curatori dei Lenzuoli ne diventano responsabili ed organizzano il ricamo, documentandone le varie fasi con fotografie e per chi vuole anche con video, che vengono poi condivisi sulla pagina Facebook e al più presto sul sito. Consiglio sempre di tenere un diario, dove annotare eventuali pensieri personali e delle persone che partecipano…chissà che in un futuro non possano poi diventare dei libri. Spesso chi mi contatta, ha partecipato al ricamo di un Lenzuolo, o ne ha sentito parlare, tramite il passa parola o leggendo un articolo. BP: Alcuni lenzuoli hanno temi legati al sociale, altri sono un sostegno a battaglie per i diritti civili. Ce ne racconti qualcuno? SC: Il progetto nasce con l’intento di portare l’attenzione sulla tutela delle donne, estendendosi poi naturalmente alla tutela della natura, della Madre Terra e
dell’anima, perché credo che solo rispettando le donne possiamo avere rispetto di tutto ciò che ci circonda. Ad oggi vi sono 97 Lenzuoli ricamati da migliaia di persone in Italia e all’estero. Ci sono Lenzuoli ricamati da associazioni, scuole, gruppi privati, centri antiviolenza, strutture di supporto ai disabili, Università delle Tre Età, Fondazioni e così via. Presso il Museo Madre di Napoli per “MeM – Me e Madre” – il workshop che ero stata invitata a realizzare, in occasione del progetto didattico “Io sono Felice!” promosso dalla Fondazione Donnaregina per le Arti Contemporanee, dedicato all’integrazione sociale – più di 250 persone hanno ricamato due Lenzuoli in quattro giorni, con i loro nomi e i nomi di figure genitoriali, che hanno svolto la funzione di Madre; presso la Casa Circondariale Femminile di Lecce le detenute hanno ricamato un Lenzuolo, migliorando le relazioni interpersonali e dando poi vita ad una performance teatrale, che le ha viste protagoniste, nel narrare cos’ha significato per loro l’esperienza, cos’ha rappresentato il Lenzuolo e la storia dei loro Nomi C’è il Lenzuolo delle “AMATE”, ricamato da quaranta donne, in una staffetta di quaranta giorni, durante i quali ognuna ha ricamato il proprio nome e i nomi di persone, (segue pagina 28)
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(segue dalla pagina 27) da cui si sente amata; c’è “Mater Water”, ricamato presso la Centrale dell’Acqua di Milano, insieme agli artisti dell’Associazione e Movimento “Arte da mangiare mangiare Arte” e poi varato nel Naviglio dai canoisti della Canottieri San Cristoforo; c’è il Lenzuolo della Squadra di Rugby Femminile di Napoli; c’è quello dagli atleti nazionali di windsurf e vela; c’è “TiAMAtrice”, il Lenzuolo per ricucire il tessuto sociale della terra colpita dal sisma e il Lenzuolo ricamato in ZOOM durante la quarantena, per continuare ad essere insieme. Ci sono i Lenzuoli ricamati dagli ospiti dell’RSA “Residenza Rosetta” di Crema, che dopo aver terminato durante il lockdown il primo Lenzuolo “Rosetta insieme” – intorno al quale si sono riuniti, dandogli forza ed energia per tutti noi – hanno iniziato “W ROSETTA” e a breve inizieranno il loro terzo Lenzuolo. Pur non essendoci mai incontrati fisicamente, il legame che ci unisce è fortissimo. Dopo aver esposto a BORDERLINE – Arte Festival Varallo e poi alla Baia di Parè il loro primo Lenzuolo, ricamato con grande armonia ed eleganza l’ho indossato come un mantello, sentendone tutto l’amore, in un abbraccio capace di travalicare lo spazio-tempo. Talvolta ci scambiamo video, raccontandoci
le novità e tutto questo fa bene al mio cuore. C’è il Lenzuolo che il writer FLYCAT ha ricamato con il suo nome e ha donato al progetto, dopo aver scritto con le bombolette spray il titolo della mostra “Soul Our Sails”, tenutasi lo scorso anno, in occasione di “Habitat – abitazioni d’artista – 1a Biennale OFF” a Milano; quello dell’architetto Mario Quadraroli, dedicato a “NATURARTE – percorsi artistici nel lodigiano dal 1998”; il Lenzuolo “Pianeta Terra – verde complementare”, dove le persone possono simbolicamente stringere un patto d’alleanza con le varie parti della Terra, ricamando il proprio nome sul planisfero. C’è il 68° LenzuoloSOSpeso voluto da Diana De Marchi – che presiede la Commissione Pari Opportunità e Diritti Civili del Comune di Milano – e ricamato lo scorso febbraio, presso il Consiglio Comunale (è stato incredibile vedere come gli Assessori e i Consiglieri comunicassero con grande calma, perché concentrati nel prestare attenzione al punto; sarebbe fantastico far ricamare durate le riunioni e magari un giorno anche in Parlamento). C’è l’87° Lenzuolo “Mas de 72 MEMORIA VERDAD Y JUSTICIA – per ricostruire il futuro” a cura di Daniela Gioda con Carovane Migranti a 10 anni dal massacro di oltre 72 migranti a Tamaulipas, Messico. “SFILATA DEI LENZUOLI” – Naviglio Grande, 14
febbraio 2019 – Milano BP: Il ricamo è un medium lento e anche di condivisione. C’è un ulteriore lettura di questo progetto in questo senso? SC: Quando ho ricamato il primo Lenzuolo sono rimasta affascinata dal gesto della mano e dal suono sordo dell’ago che dopo aver trapassato la tela, si affaccia sul vuoto per far scorrere il filo in un sussurro. L’ago diviene una piccola e potente spada pacifica, a tutela della libertà, della natura e dell’anima. Il movimento diventa ipnotico, quasi estatico. Ricamare da sola un Lenzuolo è una traversata in solitaria nell’oceano delle emozioni; è una pratica di meditazione e forse una guarigione sistemica. 40º “Sail Our Souls” a cura di Surferia – Baia di Parè (LC) Le nostre nonne la sapevano lunga; avevano imparato a fare tesoro delle pratiche; l’avevo già percepito con il progetto “Pasta Madre” che avevo sviluppato insieme a “Progetto NoDo” invitando le persone ad impastare il lievito naturale del pane, per entrare in contatto con la memoria e attivare il Meridiano di Rene – Polmone, che passa nelle ascelle. Muovere le mani in modo creativo, attiva nuove sinapsi cerebrali. I LenzuoliSOSpesi sono quasi sempre ricamati in gruppo e questo crea lo scambio, nella gioia di stare
insieme. Si condividono racconti di vita con persone che magari non si conoscono; si riscopre il piacere di ascoltare e ascoltarsi. 9º “Mater Water”, ricamato presso la Centrale dell’Acqua di Milano, insieme agli artisti dell’Associazione e Movimento “Arte da mangiare mangiare Arte” BP: Chi sono i/le ricamatori/trici dei tuoi lenzuoli? Che cosa viene ricamato sui lenzuoli abitualmente? SC: Il progetto è assolutamente trasversale! Ricamano tutti, uomini, donne, bambini senza limite di età. Non è necessario saper ricamare, anzi è quasi meglio non aver mai preso in mano un ago, perché non si tratta di mettersi alla prova nel bel ricamo; ciò che è importante è il volerci essere, insieme. Si ricamano i Nomi. Si dice che il nome porti già scritto il progetto. Nomen omen – “il nome è un presagio, un destino”; forse è un mantra, capace di richiamare gli spiriti tutelari, i numi – Nomen Numen. Già il solo scriverlo a matita sul lenzuolo è un momento importante. Scegliere il punto dove scriverlo, lisciare il lenzuolo per preparare il campo, crearsi lo spazio e poi ricamarlo, con l’attenzione ad ogni singolo punto, senza forzare, seguendo il flusso del respiro e lasciando svuotare la mente (segue pagina 30)
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(segue dalla pagina 29 del rumore costante di fondo è un dono. Se poi si decide di ricamare il nome di persone che si amano, il cuore si apre, ricordando tutto quello che ci lega in un augurio d’amore. Spesso vengono poi anche disegnati simboli: cuori, fiori, spirali, labirinti, biciclette, scarpe, stelle… quasi a ricordare degli ex voto. Nel periodo del lockdown più di una ventina di Lenzuoli sono usciti dagli schemi e credo che siano stati un’importante manifestazioni del momento storico e anche dei rituali di guarigione. BP: Quando un lenzuolo è terminato, qual è la sua sorte? Viene esposto? In quali luoghi e in quali occasioni? SC: Il Lenzuolo resta ai Curatori, che possono autonomamente organizzare delle esposizioni, comunicandone le coordinate, a tutte le persone collegate al Filo Rosso; oppure i Lenzuoli vengono esposti insieme, come nel caso della mostra di Fiber Art “Poetici Orditi”, curata da Marisa Cortese la scorsa estate, presso la Fabbrica della Ruota a Pray, presso Villa Giulia a Pallanza, alla Baia di Parè sulla facciata della casa di famiglia o come è successo negli scorsi anni presso il carcere di Lecce, a Napoli nei quartieri Spagnoli e al Museo Madre, all’Arsenale di Bertonico, a Vigevano presso il Castello, a Cesano Maderno presso
Palazzo Arese Borromeo, in occasione della giornata contro la violenza sulle donne: i LenzuoliSOSpesi si prestano per essere esposti con grande semplicità ovunque e ci sono già nuovi appuntamenti per la prossima primavera. BP: Quanti e quali lenzuoli sono attivi al momento? SC: Al momento sono attivi 25 Lenzuoli. Due sono stati recentemente attivati: il 97° “Ossigeno” a cura di Cristina Pennati a Varese e il 94° “Infinite siamo noi” a cura di Adriana Perego a Chiavenna. A breve avrà inizio anche il 95° Lenzuolo a cura di Alessia La Salandra con i suoi studenti delle scuole superiori in provincia di Foggia e il 96° Lenzuolo a cura degli ospiti della Residenza Rosetta di Crema. Sono in corso di ricamo il 93° “Il Viaggio” a cura di Francesco Lasalandra a Cinisello Balsamo; il 92° “TiAMArice” a cura di Barbara Pavan e Fabrizio Berardi ad Amatrice; il 91° a cura di Maritta Nisco a Cinisello Balsamo; l’89° “Progetto Ombra incontra i LenzuoliSOSpesi” che ricamerò, dopo aver tracciato le linee insieme a Ruggero Maggi, nel corso di una performance presso Palazzo Zanardi Landi a Guardamiglio lo scorso 18 ottobre; l’87° “Mas de 72 MEMORIA VERDAD Y JUSTICIA” a cura di Daniela Gioda a Chieri; l’83° “Discorsi tra generazioni” a cura di Simonetta Battoia a Genova; il 79° “Buon Riposo”
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iniziato da Agata Bernard, che me l’ha poi passato; il 74° “Amata Cernusco Ama” a cura di Maria Cristina Tebaldi a Cernusco; il 70° “SERENDIPITY” a cura di Roberta Moretti a Casatenovo; il 69° “Le paperette di Nolo” a cura di Irene Biassoni a Nolo, Milano con i bambini; il 68° a cura di Diana De Marchi a Milano; il 66° “Alla sera il mio nome canta” a cura di Cris Carry a Milano; il 65° “IL DONO” per il Maestro Ercole Pignatelli; il 64° “Assieme si fanno cose meravigliose” a cura delle Socie di Quiltitalia; il 45° “Il Lenzuolo delle Rimembranze” a cura di Angelo Reccagni. Restano aperti ad accogliere nuovi nomi anche il 44° “AmaTI – AmaLO” a cura di Cristina Robbiani e Maria Cristina Tebaldi tra Ticino (CH) e Lombardia; il 42° “GUARDANDO QUEL RAMO DEL LAGO DI COMO” a cura di Irene Biassoni a Milano; il 29° “Madri*Comadri*Sorelle” a cura di Margherita Arkaura; il 26° “TUTTO PASSA”a cura di Annamaria Festa a Casseggio e il 10° “ama Lui ama lei” a cura dell’Osservatorio Figurale di Milano. Sta inoltre per essere ultimato il 100° Lenzuolo “Chiamami amore” a cura di Ornella Cucci, che ha voluto ricamare da sola la parola AMORE in 100 differenti idiomi, come messaggio ben augurante a tutti noi insieme nel mondo. A breve inizierò il 101° ricamando i Titoli dei primi
100 LenzuoliSOSpesi, che andranno a comporre il Racconto. BP: Quale futuro per questo progetto? SC: Sinceramente non lo so e questo mi piace, molto! Mi piace l’idea di lasciarmi sorprendere da quello che verrà! Come ogni volta che qualcuno propone un nuovo lenzuolo ed è per me una sorpresa vedere le fotografie, gli scritti e i video. Potrebbe diventare un libro cartaceo con le storie dei primi 100 lenzuoli; potrebbe diventare una raccolta di brevi racconti del 79° Lenzuolo “Buon Riposo”…potrebbe… Solitamente i desideri non si dicono, ma oggi, mentre scrivo è una giornata speciale: la Dea Lakshmi fa visita alle case per potare abbondanza e realizzare i sogni e dunque se dovessi pensare ad un futuro per questo progetto, vorrei che nel mondo tantissime persone si riunissero per ricamare i Lenzuoli, così da poter sentire la gioia che questo porta; mi piacerebbe che i Lenzuoli venissero esposti ovunque, così che chi potrà avere la fortuna di passargli accanto, possa sentire l’abbraccio d’amore con cui sono tessuti. Vorrei che diventassero il corredo del mondo. dabibiva6918 nov; 2020 silviacapiluppi@ymail.com h t t p s : / / w w w. f a c e b o ok.com/Pacifier-Pratiche-di-Evasione-di-Massa-179760286085299/ www.lenzuolisospesi.com
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l mio percorso artistico attraversa diverse discipline e canali espressivi: la pittura, la fotografia, il cucito per approdare nel 2014 da autodidatta nell’arte del macramè.
Dialogo con la materia e il pensiero trasformando la quotidianità in una inarrestabile ricerca poetica dell’eterno mutamento. Le foto pubblicate in questo sito sono realizzate dalla sottoscritta. Corso di studi: Accademia di Belle Arti di Bologna con Concetto Pozzati e Accademia d’Arte e Design L. Cappiello di Firenze. https://www.marisaiotti. com/about-me-materials
MARISA IOTTI
Nodo dopo nodo è stato spontaneo avvicinarmi alla fiber art, addentrarmi negli intrecci delle trame e degli orditi della tessitura, muovermi con le dita tra le diverse tensioni dei fili, plasmare la maglia della tessitura come fosse una scultura, conversare con la luce e l’ombra, con i pieni e i vuoti.
Foto marisaiotti
Il macramè è una tecnica ornamentale antichissima che consiste nell’annodare i fili con le mani, senza l’utilizzo di strumenti.
O
ggi 25 Novembre 2020 è la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Parlo della più grande violazione dei diritti umani attraverso le mie opere realizzate in questo triste periodo di pandemia. Un progetto artistico nato pensando che ancora oggi è urgente agire e ribellarsi alla violenza fisica e psicologica, rifiutando i ruoli imposti da una società maschilista. La privazione della parola interrompe e impedisce la costruzione della propria soggettività e dunque il percorso verso la libertà. Dare voce al silenzio. Pretendere la libertà. L’aggressione con #acido o “vitriolage” è una forma devastante e premeditata di violenza perpretata ai danni di una persona - molto spesso una giovane donna - gettando sul suo viso e/o sul corpo sostanze corrosive per sfigurarla e mutilarla. Un vero e proprio atto di tortura che, soprattutto in alcune aree del mondo, è puttroppo pratica diffusa. Una riflessione sugli effetti di questa violenza feroce che lascia profonde ferite e cicatrici - fisiche, psichiche e spirituali. Marisa Iotti https://www.marisaiotti.com/fiber-art
GIORDANO BRUNO
Foto andreazuccapais
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on so se conosci la storia del monumento a Giordano Bruno in Campo de’fiori a Roma. Il mio bisnonno vi contribui da giovane universitario ed io ne conservo il documento completo attestante la sua realizzazione. Un comitato di studenti universitari ideò e promosse la costruzione della statua a Giordano Bruno a Campo de’ fiori a Roma. Era il marzo 1876 e l’imminente chiusura dell’Università vaticana al Palazzo d’Altemps avrebbe riempito di filoclericali la Sapienza, che già era tutt’altro che favorevole alle idee liberali. Frequentando un ambiente letterario molto liberale che li influenzò molto, questo gruppo di studenti appartenenti alla nobiltà romana massonica ed antipapalina lanciò una sottoscrizione, cioè una colletta , in tutte le scuole superiori ed università d’Europa e persino d’ America per far erigere un monumento a G.Bruno proprio nel punto in cui era stato messo al rogo, ossia a Campo de’ fiori. Attraverso manifesti in varie lingue ed anche in latino, aiutati dal loro Prof. Cugnoni, riuscirono in breve tempo a raccogliere i fondi necessari. Un’impresa colossale per i tempi, in assenza di ogni mezzo tecnologico di communicazione rapida. In 25 si riunirono per la prima volta la domenica 12
marzo 1876 nella Sala delle Logge Massoniche in via della Valle a Roma. Si divisero i compiti, presero contatto con le tipografie disponibili e trovarono molti ostacoli. Il loro compagno Stanislao Torlonia fu costretto dalla famiglia a ritirare la sua adesione all’iniziativa perché in grave imbarazzo di fronte alle gerarchie Vaticane, con le quali aveva avuto da sempre stretti rapporti. I soldi furono raccolti fino al 1878 e alla fine furono incassate Lire 7.573,80. Tra i sottoscrittori compaiono, oltre agli studenti del Comitato, tantissime scuole ed università del mondo, Garibaldi, Bovio, Carducci, Crispi, Minghetti, Mamiani, Victor Hugo, Renan e tanti altri intellettuali del tempo. Nel frattempo si fecero tutte le pratiche al Comune di Roma, dove trovarono un’ostinata resistenza a concedere proprio Campo de’ fiori per la collocazione della statua. Ma gli studenti non demordevano: ‘’O Campo de’ fiori o nulla ‘’ dicevano. Si era giunti al 1879 e molti dei 24 studenti promotori si erano laureati ed erano tornati a casa. Quelli rimasti a Roma continuavano ad insistere con il Comune e vari giornali e sodalizi democratici appoggiavano la loro iniziativa. Nel 1884 si costituì un secondo comitato universitario (segue pagina 34)
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A BRUNO IL SECOLO DA LUI DIVINATO QUI DOVE IL ROGO ARSE
Noi, invero, ci siamo consacrati a quel genio (che ci permette di scrutare intrepidi il fato e le tenebre davanti a noi); non mostriamo un cuore ingrato ai doni degli Dei, ciechi alla luce del Sole, sordi alle distinte voci della natura. Non ci preoccupiamo di che cosa dica di noi l’opinione degli stolti né di quali sedi sia degna, ben più in alto e con ali migliori noi siamo saliti e, per quanto basta, abbiamo visto che cosa esiste oltre le nubi, che cosa oltre i sentieri dei venti.
foto rossanacorti
(segue dalla pagina 33) che riusci a portare a termine l’iniziativa di erigere la statua a Bruno e a questo contribuì anche Ettore Ferrari , professore dell’Istituto Superiore delle Belle Arti, di convinta fede repubblicana, deputato al Parlamento del Regno d’Italia per tre legislature e Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia. Ferrari fece la statua che fu inaugurata il 9 giugno 1889. Ci vollero solo 13 anni, un’inezia di fronte ai tempi odierni. Il volto di Bruno è volutamente rivolto verso San Pietro in Vaticano, in cui fu decisa la sua orribile fine. Ed io ogni volta che ci passo mi commuovo. Non sono massone, ne credente, ma comprendo ed apprezzo il vostro mondo, Ciao Paola Giannetti
È una mostra disincarnata che, però, vuole farsi racconto per anime: e NON per piangere, ma per vivere, immersi in Questa realtà, nonostante la sua natura distopica. Non so se ho spiegato il concept a sufficienza...Rossana Corti uongiorno Rossana, prima che lei ci parli di questa sua mostra che ci sta presentando mi piacerebbe che ci dicesse come, quando, dove e perché ha iniziato a esprimersi artisticamente Buongiorno! Da quando ho memoria di me, a due-tre anni, mi sono espressa disegnando I miei primi maestri sono stati gli illustratori delle fiabe, a cominciare dal ceco Vojtěch Kubašta (1914-1992) che scoprii in un libro non rivendicato come caro da nessun nome, nella casa in cui vivevo coi miei Nonni. Anni dopo, all’Artistico avrei ritrovato quella idealizzazione dei volti e dei corpi femminili, nella copia di un busto di Francesco Laurana (1430-1502), quello attualmente definito “Busto di donna”. Non ho mai smesso di cercare, con desiderio, la forma che racchiude anima e segni simbolici, capace di rimandare a un altrove. L’algida perfezione della statuaria di Antonio Canova, per me, non vale neanche un grammo dell’Opera di Donatello! E non provo nessuna ammirazione per sculture, dipinti e disegni iperrealisti salvo non vengano “animati” o anche
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resi “porte” per condurre ad altre riflessioni, di tipo ontologico soprattutto. Il Liceo Artistico è venuto dopo il mio primo diploma e nonostante l’Università e la mia vita che sembrava già scritta (da altri). Ci sono entrata, perché senza quel percorso sarei morta, dentro il guscio non mio che mi era stato imposto come “adeguato”. E grazie all’Artistico è iniziata la seconda vita, scritta solo “secondo me”, nonostante tutti i “venti contrari”. Questo “guscio” era un mestiere “serio” avvocato, medico, architetto, industriale, invece di “Artista”? Ovvio. Il Liceo Artistico non era mai stato contemplato come possibilità, nonostante il mio evidente amore. Neanche da me, ad esser sincera, perché... dovevo onorare le aspettative. Quindi il Liceo Artistico é stata una scelta quasi obbligata ma penso che non sia bastata, che cos’altro l’ha inspirata in seguito ? In che anno si diploma al Liceo Artistico e come avvia un’attività artistica oggi permanente ? Quali sono le tappe successive della sua produzione ? Mi sono diplomata nel Luglio 2006 con una tesina su “Il Golem - La materia vivente”. Dapprincipio pensavo che mi sarei trasferita a Carrara per studiare Scultura, tant’è che avevo fatto sopralluoghi e colloqui con i docenti dell’Accademia.
Poi... mi sono trattenuta qui, evidentemente perché non era il percorso che davvero volevo. Altrimenti lo avrei vissuto. Rimanere in Sardegna é stata quindi una scelta, come considera la sua attività artistica appunto nell’isola e come risente l’ambiente artistico regionale? Ho iniziato il mio percorso artistico concreto nel Settembre 2007, con una mostra collettiva, “In Nome della Privacy”, dedicata alla riflessione sulla violenza contro le donne. Era stata appena approvata dal Governo Regionale guidato da Soru la Legge n.8 del 7 Agosto 2007 per l’Istituzione dei Centri Antiviolenza e delle Case Protette per le donne e i bambini vittime di maltrattamenti. Sì, restare in Sardegna è stata una scelta, sempre più consapevole, che ha comportato parecchie “lezioni” da imparare, sul campo rigorosamente sul campo. Putroppo/per fortuna/così è... qua in Sardegna esiste un sistema dell’Arte a sé stante, spesso limitato nella concreta attuazione delle proprie ambizioni. E su questo punto non aggiungerò altro. Non credo che il mio destino dipenda dal sistema dell’arte Sardo: non faccio avendo come riferimento una sola realtà geo-politica e socio-economico-culturale.. Rosanna Corti. Grazie Intervista realizzata via Messanger il 27 novembre 2020 tra Cagliari e Parigi.
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itkala-Ša (“Uccello rosso”) é nata nella riserva indiana di Yankton nel Sud Dakota il 22 febbraio 1876. Membro dello Yankton Dakota Sioux, è stata cresciuta dalla madre dopo che il padre ha abbandonato la famiglia. Quando aveva otto anni, i missionari quaccheri visitarono la riserva, portando diversi bambini (tra cui Zitkala-Ša) a Wabash, nell’Indiana, per frequentare l’Indiana Institute of Manual Labor di White’s Indiana. Zitkala-Ša se ne andò nonostante la disapprovazione della madre. In questo collegio, a Zitkala-Ša é stato imposto il nome di Gertrude Simmons. Frequentò l’istituto fino al 1887. Scrisse sia della sua grande gioia nell’imparare a leggere e scrivere e a suonare il violino, sia del suo profondo dolore e dolore per aver perso la sua eredità per essere stata costretta a pregare come quacchera e a tagliarsi i capelli. Tornò a vivere con la madre nella riserva di Yankton nel 1887, ma se ne andò solo tre anni dopo. Dopo le sue esperienze all’Istituto non si sentiva a suo agio. All’età di quindici anni è tornata all’Istituto per continuare la sua formazione. I suoi studi di pianoforte e violino hanno portato l’Istituto ad assumerla come insegnante di musica.
ZITKALA-SA
Pubblicato da Palazzi A Venezia del dicembre 2020. vedi https://issuu.com/vittorio.e.pisu/docs/pavdecembrecomplet2020
Si è laureata nel 1895. Dopo aver ricevuto il diploma, Zitkala-Ša ha tenuto un discorso a sostegno dei diritti delle donne. Invece di tornare a casa, Zitkala-Ša ha accettato una borsa di studio per l’Earlham College di Richmond, in Indiana. Fu a Earlham che iniziò a raccogliere storie di tribù aborigene. Ha tradotto queste storie in latino e in inglese. Nel 1897, appena sei settimane prima di laurearsi, Zitkala-Ša dovette lasciare Earlham per motivi finanziari e di salute. Ancora una volta, ha scelto di non tornare nella riserva. Si è invece trasferita a Boston, dove ha studiato violino al New England Conservatory of Music [1]. Nel 1899, accetta un posto come insegnante di musica alla Carlisle Indian Industrial School di Carlisle, Pennsylvania [2]. Dal 1879 al 1918, questa fu la scuola residenziale indiana più importante degli Stati Uniti, e servì da modello per molti altri. Nel 1900, la scuola trasferì nuovamente Zitkala-Ša nella riserva di Yankton per ospitare più studenti. Rimase scioccata nello scoprire che la casa della sua famiglia era in cattive condizioni, che la povertà era grande e che i coloni bianchi stavano occupando la
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terra donata al popolo di Yankton Dakota dal governo federale. Ritornò a Carlisle e cominciò a scrivere sulla vita dei nativi americani. Le sue storie autobiografiche e Lakota ritraevano il suo popolo come generoso e amorevole, invece dei comuni stereotipi razzisti che ritraevano i nativi americani come selvaggi ignoranti. Questi stereotipi sono stati usati come argomenti per giustificare l’assimilazione dei nativi americani nella società bianca americana. I suoi scritti, profondamente critici nei confronti del sistema scolastico residenziale, sono stati pubblicati su riviste nazionali inglesi, tra cui Atlantic Monthly e Harper’s Monthly. Nel 1901, scrisse un articolo per Harper’s Monthly che descriveva la profonda perdita di identità subita da uno studente della Carlisle Indian School. E’ stata licenziata. In seguito, ha trascorso un po’ di tempo a casa nella riserva, occupandosi della madre e raccogliendo storie per il suo libro, Old Indian Legends. Ha lavorato anche nell’ufficio dell’Office of Indian Affairs (OIA) nella Standing Rock Indian Reserve come impiegata. Sposò il capitano Raymond Talefase Bonnin nel 1902.
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Furono inviati nella riserva di Uintah-Ouray nello Utah, dove vissero e lavorarono per i successivi quattordici anni. Mentre erano lì, ebbero un figlio, Raymond Ohiya Bonnin. Nel 1910, Zitkala-Ša ha incontrato William F. Hanson, professore alla Brigham Young University dello Utah. Insieme, hanno collaborato a un’opera. L’Opera “Sun Dance” fu completata nel 1913. Sulla base del rito sacro dei Sioux, vietato dal governo federale, Zitkala-Ša ha scritto il libretto e le canzoni. La Sun Dance Opera è la prima opera scritta da nativi americani. Simboleggia il modo in cui Zitkala-Ša ha vissuto e ha colmato il divario tra il suo mondo tradizionale dei nativi americani e il mondo bianco americano in cui è cresciuta. Mentre si trovava nella riserva di Uintah-Ouray, Zitkala-Ša si è unita alla American Indian Society, un gruppo fondato nel 1911 per preservare la cultura tradizionale dei nativi americani, facendo pressione per la piena cittadinanza statunitense. A partire dal 1916, Zitkala-Ša è stata segretaria della Società. In questa posizione, ha corrisposto con la (BIA). Si è fatta sempre più sentire nella sua critica alle politiche e alle pratiche assimilative dell’Ufficio di presidenza, denunciando l’abuso dei bambini quando, per esempio, si rifiutavano di pregare come cristiani. (segue pagina 38)
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(segue dalla pagina 37) Suo marito Raymond fu licenziato dall’ufficio della BIA nel 1916. La famiglia si è trasferita a Washington. Zitkala-Ša ha continuato il suo lavoro con la American Indian Society, dove ha lavorato con Marie Louise Bottineau Baldwin. Dal 1918 al 1919, Zitkala-Ša ha diretto il suo giornale, l’American Indian Magazine. Ha tenuto conferenze in tutto il Paese per promuovere la conservazione delle identità culturali e tribali degli indiani d’America (sebbene fosse fortemente contraria all’uso tradizionale del peyote, dei likeni e agli effetti distruttivi dell’alcol nelle comunità native). Pur essendo fortemente critica nei confronti dell’assimilazione, credeva fermamente che i nativi americani dovessero essere cittadini americani e che come cittadini dovessero avere il diritto di voto: “Sulla terra che una volta era sua - l’America - non c’è mai stato un momento più opportuno di adesso per gli americani di liberare l’uomo rosso” [3]. Come gli originari occupanti della terra, ha detto, i nativi americani devono essere rappresentati nell’attuale sistema di governo. La legge federale sulla cittadinanza indiana è stata approvata nel 1924. Ha concesso i diritti di cittadinanza statunitense a tutti gli indiani d’America.
Tuttavia, non ha garantito il diritto di voto. Gli Stati hanno mantenuto il potere di decidere chi poteva e chi non poteva votare. Nel 1926, Zitkala-Ša e suo marito fondarono il Consiglio nazionale degli indiani d’America. Fino alla sua morte, avvenuta nel 1938, Zitkala-Ša è stata presidente, raccolta fondi e oratore. Il Consiglio ha lavorato per unire le tribù di tutti gli Stati Uniti per ottenere il diritto di voto per tutti gli indiani. Lavorò anche con i gruppi a suffragio bianco e fu attiva nella Federazione Generale dei Club delle Donne dal 1921. Questo gruppo ha lavorato per mantenere una voce pubblica per le preoccupazioni di diverse donne. Zitkala-Ša ha istituito il Comitato del benessere indiano della Federazione nel 1924. In quell’anno, ha lanciato una campagna per registrare gli indiani d’America a votare, incoraggiando coloro che potevano, ad impegnarsi nel processo democratico ed a sostenere le leggi che avrebbero risolto i problemi degli indiani d’America: “Gli indiani ricchi e poveri dell’Oklahoma: un’orgia di innesti e sfruttamento delle cinque tribù civilizzate Rapina legalizzata”. Questo articolo è stato determinante per far sì che il
governo indagasse sullo sfruttamento e la frode degli indiani d’America da parte degli stranieri per ottenere l’accesso alle terre ricche di petrolio e per far passare l’Indian Reorganization Act del 1934. Fino alla sua morte, avvenuta il 26 gennaio 1928, Zitkala-Ša ha continuato a lavorare per il miglioramento dell’istruzione, dell’assistenza sanitaria e del riconoscimento legale degli indiani d’America e per la conservazione della cultura indiana americana. E’ morta a Washington, DC. È sepolta nel cimitero nazionale di Arlington con suo marito. Condividendo una lapide, è commemorata come: “Sua moglie / Gertrude Simmons Bonnin / Zitkala-Ša degli indiani Sioux / 1876-1936” [5]. Note: 1] Il New England Conservatory of Music, situato al 290 di Huntington Avenue, Boston, Massachusetts, è stato aggiunto al Registro Nazionale dei luoghi storici il 14 maggio 1980. 2] La scuola indiana Carlisle di Carlisle, in Pennsylvania, è stata aggiunta al Registro nazionale dei siti storici il 15 ottobre 1966. È stato designato sito storico nazionale il 4 luglio 1961. Esplora la storia della Scuola Industriale Indiana Carlisle con il nostro piano di lezioni sull’educazione dei luoghi storici, “La Scuola Industriale Indiana Carlisle:
A proposito dell’opéra Sun Dance https://www.britannica. com/topic/The-Sun-Dance https://youtu.be/DNP_4MDuG_A
Assimilazione con l’educazione post-guerra indiana”. 3] Zitkala-Ša (come Gertrude Bonin), “Editorial Comment”, American Indian Magazine 6 (1919): 162. 4] Solo nel 1962, quando il Nuovo Messico concesse il diritto di voto ai nativi americani, tutti gli indiani d’America poterono votare. 5] Il Distretto storico del cimitero nazionale di Arlington è stato aggiunto al Registro nazionale dei siti storici l’11 aprile 2014. Poteva essere sepolta nel cimitero nazionale di Arlington perché suo marito era stato capitano dell’esercito. Fonti: Barker, Joanne. 2015. Femminismo indigeno. The Oxford Handbook of Indigenous People’s Politics, a cura di José Antonio Lucero, Dale Turner e Donna Lee VanCott. Oxford University Press. Conley, Paige Allison. 2013. Storie, tracce del discorso e lo stuzzichino della presenza: Gertrude Simmons Bonnin in qualità di relatrice e attivista indigena. Tesi di dottorato, Università del Wisconsin-Milwaukee. Trovare una tomba. “Gertrude Simmons Bonnin (1876-1938)”. Johnson, David L. e Raymond Wilson. 1988. Gertrude Simmons Bonnin, 1876-1938: “Americanizzare il primo americano”. American Indian Quarterly, vol. 12, n. 1, pp. 27-40. www.nps.gov/articles/000/ the-places-of-zitkala-sa.htm
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