S'Arti Nostra Giugno 2023

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S’ARTI NOSTRA

Roberta Spina a Galleria 61

Jenny et Amina Nurchis

Contus de Arrejolas

I muri nuragici a La Maddalena

Rest Art a Quartu Sant’Elena

Jack Hogan Vettriano

Il ponte sullo stretto

Aldo Larosa

Lesley Lokko Biennale d’Architettura

José Saramago

Bruno Walpoth

Il Tiepolo trafugato

Quanto costa Botticelli

Perché il cemento romano ha durato secoli

Storia del Pantheon

Dietrich Steinmetz

Paolo Fresu

Supplemento all’édizione di “SARDONIA“ Juin 2023

Foto angelaciboddo

S’Arti Nostra

Programma Televisivo OnLine di Diffusione d’Arte Contemporanea a cura di

Vittorio E. Pisu

Prolungamento editoriale

Pubblicazione irregolare supplemento del mensile Sardonia

Vittorio E. Pisu

Redattore Capo Direttore Fondateur et Président des associations

SARDONIA France

SARDONIA Italia

créée en 1993 domiciliée c/o UNISVERS via Ozieri 55 09127 Cagliari

vittorio.e.pisu@email.it

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https://vimeo.com/channels/cagliarijetaime

SARDONIA

Pubblicazione

dell’associazione omonima

Partecipa alla redazione

Luisanna Napoli

Angelo custode

Dolores Mancosu

Supplemento al numero del Giugno 2023 in collaborazione con

PALAZZI A VENEZIA

Publication périodique d’Arts et de culture urbaine

Correspondance palazziavenezia@gmail.com

https://www.facebook.com/

Palazzi-A-Venezia

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Maquette, Conception Graphique et Mise en Page

L’Expérience du Futur une production UNISVERS

vimeo.com/unisvers

Commission Paritaire

ISSN en cours

Diffusion digitale

presenta: “Sardinia-Disegnata”, mostra personale di Roberta Spina L’esposizione verrà inaugurata sabato 10 giugno 2023, alle ore 18:30, presso la Galleria d’Arte “Spazio 61” di Cagliar, via dei Genovesi 48 (quartiere Castello).

La mostra sarà visitabile, ad eccezione del lunedì, da sabato 10 a sabato 17 giugno 2023, dal martedì al sabato dalle ore 18:00 alle ore 20:00; la domenica dalle ore 10:00 alle ore 13:00. L’ingresso è libero e gratuito.

“La sua terra, la Sardegna, rappresenta la sua principale fonte di ispirazione artistica, che manifesta attraverso continui riferimenti simbolici alle tradizioni e alla cultura della sua isola. E lo fa attraverso un linguaggio attuale, che analizza la società contemporanea persa nella sua superficialità e velocità di fruizione, con la volontà di stimolare nell’osservatore la curiosità verso la sua cultura e spronandolo ad appassionarsi. Le sue opere d’arte nascono dall’impulso irrefrenabile di trasformare in immagine la voglia di esprimere un concetto, un emozione o un’idea. E’ un impulso simile al far l’amore… che può essere a volte solo sentimentale, altre volte impulsivo ed animale. Ad opera terminata, infatti, c’è un senso di soddisfazione per aver scaricato la mente ed il cuore sulla tela”.

Roberta Spina è una giovane artista nata e residente a Cagliari nel 1988. Sin da bambina ha avuto un’immensa curiosità nell’osservare ed imparare, guardando oltre le cose, acquisendo così, un enorme interesse verso le arti figurative.

Ha frequentato il Liceo Artistico “Foiso Fois” nella sede di via San Giuseppe (Castello) a Cagliari, diplomandomi nel ramo di architettura a pieni voti nel 2006. Nel 2009 ha frequentato un istituto professionale regionale qualificandomi come: “operatore per i servizi di custodia e manutenzione presso siti archeologici, musei, aree culturali-ambientali valorizzate” eseguendo uno stage presso i Musei Eremitani di Padova.

Dopo il diploma, ha fatto esperienza presso alcuni laboratori di ceramica artistica Sarda Asseminese, come decoratrice ceramista, e questo le ha fatto apprezzare di più l’arte e le tradizioni sarde, e ha capito, quindi, che la sua strada artistica passava attraverso la rappresentazione della Sardegna con le sue simbologie, cultura e tradizioni.

uest’anno ricorre il trentesimo anniversario della creazione di Sardonia come associazione bicefala a Parigi ed a Cagliari, che si é manifestata con l’edizione di riviste prima e di trasmissioni televisive diffuse sul web poi, oltre alle numerose manifestazioni culturali, esposizioni ed anche festività organizzate durante tutti questi lunghi trent’anni. Devo confessare che oltre alla mia attività professionale come architetto ho sempre avuto la passione della stampa e già nel 1973 con Olivier Buchotte ed Olivier Vallée creammo un mensile di poesie che chiamammo “ Prevoir et Dormir”. Ma fu dopo il rientro da New York e l’incontro con i primi PC ed i primi Macintosh che finalmente la messa in pagina delle riviste diventò più facile spingendomi a crearne un certo numero tra cui Palazzi A Venezia, Togus & Stravanaus, Ici, là-bas et ailleurs. etcetera.

In questi ultimi anni essendo molto prù presente in Sardegna, Sardonia ha organizzato non solo “Cagliari Je t’aime” già dal 2016 invitando delle artiste francesi di spicco ad esporre al Lazzaretto di Cagliari, in seguito con “Meglio una Donna” una ventina di mostre che presentavano dodici artiste sarde o residenti in Sardegna, sia a Cagliari che ad Oristano e naturalmente curando anche le mostre del sottoscritto ad Oristano, ad Iglesias ed anche a Cagliari dove il 24 giugno prossimo le linoleografie ormai storiche sui Casotti saranno presentate al Costadoria Showroom Agricolo, mentre sempre nella via Sulis le vedute di Cagliari saranno accompagnate anche da una dimostrazione giornaliera della tecnica dell’incisione su linoleum nell’omonima libreria.

Già dal 13 maggio scorso abbiamo iniziato una serie di mostre al Museo del Vino di Berchidda che si protrarranno fino ad ottobre in parallelo con Insulae Lab di Mattea Lissia e Paolo Fresu.

In questo momento aspettiamo febbrilmente il nulla osta per l’utilizzazione di uno spazio espositivo a Cagliari Villanova e speriamo nel prossimo numero di darvi conferma della buona notizia. Qui troverete come al solito una macedonia di informazioni e notizie che spero vi interesseranno come ci ha divertito scoprirle o approfondire delle nozioni già conosciute.

Salutiamo l’iniziativa di Mariano Chelo e di Mattea Lissia che organizzano un’asta di opere d’Arte con l’intenzione di incominciare una pratica sistematica che due volte all’anno crerà delle occasioni di incontro con gli artisti ed anche la possibilità di acquistare le opere esposte precedentemente durante le aste che saranno sitematicamente bandite alla fine delle esposizioni.

Troviamo l’iniziativa assolutamente geniale e non ci stupisce che siano Mariano Chelo e Mattea Lissia che ne siano i promotori e già con Pazza Idea l’una e con il salvataggio organizzato dall’altro hanno già dimostrato la loro capacità ad affrontare anche le difficoltà più insormontabili e sopratutto a trovare delle soluzioni che coinvolgono effettivamente gli artisti ed anche la popolazione interessata.

Siamo lieti di dedicare una mezza pagina a Dietrich Stienmitz, un cagliaritano di origine tedesca passando da Villasimius ancora deserta durante la sua adolescenza, di cui abbiamo anche appreso la creazione di una esposizione delle sue immagini.

Avendolo contattato con questa intezione, ci rispose non essere interessato alle mostre delle sue opere e siamo lieti che abbia cambiato idea con l’esposizione REBOOT organizzata da Sardegna Teatro e che descrive dodici mesi di attività della troupe sarda. Saremo assolutamente felici in avvenire di poter curare una mostra delle sue splendide fotografie.

Nel frattempo siamo orgogliosi di accogliere nel nostro centerfold di playboiesca memoria, le immagini ed un intervista di Aldo Larosa, di cui vi invitiamo a scoprire il lavoro veramente interessante. All’occasione di una contaminazione delle sue opere dalle artiste Pietrina Atzori e Rosaria Straffalaci abbiamo avuto l’opportunità de filmare il vernissage che per noi rimane anche un giorno molto particolare personalmente e da segnare con una pietra bianca. Per il resto vi lascio percorrere queste pagine alle quali cerchiamo di consacrare la maggior cura possibile cercando e trovando quotidianamente degli spunti che finalmente ci spinsero a creare il supplemento di Sardonia che non riusciva a contenere tutte le nostre scoperte.

Nell’attesa dell’infomazione tanto agognata che cercheremo di festeggiare degnamente con una mostra veramente eccezionale vi auguro una buona lettura e la consultazione dei video i cui links sono sempre indicati negli articoli ed a vimeo.com/groups/sardonia Dandovi appuntamento in Luglio per un numero doppio non come taglia visto che siamo ormai limitati a 48 pagine ma in contenuti. Ciao. Vittorio E. Pisu

a Galleria
“Spazio 61”
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NOSTRA 2
S’ARTI

i sono famiglie e ragazze che non si dimenticano mai, come le sorelle Jenny e Amina Nurchis. Ragazze cagliaritane del 1800.

Anche se sono trascorsi quasi 130 anni dalla loro morte, le loro vite possono essere sovrapposte a quelle di tante adolescenti di oggi che la società bullizza, maltratta ed esclude.

Facevano parte di una famiglia benestante e il loro padre era un noto avvocato. I genitori dovevano essere persone dal pensiero molto moderno, oggi diremmo progressista, con il concetto della parità di genere già ben consolidato. Infatti, appoggiarono la scelta delle ragazze di iscriversi in una scuola pubblica per conseguire la licenza ginnasiale. Nei loro progetti c’era il desiderio di arrivare alla laurea.

In quel tempo la scuola pubblica era destinata solo ai figli maschi.

Le femmine potevano studiare ma solo in ambito domestico con un maestro.

Con questa scelta, le sorelle Nurchis sono di fatto le prime donne cagliaritane ad aver ottenuto la licenza ginnasiale in una scuola pubblica.

Sia Jenny che Amina spiccavano con il loro vivace intelletto e amore per lo studio dei classici, l’arte e la musica. Jenny fu la prima a concludere gli studi e quasi immediatamente un giovane la chiese in sposa. Anche Amina, non molto tempo dopo, concluse i suoi studi con magnifici risultati.

Ma la società Cagliaritana non poteva accettare il livello di modernità delle due giovani studentesse e fu così che, di famiglia in famiglia, di bocca in bocca, fu decretata la loro fine.

Dovevano essere bandite dalla società.

Con il mormorio perpetuo rovinarono di proposito la loro reputazione con cattiverie e maldicenze, etichettando le ragazze come due poco di buono da cui stare alla larga per aver frequentato una scuola per soli maschi.

Fu così che il fidanzato di Jenny, che l’aveva chiesta in sposa, decise di ripudiarla. Jenny, distrutta dal dispiacere, scelse di suicidarsi.

Dieci mesi dopo la seguì anche Amina, morta forse per il dolore.

Penso spesso a queste due ragazze, senza tempo, non solo per il tristissimo destino che hanno avuto, ma anche perché la famiglia Nurchis non ha avuto eredi. Si è estinta.

E in questa estinzione, personalmente, vedo un destino beffardo.

Una ingiustizia senza tempo.

Poco dopo la morte di Amina morì anche il padre. Sempre nel 1884.

Tutto ciò che resta di Jenny e Amina è la loro magnifica cappella di famiglia al cimitero monumentale di Bonaria.

La meravigliosa statua di Jenny fu scolpita da Giuseppe Sartorio.

L’iscrizione recita

“BUONA E CONFIDENTE JENNY/ SPENTA ANZI TEMPO

GANNI/ TI

REFRIGERIO NELLA TOMBA SCONSOLATA/ L’AFFETTO IMMENSO ED INESTINGUIBILE/ DI CHI NON PUO’ MENTIRE// LA MADRE/ GIUSEPPINA NONNIS IN NURCHIS/ POSE”

Mentre è di Ambrogio Celi l’angelo piangente sul monumento ad Amina Nurchis.

Sotto l’Angelo dove riposa Amina si legge:

“AD AMINA NURCHIS NONNIS DICIASSETTENNE RAPITA ALL’ AMORE DEI PARENTI IL XIX FEBBRAIO MDCCCLXXXIV. A XV ANNI COMPAGNA ED EMULA DELL’AMATA SORELLA MERITO’ LA LICENZA GINNASIALE PRIMO ESEMPIO IN SARDEGNA DI QUANTO POSSANO NEGLI STUDI MENTE E CUORE DI DONNA.”

Per più di informazioni vedi il libro ‘Bonaria, il cimitero monumentale di Cagliari’, edizioni Tam Tam, 2000

Per chi volesse visitarlo (news tratta dal comune di cagliari qui probabilmente soggetta a cambiamenti o mutamenti informarsi via email o via telefono )

Indirizzo: Piazza Cimitero Telefono: +39 070 300205 eMail: direzione.cimiteri@ comune.cagliari.it

Proprietà: Comune di Cagliari

Orario: Lunedì chiusoMattina: 8.00-13.00 dal martedì alla domenica / Pomeriggio: 14.30-17.30 giovedì (da novembre a marzo ) / 15.30 -18.30 giovedì (da aprile a ottobre)

Prezzi: Libero vedi video https://youtu.be/ Nk2JGsh2yMk

http://www.ladonnasarda.it/magazine/ chi-siamo/5384/la-storia-delle-donne-del-cimitero-di-bonaria.html

http://www.sardiniapost. it/culture/cattivo-perche-non-ti-svegli-memorie-cagliaritane-nel-cimitero-monumentale-di-bonaria/

C Foto vistanet.it 3 S’ARTI NOSTRA 3
DA CRUDELI DISIN-
SIA
“Jenny e Amina
Nurchis: le prime donne cagliaritane a ottenere la licenza ginnasiale”
Uccise dalla società ottocentesca retrograda e misogina.

I segreti di un intero quartiere e i racconti della sua gente sono rievocati dalla collezione di mattonelle maiolicate del Piccolo Museo “Contus de Arrejolas” (racconti di mattonelle), nata come collezione personale, poi ampliata con le donazioni provenienti dal quartiere e riconosciuta di eccezionale interesse storico-artistico dalla Sovrintendenza per i beni culturali.

Era il 1992 quando Mercedes Mariotti, cagliaritana, ex professoressa e artista, acquistò un locale in via Lamarmora 67 a Cagliari, ai piedi del Palazzo Sanna Sulis, e con l’aiuto di Luciano Governi, ingegnere lo ha restaurato per farvi un laboratorio di ceramica. Quando iniziò i lavori nel locale, Mercedes e Luciano mai si sarebbero immaginati quello che poi vi avrebbero trovato all’interno.

Accanto ad oggetti di uso quotidiano, cocci e resti di vasellame, sono spuntate qua e là delle mattonelle di maiolica dai motivi più disparati che i due decisero con grande lungimiranza e intuito di conservare.

Con il tempo ne sono arrivate altre, trovate fra i detriti dei lavori di ristrutturazione degli appartamenti del quartiere, che – come ricorda Mercedes – negli anni novanta ha vissuto un periodo di grandi restauri.

«Qua davanti passavano i camion con i detriti degli appartamenti e io li fermavo – racconta – perché vedevo che dentro trasportavano anche mattonelle come queste».

Centoventisei mattonelle in tutto, tutte fatte a mano in periodi diversi, recuperate e messe da parte in attesa di un’occasione per essere esposte.

E quell’occasione, malgrado tutto, arrivò nel 2007 quando Mercedes decise di chiudere il laboratorio di ceramica e di trasformare quel locale in uno spazio espositivo proprio per quelle mattonelle che erano state accuratamente conservate.

La collezione, diventata ormai un piccolo museo iscritto all’Associazione nazionale dei piccoli musei, conta ad oggi circa 200 mattonelle, quasi tutte catalogate e individuata la

loro provenienza e origine, sia attraverso i libri che grazie ai ricordi di coloro che visitano il museo che magari hanno dei ricordi e offrono dei dettagli, dei punti di vista nuovi.

«È una raccolta che colpisce il cuore dei nostrani – racconta Mercedes – soprattutto cagliaritani e sardi, oltre che dei turisti, perché sono mattonelle magari viste nelle case dei nonni. Le persone qui entrano perché notano qualche mattonella dal motivo familiare».

Nel 2014 è iniziata la collaborazione con la Sovrintendenza per i beni culturali che, riconosciuto il valore storico-artistico della collezione, punto di riferimento per gli studiosi di archeologia post medievale, ha aiutato Mercedes a perfezionare lo studio delle mattonelle, di alcune in particolare.

«Ce n’è una spagnola e che chiamiamo mattonella parlante, perché racconta tante cose – spiega Mercedes –trovata nello scantinato di un palazzo del quartiere e donata da un’amica.

Lo stemma disegnato, un

cervo, è quello della famiglia di un fante catalano, Guglielmo Cerveillon, inviato in Sardegna nel 1324 per cacciare i pisani e mai più andato via.

Lo stemma diventò poi regale quando un membro di questa famiglia divenne viceré che, per intenderci, fu quello che precedette il Camarassa».

C’è poi quella che forma nel pavimento un motivo a diagonali e che per questo, nella tradizione popolare si riteneva scacciasse le mosche.

«Ma non è solo una credenza popolare – precisa Mercedes – perché abbiamo avuto poi conferme da entomologi del fatto che la vista delle mosche non tolleri le diagonali ed è per questo che in molte cucine sarde, e della Penisola, si usavano le mattonelle con motivi di questo tipo».

Napoletane, liguri, spagnole e sarde.

La provenienze e la datazione delle mattonelle è a volte difficile e avviene attraverso i loro motivi, i disegni, ma soprattutto, quando sono presenti sul fondo, i marchi degli artigiani che le hanno realiz-

zate.

Grazie a questi marchi, è stato addirittura possibile per alcune mattonelle risalire a fatture diverse, sebbene i motivi fossero identici.

Un pezzo forte della collezione è poi la mattonella con un “marchio” assai curioso: l’impronta di un gatto che vi ha comminato sopra quando la mattonella stava ancora asciugando.

Un difetto questo che ha salvato la vita alla mattonella, unica rimasta di una serie che è andata invece perduta.

Insomma, un piccolo museo che conserva grandi storie e che la grande passione della sua curatrice fa sì che in tanti possano contribuire a rendere sempre più ricco per continuare a raccontare le storie di una città, i legami e gli intrecci delle vite dei suoi abitanti che altrimenti andrebbero perdute per sempre.

https://www.vistanet. it/cagliari/2017/08/14/ il-piccolo-museo-contus-de-arrejolas-dai-detriti-di-un-locale-abbandonato-il-tesoro-di-un-quartiere/

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Foto vistanet.it I
I segreti di un intero quartiere e i racconti della sua gente sono rievocati dalla collezione di mattonelle maiolicate del Piccolo Museo
“Contus de Arrejolas” (racconti di mattonelle), nata come collezione personale, poi ampliata con le donazioni provenienti dal quartiere

elle isole di La Maddalena e Caprera è stata individuata una serie impressionante di muri, che hanno elementi megalitici e caratteristiche particolari.

Questi muri, che in tre casi superano i 500-600 m di lunghezza, seguono dei tracciati piuttosto strani e hanno una struttura completamente diversa da quella dei muri a secco moderni: potrebbe trattarsi di demarcazioni simboliche?

Essi sono stati realizzati con pietre che non sono né squadrate né sbozzate, sfruttando al massimo gli affioramenti rocciosi, come se i costruttori preistorici volessero assecondare e completare la natura. Nel gennaio 2002, mentre esploravo l’area intorno a un recinto megalitico scoperto dal signor Stefano Curreli in località Spalmatore, a pochi metri di distanza da esso (verso W) individuai i resti di un muro (fig. 1.1) lungo circa 550 metri, che delimita il promontorio a NW della baia (Di Fraia 2007; Di Fraia e Grifoni Cremonesi 2007).

Tale muro comincia a N dalla scarpata che scende sull’insenatura di Cala Lunga e corre in direzione N-S sino a un

complesso roccioso (fig. 1.2) e, integrandone i “vuoti” e piegando verso E, arriva sino al limite SE di questo, riprendendo poi la direzione N-S; infine, dopo poco meno di 200 metri dal gruppo roccioso, forma un angolo di circa 40° verso E per finire presso lo scoscendimento sulla baia di Spalmatore.

Del muro, largo 80-90 cm e composto prevalentemente di pietre medio-grandi, resta solo una parte dell’elevato: da qualche decina di centimetri ino a 80-100 cm nei tratti meglio conservati.

Le caratteristiche peculiari di tale muro, oltre al tracciato, sono la sua struttura e il tipo di pietre che la compongono, come spiegherò più avanti.

A una quota più alta, in un terreno accidentato e scosceso, scoprii nel 2003 un altro muro (fig. 1.7), che cinge a mezza costa la parte NE dell’altura di Guardia del Turco e dista 150-200 m dal muro precedente.

Questo secondo muro ha un tracciato piuttosto articolato, con alcuni tratti sinuosi (fig. 1.5), e anch’esso ingloba molti affioramenti rocciosi.

Anche se finora non è stato completamente esplorato, a causa della vegetazione in

alcuni punti particolarmente fitta, e quindi non è stato possibile verificare se vi sia una completa continuità, l’insieme dei tratti individuati assomma ad almeno 700 m. In alcuni tratti, in corrispondenza di affioramenti rocciosi, è ben riconoscibile la volontà di rimarcare la continuità del tracciato: infatti sulla roccia madre è stata posata una semplice fila di pietre medio-piccole, in alcuni punti quasi un cordolo (fig. 1.3).

Vorrei prevenire subito la facile obiezione secondo cui tale situazione potrebbe spiegarsi con interventi di spoliazione.

In realtà tali tratti ridotti o ridottissimi si trovano in punti impervi dove è impensabile che le pietre del muro potessero essere appetibili per altre costruzioni; d’altro canto non ci sono nemmeno pietre crollate.

Tutto questo può significare soltanto che la volumetria attuale del muro corrisponde sostanzialmente a quella originaria.

In un tafone, vicino all’estremità meridionale di tale muro, sono stati ritrovati dal dott. Gian Carlo Tusceri alcuni frammenti ceramici di un’olla attribuibile probabil-

MURI NURAGICI A LA MADDALENA

mente all’età del bronzo (fig. 1) .

Nel 2004 scoprii un terzo muro a Caprera, in località Petraiaccio, a E della strada per Stagnali.

Si trattava di resti di muro costituiti da pietre appena affioranti dal piano di campagna, che iniziavano subito sotto una parete rocciosa e arrivavano, con qualche discontinuità, fino alla strada asfaltata.

Fu giocoforza esplorare il terreno al di là della strada, in corrispondenza della direzione indicata dal primo tratto: apparve subito e chiaramente una lunga continuazione del muro (fig. 2.3, 6), che si sviluppa in direzione SE-NO e in alcuni tratti conserva buona parte dell’elevato. Notai anche la singolarità di un tratto piuttosto basso e formato da pietre medio-piccole sovrapposte a una groppa rocciosa, che sembrano svolgere l’unica funzione di demarcazione.

Questo muro arriva fino al rettilineo che scende verso W dal bivio Casa Garibaldi-Stagnali e prosegue oltre questa strada moderna proprio in direzione di Casa Garibaldi; quest’ultimo tratto non è stato ancora esplorato, ma la lunghezza complessiva del muro probabilmente supera i 500 m.

Successivamente il dott. Tusceri mi ha indicato a Petraiaccio, nella stessa area in cui avevo trovato l’inizio del muro appena descritto, l’esistenza di resti di due vani subquadrangolari, di un altro muro, che forse originariamente si congiungeva ad angolo retto con il primo tratto scoperto, e infine di una canaletta foderata di pietre.

Ulteriori esplorazioni hanno evidenziato un piccolo vano in pesante muratura addossato ad una parete rocciosa, con un ampio gradino che sembra costituire un piano di focolare; inoltre vi sono almeno un pozzo subcircolare (diam. 430 cm) e alcuni tratti lastricati verosimilmente antichi, a giudicare dalle caratteristiche e dalla patina delle pietre.

Altri muri sono presenti a Caprera, in località Guardiole, dove si sviluppano con lunghi tratti diritti, ma anche con tratti più articolati che comprendono almeno una diramazione perpendicolare.

Uno dei tratti più interessanti è costituito dai resti poco affioranti di un massiccio muro, largo fino a 1 m (fig. 2.7), (segue pag.6)

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Foto automobilclubd’italia
N

(segue dalla pagina 5) che ad un certo punto si congiunge con un vano rettangolare, di cui resta poco più delle fondamenta (fig. 2.9).

Anche in questa zona i muri in questione sono stati tagliati da strade militari e da sentieri moderni.

Ancora a Caprera, subito a SE del Club Mediterranée, si riconosce qualche tratto di muro con caratteristiche megalitiche, mentre tratti più lunghi si trovano a W dell’acquedotto.

A La Maddalena un muro interessante è stato individuato da Tusceri a S della spiaggia di Bassa Trinita (fig. 2.1, 4); esso arriva ino al mare (fig. 2.2) e si inoltra all’interno per almeno una cinquantina di metri; più oltre la vegetazione ne impedisce la vista e l’accesso.

Questo muro almeno in un tratto conserva tutto l’elevato e mostra alla sommità una copertura formata da un’assisa di blocchi disposti trasversalmente; in questo caso si prospetta il dubbio che possa trattarsi di un’aggiunta moderna e soltanto studi accurati sulla struttura di tutto il muro restante, sulle patine delle pietre ecc. potranno chiarire la situazione.

A poca distanza dalla riva, al muro si uniscono tre lati che vengono a formare un vano rettangolare.

Altri tratti di muri megalitici sono stati solo parzialmente esplorati nella zona dell’acquedotto (fig. 1.10-11).

Ancora Tusceri nel 2007 mi ha segnalato la presenza di muri analoghi tra le località Crocetta e Villa Webber. Nel 2009 ho scoperto un altro muro, a W della strada che collega la Trinita a Guardia del Turco; tale muro attualmente per un tratto corre sul margine della strada asfaltata, dalla costruzione della quale è stato pesantemente danneggiato; ancora oggi alcune pietre crollano perché private in parte del terreno in cui erano confitte.

A questo muro forse era originariamente collegato quasi ortogonalmente un altro lungo muro che da Guardia del Turco scende verso Stagno Torto, con un percorso che in parte affianca la strada sterrata moderna, rispetto alla quale tuttavia risulta in alcuni tratti rialzato, a dimostrazione del fatto che si tratta di due manufatti costruiti separatamente e indipendentemente l’uno dall’altro. Altri resti di muri con analo-

ghe caratteristiche, ma conservati solo per tratti relativamente brevi, sono presenti in altre zone di La Maddalena (a E della chiesa della Trinita, Monti d’arena, Marginetto, Isuleddu) e di Caprera (Teialone, Poggio Stefano, Coato), tanto da far ritenere che una larga parte delle due isole fosse segnata da queste che, per il momento, possiamo asetticamente chiamare “demarcazioni di limiti”. Problemi cronologici e interpretativi.

I muri sopra descritti sembrano molto antichi, a mio avviso preistorici, per una serie di motivi.

Anzitutto le pietre non recano tracce di lavorazione, nel senso che le facce più ampie sono del tutto naturali e le non frequenti fratture nel senso dello spessore sono ottenute per spezzatura, realizzabile semplicemente per impatto di un altro masso, o per caduta o anche per pressione su lastre già parzialmente separate dall’originaria formazione rocciosa (fig. 2.10); nella maggior parte dei casi si tratta di massi formatisi integralmente per sfaldamento della roccia.

Molte pietre sono grandi e pesanti, disposte spesso di

taglio, specialmente nei tratti con due paramenti laterali; tale disposizione poteva permettere in alcuni punti il riempimento della parte mediana, ma rendeva talora difficile la sopraelevazione, specialmente dove la superficie superiore è piuttosto convessa.

In altri casi grossi e lunghi massi (il più grande finora documentato è lungo circa 230 cm: fig. 2. sono distesi orizzontalmente e sembrano costituire da soli tutta o gran parte della volumetria muraria.

Peraltro nei tratti di muro ubicati in zone poco frequentate e particolarmente coperte dalla macchia è verosimile che quasi tutte le pietre siano rimaste sul posto, anche se parzialmente crollate; ebbene, in tali casi la quantità totale delle pietre suggerisce un’altezza originaria del muro piuttosto limitata, stimabile intorno al metro o poco più.

Le condizioni di conservazione (il crollo di una parte più o meno grande della struttura originaria, il fatto che molti tratti siano coperti dalla macchia, l’aspetto frusto delle superfici ecc.) sono compatibili soltanto con ma-

nufatti molto antichi. Nelle zone più esposte, soprattutto dove i muri sono stati tagliati da strade o sentieri moderni, si è verificata una forte destrutturazione e spoliazione, che hanno reso le tracce più labili e discontinue, ma pur sempre riconoscibili. Anche quest’ultimo aspetto sembra confermare la forte antichità di tali manufatti, se si considera che La Maddalena è abitata continuativamente soltanto dal XVIII secolo, che per il Medioevo le presenze umane nell’arcipelago sono state scarsissime e la loro ubicazione è ancora controversa e che comunque sia in età romana che medievale non abbiamo altrove esempi di strutture simili.

L’andamento dei muri più lunghi (soprattutto quelli di Spalmatore, Guardia del Turco, Petraiaccio), la collocazione e la loro stessa lunghezza, non sembrano rispondere all’esigenza tipicamente moderna di recingere terreni privati.

L’altezza, presumibilmente limitata, non sembra adeguata né alfine di proteggere particolari posizioni da eventuali attacchi, né a quello di recingere luoghi dotati di

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Foto automobilclubd’italia

particolari risorse o terreni privati (tanto meno a quello di rinchiudere animali o viceversa di difendersi da animali sgraditi).

In questa fase delle ricerche è mia opinione che le strutture sopra descritte possano essere state costruite in un arco di tempo che va dal Neolitico medio-finale all’età del rame e del bronzo, cioè dal quarto al secondo millennio a.C., con una maggiore probabilità per il tardo eneolitico e l’età del bronzo (Di Fraia 2011).

Qualcuno potrebbe obiettare che il fatto che le pietre non siano lavorate sembrerebbe indicare l’assenza di strumenti metallici e quindi tali manufatti potrebbero spiegarsi più facilmente in ambito neolitico.

In realtà è ben noto che la diffusione degli strumenti di rame e poi di bronzo e la loro utilizzazione nelle varie attività umane è stato un processo piuttosto lento.

A ciò bisogna aggiungere il fatto che la roccia utilizzata è il granito, che difficilmente si può lavorare, per percussione, con strumenti di rame e anche di bronzo.

Ma il punto fondamentale è che per la realizzazione di tali opere l’esigenza del

metallo sembra che non si ponesse affatto, dal momento che possiamo riconoscere una scelta deliberata di modificare il meno possibile i materiali naturali, cioè di utilizzare affioramenti naturali e pietre non lavorate.

Poiché si tratta di migliaia di pietre collocate in molti luoghi diversi deve essere interpretato come una forma di rigido rispetto della naturalità dei materiali.

In altre parole i gruppi umani, intenzionati a modificare il paesaggio naturale, ritenevano di poterlo fare solo rispettando determinate condizioni imposte dalla natura stessa. Insomma l’intervento umano si pone non come una violazione o distruzione della natura, ma come proseguimento, accrescimento, estensione di elementi che la natura stessa ha preordinato e offerto agli uomini (Di Fraia 2008).

Se ci chiediamo a che cosa potessero servire i muri descritti, la prima e fondamentale osservazione è che non se ne intravvede alcuna funzione pratica.

Come abbiamo visto, le lunghe e talora complesse strutture murarie non sembrano poter costituire una barriera

efficace né per gli uomini né per gli animali; infatti anche ammettendo qualche ipotetico, ma improbabile, rafforzamento o innalzamento con sostanza organica (rami, rovi), sarebbero comunque rimasti troppi varchi facilmente superabili, nei punti in cui i muri inglobano affioramenti rocciosi; inoltre i tratti murari finora esplorati non tracciano in nessun caso un perimetro chiuso, come avviene invece per le cinte murarie di molti siti preistorici della Sardegna e della Corsica.

Il muro tra le insenature di Spalmatore e quella di Cala Lunga delimita un promontorio roccioso e brullo, che non sembra offrire nessuna risorsa naturale; pertanto, data anche la vicinanza del recinto, si potrebbe ipotizzare una valenza simbolica (ad esempio la funzione di delimitare un’area in qualche modo sacra o riservata, il cosiddetto témenos?) o l’indicazione di un percorso rituale.

Il muro che corre un po’ più in alto, intorno all’altura di Guardia del Turco, mostra tratti curvi e sembra seguire in parte alcune linee di discontinuità del pendio; in questo caso si potrebbe pensare alla delimitazione di un

particolare luogo alto, di cui è comunque difficile immaginare la natura, anche perché la sommità della collina è stata occupata da un grande deposito militare fortificato.

Per i muri di Caprera si potrebbe ipotizzare la volontà di segnare delle divisioni del territorio più articolate, forse per distinguere zone di competenza di diversi gruppi, oppure aree destinate allo sfruttamento di risorse diverse (ad esempio pascolo versus agricoltura: v. Di Fraia e Tusceri in questo volume), ma allo stato delle conoscenze è impossibile andare oltre queste vaghe suggestioni.

In ogni caso tutto sembra indicare che questi muri dovessero segnalare dei limiti socialmente percepiti come tali non in quanto ostacoli o barriere effettive, bensì in virtù di un riconoscimento condiviso.

Ritengo comunque che l’interpretazione dei muri in questione non possa andare disgiunta dalla considerazione degli altri tipi di strutture in pietra individuati negli ultimi anni nelle isole di Caprera e La Maddalena.

Si tratta di strutture dolmeniche, di recinti, di resti di vani rettangolari, di capanne ellittiche, di ciste e di tumuli di pietre, il cui numero cresce man mano che si intensificano le ricerche (Di Fraia 2010, 2011).

Bisogna inoltre considerare i danni irreparabili prodotti dalla moderna antropizzazione delle due isole e in particolar modo dalle molte e ampie installazioni militari e dalle cave di granito. Tutte le costruzioni sono formate da pietre non lavorate di varie forme e dimensioni: tale caratteristica sembra un forte indizio della pertinenza di tutte le suddette strutture ad uno stesso orizzonte culturale oppure ad una tradizione tanto tenace da poter caratterizzare più facies culturali. Il numero, la consistenza e la distribuzione di tutte queste costruzioni, cui bisogna aggiungere centinaia di tafoni, molti dei quali parzialmente o integralmente tamponati con muri a secco, inducono a credere che specialmente nel terzo e secondo millennio a.C. le due isole furono intensamente abitate . Tomaso Di Fraia, 2012 https://www.academia. edu/2566839/Tomaso_Di_Fraia_Gian_Carlo_Tusceri_L_enigmatico_complesso_di_Guardiole_nell_isola_di_Caprera

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S’ARTI NOSTRA 7

questo

“L’anno nuovo si è aperto per noi con una bellissima notizia: il finanziamento che avevamo perduto per un errore di forma, è stato recuperato… I soldi raccolti con le opere d’arte messe all’Asta saranno restituiti virtuosamente a tutti i generosi artisti che ce le hanno donate sotto forma di fondo che servirà a sostenere la circuitazione delle opere e degli artisti. Entreremo nel dettaglio molto presto.” Poi la pandemia. Si tratta di poche migliaia di euro che per noi sarebbero state utili a riparare un po’ il danno, ma che sono state infinitamente più preziose per quello che hanno significato, in termini di partecipazione di tanti artisti che hanno dato la loro opera e nella risposta affettuosa e partecipe di tante amiche e amici che le opere le hanno comprate.

La promessa era che mi sarei impegnata affinché l’intero ammontare fosse investito in un piccolo ulteriore evento culturale, che potesse offrire a quante più persone possibile una nuova occasione di bellezza e cultura.

“Con immensa gratitudine a tutti coloro che ci hanno sostenuto e grandissima fiducia nel futuro” chiudevo così il comunicato che annunciava la buona notizia.

Sì, perché niente mi aveva mai riscaldato il cuore così tanto in 20 anni di lavoro.

Immaginate la mia felicità in questa operazione di restituzione

Mattea Lissia

’arte, formidabile interprete della realtà e veicolo di bellezza e progresso, si era mobilitata per sostenere la cultura a Cagliari.

Con un’asta di opere di arte contemporanea di tutto il panorama isolano, ha aiutato l’Associazione culturale Luna Scarlatta, che organizza il festival letterario “Pazza Idea” al quale era mancato un importante contributo pubblico nel 2019.

Nel 2020 il contributo era stato recuperato e poi era arrivata la pandemia…

Ora siamo qui con questa operazione di restituzione alla “paradura”, nata in quella occasione, e proprio da questa tradizione prendiamo spunto per innescare nuovi sistemi di rigenerazione culturale.

Questa prima edizione è, dunque, una “restituzione”, ma l’intenzione è quella di farlo diventare un appuntamento fisso, periodico; un luogo in cui le artiste e gli artisti si sentano accolti e sostenuti, e verso il quale il mondo dell’arte senta fortissimo il richiamo, per un momento di condivisione, ma anche per un circolo virtuoso dell’economia, della visibilità, della diffusione. Con la realizzazione dell’Asta dovrebbe essere possibile creare un nuovo fondo che possa finanziare le edizioni in avvenire, in un circolo virtuoso di raccolta fondi che autofinanzia il progetto di esposizione, vendita e divulgazione dell’arte.

L’inaugurazione della mostra è prevista per il 21 giugno alle 18:30 nello spazio del Chiostro dell’ex-convento dei Cappuccini.

In questa occasione sarà possibile che le artiste e gli artisti presentino direttamente le loro opere e si potrà raccontare il progetto nella sua prospettiva futura.

La mostra sarà aperta nei giorni 22 e 23 giugno per tutto il giorno e sarà possibile andare a visitarla prima del finissage fissato per il 23 giugno alle 18:30, quando si aprirà l’A-

sta di vendita di tutte le opere, nella Sala degli Affreschi con un battitore “esperto di aste” in forma di performance teatrali: Elio Turno Arthemalle. Intanto, vi presentiamo RestART ovvero Cosa accade nelle arti visive in questo pezzo di mondo con 38 artisti dell’isola - e non solo - con le loro meravigliose opere:

Francesco Amadori

Francesco Argiolu

Giorgia Atzeni

Pietrina Atzori

Piera Barracciu

Annamaria Caracciolo

Carlo Crasto

Federico Cerulla

Mariano chelo

Giorgio Corso

Crisa

Cristina Dell’orfano

Nino Etzi

Francesco Mocci

Ignazio Fulghesu

Marco Loddo

Antonio Mallus

Manu Invisible

Marcello Simeone

Bruno Meloni

Simone Mereu

Mauro Moledda

Roberta Montali

Nicola Cioglia

Graziano Origa

Martina Palla

Cristina Papanikas

Veronica Paretta

Antonino Pirellas

Valerio Pisano

Vittorio E. Pisu

Giorgio Podda

Stefania Polese

Mauro Rizzo

Rosaria Straffalaci

Annamaria Secci

Alberto Soi

Nicola Testoni

Foto keblog.it Chiostro Convento dei Capuccini Via Brigata Sassari 09045 Quartu Sant’Elena Esposizione 21, 22 e 23 giugno 2023 Asta 23 giugno 2023 a partire dalle 18 : 30 Tel.:347 579 6760 www.facebook.com/ restartartivisuali 2020 di Luna Scarlat-
iniziava
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L’infanzia non te la scrolli di dosso così facilmente, mai.

Prendete Jack Vettriano, pittore scozzese tra i più amati dal pubblico e – ça va sans dire – tra i più odiati dalla critica. Il successo, i soldi (a palate) e i temi delle sue opere sembrano voler a tutti i costi affrancarsi da un inizio della vita piuttosto complesso.

E invece, come nella canzone “Samarcanda”, Vettriano fugge dai suoi fantasmi solo per ritrovarli puntualmente tra le pieghe dei suoi dipinti.

Pensateci: Jack nasce in Scozia in una famiglia di minatori immigrati, talmente poveri che il padre lo manda a lavorare già a dieci anni e gli fa interrompere gli studi a sedici.

Il pittore Vettriano dipinge ossessivamente scene di lusso ed erotismo patinato che paiono uscire da un noir degli anni Cinquanta, proprio l’epoca in cui lui faceva la fame e forse certe cose le poteva vedere solo al cinema.

O immaginarle.

Lungi da chi scrive fare psicanalisi da quattro soldi, ma l’immaginario di Jack, tanto criticato, pare rifarsi proprio agli stereotipi irraggiungibili della sua giovinezza scozzese.

Vuole allontanarsi in modo talmente deciso dal suo passato,

Vettriano, che adotta il cognome italiano della madre al posto di quell’Hogan che deve ricordargli momenti non proprio felici.

Quando prende in mano i pennelli ha ventuno anni, non proprio un enfant prodige, e quando ottiene i primi riscontri, il nostro è vicino ai quaranta.

La tecnica da autodidatta è piuttosto incerta, lo stile si rifà agli interni del grandissimo Hopper – va detto, senza avvicinarsi neppure da lontano alla classe di Edward –e di Walter Sickert, le sue spiagge malinconiche ma un po’ banali ricordano quelle di Eugène Boudin.

La critica lo irride per anni, ma il pubblico si innamora dei suoi bozzetti dal celebre “The Singing Butler” in poi.

Vettriano diventa il pittore più utilizzato per biglietti d’auguri, cartoline, calendari e copertine di libri.

La big money arriva da lì, più che dalle commissioni. Gli espertoni storcono il naso, lui si siede alla cassa, conta i verdoni e se la ride.

I milioni fluiscono copiosi nelle sue tasche e lui può permettersi auto e vestiti di lusso che prima poteva solo dipingere.

Niente male per un proletario figlio di minatori.

Il “Daily Telegraph” dice di lui che dipinge scene “p0rno soft mal concepite”, per “Vainty Fair” il suo è “erotismo senza cervello”,

il “Guardian” non lo ritiene “nemmeno un artista” e Sandy Moffat, responsabile del disegno e della pittura alla Glasgow School of Art, dice che “non sa dipingere, si limita a colorare”.

Alice Jones scrive su “The Independent” che Vettriano è uno sciovinista le cui “donne sono oggetti sessuali, spesso seminude e vulnerabili, sempre in calze e tacchi a spillo”.

Tutto vero, per carità.

Le scene erotiche del pittore sono effettivamente risibili, risultato di un immaginario datato e superato, con una donna al servizio dell’uomo alpha, perennemente in completi eleganti che paiono presi da “Gli Intoccabili” se non in divisa.

Le donne sembrano spesso aggeggi concepiti solo per consolare l’uomo dalle sue soverchianti responsabilità: sì, vabbè.

Una roba un po’ da boomer, se volete.

Eppure, quando Vettriano non si fa trascinare dal demone kitsch che gli si agita dentro, sprazzi di magia escono dalle sue tele.

Le sue donne sole, riflessive, depresse o determinate, sempre in chiaroscuro tra luci, ombre e una tenda appena scossa dal vento, sembrano quasi mandare un messaggio a chi osserva.

Forse, addirittura, una richiesta d’aiuto a emanciparsi dall’altro Vettriano, quello che dipinge ero-

JACK HOGAN VETTRIANO

tismo da quattro soldi per tirare su un po’ di grana, in uno sdoppiamento artistico degno di Jung.

Insomma, i lavori di Vettriano sono una piacevolezza per gli occhi e vanno guardati spegnendo il cervello per evitare troppe riflessioni.

Altrimenti si finirebbe per rimpiangere il Vettriano artista che poteva essere e che solo raramente è stato, troppo impegnato a riempire di vuoto le mancanze patite da ragazzo.

[Martedì Arte]

#ArteALR

Nato a Saint Andrews e cresciuto a Methil – cittadina industriale scozzese del Fife – in una famiglia legata all’estrazione del carbone, Hogan iniziò a lavorare precocemente, fin dai dieci anni, per contribuire alle finanze familiari e a 16 anni lasciò la scuola per impiegarsi come apprendista tecnico minerario.

Iniziò da autodidatta l’attività pittorica dopo aver ricevuto un set di pennelli e acquerelli in regalo per il suo ventunesimo compleanno. Le sue prime opere, firmate con il nome di nascita, sono in genere riproduzioni di impressionisti che solo quasi quindici anni più tardi riuscì a esporre in un ambiente artistico professionale: la sua mostra d’esordio è, infatti, del 1988 presso la Royal Scottish Academy durante la quale, nel primo giorno d’esposizione, entrambi i suoi dipinti presentati furono venduti; questo garantì all’artista l’invito a numerose mostre presso altre gallerie d’arte.

Al successo artistico coincise la fine del matrimonio e il susseguente trasferimento a Edimburgo; lì Hogan assunse Vettriano quale suo nome d’arte, prendendolo dal cognome di sua madre, figlia di un emigrante di Belmonte Castello, in Ciociaria, che lasciò l’Italia per lavorare in Scozia come minatore.

Nel novembre 1999 i lavori di Vettriano sono stati esposti per la prima volta a New York, esibiti alla International 20th Century Arts Fair. Una serie di sue opere è stata venduta per un totale superiore al milione di sterline in agosto 2007. L’opera più costosa è stata Bluebird at Bonneville, comprata per 468.000 sterline all’asta di Sotheby’s tenutasi in Scozia, presso il Gleneagles Hotel. Vettriano mantiene laboratori d’arte in Scozia, Londra e Nizza. È stato rappresentato dalla Portland Gallery fino al 2007, suoi quadri sono stati acquistati da Jack Nicholson, Sir Alex Ferguson, Sir Tim Rice e Robbie Coltrane e altre importanti personalità. A tutt’oggi sono stati pubblicati cinque volumi sulla sua vita e opere, l’ultimo nel 2008 col titolo Studio Life. wikipedia.org

S’ARTI NOSTRA 9

n nastro che lega stretto Scilla alla ingorda Cariddi

Nel destro lato è Scilla; nel sinistro È l’ingorda Cariddi. Una vorago

D’un gran baratro è questa, che tre volte

I vasti flutti rigirando assorbe, E tre volte a vicenda li ributta Con immenso bollor fino a le stelle.

(Virgilio, Eneide)

Un ponte sullo Stretto di Messina: la luce più grande del mondo

Questo progetto di Sergio Musmeci, ingegnere a Roma, è uno dei sei premiati (fra i 143 presentati) al concorso internazionale di idee bandito dalla ANAS e dalle FS per la realizzazione di un collegamento viario e ferroviario fra Messina e Reggio Calabria sullo (o nello) Stretto di Messina. La proposta di Musmeci – che può consentire all’Italia di realizzare un’opera di architettura e di ingegneria unica al mondo – è così descritta dall’autore: “La realizzazione dell’attraversamento viario e ferroviario dello stretto di Messina può divenire un problema di opere marittime, oppure, alternativamente, un problema di grande luce libera (3.000 m).

Questa proposta nasce dalla convinzione che il secondo problema consente soluzioni più controllabili tecnicamente e quindi economicamente, in quanto svincolate dalle molte incognite poste da ogni eventuale opera in mare: forti correnti, fondali profondi e instabili, oltre che poco conosciuti dal punto di vista geotecnico. Tutti problemi acuiti dalla forte sismicità della zona.

Una luce di 3.000 m è più del doppio della luce più grande finora esistente, che è quella del ponte Giovanni da Verrazzano a New York, realizzato nel 1964, (1.298 m), ma bisogna subito rilevare che questa luce è rimasta praticamente inalterata dagli anni Trenta;

il Golden Gate di S. Francisco (1.280 m) è del 1937 e da allora vi è stato un notevole progresso tecnologico nel campo degli acciai strutturali.

Ma soprattutto va rilevato che nei più grandi ponti sospesi esistenti il rapporto fra la freccia e la luce è solo 1/10 e ciò indica chiaramente che le luci possono essere notevolmente aumentate; portando questo rapporto a 1/5, si possono avere luci doppie senza modificare la sezione dei cavi.

PONTE SULLO STRETTO

Ciò che aumenta sensibilmente è l’altezza dei piloni. […] Il ponte che si propone è in tensistruttura; la presenza di cavi traenti lo stabilizza molto efficacemente nei riguardi del vento e delle azioni sismiche. Gli studi e le esperienze già acquisiti per questo tipo di strutture assicurano la fattibilità tecnica ed economica dell’opera.

Ma ci sono ragioni che trascendono sia la tecnica che l’economia, intese in senso stretto, e che spingono ad accettare per intero la sfida offerta dai 3 km dello stretto. Sono ragioni di politica generale, di psicologia sociale e di promozione civile e culturale: il ponte sullo stretto deve essere concepito come un’opera di avanguardia da affrontare con lungimiranza, decisione e coraggio, perché, alle soglie del 2000, è una occasione unica per stimolare l’intraprendenza della nazione nel campo delle grandi realizzazioni costruttive e per qualificarne il rango fra i popoli di avanzata civiltà tecnica. Il progetto prevede due piste autostradali larghe 15 metri ciascuna per complessive otto corsie delle quali due per la sosta, e due binari ferroviari con pendenze massime del

10%. Le antenne in acciaio di elevate caratteristiche (tipo T I) dovranno sorgere al limite fra il mare e le due sponde; la loro pianta è a forma di stella a tre punte ed esse saranno accessibili grazie ad un sistema di ascensori. […] Questo è stato l’intendimento che ha ispirato il progetto. Oggi dobbiamo Inventare il futuro, proiettando in esso quell’armonia fra ragione e natura Che è il più prezioso patrimonio ideale che ci ha lasciato la civiltà classica.”

Nel 1969 il Ministero dei Lavori pubblici bandisce il Concorso internazionale per un ponte stradale e ferroviario sullo Stretto tra Scilla e Cariddi.

L’architetto Sergio Musmeci, elabora il progetto per un ponte sospeso, a luce unica di 3 km.

Piloni alti 600 m, e un sistema di sospensioni in grado di resistere alle spinte del vento ed evitare deformazioni. Una tensostruttura con due antenne di acciaio che sorgono al limite tra il mare e le due sponde; un sistema di cavi portanti che sostiene una campata di 2 km e due tratti laterali di 500 m ciascuno.

Sergio Musmeci (Roma, 2 giugno 1926 – Roma, 5 marzo

1981) è stato un ingegnere italiano, considerato uno dei più grandi strutturisti insieme a Riccardo Morandi, Pier Luigi Nervi e Silvano Zorzi. Periodicamente il Ponte sullo stretto ritorna un po’ come il mostro di Loch Ness, alla differenza che non mi sembra che Nessy, come viene affettuosamente chiamata ormai, sia stata creata per permettere alla Mafia di intascare sostanzioni benefici e far inoltre guadagnare milioni al cinema Hollyvoodian che non mancherà certamente di proporci qualche film catastrofico che sarà anche molto più economico dopo i disastri che sicuramente la zona sismica e le forti correnti e venti locali faranno subire a quest’opera tanto agognata da personaggi come Berlusconi ex cavaliere ormai decaduto e il famoso cazzaro verde di cui la Magistratura ha stabilito che trattarlo di sciacallo non é un reato.

Nel frattempo qualche studio ulteriore permetterà a qualche ingegnere e/o architetto nonché geometra e geologo di sbarcare il lunario.

Vittorio E. Pisu

https://www.domusweb.it/it/ dall-archivio/2011/05/19/ponte-sullo-stretto-di-messina. html

S’ARTI NOSTRA 10 IL
Photo
Disegno Concettuale
di Sergio
MusumeciMAXXI Museo Nazionale delle Arti del XXI SecoloRoma
U

Abbiamo avuto modo di appurare, leggendo le bellissime storie dei tanti amici che si sono avvicendati su queste pagine, che la nostra fotografia è sempre caratterizzata da un percorso fluttuante.

Di questo conosciamo solo il punto di partenza, non ci è dato di sapere però, quale sarà quello di arrivo.

Ogni qual volta infatti crediamo di averne individuato uno, sentiamo immediatamente dopo il bisogno ulteriore di battere nuove strade. In questi momenti, quale seguire rispetto a tutte quelle che abbiamo davanti, spesso ce lo suggerisce un incontro illuminante piuttosto che una folgorazione.

L’ospite di oggi, Aldo Larosa, per me ha rappresentato entrambe le cose.

E’ stato il mio primo punto di riferimento, il mio primo maestro.

Ha sessantotto anni, è sposato con Maria Teresa e papà di Claudia.

Calabrese di origine, vive ormai nella capitale da tantissimi anni.

Ha lavorato fino alla pensione per la Direzione Generale delle FS.

La sua passione per la fotografia nasce negli anni ’50, quando rimane ammaliato dalla “magia” che quest’arte, praticata dai fotografi del suo paese, Melicuccà in provincia di Reggio Calabria, suscita nel bambino che è all’epoca.

Bisogna però aspettare gli anni ’80 perché si avvicini personalmente alla fotografia.

Comincia a fotografare con una Pentax che ancora oggi custodisce gelosamente.

Da qualche mese inoltre, ha rimesso in funzione questa macchina e i suoi obiettivi, infatti la grande passione per la fotografia lo ha portato ad iscriversi alla Scuola Professionale Statale Cine-TV “Roberto Rossellini”: ammesso al terzo anno, frequenta il corso serale per il conseguimento del diploma di maturità in Fotografia, che, se tutto andrà bene, arriverà con l’esame di Stato nell’estate del 2019, quando sarà vicino all’età di settant’anni!

Ho conosciuto Aldo diversi anni fa come spesso succede oggi giorno, grazie ai social. Ho avuto modo nel tempo di apprezzarne le importanti abilità fotografiche e le innu-

merevoli doti umane. Sono riuscito anche a consolidare questo prezioso rapporto, avendo la fortuna di conoscerlo personalmente. Con lui ho condiviso diverse esperienze esaltanti nelle quali ho imparato ad apprezzare i valori profondi che lo animano.

Non è concepibile per me infatti, individuare dei punti di riferimento se non c’è alla base una forte stima personale.

Sanguigno come tutti gli uomini del Sud, Aldo ha una sola parola, sempre gentile tra l’altro.

E’ uomo d’altri tempi, galante, perspicace e si è distinto negli anni come fotografo minimalista, diventando per la numerosa categoria di fotoamatori presenti sui social, un punto di riferimento certo.

Ha aiutato e sostenuto la crescita di molti di noi, garantendo un conforto continuo.

Negli anni ’80, agli esordi in questo mondo, ignora completamente di quali e quanti generi è costellata la fotografia. Fotografa di tutto, ma con parsimonia, tenuto conto che per le stampe si rivolge a dei laboratori specializzati. Un suo cruccio è quello di

non aver mai avuto la possibilità di sviluppare e stampare in casa. Al minimalismo arriva per caso.

Quindici anni fa circa, scatta una fotografia durante una vacanza nella sua casa al mare.

La composizione include quattro scope, tutte con setole e manici di colore diverso, precedentemente lavate e messe ad asciugare.

Le trova poggiate su un muro bianco candido, sfalsate e con le setole rivolte verso l’alto. Quella è stata, se pur inconsapevolmente, la sua prima fotografia minimalista.

Pubblicata infatti su Panoramio, sito di Google per la condivisione delle fotografie recentemente chiuso, i suoi amici la classificano subito come appartenente al genere.

Comincia così per lui lo studio di questo affascinante modo di produrre fotografie. Gli piace ricordare sempre in proposito, a chi racconta la sua storia, un passaggio che considera fondamentale per la sua formazione; la presenza assidua in un gruppo Facebook molto conosciuto nel panorama dei social e dei minimalisti della prima ora, Only Minimal.

Fondato nel 2012 da Biancamaria Bini, questo gruppo ha infatti forgiato moltissimi autori che si sono accostati a questo genere.

Le sue immagini oltre ad essere meravigliose, sono sempre riconoscibili, hanno quella che si definisce una cifra stilistica.

La sua fotografia è essenziale, sempre originale e le sue composizioni sono sempre un esempio di accuratezza. Si evince dai suoi lavori quasi un bisogno estremo di pulizia delle linee e la necessità impellente di una composizione rigorosa e precisa. Una caratteristica che contraddistingue Aldo in modo particolare è quella di saper decontestualizzare dei dettagli dal loro naturale contesto, rendendoli non immediatamente riconducibili ad esso. Ha la rara capacità di riuscire a scorgere similitudini ed analogie fra un oggetto noto ed il dettaglio ripreso, rendendo quest’ultimo, attraverso un’accurata composizione, difficilmente contestualizzabile.

Si diverte poi a stimolare chi osserva, invitandolo a capire di cosa si tratti realmente.

(segue pagina 14)

S’ARTI NOSTRA 11
ALDO LAROSA
Phto aldolarosa

Fotografia di Aldo Larosa

S’ARTI NOSTRA 12

(segue dalla pagina 11)

Aldo Larosa – Un paio di scarpe da donne, che ricordano un calice

La sua corposa produzione fotografica spazia dal minimalismo geometrico a quello astratto.

Altra peculiarità importante di tutti i suoi lavori è la totale assenza di post produzione così come oggi viene comunemente intesa.

Essa si limita infatti a pochi ritocchi circa il “taglio” da dare alla composizione in cui spesso gioca anche sul rovesciamento del soggetto ripreso.

Lo fa roteare sul suo asse orizzontale piuttosto che su quello verticale, cambiando così di fatto la sua posizione naturale.

Questo gioco, gli permette di disorientare l’osservatore spingendolo ad una lettura più accurata dell’immagine. Ha nel tempo elaborato una finissima tecnica manuale che già in fase di scatto gli permette di avere nella composizione ciò che gli serve, facendo estrema attenzione al rispetto delle linee e delle geometrie.

Questo perché come candidamente ammette, “Non so usare nessuna delle numerose funzionalità che photoshop mette a disposizione, ma se anche sapessi farlo, preferirei sempre ingegnarmi a produrre lo scatto attraverso una maggiore cura nella realizzazione della composizione piuttosto che aiutandomi con qualche software“.

Della sua fotografia, dice Maria Privitera – Docente di Storia dell’Arte – “Che piacere, che gusto scorrere i tuoi minimal, tra tanto inquinamento visivo i tuoi silenzi raccontano senza urli.” Un viaggio in un minimalismo rigoroso e severo che mi ha fatto rivivere delle bellissime sensazioni, quasi un ritorno alle origini, ad una fotografia pensata e mai improvvisata, che tiene conto delle rigide prescrizioni di un genere forse oggi alla deriva. Concludo con un pensiero di Aldo, uno di quelli che spesso gli ho sentito ripetere: “In ogni cosa che viene osservata con l’intento di fotografarla, vi è la possibilità di ottenere almeno uno scatto del genere minimalista: la capacità sta nel trovarlo”.

Luigi Coluccia

https://artevitae.it/aldo-larosa-minimalismo/

I Piccolissimi Stampa ricamata (luglio 2019)

Pietrina Atzori (fiber artist)

Rosaria Straffalaci (pittrice informale)

Aldo Larosa (fotografo minimalista)

Dimensioni 13x18 cm

Pezzi numerati 18

Tecnica: fotografia, mobilart, ricamo su carta

“I Piccolissimi sono una serie di stampati ricamati che nascono da una azione artistica cpondivisa

organizzata da Rosaria Straf-

falaci e Pietrina Atzori attive nella ricerca della contaminazione artistica.

vedi il video

https://vimeo.com/350052129

In occasione della mostra “minimAldo”, tenutasi a luglio 2019. la cui fotografia minimalista di Aldo Larosa è stata protagonista, i due artisti, curatori della mostra, immaginano uno scenario installativo e in questo scenario, con il consenso e la complicità di Larosa , iniziano la loro ricerca. Dopo aver selezionato alcuni scatti minimalisti, le due artiste iniziano a interagire e ciascuna interviene con il proprio linguaggio espressivo.

Il primo livello è quello della mobileart, attraverso cui i piani minimalisti sono abitati da altre presenze, spesso il volto di una donna con richiami al mondo delle figure femminili nella pittura più nota. In una fase successiva si inserisce il linguaggio della fiberart, attraverso ricami e inserimenti tessili, a volte preposti a sottolineare passaggi visivi, altre volte in un dialogo aperto con l’immagine.

Fu in questa occasione che conobbi Aldo Larosa e rimasi affascinato dalle sue immagini, che non definirei minimalista, ma piuttosto un modo di produrre dell’astrazione con immagini di realtà figurative e che con uno zoom apparirebbero come

figurative di una realtà che ci sforziamo di catturare, capire, interpretare, afferrare, proprio come la cosiddetta pittura astratta è un momento lontano dalla figurazione dell’universo che ci circonda, Ultimamente, ma è stato cinque anni fa quasi contemporaneamente all’incontro con Aldo, ho intervistato Tonino Casula, forse il più grande artista sardo vivente all’epoca, che per anni ha lavorato proprio sulla percezione visiva (nato quasi cieco ritrovò la vista a 30 anni) riuscendo fino a produrre quello che chiamava “ cinema astratto”. Infatti, immagini composte da figure geometriche di base che mi ricordano di più gli esercizi di geometria descrittiva dei miei anni all’Istituto per Geometri, che mi fanno subito pensare al pittore Cézanne e a queste semplificazioni proprio negli elementi geometrici di base del suo modo di interpretare il visibile e trascrivibile della realtà su una tela. Infine, da qualsiasi parte, vogliamo affrontare la questione di come intitolare le fotografie di Aldo Larose, trovo che siano semplicemente belle e senza chiedere aiuto a Freud, alla mitologia greca oa qualsiasi farneticazione sintagma-

tica, ognuna di esse. è intrisa di grande serenità, mi fanno pensare ai pittori quali Cimabue ed anche Giotto, e sembrano dirci che alla fine non solo è tutto molto semplice, ma soprattutto bello e basta quindi prestare attenzione ai suoi scatti che ci spronano a guardarci meglio intorno e scoprire sicuramente le bellezze nascoste anche nell’allineamento di tre scope di colori diversi o dua scarpine con il tacco abbandonate su di un pavimento una sera di festa. Questa è in definitiva un’ottima notizia e una prova dell’ottimismo che ci manca terribilmente in questi tempi tristi. Aggiungo inoltre che all’occasione del vernissage Aldo ci regalò delle sue doti sconosciute a noi di fisarmonicista, interpretando liberamente qualche pezzo standard ed anche alcuni che credo di cua composizione, insomma un artista completo di cui non abbiamo ancora finito di scoprire le tante sfaccettature. Incontrarlo é stato veramente un regalo, per di più mi onorò di una delle sue fotografie che apprezzo particolarmente nella sua specifica italianità tradotta cripticamente ma facilemente comprensibile ai più.

S’ARTI NOSTRA 14
Photo aldolarosa

La Biennale Venezia ha inaugurato il 20 maggio la 18ma Mostra Internazionale di Architettura.

A curarla è Lesley Lokko, a molti nota come scrittrice di romanzi, ma anche architetto e docente di architettura, nel board di importanti istituzioni oltre che fondatrice dell’African Futures Institute ad Accra, in Ghana, sua patria assieme alla Scozia.

Il suo essere è un felice melting pot che si riflette appieno nella Biennale di Venezia, dal titolo The Laboratory of the Future.

L’abbiamo incontrata.

Prima affermazione: questa Biennale di Venezia sarà un agente di cambiamento. «Non ho mai utilizzato questa espressione fino alla conferenza stampa.

Dopo un anno di dialogo con i partecipanti, in cui cercavo parole chiave e obiettivi precisi, ho capito che loro avevano l’opportunità concreta di cambiare le cose, e da qui il termine», risponde Lokko, che alla Biennale Venezia non chiama architetti gli espositori bensì “practioners”, perché lei ha invitato non solo progettisti (nomi enormi come David Adjaye, Francis Kéré, Forensic Architecture, Neri&Hu), ma anche registi come Amos Gitai, poeti

come LionHeart, fotografi come James Morris, accanto a big e giovanissimi. «Innanzitutto ho sempre pensato che l’architettura sia una categoria molto vasta, la disciplina è altra cosa rispetto alla pratica.

E poi, quando scrivo un romanzo a volte mi capita di terminare un paragrafo e capire che non avrei potuto scriverlo diversamente, funziona.

Nel tempo, scrivendone altri, ho realizzato che se ho questa sensazione almeno un paio di volte nella stesura del testo significa che sto facendo un buon lavoro. Ho imparato a fidarmi del mio istinto.

Lo stesso che ho seguito per scegliere gli invitati alla Biennale di Architettura 2023, la sfida per me non è stata stilare la lista, ma accorciarla.

Sono persone in sintonia con il mio pensiero, e alla fine tra loro hanno funzionato».

È una prima volta di prime volte questa Biennale a Venezia: 63 le nazioni, 89 i partecipanti, di cui oltre la metà africani o della diaspora; in generale l’età media

è 40 anni e molte sono donne; quasi la metà degli studi è composta da un singolo individuo o un piccolo team; e ci sono architetti del paesaggio, accademici, ingegneri, urbanisti, architetti e designer.

Il Padiglione Centrale ai Giardini raduna 16 studi nella sezione Force Majeure, mentre l’Arsenale ospita le Dangerous Liaisons e la sezione dei Progetti Speciali della Curatrice, che quest’anno ha ampio spazio, e ci sono poi gli Ospiti dal Futuro. Novità è anche il primo Biennale College Architettura, un programma didattico con docenti internazionali.

La Biennale Venezia ha un forte focus sull’Africa e la diaspora.

«Ci sono tante narrazioni sull’Africa, ma di cui gli africani non hanno mai avuto pieno controllo.

Ho voluto dare loro voce, consapevole che parlare della tua cultura in un Paese straniero influenza anche te stesso, è un’occasione di cambiamento per te e chi ti ascolta.

È anche un modo di normalizzare la visione: se ci si aspettano rivelazioni non si capisce che queste persone sono architetti e progettisti come tutti gli altri. Ho chiesto a tutti autenticità. Di riconoscere l’opportunità e la responsabilità che hanno a essere qui», dice Lokko Decarbonizzazione e decolonizzazione – ambientale ma anche culturale – sono i temi principali di riflessione dichiarati dalla Biennale di Venezia, che Lokko ha invitato ad affrontare con uno

LOKKO E LA BIEN NALE D’ARCHITETTURA

strumento forte: l’immaginazione.

«Si tratta delle questioni più pressanti al momento nel mondo.

Quando ero studentessa ad architettura a Londra non c’erano africani nella mia classe. E se in un progetto cercavo di parlare del mio background immediatamente ci si aspettava che il mio lavoro avesse una determinata narrativa, centrata su guerra, povertà, mancanza di risorse... Sembrava che l’immaginazione fosse inappropriata per me, come se sia appannaggio solo di chi ha soldi e risorse. Ho capito in fretta che dovevo essere una “problem solver”, ma è proprio l’immaginazione a essere lo strumento più gratuito e a disposizione di tutti».

Questa Biennale Venezia pone temi universali che spaziano dal razzismo alle questioni di genere, dal cibo all’edilizia. Ma si pone anche come obiettivo una riflessione autoreferenziale sull’impatto, ambientale e culturale, di un evento di tale portata.

Nel 2022 la manifestazione ha ottenuto la certificazione di neutralità carbonica, i padiglioni sono realizzati riciclando quelli della scorsa edizione d’arte. «Ho a lungo pensato a ciò, per questo ho voluto definire la manifestazione un agente di cambiamento. Cecilia (Alemani, curatrice della Biennale Arte 2022, ndr) ci ha lasciato un fantastico scheletro, un dono, così corretto dal punto di vista costruttivo ed estetico.

Riutilizzando i materiali di quei padiglioni abbiamo eliminato i costi e l’inquinamento di strutture nuove.

Ma soprattutto, stavolta servono spazi diversi: i progetti non sono le solite maquette o rappresentazioni in scala di edifici realizzati dagli studi in qualche parte del mondo, questa Biennale parla anche del suono, dell’odore, della luce dei luoghi, che siano nel mondo o nell’immaginario.

I practioners si sono impegnati nel costruire conoscenza, che è una forma di architettura maggiore di un’architettura».

«Ciò che spero la gente si porti via da questo evento è il pensiero che, se cominciamo a mutare i paradigmi che abbiamo sempre seguito per conoscere o metterci in relazione con gli altri, creiamo il cambiamento. Poi, non è detto che accada. Ma se non inizi, non ci arrivi».

https://www.ad-italia.it/gallery/ la-biennale-architettura-di-venezia-raccontata-dalla-curatrice-lesley-lokko/

S’ARTI NOSTRA 15
LESLEY
Phto jacoposalvi

Hai novant’anni.

Sei vecchia, piena di acciacchi.

Mi dicono che sei stata la più bella ragazza del tuo tempo e io ci credo.

Non sai leggere.

Hai le mani grosse e deformate, i piedi induriti.

Hai portato sulla testa tonnellate di stoppie e legna, laghi d’acqua.

Hai visto nascere il sole ogni giorno.

Con tutto il pane che hai ammassato si potrebbe imbandire un banchetto universale.

Hai allevato persone e bestie, ti sei messa i maialini nel letto quando il freddo minacciava di gelarli.

Mi hai raccontato storie di apparizioni e di lupi mannari, vecchie questioni di famiglia, di un morto ammazzato.

Trave della tua casa, fuoco del tuo focolare, sette volte incinta, sette volte hai partorito.

Non sai niente del mondo.

Non ti intendi di politica, né di economia, né di letteratura, né di filosofia, né di religione. Hai ereditato un centinaio di parole pratiche, un vocabolario elementare.

Con questo sei vissuta e vivi. Sei sensibile alle catastrofi e anche ai fatti di strada.

Nutri grandi odi per ragioni che non ricordi più, e grandi dedizioni basate sul nulla. Vivi.

Per te, la parola Vietnam è appena un suono barbaro che non si confà al tuo cerchio di una lega e mezza di raggio.

Della fame sai qualcosa: hai già visto una bandiera nera issata sul campanile della chiesa (me lo hai raccontato tu, o avrò sognato che me lo raccontavi?).

Porti con te il tuo piccolo bozzolo di interessi.

E, tuttavia, hai gli occhi chiari e sei allegra.

Il tuo riso è un fuoco d’artificio colorato. Come te, non ho mai visto ridere nessuno.

Ti sto davanti, e non capisco. Sono della tua carne e del tuo sangue, ma non capisco.

Sei venuta al mondo e non ti sei curata di sapere che cos’è il mondo.

Arrivi alla fine della vita e il mondo, per te, è ancora quel che era quando nascesti: un interrogativo, un mistero inaccessibile, una cosa che non fa parte della tua eredità. Cinquecento parole, un fazzoletto di terra di cui si fa il giro in cinque minuti, una casa di tegole e pavimento di terra battuta.

JOSE’ SARAMAGO

Stringo la tua mano, passo la mia mano sul tuo viso rugoso e sui tuoi capelli bianchi, rovinati dal peso dei fardelli — e continuo a non capire. Sei stata bella, dici, e vedo bene che sei intelligente.

Perché allora ti hanno rubato il mondo?

Chi te lo ha rubato?

Ma questo forse lo capisco io, e ti direi il come, il perché e il quando se solo sapessi scegliere delle mie innumerevoli parole quelle che tu potresti comprendere.

Però ormai non ne vale la pena.

Il mondo continuerà senza di te e senza di me.

Non ci saremo detti l’un l’altro quel che più importava. Non ce lo saremo detto, davvero?

Io non ti avrei dato, perché le mie parole non sono le tue, il mondo che ti era dovuto. Resto con questa colpa di cui non mi accusi — ed è ancora peggio.

Ma perché, nonna, perché ti siedi sulla soglia della porta, aperta sulla notte stellata e immensa, sul cielo di cui nulla sai e nel quale mai viaggerai, sul silenzio dei campi e degli alberi attoniti, e dici, con la tranquilla serenità dei tuoi novant’anni e il fuoco della

tua adolescenza mai perduta:

« Il mondo è così bello, e io ho tanta pena di morire!

»

E’ questo che non capisco ma la colpa non è tua.

“Di questo mondo e degli altri “ Di questo mondo e degli altri raccoglie gran parte dei testi dei due libri di cronache scritte da José Saramago tra il 1968 e il 1969 per i giornali di Lisbona “A Capital” e “Jornal do Fundão”, pubblicati rispettivamente nel 1971 e nel 1973.

Sono settantatré racconti che descrivono quasi tutti episodi di vita reale vissuta da Saramago, in cui il grande scrittore lusitano alterna diversi registri narrativi.

I temi spaziano dalle conseguenze del sisma alla sua grande passione per gli animali e per l’ecologia; i nonni analfabeti e pastori di porci; la Rivoluzione dei Garofani; l’impacciata foto dei genitori; lui stesso bambino scalzo; la nebbia del mattino; i contadini; il “mare portoghese”; l’arrotino; tutte figure che in seguito si trasformeranno nei suoi stessi personaggi... e, poi, Lisbona e il Portogallo. Nei racconti che compongono

questo libro c’è il “vivaio” di tutta l’opera a venire del grande premio Nobel portoghese. José Saramago è nato nel 1922 ad Azinhaga, in Portogallo. Due anni dopo la sua nascita, la famiglia dello scrittore si trasferisce a Lisbona dove il padre lavora come poliziotto. Le difficoltà economiche in cui la famiglia versa, lo costringono ad abbandonare gli studi e a intraprendere diversi lavori. Fa così il fabbro, il disegnatore, il correttore di bozze, il traduttore, il giornalista, e il direttore letterario e di produzione in una casa editrice.

Nel 1947 pubblica il suo primo romanzo, “Terra del peccato” che riceve una tiepida accoglienza.

Sono gli anni bui della dittatura di Salazar: Saramago subisce costantemente la censura del regime sui suoi scritti giornalistici ed è tenuto sotto controllo dalla Pide, la polizia politica salazariana, a cui riesce sempre a sfuggire, anche quando – nel 1959 – si iscrive al Partito comunista portoghese, allora clandestino.

Negli anni sessanta l’attività pubblicistica di Saramago è indirizzata verso la critica letteraria, e nel 1966 dà alle stampe la sua prima raccolta

S’ARTI NOSTRA 16
Phto pepimerisio 1959

di poesie, I poemi possibili.

Seguono, nel 1970 la raccolta “Probabilmente allegria” e le cronache “Di questo e d’altro mondo” del 1971, “Il bagaglio del viaggiatore” del 1973 e “Le opinioni che DL ebbe” del 1974.

Nel 1974, l’anno della ‟Rivoluzione dei Garofani” - il colpo di Stato militare che sancisce la fine del regime fascista in Portogallo – si apre una nuova fase nell’attività letteraria di Saramago che si concretizza nel romanzo del 1977 Manuale di pittura e calligrafia, mentre l’anno successivo pubblica “Una terra chiamata Alentejo”.

Sempre in questo periodo scrive per il teatro (“La notte”, 1979 e “Cosa ne farò di questo libro?”) un attività che continuerà anche negli anni successivi (“La seconda vita di Francesco d’Assisi”, 1987; “In Nomine Dei”, 1993 e “Don Giovanni, o Il dissoluto assolto” del 2005).

Nel 1982 pubblica “Memoriale del convento” (edito in Italia da Feltrinelli nel 1984), il romanzo che gli dà notorietà a livello internazionale.

Seguono “L’anno della morte di Ricardo Reis” (1984; Feltrinelli, 1985), “La zattera di

pietra” (1986), “Storia dell’assedio di Lisbona” (1989). Negli anni novanta escono “Il vangelo secondo Gesù Cristo” (1991), “Cecità” (1995) e “Tutti i nomi” (1997). Il primo decennio del 2000 è il più prolifico dell’attività di scrittore di Saramago, che dà alle stampe ben sette romanzi: “La caverna” (2001), “L’uomo duplicato” (2002), “Saggio sulla lucidità” (2004), “Le intermittenze della morte” (2005), “Le piccole memorie” (2006), “Il viaggio dell’elefante” (2008) e “Caino” (2009). Nel 1998 gli viene assegnato il premio Nobel per la letteratura, riconoscimento che suscitò molte polemiche nel mondo cattolico per le sue ben note posizioni antireligiose. Polemiche che lo hanno fatto decidere di trasferirsi a Lanzarote, nelle isole Canarie. È morto nel giugno 2010. Feltrinelli sta pubblicando l’intera sua opera.

BRUNO WALPOTH

Bruno Walpoth é nato nel 1959, a Bressanone, in Italia, ha studiato a Ortisei, in Trentino Alto-Adige, dove ora vive, in una casa di 350 anni che apparteneva ai suoi genitori. Walpoth è cresciuto in una rinomata cultura dell’intaglio del legno e ha continuato sulle orme dei membri della sua famiglia che erano essi stessi maestri artigiani.

Scrive: “Nella nostra valle c’è una tradizione di 400 anni di cultura della scultura del legno. Sia mio nonno che mio zio erano scultori del legno, quindi sono cresciuto con questo mezzo”. All’età di 14 anni, Bruno iniziò il suo apprendistato nell’intaglio del legno, sotto la guida di Vincenzo Mussner, quando dal 1973 ha lavorato presso di lui ad Ortisei. abbracciando le antiche tradizioni dell’intaglio del legno della regione delle Dolomiti famosa per le statue e gli altari in legno, nonché per le bambole di legno prodotte dagli artigiani locali.

Nel 1978 si è trasferito a Monaco di Baviera per frequentare l’accademia Der Bildende Künste fino al

1984, studiando col Professor Hans Ladner.

Walpoth combina l’educazione ricevuta negli studi di Ortisei e i loro 400 anni di storia della scultura del legno con le tecniche e le forme della scultura contemporanea.

Parte delle sue sculture sono spesso dipinte con colori tipicamente tenui; egli usa questi colori per creare vestiti, capelli e a volte la pelle per le sue figure.

Più che raccontare una storia tramite le sue opere, Walpoth mira a catturare un momento di isolamento ed introspezione.

I suoi soggetti sono rigidi, immersi nei propri pensieri, e i loro occhi spesso evitano quelli dell’osservatore. Generalmente più conosciuto per le sue sculture in legno, Walpoth ha recentemente prodotto anche sculture in cartone e bronzo. Con le numerose apparizioni in mostre personali e in musei di tutto il mondo, i lavori di Walpoth sono parte di molte collezioni internazionali.

Nel 2015 l’artista ha partecipato a Personal Structure – Crossing Borders, parte della 56esima Biennale di Venezia.

Bruno Walpoth è rappresentato da numerose gallerie in Europa e in Asia e ha partecipato a mostre personali e collettive in tutto il mondo. Il suo lavoro oggi possiede sia una qualità animata che profondamente senza tempo: “le sue statue non sono oggetti, piuttosto creazioni quasi animate con anime, i loro sentimenti nudi per lo spettatore da vedere”. “Allontanandosi dalla tradizione religiosa dell’intaglio del legno della sua terra natale, percorre un nuovo sentiero, dando vita alla materia; il legno nelle sue mani trascende i confini dell’inanimato, diventa vivo e lo spettatore, come un moderno Pigmalione, rimane estasiato dal calore e dall’intimità del legno.

In questo contesto, mentre lui stesso è un modello molto appropriato per l’intagliatore Geppetto del racconto di Pinocchio di Carlo Collodi, Walpoth ha creato la scultura in legno utilizzata nella versione cinematografica della storia di Matteo Garrone del 2019, con Roberto Benigni come intagliatore.

www.walpoth.com
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Foto brunowalpoth

el 2019, un dipinto di Giovanni Battista Tiepolo dal titolo “San Francesco di Paola con in mano un rosario, un libro e un bastone” è stato messo all’asta e venduto.

Nel lotto, il proprietario era descritto solo come “Proprietà di un’illustre collezione privata” e la provenienza era indicata come: “Galerie Wolfgang Böhler, Bensheim, Germania”, seguita da “Vendita anonima”.

La letteratura fornita a sostegno della provenienza era A Complete Catalog of the Paintings of G.B. Tiepolo di Antonio Morassi del 1962.

Ma ora gli eredi di un gallerista ebreo, Otto Fröhlich, si sono fatti avanti e hanno fatto causa alla casa d’aste per non aver incluso la provenienza completa dell’opera, che era stata posseduta e poi abbandonata dal suo proprietario, venduta sotto costrizione, quando fuggì dai nazisti dall’Austria nel 1938.

I numerosi errori e omissioni nello studio della provenienza del Tiepolo andato in asta

Una ricerca più approfondita sulla provenienza dell’opera rivela numerosi errori e omissioni importanti.

Innanzitutto, si scopre che il dipinto era di proprietà di una persona diversa: un gallerista di nome Julius Böhler, e non Wolfgang Böhler, e che i due non erano collegati.

Un controllo della scheda di catalogo di Morassi menziona semplicemente “Böhler” e “Monaco”, e non la città di Bensheim.

Wolfgang Böhler non è mai stato collegato a quest’opera e suo figlio lo ha confermato.

Il gallerista Julius, il cui nome non è stato indicato nel lotto, possedeva il dipinto ed era noto dal 1946 come persona coinvolta nel saccheggio di opere d’arte naziste.

Secondo gli eredi Frölich, il nome di Julius è elencato come un “strong Nazi” presso l’Art Looting Investigation Unit Group del governo statunitense.

Ulteriori ricerche condotte dalla Mondex Corporation per conto degli eredi hanno trovato documenti che dimostrano che Fröhlich aveva trasferito il dipinto alla Galerie Sanct Lucas di Vienna per custodirlo quando era fuggito da Vienna, ma il proprietario della galleria aveva poi ricevuto il permesso dai nazisti di vendere l’opera nel 1941 per coprire i debiti che Fröhlich doveva alla galleria.

Gli eredi di Frölich sostengono che la vendita fu forzata e che il dipinto fu venduto al di sotto del valore di mercato.

Nella causa, gli eredi Frölich ritengono che la casa d’aste abbia intenzionalmente ingannato gli acquirenti, cambiando i nomi Julius in Wolfgang e la città di Monaco in Bensheim, al fine di facilitare la vendita senza sollevare questioni sulla proprietà passata dell’opera. La casa d’aste sostiene invece che si è trattato di un “errore umano” e che non era a conoscenza

della problematica storia di provenienza dell’opera.

La casa d’aste ha ora intrapreso ulteriori ricerche e ritiene di aver trovato un proprietario precedente che potrebbe avere un diritto sull’opera.

Fröhlich acquistò il quadro di Tiepolo nel 1938 da una persona che descrive come sua cugina, Adele Fischel, che fu poi deportata e uccisa nel campo di Theresienstadt. Fröhlich sostiene che si trattò di una transazione in buona fede.

Ora sorge un ulteriore problema per il venditore.

A causa delle leggi sulla privacy, la casa d’aste ha il diritto di non rivelare il nome dell’acquirente del dipinto all’asta.

Pertanto, la famiglia non ha modo di tentare di reclamare il dipinto dall’acquirente.

Gli eredi chiedono alla casa d’aste di rilasciare il nome dell’acquirente.

Le case d’asta di solito non rivelano i nomi dei mittenti o degli acquirenti, ma gli eredi sostengono che c’è una base per obbligare la casa d’aste a farlo, perché queste informazioni sono fondamentali per i loro sforzi legali per recuperare il dipinto.

Perché il nome è stato trascritto erroneamente come Wolfgang e non Julius e la città come Bernsheim e non Monaco? Chi ha condotto la ricerca e quali erano le sue qualifiche professionali? Quali fonti ha controllato o trascurato di controllare?

La domanda cruciale

Queste domande portano a una questione più importante: quale approccio di due diligence è stato utilizzato per determinare la provenienza dell’opera?

Questo problema riguarda tutte le parti coinvolte nella transazione: l’acquirente, il venditore e la casa d’aste come intermediario.

Attualmente non esistono standard condivisi per la conduzione della due diligence sulle opere d’arte. Senza uno standard di questo tipo, è impossibile determinare chi ha condotto la due diligence, qual è stato il suo livello di competenza, quali fonti ha utilizzato e come ha interpretato le informazioni. Sarebbe analogo a risolvere un problema matematico e arrivare alla risposta sbagliata senza mostrare sulla carta i passaggi di come il calcolo è stato fatto per poter capire dove sta l’errore.

Come può una casa d’aste proteggersi dall’”errore umano” e dalle rivendicazioni legali legate alla vendita di un’opera d’arte con una provenienza superficiale, parziale o errata?

Come possono un venditore e un acquirente proteggersi dalla vendita o dall’acquisto di un’opera d’arte con una provenienza problematica? E come può un giudice stabilire se si è trattato veramente di un errore umano o piuttosto di un tentativo intenzionale di coprire o sfumare informazioni problematiche?

The Hecker Standard®, un metodo per la due diligence basato sulle prove, richiederebbe a ciascun membro

coinvolto nella transazione di assumere uno specialista esterno alla transazione, indipendente, che segua una serie codificata di passi per condurre una ricerca approfondita.

Il risultato sarebbe una relazione di Due Diligence firmata, datata e soprattutto imparziale, condotta da un ricercatore qualificato, conosciuto e rispettato, con una formazione professionale e una specializzazione nella ricerca sulla provenienza dell’arte trafugata dai nazisti.

Lo specialista scelto deve affermare di non avere conflitti di interesse e di non essere coinvolto nella transazione. Infine, lo specialista deve essere in grado di “mostrare il suo lavoro”, fornendo una checklist insieme alle prove materiali e documentate dei passaggi del suo processo, comprese le copie di tutti i documenti e le fonti utilizzate.

Nel caso di un’eventuale causa legale, ciò consentirà al giudice di determinare la natura della ricerca condotta e la professionalità della persona che ha condotto la ricerca.

Ritengo che un approccio codificato e condiviso alla due diligence sia l’unico modo in cui gli acquirenti, i venditori e le case d’asta possano iniziare a proteggersi da future richieste legali relative a ricerche superficiali o errate o a provenienze intenzionalmente sfumate.

www.we-wealth.com/news/pleasure-assets/trasmissione%20beni%20da%20collezione/il-tiepolo-trafugato-e-lingannevole-quasi-omonimia?utm_source

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Foto artribune
Il Tiepolo trafugato e l’ingannevole (quasi) omonimia
Uno stesso cognome, due nomi diversi. E una provenienza incompleta.
È accaduto al “San Francesco di Paola con in mano un rosario, un libro e un bastone” di Giovanni Battista
Tiepolo, venduto in una prestigiosa asta internazionale ma poi
ebreo S’ARTI NOSTRA 18
reclamato dai legittimi eredi di un gallerista

Un ulteriore approfondimento sull’annosa questione dell’utilizzo commerciale di immagini che per la loro potenza culturale e identitaria sono divenute vere e proprie icone Negli ultimi anni, e negli ultimi mesi in particolare, abbiamo assistito ad una costante crescita e presa di consapevolezza sul tema della riproduzione dell’immagine dei beni culturali italiani.

Sebbene l’attuale normativa che regolamenta la valorizzazione e la riproduzione del patrimonio culturale italiano risalga ormai a quasi vent’anni fa (D. Lgs. n. 42 del 22 gennaio 2004, meglio noto come Codice dei beni culturali e del paesaggio, che nell’ultimo decennio è stato oggetto di diverse e significative modifiche e aggiornamenti), per molto tempo il dibattito su quali immagini fosse lecito riprodurre e secondo quali modalità è rimasto in un limbo.

Per i non addetti ai lavori si ricorda che in Italia, in base agli articoli 107 e 108 del Codice dei Beni Culturali, tutti coloro che intendono utilizzare e/o riprodurre l’immagine di un bene culturale per finalità direttamente o indirettamente

commerciali devono preventivamente chiedere un’apposita autorizzazione all’autorità che ha in consegna il bene culturale e pagare il corrispettivo determinato da quest’ultima. Costo della riproduzione dei beni culturali: i casi più noti Solo nel 2017, con la pubblicazione di due noti provvedimenti del Tribunale di Firenze e del Tribunale di Palermo, riguardanti rispettivamente la riproduzione da parte di soggetti giuridici privati per finalità promozionali/commerciali del David di Michelangelo e del Teatro Massimo - pronunce che si ritengono “apripista” del filone giurisprudenziale che riconosce come illecito e lesivo dell’immagine e della reputazione del bene l’utilizzo e la riproduzione per scopi promozionali o commerciali dell’immagine dei beni culturali in mancanza di autorizzazione amministrativa e di corresponsione del relativo canone di concessione - la discussione sul tema ha preso davvero vita.

E lo ha fatto in un primo momento accendendo gli animi di giurisprudenza e dottrina, sino a sfociare più di recente in un vero e proprio dibattito pubblico e politico, complici procedimenti transfrontalieri

particolarmente interessanti (si veda la decisione del Tribunale di Venezia che ha inibito alla nota Ravensburger la commercializzazione del puzzle riproducente l’Uomo Vitruviano e da ultimo la decisione del Tribunale di Firenze che ha condannato Condé Nast per l’uso non autorizzato del David di Michelangelo effettuato su un’edizione di GQ Italia), casi dalla forte risonanza mediatica (si veda il caso relativo alla vendita di serigrafie digitali uniche autenticate da blockchain del Tondo Doni), l’avvento di nuove forme di valorizzazione del patrimonio culturale attraverso la tecnologia e la crypto arte (si veda il caso relativo all’Arco della Pace di Milano dove, a seguito di un evento pubblico che ha visto la proiezione di un’opera d’arte generativa sul bene culturale, una startup italiana ha creato e commercializzato NFTs realizzati sulla base di tale evento), il fiorire di politiche comunitarie volte alla creazione di un patrimonio culturale europeo largamente fruibile (si veda l’emanazione della Direttiva 790/2019 sul diritto d’autore nel mercato unico digitale), nonché da ultimo la diffusione di campagne promozionali

QUANTO COSTA RIPR ODURRE BOTTICELLI

statali molto controverse (si veda il caso della campagna del Ministero del Turismo

“Italia - Open to Meraviglia”, dove la Venere di Botticelli viene rielaborata graficamente e resa protagonista di un’operazione promozionale a livello internazionale).

Due correnti di pensiero Il dibattito vede tradizionalmente una divisione in due grandi correnti.

Da una parte coloro che ritengono corretto un approccio “garantista” da parte dello Stato, schierandosi a favore della disciplina del Codice dei Beni Culturali che lasciando all’amministrazione un totale controllo sui beni culturali che ha in consegna (e sulla loro immagine), eviterebbe usi “impropri” da parte di terzi e garantirebbe una valorizzazione del patrimonio culturale italiano sia in termini economici che di reputazione.

Dall’altra parte coloro che ritengono necessario modificare il Codice dei Beni Culturali in quanto l’attuale approccio non sarebbe al passo con il presente contesto digitale, sarebbe contrario alle politiche di “open access” che si stanno diffondendo a livello comunitario e al concetto di “pubblico dominio” e, non da ultimo, non sarebbe efficiente in termini di rapporto tra costi e benefici.

Nel bel mezzo di tale discussione, a metà aprile 2023 il Ministero della Cultura ha emanato le “Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali” (D.M. n. 161 del 11 aprile 2023), con un “Allegato” che determina gli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la riproduzione di beni culturali statali (sezione A) e per la concessione in uso di spazi (sezione B). Si tratta di un atto normativo molto snello (costituito da soli quattro articoli) che va idealmente a completare la sopra citata disciplina del Codice dei Beni Culturali. Nonostante la sua apparente semplicità, però, tale testo fissa almeno tre concetti rilevanti. Stabilendo che i canoni e i corrispettivi di concessione indicati nelle Linee Guida costituiscono gli “importi minimi” che i richiedenti devono versare per l’utilizzo e la riproduzione delle immagini dei beni culturali, ovvero per l’uso degli spazi, il decreto in primo luogo(segue pagina 20)

Foto giusycalia
S’ARTI NOSTRA 19

prevede l’obbligatorietà del pagamento di un quantum in tutti i casi previsi nelle Linee Guida e in secondo luogo sancisce la possibilità per i singoli enti di adottare tariffari ad hoc che potranno prevedere canoni e corrispettivi superiori rispetto ai “minimi” indicati nelle Linee Guida.

Se da una parte, quindi, viene limitata la discrezionalità degli istituti e luoghi della cultura dello Stato nel decidere “se” e “quando” richiedere al singolo il pagamento di un canone o corrispettivo per la riproduzione e l’uso dei beni culturali (in passato gli stessi avevano la facoltà di richiedere un importo anche solo simbolico), dall’altra viene lasciato loro pieno potere di aumentare in modo discrezionale e talvolta senza un tetto massimo gli “importi minimi” previsti dalla normativa.

Peraltro le Linee Guida richiedono che eventuali convenzioni o accordi già stipulati con soggetti terzi - qualora prevedano canoni o corrispettivi inferiori a quelli indicati nei “nuovi” tariffari - debbano essere oggetto di adeguamento, punto questo che desta non poche perplessità, conferendo alla norma una sorta di efficacia retroattiva.

In terzo luogo, le Linee Guida - richiamando (impropriamente a detta di chi scrive) il Codice dei Beni Culturali ed esplicitando un modus operandi che nei fatti veniva già adottato dalle amministrazioni - sancisce che in ogni caso, indipendentemente dal canone o dal corrispettivo individuato, il rilascio dell’autorizzazione per la riproduzione e l’uso dei beni culturali è subordinata alla previa verifica di compatibilità della destinazione d’uso della riproduzione con il carattere storico-artistico del bene.

Così fissando il principio secondo cui i singoli enti potranno discrezionalmente decidere di negare l’autorizzazione per tutte quelle riproduzioni o quegli usi che gli stessi riterranno non “consoni” o non “opportuni”.

Volendo qui concentrarci sulla riproduzione dell’immagine dei beni culturali, le Linee Guida distinguono tra “riproduzioni aventi scopo non lucrativo o per finalità non commerciali” (richieste o eseguite da privati per uso personale o per motivi di studio, ovvero da soggetti pubblici o privati per finalità di valorizzazione, di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o

espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale) e “riproduzioni a scopo lucrativo o per finalità commerciali” (richieste o eseguite da destinare alla vendita sul mercato o per la promozione della propria immagine, del nome, del marchio, del prodotto o attività). Nell’ambito delle riproduzioni senza scopo di lucro le Linee Guida operano un’ulteriore distinzione tra le (poche) riproduzioni che sono in ogni caso libere e gratuite e le riproduzioni che sono sì libere, ma non gratuite in quanto soggette ad un rimborso delle spese “sostenute” dall’amministrazione concedente (concetto non chiaro soprattutto perché in tale categoria il testo della norma fa rientrare anche le riproduzioni eseguite direttamente dai privati per motivi di studio). Anche per determinate riproduzioni effettuate in assenza di lucro viene, quindi, prevista la corresponsione di un quantum (seppur a titolo di rimborso e non di canone). Per quanto riguarda le riproduzioni a scopo di lucro, invece, le Linee Guida elaborano un meccanismo di calcolo per individuare il “corrispettivo minimo” che parte da una tariffa unitaria (da individuarsi

sulla base del macro-prodotto di interesse), che va moltiplicata dapprima per un coefficiente differenziato in funzione dell’uso/destinazione delle riproduzioni (es. editoriale riviste scientifiche, brochure, pubblicazioni diverse da quelle scientifiche, merchandising, etc.) e successivamente per un ulteriore coefficiente relativo alla quantità o alla tiratura (ovvero “download stimati” in caso di e-book) delle riproduzioni da effettuarsi.

blockchain, o in generale ogni opera digitale certificata con tecnologia blockchain che utilizza l’immagine di un bene culturale?), il coefficiente varia addirittura da un minimo del 90% ad un massimo del 99% e si applica sia al mercato primario che al mercato secondario (“prima vendita e successive”).

Il meccanismo di calcolo diventa ancora più complesso qualora le riproduzioni siano finalizzate alla realizzazione di copie o serigrafie digitali in altissima definizione, oppure di NFTs.

In tale eventualità, infatti, per individuare il “corrispettivo minimo” sarà necessario sommare la “tariffa per livello di pregio” stabilita dall’istituto che ha in consegna il bene (ad esempio sulla base della sua importanza storica e artistica) al coefficiente per percentuale sul prezzo di vendita della serigrafia o dell’NFT.

Per quanto riguarda gli NFTs (fermo che non è chiaro cosa debba intendersi per “NFT di beni culturali”: riproduzioni digitali fedeli del bene culturale certificate con tecnologia

Se da una parte le Linee Guida hanno il pregio di voler definire e rendere anticipatamente noto alla collettività il costo da sostenere per poter riprodurre e/o utilizzare i beni culturali e la loro immagine, nonché il merito di affrontare finalmente il tema delle riproduzioni ad altissima definizione di beni culturali pubblici da destinare al mercato (es. digital copies), dall’altra tale testo pare non solo aumentare il già significativo divario esistente tra la disciplina nazionale e quella comunitaria, ma addirittura fare un passo indietro rispetto al previgente assetto normativo interno e rispetto alle “Linee guida per l’acquisizione, la circolazione e il riuso delle riproduzioni dei beni culturali in ambiente digitale” emanate dallo stesso Ministero della Cultura meno di un anno fa (era il giugno 2022). Quest’ultimo testo, infatS’ARTI NOSTRA 20

Foto wikipedia

ti, seppur ritenuto per molti aspetti non del tutto soddisfacente, quantomeno aveva avuto il merito di rendere gratuita la pubblicazione di immagini di beni culturali statali in prodotto editoriale, nonché di aprire un primo spiraglio di luce verso la cultura dell’open access e del riuso dei materiali.

In poco più di un mese dalla sua emanazione, il Decreto Ministeriale ha suscitato forti dissensi e sempre maggiori sono gli appelli al Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano per chiedere una sua immediata revisione. In particolare, è da sottolineare la lettera aperta inviata al Ministro da parte dell’Associazione Italiana per la promozione della Scienza Aperta (AISA) dove viene sottolineato come nel decreto “si stabiliscono principi e regole che danneggiano la ricerca scientifica, contraddicono decenni di politiche di scienza aperta e di apertura del patrimonio culturale (politiche, peraltro, trasversali a governi di diverso segno politico) e pongono l’Italia fuori dagli indirizzi internazionali e dell’Unione Europea” e che “Se le linee guida fossero interpretate alla lettera, occorrerebbe immaginare casi

come quello in cui un museo statale chiede l’applicazione del tariffario a un’università pubblica per la riproduzione di immagini di beni culturali in pubblico dominio. Tale applicazione determinerebbe un inutile giro di denaro pubblico (dall’università al museo) senza alcun beneficio per le casse dello Stato e, anzi, con un aggravio dei costi per la pubblica amministrazione derivante dall’appesantimento burocratico del processo che conduce alla pubblicazione scientifica”.

Ulteriori appelli, osservazioni e richieste di confronto sul Decreto Ministeriale sono arrivati anche dall’Associazione Italiana Biblioteche (AIB) e dalla Federazione Consulte Universitarie di Archeologia (FCdA) e in generale da coloro che ritengono che l’obbligo di sottoporre ad un preventivo vaglio statale ogni riproduzione del patrimonio culturale pubblico costituisca una violazione delle libertà costituzionali di espressione.

Una prima risposta ai numerosi dissensi ricevuti è arrivata qualche giorno fa dall’Ufficio legislativo del Ministero della Cultura che, respingendo le critiche arrivate soprattutto dal mondo accademico, ha

dichiarato che è “falsa e non trova alcun riscontro nei vari passaggi del decreto […] l’affermazione secondo cui gli studiosi dovrebbero pagare per pubblicare le immagini” e precisato che “nei prossimi giorni chiariremo con un successivo atto che nulla è dovuto per le riproduzioni necessarie alle riviste scientifiche […] e per le tesi accademiche”. In attesa, quindi, che il Ministero chiarisca i tanti passaggi oscuri (sia sostanziali che formali) della normativa, rimane sempre alta l’attenzione su un tema - quello della riproduzione dell’immagine di beni che dovrebbero essere di pubblico dominio e, quindi, parte del bagaglio culturale dell’intera collettività - che è ormai passato dall’avere una rilevanza puramente giuridica ed economica, ad averne una sociale e culturale.

Annapaola Negri Clementi

Annapaola Negri Clementi, Valeria Tommasi https://www.we-wealth.com/ news/pleasure-assets/art-legal/quanto-costa-riprodurre-beni-culturali-opere-arte-dibattito-tariffe?

CEMENTO ROMANO HA DURATO SECOLI

n gruppo di ricercatori dà una risposta che fino a questo momento non era mai stata presa in considerazione

Il Colosseo, il Pantheon e tutti i resti romani che si schierano sulle pagine dei sussidiari e dei libri più celebri della storia dell’arte sono il corpo dell’eredità di un popolo abile nel costruire: gli antichi romani.

Perché i loro edifici, messi in piedi migliaia di anni fa, hanno resistito all’avanzare delle lancette dell’orologio, al progredire delle epoche e all’incedere dei decenni. Fino a qualche tempo fa, il segreto di un calcestruzzo così longevo risiedeva in un ricetta indecifrabile che comprendeva l’utilizzo della cenere vulcanica.

Un ingrediente davvero unico. Ma i ricercatori del MIT, del DMAT e dell’IMMS (scienziati più che autorevoli provenienti dagli Stati Uniti, dall’Italia e dalla Svizzera) hanno analizzato un campione del calcestruzzo di duemila anni fa prelevando un pezzetto dei resti del sito archeologico di Privernum, in provincia di Latina.

Il risultato è che il mistero si scioglie davanti a tracce di pietra bianca chiamate lime clasts - elementi non presenti nelle formulazioni moderne del calcestruzzo.

Secondo quanto dichiarato da Admir Masic, autore dello studio e professore associato di ingegneria civile e ambientale presso il Massachusetts Institute of Technology, il calcestruzzo antico prevedeva la miscelazione della calce viva con ossido di calcio come legante.

I lime clasts, inoltre, avevano il potere di auto-rigenerarsi nelle crepe degli edifici dovute agli agenti atmosferici, guarendo le superfici scalfite dal tempo.

Nascevano, poi, grazie a temperature estreme - ne deduciamo che i muratori dell’antica Roma miscelassero il calcestruzzo a caldo.

A questo proposito, Masic ha aggiunto che “quando il calcestruzzo nel suo complesso viene riscaldato ad alte temperature, si creano delle reazioni chimiche che non sarebbero possibili se si utilizzasse solo calce spenta, producendo composti associati ad alte temperature che altrimenti non si formerebbero.

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(segue dalla pagina 21)

In secondo luogo, l’aumento della temperatura riduce significativamente i tempi di maturazione e di presa, poiché tutte le reazioni sono accelerate, consentendo una costruzione molto più rapida”.

Rivelato il segreto di lunga vita delle architetture storiche, ecco che torna una grande verità: è sempre bene conoscere il passato per fare meglio oggi e domani. Il Pantheon di Roma è, nell’itinerario di qualsiasi turista che arriva nella Città Eterna, uno dei monumenti più iconici e imperdibili. Ma cos’è il Pantheon: architettura pagana o cristiana? mausoleo, tempio o basilica? Per rispondere a queste domande risaliamo prima di tutto al significato di Pantheon: in greco antico Pántheon [hierón] significa [tempio] di tutti gli dei, mentre in latino classico viene denominato Pantheum. A partire da questa definizione possiamo comprendere le origini del Pantheon di Roma e la sua storia.

Situato nel rione Pigna, nel cuore del centro storico, venne fondato nel 27 a.C. dall’arpinate Marco Vipsiano Agrippa, genero di Augusto, il quale affidò la realizzazione a Lucio Cocceio Aucto per un tempio dedicato a tutte le divinità passate, presenti e future. Dopo che gli incendi dell’80 e del 110 d.C. avevano danneggiato la costruzione originale di età augustea, l’imperatore Adriano lo fece ricostruire tra il 120 e il 124 d.C..

“Volli che questo santuario di tutti gli dei rappresentasse il globo terrestre e la sfera celeste, un globo entro il quale sono racchiusi i semi del fuoco eterno, tutti contenuti nella sfera cava” Memorie di Adriano, Marguerite Yourcenar (1951).

Dai resti rinvenuti alla fine del XIX secolo sappiamo che il primo tempio era di pianta rettangolare, costruito in blocchi di travertino rivestiti da lastre di marmo. L’edificio era rivolto verso sud, nel senso opposto rispetto alla ricostruzione adrianea, ma il suo asse centrale coincideva con quello dell’edificio più recente e la larghezza della cella era uguale al diametro interno della rotonda. Grazie ad alcune fonti sappiamo anche che i capitelli erano realizzati in bronzo e che la decorazione comprendeva delle cariatidi

STORIA DEL PANTHEON

e delle statue frontonali.

La struttura del Pantheon voluto da Adriano è di forma circolare, unita ad un portico in colonne corinzie (otto frontali e due gruppi di quattro in seconda e terza fila) che sorreggono un frontone triangolare.

Nonostante la sua ricostruzione, fu riportata l’iscrizione originale di dedica dell’edificio che recita: M.AGRIPPA.L.F.COS.TER -

TIUM.FECIT, “Marco Agrippa, figlio di Lucio, console per la terza volta, edificò”.

La grande cella circolare, detta rotonda, è cinta da spesse pareti in muratura e da otto grandi piloni su cui è ripartito il peso della caratteristica cupola in calcestruzzo.

La cupola emisferica ospita al suo apice un’apertura circolare detta oculo, che permette l’illuminazione dell’ambiente interno.

L’altezza dell’edificio calcolata all’oculo è pari al diametro della rotonda, caratteristica che rispecchia i criteri classici di architettura equilibrata e armoniosa.

A quasi due millenni dalla sua costruzione, la cupola intradossata del Pantheon è ancora oggi una delle più

grandi di tutto il mondo e, nello specifico, la più grande costruita in calcestruzzo non armato.

La cupola del Pantheon, del diametro di 43,44 m, è decorata all’interno da cinque ordini di ventotto cassettoni, di misura decrescente procedendo verso l’alto.

Successivamente l’edificio si salvò dalle distruzioni del primo Medioevo perché già nel 608 l’imperatore bizantino Foca ne aveva fatto dono a papa Bonifacio IV (608-615), che lo trasformò nel 609 in chiesa cristiana con il nome di Sancta Maria ad Martyres. L’intitolazione proviene dalle reliquie di anonimi martiri cristiani che vennero portate nei sotterranei del Pantheon.

Si trattò del primo caso di un tempio pagano trasposto al culto cristiano.

Questo fatto lo rende il solo edificio dell’antica Roma ad essere rimasto praticamente intatto e ininterrottamente in uso per scopi religiosi fin dal momento della sua fondazione.

A partire dal Rinascimento all’interno del Pantheon furono realizzate sepolture, in particolare di artisti illustri. Ancor oggi vi si conserva-

no, fra le altre, le tombe dei pittori Raffaello Sanzio ed Annibale Carracci, dell’architetto Baldassarre Peruzzi e del musicista Arcangelo Corelli. Tra le tombe del Pantheon vanno anche citate quelle reali.

È questo, infatti, il luogo in cui sono stati sepolti Vittorio Emanuele II, il figlio Umberto I e la sua consorte, la regina Margherita.

Come esempio meglio conservato dell’architettura monumentale romana, il Pantheon ha avuto enorme influenza sugli architetti di tutto il mondo (un esempio su tutti è Andrea Palladio).

Numerose sale civiche, università e biblioteche, riecheggiano la sua struttura con portico e cupola.

Molti sono gli edifici famosi influenzati dal Pantheon: in Italia si segnalano la chiesa del cimitero monumentale di Staglieno di Genova, la chiesa di San Carlo al Corso a Milano, la basilica di San Francesco di Paola a Napoli, il Cisternone di Livorno e il Tempio Canoviano a Possagno, la chiesa della Gran Madre di Dio e il mausoleo della Bela Rosin a Torino; nei paesi anglosassoni la rotonda di Thomas Jeffer-

S’ARTI NOSTRA 22

son dell’Università della Virginia, la biblioteca della Columbia University, New York, e la biblioteca dello Stato di Victoria a Melbourne, Australia.

Tra le diverse curiosità di questo edificio storico troviamo che gli abitanti di Roma lo chiamavano popolarmente la Rotonna (“la Rotonda”), da cui derivano anche il nome della piazza e della via antistanti; ma la domanda che ci poniamo tutti è: al Pantheon, come fa a non entrare l’acqua quando piove? L’oculus, con il suo diametro di circa 9 metri, crea una corrente d’aria ascensionale che, di fatto, smaterializza le gocce d’acqua piovana.

In questo modo la sensazione è che, anche quando la pioggia fuori è battente, all’interno piova meno.

In realtà questa sensazione è rafforzata dal fatto che i fori di drenaggio sia centrali che laterali sul pavimento impediscono il formarsi di pozzanghere.

https://www.elledecor.com/ it/architettura/a42457718/ calcestruzzo-resistente-roma/

https://www.elledecor.com/ it/architettura/a28276368/ pantheon-roma-storia/

Tante volte scorrendo i social ho letto: Dietrich Steinmetz. Un nome e cognome di sicura origine estera che mi ha affascinata e incuriosita. Sotto le splendide foto in cui Dietrich Steinmetz veniva taggato non facevo che leggere tanti ringraziamenti e commenti, condivisioni e like. Numeri importanti.

Avrò letto questo “nome taggato” innumerevoli volte in tante meravigliose foto di Cagliari e dintorni. Scatti di eventi culturali e sociali, ma anche istantanee naturali del Poetto e della Sella del Diavolo, immagini di street photography o ancora qualche giorno fa, il bellissimo video per “mano del drone” di una bellezza infinita che raccontava la Via Dante con le jacarande in fiore.

“Grazie Dietrich Steinmetz il più cagliaritano dei tedeschi.” Leggo a margine dell’ennesima condivisione di questi giorni.

Chi è Dietrich Steinmetz?

Riesco a contattarlo e accetta l’intervista.

Dietrich è tedesco - o forse diversamente cagliaritano - alto, occhio chiaro e capello brizzolato. Arriva in Sardegna quando era molto piccolo e da allora non è più andato via.

Mi racconta di aver conosciuto S’ARTI

condividevano per gioco. Poi, qualcosa è stato più forte e Dietrich ha voluto usare il suo occhio fotografico oltre che per gioco per impegno sociale. Segue la campagna elettorale di Soru anni fa e quella del primo mandato di Zedda: li supporta da dietro la macchina con scatti e reportage fortemente apprezzati in rete. L’engagement e le visualizzazioni parlano da sole. In maniera quasi parallela e variegata si dedica e investe il suo tempo nel sostenere con la fotografia organizzazioni in cui crede: Amnesty International, Legambiente o Emergency per citarne alcuni. Non si ferma mai: il suo occhio dentro l’obiettivo è presente e insospettabile.

Ogni giorno, o quasi, quando esce dal suo laboratorio – che ho avuto la fortuna di visitare – non manca di fare delle foto per tenersi allenato e nutrire la passione.

Villasimius tanti anni fa, quando ancora non ci passava manco la strada che noi tutti conosciamo.

Si ricorda dei giochi in spiaggia con il fratello.

Non c’era nessuno ed era una meraviglia naturale.

Gli brillano gli occhi malgrado siano passati anni.

Parliamo un po’ della sua attività di fotografo e nel frattempo entra in laboratorio un amico di vecchia data e qualche cliente.

Nella mia mente colgo tante istantanee di Dietrich: il suo spirito traspare, il suo tono di voce e le battute sono sagaci e altrettanto intense, rivelano lo spessore di un artista accompagnato a tanta umanità.

Mi racconta di come ora con i telefonini si possono fare belle foto, velocità, istantanee, ma di come lui è più per la lentezza, per la ricerca del momento sì, ma di quello perfetto. L’angolazione giusta, le atmosfere e le luci richiedono pazienza e tempo. Questo mondo va veloce e le foto sono “lente”.

L’impressione è che Dietrich sia un fotografo professionista e per passione travestito da tecnico.

Gli chiedo come è nata la passione fotografica.

Dapprima con la figlia, quando era piccola è stato un hobby che

Diverse persone gli hanno chiesto di “insegnare”, ma lui ha sempre detto di no. Sorride e fa una pausa. Sicuramente è sempre ben disposto ad aiutare a capire i tecnicismi delle macchine fotografiche, ma poi, è la persona che ci deve mettere l’entusiasmo e “farsi l’occhio”: decidere che cosa vuole catturare e come. Semplice e lineare.

Gli chiedo quale sia la sa più grande soddisfazione.

“Quando le persone riconoscono nei miei scatti la stessa linea dell’artista da cui ho tratto ispirazione per scattare la foto è molto bello. Quando in generale riescono a vedere quello che ho voluto e visto io. Quando questo accade sono contento”. Mi dice.Hopper, De Chirico o Magritte, potreste scorgere la presenza di questi artisti in qualche suo scatto.

Condividono le sue foto nel web, e ora che scrivo ci farete più attenzione, ma lui non sembra avere particolare esigenza di mostrarne la paternità come se poi diventasse patrimonio di tutti.

Dietrich, quando nessuno o pochi sapevano cosa fossero i droni, ne ha costruito uno, lui, con pezzi di parti elettroniche in più nel suo laboratorio.

Prima ancora ha usato l’antenato del drone: l’aquilone, sempre fatto da lui con cui faceva foto sensazionali dall’alto.

Chi è Dietrich Steinmetz? Colui che immortala momenti per renderli eterni.

Lui coglie, emoziona e rende magico ogni attimo.

https://www.gpreport.it/canali/

NOSTRA 23
DIETRICH
STEINMETZ DIETRO L’OBIETTIVO
day-life/dietrich-steinmetz

aolo Fresu nasce a Berchidda nel 1961 ed è a oggi considerato uno dei più influenti artisti della scena jazz contemporanea, si muove tra Parigi, Bologna e Sardegna. Le sue sono note che arrivano dentro. Stamattina, mentre riordinavo ascoltavo musica da Spotify in maniera casuale e poi è arrivato un brano che mi ha emozionata, fermata e fatto sentire qualcosa di più. Preso il display: “Mare Nostrum” di Paolo Fresu con Richard Galliano e Jan Lundgren.

I pensieri, i dubbi e le perplessità venivano accompagnati fuori dalla finestra sulle note della canzone e planavano soffici nell’aria.

Alexa: chi è Paolo Fresu?

Lei, con la sua voce impostata: “Paolo Fresu è nato il 10 febbraio 1961 è un trombettista e flicornista jazz italiano oltre che compositore e arrangiatore di musica. “

Paolo Fresu è considerato tra i più influenti artisti della scena jazz contemporanea. Nasce a Berchidda e inizia a suonare musica a 11 anni. “Bernardo De Muro” è la banda musicale del suo paese dove impara i primi concetti teorici e pratici che gli saranno utili per l’accademia.

Si trasferisce a Sassari, frequenta il conservatorio Luigi Canapa e scopre la sua principale passione quella per il jazz.

Ha 21 anni quando inizia la sua attività da professionista.

Nel 1982 registra per la RAI con la supervisione e guida di Bruno Tommaso e partecipa al “Siena jazz”. Due anni dopo termina gli studi di musica al conservatorio di Cagliari: si diploma in tromba con l’allora suo maestro Enzo Morandini.

Il suo è un suono che quelli bravi dicono essere influenzato da Miles e Chet, ma con una “mano”, la sua, facilmente riconoscibile.

Le collaborazioni di Paolo Fresu sono innumerevoli e diverse: dalla musica jazz alla leggera passando per l’ etnica.

Ha lavorato con artisti diversi James Taylor, Roberto Gatto, Tino Tracanna, Uri Caine e Claudio Riggio. Vince numerosi premi come è facile immaginare e la sua discografia, le sue opere e riconoscimenti occupano pagine intere nel web.

È il fondatore del Time in Jazz

il festival internazionale che dal 1988 si tiene ogni anno a Berchidda e che nel tempo ha acquisito una taratura internazionale diventando un appuntamento annuale per cultura e jazz. Paolo Fresu come tutti i grandi artisti è un viaggiatore:

FRESU TIME IN JAZZ & INSULAE LAB

la sua casa è il triangolo Parigi, Bologna e Sardegna. Sapete una cosa? Mettendo una sua playlist nello stereo di casa vostra, vi assicuro che sembrerà di essere a casa sua. Verrete catapultati nella Fresu dimensione jazz come accade con questa splendida versione di ”No Potho Reposare” da brividi.

“Quando molti mi scrivono di essersi svegliati con il malumore, ma di essersi poi rallegrati dopo aver sentito una certa musica, mi commuovo. L’idea che tu, con le tue povere note, possa cambiare lo stato d’animo di una persona, è una cosa straordinaria.

Ti fa sentire parte di questo mondo, ti rendi conto di quanto la tua scelta di vita sia importantissima. Ed è uno scambio: nel momento in cui qualcuno ti dice che hai reso la sua giornata più luminosa, si illumina anche la tua.” Paolo Fresu Notate come, anche quando la nota e la melodia si fa buia, lui riesce a lasciare serenità al suo passaggio, come se dopo il suono della sua tromba, tutto brillasse.

Qualcuno lo chiama talento, altri lo chiamano lavoro, forse è meglio chiamarla magia del Jazz? Grazie Paolo Fresu.

La Bovati

Capitato per caso sull’intervista di Dietrich Steinmetz non ho resistito a terminare questo numero con queste parole su Paolo Fresu che per la prima volta intervistai vicino a Parigi nel dicembre del 1999 e diede nascita alla trasmissione Sardonia. Lo considero così come il nostro padrino, colui che ci ha messo a battesimo, non sono mancate per altro le occasioni di intervistarlo ed ultimamente filmando la conferenza stampa per il secondo anno di Insulae Lab di cui riportiamo il calendario nel mensile Sardonia, ho avuto l’ide di organizzare delle mostre durante lo stesso periodo a Berchidda, Contattato il sindaco, Dottor Andrea Nieddu si é dimostrato immediatamente alliettato dall’idea e ci ha proposto il Museo del Vino, dove dal 13 maggio abbiamo esposto Alberto Miscali ed i suoi deliziosi acquerelli e dal 10 giugno esporremmo Angela Ciboddo e le sue fotografie che ritraggono una Gallura ancora incontaminata. Seguiranno in luglio le sorelle Pedoni, note pittrici ed in agosto le fotografie di Dolores Mancosu che abbiamo gia esposto sia a Cagliari che ad Oristano, seguirà Laura Zidda pittrice nuorese che abbiamo lo stesso esposto diverse volte, poi Antonella Marini ci mostrerà le sue fotogtafie sulle

quali interviene pittoricamente. Per finire una grandissima artista, Michelle Pisapia pittrice talentuosissima.

Ringraziando Andrea Nieddu ed il signor Crasta del Museo del Vino per l’accoglienza, nonché Mattea Lissia che ci concede l’utilizzo del logo della manifestazione tengo a dire che, come capita spesso con i grandi personaggi, Paolo Fresu é di una gentilezza e disponibilità squisite, un vero signore, a differenza di alcuni personaggi che dopo aver imbrattato qualche tela si immaginano già emuli di Leonardo da Vinci al minimo e si caratterizzano per l’insolenza, la maleducazione e la scontrosità tipiche di coloro che non sono nessuno e che si sparano le pose. I veri signori ed artisti ben conosciuti non hanno bisogno di tante smorfie.Li ringrazio. V.E. Pisu https://www.gpreport.it/canali/ day-life/paolofresu

Foto
P PAOLO
S’ARTI NOSTRA 24
pietrinaatzori

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