Sardonia Maggio 2023

Page 1

Monte Baranta

Ettore Majorana scomparso

Igino Panzino all’Arborense

Efisio Stratilate

Olimpia Melis et le filet de Bosa

Marina Mureddu

L’Arte di Olimpia Melis

Chi é Igino Panzino

Carla Accardi a Venezia

Joana Vasconcelos a Parigi

Lucio Amelio a Napoli

Puntare sui goleador de l’Arte

Lucido Sottile ritorna a New York

Studio legale o galleria d’Arte?

Michela Murgia l’intervista

Da PortoTorres a Londra i Nieddu

Convegno sulla Merda d’Artista

Insulae Lab

Botticelli Virtual Influencer

SARDONIA Trentesimo anno/Trentième année Maggio 2023 / Mai 2023
Foto thotel
https://www.vimeo.com/groups/sardonia https://www.facebook.com/sardoniaitalia

Cagliari Je T’aime

Programma di creazione di Esposizioni e Manifestazioni Artistiche

nella città di Cagliari a cura di

Marie-Amélie Anquetil

Conservateur du Musée du Prieuré Directrice de la revue

“Ici, Là bas et Ailleurs”

Espace d’exposition

Centre d’Art

Ici, là bas et ailleurs

98 avenue de la République 93300 Aubervilliers

marieamelieanquetil@ gmail.com

https://vimeo.com/channels/ icilabasetailleurs

Vittorio E. Pisu

Fondateur et Président des associations

SARDONIA France

SARDONIA Italia

créée en 1993

domiciliée c/o

UNISVERS

Elena Cillocu via Ozieri 55 09127 Cagliari

vittorio.e.pisu@email.it

http://www.facebook.com/ sardonia italia

https://vimeo.com/groups/ sardonia

https://vimeo.com/channels/ cagliarijetaime

SARDONIA

Pubblicazione

dell’associazione omonima

Direttore della Pubblicazione

Vittorio E. Pisu

Redattrice Luisanna Napoli

Ange Gardien

Prof.ssa Dolores Mancosu

Maquette, Conception Graphique et Mise en Page

L’Expérience du Futur une production

UNISVERS

Commission Paritaire

ISSN en cours

Diffusion digitale

Con il patrocinio del Comune di Berchidda e del Museo del Vino ecco

gli artisti che esporranno durante la manifestazione

Insulae Lab di Mattea Lissia e Paolo Fresu

Alberto Miscali acquerellista

dal 13 maggio al 9 giugno

Angela Ciboddo fotografa

dal 10 giugno al 30 giugno

Ielmo Cara monotipista

dal 1mo luglio al 21 luglio

Dolores Mancosu fotografa

dal 22 luglio al 1 settembre

Sara e Stefania Pedoni pittrici

dal 2 al 15 settembre

Antonella Marini fotografa

dal 16 al 29 settembre

Michelle Pisapia pittrice

dal 30 sett al 13 ottobre 2023

Una presentazione di poesie e versi di Sardegna avrà luogo con Angela Ciboddo a cura di Alessandra Sorcinelli

Ancora una volta il mensile arriva con qualche giorno di ritardo e vorrete scusarcene, non non eravamo a Londra per l’inconorazione di Carlo III ma l’organizzazione di diverse mostre ed avvenimenti ci occupa più del necessario ma nonostante tutto eccoci qui sperando interessarvi e divertirvi.

In parallelo con la manifestazione Insulae Lab di Mattea Lissia e Paolo Fresu che si svolge a Berchidda e di cui diamo il calendario delle manifestazioni per questo mese di maggio, abbiamo pensato di approfittare dell’offerta del sindaco Andrea Nieddu che ringraziamo, per proporvi una serie di esposizioni al Museo del Vino di cui proponiamo qui la locandina del primo avvenimento.

Vi asperttiamo quindi a Berchidda ed qui di lato la lista degli artisti e le date delle manifestazioni.

Per il resto e come al solito saltiamo “du coq à l’ane” come si dice in Francia, proponendovi una scelta non si può più eccletica e disparata di avvenimenti senza dimenticare naturalmente l’evento più importante del maggio sardo voglio parlare di Sant’Efisio Gloriosu che finalmente ha ritrovato tutto il suo splendore dopo due anni di pandemia.

Parliamo anche di Igino Panzino e della sua mostra ad Oristano in attesa che accolga benevolmente le nostre richieste nate in seguito alle affermazioni di Tonino Casula che lo aveva definito il più grande artista sardo vivente e che gli altri ci perdonino e non ce ne vogliano.

Non poteva mancare un articolo sull’intervista a Tiziana Troja delle Lucido Sottile che si preparano a ripartire ancora una volta a New York dopo averci presentato il loro spettacolo al teatro Massimo a Cagliari.

La città di Napoli riconosce il merito di uno dei suoi galleristi più attivi nella promozione attraverso l’Arte dell’immagine della sua città, al punto da dedicargli una strada, possiamo immaginare lo stesso a Cagliari? tipo via Roberta Vanali ?

Ci chiediamo inoltre come mai gli artisti non abbiano la stessa considerazione, visibilità e riconoscenza uguale a quella dei calciatori della serie A, ma è vero che già negli anni sessanta il famoso chirurgo Bernard, autore del primo trapianto di cuore, deprecava la situazione.

Riportiamo inoltre l’intervista che Michela Murgia ha rilasciato al Corriere della Sera dove oltre all’annuncio sulle sue terribili condizioni di salute ci fa grazia come al solito delle sue considerazioni sul matrimonio, la vita di coppia e fino all’aldilà dove la religione non infantilizza più l’immagine di Dio.

Gli auguriamo sinceramente di poter trovare rapidamente un rimedio medico alle sue dolorose e penibili condizioni. Dulcis in fundo riportiamo un articolo sulla Venere influencer che ha suscitato naturalmente un coro unanime di proteste e di commenti negativi.

Come se la Venere di Botticelli avesse bisogno di questa campagna assai mal confezionata per essere conosciuta nel mondo intero. Buona lettura Vittorio E. Pisu

Nel golfo di Alghero, in territorio di Olmedo, c’è un altopiano in trachite che nella sommità ospita un interessante sito archeologico costruito nell’età del rame, circa 2500 anni fa. Si tratta del complesso megalitico di Monte Baranta, caratterizzato da un recinto-torre, edificato sul margine dello strapiombo, e da una poderosa muraglia lunga 100 metri che protegge il villaggio. Massi enormi formano una cinta invalicabile, lunga quasi cento metri e alta tre.

È la muraglia della fortezza eretta da popoli prenuragici a difesa di un’ampia valle, uno dei più straordinari e imponenti insediamenti del III millennio a.C. di tutto il Mediterraneo.

È incastonata nelle pendici del monte Baranta, a tre chilometri da Olmedo, importante centro agricolo e industriale nel cuore della Nurra.

Conosciuta anche come su Casteddu, la fortezza risale all’età del Rame (2500-2000 a.C.) eretta con poderose strutture megalitiche seguendo le fattezze naturali del terreno.

Protetti dalla muraglia, alcuni edifici caratterizzano la fortezza: un recinto-torre e un gruppo di capanne rettangolari.

In questo luogo tutto è possente, costruito con pietre maestose: anche la torre è gigante, realizzata a forma

MONTE BARANTA

di ‘ferro di cavallo’, spessa sei metri e mezzo e alta nove.

Con la sua mole, domina uno sperone roccioso di trachite a strapiombo sulla valle.

All’esterno delle mura troverai un’area sacra, con un circolo megalitico, luogo di culto e di sacrifici, formato da circa 80 lastroni ortostatici disposti a cerchio del diametro di dieci metri.

Tra i lastroni spiccano caratteristici menhir: uno spezzato in due tronconi, un altro intero adagiato su un piano roccioso e perfettamente levigato.

A oriente della muraglia, voltando lo sguardo, scorgerai anche i resti di un piccolo villaggio.

Le capanne individuate al momento sono sette, rettangolari, di grandi dimensioni, e composte da più ambienti.

Il complesso megalitico di monte Baranta, dunque, era un luogo ‘vissuto’ sotto tutti gli aspetti - civili, militari e religiosi – dalle comunità prenuragiche che lo abitarono.

Si respira anche l’aria di insicurezza (per eventuali attacchi esterni) che spingeva le genti della cultura di monte Claro a proteggersi dentro a un’imponente costruzione.

Nella sua prima parte di vita, Su Casteddu è stato abitato per un periodo piuttosto breve, come dimostrerebbero la scarsa quantità di materiali rinvenuti e il fatto che l’area sacra sia incompiuta. (segue pagina 4)

3
Foto giovannideligios

(segue dalla pagina 3)

Il sito fu ripopolato ed ebbe maggior splendore durante il Bronzo Antico e, in misura più sporadica, in età nuragica e romana.

Una vitalità e una densità di popolazione che si riscontra anche tutt’intorno, nel territorio olmedese, che conta oltre venti nuraghi, tra cui spiccano quelli di monte Ortolu (‘a corridoio’), Masala (a tholos) e sa Femina, particolare perché sorge dentro l’abitato.

Il monumento a forma di ferro di cavallo presenta due grandi portali rettangolari che attraverso un corridoio lungo 4 metri immettono in un ampio cortile che si affaccia sulla scarpata.

La funzione di questo edificio è ignota ma una delle interpretazioni più sconvolgenti è che fosse un’area sacra destinata al sacrificio dei vecchi, una pratica conosciuta con il termine geronticidio.

Il mio parere è che l’uccisione dei padri non sia da prendere in considerazione.

La presenza delle due porte, invece, suggerisce un rituale più intrigante e utilizzato ancora oggi in vari luoghi: palazzi di potere per l’elezione di un nobile, università per la laurea, conclave per il papa, e altri simili.

È un percorso iniziatico in cui si entra da un ingresso, ci si immerge in una pratica, ammantata di sacralità, che sancisce un cambio di vita, e si esce

dall’altro portale investiti del nuovo ruolo. In altre parole, l’iniziato abbandona il ruolo rivestito fino a quel momento, subisce una morte apparente attraverso un rituale sciamanico, risorge a nuova vita e, infine, è autorizzato a fregiarsi del nuovo titolo. Alcuni esempi pratici sono quelli del passaggio dalla pubertà all’età adulta, alla condizione di guerriero, all’elezione di un sovrano o di un papa.

Un viaggio in cui si viene illuminati da una simbolica luce sacra e si passa di grado attraverso prova iniziatica.

Il complesso di Monte Baranta, così perfettamente caratterizzato nei suoi aspetti civili, militari e religiosi (manca, per ora, quello funerario) sembra mostrare, più di ogni altro il senso di insicurezza che spingeva le genti a stanziarsi su alture e ad integrare le difese naturali con poderose strutture megalitiche, includenti vaste superfici e legate a criteri di difesa dinamica.

Il recinto-torre, situato in posizione dominante sul margine della scarpata, ha pianta a forma di ferro di cavallo con due ingressi a corridoio che immettono in un ampio cortile con apertura verso il dirupo.

Inizialmente scambiato per un nuraghe atipico, si distingue per particolarità architettoniche quali l’assenza di una qualsivoglia copertura, il considerevole spessore murario che raggiunge i 6,50 metri (alto circa

Foto
francescophotography

3,5 metri), le impressionanti architravi, e la presenza di una rudimentale scaletta che, svolgendosi nel profilo murario del cortile, conduce ad una sorta di cammino di ronda.

Il dispositivo difensivo è poi completato, in una posizione più elevata, da una possente muraglia con i suoi 97,00 metri di lunghezza (Larga 5 metri e alta mediamente 2,5 metri) a sbarrare l’accesso nell’unico tratto di pianoro aperto e quindi vulnerabile. Presenta un unico ingresso decentrato che introduce all’interno della cinta muraria.

Nell’area delimitata dalla muraglia, si distinguono i muri rettilinei di numerose capanne dell’abitato. Nel corso degli scavi in due di queste capanne, è stata rinvenuta ceramica esclusivamente di cultura Monte Claro.

All’esterno della muraglia si trova un circolo megalitico formato da una ottantina di lastroni di varie dimensioni che segnano uno spazio circolare del diametro di circa 10 metri; alcune di queste, in gran parte spezzate e attualmente tutte rovesciate, mostrano chiaramente di essere state di menhir.

Distante una decina di metri troviamo il grande menhir lungo 3,95 metri, anch’esso atterrato, su un’area rocciosa perfettamente spianata vicino all’alveolo appena inciso che avrebbe dovuto accoglierlo.

Quest’ultimo particolare insieme al fatto che il menhir appare non rifinito fa credere che non sia mai stato eretto. (“Il compleso prenuragico di Monte Baranta” di A. Moravetti)

Come arrivarci:

Lasciata Olmedo, sulla S.P. 19 in direzione di Alghero, al km. 1,100 si svolta a sinistra e si prosegue per km. 1,300 seguendo i cartelli direzionali. Ingresso segnalato. L’area su cui insiste il monumento, di circa 12 ettari, è stata acquistata dal Comune di Olmedo con l’intento di promuovere la tutela, la salvaguardia e la compiuta valorizzazione del complesso. Con i fondi della l.r.37/98 sono stati realizzati i primi interventi finalizzati alla ricostruzione dei sentieri di accesso in pietra locale e di manutenzione delle copiose essenze arboree e arbustive che contornano la muraglia e il recinto-torre (il sito era tradizionalmente una muraglia).

Il Comune ha provveduto a ripristinare l’antico itinerario che, da un’ampia radura posta al limitare di Padru Salari, conduce a Monte Baranta attraverso una incantevole cornice di antichissime rocce e piante secolari che consente di scrutare dall’alto la verde distesa della Nurra e lo splendido orizzonte della Rada di Alghero.

5

ra un gioco che facevano le sue zie con gli amici in visita nella grande casa giù in Sicilia: nascondevano sotto il tavolo di cucina il piccolo Ettore e gli facevano calcolare prodotti, divisioni e radici, sempre più complicati Alla domanda quanto fa ….? Senza l’uso di carta e penna, rispondeva con prontezza e precisione; gli bastava solo la sua testa. Si tramandano tanti aneddoti su questa sua eccezionale capacità di concentrazione che usò per tutta la sua breve vita a noi nota.

Ne rimasero sconvolti in molti, primo fra tutti, il suo maestro il Professor Enrico Fermi.

Uno dei primi importanti lavori scritti da Fermi, quando era a Roma all’Istituto di Via Panisperna, era “Un metodo statistico per la determinazione di alcune proprietà dell’atomo”, oggi noto come metodo di Thomas-Fermi.

Questo modello descrive, in modo approssimato, il comportamento degli elettroni attorno a un nucleo atomico e fu scoperto in maniera indipendente dai due fisici.

Quado stava scrivendo l’articolo, Fermi si imbatté in una strana equazione differenziale con particolari condizioni al contorno.

Per risolverla ci mise una settimana di assiduo lavoro e l’aiuto di una piccola calcolatrice.

Ettore era da poco entrato

a far parte del gruppo dei ragazzi che studiavano all’istituto di fisica di via Panisperna.

Il Professore stava illustrando alcuni dettagli del calcolo, Majorana che era seduto in un angolo a guardare, anticipò a voce il risultato e fu invitato da Fermi, scettico, a mostrarlo alla lavagna.

Era giusto, lo aveva trovato sul momento, tutti ne rimasero molto impressionati.

Lui che era il più piccolo del gruppo, taciturno, timido e un po’ introverso, lo chiamavano Ciccio, si era guadagnato di colpo un gran rispetto.

Si racconta che spesso in autobus nel tragitto verso l’università, prendesse appunti sulle scatolette dei fiammiferi.

Segnava solo il risultato, l’importante era l’idea. Quelle preziose scatolette e i foglietti appallottolati buttati nel cestino, venivano a sua insaputa raccattate dai colleghi. Giovanissimo comincia un pellegrinaggio nei più importanti istituti di fisica Europei.

Nel 1928, all’età di 21 anni, ottenne una borsa di studio per studiare all’Università di Lipsia, dove seguì i corsi di fisica tenuti da Werner Heisenberg.

Nel 1931, partecipò al Congresso di Solvay a Bruxelles, uno dei più importanti eventi di fisica del XX secolo. Qui ha incontrato alcuni dei più grandi fisici dell’epoca, tra cui Albert Einstein, Niels Bohr, e Max Planck.

Foto wikiloc
E

Nel 1937, Majorana trascorse alcuni mesi in Francia, dove collaborò con Louis de Broglie all’École Normale Supérieure di Parigi.

Quell’anno teorizzò l’esistenza di una particella che ora porta il suo nome: fermione di Majorana.

A differenza delle particelle elementari conosciute, come gli elettroni e i quark, i fermioni di Majorana sarebbero particelle che coincidono con le proprie antiparticelle; neutri rispetto alla carica elettrica avrebbero alcune proprietà particolari, tra cui la possibilità di essere i costituenti dei neutrini.

Ho usato il condizionale, perchè di quelle particelle ancora non c’è nessuna traccia, la ricerca è molto attiva tutt’oggi.

L’esperimento più noto in questo campo è il “Super-Kamiokande”; si trova in Giappone, costruito in una miniera di zinco abbandonata, a circa 1.000 metri sotto la superficie terrestre.

E’ costituito da una grande camera sferica riempita d’acqua ultra-pura e circondata da oltre 11.000 fotomoltiplicatori.

I neutrini sono particelle estremamente sfuggenti e difficili da rilevare; quando attraversano l’acqua all’interno del rivelatore, possono interagire con gli atomi dell’acqua stessa, producendo delle particelle di luce chiamate “radiazione di Čerenkov”.

Questa radiazione è poi rilevata dai fotomoltiplicatori e analizzata per determinare le proprietà dei neutrini stessi.

Il neutrino di Majorana si differenzia dal neutrino “standard”, che è già stato scoperto sperimentalmente, in quanto è una particella e contemporaneamente la sua stessa antiparticella.

Oggi, gli esperimenti che cercano il neutrino di Majorana sono condotti in diversi laboratori di ricerca in tutto il mondo, come l’esperimento MAJORANA condotto nel Laboratorio Nazionale di Los Alamos negli Stati Uniti e l’esperimento GERDA condotto presso il Laboratorio Nazionale del Gran Sasso in Italia.

La scoperta sarebbe di grande importanza e potrebbe portare anche a importanti ricadute tecnologiche, come l’elaborazione quantistica dell’informazione.

Majorana scomparve misteriosamente nel 1938, a soli 32 anni, poco dopo aver terminato il suo lavoro sulle sue particelle.

La sua scomparsa improvvisa ha susc suscitato molte domande, ipotesi e ricostruzioni spesso fantasiose.

Lo stanno ancora RICERCANDO.

Ettore Majorana Ritaglio di giornale

Super-Kamiokande in Giappone

Laboratori Nazionali del Gran Sasso (LNGS)

7
SCOMPARSO ETTORE MAJORANA

uasi un’antologica è quella dedicata a Igino Panzino curata da Antonello Carboni e da Silvia Oppo e appena inaugurata al Museo Diocesano Arborense di Oristano. Una mostra ampia e ben allestita che offre uno spaccato significativo seppure, giocoforza limitato, di un percorso artistico lungo cinquant’anni, con una notevole varietà di opere, alcune delle quali raramente esposte in precedenza e sempre esperito nell’ambito dell’arte astratto-concretista. Insomma, un’occasione unica per farsi un’idea di una vicenda artistica di prim’ordine e una novità per Oristano che il maestro sassarese aveva ospitato in modo episodico e mai così sistematico. Al contrario di altri artisti sardi, pochi in verità, che hanno percorso tale strada – artisti talvolta più anziani e, comunque, fondamentali per la sua formazione, talaltra compagni di viaggio o, spesso, entrambe le cose assieme –, la sua è stata una scelta di campo pressoché immediata e senza ripensamenti. Se, per citare alcuni che nell’Isola sono approdati all’astrattismo sia concretista sia con valenze più liriche e/o cromatiche – Ermanno Leinardi, Aldo Contini, Rosanna Rossi o Gio-

IGINO PANZINO ALL’ARBORENSDE

vanni Carta, ad esempio –, tutti, chi più chi meno e per periodi più o meno lunghi, hanno avuto un passato figurativo strutturato e riconoscibile. Da subito, invece, per Panzino, la dimensione astratto-concretista è divenuta la via da percorrere senza tentennamenti e deviazioni, ora esperita nell’ambito pittorico ora in quello plastico, già a partire dalla sua formazione presso l’Istituto d’Arte di Sassari, nella seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso, quando a dirigerlo era Mauro Manca.

Non va dimenticato poi che alcuni di loro, al contrario di Panzino, quando sono approdati all’universo astratto, hanno preferito in quegli anni un approccio decisamente e convintamente vicino all’Informale e all’Espressionismo astratto, ben lontano dall’attenzione da lui indirizzata «verso un’astrazione geometrica che innesta su una base costruttivista spunti percettivi, ispirati dalle ricerche ottiche che avevano avuto grande risalto sulla scena internazionale dell’ultimo decennio» (Gianni Murtas, 2006).

In tutte le opere in mostra Panzino pare divertirsi a perpetrare nei confronti dello spettatore una strategia dello spiazzamento sensoriale, un gioco che, partendo da un apparente déjà vu, si rinfran-

Foto ivoserafinofenu
Q

ge in una polisemia depistante e in un’ambiguità spazio-temporale senza tempo abitata da elementi plastico-geometrici ambigui e sfuggenti nella loro strutturazione escheriana, e inquietanti, come novelli monoliti kubrickiani.

La ricerca di Panzino, per il quale impegno civile, approfondimento teoretico e prassi artistica, una prassi ostentatamente virtuosistica che tutto lega nella dimensione processuale, è un progetto di vita, una sfida continua, un gioco intellettuale complesso e stratificato, nel quale è facile perdersi e dal quale l’artista ribadisce la sua posizione “contro”, rivendicando il suo «stato di crisi permanente», la sua volontà di épater le bourgeois e, insieme, nel suo continuo arrovellarsi sull’evoluzione o, più spesso, sull’involuzione degli attuali modelli socio-culturali e artistici, fa proprio – nel definire il suo percorso umano e creativo –, l’aforisma n. 32 tratto da Minima Moralia di Theodor

Adorno: «Uno spirito di rigorosa intransigenza presuppone esperienza personale, memoria storica, ricettività nervosa e irrequietezza intellettuale, ma soprattutto una buona dose di disgusto».

Ivo Serafino Fenu

La dimensione narrativa di Igino Panzino rappresenta la sintesi di un percorso di ricerca gno-

seologico, che si esprime sia attraverso forme geometriche afferenti ad un mondo iconografico, neoplastico e costruttivista, sia attraverso “teatrini” realizzati con cartoncini ritagliati, la cui peculiarità è l’introduzione del caso come elemento rilevante”, spiegano i curatori.

La fusione di questi due linguaggi restituisce al visitatore un racconto nuovo, costituito da tantissime Stazioni che l’artista ha esperito nel corso della sua poetica e che ci propone come momenti di riflessione.”

#iginopanzino #museodiocesanoarborense #oristano #antonellocarboni #silviaoppo

E stata inaugurata sabato 29 aprile la mostra “Stazioni”, personale di Igino Panzino, curata da Antonello Carboni e Silvia Oppo.

La mostra celebra uno dei protagonisti dell’arte prodotta sull’onda delle Neoavanguardie sperimentate in Sardegna a partire dai primi anni ‘60.

La mostra sarà visitabile fino al prossimo 25 giugno, il mercoledì dalle 10 alle 13 e dal giovedì alla domenica dalle 10 alle 13 e dalle 17 alle 20.

https://www.oristanonoi.it/2023/04/

stazioni-la-personale-di-igino-panzino-al-museo-diocesano-di-oristano/

9

ato ad Antiochia, in Asia Minore, nel 250 d.C., Efisio era un soldato dell’esercito imperiale romano e aveva abbracciato la fede cristiana, come suo padre. Per anni, nel corso delle persecuzioni anti-cristiane ordinate dall’imperatore Diocleziano, combattè i cristiani, ma poi, pentito, decise di lasciare l’esercito e di dedicare la sua vita alla predicazione del Vangelo.

Trasferitosi in Sardegna, iniziò la sua opera di evangelizzazione, ma venne presto arrestato e condannato a morte.

Il martirio, dopo atroci torture, avvenne nel gennaio 303.

Il martirio di Sant’Efisio avvenne il 15 gennaio, ma la festa in onore del santo si tiene il primo maggio perché secondo la tradizione fu proprio Sant’Efisio, negli anni Cinquanta del XVII secolo ad apparire al vicerè suggerendogli di organizzare una processione il primo maggio per far cessare l’epidemia di peste che affliggeva la Sardegna e Cagliari in particolare.

La processione si tenne e la peste cessò.

Da allora il rito si rinnova ogni anno.

La processione che si svolge il primo maggio è aperta dalle traccas, i tradizionali carri addobbati a festa trainati da buoi.

Seguono i gruppi folkloristici, con migliaia persone che indossano l’abi-

to tradizionale del proprio paese, provenienti da tutta l’Isola e che solitamente recitano il rosario o cantano i goccius, ovvero litanie in lingua sarda.

Poi i cavalieri: aprono i cavalieri del Campidano seguiti dai miliziani, che rappresentano l’esercito sardo che un tempo faceva da scorta alla processione per difenderla da eventuali attacchi.

Dopo di essi sfilano i membri della guardianìa, in prima fila il terzo guardiano che regge il gonfalone della confraternita, seguito dall’alter nos, il rappresentante del sindaco.

Dopo i cavalieri sfilano i membri dell’Arciconfraternita, con tonaca azzurra e mantellina bianca, preceduti da un confratello che regge un crocifisso del 1700. L’arrivo del cocchio è preceduto dal suono delle launeddas.

Quando il cocchio arriva in via Roma viene salutato dalle sirene delle navi attraccate nel porto di Cagliari. I preparativi per la processione sono gestiti dall’Arciconfraternita del Gonfalone.

I preparativi iniziano in realtà da alcuni mesi: il 19 marzo, festa di San Giuseppe, i membri dell’Arciconfraternita eleggono il Terzo guardiano, a cui spetterà la gestione dell’intera festa.

In quel periodo viene inoltre designato l’Alter Nos, il rappresentante della municipalità cagliaritana, scelto

Foto lucianacannas
N

dal sindaco tra gli assessori, consiglieri o funzionari del Comune.

Al termine della processione di Pasquetta, infine, viene solennemente benedetto il giogo dei buoi che trainerà il cocchio del santo durante la processione di maggio.

I preparativi entrano nel vivo il 25 aprile, giorno in cui il cocchio dorato viene introdotto all’interno della chiesa e viene ufficialmente investito della carica il Terzo guardiano.

Il 29 avviene la vestizione del simulacro e l’aggiunta di gioielli in oro offerti come ex voto.

Il giorno dopo il presidente dell’arciconfraternita e il sacrista maggiore depongono la statua all’interno del cocchio dorato.

La mattina del 1 maggio “Su Carradori” (colui che si occupa del trasporto del simulacro) addobba i buoi che dovranno trasportare il cocchio fino a Nora.

Poi il terzo guardiano, accompagnato da “Sa Guardianìa”, si reca in comune dove lo attende l’Alter Nos, che viene ufficialmente investito delle sue funzioni da parte del sindaco di Cagliari.

I due si recano poi alla chiesetta di Stampace dove verrà celebrata la messa.

Uno dei riti tipici della Festa di Sant’Efisio è sa ramadura.

Detta anche “infiorata”, consiste nello spargimento

EFISIO STRATILATE MARTIRE

per terra di petali di rose (rosse, rosa e gialle) sui lastroni di Via Roma a Cagliari, in modo che, al suo passaggio, il cocchio che trasporta la statua del martire possa avanzare su un tappeto floreale, mentre in segno di saluto suonano le sirene delle navi. La Festa di Sant’Efisio è tra le più antiche e lunghe processioni religiose di tutto il Mediterraneo. Si snoda per 65 chilometri, ripercorrendo il tragitto che giunge dal carcere in cui venne imprigionato il martire nel cuore di Cagliari, al luogo del martirio a Nora, per poi tornare alla sua Chiesa di Stampace il 4 maggio entro la mezzanotte.

La processione tocca diversi Comuni: Cagliari, Capoterra, Sarroch, Pula, Villa San Pietro.

Al rientro del simulacro dopo la processione, il Presidente dell’Arciconfraternita certificato lo scioglimento del voto, utilizzando la seguente formula solenne: «Reverendissimo monsignor canonico, illustrissimo signor Alter Nos, vogliate comunicare al capitolo metropolitano e al signor sindaco del Comune di Cagliari che oggi il voto è stato sciolto. E così sarà sempre, con l’aiuto di Nostro Signore Gesù Cristo, per l’intercessione di Nostra Signora del Riscatto e del glorioso martire Sant’Efisio, patrono di questa arciconfraternita».

(segue pagina 12)

11

(segue dalla pagina 11)

I luoghi-simbolo di Sant’Efisio sono la Chiesa cagliaritana di Stampace, punto di partenza della processione, costruita nel XVIII secolo.

Prima di essa esistevano nello stesso luogo una chiesa del ‘200 e una del ‘500.

In una delle cappelle è conservata la statua del Santo che viene portata in processione fino a Nora. Nel complesso edilizio si trova anche la cella dove fu tenuto prigioniero prima del martirio.

A Giorgino avviene il cambio del cocchio cittadino con un altro per il tragitto fino a Nora ed il rientro della statua del santo nella villa Ballero dove avviene inoltre la sostituzione dei suoi abiti e la sua vestizione per il viaggio, la cerimonia viene poi ripetuta al ritorno del simulacro del santo..

Ultimamente il viaggio e ritorno fino a Nora sono stati assicurati da un trattore con un pianale sul quale é sistemato il cocchio di campagna.

La chiesa di Nora, meta della processione del primo maggio, venne invece consacrata nel 1102.

Nel 1656 fu restaurata grazie alla donazione di Alfonso Gualbès Marchese di Palmas, come ringraziamento per essere sfuggito all’epidemia di peste dopo aver evocato il santo.

www.unionesarda.it/ bella-sardegna/leggende-e-tradizioni/

OLIMPIA MELIS PERALTA

Olimpia Melis (1887-1975) fa parte di una famiglia di creativi che ha lasciato un’impronta nella storia dell’imprenditoria e dell’arte sarda. Alcuni dei suoi fratelli, Melkiorre decoratore e ceramista, Federico ceramista, e Pino pittore e illustratore, autore tra l’altro di alcune tavole sul Giornalino della Domenica di Vamba, hanno guadagnato notorietà e compaiono in numerose mostre e rassegne.

Dal canto suo Olimpia a partire dagli anni ’10 del secolo scorso organizzò a Bosa un’industria di Filet, con alcune centinaia di operaie, che all’apice del successo esportava i lavori sia in Europa che a New York. Questa attività non aveva solo una valenza commerciale, ma la signora Olimpia era riuscita a renderne il carattere artistico, portando il filet a soddisfare nuove richieste d’arredo, come tendaggi, giroletto, tovaglie e bordure, secondo i dettami dell’allora emergente Art déco.

Le scuole di filet

Gli anni tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, come si è già fatto cenno, furono quelli in cui si andò affermando un chiaro interesse alla creazione delle scuole di ricamo ed alla promozione di strutture, che in qualche modo, favorissero le attività artigianali di tipo esclusivamente femminile.

Anche la Sardegna venne coinvolta nello sviluppo di

Foto www.alfemminile.com

questo genere di strutture e vide il sorgere di scuole per lo più organizzate come laboratori artigianali, che specializzarono le loro attività tecniche definite, come nel caso del filet.

La prima scuola di filet documentata fu quella che nel 1905 venne creata da Antonietta Delogu a Macomer …La scuola, che chiuse per problemi d’incompatibilità con l’amministrazione locale, operò fino al 1927… Ovviamente anche nella vicina Bosa, che aveva tutti i presupposti perché queste attività si sviluppassero con una maggiore consistenza, cominciarono a fiorire laboratori simili più o meno con le stesse modalità e obiettivi.

Infatti a Bosa, quasi contemporaneamente alla scuola di Antonietta Delogu, iniziò ad operare, intorno agli anni Dieci, con una numerosa schiera di lavoranti, la signora Olimpia Peralta Melis; era sorella dei più famosi Melchiorre, Federico, Pino: artisti sardi che si cimentarono nella pittura, ceramica e miniatura. La Melis riuscì ad unire all’estro artistico la tradizionale vocazione di famiglia al commercio.

Olimpia Melis nacque a Bosa il primo Aprile del 1887, da Salvatore Melis e Giuseppina Masia; il padre, figlio di un Melchiorre Melis, proveniva da Alghero ed era un agiato commerciante di tessuti. Olimpia sposò nell’aprile del 1911 Lorenzo Peralta,

ma, pur divenendo madre di tre figli ed avendo la possibilità di condurre una vita agiata, mal si rassegnò a rivestire solo ruoli di moglie e madre. La creatività e capacità imprenditoriale, evidentemente presenti entrambe nel suo carattere, si manifestarono in quelle attività che la videro, in seguito, a rappresentare uno degli aspetti artistici e imprenditoriali più interessanti della Sardegna del tempo. I lavori della sua scuola laboratorio parteciparono spesso alle varie mostre nazionali e internazionali che, in quel periodo, si susseguivano con una certa regolarità.

Nel 1924 la Melis venne insignita, alla Mostra Internazionale di Bruxelles, della grande croce e medaglia d’oro; nello stesso anno a Parigi ebbe il gran prix, medaglia d’oro e coppa d’onore.

La stessa Amministrazione comunale del tempo vide in lei un punto di riferimento a cui rivolgersi in occasione delle Fiere Campionarie di Milano del 1928, 1929, 1934.

La Melis diede vita a diversi laboratori, prima nella sua abitazione nel Corso Vittorio Emanuele, Sa Piatta, presso la Cattedrale, poi nella nuova casa nella Piazza Monumento. Collaborò artisticamente con i fratelli, soprattutto con Melchiorre, che disegnò appositamente per lei, non solo le pubblicità

(segue pagina 14)

13

(segue dalla pagina 13) del suo laboratorio per gli anni 1920, 1922, 1924, ma anche bozzetti per il filet; in seguito collaborò anche con altri artisti come Aldo Contini. In quegli anni si accentuarono gli aspetti innovativi, che alcuni autori definirono di “contaminazione”, a seguito dell’introduzione di moduli e tecniche che esulavano da quelli della tradizione sarda. Fu in quel periodo, in coincidenza dell’avvento del Liberty e del Decò, che s’iniziarono a modificare le destinazioni d’uso del filet e si prese ad impiegarlo, oltre che nell’arredamento domestico e nei corredi, anche nei capi d’abbigliamento, in cui, eseguito con filati pregiati di seta e lino, veniva utilizzato come inserto o bordura per arricchire le linee semplici della nuova moda charleston, che si andava affermando. Il laboratorio Melis con molta probabilità riforniva case di moda del Continente ed aveva punti di vendita, non solo a Roma, al n. 24 del Lungo Tevere Mellini, ma anche al numero 303 nella 53 Strada a New York e teneva rapporti commerciali con la ditta Gritti di Lugano.

La Melis fu una donna dal carattere certamente volitivo e non cesserà di lavorare fin quasi alla fine; infatti le Biennali dell’Artigianato Sardo la vedranno ancora presente negli anni 1960-62-6668.

Il laboratorio di Olimpia Melis non era il solo presente a Bosa, anche se indubbiamente era quello per il quale lavoravano il maggior numero di donne; ne erano presenti altri …

«Il ruolo di Olimpia non è solo quello di individuare, elencare e far riprodurre motivi dell’antico, ma di un vero e proprio art director, di un’imprenditrice intelligente capace di estrapolare e ricomporre i vari motivi del filet.

La finalizzazione della struttura alle diversedestinazioni d’uso la porterà all’invenzione di nuove funzioni e applicazioni di quest’arte, come l’impreziosimento della sovraccoperta da letto o gli inserti nei tendaggi…

Il processo che anima le composizioni di Olimpia, che legge ed elabora con attento rigore i motivi tradizionali sardi, è lo stesso che anche altri artisti isolani a lei contemporanei applicano proprio nei primi decenni del secolo…

avendo come prodotto finale un risultato di contaminazione»

(C.SABA, C’era un fiume e nel fiume il mare, catalogo della mostra “I fratelli Melis”, Cagliari 1996) https://www.ilfiletdiolimpiamelis.com/labiografiadellartista/

Foto ilfiletdiolimpiamelis

Molte bosane considerano Olimpia Melis Peralta soltanto un’imprenditrice perché aveva delle lavoranti che eseguivano il lavoro al posto suo.

Io non ho conosciuto Olimpia Melis, ne ho sentito parlare dalla figlia Bianca (che è stata la mia maestra) e dai nipoti Cerlienco, ma ho visto i suoi lavori ed i lavori di altre artigiane del suo periodo; ed anche lavori a lei precedenti e successivi. Ho imparato a lavorare copiando fedelmente i centri che mi proponeva la mia maestra Bianca Peralta Cerlienco e tutti i lavori provenivano dal laboratorio della mamma. Quando andavo da lei la domenica pomeriggio col mio telaio in genere chiacchieravamo del più e del meno e le istruzioni sono state ben poche:

1) Nel filet non c’è dritto o rovescio: tutto quello che si fa sopra si deve fare sotto;

2) Comincia il lavoro dal centro che è la parte che si vede di più, se fai degli errori nel contare i quadretti è meglio se sono nel bordo;

3) Devi guardare bene se il filo passa sopra/sotto l’angolo o il lato del quadretto;

4) Non devi saltare da un quadretto ad uno che sta lontano;

5) Se quando torni indietro il filo non è dalla parte

giusta hai fatto un errore: devi disfare tutto oppure inganni il filo (e all’inizio ho dovuto ingannare molte volte il filo per non farmi disfare tutto). Non potevo pretendere di riprodurre tutti i lavori in possesso dei Cerlienco e così mi sono inventata un modo di fare degli schemi in cui si potesse capire se il filo passava sopra/ sotto il lato del quadratino o sopra/sotto l’angolo. Non entro nel merito della bellezza perché è una questione personale. In dieci anni di insegnamento, ho potuto riscontrare una grande varietà di gusti: chi non sopportava la paonessa perché aveva un brutto occhio, chi non apprezzava la melagrane, altre che avrebbero preferito ricamare puttini e motivi religiosi; chi voleva fare una rete colorata di lana e ricamare col filo nero e tante altre fantasia che possono piacere o meno.

Quello che posso dire nella mia esperienza è che la composizione dei lavori di Olimpia è particolarmente suggestiva (non ho mai trovato, sentito o visto qualcuno che non apprezzasse sinceramente i lavori proposti).

Chi suona il pianoforte ha le note messe in ordine diverso da chi suona il violoncello o la tromba ed il compositore deve tenerne conto.

Le trascrizioni da uno strumento all’altro molto spesso sono impossibili o artificiose e poco piacevoli. (segue pagina 16)

15

(segue dalla pagina 15)

Per questo credo che i fratelli artisti di Olimpia possano aver influito sullo stile ma non sulla composizione vera e propria da affidare alle lavoranti. Lei, usando i motivi tradizionali, contaminata dal gusto dei tempi, ha creato uno stile riconoscibile: angoli quasi sempre smussati, molti ganci e pippiolini, e soprattutto un bilanciamento tra pieni e vuoti che non può essere insegnato. Da quello che mi diceva la figlia, Olimpia non lavorava ma suggeriva alle lavoranti, che partivano da qualcosa di noto, di aggiungere un ramo di fiori, un motivo, un gancio, un pippiolino …

Dopo tanti anni di lavori fatti, insegnati e disegnati ho provato a farne di testa mia ma sono ossessionata dal “Horror vacui”: devo riempire tutti i quadretti. Altre lavoranti moderne invece sono molto minimaliste e tengono la rete il più possibile vuota o provano punti più complicati, e motivi più geometrici e spigolosi. Senza entrare nell’apprezzamento o meno del risultato so, con certezza, che io non sono un’artista: Olimpia lo era.

DI OLI MPIA MELIS

he cosa sia l’arte è un problema irrisolto, non c’è una definizione inequivocabile. Ci sono le arti visive e quelle sonore e del movimento.

In realtà solo due o tre sensi possono decidere se si tratti di arte oppure no,e questo viene deciso in base ad un gusto appagato o meno.

Per uscire dal soggettivo, nel corso dei secoli, sono state individuate alcune caratteristiche che aiutano a dare un metro di giudizio e, per far questo, è stato necessario limitare alcuni tipi di prodotti perché possano essere etichettati come ‘arte’.

Una delle caratteristiche è che non abbia altro scopo che essere rimirato o ascoltato, quasi mai toccato, gustato o annusato; si può trovare arte nella pittura, scultura, musica, danza e a volte nell’architettura. Ultimamente si cerca di includere anche il design, le installazioni e il cinema.

La nostra idea è che quando si usano le mani e anche la testa per fare oggetti ci sia un grande range di possibilità: si passa da mera esecuzione meccanica, senza nessun contributo personale, all’arte.

Si sa che, fino al secolo scorso, le leggi le hanno dettate gli uomini; le donne venivano, lasciamo stare il presente, apprezzate se avevano la capacità di camminare sul tracciato: il valore della pittura di Artemi-

Foto ilfiletdiolimpiamelis
C L’ARTE

sia Gentileschi ha come termine di paragone l’arte di Caravaggio.

Le donne, da sole, non sono riuscite ad imporre niente come arte.

Nella cucina, per esempio, si trova Pellegrino Artusi che scrive un libro, bellissimo per carità, che si chiama “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” e viene apprezzato dal mondo intero, mentre le donne propongono le ricette giuste che diano piacere: per fare un solo esempio “Il talismano della felicità” di Ada Boni.

L’Arte di Olimpia Melis

Noi non crediamo che il valore delle donne dipenda dall’approvazione dell’uomo ed ancora meno pensiamo che le attività delle donne debbano essere valorizzate, anzi… è molto meglio non essere troppo visibili perché poi si entra in un brutto circolo, basti pensare alla “valorizzazione” della Costa Smeralda; vorremmo invece cercare di aprire nuove strade per la comprensione dell’arte.

Il filet è considerato solo un lavoro artigianale ma noi pensiamo che possa essere considerato arte. Arte sono i lavori di Olimpia Melis Peralta e per questo riteniamo nostro dovere divulgarne l’opera.

www.ilfiletdiolimpiamelis.com/lastoriadelsito/

«Il lavoro di Igino Panzino (Sassari 1950) possiede una caratteristica che diventa sempre più insolita nel panorama dell’arte contemporanea: la capacità di coniugare la dimensione estetica con quella intellettuale, di intrecciare una volontà di appagamento visivo – se vogliamo, di “bellezza” –con l’esigenza di riflettere e far riflettere». Il volume propone una vasta panoramica dell’opera di Panzino dai primi anni Ottanta del Novecento sino alle più recenti realizzazioni del 2005, ricostruendo l’interessante e originale percorso di ricerca dell’artista.”

IGiuliana Altea gino Panzino (1950 – Sassari). Vive e lavora a Sassari.

Studia presso l’Istituto d’Arte della città di Sassari, scuola che nella seconda metà degli anni ’60, sotto la direzione del pittore Mauro Manca, rappresenta uno dei punti nevralgici del dibattito isolano, con le sperimentazioni astratte del Gruppo A. Nel 1969 intraprende la carriera di docente nell’appena nato Liceo Artistico della città di Cagliari.

Nel capoluogo si forma a contato con il clima fortemente ideologizzato del periodo e con l’innovativo ambiente artistico locale, che vede tra i suoi protagonisti Gaetano Brundu, Tonino Casula, Ermanno Leinardi, Luigi Mazzarelli, Giovanni Nonnis, Primo Pantoli, (segue pag18)

17

(segue dalla pagina 17) e Rosanna Rossi.

La sua attività artistica inizia a delinearsi in questi primi anni ’70.

Nel 1973 partecipa alla collettiva “Geografia/4 Sassari”, un’indagine sulle realtà artistiche periferiche, tenutasi a Roma alla Galleria “Arti Visive” di Sylvia Franchi.

Del 1974 e 1975 sono le prime esposizioni personali, rispettivamente alla Galleria “Il Cancello” di Sassari e alla Galleria “Chironi 88” di Nuoro. Sempre nel 1975 una sua opera entra a far parte della collezione d’arte contemporanea della Galleria Comunale di Cagliari.

La seconda metà degli anni Settanta è segnata dall’adesione di Panzino al Gruppo della Rosa, formazione di orientamento concettuale ideata da Aldo Contini.

Negli stessi anni, presentato dal critico Marco Magnani, inizia il sodalizio –durato poi a lungo – con la Galleria Arte Duchamp a Cagliari, diretta da Angela Migliavacca.

La Duchamp non solo riuniva gli artisti più significativi della ricerca isolana, proponendoli in alternanza con i grandi nomi della scena nazionale, ma svolgeva un’importante funzione di centro di aggregazione e di promozione culturale.

Negli anni Ottanta si trasferisce prima a Pavia e poi a Roma, insegnando negli Istituti d’Arte di Valenza Po e di Roma II. In questo periodo espone a Pavia, Brescia, Genova,

CHI E’ IGINO PANZINO

Vigevano, Roma, Parigi, Basilea, senza mai perdere i contatti con il panorama artistico e culturale sardo. Compiuto un viaggio di studio a New York, nel 1989 rientra definitivamente in Sardegna dove porterà avanti, parallelamente, l’attività artistica e l’attività di insegnamento fino al 2002, anno in cui decide di dedicarsi esclusivamente alla ricerca artistica.

Panzino ha esposto in numerose mostre personali e collettive, in spazi pubblici e privati, in Italia e all’estero (Belgio, Francia, Svizzera). Hanno scritto della sua ricerca figure quali Giuliana Altea, Manlio Brigaglia, Gaetano Brundu, Mariolina Cosseddu, Stanis Dessy, Marco Magnani, Salvatore Mannuzzu, Gianni Murtas, Salvatore Naitza, per citarne alcuni.

Il linguaggio neocostruttivista percorre tutta la vicenda artistica di Igino Panzino, anche le più recenti opere pubbliche realizzate a partire dalla fine degli anni ’90.

La vicenda creativa di Panzino, sviluppatasi dapprima nel clima delle tendenze analitiche e neocostruttiviste degli anni Settanta, lo ha portato di volta in volta ad attraversare momenti di accentuata riduzione formale, a conoscere episodi di effusione pittorica (sempre in verità molto controllati, sul filo di un rigore concettuale che non allenta mai la sua presa), e a contemplare l’ipotesi di uno sblocco sociale dell’arte tramite esperienze di arte pubblica* .

Foto wikipedia.org

Tra le opere pubbliche possiamo annoverare

2003

Protome taurina, scultura in acciaio, Tortolì, Nuoro

2001

In memoria di Antonietta Chironi, scultura, piazza Veneto, Nuoro

In memoria dei Caduti di tutte le guerre, due sculture, piazza Convento, Padria, Sassari

Totem segnaletici, nove sculture collocate negli accessi ai percorsi ambientali e culturali “Sulle orme del tempo”, Anglona-Monteacuto

2000

Scultura, Museo del Vino, collezione comunale “Time in Jazz”, Berchidda, Sassari

1999

Scultura, Caserma dei Carabinieri, Tresnuraghes, Oristano

Scultura, Caserma dei Carabinieri, Tratalias, Sud Sardegna

Scultura, Caserma dei Carabinieri, Birori, Nuoro

1996

In Sacro Itinere, bassorilievo, piazza del Duomo, Alghero, Sassari

1991

Fontana, piazza Santa Rughe, Ittiri, Sassari

Una selezione delle mostre personali :

2006 Castello di San Michele, Cagliari

2004

Les Chantiers de la lune, a cura di Jacqueline Herrero, La Seyne sur mer, Tolone

2003

Museo di arte contemporanea “Su logu de s’iscultura”, a cura di Edoardo Manzoni, Tortolì, Nuoro Libreria “Il Labirinto”, Alghero, Sassari

2002

Galleria Contemporanea, Sassari

2001

Scala 1:10, Galleria Comunale, Nuoro

1998

Galleria Incontri d’Arte, Cagliari

1997

Arte a Palazzo Ducale, a cura di Giuliana Altea e Marco Magnani, Palazzo ducale, Sassari

1996

Torre Civica, Calasetta, Sud Sardegna

Liceo classico “G. Manno”, Alghero

1995

Galleria Teodote, Pavia 1994

Galleria La Bacheca, Cagliari

Museo “Genna Maria”, Villanovaforru, Sud Sardegna

1993

Centro Studi Arte Contemporanea Kairòs, Sassari

Fuori luogo, installazione, spiaggia di Porto Ferro, Sassari

Fuori luogo, con musica dal vivo di Enzo Favata, spiaggia di Maria Pia, Alghero • Galleria Comunale, Cagliari

(segue pagina 20)

19

(segue dalla pagina 19)

1992

Galleria Il Molo, Porto Rotondo, Sassari

1990

Galleria Duchamp, Cagliari

Galleria Denti&Denti, Sassari

1988

Caffè Salvini, Pavia

1987

Galleria Artivisive, a cura di Sylvia Franchi, Roma

1985

Cotton Club, Pavia

1984

Galleria DuePiGreco, Sassari

1983

Galleria Il Nome, Vigevano, Pavia

Sartirana, Castello, Pavia

1981

Centro del Portello, Genova

Galleria Duchamp, Cagliari

Convento dei Cappuccini, Bosa, Oristano

1980

Collegio Universitario

Cairoli, Pavia

1978

Galleria Duchamp, a cura di Angela Grilletti Migliavacca, Cagliari • Galleria Contini, a cura di Ermanno

Leinardi, Roma

1977

Galleria Il Cancello, Sassari

1975

Galleria Chironi88, Nuoro

1974

Galleria Il Cancello, Sassari

* “Igino Panzino: un lucido visionario”, in Igino Panzino, Edizioni Poliedro, 2006.

stac-studidartista.com/ project/igino-panzino/

LA FIGURAZIONE ERA QUALCOSA

DA IGNORARE PER CARLA ACCARDI, CHE INTENDEVA IL COLORE IN MANIERA GIOCOSA E CHE AMAVA MATISSE.

ORA AL MUSEO

CORRER VANNO IN MOSTRA ALCUNE

SUE OPERE RARAMENTE ESPOSTE INSIEME

Nell’ambito dell’arte italiana del dopoguerra Carla Accardi (Trapani, 1924 – Roma, 2014)

è stata una figura fondamentale. Con altri autori della sua generazione ‒ Afro, Scialoja, Dorazio ‒ ha contribuito a mettere in relazione l’arte italiana con i cambiamenti in atto sulla scena internazionale, quella americana in particolare.

Ora il Museo Correr di Venezia, avvicinandosi il centenario della nascita dell’artista, le dedica un omaggio, Carla Accardi.

Gli anni Settanta: i lenzuoli.

Il progetto, a cura di Pier Paolo Pancotto in collaborazione con l’Archivio Accardi Sanfilippo di Roma, presenta, impostandoli come installazioni, alcuni lavori che dialogano con l’habitat storico del museo. Sono i Lenzuoli, appunto, raramente esposti insieme, che riassumono il percorso creativo dell’artista. Queste opere evocano la Sicilia di Accardi, la luce tagliente che fa risplendere i colori del Mediterraneo, il periodo in cui guarda all’arte di de Chirico, Savinio, Morandi, Carrà e Matisse soprattutto, verso il quale prova un’istintiva passione, complici i balconi spalancati sul mare e cromie gioiose e vivaci.

Nel 1947 Accardi è a Roma, frequenta Via Margutta, dove incontra Consagra, Attardi, Dorazio, Perilli, Turcato.

rtribune.com
Foto a

Insieme danno vita al Gruppo Forma 1: “I figurativi semplicemente li ignoravamo, non ci interessavano”, dirà in seguito.

L’arte per loro è solo astrazione, quell’astrazione che Togliatti, con lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, su Rinascita dileggia giudicandola “l’espressione degli sciocchi, raccolta di cose mostruose”, facendo propria la definizione di Guttuso: Scarabocchi.

A partire dagli Anni Cinquanta, Accardi si allontana dal gruppo e dal procedere troppo vincolante di Capogrossi, consolidando una sua poiesis che mette insieme fantasie e figurazioni impreviste, alogiche.

Componenti che rigettano la narrazione fenomenica del reale e si impongono sulla superficie come un aggregato di “elementi-segni”.

Sviluppa così la poetica del segno imponendosi tra gli interpreti dell’Art autre di Michel Tapie.

I suoi inizi sono legati ai Negativi, che fanno registrare l’intenso incontro tra il bianco e il nero. per abbandonare poi la dialettica del monocromo e optare per i cromatismi, il verde e il rosso squillante.

Fino ad attestarsi sulla delicatezza controllata e sulla fluidità segnica, molto distante dallo sgocciolare muscoloso di Jackson Pollock e dalla rigidità degli altri astrattisti italiani.

Accardi è sempre rimasta fedele a un’interpretazio-

ACCARDI A VENEZIA

ne giocosa del colore influenzata dall’arte arabo bizantina e dai toni di Matisse.

Nei primi Anni Sessanta inizia il ciclo delle Integrazioni e delle grandi opere spesso intitolate con i timbri cromatici adottati, bianco argento o viola rosso, come a sottolineare la fonte dell’ispirazione.

Fino a quando i segni, con ciò che ne segue, iniziano a vagare liberi nell’ambiente.

Accardi li trasferisce sui coni di sicofil, fogli di plastica trasparente che adotta proprio nel momento in cui cerca di uscire dalla superficie della tela, concretizzando le cromie nello spazio.

A partire dagli Anni Settanta l’artista produce una nuova serie di opere, i Lenzuoli, teli di cotone di varia grandezza dipinti con pittura per stoffa. Sono lavori che assecondano il senso ruvido o liscio del muro nel rispetto di un unico schema: la genuinità.

Sono creazioni che mettono in risalto “una sintassi primaria, fatta di pochi segni geometrici alternati ad ampie campiture monocrome”, scrive nel catalogo della mostra il curatore Pier Paolo Pancotto, che per la rassegna veneziana ne ha scelte una decina.

Opere tecnicamente interessanti dipinte da Accardi stendendole a terra.

A volte predomina un impianto segnico ondulato, (segue pagina 22)

21
CARLA

(segue dalla pagina 21) in altre occasioni prevale invece un andamento verticale.

L’insieme è declinato in numerose varianti e in diversi accostamenti di colore: il grigio trasfigurato e il blu intenso che si inerpicano a formare le braccia di una sorta di candelabro.

Fatti estetici, li definisce l’artista, che bisogna guardare con leggerezza e semplicità.

Si tratta di un progetto espositivo tradotto in un’ampia installazione che copre l’enorme Sala delle Quattro Porte, uno dei pochi spazi della Procuratie Nuove ad aver mantenuto la configurazione cinquecentesca, posta in dialogo con i lavori di Accardi, inclusi quelli plastici.

Nella Scultura trasparente in perspex e metallo del 2002, realizzando quasi degli aculei che si propagano nello spazio, l’artista raggiunge una totale autonomia espressiva scegliendo una grammatica astratta.

Nell’Oggetto trasparente del 2001, con la materialità smussata dalla delicatezza del materiale usato, sembra suggerire all’osservatore un approccio intuitivo all’opera che privilegi, almeno inizialmente, i sensi rispetto alla ragione.

Fausto Politino

https://www.artribune. com/arti-visive/arte-contemporanea/2023/05/ mostra-carla-accardi-venezia/

JOANA VASCONCELOS A PARIGI

L’artista portoghese Joana Vasconcelos (Parigi, 1951) porta l’infinito all’interno della maestosa architettura della Sainte-Chapelle a Vincennes, sotto forma di un monumentale albero di 13 metri decorato secondo un’antica tecnica tradizionale portoghese.

Tree of Life, la grande installazione site specific che Vasconcelos ha ideato per l’antica cappella del castello di Vincennes, è intrisa di richiami alla donna e alla natura. Da un lato, si ispira infatti ai ben tremila olmi che la regina Caterina de’ Medici volle piantare nel vasto parco del castello (nella cui cinta muraria sorge la Sainte-Chapelle), al quale la sovrana era molto legata e di cui curò con passione la manutenzione.

Ma questo è soltanto il punto di partenza per un omaggio alla natura secondo quel Realismo Magico che da Ferdinando Pessoa giunge fino a Gabriel García Márquez, e che si traduce nella riproduzione in tessuto delle radici dell’albero, che inglobano forme biomorfe e zoomorfe. L’albero, come la donna, è il principio di tutto.

E, dall’interno di questo grandioso tutto, Vasconcelos estrinseca un altrettanto grandioso mosaico culturale: i tessuti che rivestono l’albero sono ricamati secondo varie tecniche tradizionali portoghesi, come il canutilho tipico di Viana do Castelo, la roseta, un punto all’uncinetto diffuso un po’ in tutto il Paese, o ancora il trabalho

Foto artribune.it

louco per l’assemblaggio di tessuti di lino tipico delle Azzorre.

Tutti insieme riecheggiano il Portogallo e il suo sguardo sul mondo, dall’Africa all’America Latina, dal cattolicesimo allo sciamanesimo, dall’animismo al Realismo Magico.

Un dinamico sincretismo che ci parla di uguaglianza, unità e inclusione.

E, con il suo andamento verticale, Tree of Life simboleggia la continuità fra Cielo e Terra.

La regina Caterina de’ Medici non è la sola figura femminile cui Vasconcelos rende omaggio con la sua opera; infatti, Tree of Life riecheggia anche la figura mitologica di Dafne, dalla quale l’artista ha tratto ispirazione dopo aver visto la celebre scultura del Bernini conservata a Villa Borghese.

Dafne, la ninfa che si trasformò in albero per sfuggire all’ira di un geloso e passionale Apollo: la dinamica leggiadria dell’opera, con il suo ascendere verso l’alto, richiama la fase finale della trasformazione, e ne fa metafora di un atto d’indipendenza e autodeterminazione, il trionfo del principio femminile della vita contro la brutalità della violenza che sfregia la grazia e la bellezza. Un richiamo delicato, ma insieme forte, alle tante donne che nel mondo soffrono persecuzioni, sopraffazioni e limitazioni dei diritti fondamentali, dall’Afghanistan

all’Iran, senza purtroppo dimenticare l’Italia.

La presenza femminile è riscontrabile anche a un altro livello: Tree of Life è stato concepito già nei mesi della pandemia, e ben quindici ricamatrici portoghesi hanno collaborato con l’artista: ognuna di loro ha iniziato a lavorare da casa durante il difficile periodo delle chiusure e alla fine è nata una scultura tessile che pone a confronto il potente gesto di indipendenza di Dafne con uno scenario di forte limitazione quale è stato, appunto, quello del lockdown.

Come spiega la stessa Vasconcelos, “quest’opera è il risultato dell’affermazione della vita sulla pandemia di Covid-19”. In tal senso, risalta il contrasto con le vetrate istoriate con le storie dell’Apocalisse. Gioiello dell’architettura gotica “fiammeggiante” appena dieci chilometri a est di Parigi, la Sainte-Chapelle fu edificata nel 1379 su progetto di Raymond du Temple per volere dell’allora sovrano francese Carlo V. Sorge all’interno della cinta del Castello di Vincennes (residenza reale dal 1180), e ospitava le reliquie della Passione di Cristo portate da San Luigi dalla Palestina al tempo della Prima Crociata. Il cantiere si concluse soltanto nel 1480 quando, sotto Luigi XI, venne completata la facciata. Le decorazioni interne, invece, furono aggiunte nel Cinquecento; (segue p 24)

23

(segue dalla pagina 23) fra queste, le celebri vetrate istoriate opera di Nicolas Beaurain, che strutturò le composizioni per elementi architettonici curando gli effetti luminosi.

I colori che vi dominano sono soprattutto le tonalità chiare: giallo, arancio e grigio.

Di particolare bellezza le scene dell’Apocalisse nel registro centrale dell’abside.

I danni seguite ai tumulti della Rivoluzione francese hanno fatto perdere traccia di buona parte degli arredi sacri, delle reliquie e persino delle vetrate.

Quelle superstiti dell’abside furono rimosse nel 1796 e ospitate nel Museo dei monumenti francesi, al fine di tutelarle.

Ricollocate nel 1820 dopo un restauro, furono di nuovo danneggiate nel 1944.

Nuovamente restaurare negli Anni Sessanta, subirono gli effetti di una tempesta di vento che sconvolse la Francia il 26 dicembre 1999.

Dal 2018, riacquistata almeno in parte l’antica bellezza, sono tornate a splendere all’interno della Cappella.

E la monumentale scultura installativa di Joana Vasconcelos impreziosisce e proietta verso il futuro questo straordinario monumento.

Niccolò Lucarelli

https://www.artribune. com/arti-visive/arte-contemporanea/2023/05/ installazione-albero-artista-joana-vasconcelos-vincennes-francia/

LUCIO AMELIO A NAPOLI

Uomo d’arte, come si legge sulla targa appena inaugurata, Lucio Amelio (1931 – 1994) portò per la prima volta Andy Warhol a Napoli, nel 1975: allora, l’artista americano restò in città per tre giorni, accogliendo l’invito di Amelio, che l’anno precedente si era recato a New York con l’idea di rilanciare la sua Napoli nel circuito internazionale della cultura, aggiornandosi sulle novità del mercato estero. Amelio “dedicò la sua vita all’arte”, come ricorda oggi la vicesindaca nel sottolineare l’omaggio dovuto che la città rende a uno dei suoi intellettuali più brillanti, capace di immaginare, alla metà degli Anni Settanta, una “Nuova Napoli”, pronta a proiettarsi verso il futuro.

A New York, nella Factory di Warhol, Amelio si era fatto ritrarre dal padre della Pop Art in quattro serigrafie, scambiandole con una tela di Cy Twombly; fu l’inizio di un sodalizio fondato sulla stima reciproca, di cui beneficerà qualche mese più tardi il capoluogo partenopeo.

Le 72 ore di Warhol a Napoli sono documentate dal video Andy Warhol eats, girato da Mario Franco proprio tra la galleria di Amelio a piazza dei Martiri e un ristorante di piazza Dante.

Nel 1980 sarà sempre Amelio a presentare ad Andy Warhol Joseph Beuys, conosciuto nel ’71 e a più riprese protagonista di esposizioni nella sua galleria napoletana: dall’incontro tra i due nascerà la mostra di ritratti Beuys

Foto Franz Egon von Fürstenberg

Prima di inaugurare la galleria che portava il suo nome in piazza dei Martiri, nel 1969, Amelio si era fatto conoscere, a partire dal ’65, fondando la Modern Art Agency, da subito orientata a captare i movimenti e le tendenze della scena internazionale.

Dagli Anni Settanta e fino ai Novanta, il gallerista napoletano ospita nel suo spazio alcuni tra i più importanti artisti stranieri e italiani del tempo, da Robert Rauschenberg a Jannis Kounellis e Mario Merz (cui dedica un breve saggio nel 1976), da Keith Hering a Mimmo Paladino e Antonio Del Donno.

Uomo di grande carisma, a proprio agio con la mondanità e al contempo strenuamente convinto del ruolo sociale dell’arte, dopo il sisma dell’Irpinia del novembre 1980 organizzerà la collettiva Terrae Motus, radunando oltre sessanta artisti internazionali per riflettere sul tema del terremoto: nata come esposizione temporanea, per la Reggia di Caserta, la mostra è oggi parte della permanente d’arte contemporanea visibile all’interno dell’edificio borbonico.

Nel 1989 inaugura a Parigi, in Rue Jacques Callot una galleria innovativa, Pièce Unique, mostrando una per volta le opere, attraverso una vetrina, visibili dall’esterno a tutte le ore del giorno e della notte.

È stato inoltre attore, recitando in cinque film di Lina

Wertmuller.

Nel 2014 il Madre gli ha dedicato la mostra Lucio Amelio – Dalla Modern Art Agency alla genesi di Terrae Motus (1965-1982). Documenti, opere, una storia… , per ripercorrere la sfida intellettuale di una personalità complessa, che si spinse molto oltre il mondo delle gallerie.

“La sua opera è un grande atto intellettuale, poetico e di grandissima serietà nei confronti di questa città. E noi siamo particolarmente onorati di dedicare una via a Lucio Amelio”, chiosa la vicesindaca. “È molto importante ricordare quest’uomo, quello che ha fatto per la cultura della città, per il mondo dell’arte e il modo con cui Lucio Amelio ha interpretato Napoli.

Questo per noi è particolarmente significativo: è stato un intellettuale oltre che un grande gallerista che ha pensato Napoli come una ‘città mondo’, che l’ha tirata fuori dalla sua rappresentazione vernacolare e l’ha fatta diventare una soglia aperta all’arte contemporanea”. Con queste parole, Laura Lieto, vicesindaca di Napoli con delega alla Toponomastica, ha introdotto la cerimonia di intitolazione di via Lucio Amelio al quartiere San Carlo All’Arena, davanti al Bosco di Capodimonte (e nei pressi dell’omonimo museo), nella mattinata di mercoledì 26 aprile.

25
www.artribune.com/ IN
PIÙ GRANDI ARTISTI INTERNAZIONALI E ITALIANI DEL SECONDO NOVECENTO. ORA FINALMENTE UNA STRADA PORTA IL SUO NOME. ECCO DOVE Napoli intitola una via a Lucio Amelio, gallerista e intellettuale aperto al mondo
PIAZZA DEI MARTIRI, LA SUA GALLERIA HA ACCOLTO I

elle conversazioni con persone di altre nazionalità, ogni italiano si vanta del fatto che il nostro Paese conservi una quota enorme dei beni culturali mondiali, custoditi in maniera rigorosa e attenta da solerti funzionari di amministrazioni pubbliche nazionali, regionali, comunali ed ecclesiastiche.

Ma assai di rado chi si vanta di tali primati si è mai interrogato sulle modalità e sulle strategie adottate dalle classi dirigenti che si sono succedute per secoli sul territorio della penisola, capaci di commissionare ai migliori artisti del proprio tempo i capolavori che permettono all’Italia di attirare nelle città d’arte milioni di turisti da tutto il pianeta. Chi sarebbe Michelangelo senza Lorenzo il Magnifico o Giulio II?

Sarebbe stato capace Caravaggio di dipingere le sue drammatiche tele senza Scipione Borghese?

Gian Lorenzo Bernini avrebbe potuto trasformare Roma in un mirabolante teatro barocco senza il sostegno di pontefici illuminati come Urbano VIII o Alessandro VII?

Probabilmente no. È interessante riflettere sulla capacità di questi committenti, visionari e lungimiranti, di scegliere sempre personalità artistiche di ecceziona-

SUI GOLEADOR DELL’ARTE

le qualità, con le quali molto spesso intrattenevano relazioni di frequentazione intellettuale, che si trasformavano a volte in rapporti di autentica amicizia. Secoli di committenze che hanno contribuito in maniera determinante alla fama del Bel Paese, che già dal Settecento attirava i migliori intellettuali europei impegnati nel Grand Tour, il viaggio di formazione culturale per affinare gusto e sensibilità a contatto con paesaggi, atmosfere e opere architettoniche e artistiche senza pari nel mondo.

Le attuali classi dirigenti di politici e funzionari pubblici, che hanno abbinato al concetto di tutela quello della valorizzazione, molto spesso interpretano in maniera eccessivamente personalistica questo concetto, sostituendo con gusti e relazioni personali le buone pratiche di selezione basate su criteri di merito perseguiti per secoli dai loro predecessori.

Proprio in un’epoca di confusione, dove l’arte e l’architettura contemporanea possono fornire interessanti e originali chiavi di lettura del nostro tempo, in piena controtendenza internazionale l’Italia si ostina a considerare la cultura come mero intrattenimento estetico, abbinando ai venerati ‒ ma solo a parole ‒maestri del passato artisti di qualità e livello troppo spesso scadente.

Curioso notare, a questo proposito, come in un Pa-

Foto marco morales PUNTARE
N

ese che ha fatto del calcio una sorta di religione di stato non vengano applicati per l’arte contemporanea gli stessi criteri che regolano questo sport, ben noti a sessanta milioni di italiani. Se i nomi e le qualità dei calciatori di serie A vengono imparati a memoria dagli adolescenti, non altrettanto succede per l’arte, dove la squadra italiana sarebbe composta da Leonardo, Michelangelo, Caravaggio e Bernini, tutti scomparsi da secoli. Nel campionato dell’arte del Terzo Millennio giocano centinaia di artisti, sponsorizzati da politici e funzionari, senza un minimo sguardo ai loro effettivi talenti e capacità.

Così nelle Champions League, che si tengono ogni due anni a Venezia in occasione delle Biennali, quando tutti i Paesi mettono in campo i loro migliori artisti sperando di portare a casa la Coppa agognata, cioè il Leone d’Oro, per decenni l’Italia si è presentata con decine ‒ a volte centinaia ‒ di artisti di serie A, B, C o D, senza alcuna attenzione al campionato stesso. Se continuiamo così non avremo mai il Totti o il Maradona dell’arte, che dovrebbe essere educato nei migliori stadi della nazione: ci riferiamo ai nostri musei di arte contemporanea, che negli ultimi anni si sono ostinati a ospitare e celebrare decine di artisti di altri Paesi, ignorando i talenti nazionali senza permettere

IN ITALIA TUTTI CONOSCONO LE FORMAZIONI

CALCISTICHE NAZIONALI, CHE PER FUNZIONARE PUNTANO SU GIOCATORI

DI SERIE A.

E ALLORA PERCHÉ LA CLASSE DIRIGENTE

DELLA CULTURA E LE

ISTITUZIONI NON FANNO LO STESSO CON GLI ARTISTI?

L’arte contemporanea italiana dovrebbe prendere esempio dal calcio?

loro di crescere, per prepararli al campionato più prestigioso del mondo ‒la Biennale di Venezia ‒organizzato e finanziato proprio dall’Italia. Nel mondo del calcio sarebbe un inaccettabile paradosso, ma in quello dell’arte nessuno si scandalizza se i contribuenti italiani pagano ogni due anni una dozzina di milioni di euro per un campionato internazionale dove i propri calciatori non hanno alcuna probabilità di vincere!

Per concludere con il parallelo calcistico: se i Medici, i Gonzaga, gli Estensi, i Papi, hanno sempre sostenuto e promosso i migliori campioni, perché oggi apriamo i nostri monumenti più belli e prestigiosi del mondo ‒ regge barocche, palazzi rinascimentali, siti archeologici ‒ ad atleti di serie B, senza minimamente preoccuparci di far crescere i migliori goleador della nazione?

Forse per lo Stato e i Comuni è arrivato il momento di cambiare passo, in modo che i nostri figli e nipoti si possano vantare della squadra artistica nazionale della prima metà del Ventunesimo secolo, senza se e senza ma.

Solo artisti di serie A, formati per vincere la Biennial League!

Ludovico Pratesi

https://www.artribune. com/arti-visive/arte-contemporanea/2023/05/italia-calcio-cultura/

27

a compagnia cagliaritana delle Lucido Sottile di Tiziana Troja e Michela Sale

Musio celebra il ventunesimo compleanno e lo fa in pieno stile, volando a New York per la decima edizione della prestigiosa kermesse teatrale di “In Scena! Italian Theater Festival NY” organizzato da Kairos Italy Theatre e Kit Italia insieme a Casa Italiana Zerilli – Marimò at New York University.

L’evento già dagli esordi è stato inserito come appuntamento ufficiale dell’Anno della Cultura Italiana negli Stati Uniti d’America, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Italiana, del Ministero degli Affari Esteri e dell’Ambasciata italiana a Washington.

Lo spettacolo “DDD! Donne donnette e donnacce” sarà presentato venerdì 12 maggio alle 18 nei locali di Casa Zarilli – Marimò e il 14 , alle 18.30 presso Vino Theatre.

La commedia dal finale aperto e dal titolo che non lascia a bocca asciutta il vasto pubblico del celebre duo, avvezzo al fine calembour come pure al sarcasmo icastico al limite della trasgressione, si cimenta stavolta su una riflessione autoironica in cui è bandita l’ipocrisia e la mediocrità della convenzione sociale.

Incontriamo Tiziana Troja alla vigilia dell’evento, che non è il battesimo delle “Lucide” negli States, ma nel mentre cosa è accaduto?

LUCIDO SOTTILE RITORNA A NEW YORK

Pandemie, carestie, rivoluzioni e rinascite, sia nel lavoro, che nella vita privata. Traslochi.

Ho addirittura spostato la sede staccata del mio lavoro da Milano a Roma.

Mi occupo di cinema con più frequenza.

Ho rivalutato fatti e persone durante e dopo il lockdown. Potature varie, sono felice. Mi rendo conto che lo stato dell’arte ha subito uno scossone negli ultimi tre anni. Siamo cambiati umanamente in meglio.

Anche il settore professionale del mondo dello spettacolo si è “ripulito” amministrativamente parlando, hanno resistito quelli veri, quelli che pagano i contributi, ma l’Italia è un paese dove tuttora e purtroppo i dopolavoristi dello spettacolo hanno troppo spazio, creando così una miseria culturale che rischia di affossarci intellettualmente.

Se pensiamo che la nuova scena culturale artistica è stata quasi rimpiazzata dalla fabbrica dei “nuovi Gesù” con rispettivi seguaci, scena che poi ci ha restituito gli influencer, come predisse David Icke, essi sono ormai i padroni della rete, venditori sotto scolarizzati il più delle volte, scambiati spesso per artisti.

Vi siete già esibite a New York. Correva l’anno 2018, c’era Trump. Che New York pensa di trovare oggi, per il suo modo di fare arte, rispetto a cinque anni fa?

Quella di sempre. La grande mela è una città di gran-

Foto michelangelosardo
L

di possibilità, prospettive, di grande libertà e voglia di rivincita. Andare a New York in vacanza è un conto, andarci a lavorare, entrare nel flusso del mondo dello spettacolo è un’altra faccenda. Gli italiani sono una comunità portante nell’economia della città, si sente subito, appena si sbarca in aeroporto, che non a caso si chiama La Guardia, l’italoamericano che lo ha progettato, appunto.

Cosa desidera lasciare al pubblico d’oltre oceano con questo suo spettacolo, che reazioni immagina di sortire? Lo spettacolo mette in luce molti aspetti che non riguardano esclusivamente il mondo femminile dello spettacolo italiano, ma sono universali. Non mi interessa lavorare sull’immagine dell’Italia vecchia e stereotipata, men che meno riportare i soliti cliché della Sardegna esotica da guida turistica fatta di janas, giganti, centenari, pastori, mare culurgiones e pecorino, che sono cose sacre per carità, ma sappiamo anche parlare al mondo con tutti gli strumenti moderni. Molte delle innovazioni tecnologiche sono partite proprio da menti geniali “made in quattro mori”.

Tiziana Troja è una regista coraggiosa, per certi versi scomoda, anticonformista non per vezzo ma per attitudine.

Le chiediamo di sopportare il supplizio di offrirsi un po’ meglio alle nostre pagine con il nostro questionario e tol-

lerare il gioco di dare delle etichette, lei, regina della libertà d’espressione

Chi è la sua icona di libertà?

Non ho ancora conosciuto icone più libere di Lucidosottile, scusate la franchezza.

Chi è la sua power woman?

La mia socia Michela Sale Musio

Come definirebbe il suo stile?

Eclettico

Un fiore che la rappresenta?

Il Ranuncolo

Il suo luogo del cuore?

Calamosca a Cagliari. Vado a ricaricarmi lì ogni volta che posso… Dò da mangiare ai pesci a ridosso degli scogli, mi rigenera.

Il suo ristorante preferito? “Da Tiziana” come dicono i miei amici.

Il libro da consigliare?

Pinocchio di Collodi. C’è tutto.

La serie tv?

Utopia

Un film da rivedere?

Ho i miei film salvaumore: Film Blue, Amarcord, Il silenzio degli Innocenti, Il grande Lebownsky, Jackie Brown, Jurassic Park, I Tenembaum, La pianista, Melancholia. Il secondo tragico Fantozzi, Manhattan.

La colonna sonora della sua giornata?

Dusty Kid, Puccini, Whitney Houston, Beatles, Debussy

Qual è il suo profumo signature?

“Premier Extreme Figuier” (segue pag 30)

29

(segue dalla pagina 29) de L’Artisan Parfumeur

Da un punto di vista sociale, cosa la preoccupa di più?

La repressione della libertà, la limitazione degli spazi di pubblico dibattito, l’indifferenza alla povertà della politica, l’aridità generale dei giovani nei confronti della cultura, le donne contro le donne.

Il tratto principale del suo carattere?

La schiettezza

Qual è la qualità che apprezza di più nel/nella partner?

Ho un compagno bellissimo ed empatico, ed è la cosa più bella che mi potesse capitare.

Un pregio e un difetto di Michela Sale Musio?

Straordinario talento in attrice capricciosa, sembra un titolo di un film.

Il suo peggior difetto?

Dare peso a tutte le parole. E poi idiosincrasie varie. Sono insopportabile. Le scritte sui bicchieri, specie se colorati. La tazzina del caffè deve rigorosamente essere bianca. La simmetria mi distende.

La commedia che avrebbe voluto scrivere lei?

Due: Natale in casa Cupiello, La cantatrice Calva.

Il suo passatempo preferito?

Passatempo? Ah…non ne ho il tempo! Ma appena posso i mercatini di antiquariato, ceramiche e argenti sono la mia passione. Cosa manca alla sua felicità?

Un viaggio interstellare

In quale Paese vorrebbe

vivere?

In Space X

Il suo scrittore preferito?

Marquez, Scerbanenco, Palahniuk, De Crescenzo, Maurizio Temporin, Matteo Porru

L’ artista preferito? (scelga lei l’arte…)

Lunghissima lista, ma ci infilo uno dei miei maestri che ho il piacere di avere come amico: Luigi Serafini. Se avesse potuto scegliere il suo nome di battesimo, quale sarebbe stato?

Il mio nome è stato estratto dai miei fratelli da una selezione fatta dai miei, mi sarebbe piaciuto Andrea, così sessualmente e anagraficamente ambivalente…

Il personaggio storico che odia su tutti?

Hitler

L’impresa storica che ammira di più?

La Liberazione dell’Italia dal Nazifascismo

Quale dono/potere vorrebbe avere?

Viaggiare nel tempo

Come si sente attualmente?

Leggera

Il suo motto è?

Non c’è giorno più bello di quello speso ad aiutare il prossimo

Foto michelangelosardo

Gli studi legali, fino a poco tempo fa luoghi privati e riservati per definizione, si aprono per mostrare dipinti e sculture, tra manuali e fascicoli processuali.

Avvocati di successo tolgono le chiavi alle serrature di palazzi storici nel centro città e aprono le porte a colleghi, giornalisti, curatori e semplici appassionati per condividere le opere in collezione o progetti speciali.

E così gli austeri corridoi e le eleganti sale riunioni si trovano a ospitare mostre e eventi dedicati all’arte soprattutto contemporanea.

Come nel caso del progetto artistico “Bary our weapons, not our bodies”, personale di Yael Bartana (1970), artista israeliana di stanza a Berlino e Amsterdam, interessata a temi sociali e femministi principalmente utilizzando video, fotografia e performance.

La mostra, a cura di Rischa Paterlini e in collaborazione con Galleria Raffaella Cortese, si tiene all’interno dello studio legale Lauri Viglione in Milano.

Il progetto di ospitare mostre presso lo studio è nato da un’idea della curatrice che mi affianca per l’acquisto delle opere” afferma Alessandro Viglione avvocato specializzato in diritto penale dell’economia, partner dello studio.

La planimetria della struttura, per lo più caratterizza-

STUDIOLEGALE O GALLERIA D’ARTE?

ta da lunghi corridoi con pareti bianche e un’ampia sala riunioni si presta in effetti a un percorso espositivo.

“Le pareti sono come le pagine bianche di un libro che di volta in volta si riempiono di un messaggio con i lavori degli artisti che esponiamo”, aggiunge Viglione che colleziona fotografia artistica. “Nel mio caso non ho scelto questo medium ma è stata la fotografia a trovare me. Gli elementi di questo collegamento sono stati i viaggi e le persone che ho incontrato negli ultimi anni. Mi hanno spinto ad approfondire questa forma di espressione e mi ci sono ritrovato completamente”.

Secondo gli ultimi report, il mercato della fotografia artistica è un mercato di nicchia.

Questo medium copre una piccola parte dei volumi del mercato dell’arte globale dominato principalmente da dipinti e opere su carta.

“La fotografia è una forma d’arte suscettibile di tante interpretazioni. È poliedrica forse più della pittura”, aggiunge Viglione che condivide questa sua passione con la moglie Francesca e i soci e colleghi dello studio. “Al momento divido la mia collezione con mia moglie.

Ciò che acquistiamo è a titolo personale anche se in larga parte lo condividiamo per migliorare l’ambiente (segue pag32)

31
Foto

(segue dalla pagina 31) di lavoro, per noi e per tutti coloro che frequentano lo studio”. Arte e diritto, dunque, sono un connubio che presenta vari risvolti. “Sia nell’arte sia nel diritto si plasma qualcosa. Come tutte le discipline umanistiche sono estrinsecazioni dell’uomo. I grandi giuristi e maestri del diritto sono stati e sono, prima di tutto, anche grandi uomini di cultura, filosofia e arti. L’arte è un veicolo attraverso il quale è possibile trasferire dei messaggi. Nel caso dell’artista israeliana che abbiamo in esposizione e recentemente anche per gli artisti iraniani cui è stato dedicato un progetto speciale in occasione dell’ultima edizione di MIA Fair, si tratta di persone che lottano per portare avanti dei diritti. In questo, vedo lo stesso spirito che muove, per certi versi, anche il difensore”, commenta l’avvocato Viglione. La relazione tra arte e diritto esiste ed è necessariamente molto intima.

“Di recente ho scoperto l’artista Valerio Bispuri rappresentato dalla galleria di Alberto Damian. Il suo lavoro dedicato alle immagini scattate ai detenuti nelle carceri mi ha mi ha colpito profondamente.

In quei ritratti ho trovato una grande umanità. L’esperienza ci mostra, purtroppo, la tendenza alla spersonalizzazione dell’individuo generata

Opinione personale dell’autore Specializzato in diritto tributario presso la Business School de Il Sole 24 ore e poi in diritto e fiscalità dell’arte, dal 2004 è iscritto all’Albo degli Avvocati di Milano ed è abilitato alla difesa in Corte di Cassazione.

La sua attività si incentra prevalentemente sulla consulenza giuridica e fiscale applicata all’impiego del capitale, agli investimenti e al business.

E’ partner di Cavalluzzo Rizzi Caldart, studio boutique del centro di Milano.

Dal 2019 collabora con We Wealth su temi legati ai beni da collezione e investimento.

dall’ambiente carcerario, non ci dobbiamo però dimenticare che i detenuti hanno una umanità che non può lasciare indifferenti e che la pena, come la nostra Costituzione ci ricorda, deve tendere alla rieducazione del condannato e non va letta in chiave solo retributiva.

Occupandomi di diritto penale ho trovato quindi un collegamento molto forte tra diritto e fotografia”. Le immagini di Bispuri fanno parte del progetto “Encerrados” dedicato al mondo dei prigionieri detenuti in 74 penitenziari del continente sudamericano. Lo stesso progetto è stato fatto anche nelle carceri in Italia. Un percorso che si concentra sull’aspetto emotivo e umano di chi vive da recluso.

Questi lavori sono stati esposti al Visa pour l’Image di Perpignan, al Palazzo delle Esposizioni di Roma, all’Università di Ginevra, al Browse Festival di Berlino e, nell’ottobre 2014, al Bronx Documentary Center di New York.

L’arte aiuta in generale a migliorarsi come uomini e come professionisti”, aggiunge Viglione. Il mercato nel processo di ricerca e selezione degli artisti gioca un ruolo fondamentale. “Seguo con attenzione il mercato principalmente attraverso le gallerie e le fiere di settore però non mi faccio troppo condizionare dalle tendenze del momento.

Foto wewealth.com

Il mercato mi aiuta a conoscere e scoprire gli artisti, soprattutto i più giovani”, conclude Alessandro Viglione.

Oltre allo studio Lauri Viglione, altri studi legali ospitano occasionalmente o all’interno di progetti più strutturati eventi dedicati a collezioni o personali di artisti di ogni livello.

Tra i più attivi ci sono lo studio legale Iannaccone e Associati, che periodicamente espone la collezione del suo fondatore avvocato Giuseppe Iannaccone e presenta artisti emergenti nell’ambito del progetto “in pratica”, LCA studio legale con il progetto “Law is art!”, Advant NCTM con il progetto internazionale “nctm e l’arte”, Pavesio e Associati with Negri-Clementi, Loconte & Partners, Studio Legale Penco, solo per citarne alcuni.

In altri casi, gli avvocati tengono nelle loro sale riunioni conferenze sui temi del diritto dell’arte rivolte a collezionisti e addetti ai lavori per districarsi nel complesso quadro normativo e fiscale che disciplina il sistema.

Sempre tra dipinti, fotografie e sculture, in un dialogo continuo con il diritto.

© 2020 Voices of Wealth S.r.l.

Via Aurelio Saffi, 34 20134 - Milano

MICHELA MURGIA L’INTERVISTA

Michela Murgia, il suo nuovo, splendido libro, «Tre ciotole», si apre con la diagnosi di un male incurabile. C’è qualcosa di autobiografico?

«È pedissequo. È il racconto di quello che mi sta succedendo. Diagnosi compresa».

Lei scrive: «Carcinoma renale al quarto stadio». Non ci sono speranze? «Dal quarto stadio non si torna indietro».

Il personaggio del suo libro però non vuol sentir parlare di «lotta» contro il male. Perché?

«Perché non mi riconosco nel registro bellico. Mi sto curando con un’immunoterapia a base di biofarmaci. Non attacca la malattia; stimola la risposta del sistema immunitario.

L’obiettivo non è sradicare il male, è tardi, ma guadagnare tempo. Mesi, forse molti».

Cosa intende per registro bellico?

«Parole come lotta, guerra, trincea... Il cancro è una malattia molto gentile. Può crescere per anni senza farsene accorgere. In particolare sul rene, un organo che ha tanto spazio attorno».

Non può operarsi?

«Non avrebbe senso. Le metastasi sono già ai polmoni, alle ossa, al cervello».

Michela, lei sta dicendo una cosa terribile con una serenità che mi impressiona.

(segue pagina 34)

33

(segue dalla pagina 33)

«Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono. Me l’ha spiegato bene il medico che mi segue, un genio.

Gli organismi monocellulari non hanno neoplasie; ma non scrivono romanzi, non imparano le lingue, non studiano il coreano.

Il cancro è un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio fare guerra al mio corpo, a me stessa. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale.

Non lo chiamerei mai il maledetto, o l’alieno». L’alieno lo chiamava Oriana Fallaci.

«Ognuno reagisce alla sua maniera e io rispetto tutti. Ma definirlo così sarebbe come sentirsi posseduta da un demone. E allora non servirebbe una cura, ma un esorcismo.

Meglio accettare che quello che mi sta succedendo faccia parte di me. La guerra presuppone sconfitti e vincitori; io conosco già la fine della storia, ma non mi sento una perdente.

La guerra vera è quella in Ucraina. Non posso avere Putin e Zelensky dentro di me.

Non avrei mai trovato le energie per scrivere questo libro in tre mesi».

La morte non le pare un’ingiustizia?

«No. Ho cinquant’anni, ma ho vissuto dieci vite. Ho fatto cose che la stra-

Michela Murgia: «Ho un tumore al quarto stadio, spero di morire quando Meloni non sarà più premier»

La scrittrice parla della malattia, un tumore al rene: «Ho comprato una casa con dieci letti dove la mia famiglia queer può vivere insieme». La scelta: «Posso sopportare il dolore, non di non essere presente a me stessa. Ho trascurato i controlli per il Covid. Chi mi vuol bene sa cosa deve fare. Sono sempre stata vicina a Marco Cappato»

grande maggioranza delle persone non fa in una vita intera. Cose che non sapevo neppure di desiderare. Ho ricordi preziosi».

Una delle sue altre vite la conosciamo: operatrice in un call center. Ne ha tratto un libro, «Il mondo deve sapere», che ha ispirato il film di Virzì con Sabrina Ferilli «Tutta la vita davanti». Le altre vite quali sono? «Ho consegnato cartelle esattoriali. Ho insegnato per sei anni religione. Ho diretto il reparto amministrativo di una centrale termoelettrica. Ho portato piatti in tavola. Ho venduto multiproprietà. Ho fatto la portiera notturna in un hotel...».

In Sardegna?

«Nel posto più lontano e diverso dal mio paese, Cabras, che potessi trovare: l’hotel Perego al passo dello Stelvio, sull’unico ghiacciaio dove si scia pure d’estate. Ero la sola italiana, con Aisha, marocchina, Mohamed, berbero, Cheik, dell’Africa nera, e Mikhail, serbo. A tavola recitavamo la preghiera cattolica, quella musulmana e quella ortodossa.

Il piatto più richiesto dai clienti era lo stinco di maiale e ogni volta era una scommessa: in cucina c’erano Mohamed e Cheik, che non ne hanno mai assaggiato uno...».

Ora sta studiando il coreano? Come mai?

«Da due anni. Volevo anche andare in Corea, ma le

Foto cagliaripad.it

mie condizioni per ora non lo consentono. Tutto nasce da una passione per il k-pop e per i Bts, una musica e un gruppo che mi danno grandissima gioia. Ho iniziato a studiare il coreano per capire i testi. Poi mi sono resa conto che la vera ragione era un’altra». Quale?

«Me l’ha spiegata Jhumpa Lahiri. Gli scrittori postcoloniali, che hanno avuto successo non nella loro lingua originaria ma in quella dominante del colonizzatore, tendono a cercare un terzo spazio, una terza patria. Per Jhumpa, che ha origini indiane e scrive in inglese, è l’Italia. Per me, che sono sarda e scrivo in italiano, è la Corea. Forse ci andrò quando disperderanno le mie ceneri nell’oceano, a Busan. Nel coreano cerco parole che nessuno ha mai usato contro di me, e che io non ho mai usato contro nessuno».

Lei pensa e sogna in sardo?

«Certo. Non soltanto: penso in sardo e traduco in italiano; sono due Michele diverse, una sarda e una italiana. Alla stessa domanda se penso in italiano do una risposta, se penso in sardo un’altra. L’Italia e la Sardegna sono due cose diverse. Per voi la Sardegna è l’isola delle vacanze. Non vi rendete conto che c’è una base militare ogni 150 chilometri, perché d’estate interrompono i tiri per non disturbare i turisti. L’altro giorno ero all’orto botanico, qui a Trastevere.

La persona che era con me è trasalita per il botto del cannone del Gianicolo. Io no. Noi sardi siamo abituati ai rumori di guerra».

Però la Sardegna non è una colonia. È Italia.

Uno dei personaggi del suo libro è la donna di servizio di un colonnello, che ha lavorato in un poligono in Sardegna, e dice che non è vero che le morti per tumore in quella zona siano legate alle armi...

«Mi riferisco al poligono di Perdasdefogu, che viene affittato alle potenze alleate: arrivano, pagano, sperimentano armi e tecnologie, se ne vanno, e lasciano la loro scia di morte.

Un magistrato coraggioso, il procuratore Fiordalisi, ha fatto riesumare le salme del cimitero e ha portato la Difesa e i vertici militari alla sbarra a rispondere di salute pubblica.

Ma la comunità vive di cose non dette.

La base dà da mangiare a tutti, ma non consente a nessuno di mangiare in modo diverso».

Eppure lei affida al suo personaggio, la donna di servizio, il ragionamento contrario.

Anche a proposito della sua critica al generale Figliuolo: «Una tipa in televisione ha detto che la divisa del Generale le faceva paura. Centinaia di morti per il virus e questa pazza...».«La letteratura serve a ribaltare lo sguardo(segue pag 36)

35

(segue dalla pagina 35) e in quel racconto la pazza sono io. Lo rivendico.

Il codice militare applicato a un’emergenza civile è un rischio potente per una democrazia.

Nel momento più drammatico abbiamo affidato il governo a Draghi, un tecnico, e la vaccinazione a Figliuolo, un militare.

La politica in quel momento si è arresa e ha ceduto il suo ruolo. La facilità con cui abbiamo sospeso le libertà dovrebbe atterrirci».

Nel suo libro lei cita per nome un solo personaggio, oltre al cantante coreano Jimin: l’ex presidente Cossiga.

«Mi è sempre stato simpatico. Ricordo un faccia a faccia con Minoli, che gli chiese: ma lei è massone? Cossiga rispose: no. Minoli lo incalzò.

E lui: “Erano massoni mio padre, mio zio, mio cugino, i miei amici... Non avevo alcun bisogno di essere massone pure io”.

È un po’ come me con il Premio Strega. Ho rifiutato il voto da giurata, ma Chiara Valerio mi sfotte sempre: “Michela non ha un singolo voto, ne ha diciassette...” (Michela Murgia sorride)».

Lei non scriveva un romanzo da otto anni.

«E anche questo libro sarebbe dovuto essere un pamphlet.

Invano Marcello Fois mi ripeteva che la letteratura cambia la vita più dei saggi, che Proust ha

cambiato il mondo più di Baumann. A me sembrava che un saggio mi consentisse di scrivere più cose autentiche.

Poi mi sono resa conto che la letteratura mi permette di dire cose meno assertive; anche cose contrarie a quelle che penso.

La donna di servizio giustifica la decisione del Colonnello di sottoporre il figlio malato di cancro a un intervento chirurgico non necessario.

Il bisturi come soluzione militare. Radicale. E sbagliata».

Lei aveva già avuto il cancro.

«A un polmone. Tossivo. Feci un controllo. Era a uno stadio precocissimo, lo riconoscemmo subito. Una botta di culo. Però ero in campagna elettorale».

Si era candidata alla presidenza della Sardegna contro tutti i partiti, prese il 10 per cento.

«Quella volta non potei dire che ero malata. Gli avversari mi avrebbero accusata di speculare sul dolore; i sostenitori non avrebbero visto in me la forza che cercavano. Dovetti nascondere il male, farmi operare altrove».

Questa volta come se n’è accorta?

«Non respiravo più.

Mi hanno tolto cinque litri d’acqua dal polmone. Stavolta il cancro era partito dal rene.

Foto nanopress

Ma a causa del Covid avevo trascurato i controlli». Le tre ciotole che danno il titolo al libro sono quelle in cui lei mangia, rigorosamente da sola, un pugno di riso, qualche pezzetto di pesce o di pollo e qualche verdura. Soltanto così ha smesso di vomitare. Un vomito che lei non collega alla malattia, bensì a un abbandono. A una sofferenza d’amore. Anche questa è autobiografia?

«La donna di quel racconto è poco autobiografica. Non sono mai stata lasciata. Sono stata fortunata: ho sempre avuto amori felici, e persone che si sono rivelate in gamba anche quando le ho lasciate. Il vomito l’ho vissuto, ma legato alla mia ostensione pubblica, all’essere diventata un bersaglio. Era la reazione per l’odio che ho avvertito nei miei confronti. È cominciato quando ho visto per la prima volta il mio nome sui muri, quando mi hanno insultata in coda al supermercato. È finito quando ho capito che non dovevo lasciar entrare quell’odio dentro di me».

Come lo spiega, quell’odio?

«Prima dell’arrivo di Elly Schlein mi sono trovata, con pochi altri scrittori come Roberto Saviano, a supplire all’assenza della sinistra, a difendere i diritti e le libertà nel dibattito pubblico».

Anche gli esponenti della destra sono odiati.

«Sì. Ma fa parte del mestiere di un leader politico. Salvini e Meloni hanno dietro di sé un sistema di potere.

Una macchina. Organi di stampa. Persone che lavorano per loro.

Muovono denaro, fanno nomine, decidono carriere. Io nella discussione dovrei essere criticamente terza; invece sono diventata controparte. Ed ero sola, con la forza della mia voce.

Mi dicevano: voi... Ma voi chi? “Voi del Pd”. Ma io non ho mai votato Pd in vita mia».

In un altro capitolo lei racconta di tre ragazzi che uccidono un topo.

«Tre ragazzi che non erano mai stati picchiati dal padre; eppure sanno benissimo come si fa.

Io ho avuto un padre violento, come si fa del male lo impari anche quando lo fanno a te».

Nel libro, il personaggio femminile seppellisce il topo, ma il suo corpo spunta ancora fuori, e lei deve saltarci sopra per pareggiare il terreno.

«Certe cose riaffiorano. Puoi occultarle, superarle, ma mai del tutto».

Nel capitolo finale la protagonista è già morta, e la sorella appende alle querce da sughero i suoi vestiti, affinché ogni persona cara possa portarne via uno...

«Quella scena c’è stata: nel giugno scorso ho compiuto cinquant’anni e ho appeso alle querce cinquanta vestiti.

(segue pagina 38)

37

(segue dalla pagina 37)

In questo tempo ho avuto modo di preparare tutto. Scrivere un alfabeto dell’addio.

Predisporre un percorso collettivo. Tanti dicono di voler morire all’improvviso, nel sonno, senza accorgersene. Ora ho capito perché mia nonna da piccola mi faceva recitare una preghiera contro la morte improvvisa». Perché?

«Il dolore non si può cancellare; il trauma sì. Si può gestire. Hai bisogno di tempo per abituare te stessa e le persone a te vicine al transito. Un tempo per pensare come salutare chi ami, e come vorresti che ti salutasse. Io non sono sola. Ho dieci persone. La mia queer family».

Come tradurrebbe queer family?

«Un nucleo familiare atipico, in cui le relazioni contano più dei ruoli. Parole come compagno, figlio, fratello non bastano a spiegarla. Non ho mai creduto nella coppia, l’ho sempre considerata una relazione insufficiente. Lasciai un uomo dopo che mi disse che sognava di invecchiare con me in Svizzera in una villa sul lago. Una prospettiva tremenda».

Milioni di persone hanno creduto nella coppia, ci credono, ci crederanno.

«Ma finiscono per vivere di tradimenti e di bugie. Che diventano il loro segreto, e la loro vergogna».

Diceva che ha predispo-

sto tutto.

«Ho comprato casa, con dieci posti letto, dove stare tutti insieme; mi è spiaciuto solo che mi abbiano negato il mutuo in quanto malata. Ho fatto tutto quello che volevo. E ora mi sposo».

Si sposa?

«Lo Stato alla fine vorrà un nome legale che prenda le decisioni, ma non mi sto sposando solo per consentire a una persona di decidere per me. Amo e sono amata, i ruoli sono maschere che si assumono quando servono».

Sposa un uomo o una donna?

«Un uomo, ma poteva essere una donna. Nel prenderci cura gli uni degli altri non abbiamo mai fatto questione di genere».

Il suo capolavoro, «Accabadora», è una storia di eutanasia. Però il più grande medico del Novecento, Umberto Veronesi, mi ha detto: «Ho assistito migliaia di malati terminali, e nessuno mi ha chiesto di morire.

Tutti mi chiedevano di guarire».

«Posso sopportare molto dolore, ma non di non essere presente a me stessa. Chi mi vuole bene sa cosa deve fare. Sono sempre stata vicina ai radicali, a Marco Cappato».

Non le manca un figlio?

«Ma io ho quattro figli!».

Foto jrrtolkien.it

Nel libro scrive che odia i bambini.

«È vero. I bambini rompono i coglioni.

Tutti i bambini. Non è vero quel che dicono, che i figli sono maleducati per colpa dei genitori; prima o poi un bambino anche educatissimo piangerà, si lamenterà, disturberà, sconvolgerà il vagone del treno su cui viaggio, prenderà a calci il sedile su cui sono seduta in aereo... Non amo i bambini, ma sono predisposta ad accompagnare gli adolescenti».

E ha quattro figli.

«Sono figli d’anima. Il più grande ha 35 anni, il più piccolo venti. Tutti maschi, ma è un caso. Uno fa il cantante lirico, uno studia economia anche se speravamo facesse lettere, uno insegna a Yale, l’altro lavora in un grande gruppo della moda».

Cosa vuol dire madre d’anima?

«La filiazione d’anima in Sardegna esiste da sempre, anch’io ho avuto due madri e due padri di fatto. È insensato dire che di madre ce n’è una sola, una condanna per la donna e anche per chi le è figlio. La maternità ha tante forme».

Un altro capitolo del libro si intitola «Utero in affido». «È la storia di una donna che mette al mondo un bambino e lo affida a una coppia che lo desiderava. Odio sentir parlare di “utero in affitto”, di “maternità surrogata”. Odio la retorica della maternità biologica;

meno figli si fanno, più si misticizza la maternità. Forse un giorno nasceremo tutti da un utero artificiale.

Quelli che parlano di maternità rubata sono gli stessi che hanno in casa badanti che hanno lasciato i loro figli in Paesi lontani per occuparsi dei nostri bambini e vecchi».

C’è anche una scena di sesso, molto ben scritta.

«L’ho fatta leggere a Missiroli, Desiati, Saviano. Abbiamo sorriso, l’hanno trovata molto eccitante; ma nessuno si è accorto che lei non viene. Gliel’ho detto: neanche per iscritto vi accorgete che una finge... Vuol dire che funziona».

Lei ha avuto una formazione cattolica. Crede ancora in Dio?

«Certo».

L’ha pregato in questi mesi?

«L’ho pregato e lo prego di far accettare alle persone che mi amano quello che accadrà».

Come immagina l’Aldilà?

«Non un luogo, ma uno stato sentimentale. Dio è una relazione. Non penso che la vita dopo la morte sia tanto diversa.

Vivrò relazioni non molto differenti da quelle che vivo qui, dove la comunione è fortissima. Nell’Aldilà sarà una comunione continua, senza intervalli».

Con gli altri o con Dio?

«È uguale. Sarà il passaggio dal “non ancora” al “già”».(segue pag 40)

39

(segue dalla pagina 39) Quindi non ha paura della morte?

«No. Spero solo di morire quando Giorgia Meloni non sarà più presidente del Consiglio». Perché?

«Perché il suo è un governo fascista». Il mio giudizio sul fascismo è severo quanto il suo. Proprio per questo non sono d’accordo: il governo Meloni non è fascista.

«Qual è il confine del fascismo? La violenza? La bastonata? Imporre con una circolare che il figlio di due madri sia di una madre sola non è forse violenza? Crede che a una famiglia faccia meno male di una bastonata?». Come vorrebbe essere ricordata?

«Ricordatemi come vi pare. Non ho mai pensato di mostrarmi diversa da come sono per compiacere qualcuno. Anche a quelli che mi odiano credo di essere stata utile, per autodefinirsi. Me ne andrò piena di ricordi. Mi ritengo molto fortunata. Ho incontrato un sacco di persone meravigliose. Non è vero che il mondo è brutto; dipende da quale mondo ti fai. Quando avevo vent’anni ci chiedevamo se saremmo morti democristiani. Non importa se non avrò più molto tempo: l’importante per me ora è non morire fascista». https://www.corriere. it/cronache/23_maggio_06/michela-murgia-intervista

A LONDRA I NIEDDU

Un’avventura straordinaria quella di Giuseppe Nieddu e di suo figlio Federico.

Il primo è da 35 anni a Londra, dove è diventato un grande “maitre” e un gestore di rinomatissimi ristoranti, il secondo è uno dei migliori sarti della capitale.

Tutto comincia a Porto Torres tanti anni fa. Giuseppe Nieddu, ragazzino, è barista al mitico bar Acciaro, al Corso.

«Signor Giovannino, l’indimenticabile gestore di quel magnifico locale mi prende giovanissimo e mi dà fiducia. Non smetterò mai di ringraziarlo - inizia il racconto Giuseppe Nieddu -. Io cerco di dare il massimo. Apprendo il mestiere che mi dà la possibilità di migliorarmi e di trasferirmi in Costa Smeralda, maitre d’hotel all’Hotel Valdiola, Cala di Volpe Esperienza basilare.

Inizio a frequentare Londra e mi sposo con Roberta. Nasce Federico a Sassari nel 1985 .

Da questo momento il trasferimento definitivo in Inghilterra.

Sono direttore a Londra del prestigioso ristorante Scalini, a Knightsbridge. Nel 1995 volevo fare qualcosa di diverso.

E chiamerò infatti “Diverso” il mio ristorante a Piccadilly. Un successo straordinario.

Foto tellini
DA
PORTORRES

Bella gente e personaggi famosi come clienti, tipo Lapo Elkann, Perfetti (quello delle caramelle), il politico Franco Marini e tanti altri.

Su tutti - precisa - senza offesa per nessuno, Michail Gorbaciov, l’ex presidente dell’Unione Sovietica. Una persona di una intelligenza e signorilità incredibile. Un vero gentleman.

Venivano spesso da me anche il cardinal Marcinkus e Mons. Fisichella.

Ma grazie a questo lavoro ho avuto l’onore di essere amico di Giulio Mainini, comandante delle Frecce tricolori e poi generale di Corpo d’armata dell’Aeronautica italiana.

Diverso durò tanti anni. In seguito il lavoro da direttore nel ristorante NoviKov, insieme al sardo Salvatore Broccu, ex maitre d’hotel a Romazzino.

Quindi un’altra avventura interessante: guest ambassador (responsabile delle pubbliche relazioni) al Park Chinois di Londra, uno dei più grandi ristoranti cinesi alla moda di Europa: 267 persone nello staff.

Ho avuto modo di accogliere e parlare con eminenti personalità, del calibro di Toni Blair per esempio. Ora sono in pensione, ma faccio talvolta il consulente a ristoratori importanti come Roberto Costa. Ho amato e amo - conclude - il mio lavoro.

Ma sono sempre legato alla Sardegna e a Porto Torres, la mia città, dove ho tanti amici».

Splendido il percorso di suo figlio Federico, che a Londra chiamano tutti Fred.

Schivo e determinato si laurea in Illustrazione e Grafica alla London College of Comunication. La sua grande passione è il disegno e la confezione di abiti per uomo su misura.

Un termine che a Londra è chiamato con appellativi altisonanti.

Ma Fred ha sempre preferito definirsi sarto. E che sarto. Attualmente è proprietario di tre grandi atelier nella capitale inglese, nella zona “Hip” della moda: Shoredith.

Ha una clientela affezionata in ogni parte del mondo: Tokyo, San Francisco, Beverly Hills.

Ha già scalato vette del successo impensabili. Per definire il livello basta solo scrivere che ha disegnato gli abiti di Mission Impossible di Tom Cruise e quello dello smoking dell’ultimo James Bond.

Suoi sono anche gli abiti di “The Crown”, la serie tv di Netflix sulla Regina Elisabetta.

Argentino Tellini

https://www.unionesarda.it/sardi-nel-mondo/ notizie/giuseppe-e-federico-nieddu-i-due-sardi-che-hanno-conquistato-londra

41

LUniversità di Verona ha ospitato il primo convegno internazionale dedicato alla Merda d’artista, la controversa opera di Piero Manzoni (Soncino, 1933 – Milano, 1963) realizzata nel 1961.

Il convegno è organizzato dal Dipartimento Culture e Civiltà dell’Università di Verona, con la fondamentale collaborazione della Fondazione Piero Manzoni, e si é svolto venerdì marzo 10 dalle 9:15 alle 18 e sabato 11 marzo dalle 9:30 alle 12:30, nell’aula T1 del polo didattico Giorgio Zanotto in viale Università 4.

Il convegno è stato dedicato a una delle opere più conosciute e allo stesso tempo controverse e fraintese non soltanto della produzione di Manzoni ma della stessa Storia dell’arte del secondo Novecento.

Merda d’artista venne infatti realizzata dall’artista nel maggio 1961: novanta scatolette di latta recanti sull’etichetta, stampata in quattro lingue (italiano, tedesco, francese e inglese), le informazioni sullo sgradevole contenuto: “Merda d’artista, contenuto netto 30 grammi, conservata al naturale”.

La fortuna di quest’opera è stata per molti versi paradossale: inizialmente quasi ignorata o stigmatizzata dalla critica, il suo messaggio polivalente e stratificato si è riverberato soprattutto fra le più giovani generazioni di artisti di diverse discipline, diventando nel tempo oggetto di

CONVEGNO SULLA MERDA D’ARTISTA

riflessione, studio e citazione nelle pratiche visive concettuali, nella letteratura, nella musica pop ma anche in un certo circuito mediatico mainstream e popolare, dove Merda d’artista viene spesso presa a modello delle contraddizioni dell’arte e della società contemporanee.

In realtà, come dimostrato da alcuni recenti studi e come questo stesso convegno veronese intende asseverare, dietro a Merda d’artista sussistono moltissimi significati e svariate implicazioni di natura filosofica e sociologica, oltre che artistica e scientifica.

Fra le relatrici e i relatori, infatti, compaiono filosofi, fisici, economisti, curatori e storici dell’arte, provenienti in larga parte da università e accademie italiane ma anche da Canada e Stati Uniti, a indicare la portata internazionale e multidisciplinare dell’opera di Piero Manzoni.

I risultati del convegno saranno pubblicati in un volume in lingua inglese edito da Cambridge Scholar Publishing.

Il convegno, a cura di Luca Bochicchio (docente di Storia delle arti visive nell’età contemporanea all’Università di Verona) e Rosalia Pasqualino di Marineo (direttrice della Fondazione Piero Manzoni), è promosso e finanziato dal Dipartimento Culture e Civiltà dell’Università di Verona e dalla Fondazione Piero Manzoni di Milano, con il patrocinio del Centro di Ricerca “Rossana Bossaglia” per le Arti Decorative, la Grafica e le Arti dal XVIII al XX secolo, e della Commissione di Ateneo “Contemporanea”.

L
Foto brunobani

Il convegno, che è aperto al pubblico fino ad esaurimento posti, sarà registrato e successivamente reso disponibile sul sito dell’Università di Verona.

Il programma: Apertura con i saluti istituzionali di Arnaldo Soldani (direttore del Dipartimento Culture e Civiltà dell’Università di Verona), Elena Manzoni di Chiosca (presidente della Fondazione Piero Manzoni), Rosalia Pasqualino di Marineo (direttrice della Fondazione Piero Manzoni), Valerio Terraroli (Centro di Ricerca “Rossana Bossaglia” dell’Università di Verona). Prima sessione presieduta da Valerio Terraroli, con gli interventi di Flaminio Gualdoni dell’Accademia di Belle Arti di Brera (C’è merda e merda), Marco Senaldi della LABA Libera Accademia di Belle Arti di Brescia (Il figlio di Kierkegaard. L’esistenzialismo e le fonti filosofiche della Merda d’artista), Arianna Novaga dell’Università IUSVE di Venezia e Verona (Performare con la Merda d’artista. Piero Manzoni nelle fotografie di Johnny Ricci), Giorgio Zanchetti dell’Università Statale di Milano (Dans le trou de la Sybille. Tropi e figure di merda) e Pierluigi Sacco dell’Università di Chieti-Pescara (Piero Manzoni: autorialità e creazione di valore nelle società capitalistiche). Seconda sessione, presieduta da Luca Bochicchio, con gli interventi di Raffaella Perna della Sapienza di Roma (“I barattoli della discordia” alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Fortune e sfortune della Merda d’artista

1963-1971), Choghakate Kazarian, storica dell’arte e curatrice indipendente (Demistify, Remistify the Artist’s Shit: Piero Manzoni and Bernard Bazile), Monica Molteni dell’Università di Verona (Work in progress: primi appunti su Merda d’artista e i musei), Jaleh Mansoor dell’Università della British Columbia (Conceptual Materialism: On the Indivisibility of Intellectual and Manual Labour in Piero Manzoni’s Merda d’artista), Matteo Torre del Liceo Scientifico Statale di Tortona (Dalla meccanica quantistica a Piero Manzoni: il “nuovo ruolo” dell’osservatore) e Federico Leoni dell’Università di Verona (Inscatolare. Filosofia di un gesto).

Terza e ultima sessione presieduta da Monica Molteni, con interventi di Nicola Ludwig dell’Università Statale di Milano (Merde ai raggi X, indagini fisiche per la conoscenza e la conservazione nell’arte contemporanea), Luisa Mensi dell’Università IUAV di Venezia (Dentro e fuori. Conservazione e restauro della Merda d’artista), Domenico Quaranta dell’Accademia di Belle Arti di Brera (Sublimazioni alchemiche. Dalla Merda d’artista agli NFT), Luca Bochicchio dell’Università di Verona (“The Scatological White” o della Società della scatoletta).

Per finire tavola rotonda, con chiusura dei lavori.

https://www.finestresullarte.info/eventi/ verona-primo-convegno-internazionale-merda-d-artista-piero-manzoni

43

NASCE A BERCHIDDA INSULAE LAB, IL CENTRO DI PRODUZIONE DELLA MUSICA JAZZ

E DELLA CREATIVITÀ ARTISTICA DELLE ISOLE DEL MEDITERRANEO.

L’associazione, che vanta la preziosa direzione artistica di Paolo Fresu da sempre, ha saputo creare negli anni una rete di collaboratori e collaboratrici competenti che hanno consentito all’Associazione stessa di crescere, mutare, trasformarsi.

Tuttavia, diversificando le proprie attività, ha dovuto necessariamente ampliare quella consolidata rete e lasciare che nuove idee e nuova forza lavoro si mescolassero alle collaborazioni in essere, per dar vita a un eterogeneo e rin-

novato gruppo di lavoro, costituito ad hoc per il Centro di Produzione. Una sfida, quella della costituzione del centro di produzione, che l’Associazione ha voluto affrontare con entusiasmo.

Insulae Lab – Centro di produzione della musica jazz e della creatività artistica delle isole del Mediterraneo nasce da un’idea di Paolo Fresu, Presidente dell’Associazione e Direttore Artistico di Insulae Lab.

LA SQUADRA DI INSULAE LAB

Direzione amministrativa e generale: Mattea Lissia

Progettazione:

Paolo Fresu, Mattea Lissia, Silvia LissiaProduzione e Organizzazione: Claudia Fresu, Silvia Lissia, Eleonora Pintus

Foto insulaelab

Supervisione tecnica: Luca Devito

Area Tecnica: Antonio Demuru

Accoglienza: Claudia Fresu

Comunicazione Integrata: Silvia Lissia

Promozione e Biglietteria:

Eleonora Pintus, Davide Demartis

Webmaster e Grafica:

Massimiliano Miali – www.maxmiali.com

Social Media: Claudia Soggiu

Ufficio Stampa: Giovanni Dessole

Documentazione fotografica:

Andrea Mignogna, Roberto Sanna

Documentazione video: Marco Loi

Consulenza amministrativa/Contratti:

Stefania Conte, Samuela Casu

Area amministrativa:

Mariella Demartis, Raffaella Piga

Responsabile spazi Sa

Casara: Nuccio Delogu

Calendario

Maggio 2023

L’UOMO CHE VOLLE ESSERE PERÓN

5 maggio h. 21:00

Teatro Santa Croce

- Piazza del popoloBerchidda (Ss)

MATTEO MUNTONINUR BISU

20 maggio h. 21

Teatro Santa Croce

- Piazza del popoloBerchidda (Ss)

LAS ISLAS

31 maggio h. 21:00

Teatro Santa Croce

- Piazza del popoloBerchidda (Ss)

Associazione Cuturale Time in Jazz

Umberto I, 37

07022 Berchidda (SS)

Sardinia – (Italy)

info@insulaelab.com

T.:+39 342 6476726

45
Fotocostasmeraklda.it
via

arlando di meraviglia e Italia avevamo bisogno di un testimonial all’altezza, qualcuno di molto moderno, ma con una grande storia alle spalle, magari una virtual influencer contemporanea, ma che fosse anche una icona dell’Italia nel mondo, riconoscibile da tutti attraverso un semplice sguardo e il segno inconfondibile dei suoi capelli”.

La nuova campagna internazionale di promozione turistica del Ministero del Turismo ed Enit, “Italia: open to meraviglia”, realizzata con il contributo del Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria della Presidenza del Consiglio, è fatta!

Con immagini suggestive, naturalmente.

E un testo che è un succedersi di “meraviglia” e di “meravigliare”, coniugato all’occorrenza. Con insistente banalità. Insistente, ma non “nuova”.

Perché già Matteo Renzi se ne è servito, tante volte, ai tempi dei suoi splendori.

Soprattutto a proposito di Pompei.

Insomma, sembra proprio che al potere piaccia servirsi di un lessico “rassicurante” riferendosi ad ambiti della Cultura nostrana.

Che si tratti dell’intera Italia oppure di una delle aree archeologiche più

attrattive, poco importa. Quel che conta è evocare lo stupore.

Richiamare la bellezza.

Veicolare il messaggio che lo stivale, con tanto di isole, sia un Eden, nel quale si possa tranquillamente passare dalla Porta Palatina di Torino alla villa di Piazza Armerina, senza incontrare brutture di ogni tipo.

Senza attraversare parti di città “sbagliate”. Territori indubitabilmente vandalizzati. Quel che conta è raccontare all’Italia, ma anche all’Europa, al mondo, una storia irreale. Che non esiste. Sono reali i monumenti. Alcuni frammenti di paesaggio. Per il resto si tratta di una ricostruzione, posticcia.

Ma dal momento che lo scopo è suscitare meraviglia, ecco la trovata!

L’idea che permette di far rimanere a bocca aperta, davvero.

Prendere la Venere di Botticelli, “una delle donne più conosciute al mondo”, secondo la definizione nella presentazione della campagna, sul portale del Ministero del Turismo, e farne una virtual influencer.

Dal nome sui social, “Venereitalia23”, che sembra quello di un taxi, almeno a Roma.

Foto ilfattoquotidiano
P

Ho 30 anni. Qualcosina in più, per la verità… Coi capelli sempre al vento giro l’Italia per mostrarvi i nostri luoghi meravigliosi.

E tutte le nostre eccellenze.

Vi racconterò di bellezza.

Parlando dell’Italia, lo so, è facile.

E poi di cultura, cucina, musica, ospitalità e arte.

E di arte, capirete, me ne intendo abbastanza”, spiega nel video.

Che piuttosto che essere uno spot è un messaggio commerciale.

Come si trattasse di divani.

Oppure di biscotti.

Non può essere definita una televendita, evidentemente.

Ma è qualcosa che gli si avvicina, molto. Venere, anzi Venereitalia23, vende l’Italia. Chiaramente.

La Venere di Botticelli in minigonna e bicicletta per promuovere il turismo in Italia.

Sgarbi sbotta: “E’ una roba da Chiara Ferragni”

“La campagna, – ha commentato il ministro del Turismo Daniela Santanchè – serve per vendere la nostra Nazione e le nostre eccellenze, in un modo inedito, mai fatto in Italia prima d’ora… noi dobbiamo saper vendere l’Italia”.

Voler pubblicizzare il patrimonio storico-artistico-archeologico e quello eno-gastronomico è doveroso. Anzi, sacrosanto.

Farlo, ricorrendo all’immagine della vendita è sbagliato.

E’ sbagliato di certo nella forma, che poi è anche sostanza.

Insomma non è una questione puramente lessicale, anche se è indubitabile che il vocabolario utilizzato per l’operazione sia tutt’altro che uno spot all’Italia.

Alla sua lingua.

Il problema non sono i capelli di Venere.

E neppure il suo abbigliamento.

Anche se confesso che vederla acconciata da influencer un certo effetto lo fa.

Effetto negativo, a dire il vero.

Lo stesso che proverei se vedessi la Gioconda con la frangetta e le ciglia finte.

Il problema è un altro. E’ l’idea che tutto sia lecito pur di fare cassa. Nella circostanza “vendere la nostra Nazione”. Da anni affittare qualsiasi struttura variamente storicizzata per eventi privati di qualsiasi tipo. Possibile che non ci sia nessuno che si meravigli di tutto questo?

Si meravigli ed agisca, di conseguenza.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/04/22/ la-venere-influencer-elidea-che-tutto-sia-lecito-pur-di-fare-cassa/7138693/

47

Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.