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STORIA DEL PANTHEON

e delle statue frontonali.

La struttura del Pantheon voluto da Adriano è di forma circolare, unita ad un portico in colonne corinzie (otto frontali e due gruppi di quattro in seconda e terza fila) che sorreggono un frontone triangolare.

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Nonostante la sua ricostruzione, fu riportata l’iscrizione originale di dedica dell’edificio che recita: M.AGRIPPA.L.F.COS.TER -

TIUM.FECIT, “Marco Agrippa, figlio di Lucio, console per la terza volta, edificò”.

La grande cella circolare, detta rotonda, è cinta da spesse pareti in muratura e da otto grandi piloni su cui è ripartito il peso della caratteristica cupola in calcestruzzo.

La cupola emisferica ospita al suo apice un’apertura circolare detta oculo, che permette l’illuminazione dell’ambiente interno.

L’altezza dell’edificio calcolata all’oculo è pari al diametro della rotonda, caratteristica che rispecchia i criteri classici di architettura equilibrata e armoniosa.

A quasi due millenni dalla sua costruzione, la cupola intradossata del Pantheon è ancora oggi una delle più grandi di tutto il mondo e, nello specifico, la più grande costruita in calcestruzzo non armato.

La cupola del Pantheon, del diametro di 43,44 m, è decorata all’interno da cinque ordini di ventotto cassettoni, di misura decrescente procedendo verso l’alto.

Successivamente l’edificio si salvò dalle distruzioni del primo Medioevo perché già nel 608 l’imperatore bizantino Foca ne aveva fatto dono a papa Bonifacio IV (608-615), che lo trasformò nel 609 in chiesa cristiana con il nome di Sancta Maria ad Martyres. L’intitolazione proviene dalle reliquie di anonimi martiri cristiani che vennero portate nei sotterranei del Pantheon.

Si trattò del primo caso di un tempio pagano trasposto al culto cristiano.

Questo fatto lo rende il solo edificio dell’antica Roma ad essere rimasto praticamente intatto e ininterrottamente in uso per scopi religiosi fin dal momento della sua fondazione.

A partire dal Rinascimento all’interno del Pantheon furono realizzate sepolture, in particolare di artisti illustri. Ancor oggi vi si conserva- no, fra le altre, le tombe dei pittori Raffaello Sanzio ed Annibale Carracci, dell’architetto Baldassarre Peruzzi e del musicista Arcangelo Corelli. Tra le tombe del Pantheon vanno anche citate quelle reali.

È questo, infatti, il luogo in cui sono stati sepolti Vittorio Emanuele II, il figlio Umberto I e la sua consorte, la regina Margherita.

Come esempio meglio conservato dell’architettura monumentale romana, il Pantheon ha avuto enorme influenza sugli architetti di tutto il mondo (un esempio su tutti è Andrea Palladio).

Numerose sale civiche, università e biblioteche, riecheggiano la sua struttura con portico e cupola.

Molti sono gli edifici famosi influenzati dal Pantheon: in Italia si segnalano la chiesa del cimitero monumentale di Staglieno di Genova, la chiesa di San Carlo al Corso a Milano, la basilica di San Francesco di Paola a Napoli, il Cisternone di Livorno e il Tempio Canoviano a Possagno, la chiesa della Gran Madre di Dio e il mausoleo della Bela Rosin a Torino; nei paesi anglosassoni la rotonda di Thomas Jeffer- son dell’Università della Virginia, la biblioteca della Columbia University, New York, e la biblioteca dello Stato di Victoria a Melbourne, Australia. https://www.elledecor.com/ it/architettura/a42457718/ calcestruzzo-resistente-roma/ https://www.elledecor.com/ it/architettura/a28276368/ pantheon-roma-storia/

Tra le diverse curiosità di questo edificio storico troviamo che gli abitanti di Roma lo chiamavano popolarmente la Rotonna (“la Rotonda”), da cui derivano anche il nome della piazza e della via antistanti; ma la domanda che ci poniamo tutti è: al Pantheon, come fa a non entrare l’acqua quando piove? L’oculus, con il suo diametro di circa 9 metri, crea una corrente d’aria ascensionale che, di fatto, smaterializza le gocce d’acqua piovana.

In questo modo la sensazione è che, anche quando la pioggia fuori è battente, all’interno piova meno.

In realtà questa sensazione è rafforzata dal fatto che i fori di drenaggio sia centrali che laterali sul pavimento impediscono il formarsi di pozzanghere.

Tante volte scorrendo i social ho letto: Dietrich Steinmetz. Un nome e cognome di sicura origine estera che mi ha affascinata e incuriosita. Sotto le splendide foto in cui Dietrich Steinmetz veniva taggato non facevo che leggere tanti ringraziamenti e commenti, condivisioni e like. Numeri importanti.

Avrò letto questo “nome taggato” innumerevoli volte in tante meravigliose foto di Cagliari e dintorni. Scatti di eventi culturali e sociali, ma anche istantanee naturali del Poetto e della Sella del Diavolo, immagini di street photography o ancora qualche giorno fa, il bellissimo video per “mano del drone” di una bellezza infinita che raccontava la Via Dante con le jacarande in fiore.

“Grazie Dietrich Steinmetz il più cagliaritano dei tedeschi.” Leggo a margine dell’ennesima condivisione di questi giorni.

Chi è Dietrich Steinmetz?

Riesco a contattarlo e accetta l’intervista.

Dietrich è tedesco - o forse diversamente cagliaritano - alto, occhio chiaro e capello brizzolato. Arriva in Sardegna quando era molto piccolo e da allora non è più andato via.

Mi racconta di aver conosciuto S’ARTI condividevano per gioco. Poi, qualcosa è stato più forte e Dietrich ha voluto usare il suo occhio fotografico oltre che per gioco per impegno sociale. Segue la campagna elettorale di Soru anni fa e quella del primo mandato di Zedda: li supporta da dietro la macchina con scatti e reportage fortemente apprezzati in rete. L’engagement e le visualizzazioni parlano da sole. In maniera quasi parallela e variegata si dedica e investe il suo tempo nel sostenere con la fotografia organizzazioni in cui crede: Amnesty International, Legambiente o Emergency per citarne alcuni. Non si ferma mai: il suo occhio dentro l’obiettivo è presente e insospettabile.

Ogni giorno, o quasi, quando esce dal suo laboratorio – che ho avuto la fortuna di visitare – non manca di fare delle foto per tenersi allenato e nutrire la passione.

Villasimius tanti anni fa, quando ancora non ci passava manco la strada che noi tutti conosciamo.

Si ricorda dei giochi in spiaggia con il fratello.

Non c’era nessuno ed era una meraviglia naturale.

Gli brillano gli occhi malgrado siano passati anni.

Parliamo un po’ della sua attività di fotografo e nel frattempo entra in laboratorio un amico di vecchia data e qualche cliente.

Nella mia mente colgo tante istantanee di Dietrich: il suo spirito traspare, il suo tono di voce e le battute sono sagaci e altrettanto intense, rivelano lo spessore di un artista accompagnato a tanta umanità.

Mi racconta di come ora con i telefonini si possono fare belle foto, velocità, istantanee, ma di come lui è più per la lentezza, per la ricerca del momento sì, ma di quello perfetto. L’angolazione giusta, le atmosfere e le luci richiedono pazienza e tempo. Questo mondo va veloce e le foto sono “lente”.

L’impressione è che Dietrich sia un fotografo professionista e per passione travestito da tecnico.

Gli chiedo come è nata la passione fotografica.

Dapprima con la figlia, quando era piccola è stato un hobby che

Diverse persone gli hanno chiesto di “insegnare”, ma lui ha sempre detto di no. Sorride e fa una pausa. Sicuramente è sempre ben disposto ad aiutare a capire i tecnicismi delle macchine fotografiche, ma poi, è la persona che ci deve mettere l’entusiasmo e “farsi l’occhio”: decidere che cosa vuole catturare e come. Semplice e lineare.

Gli chiedo quale sia la sa più grande soddisfazione.

“Quando le persone riconoscono nei miei scatti la stessa linea dell’artista da cui ho tratto ispirazione per scattare la foto è molto bello. Quando in generale riescono a vedere quello che ho voluto e visto io. Quando questo accade sono contento”. Mi dice.Hopper, De Chirico o Magritte, potreste scorgere la presenza di questi artisti in qualche suo scatto.

Condividono le sue foto nel web, e ora che scrivo ci farete più attenzione, ma lui non sembra avere particolare esigenza di mostrarne la paternità come se poi diventasse patrimonio di tutti.

Dietrich, quando nessuno o pochi sapevano cosa fossero i droni, ne ha costruito uno, lui, con pezzi di parti elettroniche in più nel suo laboratorio.

Prima ancora ha usato l’antenato del drone: l’aquilone, sempre fatto da lui con cui faceva foto sensazionali dall’alto.

Chi è Dietrich Steinmetz? Colui che immortala momenti per renderli eterni.

Lui coglie, emoziona e rende magico ogni attimo.

Gemma Bovati

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