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MURI NURAGICI A LA MADDALENA
mente all’età del bronzo (fig. 1) .
Nel 2004 scoprii un terzo muro a Caprera, in località Petraiaccio, a E della strada per Stagnali.
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Si trattava di resti di muro costituiti da pietre appena affioranti dal piano di campagna, che iniziavano subito sotto una parete rocciosa e arrivavano, con qualche discontinuità, fino alla strada asfaltata.
Fu giocoforza esplorare il terreno al di là della strada, in corrispondenza della direzione indicata dal primo tratto: apparve subito e chiaramente una lunga continuazione del muro (fig. 2.3, 6), che si sviluppa in direzione SE-NO e in alcuni tratti conserva buona parte dell’elevato. Notai anche la singolarità di un tratto piuttosto basso e formato da pietre medio-piccole sovrapposte a una groppa rocciosa, che sembrano svolgere l’unica funzione di demarcazione.
Questo muro arriva fino al rettilineo che scende verso W dal bivio Casa Garibaldi-Stagnali e prosegue oltre questa strada moderna proprio in direzione di Casa Garibaldi; quest’ultimo tratto non è stato ancora esplorato, ma la lunghezza complessiva del muro probabilmente supera i 500 m.
Successivamente il dott. Tusceri mi ha indicato a Petraiaccio, nella stessa area in cui avevo trovato l’inizio del muro appena descritto, l’esistenza di resti di due vani subquadrangolari, di un altro muro, che forse originariamente si congiungeva ad angolo retto con il primo tratto scoperto, e infine di una canaletta foderata di pietre.
Ulteriori esplorazioni hanno evidenziato un piccolo vano in pesante muratura addossato ad una parete rocciosa, con un ampio gradino che sembra costituire un piano di focolare; inoltre vi sono almeno un pozzo subcircolare (diam. 430 cm) e alcuni tratti lastricati verosimilmente antichi, a giudicare dalle caratteristiche e dalla patina delle pietre.
Altri muri sono presenti a Caprera, in località Guardiole, dove si sviluppano con lunghi tratti diritti, ma anche con tratti più articolati che comprendono almeno una diramazione perpendicolare.
Uno dei tratti più interessanti è costituito dai resti poco affioranti di un massiccio muro, largo fino a 1 m (fig. 2.7), (segue pag.6)
(segue dalla pagina 5) che ad un certo punto si congiunge con un vano rettangolare, di cui resta poco più delle fondamenta (fig. 2.9).
Anche in questa zona i muri in questione sono stati tagliati da strade militari e da sentieri moderni.
Ancora a Caprera, subito a SE del Club Mediterranée, si riconosce qualche tratto di muro con caratteristiche megalitiche, mentre tratti più lunghi si trovano a W dell’acquedotto.
A La Maddalena un muro interessante è stato individuato da Tusceri a S della spiaggia di Bassa Trinita (fig. 2.1, 4); esso arriva ino al mare (fig. 2.2) e si inoltra all’interno per almeno una cinquantina di metri; più oltre la vegetazione ne impedisce la vista e l’accesso.
Questo muro almeno in un tratto conserva tutto l’elevato e mostra alla sommità una copertura formata da un’assisa di blocchi disposti trasversalmente; in questo caso si prospetta il dubbio che possa trattarsi di un’aggiunta moderna e soltanto studi accurati sulla struttura di tutto il muro restante, sulle patine delle pietre ecc. potranno chiarire la situazione.
A poca distanza dalla riva, al muro si uniscono tre lati che vengono a formare un vano rettangolare.
Altri tratti di muri megalitici sono stati solo parzialmente esplorati nella zona dell’acquedotto (fig. 1.10-11).
Ancora Tusceri nel 2007 mi ha segnalato la presenza di muri analoghi tra le località Crocetta e Villa Webber. Nel 2009 ho scoperto un altro muro, a W della strada che collega la Trinita a Guardia del Turco; tale muro attualmente per un tratto corre sul margine della strada asfaltata, dalla costruzione della quale è stato pesantemente danneggiato; ancora oggi alcune pietre crollano perché private in parte del terreno in cui erano confitte.
A questo muro forse era originariamente collegato quasi ortogonalmente un altro lungo muro che da Guardia del Turco scende verso Stagno Torto, con un percorso che in parte affianca la strada sterrata moderna, rispetto alla quale tuttavia risulta in alcuni tratti rialzato, a dimostrazione del fatto che si tratta di due manufatti costruiti separatamente e indipendentemente l’uno dall’altro. Altri resti di muri con analo- ghe caratteristiche, ma conservati solo per tratti relativamente brevi, sono presenti in altre zone di La Maddalena (a E della chiesa della Trinita, Monti d’arena, Marginetto, Isuleddu) e di Caprera (Teialone, Poggio Stefano, Coato), tanto da far ritenere che una larga parte delle due isole fosse segnata da queste che, per il momento, possiamo asetticamente chiamare “demarcazioni di limiti”. Problemi cronologici e interpretativi.
I muri sopra descritti sembrano molto antichi, a mio avviso preistorici, per una serie di motivi.
Anzitutto le pietre non recano tracce di lavorazione, nel senso che le facce più ampie sono del tutto naturali e le non frequenti fratture nel senso dello spessore sono ottenute per spezzatura, realizzabile semplicemente per impatto di un altro masso, o per caduta o anche per pressione su lastre già parzialmente separate dall’originaria formazione rocciosa (fig. 2.10); nella maggior parte dei casi si tratta di massi formatisi integralmente per sfaldamento della roccia.
Molte pietre sono grandi e pesanti, disposte spesso di taglio, specialmente nei tratti con due paramenti laterali; tale disposizione poteva permettere in alcuni punti il riempimento della parte mediana, ma rendeva talora difficile la sopraelevazione, specialmente dove la superficie superiore è piuttosto convessa.
In altri casi grossi e lunghi massi (il più grande finora documentato è lungo circa 230 cm: fig. 2. sono distesi orizzontalmente e sembrano costituire da soli tutta o gran parte della volumetria muraria.
Peraltro nei tratti di muro ubicati in zone poco frequentate e particolarmente coperte dalla macchia è verosimile che quasi tutte le pietre siano rimaste sul posto, anche se parzialmente crollate; ebbene, in tali casi la quantità totale delle pietre suggerisce un’altezza originaria del muro piuttosto limitata, stimabile intorno al metro o poco più.
Le condizioni di conservazione (il crollo di una parte più o meno grande della struttura originaria, il fatto che molti tratti siano coperti dalla macchia, l’aspetto frusto delle superfici ecc.) sono compatibili soltanto con ma- nufatti molto antichi. Nelle zone più esposte, soprattutto dove i muri sono stati tagliati da strade o sentieri moderni, si è verificata una forte destrutturazione e spoliazione, che hanno reso le tracce più labili e discontinue, ma pur sempre riconoscibili. Anche quest’ultimo aspetto sembra confermare la forte antichità di tali manufatti, se si considera che La Maddalena è abitata continuativamente soltanto dal XVIII secolo, che per il Medioevo le presenze umane nell’arcipelago sono state scarsissime e la loro ubicazione è ancora controversa e che comunque sia in età romana che medievale non abbiamo altrove esempi di strutture simili.
L’andamento dei muri più lunghi (soprattutto quelli di Spalmatore, Guardia del Turco, Petraiaccio), la collocazione e la loro stessa lunghezza, non sembrano rispondere all’esigenza tipicamente moderna di recingere terreni privati.
L’altezza, presumibilmente limitata, non sembra adeguata né alfine di proteggere particolari posizioni da eventuali attacchi, né a quello di recingere luoghi dotati di particolari risorse o terreni privati (tanto meno a quello di rinchiudere animali o viceversa di difendersi da animali sgraditi).
In questa fase delle ricerche è mia opinione che le strutture sopra descritte possano essere state costruite in un arco di tempo che va dal Neolitico medio-finale all’età del rame e del bronzo, cioè dal quarto al secondo millennio a.C., con una maggiore probabilità per il tardo eneolitico e l’età del bronzo (Di Fraia 2011).
Qualcuno potrebbe obiettare che il fatto che le pietre non siano lavorate sembrerebbe indicare l’assenza di strumenti metallici e quindi tali manufatti potrebbero spiegarsi più facilmente in ambito neolitico.
In realtà è ben noto che la diffusione degli strumenti di rame e poi di bronzo e la loro utilizzazione nelle varie attività umane è stato un processo piuttosto lento.
A ciò bisogna aggiungere il fatto che la roccia utilizzata è il granito, che difficilmente si può lavorare, per percussione, con strumenti di rame e anche di bronzo.
Ma il punto fondamentale è che per la realizzazione di tali opere l’esigenza del metallo sembra che non si ponesse affatto, dal momento che possiamo riconoscere una scelta deliberata di modificare il meno possibile i materiali naturali, cioè di utilizzare affioramenti naturali e pietre non lavorate.
Poiché si tratta di migliaia di pietre collocate in molti luoghi diversi deve essere interpretato come una forma di rigido rispetto della naturalità dei materiali.
In altre parole i gruppi umani, intenzionati a modificare il paesaggio naturale, ritenevano di poterlo fare solo rispettando determinate condizioni imposte dalla natura stessa. Insomma l’intervento umano si pone non come una violazione o distruzione della natura, ma come proseguimento, accrescimento, estensione di elementi che la natura stessa ha preordinato e offerto agli uomini (Di Fraia 2008).
Se ci chiediamo a che cosa potessero servire i muri descritti, la prima e fondamentale osservazione è che non se ne intravvede alcuna funzione pratica.
Come abbiamo visto, le lunghe e talora complesse strutture murarie non sembrano poter costituire una barriera efficace né per gli uomini né per gli animali; infatti anche ammettendo qualche ipotetico, ma improbabile, rafforzamento o innalzamento con sostanza organica (rami, rovi), sarebbero comunque rimasti troppi varchi facilmente superabili, nei punti in cui i muri inglobano affioramenti rocciosi; inoltre i tratti murari finora esplorati non tracciano in nessun caso un perimetro chiuso, come avviene invece per le cinte murarie di molti siti preistorici della Sardegna e della Corsica.
Il muro tra le insenature di Spalmatore e quella di Cala Lunga delimita un promontorio roccioso e brullo, che non sembra offrire nessuna risorsa naturale; pertanto, data anche la vicinanza del recinto, si potrebbe ipotizzare una valenza simbolica (ad esempio la funzione di delimitare un’area in qualche modo sacra o riservata, il cosiddetto témenos?) o l’indicazione di un percorso rituale.
Il muro che corre un po’ più in alto, intorno all’altura di Guardia del Turco, mostra tratti curvi e sembra seguire in parte alcune linee di discontinuità del pendio; in questo caso si potrebbe pensare alla delimitazione di un particolare luogo alto, di cui è comunque difficile immaginare la natura, anche perché la sommità della collina è stata occupata da un grande deposito militare fortificato.
Per i muri di Caprera si potrebbe ipotizzare la volontà di segnare delle divisioni del territorio più articolate, forse per distinguere zone di competenza di diversi gruppi, oppure aree destinate allo sfruttamento di risorse diverse (ad esempio pascolo versus agricoltura: v. Di Fraia e Tusceri in questo volume), ma allo stato delle conoscenze è impossibile andare oltre queste vaghe suggestioni.
In ogni caso tutto sembra indicare che questi muri dovessero segnalare dei limiti socialmente percepiti come tali non in quanto ostacoli o barriere effettive, bensì in virtù di un riconoscimento condiviso.
Ritengo comunque che l’interpretazione dei muri in questione non possa andare disgiunta dalla considerazione degli altri tipi di strutture in pietra individuati negli ultimi anni nelle isole di Caprera e La Maddalena.
Si tratta di strutture dolmeniche, di recinti, di resti di vani rettangolari, di capanne ellittiche, di ciste e di tumuli di pietre, il cui numero cresce man mano che si intensificano le ricerche (Di Fraia 2010, 2011).
Bisogna inoltre considerare i danni irreparabili prodotti dalla moderna antropizzazione delle due isole e in particolar modo dalle molte e ampie installazioni militari e dalle cave di granito. Tutte le costruzioni sono formate da pietre non lavorate di varie forme e dimensioni: tale caratteristica sembra un forte indizio della pertinenza di tutte le suddette strutture ad uno stesso orizzonte culturale oppure ad una tradizione tanto tenace da poter caratterizzare più facies culturali. Il numero, la consistenza e la distribuzione di tutte queste costruzioni, cui bisogna aggiungere centinaia di tafoni, molti dei quali parzialmente o integralmente tamponati con muri a secco, inducono a credere che specialmente nel terzo e secondo millennio a.C. le due isole furono intensamente abitate . Tomaso Di Fraia, 2012 https://www.academia. edu/2566839/Tomaso_Di_Fraia_Gian_Carlo_Tusceri_L_enigmatico_complesso_di_Guardiole_nell_isola_di_Caprera questo
“L’anno nuovo si è aperto per noi con una bellissima notizia: il finanziamento che avevamo perduto per un errore di forma, è stato recuperato… I soldi raccolti con le opere d’arte messe all’Asta saranno restituiti virtuosamente a tutti i generosi artisti che ce le hanno donate sotto forma di fondo che servirà a sostenere la circuitazione delle opere e degli artisti. Entreremo nel dettaglio molto presto.” Poi la pandemia. Si tratta di poche migliaia di euro che per noi sarebbero state utili a riparare un po’ il danno, ma che sono state infinitamente più preziose per quello che hanno significato, in termini di partecipazione di tanti artisti che hanno dato la loro opera e nella risposta affettuosa e partecipe di tante amiche e amici che le opere le hanno comprate.
La promessa era che mi sarei impegnata affinché l’intero ammontare fosse investito in un piccolo ulteriore evento culturale, che potesse offrire a quante più persone possibile una nuova occasione di bellezza e cultura.
“Con immensa gratitudine a tutti coloro che ci hanno sostenuto e grandissima fiducia nel futuro” chiudevo così il comunicato che annunciava la buona notizia.
Sì, perché niente mi aveva mai riscaldato il cuore così tanto in 20 anni di lavoro.
Immaginate la mia felicità in questa operazione di restituzione
Mattea Lissia
’arte, formidabile interprete della realtà e veicolo di bellezza e progresso, si era mobilitata per sostenere la cultura a Cagliari.
Con un’asta di opere di arte contemporanea di tutto il panorama isolano, ha aiutato l’Associazione culturale Luna Scarlatta, che organizza il festival letterario “Pazza Idea” al quale era mancato un importante contributo pubblico nel 2019.
Nel 2020 il contributo era stato recuperato e poi era arrivata la pandemia…
Ora siamo qui con questa operazione di restituzione alla “paradura”, nata in quella occasione, e proprio da questa tradizione prendiamo spunto per innescare nuovi sistemi di rigenerazione culturale.
Questa prima edizione è, dunque, una “restituzione”, ma l’intenzione è quella di farlo diventare un appuntamento fisso, periodico; un luogo in cui le artiste e gli artisti si sentano accolti e sostenuti, e verso il quale il mondo dell’arte senta fortissimo il richiamo, per un momento di condivisione, ma anche per un circolo virtuoso dell’economia, della visibilità, della diffusione. Con la realizzazione dell’Asta dovrebbe essere possibile creare un nuovo fondo che possa finanziare le edizioni in avvenire, in un circolo virtuoso di raccolta fondi che autofinanzia il progetto di esposizione, vendita e divulgazione dell’arte.
L’inaugurazione della mostra è prevista per il 21 giugno alle 18:30 nello spazio del Chiostro dell’ex-convento dei Cappuccini.
In questa occasione sarà possibile che le artiste e gli artisti presentino direttamente le loro opere e si potrà raccontare il progetto nella sua prospettiva futura.
La mostra sarà aperta nei giorni 22 e 23 giugno per tutto il giorno e sarà possibile andare a visitarla prima del finissage fissato per il 23 giugno alle 18:30, quando si aprirà l’A- sta di vendita di tutte le opere, nella Sala degli Affreschi con un battitore “esperto di aste” in forma di performance teatrali: Elio Turno Arthemalle. Intanto, vi presentiamo RestART ovvero Cosa accade nelle arti visive in questo pezzo di mondo con 38 artisti dell’isola - e non solo - con le loro meravigliose opere:
Francesco Amadori
Francesco Argiolu
Giorgia Atzeni
Pietrina Atzori
Piera Barracciu
Annamaria Caracciolo
Carlo Crasto
Federico Cerulla
Mariano chelo
Giorgio Corso
Crisa
Cristina Dell’orfano
Nino Etzi
Francesco Mocci
Ignazio Fulghesu
Marco Loddo
Antonio Mallus
Manu Invisible
Marcello Simeone
Bruno Meloni
Simone Mereu
Mauro Moledda
Roberta Montali
Nicola Cioglia
Graziano Origa
Martina Palla
Cristina Papanikas
Veronica Paretta
Antonino Pirellas
Valerio Pisano
Vittorio E. Pisu
Giorgio Podda
Stefania Polese
Mauro Rizzo
Rosaria Straffalaci
Annamaria Secci
Alberto Soi
Nicola Testoni
L’infanzia non te la scrolli di dosso così facilmente, mai.
Prendete Jack Vettriano, pittore scozzese tra i più amati dal pubblico e – ça va sans dire – tra i più odiati dalla critica. Il successo, i soldi (a palate) e i temi delle sue opere sembrano voler a tutti i costi affrancarsi da un inizio della vita piuttosto complesso.
E invece, come nella canzone “Samarcanda”, Vettriano fugge dai suoi fantasmi solo per ritrovarli puntualmente tra le pieghe dei suoi dipinti.
Pensateci: Jack nasce in Scozia in una famiglia di minatori immigrati, talmente poveri che il padre lo manda a lavorare già a dieci anni e gli fa interrompere gli studi a sedici.
Il pittore Vettriano dipinge ossessivamente scene di lusso ed erotismo patinato che paiono uscire da un noir degli anni Cinquanta, proprio l’epoca in cui lui faceva la fame e forse certe cose le poteva vedere solo al cinema.
O immaginarle.
Lungi da chi scrive fare psicanalisi da quattro soldi, ma l’immaginario di Jack, tanto criticato, pare rifarsi proprio agli stereotipi irraggiungibili della sua giovinezza scozzese.
Vuole allontanarsi in modo talmente deciso dal suo passato,
Vettriano, che adotta il cognome italiano della madre al posto di quell’Hogan che deve ricordargli momenti non proprio felici.
Quando prende in mano i pennelli ha ventuno anni, non proprio un enfant prodige, e quando ottiene i primi riscontri, il nostro è vicino ai quaranta.
La tecnica da autodidatta è piuttosto incerta, lo stile si rifà agli interni del grandissimo Hopper – va detto, senza avvicinarsi neppure da lontano alla classe di Edward –e di Walter Sickert, le sue spiagge malinconiche ma un po’ banali ricordano quelle di Eugène Boudin.
La critica lo irride per anni, ma il pubblico si innamora dei suoi bozzetti dal celebre “The Singing Butler” in poi.
Vettriano diventa il pittore più utilizzato per biglietti d’auguri, cartoline, calendari e copertine di libri.
La big money arriva da lì, più che dalle commissioni. Gli espertoni storcono il naso, lui si siede alla cassa, conta i verdoni e se la ride.
I milioni fluiscono copiosi nelle sue tasche e lui può permettersi auto e vestiti di lusso che prima poteva solo dipingere.
Niente male per un proletario figlio di minatori.
Il “Daily Telegraph” dice di lui che dipinge scene “p0rno soft mal concepite”, per “Vainty Fair” il suo è “erotismo senza cervello”, il “Guardian” non lo ritiene “nemmeno un artista” e Sandy Moffat, responsabile del disegno e della pittura alla Glasgow School of Art, dice che “non sa dipingere, si limita a colorare”.
Alice Jones scrive su “The Independent” che Vettriano è uno sciovinista le cui “donne sono oggetti sessuali, spesso seminude e vulnerabili, sempre in calze e tacchi a spillo”.
Tutto vero, per carità.
Le scene erotiche del pittore sono effettivamente risibili, risultato di un immaginario datato e superato, con una donna al servizio dell’uomo alpha, perennemente in completi eleganti che paiono presi da “Gli Intoccabili” se non in divisa.
Le donne sembrano spesso aggeggi concepiti solo per consolare l’uomo dalle sue soverchianti responsabilità: sì, vabbè.
Una roba un po’ da boomer, se volete.
Eppure, quando Vettriano non si fa trascinare dal demone kitsch che gli si agita dentro, sprazzi di magia escono dalle sue tele.
Le sue donne sole, riflessive, depresse o determinate, sempre in chiaroscuro tra luci, ombre e una tenda appena scossa dal vento, sembrano quasi mandare un messaggio a chi osserva.
Forse, addirittura, una richiesta d’aiuto a emanciparsi dall’altro Vettriano, quello che dipinge ero-