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BRUNO WALPOTH

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JOSE’ SARAMAGO

JOSE’ SARAMAGO

Bruno Walpoth é nato nel 1959, a Bressanone, in Italia, ha studiato a Ortisei, in Trentino Alto-Adige, dove ora vive, in una casa di 350 anni che apparteneva ai suoi genitori. Walpoth è cresciuto in una rinomata cultura dell’intaglio del legno e ha continuato sulle orme dei membri della sua famiglia che erano essi stessi maestri artigiani.

Scrive: “Nella nostra valle c’è una tradizione di 400 anni di cultura della scultura del legno. Sia mio nonno che mio zio erano scultori del legno, quindi sono cresciuto con questo mezzo”. All’età di 14 anni, Bruno iniziò il suo apprendistato nell’intaglio del legno, sotto la guida di Vincenzo Mussner, quando dal 1973 ha lavorato presso di lui ad Ortisei. abbracciando le antiche tradizioni dell’intaglio del legno della regione delle Dolomiti famosa per le statue e gli altari in legno, nonché per le bambole di legno prodotte dagli artigiani locali.

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Nel 1978 si è trasferito a Monaco di Baviera per frequentare l’accademia Der Bildende Künste fino al el 2019, un dipinto di Giovanni Battista Tiepolo dal titolo “San Francesco di Paola con in mano un rosario, un libro e un bastone” è stato messo all’asta e venduto.

1984, studiando col Professor Hans Ladner.

Walpoth combina l’educazione ricevuta negli studi di Ortisei e i loro 400 anni di storia della scultura del legno con le tecniche e le forme della scultura contemporanea.

Parte delle sue sculture sono spesso dipinte con colori tipicamente tenui; egli usa questi colori per creare vestiti, capelli e a volte la pelle per le sue figure.

Più che raccontare una storia tramite le sue opere, Walpoth mira a catturare un momento di isolamento ed introspezione.

I suoi soggetti sono rigidi, immersi nei propri pensieri, e i loro occhi spesso evitano quelli dell’osservatore. Generalmente più conosciuto per le sue sculture in legno, Walpoth ha recentemente prodotto anche sculture in cartone e bronzo. Con le numerose apparizioni in mostre personali e in musei di tutto il mondo, i lavori di Walpoth sono parte di molte collezioni internazionali.

Nel 2015 l’artista ha partecipato a Personal Structure – Crossing Borders, parte della 56esima Biennale di Venezia.

Bruno Walpoth è rappresentato da numerose gallerie in Europa e in Asia e ha partecipato a mostre personali e collettive in tutto il mondo. Il suo lavoro oggi possiede sia una qualità animata che profondamente senza tempo: “le sue statue non sono oggetti, piuttosto creazioni quasi animate con anime, i loro sentimenti nudi per lo spettatore da vedere”. “Allontanandosi dalla tradizione religiosa dell’intaglio del legno della sua terra natale, percorre un nuovo sentiero, dando vita alla materia; il legno nelle sue mani trascende i confini dell’inanimato, diventa vivo e lo spettatore, come un moderno Pigmalione, rimane estasiato dal calore e dall’intimità del legno.

In questo contesto, mentre lui stesso è un modello molto appropriato per l’intagliatore Geppetto del racconto di Pinocchio di Carlo Collodi, Walpoth ha creato la scultura in legno utilizzata nella versione cinematografica della storia di Matteo Garrone del 2019, con Roberto Benigni come intagliatore.

Nel lotto, il proprietario era descritto solo come “Proprietà di un’illustre collezione privata” e la provenienza era indicata come: “Galerie Wolfgang Böhler, Bensheim, Germania”, seguita da “Vendita anonima”.

La letteratura fornita a sostegno della provenienza era A Complete Catalog of the Paintings of G.B. Tiepolo di Antonio Morassi del 1962.

Ma ora gli eredi di un gallerista ebreo, Otto Fröhlich, si sono fatti avanti e hanno fatto causa alla casa d’aste per non aver incluso la provenienza completa dell’opera, che era stata posseduta e poi abbandonata dal suo proprietario, venduta sotto costrizione, quando fuggì dai nazisti dall’Austria nel 1938.

I numerosi errori e omissioni nello studio della provenienza del Tiepolo andato in asta

Una ricerca più approfondita sulla provenienza dell’opera rivela numerosi errori e omissioni importanti.

Innanzitutto, si scopre che il dipinto era di proprietà di una persona diversa: un gallerista di nome Julius Böhler, e non Wolfgang Böhler, e che i due non erano collegati.

Un controllo della scheda di catalogo di Morassi menziona semplicemente “Böhler” e “Monaco”, e non la città di Bensheim.

Wolfgang Böhler non è mai stato collegato a quest’opera e suo figlio lo ha confermato.

Il gallerista Julius, il cui nome non è stato indicato nel lotto, possedeva il dipinto ed era noto dal 1946 come persona coinvolta nel saccheggio di opere d’arte naziste.

Secondo gli eredi Frölich, il nome di Julius è elencato come un “strong Nazi” presso l’Art Looting Investigation Unit Group del governo statunitense.

Ulteriori ricerche condotte dalla Mondex Corporation per conto degli eredi hanno trovato documenti che dimostrano che Fröhlich aveva trasferito il dipinto alla Galerie Sanct Lucas di Vienna per custodirlo quando era fuggito da Vienna, ma il proprietario della galleria aveva poi ricevuto il permesso dai nazisti di vendere l’opera nel 1941 per coprire i debiti che Fröhlich doveva alla galleria.

Gli eredi di Frölich sostengono che la vendita fu forzata e che il dipinto fu venduto al di sotto del valore di mercato.

Nella causa, gli eredi Frölich ritengono che la casa d’aste abbia intenzionalmente ingannato gli acquirenti, cambiando i nomi Julius in Wolfgang e la città di Monaco in Bensheim, al fine di facilitare la vendita senza sollevare questioni sulla proprietà passata dell’opera. La casa d’aste sostiene invece che si è trattato di un “errore umano” e che non era a conoscenza della problematica storia di provenienza dell’opera.

La casa d’aste ha ora intrapreso ulteriori ricerche e ritiene di aver trovato un proprietario precedente che potrebbe avere un diritto sull’opera.

Fröhlich acquistò il quadro di Tiepolo nel 1938 da una persona che descrive come sua cugina, Adele Fischel, che fu poi deportata e uccisa nel campo di Theresienstadt. Fröhlich sostiene che si trattò di una transazione in buona fede.

Ora sorge un ulteriore problema per il venditore.

A causa delle leggi sulla privacy, la casa d’aste ha il diritto di non rivelare il nome dell’acquirente del dipinto all’asta.

Pertanto, la famiglia non ha modo di tentare di reclamare il dipinto dall’acquirente.

Gli eredi chiedono alla casa d’aste di rilasciare il nome dell’acquirente.

Le case d’asta di solito non rivelano i nomi dei mittenti o degli acquirenti, ma gli eredi sostengono che c’è una base per obbligare la casa d’aste a farlo, perché queste informazioni sono fondamentali per i loro sforzi legali per recuperare il dipinto.

Perché il nome è stato trascritto erroneamente come Wolfgang e non Julius e la città come Bernsheim e non Monaco? Chi ha condotto la ricerca e quali erano le sue qualifiche professionali? Quali fonti ha controllato o trascurato di controllare?

La domanda cruciale

Queste domande portano a una questione più importante: quale approccio di due diligence è stato utilizzato per determinare la provenienza dell’opera?

Questo problema riguarda tutte le parti coinvolte nella transazione: l’acquirente, il venditore e la casa d’aste come intermediario.

Attualmente non esistono standard condivisi per la conduzione della due diligence sulle opere d’arte. Senza uno standard di questo tipo, è impossibile determinare chi ha condotto la due diligence, qual è stato il suo livello di competenza, quali fonti ha utilizzato e come ha interpretato le informazioni. Sarebbe analogo a risolvere un problema matematico e arrivare alla risposta sbagliata senza mostrare sulla carta i passaggi di come il calcolo è stato fatto per poter capire dove sta l’errore.

Come può una casa d’aste proteggersi dall’”errore umano” e dalle rivendicazioni legali legate alla vendita di un’opera d’arte con una provenienza superficiale, parziale o errata?

Come possono un venditore e un acquirente proteggersi dalla vendita o dall’acquisto di un’opera d’arte con una provenienza problematica? E come può un giudice stabilire se si è trattato veramente di un errore umano o piuttosto di un tentativo intenzionale di coprire o sfumare informazioni problematiche?

The Hecker Standard®, un metodo per la due diligence basato sulle prove, richiederebbe a ciascun membro coinvolto nella transazione di assumere uno specialista esterno alla transazione, indipendente, che segua una serie codificata di passi per condurre una ricerca approfondita. www.we-wealth.com/news/pleasure-assets/trasmissione%20beni%20da%20collezione/il-tiepolo-trafugato-e-lingannevole-quasi-omonimia?utm_source

Il risultato sarebbe una relazione di Due Diligence firmata, datata e soprattutto imparziale, condotta da un ricercatore qualificato, conosciuto e rispettato, con una formazione professionale e una specializzazione nella ricerca sulla provenienza dell’arte trafugata dai nazisti.

Lo specialista scelto deve affermare di non avere conflitti di interesse e di non essere coinvolto nella transazione. Infine, lo specialista deve essere in grado di “mostrare il suo lavoro”, fornendo una checklist insieme alle prove materiali e documentate dei passaggi del suo processo, comprese le copie di tutti i documenti e le fonti utilizzate.

Nel caso di un’eventuale causa legale, ciò consentirà al giudice di determinare la natura della ricerca condotta e la professionalità della persona che ha condotto la ricerca.

Ritengo che un approccio codificato e condiviso alla due diligence sia l’unico modo in cui gli acquirenti, i venditori e le case d’asta possano iniziare a proteggersi da future richieste legali relative a ricerche superficiali o errate o a provenienze intenzionalmente sfumate.

Un ulteriore approfondimento sull’annosa questione dell’utilizzo commerciale di immagini che per la loro potenza culturale e identitaria sono divenute vere e proprie icone Negli ultimi anni, e negli ultimi mesi in particolare, abbiamo assistito ad una costante crescita e presa di consapevolezza sul tema della riproduzione dell’immagine dei beni culturali italiani.

Sebbene l’attuale normativa che regolamenta la valorizzazione e la riproduzione del patrimonio culturale italiano risalga ormai a quasi vent’anni fa (D. Lgs. n. 42 del 22 gennaio 2004, meglio noto come Codice dei beni culturali e del paesaggio, che nell’ultimo decennio è stato oggetto di diverse e significative modifiche e aggiornamenti), per molto tempo il dibattito su quali immagini fosse lecito riprodurre e secondo quali modalità è rimasto in un limbo.

Per i non addetti ai lavori si ricorda che in Italia, in base agli articoli 107 e 108 del Codice dei Beni Culturali, tutti coloro che intendono utilizzare e/o riprodurre l’immagine di un bene culturale per finalità direttamente o indirettamente commerciali devono preventivamente chiedere un’apposita autorizzazione all’autorità che ha in consegna il bene culturale e pagare il corrispettivo determinato da quest’ultima. Costo della riproduzione dei beni culturali: i casi più noti Solo nel 2017, con la pubblicazione di due noti provvedimenti del Tribunale di Firenze e del Tribunale di Palermo, riguardanti rispettivamente la riproduzione da parte di soggetti giuridici privati per finalità promozionali/commerciali del David di Michelangelo e del Teatro Massimo - pronunce che si ritengono “apripista” del filone giurisprudenziale che riconosce come illecito e lesivo dell’immagine e della reputazione del bene l’utilizzo e la riproduzione per scopi promozionali o commerciali dell’immagine dei beni culturali in mancanza di autorizzazione amministrativa e di corresponsione del relativo canone di concessione - la discussione sul tema ha preso davvero vita.

E lo ha fatto in un primo momento accendendo gli animi di giurisprudenza e dottrina, sino a sfociare più di recente in un vero e proprio dibattito pubblico e politico, complici procedimenti transfrontalieri particolarmente interessanti (si veda la decisione del Tribunale di Venezia che ha inibito alla nota Ravensburger la commercializzazione del puzzle riproducente l’Uomo Vitruviano e da ultimo la decisione del Tribunale di Firenze che ha condannato Condé Nast per l’uso non autorizzato del David di Michelangelo effettuato su un’edizione di GQ Italia), casi dalla forte risonanza mediatica (si veda il caso relativo alla vendita di serigrafie digitali uniche autenticate da blockchain del Tondo Doni), l’avvento di nuove forme di valorizzazione del patrimonio culturale attraverso la tecnologia e la crypto arte (si veda il caso relativo all’Arco della Pace di Milano dove, a seguito di un evento pubblico che ha visto la proiezione di un’opera d’arte generativa sul bene culturale, una startup italiana ha creato e commercializzato NFTs realizzati sulla base di tale evento), il fiorire di politiche comunitarie volte alla creazione di un patrimonio culturale europeo largamente fruibile (si veda l’emanazione della Direttiva 790/2019 sul diritto d’autore nel mercato unico digitale), nonché da ultimo la diffusione di campagne promozionali

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