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SARDONIA Ventisettesimo Anno / Vingt Septième Annèe
Febbraio 2020/Fèvrier 2020
D.H. Lawrence Matera Capitale della Cultura 2019 Palazzo Ducale Modena Dolores Demurtas Le Spade Huelva Volontariato Culturale Oggi Sa Sartiglia a Oristano San Valentino Gas in Sardegna Triste non capire Il rogo di Don Conte a Ovodda Mentre Leonardo...in Sardegna L’uomo Vitruviano e la Divina Proporzione Mont’e Prama Ficus & Dintorni XIII Biennale d’Arte 2020 Roma Tombe & Milioni C’era una volta Sergio Leone La riscossa della pecora nera Il vaso di Dueno https://www.vimeo.com/groups/sardonia https://www.facebook.com/sardoniaitalia
Cagliari Je T’aime Programma di creazione di Esposizioni e Manifestazioni Artistiche nella città di Cagliari a cura di Marie-Amélie Anquetil Conservateur du Musée du Prieuré Directrice de la revue “Ici, Là bas et Ailleurs” Espace d’exposition Centre d’Art Ici, là bas et ailleurs 98 avenue de la République 93300 Aubervilliers marieamelieanquetil@gmail. com https://vimeo.com/channels/ icilabasetailleurs Vittorio E. Pisu Fondateur et Président des associations SARDONIA France SARDONIA Italia créée en 1993 domiciliée c/o UNISVERS Elena Cillocu via Ozieri 55 09127 Cagliari vittorio.e.pisu@email.it http://www.facebook.com/ sardonia italia https://vimeo.com/groups/ sardonia https://vimeo.com/channels/ cagliarijetaime SARDONIA Pubblicazione dell’associazione omonima Direttore della Pubblicazione Vittorio E. Pisu Maquette, Conception Graphique et Mise en Page L’Expérience du Futur une production UNISVERS Commission Paritaire ISSN en cours Diffusion digitale
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on questo numero di Sardonia ci siamo lasciati un pò prendere la mano e non abbiamo badato al numero delle pagine. Sperando che le nostre proposizioni stuzzichino il vostro interesse per le novità oppure ripropongano temi che già conoscete ma che ritornano periodicamente come il carnevale oppure la festa di San Valentino per il nostro più grande piacere. In questi giorni di gennaio, sempre un pò morosi dopo le feste natalizie e di fine/inizio dell’anno nuovo, un’avvenimento é arrivato puntualmente per mettere un pò di gioia e di divertimento nel nostro nonostante tutto febbrile quotidiano. Visto l’accumularsi dell’aliga nelle strade cittadine c’era venuto il dubbio di aver interpretato al contrario le promesse elettorali del sindaco finalmente insediato, ed aver capito male. Scopriamo oggi che le giornate dell’eletto trascorrono nella lettura di VanityFair e, si pensa, altri giornali fashion, comunque rimangiandosi les descrizioni apocalittiche della città cagliaritana, profuse durante la campagna, ecco che si ritrova a vantarne tutti i meriti, dovuti naturalmente alla giunta precedente, visto il poco tempo e la poca voglia di agire. Fino ad invitare una nota attrice, cantante ed influencer puertorico-americana che, sembra, avrebbe espresso il desiderio di stabilirsi in una cittadina italiana piacevole e tranquilla. Così il signor sindaco non manca di elogi per invitare la nostra pretendente a gustare la dolce vita cagliaritana, ricca di avvenimenti culturali, collocations balneari particolarmente prestigiose senza parlare della gastronomia eccelsa e la storia immemorevole che la contradistinguono da tante altre contrade italiane. Immagino con un particolare riguardo alla raccolta differenziata che non so se sia praticata negli Stati Uniti. Nello stesso tempo alcune parodie sui social ci vogliono convincere che Herry (sic) e Megan vorrebbero trasferirsi a Baracca Manna, aprendo un cadozzone lui e impiegandosi come commessa in via Garibaldi, lei. Come possiamo constatare Cagliari e la Sardegna tutta intera possono diventare mete ambite di reali dimissionari o di attrici in provenienza dagli States. Speriamo con queste pagine di apportare il nostro contributo a queste migrazioni, illustrando le numerose manifestazioni culturali, musicali, storico archeologiche ed anche carnevalesque che alliettano la nostra terra, senza dimenticare la rarità di alcune varietà biologiche come la pecora nera di Arbus ed anche quella dello scopritore di algoritm, nascosti nelle opere dei più insigni artisti di cui l’Italia si vanta. Augurandovi un bel febbraio tra Carnevali e San Valentini particolarmente riusciti e felici ci vediamo in marzo per la Primavera. Vittorio E. Pisu
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l ministero per i Beni le Attività culturali e il Turismo ha stabilito che il 2020 sarà l’Anno del Treno turistico e, per ribadire l’importanza delle ferrovie turistiche in Sardegna, la Regione ha organizzato per il sabato 4 gennaio, un viaggio col Trenino verde da Monserrato a Mandas a bordo della storica carrozza Baucchiero del 1913, per ricordare il 99° anniversario del viaggio di David Herbert Lawrence in Sardegna. Tra i tanti viaggiatori stranieri che hanno dedicato alla Sardegna le pagine dei loro diari, David Herbert Lawrence fu senz’altro uno tra i più attenti cronisti del Novecento. Nella sua opera “Mare e Sardegna” si leggono usanze, costumi, tradizioni e accurate descrizioni di luoghi e personaggi narrati in maniera poetica e affascinante, ma anche ironica e dissacrante. Molte delle sue citazioni sono diventate celebri e risultano ancora oggi autentiche e vere. Come non essere orgogliosi, ad esempio, della celebre frase “Questa terra non assomiglia a nessun altro luogo”? David Herbert Lawrence, scrittore inglese originario di Eastwood, approdò in Sardegna insieme alla moglie e compagna di viaggio Frieda von Richtofen – che lui chiama “ape regina” – nel gennaio del 1921, dopo un breve soggiorno in Sicilia. All’epoca Lawrence era un personaggio molto discusso per il clamore suscitato da molti suoi romanzi, considerati quasi “erotici” poichè affrontavano tematiche amorose descritte in modo esplicito e provocante: “Figli
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e amanti”, “La ragazza perduta”, “Donne innamorate”, “L’arcobaleno”, tra i più celebri, furono pubblicati tra il 1913 e il 1920. Tra questi, “L’arcobaleno”, fu perfino censurato poichè considerato osceno. Ma la sensualità che caratterizzava la sua opera fu senz’altro la sua fortuna, permettendogli di viaggiare in tutto il mondo e raggiungere le località in cui i suoi romanzi venivano pubblicati: l’Italia, l’India, l’Australia, il Messico. Il viaggiare, motivato da quell’ “assoluta necessità di muoversi” che costituisce l’incipit del libro, li portò a conoscere nuove genti e nuove culture, cogliendone talvolta somiglianze, altre volte profonde differenze. Perchè la Sardegna? Come Lawrence stesso spiega, la scelta ricadeva tra la Spagna e la Sardegna, ma quest’ultima lo incuriosì maggiormente perchè veniva descritta come selvaggia e indomita, al punto che “nè fenici, nè romani, nè greci nè arabi la conquistarono mai”. In Sardegna i due trascorsero 9 giorni, percorrendo soprattutto l’interno, da Cagliari a Terranova attuale Olbia, passando per la Barbagia. Affrontarono viaggi lunghi, lenti, con tutte le problematiche di una terra ancora lontana dal concetto di accoglienza in chiave turistica. Al loro arrivo a Cagliari, sorpresi da un freddo pungente e dal silenzio di una città quasi desolata, (segue alla pagina 4)
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(segue dalla pagina 3) trovarono alloggio presso l’Hotel Scala di Ferro; alloggio pulito e curato che doveva aver avuto una storia, ma che dopo la guerra si stava adattando a qualche cambiamento. Di Cagliari lo incuriosirono tante cose, prima tra tutte le donne: “Sono divertenti queste ragazze, donne e contadine: così vivaci e spavalde. Le loro schiene sono dritte come piccoli muri e le sopracciglia decise e ben disegnate. Stanno sul chi vive in modo divertente. Come uccelli vivaci e svegli, sfrecciano per le strade, e ti rendi conto che ti darebbero un colpo in testa con la stessa facilità con cui ti guarderebbero. La tenerezza, grazie al cielo, non sembra essere una qualità sarda. Queste donne devono badare a se stesse, tenere la schiena dritta e i pugni duri”. Di Cagliari lo scrittore nota anche l’eleganza dei Caffè in via Roma, la ricchezza cromatica degli abiti, il via vai dei contadini con i loro muli in prossimità del porto, il Mercato Vecchio del Largo Carlo Felice, le ricche signore accompagnate da piccoli garzoni che, più tardi, Francesco Alziator e Cenza Thermes avrebbero chiamato “picciocus de crobi”. Questi ultimi, per la maggior parte orfani, si guadagnavano quel poco di cui avevano bisogno per vivere alla giornata accompagnando le ricche signore al mercato e portando loro la spesa su grosse ceste di paglia che reggevano sulla te-
sta. Lawrence descrisse attentamente quella che sembrava essere una prassi consolidata e ne rimase colpito: i grossi canestri sapientemente portati dai ragazzini erano ricolmi di frutta, pane, polli e qualsiasi altro oggetto acquistato al mercato, ma loro non sembravano sentirne il peso o la fatica. Raggiunta la casa, le ricche madame avrebbero dato loro qualche spicciolo come ricompensa dell’aiuto e i piccoli monelli ne sarebbero stati felici, trovando nella fatica la gratificazione per un lavoro che, per quanto duro ed umile, qualificava il loro ruolo in una società che faticosamente si inseriva nel XX secolo. Colpisce ancora la descrizione che Lawrence dà del mercato, oggi scomparso ma ancora vivo nei ricordi degli anziani e nelle fotografie d’epoca. E fa sorridere il vivido racconto dell’Ape Regina che si aggira incredula tra bancarelle di frutta, uova, formaggi e pani che, oltre ad essere di grande varietà e qualità, venivano venduti a buon mercato, al punto da farle esclamare: “Oh! se non vivo a Cagliari, e non vengo a fare la mia spesa qui, morirò senza aver soddisfatto uno dei miei desideri”. Il breve soggiorno cagliaritano è preludio di un altro viaggio che li porterà a Mandas, poi Sorgono, Nuoro e infine Terranova, passando per Orosei. I viaggi verso l’interno, in treno e in corriera, sono estenuanti e poco confortevoli, ma sempre animati dalla vivacità degli abitanti che cambiano da paese a paese, come cambiano i costumi tradizionali. Le persone sono ospitali e gentili, talvolta rozze e maleducate. Anche il paesaggio intorno è mutevole: a tratti arido e arabeggiante, con palme e chiese simili a moschee e piccole case in terra cruda, a tratti aspro e selvaggio, fatto di boschi, colline e montagne che lasciano spazio a lande desolate. E’ qui che Lawrence capisce che “la Sardegna è un’altra cosa” rispetto all’Italia: è “più ampia, molto più consueta, nient’affatto irregolare, ma che si perde in lontananza”. Qui domina lo spazio che si traduce in “distanze da viaggiare”, simili alla “libertà stessa”. Del suo viaggio in Sardegna, Lawrence conservò il ricordo dolceamaro di una terra diversa, complessa da definire, affascinante e oscura al tempo stesso. E il suo diario di viaggio diventò un libro dal titolo “Sea and Sardinia” pubblicato nello stesso anno dall’editore americano Seltzer dopo il successo del “racconto a puntate” per un giornale. Il suo ultimo romanzo, “L’amante di Lady Chatterley”, anch’esso sensuale ed esplicito, fu pubblicato nel 1928, due anni prima della sua morte, in versione censurata, per poi essere pubblicato in versione integrale solo nel 1960, risultando ancora oggi uno tra i più grandi capolavori della letteratura erotica. www.meandsardinia.it/mare-e-sardegna
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avid Herbert Lawrence fu uno scrittore inglese molto discusso per la sensualità che contraddistingueva i suoi romanzi. Fu nel gennaio del 1921, dopo un soggiorno in Sicilia, che Lawrence si diresse con la sua “ape regina” in Sardegna. Il suo viaggio nell’isola durò nove giorni: ne percorse tutta la spina dorsale, da Cagliari fino a Olbia, passando per le aspre terre della Barbagia. Un viaggio breve, lento, tra tutte le sfaccettature della vecchia Ichnusa, le cui memorie divennero da lì a breve un libro. “Mare e Sardegna” fu pubblicato inizialmente a puntate in una rivista americana nel 1921 e
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poi edito in volume a New York da Thomas Seltzer, con illustrazioni di Jan Juta. “Mare e Sardegna” racconta una terra e i suoi abitanti, che conducono una vita tutt’altro che moderna: ne mostra i segni arcaici che si adattano mal volentieri al nuovo. L’approdo sull’isola è dovuto all’“assoluta necessità di muoversi”, espressa nell’incipit del libro, che porterà lo scrittore inglese e sua moglie ad abbandonare la bella Sicilia, dove si sta tanto bene. E così via, si parte su uno piroscafo che salpa da Palermo e va verso Cagliari. La nave, seppur piccola, è una gioia per lo scrittore inglese che si sente come “danzare nel lento volo degli elementi” di quello splendido Medi-
terraneo. E dopo la pioggia e gli incontri sull’imbarcazione, finalmente in fondo al golfo, dove “terra e mare sembrano arrendersi, la fine del mondo”, sorge Cagliari. Una volta visitata la città, si rimettono in viaggio, prendendo un treno per Mandas. Dallo scompartimento di legno a molti posti, seduti di fronte a due sposi anziani, lui grasso, lei snella nella sua gonna ampia con grembiule, Lawrence resta sorpreso dalle “desolate e deserte distese” della Sardegna, un “paesaggio molto diverso da quello italiano”, con i “contadini chinati sulla terra che sembrano lavorare in eterno”. Il viaggio che li porta nel Mandrolisai, passando per la Barbagia, offre paesaggi nuovi: qui i pendii dei monti si fanno sempre più erti, ricamati dai “castagni dalle lunghe chiome, le querce dai rami tozzi e i sugheri nudi come negri”. Dopo una breve sosta a Orosei, prosegue il viaggio in autobus, su strade dove si vede il Mediterraneo incresparsi contro le rocce nere, fino a Terranova-Pausania, dove prenderanno la nave per Civitavecchia. L’ultima descrizione della Sardegna che lo scrittore inglese ci offre nel suo libro è quella del cielo della notte alto sopra lo piroscafo: un’immagine bellissima che, come la notte con il giorno, conclude il viaggio in Sardegna, pieno di luci, ma anche di ombre, le stesse da cui, forse, ancora oggi questa terra luminosa e santa non riesce a liberarsi. https://www.mediterraneaonline.eu › mare-e-sardegna
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aolo Verri (Torino, 1966) è il direttore generale della Fondazione Matera-Basilicata 2019, dopo aver diretto il Salone del Libro di Torino dal 1993 al 1997, la Fondazione Atrium Torino per la promozione delle Olimpiadi, Italia 150 e gli eventi e i contenuti espositivi del Padiglione Italia dell’Expo di Milano. Lo abbiamo intervistato per fare un bilancio di Matera 2019. Quali sono stati i numeri? In base ai dati dei primi dieci mesi, abbiamo avuto all’incirca 300mila presenze e venduto circa 80mila «passaporti» [il biglietto unico per accedere agli spettacoli di Matera 2019, Ndr], il 54% ai cittadini lucani a 12 euro, il 46% ai visitatori non residenti a 19 euro; quasi 20mila cittadini, uno su tre, hanno costruito con noi contenuti originali per Matera 2019 e abbiamo avuto 1.500 volontari, tre volte il numero previsto. La media del pernottamento in città è salita da 1,6 notti a 2, che dimostra come Matera sia diventata un «hub» dal quale partire per visitare il resto della Basilicata e la Puglia, anche grazie ai nuovi collegamenti infrastrutturali che permettono di raggiungere la città in 35 minuti dall’aeroporto di Bari. Si viene a Matera per vedere i Sassi, ma ora anche per godere della sua vivacità intellettuale, della qualità dell’offerta dell’accommodation e di
MATERA CAPITALE quella enogastronomica. Tutto quello che un viaggiatore di qualità cerca, a Matera adesso c’è. Il 2019 ha rispettato le vostre aspettative? Siamo riusciti a fare il 110% di quello che avevamo promesso con il 7% circa di budget in meno; lo abbiamo fatto coinvolgendo 700 artisti, di cui 450 provenienti dall’estero, molti dei quali protagonisti di residenze, come quelle collegate a progetti come «AltoFest» e «Gardentopia». Sicuramente ciò di cui siamo più soddisfatti è il processo di cocreazione attuato con la scena creativa lucana. Invece, dopo lo straordinario legame stretto con la Regione Basilicata, l’Agenzia per la Pro-
mozione del Territorio e il Comune di Matera, nella prima fase di candidatura, si è indebolita la condivisione con tutti i soggetti istituzionali, a eccezione di Bruxelles e del Mibact, sia a livello nazionale, in tutti i vari passaggi di consegna tra il ministro Franceschini e il ministro Bonisoli e poi di nuovo Franceschini, sia a livello regionale, con il Polo Museale della Basilicata. Mi sarei aspettato un po’ di più dalla Regione Basilicata, che ritengo non abbia saputo sfruttare al meglio gli stimoli forniti da Matera 2019. Per fortuna il Comune sta dimostrando la sua rinnovata capacità di costruire opportunità insieme. La Fondazione resterà fino al 2022.
Quali sono le attività ancora previste? Fino ad oggi non potevamo assolutamente distrarci dagli obiettivi principali del 2019; adesso possiamo pensare al dopo, soprattutto per il fatto che l’anno è andato così bene e abbiamo iniziato a farlo ufficialmente dopo la presentazione del Padiglione Italia di Dubai 2020, il 20 ottobre. I temi su cui lavorerà la Fondazione saranno principalmente legati al processo di cocreazione, al networking internazionale, all’«allargamento» della città e all’inclusione. Ciò che produce sviluppo non deve generare distanze, ma opportunità. Bisogna tornare ad avere una visione e concentrarsi su ciò che avverrà dal
2020 al 2030. Non è un caso che ultimamente Matera venga accomunata a Venezia e Milano. Ecco, credo che Matera debba essere un po’ più Milano e un po’ meno Venezia, cioè essere meno «patrimonio» e più «attività», meno storia e più ricerca; un luogo, insomma, in cui si fanno delle cose grazie alle persone. Noi abbiamo sempre detto che non vogliamo chiedere, ma dare, come ha detto anche il ministro Provenzano, a Milano, al sindaco Sala. Ci sono grandi chance di futuro e Matera se le vuole giocare, come dimostra il nuovo hub, appena aperto, dedicato al 5G. Su questo lavorerà la Fon-
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E DELLA CULTURA
dazione: cocreazione, visione, partecipazione. Come immagina Matera nel 2029? Immagino una città dove le auto saranno sempre meno presenti, soprattutto sull’asse del centro storico che va da via Ridola alla fine di via San Biagio, fruita da servizi elettrici dati in sharing e in pooling, gestiti da giovani del territorio. Abbiamo usato tantissimi luoghi fino a ieri inutilizzati, facendoli riscoprire agli stessi materani, come le cave di tufo, e immagino completamente pedonale proprio la strada che collega la Cava Paradiso, oggi centro della contemporaneità, grazie al progetto I-DEA, realizzato in collaborazione con l’Università degli Studi di Basilicata, alla Cava del Sole, che dovrà essere sempre di più il luogo dei grandi eventi. Ed è necessario allargare i confini di Matera per alleggerire l’impatto dei visitatori sui Sassi. D’altra parte Matera ha un contado che è 5 volte la città stessa, e bisogna fare squadra anche con i comuni limitrofi, a partire da Montescaglioso e Miglionico. In un’Italia che si sente sempre più europea, in cui bisogna diminuire il numero delle Regioni, delle Province, degli stessi Comuni, mi piacerebbe moltissimo vedere, nei prossimi 10 anni, giovani amministratori decidere di avere qualche Comune in meno e qualche opportunità in più. (segue alla pagina 8)
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(segue dalla pagina 7) L’Open Culture Festival chiude il 2019 di Matera. Quali sono gli appuntamenti principali? L’Open Culture Festival è un invito a non essere talebani nei confronti delle tecnologie, così presenti nella nostra vita. Le grandi multinazionali stanno un po’ sostituendo gli Stati nazionali, è necessario quindi far conoscere queste dinamiche ai cittadini dando «sapere», che è il modo migliore di fare cultura. Arriveranno a Matera 15 opere di virtual reality, grazie a un accordo stretto con la Biennale di Venezia e ringrazio il presidente Paolo Baratta, il direttore generale Andrea del Mercato, e il direttore della Mostra del Cinema di Venezia, Alberto Barbera, per avere sposato questa idea. Un progetto molto visionario è «Matera 3019», che si articolerà in una prima parte realizzata con la scuola Open Source, in cui 60 giovani da tutta Europa lavoreranno per produrre una piattaforma di collaborazione creativa che consegneremo nelle mani del presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli, in occasione della cerimonia di chiusura, il 20 dicembre. E poi? La seconda parte sarà incentrata sullo spettacolo «Uccelli. Esercizi di miracolo» a cura del Teatro delle Forche e basato sulla omonima commedia di Aristofane, a dimostrazione di
come la grande tradizione classica possa aiutarci a leggere il futuro dei nostri territori. Costruiremo sei storie di città, sei possibili visioni future di Matera. Tutto questo senza risparmiarci anche un po’ di autocritica: perché quello che facciamo è principalmente ricerca, e quindi si possono fare molte cose giuste e anche molte sbagliate. Partiremo il 7 dicembre con una grande conferenza internazionale coordinata da Carlo Antonelli, attuale direttore di Fiera Milano Media, in cui 10 relatori, italiani e stranieri, ragioneranno con circa 200 persone per immaginare un futuro più qualificante per tutti, sapendo che ci attendono sfide non banali e che dipendono dal rapporto che i miei maestri di semiologia avrebbero definito tra «testo» e «contesto». Bisogna, cioè, lavorare sulla parte locale, che è il testo, e bisogna dialogare con la parte globale, che è il contesto: la relazione tra le due parti sarà la grande sfida della cultura, e naturalmente anche di Matera, che ha iniziato una strada molto innovativa e competitiva e proprio per questo non può permettersi di perdere il passo. E spero che chi governerà la città, in futuro, non interrompa questo cammino. Che cosa conserva di questa esperienza? Credo di aver imparato più di quanto ho insegnato perchè, come diceva Massimo Troisi parlando del suo rapporto con i libri, «io sono da solo a leggere, ma loro sono milioni a scrivere». Io sono da solo, ma ho avuto decine di collaboratori, consulenti, cittadini dotati di una buona volontà e di un forte desiderio di fare bene il bene comune. Mi porto dietro un vero e proprio cambiamento di rotta professionale, perché per me è diventato fondamentale il tema della cocreazione. Con decine di persone, poi, manterrò un rapporto di amicizia strettissimo e imperituro. Perfino mia madre è diventata cittadina temporanea di Matera! E anche per lei sarà difficilissimo lasciare questa città. Dopo Matera, lei dove andrà? Sento di voler restituire quello che ho imparato. Mi occuperò quindi di formazione; dopo le lezioni che ho tenuto sulla Public History presso la Fondazione Feltrinelli, già a febbraio sarò occupato con la Rcs Academy; collaborerò con varie Università tra Roma e Milano, spero anche con quella della Basilicata. In Italia, poi, sono decine le esperienze che proliferano sul tema culturale, così come molte sono le opportunità anche in Europa. Scriverò un libro su questa esperienza, e ne sto già chiudendo un altro sullo sviluppo urbano. Mi occuperò di tanta formazione, tanta scrittura e, finalmente, della mia famiglia. Fiorella Fiore, da Il Giornale dell’Arte numero 403
Foto Gino Esposito
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a riaperto dopo quasi dieci anni di inagibilità (chiuse nel marzo 2010) il Salone d’onore del Palazzo Ducale di Modena, sede dell’Accademia Militare. Lo spazio nobile del palazzo seicentesco che ospitò fino al 1859 la corte di Modena e Reggio Emilia, è celebre per i 440 metri quadrati dipinti dal 1696 dal bolognese Marcantonio Franceschini (1648-1729) coadiuvato dal ravennate Luigi Quaini (1643-1717) e dal quadraturista di origine svizzera Enrico Haffner (16401702). Restaurata nei mesi scorsi dalle imprese Ingegneri Riuniti e Arca Srl (Paola Righi, Giovanni Daniele Malaguti e Giuseppe Iadarola) grazie a 250mila euro forniti dalla Fondazione di Modena, l’opera raffigura «Giove che incorona Bradamante alla presenza degli dèi dell’Olimpo» e richiama le nozze, avvenute nel 1695, tra l’ex cardinale Rinaldo d’Este che dopo la rinuncia della porpora sposò Carlotta Felicita di Brunswick-Lüneburg. «Abbiamo pulito tutte le pitture, spiegano i tecnici, eseguito la velinatura, ossia il consolidamento precedente il vero e proprio restauro nelle zone che erano a rischio di distacco.
Abbiamo anche realizzato l’intera battitura manuale della superficie, trattando le parti pittoriche da rinforzare con l’uso di malta a base calce. In questo modo abbiamo rinforzato l’intera pittura e successivamente tonalizzato con velature a grassello la superficie. Anche grazie alle fotografie di Ghigo Roli e a una termografia completa abbiamo potuto fare ciò agevolmente. Grazie al ponteggio di 30 metri, durante i lavori è stato possibile ammirare e fotografare particolari meravigliosi non visibili dal basso». Il Palazzo Ducale è un palazzo italiano del XVIIᵉ secolo in stile barocco. Fu la residenza dei duchi di Modena della Casa d’Este tra il 1452 e il 1859. Oggi Accademia Militare di Modena, museo militare e bookshop. Stefano Luppi, Il Giornale dell’Arte gennaio 2020
PALAZZO DUCALE
ACCADEMIA MILITARE Piazza Roma 15 Modena - MO - 41121 Tel : + 39 059/2032660 info@visitmodena.it www.visitmodena.it
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olores Demurtas è una scultrice di primo piano. La terra è il suo elemento d’elezione, la lavora e ne parla con rispetto, la ritiene sovrana della vita, precisando che la sua appartenenza a questo elemento è devozione per la dimensione profonda del custodire e generare. «Ho usato quasi tutte le terre, tanti colori e tipi argille mischiate per ottenere effetti particolari: la terra di Sardegna è fatta di strati e ho sempre cercato di sperimentare tra le diverse gradazioni, guardando la terra si capisce quanto tempo ci mette la natura a creare.» Nasce tra le argille a San Gavino nel 1935 ma è di origine ogliastrina, di Lanusei, dove ha vissuto a lungo con la famiglia sino a quando non si è stabilita ad Assemini e infine a Cagliari. Completamente autodidatta, fin da piccola inizia a modellare con le argille che trovava vicino casa. Cresce maturando una particolare esperienza scultorea, attenta ai dettagli, che trasferisce in pezzi di ritrattistica unici e vitali. Nel suo laboratorio storico, a Cagliari, ha sperimentato la lavorazione di diverse terre, prediligendo il caolino purissimo e la porcellana. Inizia per gioco con opere che sono i pupazzetti e le biglie, in lingua sarda dette biriglie, a soli cinque anni, incurante dei rimproveri dei genitori, manipola e
DOLORES crea oggetti; le sue tasche sono sempre piene di terra. Come le bambine curiose e appassionate, anche oggi Dolores Demurtas parla di un’anima che ogni artista conserva, qualcosa di sacro come l’intangibilità del talento che chiede di essere curato, salvaguardato e protetto anche dalla comunità in cui si esprime. È come se sapesse precisamente, sfondata la soglia degli ottant’anni, come si maneggia ogni dono prezioso e più è fragile più lei sembra saperlo meglio. Nel 1960 riesce ad acquistare il primo forno elettrico e nel 1967 sposa il pittore e vignettista Aurelio Demontis con cui ha due figlie: Lavinia e Angela che, avvolte nella miriade di ispirazioni artistiche,
nutriranno la loro predisposizione della spiccata libertà artistica di due genitori geniali. «Anche le mie bambine avevano sempre le mani sporche di terra – racconta Dolores Demurtas – ma io non le sgridavo, lasciavo che la mangiassero perché l’argilla ha poteri depurativi per l’organismo.» Dolores Demurtas non parla quando discorre, ricorda mentre dice “non mi ricordo” e intanto lancia messaggi che sembrano arrivare dal futuro. Parla di lei stessa e di quella sua famiglia dalle mani intrise di argilla, sposta concetti antichi, indiscutibili; insomma per lei quello che noi oggi chiamiamo innovazione è sempre stato semplicemente il suo
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DEMURTAS dovere, un lavoro serio condotto con la gioia di chi sale su una giostra luminosa e velocissima. Dolores è una madre senza paura, ha messo le sue bambine dentro i magici profondissimi spazi dell’arte e oggi Angela e Lavinia Demontis hanno una velocità pazzesca, sognano la sostenibilità di un mondo e ci lavorano sodo. Due artiste che pensano alla grande perché hanno imparato presto come rivolgersi al pianeta. Nelle sue varie fasi artistiche Dolores ha posto particolare cura nello studio della colorazione, creando da sé gli smalti per le decorazioni, ricavandoli dai diversi minerali presenti in Sardegna. Cuocendo le opere nel suo
primo forno a legna, ottiene degli effetti cromatici unici e spettacolari: i suoi oggetti d’arte sembrano usciti da un libro di fiabe. Negli anni Cinquanta la fiera di Cagliari era molto frequentata ed era l’unica occasione di scambi tra arti sull’Isola, un posto di incontri cruciali e ricorda con emozione l’incontro col primo segretario dell’Onu, lo svedese Dag Hammarskjold, che nel ‘61 morì in un incidente aereo in Zambia. Poi in seguito al ritrovamento di prove, che hanno dato peso a quelli che per decenni sono rimasti solo sospetti, ecco aprirsi un’inchiesta. Come si riapre la ferita per Dolores Demurtas, Dag Hammarskjold può essere stato assassinato.
L’ipotesi che lui costituisse una minaccia esterna viene ribadita, l’uccisione avviene proprio durante un momento chiave della storia africana, mentre imperversava quella lotta coloniale supportata dal Vecchio Continente, contro quella per l’indipendenza, per il continente africano che voleva essere Nuovo. Si commuove perché ancora una volta in una comunità che non sa prendersi cura di sé, tutti perdono, qualcuno l’anima e qualcuno la vita. Parla di una Cagliari nel ‘58: lei è una giovane scultrice, durante la fiera dà dimostrazione di come a mano libera, cioè senza alcun attrezzo, costruisce i suoi capolavori scultorei. Lo mostra a personalità del mondo artistico e politico che, impressionate dalla portata di un simile lavoro, finiranno per coprirla di premi rendendola l’esponente di un artigianato simbolo dell’Isola. Assenza di tornio e uso esclusivo della manualità sono gli elementi distintivi e di rottura con un’arte scultorea in cui vuoti e pieni si alternano in una successione non convenzionale. Una tecnica inventata e perfezionata in decenni d’esperienza che consiste nella creazione di solidi geometrici assemblati tra loro. Con una sfoglia tagliata a strisce crea diversi blocchi che poi vengono montati. Nella sua produzione spiccano i grandi pezzi decorativi (segue pagina 12)
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(segue dalla pagina 11) come il pannello di tre metri per quattro, denominato L’Inferno dantesco, esposto a Cagliari, l’altra sua opera nota come Fondale Marino si trova a Macomer e ha un’estensione di ben dieci metri quadrati, riporta ricci di mare appesi alle alghe tra colori dalle mirabili sfumature, famoso il suo Monumento ai Caduti di Sant’Antonio Ruinas, di 3 metri e mezzo d’altezza. La preparazione dei pannelli è costituita da grosse sfoglie di argilla le quali creano un muro di base che nell’opera Fondale marino, per esempio, è di forma circolare. La lavorazione avviene a pannello appeso, l’artista sale su una scala e incomincia a modellare l’argilla componendo la scena e creando le diverse figure. Si dedica anche all’arte sacra producendo sontuosi rosari, grandi crocefissi e altre sculture religiose come la Madonnina di Marina Piccola a Cagliari che era posta nel porticciolo, ora sparita nell’ombra dell’oblio: non si sa esattamente dove sia stata collocata. Ma le statue maggiori, quelle di S.Ignazio da Laconi, S.Antonio e San Francesco, insieme a tante altre, verranno catalogate e ospitate nelle diverse chiese dell’Isola. Dolores Demurtas passa attraverso una moltitudine di stili scultorei perfezionando il suo studio sulle superfici decorate. Ne nascono elementi natu-
rali come fiori e foglie della vegetazione tipica sarda, in uno stile decorativo assolutamente originale, bianco su bianco, con i caratteristici piccoli frutti, le roselline e le foglie che riproducono il mirto nelle varie fasi di maturazione. I decori appaiono realistici e suggestivi come delicati pizzi, trasferiti su grandi brocche e vasellami di diverse dimensioni. La Brocca della sposa è il nome che viene attribuito a Firenze nel ‘59 a una sua opera a Palazzo Pitti, ed è l’iconico pezzo che spicca in una collezione identitaria tra scultore che si mostrano tradizionali e insieme particolari. Nel 1985, su lettera invito dal Vaticano, viene convocata all’incontro pubblico svoltosi a Cagliari nella scalinata di Bonaria con Papa Giovanni Paolo II. Per l’occasione donerà al pontefice un prezioso piatto in ceramica lavorato a bassorilievo, con le insegne papali, decorato con smalti policromi, oro e platino. Espone alla prima Mostra dell’Artigianato a Sassari nel 1956, per continuare poi ad esporre alle successive Mostre Regionali e alle Biennali fino al 1962, e dal 1984 fino agli anni 2000 ottenendo, oggi come allora, sempre un grande successo. Partecipa alla Biennale di Venezia e alle Triennali di Milano tra gli anni ’60 e ’70. Negli anni ’80 insegna tecnica della ceramica nei corsi
Foto costasmeraldaportal
regionali di formazione professionale e lavora per l’ente regionale ISOLA dalla sua creazione fino al 2008, partecipando a tutte le esposizioni nazionali e internazionali, l’ultima nei celebri grandi magazzini Harrod’s a Londra. Le sue opere fanno parte di collezioni pubbliche e private, del Museo della Ceramica di Caltagirone dove ci sono cinque pezzi riccamente lavorati, tra brocche e fiasche. Presente anche al museo di Ginevra e in numerosi altri musei nazionali e internazionali, nel 2015 un’anfora pregiata, pezzo unico, viene acquisita nella prestigiosa collezione Onick Spanu per il Magazzino Italian Art di New York accanto ad altre ceramiche. Resta vedova a settant’anni, col marito ha condotto un’esistenza intensa tra personalità come Leonardo Sciascia e il poeta dialettale Ignazio Buttitta, tra mostre collettive che, tra gli anni Sessanta e Ottanta, sono la scena aperta di quell’arte che li vede fianco a fianco nelle gallerie e nelle sedi prestigiose di Cagliari. Ben presto la produzione si estende agli arredi interni, producendo lampadari ed accessori su richiesta dei committenti più vari. Sarà Putin, in occasione della sua visita da Berlusconi a Villa Certosa, ad acquistare una sua anfora esposta a Porto Cervo «Ho lavorato sodo per il Giappone. Ricordo che la mia mostra allestita in Australia venne spostata a Singapore e infine a New York al palazzo
dell’ICE, dove nell’85 ho partecipato a quello che chiamavano un processo di internazionalizzazione delle imprese all’estero. Ho incontrato grandi personalità da Segni a Berlinguer, ricordo tutto di un panorama politico tanto diverso da quello attuale ma per certi versi tanto simile – prosegue Dolores Demurtas – quando l’Aga Khan ha comprato le prime rocce e si parlava solo di lui, Nunzio Filogamo e Corrado Mantoni erano i primi presentatori, pionieri di una televisione che raggiunge proprio tutti, ed era arrivata anche a noi ma soprattutto ricordo con orgoglio quando a New York è una catena di grandi magazzini a volere in esclusiva, per produrre su vasta scala, la mia opera che rappresenta la peonia, il fiore tipico della Sardegna. Non se ne fece nulla, forse i tempi non erano maturi o chissà forse si era ancora in una Sardegna che doveva capire come diventare internazionale. Il mio primo presepe, prodotto in terra argillosa, lo ricordo bene: è stato comprato dalla Rinascente. È fantastico per me osservare come oggi la Costa Smeralda si stia muovendo tra il paradigma della crescita economica e la bellezza diffusa nell’intera Sardegna, è tanto rassicurante e brilla dello stesso fascino che quel tratto di costa ha sempre saputo come esercitare. Le cose autentiche restano.» Anna Maria Turra
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Foto Valeria Putzu
ggi rileggevo un articolo sulla scoperta delle armi di Huelva, uno dei maggiori ritrovamenti di oggetti in bronzo, 387 oggetti, 83 spade, 57 else, 24 pugnali, 87 punte di lance, 59 manici, 15 punte di frecce, uno o due elmi (molto frammentari), 12 fibule a gomito, 4 torques, 2 fibbie di cintura, 10 bottoni, 10 anelli, vari spilloni. Tutti questi reperti sono probabilmente frutto di un naufragio di una nave da carico che li commerciava e sono stati trovati dragando il fiume Huelva in Andalusia. Sono state fatte analisi mineralogiche e agli isotopi del piombo su 5 campioni di reperti metallici di questo deposito, possiamo leggere i risultati nell’articolo di M. A. Hunt Ortiz: “El depósito de la Ría de Huelva datos isotópicos para la determinación de su procedencia” in III Congreso Nacional de Arqueometrìa, Sevilla, 2001. In pratica dei 5 campioni analizzati, i tre denominati RH1 RH2 e RH4 sono compatibili con la miniera di Sa Duchessa in Sardegna (soprattutto la RH2); mentre quelli Rh3 e Rh5 hanno qualche somiglianza con miniere di Cala (Andalusia) e con miniere cretesi e cipriote, ma con nessuna in particolare hanno un profilo di completa attinenza, tanto da far sorgere l’ipotesi che le spade siano il frutto della mescolanza di
CONSIDERAZIONI rame proveniente da miniere diverse (probabile rifusione di vari oggetti bronzei), oppure provengano da una miniera oggi esaurita di cui non abbiamo nessuna traccia. Di tutti i reperti della Rìa de Huelva, la tipologia di oggetti più importante è quella delle spade, tanto che Huelva ha dato il nome alla tipologia di questo particolare tipo di armi, l’antecedente delle spade a lingua di carpa. Di questa particolare tipologia esistono parecchi reperti, soprattutto in Spagna, ma anche in altre zone del Mediterraneo Occidentale, soprattutto nella valle del Rodano e in Italia: in Lazio Sicilia e Sardegna (Foto 1, mappa della distribuzione
delle spade di tipo Huelva, da “Alfredo Maderos Martín, Cambio de rumbo. Interacciòn comercial entre el bronce final Atlántico Ibérico y Micénico en el Mediterráneo Central. 1425-1050 A.C”). In questo articolo la spada sarda è erroneamente indicata come procedente dalla (inesistente) località di Séquestre. In realtà la spada in questione proviene da Siniscola: trovata da tombaroli fa parte di un sequestro giudiziario (da qui probabilmente l’equivoco sulla località di provenienza nell’articolo spagnolo) e ne parla ampiamente la Professoressa Lo Schiavo nel suo articolo del 1978 “Armi ed utensili
SULLE SPADE HUELVA da Siniscola”. Sardegna Centro-Orientale, dal neolítico alla fine del mondo antico. Soprintendenza ai Beni Archeologici per le Provincie di Sassari e Nuoro. Dessi. Sassari: 85-87. Di questo reperto si parla anche nell’articolo di C. Atzeni, L. Massidda, U. Sanna “Investigations and results” (in Archaeometallurgy in Sardinia. From the origins to the beginning of the Early Iron Age, 2005), in cui si asserisce che la spada di tipo Huelva di Siniscola e un’altra trovata insieme a questa sono state oggetto di analisi mineralogica. Il risultato che si aspettavano gli archeologi era di una loro fabbricazione fuori dalla Sardegna, ma
invece la composizione mineralogica delle due armi è risultata compatibile con quella di altri artefatti rinvenuti in Sardegna. Quindi, riepilogando, la maggior parte tra le spade analizzate di tipo Huelva trovate in Andalusia risultano di provenienza sarda. L’unica spada di questa tipologia trovata in Sardegna risulta anche questa di provenienza sarda. Naturalmente con solo 6 spade analizzate su 132, di cui 4 sarde e 2 ignote, è presto per attribuire alla Sardegna interamente la produzione di questa tipologia di spade. La questione andrebbe approfondita ampliando il numero di spade ana-
lizzate e magari facendo anche sulla spada sarda l’analisi degli isotopi del piombo, che è più probante che una generica analisi mineralogica, ma mi sembra che ci siano perlomeno gli elementi per mettere in dubbio l’assunto dato per scontato, anche se ad oggi ancora non verificato, che queste spade siano di produzione spagnola, e per prendere in considerazione l’ipotesi che potrebbero anche essere di fabbricazione sarda, magari realizzate appositamente per l’esportazione, secondo i gusti delle popolazioni più occidentali. CONSIDERAZIONI SULLE SPADE DI TIPO HUELVA.Valeria Putzu. Nurnet-La Rete dei Nuraghi
Espadas de lengua de carpa en la peninsula iberica, S. de Francia, Cerdelia, Italia y Sicilia; 1: Covapodre-SantAmdrés de Héo (Pontevedra), 2-3: Candelas de Tuy-Oleiros (Pontevedra), 4 : Pena Amaya (Palencia), 5 : Frechilla (Palencia), 6 : Val de Tàmega (Tras-osMontes) 7 : Teixoso (Beira Braixa) 8 : Castelo Velho de Caratào (Beira Baixa), 9 : Quinta de Erdeval (Beira Baixa) 10:Porto do Concelho (Beira Baixa), 11 : Cabezo de Araya(Càceres). 12 : El Risco (Càceres) 13 : Ronda-Carpio del Tajo (Toledo), 14 : Elvas (Alto Alemtejo), 15-16:Alemtejo-Safaru (Baixo Alemtejo), 17 : Matalascanas-Donana (Huelva), 18 : Boenos (Cadiz), 19-20 : Remanso de las Gelondrinas-Los Casellares (Sevilla), 21:Cerro de Miel (Granada) 22 : Corta de la cartuja-Arroyo Blanco (Sevilla), 23-24 : La Rinconada-Alcalà del Rio (Sevilla) 25 : Marmolejo-Villa del Rio ( Còrdoba), 26 : Rio Guadalimar-Baeza (Jaén), 27-28 : Siguenza (Guadalajara), 29 : Vigoulet-Auzil (Haute Garonne), 30 : Octon (Héreult), 31 : Barjac (Gard), 32 : Sainte Anastasie (Gard) 33 : Tarascon (Bouches du Rhone), 34 : Contigliano (Rieti), 35 : San Marinella (Lazio) 36 : Sèquestre (Nuoro), 37-38 : Castelluccio (Siracusa). 39-132 . Ria de Huelva (Huelva)
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VOLONTARIATO
Foto LaStampa
oberta (nome di fantasia, come i seguenti) lavorava in una storica biblioteca di Venezia, occupandosi di accoglienza al pubblico e movimentazione. I servizi erano esternalizzati, quindi le rinnovavano il contratto di sei mesi in sei mesi. Ma dopo l’ultimo appalto, vinto al massimo ribasso, la nuova Fondazione subentrata ha deciso di sostituire tutti i lavoratori meno qualificati con i volontari di un’associazione locale, per la maggior parte pensionati o studenti. Ora Roberta è disoccupata. Francesca dirige una piccola ma rilevante Biblioteca civica in Puglia, e dopo che due degli storici impiegati della Biblioteca sono andati in pensione, avrebbe voluto sostituirli con forze fresche e qualificate. Ma di fronte al blocco del turnover, che impediva al Comune di assumere, aveva due scelte: o chiudere la biblioteca per mancanza di personale, o stipulare una convenzione con un’associazione di volontariato, che peraltro trabocca di giovani studenti (e pure alcuni laureati) entusiasti e competenti. E così ha scelto la seconda. Paolo è l’ultimo erede di una famiglia nobiliare. Anche se vive in città, vuole aprire al pubblico l’antica villa familiare almeno nei fine settimana, perché contiene alcuni
pezzi importanti per il ‘700 napoletano, e per, con il prezzo del biglietto, aiutarsi nelle spese di manutenzione. Paolo temeva che l’investimento iniziale sarebbe stato piuttosto alto, per trovare professionisti preparati che si occupassero delle visite e della gestione e promozione del luogo. Ma poi un suo amico gli ha spiegato che avrebbe potuto dare tutto in mano a volontari, pagando al massimo una persona che li seguisse. Così Paolo si è convinto, e ora alla villa sono impiegati 23 volontari e solo uno di loro, bravissimo, che li dirige, è pagato, 4,5 euro l’ora, ovviamente in nero.
Giovanna, educatrice museale, “lavora” con contratti a chiamata per una fondazione ONLUS nei Musei lombardi, fondazione che lascia ai volontari non qualificati ampissimo spazio nella gestione di numerose attività. Viene chiamata a lavoro solo nei giorni di ponti, festivi, ricorrenze e vacanze estive, quando la disponibilità dei volontari, a causa proprio delle festività, diminuisce, o per tappare buchi in caso di imprevisti o postazioni scoperte quando, ad esempio, i volontari si ammalano. Ovviamente non riceve alcun compenso straordinario per il suo lavoro nei festivi.
CULTURALE OGGI
Potremmo andare avanti a lungo. Questo accade ovunque ogni giorno in Italia, e non è un caso o un prodotto “del mercato”. Alcune leggi, in particolare la 4/1993 (Legge Ronchey) e l’articolo 112 del Codice dei Beni Culturali del 2004, danno mandato da una parte a tutti i Musei, gli archivi e le biblioteche statali di poter integrare il personale stipulando convenzioni con associazioni di volontariato, e dall’altra sanciscono che le associazioni culturali o di volontariato siano il primo interlocutore di ogni ente pubblico (e non solo) quando si parla di valorizzazione del Patrimonio culturale. Il volontariato è una cosa
meravigliosa, il volontariato che si occupa di Beni Culturali non è da meno. Ma per colpa dei nostri legislatori (e non certo dei volontari), in questo momento in Italia è un problema enorme. Se non ne siete convinti, vi spieghiamo perché, in quattro semplici punti: -Abbatte il costo del lavoro. É una regola base del mercato: se c’è qualcuno che può offrire un determinato servizio gratis, gli stipendi di tutti gli operatori che si occupano di servizi uguali o affini ne risentiranno. Finché sarà possibile, legalmente, avere volontari a occuparsi di tutto in Musei, biblioteche, archivi e luoghi culturali in genere, anche chi volon-
tario non è vedrà costantemente abbassate le sue possibilità di guadagno, perché “guarda che ti do 7 euro l’ora solo perché i miei concorrenti fanno lavorare i volontari”. -Abbassa la qualità dei servizi. Altra cosa ovvia. Si, magari la biblioteca resta aperta lo stesso, il Museo pure, ma chi lavora gratis ovviamente non può e non deve garantire professionalità. Ciò ha conseguenze evidenti, nella percentuale di Italiani che non hanno mai visitato un Museo nel corso dell’anno corrente (aumentata negli ultimi 15 anni), o non hanno mai letto un libro (idem), con ricadute sociali pesanti. Ma non dimentichiamo le ricadute economiche: in Italia il turismo sì, aumenta, grazie a una congiuntura internazionale favorevole e al terrorismo che ha colpito la Francia e la Tunisia, ma aumenta meno che in altri Paesi, e soprattutto si configura come un turismo mordi e fuggi, poco produttivo economicamente e molto impattante per la vita delle città e dei residenti. -Crea lavoro nero. Il caso degli Scontrinisti della Biblioteca Nazionale di Roma, o di Napoli Sotterranea, non sono che la norma. Ovunque il volontariato culturale, così pensato e (de)regolamentato, crea lavoro nero. Ci sono migliaia di realtà in Italia che guadagnano usando (segue pagina 18)
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Foto ColumbusAssicurazioni
(segue dalla pagina 17) il lavoro dei “volontari”. Risulti volontario ma in realtà prendi 2-3-400 euro al mese, magari anche qualcosa di più (fino a 400 euro al mese è legale, di più no). Magari sei una persona che parla tre lingue ed è pure laureato in Storia dell’Arte, ma l’unico modo che hai per lavorare, con questa concorrenza sleale, è fingerti “volontario”. -Crea un precedente. L’avevamo già spiegato qualche tempo fa, il settore culturale è stato usato per istillare nel dibattito pubblico il concetto di “lavoro gratuito”. È giovane, può farlo gratis”, “è una cosa occasionale, quindi magari ci mettiamo dei volontari”, “beh per fare una cosa semplice come portare in giro i volantini non c’è niente di male a chiedere a volontari”… e via dicendo. Sono cose che si sentono, e sono tutte aberrazioni assurde. Perché un lavoro semplice dovrebbe essere fatto gratis? Perché i giovani devono lavorare gratis? Perché il lavoro occasionale deve essere gratuito? Tutto questo si sta rapidamente diffondendo al di fuori del settore culturale, e sta colpendo anche le professioni ordinistiche. Per questo eliminare il lavoro gratuito dal nostro settore dovrebbe interessare tutti gli altri professionisti e lavoratori. E potremmo proseguire
a lungo, con lo svilimento della professione, con l’effetto “tampone” propagandistico, che impedisce di avere una reale idea degli effetti dei tagli, e via dicendo. Eliminare il lavoro gratuito, terribile ossimoro. Non eliminare il volontariato. Si può, si deve. Il riconoscimento professionale (che passa anche, se non soprattutto, per un degno riconoscimento economico) passa anche di lì. A nostro avviso, anzi, finché ci saranno quelle assurde leggi che deregolamentano e rendono possibile “perdere il lavoro per via dei volontari”, o che pensionati vengano sostituiti da volontari, qualsiasi altro
tipo di riforma a favore dei professionisti risulterà inefficace. Il volontariato culturale, oggi, in Italia, è un problema. Sostituisce il lavoro pagato. Non per via del mercato, ma per via di precise scelte legislative: il turismo culturale continua a crescere, l’occupazione nel settore invece cala. Il Ministro, incalzato sul caso degli Scontrinisti, spiegava come tutto ciò fosse legale “ai sensi della legge Ronchey del 1993”.Vero, ma se una legge come questa ha portato a questo risultato, non è forse il caso di apportare qualche modifica? https://miriconosci.wordpress.com
Programma della Sartiglia ORE 10 - BANDO ORE 11 - ANNULLO POSTALE ORE 12 - VESTIZIONE - Domenica, vestizione de su Componidori nella sede del Gremio dei Contadini in via Aristana. - Martedì, vestizione de su Componidori nello spazio allestito dal Gremio dei Falegnami. ORE 13,15 - CORTEO ORE 13,30 circa CORSA ALLA STELLA ORE 16,30 circa CORSA DELLE PARIGLIE
Foto sasartiglia.it
SA SARTIGLIA L
a festa della Canderola a Oristano è un giorno molto importante. In questa manifestazione vengono scelti le massime autorità che sovraintendono tutte le operazione della Sartiglia. S’Oberaiu Majore del Gremio dei Contadini e Majorale en Cabo del Gremio dei Falegnami, le due massime autorità delle corporazioni locali, nominano su Componidori della propria Sartiglia. Dopo aver partecipato ai riti religiosi, la cerimonia prevede che i soci dei Gremi, accompagnanti in parata da tamburini e trombettieri, si rechino a casa dei cavalieri designati. S’Oberaiu Majoure consegna un cero adornato di fiocchi rossi a su Componidori del Gremio dei Contadini consacrandone la designazione con la preghiera al Santo protettore della corporazione Santu Giunanni t’aggiudidi. Il Majorale en Cabo consegna un cero con nastri rosa e celesti a su Componidori del Gremio dei Falegnami, invocando Santu Giuseppi t’assistada. Saranno offerti i dolci di mandorla e la vernaccia durante la giornata che si concluderà con un festa per celebrare l’investitura insieme ai gremi, i cavalieri e i numerosi appassionati della Sartiglia. Su Componidori è il protagonista supremo della manifestazione: la sua vestizione, eseguita da ragazze in costume tradizionale, viene effettuata in un luogo cosparso con petali di fiori e chicchi di grano. Dopo la solenne benedizione compiuta da Su Componidori, che asperge i presenti con un mazzo di violette e pervinche intriso d’acqua, denominato sa pippia de maju (bambina di maggio), si snoda una sfilata seguita, finalmente, dalla corsa equestre.
Fondazione Oristano Piazza Eleonora d’Arborea, 44 09170 Oristano C. F. e P. IVA 01096000953 – REA OR-132582
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ORE 18,30 SVESTIZIONE Al termine della corsa delle pariglie il corteo si ricompone e ritorna sul percorso della via Mazzini. Ormai all’imbrunire, la sfilata dei cavalli e dei cavalieri segna la fine della corsa. Al termine della sfilata il corteo formato dai trombettieri, dai tamburini, dal gremio e dai cavalieri, si dirige alla volta della sede del gremio dove è avvenuta la vestizione de su Componidori per procedere con la Svestizione. Levati il cilindro e il velo, lo straordinario rullo dei tamburi segna il momento in cui viene tolta la maschera. Da quel momento il gremio, i cavalieri e tutti i presenti si recano da lui per salutarlo e congratularsi. L’ingresso alla Svestizione è libero.
Programma Sa Sartiglia 2020 Domenica 2 Febbraio Candelora Domenica 23 febbraio - Sartiglia del Gremio dei Contadini Martedì 25 febbraio Sartiglia del Gremio dei Falegnami
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Foto unionesarda.it j.b.
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a festa di san Valentino è una ricorrenza dedicata agli innamorati e anche agli epilettici, celebrata in gran parte del mondo (soprattutto in Europa, nelle Americhe e in Estremo Oriente) il 14 febbraio. L’originale festività religiosa prende il nome dal santo e martire cristiano Valentino da Terni e venne istituita nel 496 da papa Gelasio I, andando a sostituirsi alla precedente festa pagana dei lupercalia, presumibilmente anche con lo scopo di cristianizzare la festività romana. Alla sua diffusione, soprattutto in Francia e in Inghilterra, contribuirono i Benedettini, attraverso i loro numerosi monasteri, essendo stati affidatari della basilica di San Valentino a Terni dalla fine della seconda metà del VII secolo. Sebbene la figura di san Valentino sia nota anche per il messaggio d’amore portato da questo santo, l’associazione specifica con l’amore romantico e gli innamorati è quasi certamente posteriore, e la questione della sua origine è controversa. È conosciuta, in ogni caso, la leggenda, secondo cui il santo avrebbe donato a una fanciulla povera una somma di denaro, necessaria come dote per il suo sposalizio, che, senza di questa, non si sarebbe potuto celebrare, esponendo la ragazza,
priva di mezzi e di altro sostegno, al rischio della perdizione. Il generoso dono - frutto di amore e finalizzato all’amore - avrebbe dunque creato la tradizione di considerare il santo vescovo Valentino come il protettore degli innamorati. Una delle tesi più note è che l’interpretazione del giorno di san Valentino come festa degli innamorati si debba ricondurre al circolo di Geoffrey Chaucer, che nel Parlamento degli Uccelli associa la ricorrenza al fidanzamento di Riccardo II d’Inghilterra con Anna di Boemia; tuttavia, studiosi come Henry Kelly e altri hanno messo in dubbio questa interpretazione. In particolare, il fidanzamento di Riccardo II sarebbe da collocare al 3 maggio, giorno dedicato a un altro santo, omonimo del martire, san Valentino di Genova. Pur rimanendo incerta l’evoluzione storica della ricorrenza, ci sono alcuni riferimenti storici, i quali fanno ritenere che la giornata di san Valentino fosse dedicata agli innamorati già dai primi secoli del II millennio. Fra questi, c’è la fondazione a Parigi, il 14 febbraio 1400, dell’”Alto Tribunale dell’Amore”, un’istituzione ispirata ai princìpi dell’amor cortese. Il tribunale aveva lo scopo di decidere su controversie legate ai contratti d’amore, ai tradimenti e alla violenza contro le donne. I giudici venivano selezionati in base alla loro familiarità con la poesia d’amore.
La più antica “valentina” di cui sia rimasta traccia risale al XV secolo e fu scritta da Carlo d’Orléans, all’epoca detenuto nella Torre di Londra dopo la sconfitta alla battaglia di Agincourt (1415). Carlo si rivolge a sua moglie (la seconda, Bonne di Armagnac) con le parole: “Je suis desja d’amour tanné, ma tres doulce Valentinée… “(Sono già malato d’amore, mia dolcissima Valentina). Successivamente, nell’Amleto di Shakespeare (1601), durante la scena della pazzia di Ofelia (scena V dell’atto IV), la fanciulla canta vaneggiando: “Domani è san Valentino e, appena sul far del giorno, io che son fanciulla busserò alla tua finestra, voglio essere la tua Valentina”. Inoltre, alla metà di febbraio si riscontrano i primi segni di risveglio della natura; nel Medioevo, soprattutto in Francia e Inghilterra, si riteneva che in quella data cominciasse l’accoppiamento degli uccelli, quindi l’evento si prestava a essere considerato la festa degli innamorati. Soprattutto nei paesi di cultura anglosassone, e per imitazione anche altrove, il tratto più caratteristico della festa di san Valentino è lo scambio di valentine, bigliettini d’amore spesso sagomati nella forma di cuori stilizzati o secondo altri temi tipici della rappresentazione popolare dell’amore romantico (la colomba, l’immagine di Cupido con arco e frecce, e così
via). A partire dal XIX secolo, questa tradizione ha alimentato la produzione industriale e la commercializzazione su vasta scala di biglietti d’auguri dedicati a questa ricorrenza. La Greeting Card Association ha stimato che ogni anno vengono spediti il 14 febbraio circa un miliardo di biglietti d’auguri, numero che colloca questa ricorrenza al secondo posto, come numero di biglietti acquistati e spediti, rispetto al Natale. Già alla metà del XIX secolo, negli Stati Uniti, alcuni imprenditori come Esther Howland (1828-1904) cominciarono a produrre biglietti di san Valentino su scala industriale; a sua volta, la Howland si ispirò a una tradizione antecedente, originaria del Regno Unito. Fu proprio la produzione su vasta scala di biglietti d’auguri a dare impulso alla commercializzazione della ricorrenza e, al contempo, alla sua penetrazione nella cultura popolare. Il processo di commercializzazione della ricorrenza continuò nella seconda metà del XX secolo, soprattutto a partire dagli Stati Uniti. La tradizione dei biglietti amorosi cominciò a diventare secondaria rispetto allo scambio di regali, come scatole di cioccolatini, mazzi di fiori o gioielli https://it.wikipedia.org/ wiki/San_Valentino
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ualche giorno fa, la Giunta regionale e il suo quotidiano d’appoggio si sono stupiti (oh bella!) della posizione dell’Arera, l’ente nazionale regolatore del mercato dell’energia, sulla questione del gas in Sardegna e delle sue tariffe. Solo a scopo didascalico torniamo sulla questione, perché è in realtà una questione dolorosa di ignoranza, subordinazione, manipolazione, piccoli affari collaterali che ci ferisce in profondità. Bisognerebbe cominciare dall’ultima campagna elettorale, nella quale gli unici a affermare che il problema principale era la definizione della tariffa per la Sardegna e non l’infrastruttura per la Sardegna fummo noi. Ma la campagna elettorale è acqua passata. Cerchiamo giorni più vicini. Andiamo alla conferenza stampa del Presidente della Regione e dell’assessore dell’Industria del 23 dicembre scorso. Faccio sintesi degli annunci natalizi commentata tra parentesi: 1) inizio dei lavori della dorsale sud nella primavera del 2020 (non so quanto sia vero, ma è certamente irrilevante sulla tariffa); 2) nonostante la posizione forte del governo italiano che cercava di sostituire la metanizzazione della Sardegna con il solo rafforzamento del cavo energetico attraverso una
tripolare che andava dalla Sicilia alla Campania e poi alla Sardegna (l’elettrodotto siciliano) «è stata brava l’assessora dell’Industria, Anita Pili, che ha tenuto la barra dritta per conto della Giunta portando avanti il piano di metanizzazione che abbiamo sostenuto fin dall’inizio per raggiungere tutti i bacini di distribuzione» (il governo non ha cambiato ad oggi di una virgola il suo programma che punta appunto sull’elettrodotto siciliano); 3) la dorsale alimenterà tutta la rete (impossibile e non previsto neanche dai dorsalisti); 4) il prezzo sarà equiparato a quello italiano perché «si realizzerà una connessione virtuale al resto della rete nazionale attraverso una nave metaniera già in fase di realizzazione che collegherà i due terminali di Livorno e La Spezia con il punto di aggancio in uno dei depositi costieri in fase di realizzazione nell’Isola» (non c’è alcun documento governativo che renda credibile questo annuncio). Dopo questa bella parata di fuochi di artificio, succedanea a due o tre interviste estive apparse a tutta pagina sul quotidiano d’appoggio esaltanti e esaltate per il tubone del gas, arriva, il 27 dicembre, questa delibera dell’Arera. Le parti evidenziate spiegano bene ciò che l’Arera sta ripetendo da tempo
ma provo a dirlo in italiano corrente. Sostanzialmente Arera afferma che: – non è suo compito stabilire meccanismi di perequazione nazionali italiani, ma che ciò dovrebbe essere fatto per via legislativa e comunque a valle di un analisi costi-benefici (il report dovrebbe essere pubblicato a marzo-aprile e ricorda, negli esiti preannunciati, l’analisi costi-benefici annunciata e realizzata da Toninelli sulla Tav. Tuttavia, è bene notare che Solinas ha già detto che i lavori per il tubone inizieranno comunque in primavera, senza bisogno di analisi costi-benefici. Il tubo ha le sue logiche); – che mentre l’energia elettrica è un bene con “obbligo di universalità” per cui l “elettrificazione” deve essere perseguita “ad ogni costo”, cosi non è (eh già!) per il gas perché, secondo gli italiani, un consumatore può scegliere fra altri beni fungibili come il gasolio, l’aria propanata, l’olio combustibile, il carbone, i quali non necessitano di alcuna “sovvenzione” (perequazione) da parte del sistema nazionale. Dunque la possibilità di utilizzo del gas non deve poter avvenire “a ogni costo”. L’Arera chiude con un “contentino” ovvero valutare per 3 anni una specifica componente tariffaria sui punti di riconsegna in Sardegna che non risolve nulla.
Foto ilsole24ore
GAS IN SARDEGNA Il problema però è che in Sardegna non può arrivare un tubo con il gas (il progetto del Galsi è naufragato anni fa). Come fa il costo del gas a essere dunque lo stesso della penisola italiana? Per portare il gas in Sardegna bisogna (lasciando perdere dove lo si va a prendere, che non è cosa da poco): – metterlo su una nave costruita a questo scopo; – portarlo ad un terminal costiero in Sardegna costruito per questo servizio; – stoccarlo lì; – metterlo dentro un tubone per una parte della popolazione o, senza tubo, dentro autobotti che vanno a rifornire le reti territoriali;
In alternativa un sistema ancora più dispendioso: – andare con un’autobotte a Livorno o a Barcellona. Il problema dell’energia in Sardegna è un problema di poteri nella regolazione di un mercato isolato che viene inevitabilmente sperequato se non può darsi regole da sé, adatte ai propri interessi e ai propri obiettivi. Lo abbiamo sempre detto. Lo ripetiamo per dignità non per speranza persuasiva. Ma vi è di più. E purtroppo ci sono zucche vuote che non lo vedono. Il problema è che con la prevista uscita del carbone la produzione elettrica
in Sardegna rimane senza alternative rispetto ai prodotti petroliferi. Quelli sì che in Sardegna sono in oligopolio, ma su questo Arera non indaga e la classe dirigente del Sud Sardegna, oggi egemone, fa orecchie da mercante. Tranquilli, però, Terna ha già una soluzione: fare l’elettrodotto che collega la Sicilia alla Sardegna facendo spendere, qui sì a carico del sistema nazionale, ovvero di tutti gli utenti, 2,6 MILIARDI di euro. Quindi il gas non può essere perequato, mentre l’energia elettrica viene perequata, senza analisi costi-benefici, dalla solita Terna con i soldi degli utenti, anche sardi. Risultato: – i siciliani potranno esportare tutta l’energia elettrica che ora non riescono a esportare; – in Sardegna si spegneranno le centrali di Fiumesanto e del Sulcis a carbone, con altri 500 disoccupati e senza alternative di conversione; – camperà benissimo l’oligopolio dei prodotti petroliferi dell’unica raffineria che c’è. Ma tutto questo le zucche vuote, piene di retorica, identità, dichiarazioni e fuochi d’artificio, non lo vedono. Gas in Sardegna: triste non capir niente di Paolo Maninchedda 5 Gennaio 2020 https://www.sardegnaeliberta.it/gas-in-sardegnatriste-non-capir-niente/
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Foto rossodimare
Corallo e il Riccio di mare sono due segni distintivi di Alghero. Alghero è una città dal nobile passato e un importante meta turistica dei nostri giorni. La capitale della Riviera del Corallo è conosciuta anche col nome di Barceloneta, la piccola Barcellona, per le tradizioni lasciate dalla dominazione catalano-aragonese. Il centro storico è molto affascinante e racconta il passato catalano. Da vedere la cattedrale di Santa Maria, la chiesa del Carmelo e quella di San Michele con la colarata cupola con maioliche. Se amate il mare tuffatevi nella spiaggia Le Bombarde o nelle calette del Lazzaretto. Ogni anno questi due tesori del mare vengono celebrati con una grande manifestazione, Rosso di mare, che propone un programma fitto di appuntamenti. Da queste parti il riccio di mare ha un nome, si chiama bogamarì e ha una sagra tutta sua. Molto attesa e partecipata dagli algheresi e dai visitatori la Sagra del riccio ha una grande importanza turistica oltre che culinaria. Una prelibatezza diffusa da queste parti: polpa di riccio accompagnata dal pane. La Rassegna dedicata al prelibato Riccio di Mare giunge alla sua 5° edizione. Un traguardo importante, tenuto conto della crescente pressione sulla risorsa che sta suscitando seri interrogativi in termini di sostenibilità. Già dall’anno scorso, per far fronte alla crescente domanda e evitare l’impoverimento eccessivo dei mari si sono stipulati accordi per il controllo della pesca e per la selezione di pescatori professionisti. I ricci di mare usati durante la sagra arrivano da pesca controllata.
ROSSO MARE PROFESSIONISDITI MUSEALI ? L
a Rassegna dedicata al prelibato Riccio di Mare giunge alla sua 5° edizione. Un traguardo importante, tenuto conto della crescente pressione sulla risorsa che sta suscitando seri interrogativi in termini di sostenibilità. Già dall’anno scorso, per far fronte alla crescente domanda e, parallelamente, evitare l’impoverimento eccessivo dei mari, nel tentativo di garantire un adeguato equilibrio nell’ecosistema, si è ritenuto opportuno trovare il giusto compromesso tra la necessaria esigenza di conservazione della risorsa ittica e l’altrettanto legittima aspirazione a rendere adeguatamente redditizia l’attività di pesca e di somministrazione del prodotto. Un importante accordo di filiera finalizzato alla tutela e salvaguardia del Riccio di Mare è stato firmato tra l’Associazione Pescatori Subacquei Professionali del Nord Sardegna affiliati a COLDIRETTI IMPRESAPESCA e la CONFCOMMERCIO. Allo stesso modo, anche la Regione Autonoma della Sardegna, sulla base delle risultanze di studi scientifici, che hanno evidenziato un preoccupante calo della risorsa, ha condiviso con i pescatori professionali i tempi e le modalità di raccolta con un carattere maggiormente restrittivo. Ciò nonostante, le maggiori criticità risiedono nel preoccupante fenomeno della pesca abusiva, caratterizzata dal prelievo di esemplari molto spesso sottotaglia e la successiva vendita del prodotto al di fuori dei circuiti di controllo igienico-sanitario, amministrativo e fiscale. Inoltre, poiché la polpa di riccio di mare è un prodotto alta-
Osteria delle 4 Stagioni via Carducci n. 14
le ha invitato i ristoratori ad aderire ad un’importante iniziativa, sottoscrivendo un accordo finalizzato alla tutela e salvaguardia del riccio di mare attraverso il rispetto di un capitolato d’onore, che tende a salvaguardare il futuro del Bogamarì, elemento fondante della tradizione storica Algherese. Per queste motivazioni, quest’anno, la tradizionale rassegna del riccio di mare diventerà l’occasione per una campagna di sensibilizzazione. Nei Ristoranti che sottoscrivono questo accordo e che saranno facilmente indentificabili da una vetrofania fornita dall’Amministrazione Comunale e affissa in maniera ben visibile nei propri esercizi, saranno venduti soltanto ricci prelevati dai pescatori subacquei professionali abilitati aderenti all’Associazione e selezionati nel rigoroso rispetto delle regole e delle buone pratiche che tendono a garantire la sostenibilità della risorsa ittica. Non verrà venduto alcun riccio di altra provenienza e/o privo delle necessarie certificazioni ed autorizzazioni, così da aumentarne il valore intrinseco e di mercato che si potrà dare al piatto somministrato. In questo modo i ristoratori ed i pescatori subacquei professionali del Nord Sardegna diventeranno protagonisti insieme all’Amministrazione Comunale di un’azione concreta a salvaguardia della risorsa, operando un commercio trasparente ed etico volto a combattere la pesca abusiva ed il mercato nero della polpa di riccio che ne stanno mettendo a rischio lo stato di conservazione.
Ristorante Officine Sottoprua SS 127 bis n. 21 Fertilia
L’Assessora allo Sviluppo Economico Comune di Alghero Ornella Piras
ALGHERO FEBBRAIO mente deperibile, la normativa impone il rispetto delle norme igienico-sanitarie specifiche anche da parte degli esercizi di ristorazione che effettuano la somministrazione diretta al consumatore, la cui inosservanza comporta pesanti sanzioni pecuniarie amministrative, con risvolti anche di natura penale. Le ricerche effettuate in Sardegna, inoltre, hanno permesso di evidenziare le significative differenze tra la carica microbica dei ricci provenienti dal mercato legale e quella delle gonadi acquistate dai rivenditori abusivi. I pescatori professionali, infatti, non solo sono in grado di garantire il prelievo da zone di raccolta non a rischio, ma anche di osservare corrette modalità di manipolazione, confezionamento e conservazione, che rappresentano aspetti fondamentali per il mantenimento delle caratteristiche qualitative delle gonadi di riccio di mare. Essi devono compilare giornalmente, tenere a disposizione e trasmettere mensilmente al Servizio Pesca dell’Assessorato all’Agricoltura, il “giornale di pesca”, in cui sono indicate le attività svolte, la zona e le modalità di pesca, le quantità prelevate, la destinazione del pescato, la località di sbarco e il riferimento dei documenti di accompagnamento. Inoltre, hanno l’obbligo di osservare le norme comunitarie, nazionali e regionali relative alle misure igienico-sanitarie e inerenti la tracciabilità dei prodotti della pesca. Nel periodo invernale, inoltre, molto spesso le condizioni meteo-marine avverse, non permettono loro di svolgere le normali operazioni di pesca, ciò a scapito dei notevoli investimenti sostenuti per garantire il rispetto delle norme. Per tutte queste motivazioni, l’Amministrazione Comuna-
Ristorante Dietro il Carcere via Catalogna n. 60
Ristorante Alamo via Ambrogio Machin n. 20 Ristorante Quarté Sayàl via Garibaldi n. 87 Ristorante Alguer Mia via Cipro n. 17 Ristorante Al Tuguri via Maiorca n. 113 Ristorante Al Vecchio Mulino via Don Deroma n. 3
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Foto prolocoovodda
carnevale a Ovodda si festeggia il Mercoledì delle Ceneri, “Mehuris de Lessia”, e costituisce un momento di forte identificazione della comunità con le proprie tradizioni secolari. Personaggio principale è Don Conte, fantoccio antropomorfo maschile, talvolta ermafrodito; indossa una larga tunica colorata da cui traspare una grossa pancia fatta di stracci che copre l’anima in ferro che lo sorregge. Il carnevale a Ovodda si festeggia il Mercoledì delle Ceneri, “Mehuris de Lessia”, e costituisce un momento di forte identificazione della comunità con le proprie tradizioni secolari. Personaggio principale è Don Conte, fantoccio antropomorfo maschile, talvolta ermafrodito; indossa una larga tunica colorata da cui traspare una grossa pancia fatta di stracci che copre l’anima in ferro che lo sorregge. Il volto, che può cambiare di anno in anno, viene realizzato con scorze di sughero o cartapesta, baffi posticci ed altri simili elementi. Presenta genitali accentuati che, assieme al pancione, gli conferiscono un aspetto ridicolo e alimenta la vena satirica. Viene portato in giro per il paese su un carretto trainato da un asino e addobbato con ortaggi, pelli d’animali e altri oggetti stravaganti. Il suono di un campanac-
CARNEVALE FEBB cio dà l’avvio ai festeggiamenti. Inizia così una grottesca processione alla quale si accodano tutte le persone che vogliono partecipare; non esistono percorsi obbligatori, il carretto che viene fatto vagare durante tutta la giornata per le vie del paese; non esistono regole, la gente può seguire il percorso, disperdersi in gruppi, perdersi e rincontrarsi; non esistono transenne che delimitano chi fa spettacolo da chi lo guarda. Il corteo che accompagna per le strade Don Conte è costituito da sos Intintos, uomini dalla faccia imbrattata di fuliggine, generalmente vestiti con stracci, abiti vecchi, lenzuola o coperte ma anche con lun-
ghi pastrani di orbace nero o con gambali di cuoio e vestiti di velluto, abbigliamento tipico dei pastori barbaricini. Alcuni di loro, gli Intinghidores, hanno il compito di imbrattare con polvere di sughero bruciato, “zinziveddu”, il viso di coloro che incontrano lungo il cammino; il gesto rappresenta il rituale d’ingresso alla festa, di cui si accetta il caos e l’anarchia. Intanto in piazza è allestito un ricco banchetto e s’improvvisa, intorno al fuoco e al suono della fisarmonica, “su ballu tundu”; alcuni giovani vanno di casa in casa a chiedere la questua (si tratta di solito di beni alimentari come dolci, frutta e pietanze varie); le maschere, in groppa ad
RAIO 2020 OVODDA asini o tenendo al guinzaglio animali di ogni tipo, gironzolano per il paese, mentre urla, canti ritmati, strumenti occasionali e campanacci creano una forte confusione, tipica di questa manifestazione. L’arrivo del tramonto segna la fine di Don Conte che viene prima giustiziato, poi bruciato e infine gettato in una scarpata alla periferia del paese. Da quel momento la comunità si riunisce intorno al ricco banchetto in un momento di forte aggregazione sociale. I festeggiamenti hanno fine a mezzanotte e con il ritorno alla vita normale si ristabilisce l’ordine. https://www.sardegnaturismo.it/it/eventi/carnevale-di-ovodda
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on Conte è volato giù da una scarpata, dopo il solito processo sommario. È stato arso sul rogo e con lui sono andati in fumo tutti i peccati della comunità ovoddese. Il giovedi delle ceneri più irriverente della Sardegna, con attori protagonisti tutti i cittadini del paese del pane ‘e vressa e le centinaia di amici che si sono uniti a loro in questo rituale unico nel suo genere. Perché in questo giorno la cristianità si monda dai suoi peccati, dando inizio con il rituale delle ceneri alla quaresima. Ma nella «pagana» Ovodda, la catarsi viene rimandata di qualche giorno. Perché il mercoledi de lessia è la festa dell’assurdo,
dell’irriverente e soprattutto della messa a morte del tiranno, ovvero il pupazzo don Conte. Questo altro non è che un pupazzo di cartapesta di straordinaria bruttezza, con bene esposti gli attributi maschili. Una sorta di moloch da esorcizzare a tutti i costi. Le danze frenetiche, i camuffamenti, la musica d’ogni tipo purificano la gente dalle ansie e dalle tensioni, cosi come in passato il rito liberava da dei contrasti sociali, rappacificando tutti» Anche quest’anno i tanti turisti presenti sono stati sottoposti al rito de s’intinghidura. Ovvero la colorazione di nero che segna l’affiliazione al gruppo dei festeggianti, sos intintos appunto, mascherati come capita.
Chi è ad Ovodda deve partecipare alla festa e deve cospargersi il viso di nero. «Non esiste una maschera vera e propria - spiega l’assessore alle attività produttive Franco Moro - ognuno si traveste come meglio crede. Si va da abbigliamenti con pelli ovine e caprine, con cinghie e campanacci sistemati sul schiena e collo, ad abiti in velluto a moderne parrucche. Tutti quanti però devono colorare il volto di nero. Ognuno poi dà sfogo ad allegria e divertimento come meglio crede, sempre nel rispetto delle regole locali». Il rito è cominciato la mattina presto. Tra balli sardi, musica rock e alternativa il popolo si è riversato in piazza. Per l’occasione tutte le attività commerciali hanno chiuso i battenti. Impossibile trovare un esercizio commerciale o alberghiero aperto. Il paese é una mega sala ricevimenti; in ogni casa si cucina o si offre da bere. Il clou si è raggiunto all’imbrunire, quando l’infame fantoccio è stato sistemato su un carretto trainato da un asinello e condotto alla periferia del paese a suon di improperi. E mentre musica e campanacci diventavano sempre più assordanti, il comitato cittadino ha processato e condannato il Don, decretandone la morte con il fuoco e gettandolo in un precipizio. Arso il tiranno quindi, si va a ballare e divertirsi in piazza o nelle sale di «Geriatria» e «Pediatria». www.sardegnacultura.it
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Foto musei civici cagliari
ra la fine del ‘400 e l’inizio del ‘500, l’Europa vede un periodo di grande trasformazione culturale. La scoperta dell’America nel 1492 promossa da Ferdinado II e Isabella di Castiglia, segnò l’inizio di una nuova politica dei principali paesi europei. L’interesse verso il nuovo mondo e le sue possibili immense ricchezze, cambiò il baricentro economico che, dal centro del mediterraneo, si spostò verso le Americhe. La Sardegna, che era stato un avamposto economico-politico importante perchè al centro del Mediterraneo, si trovò ben presto ad essere spodestata della sua importanza. Il danno economico fu mitigato parzialmente dal valore strategico che ancora l’isola era ancora in grado di dare come avamposto contro eventuali aggressioni saracene; nel 1492 gli arabi di Granada sono definitivamente allontanati dalla Spagna del re Ferdinando, ma non le minacce di incursioni dal Nord Africa. Nel 1519, tre anni dopo la morte del re e il breve periodo di governo della figlia Giovanna, salì al trono Carlo d’Asburgo nipote di Ferdinando e Isabella di Castiglia da parte materna e Massimiliamo I d’Asburgo da quella paterna; la dinastia aragonese si fuse con quella austriaca creando un grande impero. Una parte della società sarda, incominciò ad aderire al rinnovamento culturale del Rinascimento, un’altra parte continuò a perpetrare una politica medievale feudale per sviluppare i privilegi acquisiti. A Cagliari la società cittadina incominciò progressivamente ad uscire da una logica oligarchica della città; fu concesso progressi-
MENTRE LEONARDO... vamente di abitare il Castello anche a persone non aragonesi-catalane, fatto assolutamente proibito in precedenza. Dal 1509 al 1520, la Sardegna fu attaccata ripetutamente da pirati saraceni che profusero il terrore nelle città costiere. Carlo V (o I, secondo il regno di Spagna), mosse allora da Cagliari una potente flotta contro Tunisi in quanto base dei navigli dei predoni. Cagliari, secondo una fedele rappresentazione riportata nella celebre Cosmographia Universale del Münster edizione francese del 1552. E’ possibile notare le mura del Castello (la cittadina interna abitata dai Catalani), e la città fuori dalle mura abitata dai sardi e da altre popolazioni. Fino al XVI, non era consentito ai non spagnoli di soggiornare all’interno delle mura. A partire dal ‘500, abitare all’interno della città viene progressivamente consentito. I Canyelles, da una parte rafforzarono il loro impegno politico in Spagna e Sardegna compresa la difesa dell’Isola dalle incursioni arabe e dall’altra contribuirono al rinnovamento culturale della Sardegna. Giovanni (Joan I) Canyelles, grazie al grande prestigio del padre Pere III, potè ricoprire cariche istituzionali sia a Cagliari sia a Barcellona. La famiglia, partecipò in prima linea anche al rinnovamento culturale, rinunciò infatti ad ambire proprietà feudali attraverso matrimoni strategici rispetto al passato, ma si adoperò per la promozione culturale della società sarda. (Jaume Anton) Joan I Canyelles detto il maggiore (sec. XV -XVI) mercante e consigliere di Cagliari Jaume Anton Joan figlio primogenito di Pere III, ereditò la metà dei beni del padre e grazie al prestigio della famiglia riuscì a esercitare
IN SARDEGNA sia la professione di mercante a Barcellona, sia divenire a Cagliari consigliere. Tra i figli ebbe Joan II cavaliere al servizio di Carlo V. Nicolau Francesc Canyelles (sec. XV -XVI) Giurato Capo di Iglesias Nicolau Francesc, verosibilmente primogenito di Julià I (cugino di Pere III), ottenne la carica di Consiliarium in capite di Cagliari. Visse però principalmente a Iglesias divenendo Giurato capo, sono suoi i figli Sebastian (giudice della reale udienza) e Nicolau (noto vescovo do Bosa) entrambi nati ad Iglesias. Joan II de Canyelles detto il minore (1497 -1563) cavaliere e ufficiale di Carlo V Operò come notaio principalmente a Barcelona fino al 1545, fu compilatore della Camara Imperiale, Procuratore de la Diputación della Generalidad de Cata-
luña, Consigliere quinto e secondo. Si sposò con Marquesa da cui ebbe Juan III. Ebbe discendenza che si stabilì definitivamente a Barcellona: il cavaliere Giuseppe (Josè) Canyelles di Barcellona presente alle Cortes del 1626 fu infatti un suo diretto discendente. Grazie alla posizione di prestigio raggiunta a corte dal nonno e del padre, riuscì a divenire tra i cavalieri più vicini a Carlo V d’Asburgo e insignito dello Speron d’oro; si distinse in terra e mare e per le imprese compiute, lo stesso imperatore gli concesse il 24 febbraio 1530 un diploma con stemma composto da: scudo d’oro con una pianta di cannella sormontata dall’aquila imperiale con scettro, spada e coronata. Sebastià Canyelles (sec.XVI) Figlio di Nicolau Francesc, divenne nel 1562 giurato capo di Iglesias e giudice della Reale Udienza. Fu inoltre ammesso agli Stamenti del Parlamento sardo di Coloma negli anni 1572-74, non è nota una sua discendenza. Nicolau Canyelles (1515 - 1585) Nicolau, figlio di Francesc Nicolau e di Beatrice Delsney, è destinato a divenire il più celebre personaggio della casata. La sua azione culturale testimonia il passaggio della Sardegna dalla cultura medievale a quella rinascimentale; fondò nel 1566 a Cagliari la prima tipografia dell’isola. Nicolau nacque ad Iglesias nel 1515, studiò nella sua città natale poi a Cagliari e infine a Roma. Venne ordinato sacerdote conseguendo la laurea in utroque nel 1548. Grazie alle sue doti di oratore fu nominato prelato domestico (commensale) di Papa Giulio III che apprezzava la sua profonda cultura. A Roma approfondì la sua conoscenza del greco ebraico e del siriaco; al ritorno in Sardegna nel 1551, il Pontefice lo raccomandò agli arcivescovi di Cagliari e Oristano e godette dei benefici delle prebende di Villacidro, Serramana, Nuraminis, Segolai, Arixi e Senorbì; e inoltre Sedilo, Isili, Sorgono e Tadasuni. Queste risorse economiche furono alla base della fondazione della prima tipografia in Sardegna che nel 1566 diede alla luce il suo primo libro: il Catechismo di Edmondo Auger in lingua spagnola. Nel 1560, Nicolò venne nominato canonico della cattedrale e nel 1573 vicario generale della diocesi di Cagliari. Intanto la tipografia, grazie alla sapiente impostazione del tipografo Vincenzo Sembenino di Salò, riuscì fin dal 1566 a stampare con pregevoli caratteri (Typis Nicolai Canelles), opere religiose e poemi. Nel 1567, al fine di diffondere i principi del concilio di Trento (che venne chiuso nel 1563), diede alle stampe i decreti nel Canones et Decreta Sacrosancti Oecumenici et generalis Conilii Tridentini. Nel 1577 Nicolò Canyelles venne nominato vescovo di Bosa: improntò la sua attività pastorale alla promozione della cultura tentando di riscattare il sottosviluppo dell’Isola. la sua opera, nel contesto arretrato della società sarda dell’epoca, ancora impostato secondo privilegi oligarchici medievali, non trovò consenso nelle autorità civiche (specialmente quelle di Bosa) che lo osteggiarono ripetutamente. Nicolò morì a Cagliari nel 1585 durante uno dei suoi numerosi viaggi lasciando la più antica e vasta biblioteca dell’Isola (più di tremila volumi oggi sono conservati nella Biblioteca Universitaria di Cagliari). http://www.canelles.it/rinascimento.html
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E’
Foto studio esseci
una ‘’bufala’’, nata da un’errata interpretazione dei codici leonardeschi da parte di uno studioso inglese, l’ipotesi di un viaggio di Leonardo da Vinci in Sardegna. Lo sostiene Leonardo Vezzosi, direttore del Museo Ideale di Leonardo a Vinci (Firenze), dopo una nuova ricognizione sui manoscritti conservati alla Biblioteca Reale di Windsor che riportano gli studi sul corso dell’Arno a valle di Firenze. Fra i celebri studiosi del genio rinascimentale l’inglese John McCurdy ha sempre sostenuto che la nota ‘’In Sardigna allentenoro’’ riportata nel Codice Atlantico, verso il 1496, fosse la prova di un viaggio nell’isola. Vezzosi smentisce questa versione, facendo presente che quando il grande artista scriveva ‘’Sardigna’’ non pensava all’isola, dove non sarebbe mai stato, ma indicava molto piu’ semplicemente una localita’ compresa a sud di Firenze, fra la riva del fiume Mugnone e Porta a Prato. Vezzosi smonta anche un altro riferimento che secondo alcuni storici dell’arte proverebbe l’ipotesi del viaggio in Sardegna. La frase di Leonardo nel ‘’Manoscritto L’’, in cui si parla dei ‘’Mori alle Mulina’’, interpretata impropriamente come un accenno allo stemma della Sardegna, in cui figurano i Quattro Mori, sarebbe in
L’UOMO VITRUVIANO E LA
realta’ sempre un riferimento alla localita’ fiorentina della Sardigna. Nel frattempo uno studioso ed uno storico sardi ci iniziavano al tema “Leonardo e i retabli pittorici della Sardegna”. Dal sottotitolo “I dipinti come chiave interpretativa per accedere agli enigmi dell’uomo vitruviano di Leonardo da Vinci e della più antica Divina Proporzione”, presentata alla Pinacoteca Nazionale di Cagliari, Piazza Arsenale 1. La loro forma singolare e la ripetizione costante della loro scansione metrica e compositiva ci regala sviluppi dai risvolti inesplorati e di inevitabile “clamore”. A svelare un risultato davvero inatteso sono stati il Direttore del Polo Museale della Sardegna, Giovanna Damiani, e lo storico dell’arte Roberto Concas, autore dello studio. Una lunga ricerca durata quasi trent’anni, ha permesso di ritrovare la formula iniziale di un antichissimo codice. Tra le centinaia di opere verificate, anche di grandissimi artisti, il famoso disegno dell’uomo vitruviano che, esaminato con puntigliosa attenzione, svela gli enigmi di un possibile “inganno” ordito da Leonardo da Vinci e rimasto celato, a tutti, per cinque secoli. L’incontro propone un approfondimento con molte inedite notizie che, tra l’altro, illustrano proprio la genesi, i risultati, gli sviluppi, e i prossimi obiettivi. https://studioesseci.net/mostre/linganno-delluomo-vitruviano
Foto https://www.cagliaripost.com/
DIVINA PROPORZIONE G
iovedì 19 novembre 2019 alle ore 18.00, nella Sala Conferenze della Pinacoteca Nazionale di Cagliari presso la Cittadella dei Musei, nel corso di una presentazione, dal titolo “Dai Retabli pittorici della Sardegna all’uomo vitruviano di Leonardo da Vinci’, il Direttore del Polo Museale della Sardegna Giovanna Damiani e lo storico dell’arte Roberto Concas autore dello studio, ci hanno parlato del risultato di uno studio durato trent’anni. Al centro di questa lunga analisi storica e scientifica c’è l’Uomo Vitruviano, una delle più celebri opere di Leonardo da Vinci. In quel disegno il grande artista e scienziato italiano, di cui ricorrono quest’anno i 500 anni dalla morte, ha celato la chiave interpretativa della “Divina Proporzione” indicata come scienza segretissima dal matematico Luca Pacioli, che per anni ha collaborato con Leonardo. L’uomo Vitruviano, i retabli, le opere anche quelle dello stesso Leonardo, Raffaello, Mantegna Michelangelo e di tutti gli artisti che hanno operato in questi 14 secoli, utilizzano un identico algoritmo, cioè una semplice sequenza di operazioni aritmetiche, che vengono applicate in maniera precisa e inoppugnabile. Dunque una prova di ordine matematico che Leonardo ha voluto tramandare attraverso l’Uomo Vitruviano in un disegno che nasconde molteplici segreti, come una doppia figura (l’uomo giovane e quello maturo)
e un gioco di specchi che hanno celato la soluzione, trasformando il tutto in un vero e proprio enigma. Ora però svelato con una scoperta che rivoluziona gli studi della storia dell’arte. L’algoritmo ritrovato diventerà, per questa trilogia, il vero fil-rouge, dove nessuna trama, neppure di un thriller storico, avrebbe potuto comprendere tante e tali complesse relazioni, seguendo il filo della soluzione enigmisticamente intrecciato, niente di meno che da Leonardo da Vinci. Infatti, tra le moltissime opere prese in esame per comprovare l’algoritmo, tra le centinaia di opere esaminate, è capitato il disegno di Leonardo conosciuto come “l’uomo vitruviano” realizzato, a matita e inchiostro, intorno al 1490 in un formato di circa 34×24 cm. Sono diversi i particolari che non quadrano in questo meraviglioso disegno: la figura leggermente diversa nelle misure tra la parte destra e sinistra, il cerchio non perfetto, il quadrato con i lati verticali leggermente inclinati verso l’esterno, ma soprattutto la singolarità delle doppie gambe dritte e divaricate, e ancora i segni per la divisione in quattro parti della figure e molto altro”. L’incontro ha anche annunciato i prossimi obiettivi dello studio. maurizio.bistrusso@beniculturali.it pm-sar.comunicazione@beniculturali.it https://studioesseci.net/
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Foto museo archeologico cagliari
oncluse le indagini effettuate dal geofisico Ranieri nel sottosuolo di San Giovanni di Sinis e nelle profondità dello stagno di Cabras. C’è un sito che potrebbe andare oltre i 15 ettari con strade, costruzioni quadrate o quadrangolari, nuovi filari di tombe, recinti, cisterne e gruppi di capanne circolari. Nel sottosuolo del Sinis antichi edifici, strade, capanne e tombe. Dopo sei anni e mezzo esatti, si è chiusa la ricerca su Mont’e Prama e dintorni da parte del geofisico Gaetano Ranieri che si è avvalso di sofisticata strumentazione georadar. La relazione conclusiva è stata consegnata alla Fondazione di Sardegna e riporta i risultati raggiunti e le prospettive future sia nel campo geofisico-tecnologico che in quello archeologico e museale. Oltre che a Mont’e Prama la ricerca è stata portata nel villaggio e nell’ipogeo di San Salvatore di Sinis e nello stagno di Cabras. I risultati raggiunti parlano di un sito archeologico ben più vasto di quello scavato negli anni ‘70 del secolo scorso e nel 20142017. E descrivono un sito che potrebbe andare oltre i 15 ettari indagati ogni 10 cm, un sito con strade, costruzioni quadrate o quadrangolari, nuovi filari di tombe, recinti , forse cisterne e gruppi di capanne circolari .
Lo studio effettuato negli ultimi anni riguarda il villaggio e l’ipogeo di San Salvatore di Sinis e lo stagno di Cabras. “San Salvatore di Sinis si rivela come un sito sorprendente”, scrive Ranieri, “la ricchezza dei disegni rivelati, dimenticati e nascosti dal degrado e dall’incuria per centinaia di anni, svela e verifica alcuni miti del passato, racconta episodi tragici, documenta una ricchezza di conoscenze e un modo di vivere complesso e ardito. I disegni appaiono finalmente come nessuno li ha mai visti addirittura fino ad oggi. Lo stagno di Cabras”, aggiunge, “è una vera sorpresa.” Esplorato per circa un
sesto della sua estensione, racchiude costruzioni trapezoidali (in sezione) sotto oltre 9 metri di sedimenti , verificate con due metodi distinti e con diverso significato fisico. Un paleo-lago e i relativi immissari raccontano un paesaggio antico straordinario, che varrebbe la pena conoscere meglio e quindi con altre ricerche e campionamenti. Naturalmente parleremo diffusamente di quanto trovato in contesti scientifici di assoluto rilievo internazionale, ma non tralasceremo la divulgazione in ambito regionale, nazionale e internazionale”. Redazione Cagliari Online h t t p s : / / w w w. c a s t e d duonline.it/monte-prama-edifici/
Foto gaetanoranieri.it
MONT’E PRAMA Il
geofisico Gaetano Ranieri, autore, insieme all’archeologo Raimondo Zucca, di un progetto finanziato dalla Fondazione di Sardegna e dall’assessorato regionale alla Cultura, che prevedeva l’utilizzo del Georadar. Ranieri, nelle sale del Parco dei Suoni, ha mostrato al pubblico la grande quantità di documenti cartografici originati dall’indagine, eseguita con il georadar su gran parte della collina di Mont’e Prama. Si vedono distintamente corpi di varie dimensioni, squadrati e tondeggianti, linee orizzontali e verticali precise e perfino una struttura che poi si è rivelata una statua con la testa ancora attaccata al busto. Tutto ben evidenziato da una scala cromatica che metteva in rilievo le anomalie nel sottosuolo. Immagini che hanno alimentato la curiosità e stimolato le domande del pubblico. Ranieri però non ha mai affermato che ad ogni anomalia corrispondesse un reperto: «Per sapere di cosa si tratta – ha osservato – occorre indagare». Gli scavi, però, non dovrebbero riprendere in tempi brevi. Prima occorre provvedere a espropriare i terreni confinanti con l’area da indagare. E dove, nel 2013, è passato il georadar che ha rilevato la presenza delle anomalie mostrate da Ranieri, nel 2015 è stato impiantato un vigneto: oltre sette ettari coltivati a Vernaccia, Vermentino, Nieddera e Cannonau più altri 2 ettari e mezzo di piante madri per legno americano, cioè: portainnesto per la vite. Circa 11.500 viti, gran parte delle quali innestate e già in pro-
duzione. Eppure le ricerche effettuate da Gaetano Ranieri (primo studioso a utilizzare il georadar nell’esplorazione sistematica del sottosuolo) e dall’archeologo Raimondo Zucca, rivelarono fin da subito che in quel terreno sarebbe stato opportuno approfondire le ricerche. I risultati delle indagini, verificate e georeferenziate, infatti vennero consegnati ai finanziatori del progetto e alla soprintendenza, che concesse le autorizzazioni per l’impianto del vigneto. A questo punto l’auspicio di tutti è che chi deve provvedere a formalizzare gli espropri, pagando il giusto al legittimo proprietario, lo faccia quanto prima e che gli scavi riprendano. La collina di Mont’e Prama potrebbe davvero rappresentare la scoperta archeologica più importante del secolo, come è stato affermato più volte dagli stessi studiosi che fin dal 1974, dopo il rinvenimento del primo frammento di statua da parte del contadino Battista Meli, indagarono nel sito, riportando alla luce le statue dei guerrieri, dei pugilatori e degli arcieri e molti altri importantissimi reperti, datati tra l’XI e l’VIII secolo a. C. Nello stesso periodo, a Xi’an, in Cina, Yang Zhifa, anche lui un contadino, mentre scavava un pozzo rinvenne le prime statue dei soldati terracotta. Da allora Xi’an ogni anno è meta di milioni di visitatori. A Mont’e Prama, invece, i turisti si devono accontentare di guardarlo da dietro le maglie di una rete di recinzione. Piero Marongiu www.lanuovasardegna.it/
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U
Foto Dietrich Steinmetz
no degli storici viali alberati di Cagliari potrebbe presto cambiare aspetto: il progetto del Comune su viale Trieste prevede la “razionalizzazione” degli alberi che qui hanno dimora da un secolo. Secondo l’idea dell’amministrazione, i ficus retusa sarebbero pericolosi per i sottoservizi e il passaggio di pedoni e veicoli: andrebbero quindi mantenuti ma con un piano di razionalizzazione. “Siamo molto preoccupati all’idea che alcuni degli alberi viale Trieste, uno degli storici viali alberati della città caratterizzato dalla presenza dei grandi ficus retusa ormai centenari, possano essere eliminati – commentano gli esponenti del centrosinistra in Consiglio comunale. Per questo motivo abbiamo preparato una mozione con cui invitiamo il sindaco e la giunta a valutare ogni soluzione possibile per scongiurare l’abbattimento dei ficus. Nella stessa mozione chiediamo che venga preso un impegno preciso per la creazione dei percorsi ciclabili, in collegamento con quelli già previsti dal Bando Periferie e dal corridoio ciclabile Cagliari-Elmas”. L’intervento su viale Trieste, previsto con la delibera della Giunta n. 183 del 23 dicembre, sarebbe ‘necessario e urgente - si legge nella relazione allegata alla delibera - in quanto volto alla soluzio-
FICUS & DINTORNI
ne di problematiche dovute alla vetustà dell’infrastruttura stradale e dei relativi sottoservizi, aggravata dalla presenza dei ficus retusa caratterizzanti il viale nonché degli apparati radicali che compromettono la fruizione dei marciapiedi, delle aree di parcheggio, nonché della stessa fruibilità veicolare’. Il progetto, per ora nella fase preliminare, prevede anche un intervento sul verde che costituisce, come si legge nella relazione, ‘la principale criticità del viale, insieme all’usura dell’infrastruttura stradale’. Ancora secondo la relazione, ‘gli apparati radicali sono causa di danneggiamento dei sottoservizi. La presenza degli alberi con relativo fogliame in caduta, bacche e il deposito di escrementi dei volatili costituisce inoltre elemento di pericolo per il traffico veicolare/pedonale nonché elemento di disagio anche dal punto di vista igienico-sanitario’. “Nel progetto – sottolineano i consiglieri dei gruppi Progressisti, Pd, Sinistra per Cagliari e Progetto comune – si parla di tre opzioni: il mantenimento, la sostituzione o la razionalizzazione degli alberi; confidiamo che l’amministrazione si impegni a prediligere la soluzione che garantisca di mantenere i ficus”.“Siamo d’accordo sul fatto che il viale abbia bisogno di una riqualificazione (sottolinea Francesca Mulas, Progressisti, prima firmataria della mozione) (segue pagina 36)
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(segue dalla pagina 34) e che i marciapiedi e la strada debbano essere sistemati, ma non possiamo pensare che gli alberi che abbelliscono il viale dagli anni Venti del secolo scorso vengano eliminati. Non dimentichiamo che viale Trieste è una strada a traffico intenso, e che gli alberi svolgono una funzione preziosa nell’assorbimento dell’anidride carbonica, nella produzione di ossigeno e nella protezione da afa e calura. Come amministratori abbiamo il dovere di studiare le soluzioni più sostenibili per rispettare e proteggere il prezioso patrimonio verde della nostra città”. con Giacomo Pisano, Stenfio Ferrando, Leila Delle Case et Gianni Yannino Dettori. CAGLIARI, DI #FICUS E DINTORNI: NO ALLA ‘RAZIONALIZZAZIONE’ DEGLI ALBERI DI VIALE TRIESTE (di Giulia Andreozzi Marco Benucci Marzia Cilloccu Andrea Dettori Francesca Ghirra Matteo Lecis Cocco-Ortu Fabrizio Marcello Matteo Massa Francesca Mulas Rita Polo Guido Portoghese Anna Puddu e Camilla Soru https://www.facebook. com/francesca.mulas. fiori/profile
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nonni fenici dei cagliaritani, sepolti nelle loro grotte nel ventre del colle di Tuvixeddu, tacciono. Sopra le loro teste, però, sta per riaprirsi la rissa politica e giudiziaria che da un quarto di secolo agita ormai il capoluogo sardo: quale sarà il giudizio finale nello scontro sulla cementificazione edilizia dell’antichissimo sepolcreto, la più grande e la più importante necropoli punica del Mediterraneo? Cosa dirà la Cassazione: darà ragione ai palazzinari bloccati dai vincoli paesaggistici quando già avevano in tasca un accordo di programma con il Comune o alla Regione che era intervenuta infine per fermare con un vincolo la cementificazione? Non si tratta solo di una (nobile) questione di principio sulla tutela del paesaggio. Su quella sono già da tempo intervenute un po’ tutte le associazioni ambientaliste e culturali, dal Fai a Italia Nostra, da Amici della terra ad Archistoria, dai Verdi a Ipogeo e su tutti il Gruppo di intervento giuridico di Stefano Deliperi che da anni martella sul tema. In ballo, infatti, c’è una questione di soldi. Tanti soldi. Una manciata di settimane, infatti, e la Cassazione dovrà decidere se confermare o meno la sentenza della Corte d’Appello di Roma che due anni fa ribaltò lo strabiliante Arbitrato che aveva riconosciuto ai costruttori un mostruoso risarcimento per il mancato guadagno. Dovesse farlo, questi non avrebbero scampo: sarebbero obbligati finalmente a ridare quel malloppo che la Regione fu costretta a dar loro. Ma è meglio ripartire dall’inizio. Cioè dal lontano 1995, quando i difensori della necropoli, già degradata dallo scorrere di circa due millenni e mezzo dall’Era dei Fenici in Sardegna, tra il VI ed il III secolo a.C., ma più ancora devastata dallo scriteriato sfruttamento del «colle dei piccoli fori» (questo vuol dire, Tuvixeddu) usato fino agli anni ‘70 come cava dall’Italcementi, si opposero «al progetto di cementificazione dell’area, oggi solo in parte vincolata nonostante le testimonianze archeologiche che contiene». E chiesero espressamente all’Amministrazione comunale che il colle fosse «classificato zona inedificabile nel Nuovo Piano urbanistico comunale». Macché. A dispetto del buon senso e di ogni pubblico appello, passò nel 2000 la linea contraria. La quale prevedeva, col contrappeso di una modesta area archeologica e di un museo, l’edificazione un grande complesso edilizio per un totale di quattrocento «unità abitative». Scelta contestatissima. Finché, qualche anno dopo, grazie anche alle denunce su quelle tombe trasformate in depositi di immondizia, il governatore sardo Renato Soru bloccò i lavori in corso: la precedenza andava data agli interessi pubblici.
Una decisione coraggiosa e temeraria. Nonostante varie sentenze abbiano accolto questo principio, non son mancati negli anni numerosi verdetti che, dovendo scegliere tra gli interessi di tutti e quelli di un privato ma fissati nero su bianco da un patto precedente, fosse pure un patto sbagliato firmato in un momento sbagliato e voluto da un sindaco sbagliato, hanno optato per gli interessi privati. Tanto più in casi come quello di Tuvixeddu dove, essendo in ballo da una parte gli interessi di un ente pubblico (lo Stato, una regione, un comune…) e dall’altra un’azienda privata, quest’ultima aveva la possibilità di evitare il confronto in tribunale ricorrendo a un giudizio con tre arbitri, uno nominato dall’ente pubblico, uno dal privato e il terzo scelto dall’uno e dall’altro. Una «scorciatoia» oggi meno facile da percorrere ma qualche anno fa diffusissima. Anche grazie alle percentuali talora stratosferiche riconosciute ai tre arbitri. Ma soprattutto a un andazzo che vedeva i privati vincere nel 97 per cento dei casi. Proprio Tuvixeddu, del resto, dice tutto: a decidere furono due arbitri su tre (il presidente emerito della Corte Costituzionale Franco Bilé e il docente universitario Nicolò Lipari) contro il parere diverso del terzo arbitro, il giudice in pensione Giovanni Olla, che pretese che nella sentenza fosse precisato il suo dissenso radicale.
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GUSTAV& MILIONI KLIMT TOMBE
Soprattutto sull’ammontare del risarcimento da riconoscere ai costruttori, la società Nuove iniziative Coimpresa di Gualtiero Cualbu. Una cifra mostruosa: settasntasei milioni di euro, quasi 200mila per ogni alloggio non edificato. Una somma immensamente più alta di quella calcolata da Olla: 3.650.000 (tre milioni seicento cinquanta mila) euro. Polemiche su polemiche. Di qua il giudizio pesantissimo del nuovo governatore di destra, Ugo Cappellacci, che costretto tira fuori i soldi: «Le conseguenze di una guerra ideologica portata avanti dalla giunta di Renato Soru rischiano ora di pesare sulla collettività». Di là la replica del predecessore: «Il Tribunale di Cagliari e il Consiglio di Stato hanno già stabilito la legittimità dei comportamenti dell’amministrazione regionale nella passata legislatura di centrosinistra, e certamente i Tribunali ordinari annulleranno la decisione del Collegio arbitrale». La Corte d’Appello di Roma, nella primavera 2018, gli darà ragione. Sia sul diritto-dovere che aveva di correggere l’accordo di programma per il complesso residenziale in un’area archeologica come Tuvixeddu. Sia sulla sproporzione del risarcimento. Ridotto a un terzo della stessa stima dell’arbitro Olla: un milione e 200mila euro. (segue alla pagina 38)
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(segue dalla pagina 37) Ora, dicevamo, tocca alla Cassazione. E se i giudici supremi dovessero decidere infine di confermare la sentenza dell’Appello e condannare i costruttori a restituire quella cifra enorme, cresciuta negli anni con l’inflazione fino a 83 milioni? Quei soldi sono stati accantonati in attesa del verdetto definitivo? Man mano che si avvicina il momento della decisione, crescono in Sardegna dubbi e apprensioni. Massimo Zedda, l’ex sindaco di Cagliari che affrontò Christian Solinas alle ultime Regionali, attacca: «Cosa ha fatto, in questi mesi, per recuperare coattivamente l’ingentissimo credito di oltre 83 milioni di euro di risorse pubbliche»? E chiede in un’interpellanza se quei soldi non ancora restituiti ci siano ancora o siano «transitati in altre società dello stesso gruppo privato» e perché la Regione sardo-leghista abbia «pagato un ulteriore importo di 556.883 euro con un debito fuori bilancio per un secondo arbitrato, proposto dal gruppo privato per paralizzare gli effetti restitutori» del denaro. Il governatore per ora (c’era di mezzo il Natale) non ha ancora risposto. Ma potete scommettere, con l’aria che tira anche sul ripristino delle otto province e delle otto Asl, che delle tombe puniche sentiremo parlare ancora… Gian Antonio Stella https://www.corriere.it/
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C’era una volta
Sergio Leone
Museo dell’Ara Pacis fino al 3 maggio 2020 Tutti i giorni ore 9.30-19.30 Lungotevere in Augusta (angolo via Tomacelli 00100 Roma (RM) Tel.060608 info.arapacis@comune.roma.it
http://www.arapacis.it/
ergio Leone ha reso leggendario il racconto filmico della storia di miti come il West o l’America. Dopo oltre mezzo secolo, lui stesso è diventato mito: si chiama infatti “C’era una volta Sergio Leone”, parafrasando i titoli dei suoi celebri film. C’era una volta Sergio Leone: è il titolo evocativo della grande mostra all’Ara Pacis con cui Roma celebra, a 30 anni dalla morte e a 90 dalla sua nascita, uno dei miti assoluti del cinema italiano. Promossa dall’Assessorato alla Crescita culturale di Roma Capitale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, l’esposizione arriva in Italia dopo il successo dello scorso anno alla Cinémathèque Française di Parigi, istituzione co-produttrice dell’allestimento romano insieme alla Fondazione Cineteca di Bologna. La mostra è realizzata con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo , in collaborazione con Istituto Luce - Cinecittà, Ministère de la culture (Francia), CNC – Centre national du cinéma et de l’image animée, SIAE e grazie a Rai Teche, Leone Film Group, Unidis Jolly Film, Unione Sanitaria Internazionale, Romana Gruppi Elettrogeni Cinematografici. Digital Imaging Partner: Canon. Sponsor tecnici: Italiana Assicurazioni, Hotel Eden Roma, Bonaveri. L’ideazione è di Equa di Camilla Morabito e il supporto
Egon raffaeladc
GUSTAV KLIMT
organizzativo di Zètema Progetto cultura. Il percorso espositivo – curato dal direttore della Cineteca di Bologna, Gian Luca Farinelli, in collaborazione con Rosaria Gioia e Antonio Bigini – racconta di un universo sconfinato, quello di Sergio Leone, che affonda le radici nella sua stessa tradizione familiare: il padre, regista nell’epoca d’oro del muto italiano, sceglierà lo pseudonimo di Roberto Roberti, e a lui Sergio strizzerà l’occhio firmando a sua volta Per un pugno di dollari con lo pseudonimo anglofono di Bob Robertson. Nel suo intenso percorso artistico Sergio Leone attraversa il peplum, (filone cinematografico storico-mitologico), riscrive letteralmente il western e trova il suo culmine nel progetto di una vita: C’era una volta in America. A questo sarebbe seguito un altro film di proporzioni grandiose, dedicato alla battaglia di Leningrado, del quale rimangono, purtroppo, solo poche pagine scritte prima della sua scomparsa. Leone, infatti, non amava scrivere. Era, piuttosto, un narratore orale che sviluppava i suoi film raccontandoli agli amici, agli sceneggiatori, ai produttori, all’infinito, quasi come gli antichi cantori che hanno creato l’epica omerica. Ma ciò nonostante, il suo lascito è enorme, un’eredità creativa di cui solo oggi si comincia a comprendere la portata. I suoi film sono, infatti, “la Bibbia” su cui gli studenti di cinema di tutto il mondo imparano il linguaggio cinematografico, mentre molti dei registi contemporanei, da Martin Scorsese a Steven Spielberg, da Francis Ford Coppola a Quentin Tarantino, da George Lucas a John Woo, da Clint Eastwood ad Ang Lee continuano a riconoscere il loro debito nei confronti del suo cinema. Le radici del cinema di Sergio Leone affondano, naturalmente, anche nell’amore per i classici del passato – in mostra i film dei giganti del western, da John Ford a Anthony Mann – e rivelano un gusto per l’architettura e l’arte figurativa che ritroviamo nella costruzione delle scenografie e delle inquadrature, dai campi lunghi dei paesag-
gi metafisici suggeriti da De Chirico, all’esplicita citazione dell’opera Love di Robert Indiana, straordinario simbolo, in C’era una volta in America, di un inequivocabile salto in un’epoca nuova. Per Leone la fiaba è il cinema. Il desiderio di raccontare i miti (il West, la Rivoluzione, l’America) utilizzando la memoria del cinema e la libertà della fiaba, entra però sempre in conflitto con la sua cultura di italiano che ha conosciuto la guerra e attraversato la stagione neorealista. A partire da Per qualche dollaro in più Leone può permettersi di assecondare la sua fascinazione per il passato e la sua ossessione documentaria per il mito curando ogni minimo dettaglio. Perché una favola cinematografica, per funzionare, deve convincere gli spettatori che quello che vedono stia accadendo realmente. Seguendo queste tracce, la mostra sarà quindi suddivisa in diverse sezioni: Cittadino del cinema, Le fonti dell’immaginario, Laboratorio Leone, C’era una volta in America, Leningrado e oltre, dedicata all’ultimo progetto incompiuto, L’eredità Leone. Sarà inoltre pubblicato dalle Edizioni Cineteca di Bologna il volume La rivoluzione Sergio Leone, a cura di Christopher Frayling e Gian Luca Farinelli. http://www.arapacis.it/it/ mostra-evento/
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recento pecore nere (di Arbus) con un guardiano bianco: è lui, Babà, di professione cane pastore, a sovvertire i ruoli e costituire il gregge di cui è protettore la proverbiale “pecora nera della famiglia”. Un diverso fra le diverse, non solo per questioni cromatiche, ma soprattutto perché il fido Babà, meticcio di chissa quali e quuante razze canine, non costituisce una biodiversità. Come sono invece le 300 pecore nere del gregge a cui lui, nel pascolo brado dell’entroterra di Funtanazza, sulla costa arburese, fa una guardia spietata e gelosa, quasi sapesse qual è il grande valore scientifico in campo animale che oggi rivestono le sue pecorelle. Il gregge è quello dei fratelli Mauro e Sandro Lampis, diventati un po’ l’emblema della riscoperta di una rarità, quella della “pecora nera di Arbus”. Importata dal Nord Africa, una specificità che si stava perdendo e che solo da una ventina d’anni è stata rivalutata e recuperata, e che adesso viene riconosciuta come un’assoluta biodiversità : la “pecora nera di Arbus” è un capo ovino che si può trovare in quantità ridotta anche in altri territori dell’isola, ma la cui razza deve essere riconducibile al territorio dell’Arburese, dove venne importata nei secoli scorsi dall’originario Nord Africa.
LA RISCOSSA DELLA Nessuna mutazione genetica è stata apportata, si tratterebbe di una selezione naturale che nei pascoli di Arbus si è conservata nel tempo, tanto da poter essere considerata razza autoctona. Studi condotti dal dipartimento veterinaria dell’Università di Sassari hanno portato poi a riscontrare in questa specie animale una sua biodiversità. La pecora nera si presenta con un mantello caratteristico di colore scuro, con sfumature tendenti talvolta al rosso cupo ed al grigio piombo a seconda del periodo e della lunghezza del vello. E di dimensioni inferiori rispetto alle pecore bianche e, contrariamente ad esse, ha le corna ed i padiglioni auricolari molto piccoli, se non del tutto assenti. Molto docili e particolarmente “mammone” con i loro agnellini, queste pecore soffrono terribilmente (lo si evince dalla produzione del latte) gli spazi limitati. Sono animali rustici che amano nutrirsi, oltre che di erba fresca, di foglie e di germogli, un po’ come le capre. Dall’alimentazione trae giovamento la produzione del latte, sicuramente meno di quello dato dalle bianche, ma riconosciuto dai vari analizzatori, primo fra tutti l’autorevole Istituto zootecnico caseario della Sardegna, di qualità superiore. Ma non è solo a tavola che la pecora nera di Arbus porta la sua specificità. Il mantello naturale è fatto di muna lana che, grezza
o sapientemente lavorata, sta trovando applicazione in diversi campi : dalla fibra ai tessuti, dalla cosmesi all’isolamento termico ed acustico. A fianco degli allevatori, costituitisi in associazione, si sono schierati l’amministrazione comunale e l’agenzia Laore che stanno portando avanti l progetto di valorizzazione con una filiera del prodotto interamente locale. Il Comune ha depositato la richiesta del marchio specifico “Pecora nera di Arbus”, mentre il Ministero delle Politiche agricole ha riconosciuto recentemente ai derivati di questa biodiversità animale, l’inserimento nell’elenco nazionale PAT dei prodotti agroalimentari tradizionali. “Qualche mese ancora e saremo in grado di consegnare ufficialmente ad allevatori, produttori ed artigiani il marchio che identifica il prodotto e la targhetta da esporre nei loro locali”, dice il vicesindaco Michele Schirru. “Pecora nera di Arbus”: sarà questa la scritta sull’etichetta che a breve accompagnerà i prodotti dell’ovino nero, che ha già ottenuto il riconoscimento della biodiversità dal Ministero delle Politiche Agricole. Si tratta di regole e procedure che allevatori, imprenditori ed artigiani sono obbligati a rispettare nella produzione e vendita della carne, dei formaggi e derivati, dei prodotti artigianali quali i manufatti con la lana
Foto_unionesarda.it
PECORA NERA ARBUS
della pecora biodiversa ed i manici dei coltelli ricavati dalle corna. Previsti controlli severi per tutta la filiera per assicurare il rispetto dei requisiti imposti dal disciplinare. Definiti inoltre i rapporti e le modalità di fornitura tra allevatori, intermediari, mattatoi, macellerie, caseifici, laboratori, punti vendita. Vent’anni fa la svolta: gli allevatori l’hanno riscoperta e rivalutata, in collaborazione con Laore ed il Comune. E sono andati avanti a spasso spedito sino al marchio collettivo “ Pecora nera di arbus”. L’unica nell’isola e fra le poche in Italia il cui nome si identifica col paese d’origine. “Siamo alla fine del percorso”, commenta Schirru, 28 anni: “ Giusto il tempo per registrare il marchio alla Camera di Commercio. Subito dopo gli interessati potranno richiederlo al Comune. Unica condizione è avere la sede legale e la superficie aziendale nel nostro territorio. L’Adesione non è consentita ai produttori in forma associata”. “L’idea di rivalutare la pecora nera è nata nel 2008”. Ricorda Francesco Sanna, responsabile del settore multifunzionalità di Laore.
Luciano Onnis/Santina Ravi unionesarda.it
vedi anche vimeo.com/377991579 vimeo.com/360012316
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Foto pinacoteca nazionale
e frasi sul vaso di Dueno, considerato il documento più antico della storia romana, sono scritte in sardo e non in latino. È la tesi del linguista Bartolomeo Porcheddu, docente a contratto di Laboratorio di lingua sarda all’Università di Cagliari, pubblicata in un libro intitolato “Il vaso di Dueno”. Per l’esperto di Ossi (Sassari), si tratta di un’altra prova della sua teoria più generale, secondo la quale non è il sardo che nasce dal latino. Ma il contrario. “Prima di me - spiega all’ANSA Porcheddu - questo documento è stato analizzato e studiato. Ma sempre dando per scontato che il testo fosse in latino. Si andavano a cercare in quelle frasi i casi latini che invece non ci sono. Io l’ho tradotto in sardo e il risultato è stato incredibile: è completamente diverso dalla traduzione precedente. E non ci sono più i problemi che hanno caratterizzato gli studi sul documento: la traduzione ora corrisponde perfettamente al testo”. Ma perché un vaso romano del 600 a.C. era stato scritto in sardo? “Perché il sardo - precisa l’esperto - per anni è stata la lingua internazionale del Mediterraneo. Nel 600 a.C. siamo in una fase di declino della civiltà nuragica, ma l’influenza della lingua è ancora fortissima. Il latino che poi sarà utilizzato verrà costruito a tavolino proprio sulla base del sardo, lingua alla quale saranno applicati i casi greci”. “Nessuno se ne è accorto per duemila anni, perché nessuno si è soffer-
IL VASO DI DUENO
mato sullo studio comparato tra latino e sardo”, sottolinea ancora il docente. Il vaso di Dueno nasce a Roma durante il periodo degli ultimi re, un periodo caratterizzato dalla forte influenza etrusca. Ora, dopo essere stato ritrovato da Heinrich Dressel, nel 1880, in un deposito votivo al Quirinale a Roma, è al museo di Stato di Berlino. Nel testo abbondano le spiegazioni tecniche. Ad esempio sulla mancata concordanza dei casi. “Alla risoluzione di questo dilemma c’è una spiegazione - svela Porcheddu - il vaso di Dueno è stato prodotto prima che i Romani trasformassero la loro lingua sardo-latina in lingua ‘latina comune’ inserendo i ‘casi’ greci nei morfemi nominali. Per questo i ‘casi’ non compaiono nella scrittura del vaso e la struttura delle proposizioni è quella del sardo attuale, che esce nei sostantivi solo con il genere e il numero, senza i ‘casi’ di provenienza greca”. E quell’”ite” dell’iscrizione ha senso, dice lo studioso, solo se tradotto come ‘che cosa’ alla maniera del sardo “ite cheres”, che cosa vuoi. La nuova traduzione sarebbe dunque questa: “Giove/Saturno divi ai quali io stessa sto promettendo, donando questa mia cosa affinché (ella) sia vestale. Ascoltate noi Giove - chiedo qualcosa - (che ripagheremo) saremo grati a voi. Lì, ci fa lo stesso in mano mia (secondo la mia volontà) Lì, No[m...] in E[...] lo stesso [fa] con mallo (spatola), (con buona soddisfazione)”.Stefano Ambu
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“’armoniosità del “Trigono” tra Giove e Saturno è conosciuta fin dall’antichità. Nella sua opera “De Stella Nova in Pede Serpentarii” data alle stampe nel 1606 a Praga da Keplero, al secolo Johannes Kepler (1571 – 1630), ne traccia la rotazione riportando su un grafico l’immagine geometrica del “Trigono”. Il committente del Vaso di Dueno era probabilmente un sacerdote preposto all’osservazione del “tempo” poiché, come Keplero, fa riprodurre da un artista su un vaso artigianale il “Trigono” composto da Giove e Saturno. Ma, prima ancora del Vaso di Dueno, qualcun altro aveva riportato sulla terra ciò che avveniva nel cielo. Visti dall’alto, i nuraghi “Trilobati” (tantissimi NdR) della Sardegna disegnano sia la geometria del Vaso di Dueno sia quella di Keplero.” Affascinante come l’armonia tra Giove e Saturno. Qui a lato la precedente interpretazione che attribuiva la scrittura alla lingua latina, come si vede il senso generale é comunque quello di una richiesta alla divinità di esaudimento di un desiderio. Nell immagine, Grafico del vaso di Dueno.( per concessione Scala Archives O.C.) Bartolomeo Porcheddu (Il vaso di Dueno, 2019) Sandro Angei
Foto_pinacoteca nazionale
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Vaso di Duenos è un manufatto in bucchero formato da tre recipienti rotondi conglobati: la scrittura corre da destra a sinistra attorno ai tre vasi, in tre righe sovrapposte. L’alfabeto è arcaico (C per G) e, sebbene la grafia sia chiara, la mancanza della divisione fra le parole e l’arcaicità della lingua rendono controversa l’ interpretazione. Probabilmente, si tratta di istruzioni per l’uso del contenuto del vaso, che doveva essere un filtro magico. Il vaso stesso si rivolge a chi lo vorrà comprare, affermando che il suo produttore (quoi med mitat = qui me mittit) giura per gli dèi (iouesat deiuos = iurat deos) che, se una ragazza non si dimostrerà gentile con l’acquirente (nei ted endo cosmis virco siet = ni in te comis virgo sit), il filtro servirà per entrare nelle sue grazie (pakari vois = pacari vis). Seguiva poi un’avvertenza a fare un buon uso del contenuto del vaso: il produttore era una persona onesta, ma il filtro era pericoloso, non bisognava usarlo con cattive intenzioni (duenos è variante arcaica dell’aggettivo bonus; anche l’aggettivo manos significa «buono»). Il testo risulta più elaborato rispetto alle scarne formule di dono che si trovano comunemente sui vasi, e testimonia l’esistenza di una notevole civiltà della scrittura.
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