SARDONIA Giugno 2021

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SARDONIA Ventottesimo Anno / Vingt Huitième Annèe

Giugno 2021/ Juin 2021

Foto pistisenrico

Mariano Chelo Costantino Nivola Il fazzoletto di Desdemona Su Filindeu Salva Su Monti U’Palacca Abissi di Silenzio L’anarchico Michele Schirru Ninetta Bartoli Sindaco Epica Festival Untold Stories Peter Lindbergh S.E.D.I.A. Perché tante scoperte ecccezionali in Archeologia? Gianni Atzeni

https://www.vimeo.com/groups/sardonia https://www.facebook.com/sardoniaitalia


Cagliari Je T’aime Programma di creazione di Esposizioni e Manifestazioni Artistiche nella città di Cagliari a cura di Marie-Amélie Anquetil Conservateur du Musée du Prieuré Directrice de la revue “Ici, Là bas et Ailleurs” Espace d’exposition Centre d’Art Ici, là bas et ailleurs 98 avenue de la République 93300 Aubervilliers marieamelieanquetil@gmail. com https://vimeo.com/channels/ icilabasetailleurs Vittorio E. Pisu Fondateur et Président des associations SARDONIA France SARDONIA Italia créée en 1993 domiciliée c/o UNISVERS Elena Cillocu via Ozieri 55 09127 Cagliari vittorio.e.pisu@email.it http://www.facebook.com/ sardonia italia https://vimeo.com/groups/ sardonia https://vimeo.com/channels/ cagliarijetaime SARDONIA Pubblicazione dell’associazione omonima Direttore della Pubblicazione Vittorio E. Pisu Maquette, Conception Graphique et Mise en Page L’Expérience du Futur une production UNISVERS Commission Paritaire ISSN en cours Diffusion digitale

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uesto mese di giugno inizia con la ritrovata libertà di movimento e se la pandemia non é ancora sparita i vaccini sono distribuiti a tutta la popolazione o quasi mentre le notizie le più contradditorie cercano di informarci sulle origini di questo virus che un giorno annidava nei pipistrelli ferro di cavallo e l’altro era fabbricato in laboratorio dai famigerati cinesi, diventati ormai non solo la fabbrica industriale dell’umanità intera ed anche il laboratorio dove si sperimentano gli intrugli più pericolosi e naturalmente i loro antidoti. Non sappiamo se ci troviamo in uno scenario alla James Bond prima maniera o se le elucubrazioni dei diversi esperti, spesso e volentieri autoproclamati e sbandierati dai diversi canali televisivi sia nostrani che esteri, siano degni di fiducia o se ci troviamo ancora una volta davanti alla gara del quarto d’ora di celebrità al quale sembra che ciascuno dovrebbe avere diritto. Per il resto ci contentiamo dei narcisismi più classici e come al solito vi proponiamo una passeggiata ideale attraverso le nostre scelte eccletiche e soggettive come non mai. Come ogni mese, riesco a reperire, tra le diverse informazioni storiche o contemporanee che arrivo a trovare sia in vecchi libri che sulle pagine del web, delle eccellenze isolane sia ormai storiche che ancora in attività e questo è un grande conforto in un momento durante il quale, forse a causa dell’epidemia pandemica non solo virale ma anche mentale che sembra averci sopraffatto, le manifestazioni dell’ignoranza e conseguentemente della cattiverian invidiosa e gelosa, si sono fatte più evidenti ed insistenti. E vero che i media preferiscono parlarci delle catastrofi ed altri femminicidi, più adatte a suscitare l’interesse delle popolazioni e la loro facile contaminazione pubblicitaria affinchè spendano i loro denari nell’acquisto di mercanzie spesso e volentieri particolarmente inutili e per questo fortemente bramate. Sembra più difficile intrattenere le folle con il racconto delle riuscite sia collettive che personali e dei traguardi superati spesso e volentieri con la forza della volontà ed in situazioni normalmente difficili. Anche la produzione artistica si svolge in situazioni difficili e spesso e volentieri senza il sostegno popolare ed é per questo che ci sentiamo responsabili del contenuto delle nostre pagine cercando di narrarvi appunto quanto di bello, interessante, pedagogico, a volte anche eroico, si svolga anche a qualche passo della vostra dimora oppure nelle contrade le più lontane. Andare a trovare un artista, conoscerlo, frequentarlo, scoprire il suo mondo, apprezzarlo, acquistare le sue opere anche a rate, é sicuramente la cosa più bella che vi possa capitare allora perché esitare? Vittorio E. Pisu


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MARIANO CHELO M

ariano Chelo nasce a Bosa, in Sardegna, il 27 maggio 1958. Abbandona gli studi classici per intraprendere quelli artistici, trasferendosi a Cagliari dove si diploma al liceo artistico . Continua gli studi a Firenze presso l’ISIA e la libera Università Europea di Macerata. La produzione artistica pittorica ha inizio nel 1969: i soggetti dei suoi dipinti figurativi sono i paesaggi, le nature morte e la figura umana nei suoi aspetti picareschi. Dal 1981 al 1990 interrompe con la pittura per dedicarsi alla grafica pubblicitaria e alla fotografia. Riprende l’attività pittorica con una impostazione nuova, trovando nel surrealismo, nel cubismo e nell’astrattismo il linguaggio col quale affrontare le tematiche. Nel 1991 si ripropone al pubblico con una mostra personale a Bosa, che darà il via ad una lunga serie di esposizioni personali e collettive in Italia e all’estero. Nel 2003 fonda il MAP “ Movimenti Artistici Periferici” con la sede in corso Vittorio Emanuele a Bosa. Oltre alla pittura, opera nel campo delle installazioni e performance, utilizzando varie tecniche tra

Mariano Chelo Via Garibaldi 45 09124 Cagliari Corso Vittorio Emanuele 62 08013 Bosa Tel. +39 347 7358397 vedi i video vimeo.com/307787078 vimeo.com/325572987 vimeo.com/357049312 vimeo.com/327905833 vimeo.com/336939047 vimeo.com/378636470 vimeo.com/378378942 vimeo.com/379498619 vimeo.com/341983476 vimeo.com/469104938

le quali la pittura computerizzata . Ha esposto le sue opere non solo in Sardegna ma anche all’estero dal Costarica agli Stati Uniti, a New York, passando Hambourg in Germania e naturalmente da Parigi in Francia. Tra le numerose attività ha suscitato mostre e relative aste pubbliche a sostegno di iniziative come Pazza Idea, manifestazione cagliaritana privata della sovvenzione municipale, oppure la serie di concerti delle opere di Erik Satie illustrati dalle sue pitture, tournèe che partendo da Bosa ha fatto un pò il giro del mondo tra Mosca e Parigi, senza dimenticare Cagliari. Ultimamente ha scritto e pubblicato un romanzo “La Nave” con successo sia di pubblico che di critica. Regolarmente invita altri artisti a cimentarsi in un faccia a faccia nella sua galleria/atelier della via Garibaldi dimostrando così una grande generosità, qualità spesso difficile da riscontrare negli artisti isolani e non. Non solo un grande artista e come diceva Le Corbusier “non si é solo architetto o pittore” la sua energia si esprime in tanti campi. In altri tempi un personaggio così fatto sarebbe stato chiamato un “Signore”. Vive e lavora in Sardegna tra Cagliari e Bosa. Vittorio E. Pisu

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uesta primavera, Magazzino Italian Art aprirà una nuova mostra speciale dedicata al lavoro dell’artista Costantino Nivola, sardo di nascita e residente da tempo a Springs, NY. Nivola: Sandscapes esplora il processo pionieristico dell’artista di scultura in sabbia. Con una selezione di circa 50 opere dai primi anni ‘50 agli anni ‘70, tra cui rilievi in sabbia, sculture in cemento scolpito, e maquette raramente viste delle sue più importanti commissioni architettoniche, questa presentazione mirata esaminerà il processo artistico, la gamma di influenze, e il notevole impatto che Nivola ha avuto sulla moderna architettura urbana e il design. La mostra comprende opere raramente viste, provenienti dal patrimonio della famiglia dell’artista e da importanti prestiti istituzionali e privati. La mostra è curata dalla Scholar-in-Residence 2020-21 di Magazzino, Teresa Kittler, con Chiara Mannarino, ed è organizzata in collaborazione con la Fondazione Nivola e con il sostegno dell’Ambasciata d’Italia a Washington D.C. “A Magazzino, ci proponiamo di aprire un dialogo di scambio artistico tra gli Stati Uniti e l’Italia. Nivola è una figura seminale nella storia del Modernismo, e allo stesso

Nivola : Sandscapes fino al 10 gennaio 2022 Magazzino Italian Art Foundation 2700 Route 9 Cold Spring, New York 10516 Tel.+1 (845) 666-7202

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tempo è un caso di studio dinamico per comprendere l’esperienza degli immigrati italiani in America nel dopoguerra”, dice il direttore Vittorio Calabrese. “La mostra esamina le ispirazioni che hanno informato la sua pratica artistica, compreso l’uso dell’iconografia sarda, la sua formazione formale in design e il suo interesse a creare opere d’arte impegnate con la cultura americana. Stiamo considerando Nivola alla luce del nostro momento attuale, sull’orlo di un cambiamento significativo che ci richiede, come museo e come società, di sostenere l’importanza dell’arte e degli artisti nella vita civile”. “Questa è la storia di un rifugiato italiano che ha fatto dell’America la sua casa, trovando spiriti affini tra una comunità di artisti e architetti tra cui Le Corbusier e Willem de Kooning”, dice la curatrice della mostra Teresa Kittler. “Nivola era energico e attivo in quella comunità; il suo lavoro è stato in parte definito dalle amicizie che ha fatto e attraverso le sue disposizioni sperimentali di vita e di lavoro. Gran parte del suo lavoro più noto si è impegnato con una versione dell’arte e dell’architettura moderna che era rivolta al pubblico e fondata sulla collaborazione; e ha investito nell’integrazione di arte e architettura”. Nato a Orani, in Sardegna, Costantino Nivola (19111988) ha iniziato la sua carriera come grafico a Milano.


Nel 1938, fu costretto a fuggire dall’Italia fascista con la moglie ebreo-tedesca, Ruth Guggenheim. La coppia arrivò a New York City nel 1939 e divenne rapidamente parte della sua fiorente scena artistica, contando artisti come Jackson Pollock, Lee Krasner e Saul Steinberg tra i loro amici intimi. Alla fine si stabilirono nella frazione di Springs nell’East End di Long Island, che divenne una rinnovata fonte di ispirazione per Nivola. Nivola: Sandscapes esamina le tecniche di sandcasting che l’artista sviluppò alla fine degli anni Quaranta, fondendo il suo interesse per la scultura, la pittura, l’iconografia sarda e la figura umana. Il suo metodo consisteva nell’intagliare nella sabbia bagnata e nel riempire la forma negativa con il gesso. Nivola ha continuato a evolvere la sua tecnica nel tempo e ha sperimentato diversi materiali, sostituendo l’intonaco con il cemento resistente, che gli ha permesso di creare rilievi su larga scala per gli esterni degli edifici. Attingendo dalla sua esperienza in muratura, e incoraggiato dal suo amico e mentore Le Corbusier, che ha incontrato nel 1940, Nivola ha iniziato a lavorare su commissioni architettoniche su larga scala. Nivola: Sandscapes presenta una selezione di maquette raramente viste da cui Nivola ha realizzato le sue monumentali facciate di edifici.

In mostra ci sono alcuni dei suoi progetti più importanti, tra cui l’iconico Showroom Olivetti sulla 5th Avenue, il Bridgeport Post, il Bolling Federal Building a Kansas City, la Janesville Gazette e la William E. Grady Vocational High School a Brooklyn. “Questa mostra mette in luce la ricerca di identità di Nivola e la sua visione globale, la coesistenza nel suo lavoro di un’eredità modernista e di intuizioni postmoderniste, il suo doppio interesse per la forma e gli ideali comunitari”, afferma la presidente della Fondazione Nivola, Giuliana Altea. “Durante la mostra, un filo conduttore gradito unirà Orani e New York”, dice la direttrice del Museo Nivola, Antonella Camarda. “La pandemia ha allontanato le due sponde dell’Oceano Atlantico, Nivola ci riavvicina”. “La visione di Costantino Nivola non potrebbe essere più rilevante per i tempi, dato che ha usato le sue opere d’arte per umanizzare gli spazi pubblici e i paesaggi urbani e per generare un senso di identità civica e di comunità”, dice l’ambasciatore d’Italia negli Stati Uniti, Armando Varricchio. “Attraverso questa mostra, che riflette giustamente la traiettoria artistica di Nivola dal cuore della Sardegna a New York City, Magazzino ci fornisce, ancora una volta, (segue pagina 6)

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(segue da pagina 5) un’opportunità molto gradita per promuovere ulteriormente gli scambi culturali tra individui e comunità. onosciuto per i suoi rilievi architettonici su larga scala, Costantino Nivola (1911 1988) è stato uno scultore, pittore, designer e insegnante. Nato a Orani, un villaggio nell’isola italiana di Sardegna, ha lavorato con suo padre muratore prima di prendere un apprendistato con l’artista Mario Delitala. Nel 1931 vinse una borsa di studio per frequentare l’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Monza (ISIA), dove studiò, tra gli altri, sotto la guida di Marino Marini e Giuseppe Pagano, e contribuì alla Triennale di Milano del 1936 e al Padiglione Italiano all’Esposizione di Parigi del 1937. Nivola iniziò la sua carriera nel 1936 lavorando come grafico per la società Olivetti a Milano. Nel 1938, lui e sua moglie, Ruth Guggenheim, una compagna di studi all’ISIA, fuggirono dall’Italia fascista per Parigi prima di emigrare a New York City nel 1939, dove misero su casa nel Greenwich Village. Mantenendosi come poteva, Nivola alla fine divenne direttore artistico per diverse riviste di architettura. Nel 1948, comprò una fattoria a Springs.

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La prima commissione importante di Nivola fu per lo showroom Olivetti sulla 5th Avenue, e questo fu rapidamente seguito da una serie di commissioni su larga scala per progetti architettonici. Per tutta la sua vita, Nivola è stato anche impegnato nell’educazione all’arte e al design, e ha tenuto posti alla Harvard Graduate School of Design, Columbia University, Dartmouth e Berkeley. Ha esposto regolarmente le sue opere non commissionate sia negli Stati Uniti che in Italia. eresa Kittler è docente di arte moderna e contemporanea all’Università di York, Regno Unito. La sua ricerca si concentra sulle pratiche artistiche dal 1945 con un interesse particolare per l’arte italiana del dopoguerra. Ha ricevuto borse di studio dalla British Academy, da Leverhulme, dalla British School at Rome e dal Center for Italian Modern Art (CIMA). Il suo lavoro è stato pubblicato da Oxford Art Journal, Bloomsbury e Peter Lang, tra gli altri. Ha scritto su Marisa Merz per i cataloghi che accompagnano le mostre Marisa Merz: The Sky is a Great Place (Los Angeles Hammer Museum & Metropolitan Museum of Art, 2017) e Entrare Nell’Opera (Kunstmuseum Liechtenstein, 2019), e su Carla Accardi per il catalogo di “senzamargine” al MAXXI (2021).

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’Ambasciata d’Italia a Washington D.C. è la più grande ambasciata bilaterale italiana nel mondo. Il Capo Missione è l’Ambasciatore Armando Varricchio. L’Ambasciata promuove le relazioni amichevoli tra gli Stati Uniti e l’Italia in campo politico, economico, culturale e scientifico. Le relazioni culturali tra l’Italia e gli Stati Uniti trovano terreno fertile in una multiforme rete di collaborazioni tra governo, università, istituti di ricerca, istituzioni culturali, associazioni, scuole e imprese dei due paesi. La grande e affermata comunità di italo-americani è stata anche una forza attiva nell’espansione delle relazioni culturali. a Fondazione Costantino Nivola nasce a Orani nel 1990 per iniziativa della Regione Sardegna, del Comune di Orani e della famiglia dell’artista Nel 1991 la vedova dell’artista Ruth Guggenheim Nivola, il sindaco di Orani Tonino Rocca e Giovanni Dettori, rappresentante della Regione Sardegna, firmano l’atto costitutivo, grazie anche all’impegno del precedente sindaco Giulio Chironi, di Antonio Silvas e di Giuseppe Bande. Scopo della Fondazione è promuovere la conoscenza dell’opera e del messaggio di Costantino Nivola

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e più in generale dell’arte contemporanea, attraverso attività espositive, di ricerca e di divulgazione, sostenendo in tal modo la crescita culturale e economica della comunità locale e regionale. A tal fine la Fondazione gestisce il Museo Nivola e l’annesso parco, organizza mostre, convegni, premi e sviluppa scambi culturali con istituzioni sarde, nazionali e internazionali. Il patrimonio della Fondazione comprende un esteso complesso museale sito in posizione panoramica nel territorio di Orani, un parco e 4 edifici adibiti a spazi espositivi e sociali, uffici e depositi. Ed anche un corpus unico in Europa di sculture, dipinti, disegni, ceramiche e maquettes di Costantino Nivola, uno dei protagonisti della scultura architettonica del Novecento, nonché il più significativo artista sardo nel panorama internazionale. L’identità visiva della Fondazione è sintetizzata dal nuovo logo donato al Museo Nivola dallo studio Paolo Bazzani. Ispirato alla grafica di metà Novecento e a un tipo di lettering sviluppato all’Olivetti, il logo richiama indirettamente due temi centrali nell’opera di Nivola, suggeriti dalla sua esperienza nella ditta di Ivrea: l’ideale dell’interdisciplinarità e la dimensione della vita comunitaria. www.museonivola.it/en/.

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Foto giorgiobenni

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ento fazzoletti di porcellana bianca sospesi nell’aria: si presenta così la nuova installazione di Emanuela Mastria, visitabile fino al 30 giugno nel Salone Borromini della Biblioteca Vallicelliana di Roma. Curato da Michela Becchis, e inserito all’interno della rassegna Opera 00|20 ideata da Paola Paesano, il progetto è una riflessione sul tema del femminicidio, problema drammaticamente attuale espresso sin da titolo dell’opera: Il fazzoletto di Desdemona. Dal centro della Biblioteca prende forma la parte centrale della mostra dell’ artista con fazzoletti di porcellana bianchi che pendono dal soffitto ad altezze diverse e su di essi la trama di ricami e foglie che si vedono in trasparenza grazie alla particolare lavorazione della porcellana. La loro leggerezza e sottigliezza potrebbero far pensare a pagine di libri in un richiamo al luogo della mostra. La mostra di Emanuela Mastria dunque si articola con un’installazione esteticamente coinvolgente che stravolge lo spazio della Biblioteca rendendolo contemporaneo. Ma dietro la leggerezza e la bellezza dell’opera si nasconde un tema tragico. I cento fazzoletti disposti nella parte centrale della sala e nelle teche, di cui

Il fazzoletto di Desdemona fino al 30 giugno 2021 Emanuela Mastria a cura di Michela Becchis Biblioteca Vallicelliana Piazza della Chiesa Nuova 18 00186 Roma b-vall@beniculturali.it mbac-b-vall @mailcert.beniculturali.it

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risalta il bianco candido accompagnato dalle velature dei merletti, si riferiscono tutti a femminicidi. “Desdemona è una giovane donna ribelle”, racconta la curatrice della mostra. “È la creatura che per antonomasia non rappresenta solo una muta vittima, ma è colei che decide, che entra consapevolmente in una relazione di reciproca seduzione, ma le cui decisioni, proprio in quanto tali, vengono descritte dagli uomini come tradimento. Né Desdemona, né nessuna altra donna uccisa è una vittima a priori, è dentro lo squilibrio tragico e oltraggioso della relazione che diviene vittima”. Desdemona è una donna libera, che si è sposata senza chiedere il permesso al padre, e, per celebrare questa libertà, mentre tutti i fazzoletti sono bianchi ve n’è uno con le fragole colorate dedicato a lei. E quasi tutti dei cento sono dedicati ad una particolare donna uccisa di cui vi sono le iniziali, alcuni non sono dedicati per far riferimento alle donne morte di femminicidio che non hanno nome, alcuni sono più piccoli perché dedicati a bambine. Si ritrovano delle storie diverse su ogni fazzoletto, ad esempio, uno parla di una donna bruciata nella propria abitazione per cui compaiono una serie di case, uno simboleggia una donna uccisa sulla spiaggia di Capocotta e qui si vedono delle dune di sabbia, uno


allude ad una vittima bambina attraverso case piccole, mentre in uno appaiono delle mimose perché la mostra si è inaugurata l’8 marzo, giorno dei diritti della donna. A volte i fazzoletti hanno delle forme semplici, altre volte si rivela un virtuosismo stimolante che genera curiosità per la tecnica utilizzata in questa maniera così perfetta. Sospesi nell’aria, leggeri e pesantissimi allo stesso tempo, i fazzoletti riportano sulla superficie le iniziali delle persone a cui ognuno di essi è dedicato. Una narrazione corale intima e potente, resa ancora più efficace dalla location monumentale della biblioteca. L’installazione è percorribile e quando vi si passa sotto, immergendosi in queste porcellane, nonostante le altezze diverse, esse si muovono come se facessero rivivere tutte quelle donne, come se esse ci parlassero ancora. Le emozioni, in questa esposizione, sono molto intense e sono veicolate attraverso la delicatezza. Quasi tutti i fazzoletti sono stati realizzati appositamente per la persona cui sono dedicati, ma molti sono stati scelti dopo e questo ha portato l’artista ad un immergersi doloroso in tutte le storie di femminicidio, per capire quale fosse quella giusta per quel

determinato fazzoletto. Il ripercorrere tragedie quotidianamente ha creato una bolla di ispirazione che si è trasformata in un’estetica raffinata. Quindi il doppio registro di dolore e perfezione estetica ha condotto ad un connubio che è essenziale nell’installazione e ci induce ad un’unione di due differenti urgenze. Dal testo di Michela Becchis: “quel fazzoletto considerato semplice, privo di sensi, privo di passato e di storia se non di un “ben misero” vociare inutile e dannoso è quanto racchiude in realtà tutta la densità di un vissuto, di emozioni incontenibili, della incapacità, della violenza, dell’indicibile. Sbaglierebbe chi considerasse i suoi fazzoletti di porcellana delle raffinate sineddochi, ciascuno di essi è invece la monumentalizzazione del torto ed è per questo che in quelle piccole iniziali in rosso, nella delicatezza di decori e merletti ciascuno diverso, irripetibile, consiste una vita. Mastria oppone la grazia, una delicatezza che tanto più costringe lei al confronto e alla non facile relazione nel plasmare la materia, tanto più diviene corpo nella cui trasparenza rinveniamo il racconto di ciascuna singola donna.” Claudia Quintieri https://insideart.eu/emanuela-mastria/ http://www.vallicelliana.it/ www.emanuelamastria.com

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Foto eliotstein

a Sardegna custodisce il segreto della pasta più rara del mondo. Si chiama Filindeu, i fili di dio. Solo poche mani esperte ancora riescono a produrre questi delicati e sottili fili intrecciati di semola di grano duro. La nuorese Paola Abraini è una di queste. Circa un anno fa è stata visitata da un inviato della BBC, arrivato sino alla città di Nuoro per carpire i segreti di una lavorazione tanto rara e difficile. Questa antica tecnica di pastificazione risale ad oltre 300 anni fa. Una tradizione culinaria tipica del nuorese che al giorno d’oggi solo pochissime persone, tutte donne , custodiscono grazie ad una ricetta che si tramanda di generazione in generazione sempre all’interno delle stesse famiglie. La tecnica di preparazione è particolarmente difficile e laboriosa. La Barilla ha tentato di carpire i segreti di questo manicaretto tutto sardo e il famoso gastronomo Carlo Petrini ne ha fatto un icona dello Slow Food. Tra le personalità che hanno dovuto arrendersi di fronte alla maestria delle donne sarde nella preparazione di questa difficile pietanza annoveriamo anche il famoso cuoco inglese Jamie Oliver, che dopo 20 anni alle prese con pasta di

SU FILINDEU

tutti i tipi non è riuscito a completare la lavorazione dei Filindeu. La base dei Filindeu è un impasto a base di farina di semola di grano duro, acqua e sale, lavorato con attenzione e calma finché l’esperienza del tatto con le mani non avverte il momento esatto in cui l’impasto è pronto. All’impasto viene data la forma di un cilindro tirato tra le dita delle mani. Dopo essere stato ripiegato su se stesso, si frazionerà in tanti finissimi filamenti. Da un pezzo di impasto di un etto si otterranno circa 250 sottilissimi fili. I fili vengono stesi in tre strati su un canestro circolare di foglie di asfodelo essiccate, creando una trama a intreccio, dopo di che avviene la fase di essiccazione che rinsalderà tutto creando un vero e proprio reticolato di pasta finissima. Una volta pronta, la pasta verrà spezzettata in pezzi più piccoli e immersa nel brodo di pecora insaporito con scaglie di formaggio pecorino fresco. La pietanza viene preparata ritualmente in ottobre, in occasione del pellegrinaggio al santuario di San Francesco di Lula, da offrire ai pellegrini che vi si recano. Le figlie di Paola Abraini non sono interessate a por-


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tare avanti l’antica e laboriosa tecnica, e tutte le altre donne che conservano quest’arte si contano sulle dita di una mano. In questo modo l’antica ricetta rischia di perdersi. Per ovviare a questo problema Paola ha deciso di non rispettare l’antico patto che vuole la ricetta tramandata di generazione in generazione all’interno della stessa famiglia, insegnando ad altre persone la difficile lavorazione. Sembra però che non le sia andata bene perché pare che le siano stati negati i fondi per aprire una scuola. La cuoca non si è persa d’animo invitando così gli aspiranti preparatori di Filindeu a casa sua. Gli allievi sono però tutti scappati senza tornare dopo aver visto la difficoltà e la laboriosità di tale preparazione. Nonostante tutte queste difficoltà il Gambero Rosso l’ha invitata a Roma per filmarla durante la lavorazione della specialità evitando così che le fasi di preparazione vengano dimenticate disperdendo così una sapienza antica irripetibile nella storia e nella cultura sarde. https://www.vistanet.it/ogliastra/2020/12/23/reprepreplo-sapevate-su-filindeu-prodotto-in-sardegna-e-la-pasta-piu-rara-e-particolare-del-mondo-2/

La Sardegna custodisce il segreto della pasta più rara del mondo. Si chiama Filindeu, i fili di dio. Solo poche mani esperte ancora riescono a produrre questi delicati e sottili fili intrecciati di semola di grano duro. La nuorese Anna Abraini è una di queste. Recentemente è stata visitata da un inviato della BBC, arrivato sino alla città di Nuoro per carpire i segreti di una lavorazione tanto rara e difficile. vedi il video https://youtu.be/EIrccMyLpVU

u Filindeu, pasta tipica sarda, sbarca alla BBC. É Eliot Stein, giornalista e scrittore statunitense, a recarsi a Nuoro per intervistare l’ultima depositaria di questa antica arte e far conoscere a tutto il mondo una delle tante, ma sicuramente la più complessa, eccellenza culinaria sarda. “Lontano dalle sue spiagge cerulee, il roccioso interno della Sardegna è un labirinto di profonde fenditure e massicci impenetrabili che proteggono alcune delle tradizioni più antiche d’Europa”, così inizia il racconto di Stein, che ci porta in una Nuoro i cui monti attorno hanno contribuito a tenere salde alcune tradizioni, come, appunto, quella del Filindeu. É qui che Paola Abraini, 62 anni, ogni giorno si alza alle 7 per preparare la “pasta più rara d’Italia”. Oltre a lei, le altre artigiane che sono in grado di prepararla secondo quanto dettato dalla tradizione, sono la nipote e la cognata della Abraini, seguendo una sorta di linea ereditaria familiare. Anche se nessuno ricorda l’origine del Filindeu, la tradizione si è tenuta nella famiglia per oltre 300 anni. Uno dei massimi esperti di gastronomia sarda, Giovanni Fancello, riconosce che le origini della pasta sarda siano dubbie. (segue pagina 12)

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(segue dalla pagina 11) C’è chi dice che sia araba, portata in Sicilia dopo la sua conquista. Un’altra scuola di pensiero vuole invece che essa sia l’evoluzione della laganon greca (impasto di acqua e farina tagliato a fette). Anche le origini de Su Filindeu nuorese sono controverse. Alcuni gastronomi sardi interpretano anche il nome in maniera diversa: o “capelli di Dio” o “capelli d’angelo”. In realtà Filindeu dovrebbe provenire dall’arabo “fidaws”, parola che, evolvendosi nella penisola di conquista islamica, quella iberica, è venuta a significare “capello”. La pasta deve essere e può essere fatta esclusivamente a mano. Si ottiene da un impasto di semola di grano duro, acqua e sale, che, fatto a filone, viene stirato a mano, come con gli spaghettini di riso cinesi, finché non assume le sembianze di un tessuto a trame sottili, intrecciate e trasparenti. Potrebbe sembrare un procedimento semplice, ma in realtà l’impasto deve avere una giusta consistenza che si ottiene dopo tanto lavoro e attingendo a varie tecniche per renderlo più o meno elastico a seconda delle esigenze. Viene poi posto su ripiani rotondi di asfodelo e fatto asciugare al sole. Stein racconta ancora nel suo articolo per la BBC

travel che la preparazione de Su Filindeu è talmente difficile e richiede così tanto tempo che che per oltre 200 anni il “piatto sacro” fu servito solo ai fedeli che compivano a piedi o a cavallo il pellegrinaggio da Nuoro a Lula per la festa di San Francesco. Non solo un cibo, ma un rito sacro e una tecnica di preparazione che può richiedere anni prima di essere imparata. Su Filindeu racchiude storia e identità di un popolo, ma anche un’arte manuale antica, che, mette in evidenza Stein, si rischia di perdere. Così la Abraini, non solo è stata a Roma per far effettuare le riprese delle fasi di preparazione alla rivista Gambero Rosso, ma ha anche iniziato a preparare la pasta speciale per tre ristoranti della città di Nuoro. Su Filindeu, una volta cotto, si presenta come una sorta di minestra. La pasta viene bollita in brodo di pecora, poi condito con formaggio fresco acidulo. Una delizia per il palato delle persone di tutto il mondo che, oggi, a Nuoro possono assaporarlo anche in 1 Eliot Stein, The secret ristorante, certi che sia preparato secondo tradizione. behind Italy’s rarest paI Capelli di Dio, tuttavia, sono ancora più buoni per sta, un sardo che sa che nella sua terra esiste un’arte anwww.bbc.com/travel tica e unica che nessuna macchina è mai riuscita a riprodurre e che porta con se il sapore unico della sa2 Filindeu di Nuoro, pienza culinaria di Sardegna. Daniela Melis www.taccuinistorici.it


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esto è il terreno di una mia amica. Vogliono farci un parco eolico con decine di pale.Superiore Interesse di Stato. È in mezzo a boschi fitti e alberi secolari, immerso nel verde profondo tra grotte, sorgenti, fiumi e storie antiche come il mondo. L’ultimo desiderio di suo padre prima di morire fu di salire fin qui un ultima volta, a Su Monti. Che, come dice lei, è un luogo un po’ particolare quasi sacro che hanno tante comunità, ciascuna il suo ma tutte con le stesse caratteristiche: lì resta vigente l’arcaica legge del bene comune a cui tutti possono accedere senza distinzione. Si fa legna, si raccolgono i frutti spontanei, si passeggia, si esplora, si prega ma con rispetto perché lì si è sempre un po’ estranei. Quello è il luogo delle janas che cantano, degli esseri misteriosi tra i cespugli, di antiche tracce umane e peccati inconfessabili pietrificati per punizione. Asse Strategico del Ministero. Vuol dire che possono fare come gli pare e chi si oppone é un terrorista. Sapete quelli che prima finivano alla forca per aver rubato nel parco del re e oggi in galera condannati a 8 anni per aver alzato una sbarra per opporsi alla

Foto alessandrapi

SALVA SU MONTI

Grande Opera? Cemento. Tir. Tubi. Cavi. Scavatori. Ve li immaginate passare lì in mezzo come carri armati? Lì non c’è niente dicono le relazioni. Non c’è niente. Lo vedete anche voi che non c’è niente vero? Dobbiamo modernizzarci. Il progresso non si ferma. É energia pulita. Lo dicevano anche i piemontesi quando tagliavano i nostri boschi lasciandoci nudi per sempre. Lo dicevano gli imprenditori quando costruivano le loro fabbriche e miniere inquinanti lasciandoci i veleni che oggi non ci puoi manco passare, ma in compenso hai quei lavoretti servili che danno la pagnotta all’arsenico e assicurano il sussidio dopo. Anche per le basi militari lo dicevano che eravamo stupidi e tonti come capre a lamentarci e ci hanno bombardato i nuraghi ed espropriato spiagge dalle dune bianche e promontori selvaggi per inniettarci scorie, amianto e cose coperte dal segreto militare. Oggi invece la mafia di Stato si tinge di verde (oltre il danno la beffa!) e ci dice che dobbiamo cementificare i nostri boschi per il superiore interesse dello Stato. (segue pagina 14)

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Foto matteocognini

(segue dalla pagina 13) Che poi funzioneranno un tot di anni, il tempo di prendere i finanziamenti, spartire il bottino e sparire. E poi resteranno piantati lì ad arrugginire e cadere a pezzi come reati ambientali troppo tardi riconosciuti ma con la memoria corta. Eh si noi indigeni siamo proprio stupidi ad opporci al progresso, siamo arretrati, come le capre ci piace arrampicarci sui sentieri nascosti e starcene lì in alto a ruminare e non combinare nulla di serio per far girare l’economia. Eppure di predoni ne sappiamo abbastanza sapete? Per dire che questo è un ennesimo attacco sciacallo alla nostra terra, usata come spazzatura e luogo di profitti per porci comodi che poi spariranno grassi e sazi con le tasche piene, mentre a noi resterà un cartello con la scritta: ingresso vietato, non avvicinarsi, pericolo! Alessandra Pi ecco la raccolta firme https://m.facebook. com/story.php...

https://www.change. o r g / p / re g i o n e - s a rdegna-blocchiamo-un-impianto-eolico-a-pranu-nieddu-siurgus-donigala-sardegna/psf/ promote_or_share

Il Ristorante U’ Palacca, è situato nel centro storico di Calasetta accanto al Municipio e alla piazza principale. Nel periodo estivo offre una suggestiva veranda all’aperto, insieme a due sale interne, con un’atmosfera e un design unici dove ogni particolare è studiato intorno al benessere del cliente. Il menu presenta portate gustose, con prodotti di prima scelta, ricette della cucina mediterranea e locale. Via Guglielmo Marconi 51-57, Vere e proprie esperienze culinarie accompa09011 Calasetta, gnate da ottimi vini locali e nazionali. Tel.+39 0781 887016 www.facebook.com/restaurantupalacca ristoranteupalacca@alice.it

U’ PALACCA


I

n occasione dei sessant’anni dalla uscita del film “Banditi a Orgosolo” nelle sale cinematografiche e dalla sua premiazione alla Mostra del cinema di Venezia, ma anche a dieci anni dalla scomparsa del regista, viene presentata la mostra fotografica “Abissi di silenzio. Immagini dal film Banditi a Orgosolo, Vittorio De Seta, 1961”, a cura di Antioco Floris e Antonello Zanda. Banditi a Orgosolo occupa una posizione riconosciuta nella storia del cinema mondiale. Dalla sua uscita nel 1961, con il premio come miglior opera prima alla Mostra del cinema di Venezia, è stato via via sempre più apprezzato per le sue qualità cinematografiche e narrative. Per la Sardegna la pellicola riveste però un valore ulteriore in quanto negli anni ha assunto il carattere di film di fondazione, opera da cui è difficile prescindere quando si riflette sull’immaginario cinematografico legato all’isola. Promossa in occasione dei sessant’anni dall’uscita del film e a dieci anni dalla scomparsa del regista, l’esposizione raccoglie una selezione di immagini del film “Banditi a Orgosolo”, fotogrammi e foto di scena, rappresentative dello stile di Vittorio De Seta, ma che offrono anche uno spaccato visivo

Abissi di silenzio Mostra fotografica immagini dal film

“Banditi a Orgosolo” di Vittorio de Seta

dal 26 maggio 2021 al 30 giugno 2021 Fondazione di Sardegna via San Salvatore da Horta

Cagliari

fondazione@fondazionedisardegna.it

www.fondazionedisardegna.it

del mondo barbaricino a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta di cui la pellicola è espressione. Aspetto particolarmente apprezzato del film è la fotografia molto curata, tanto che, come ben si nota nelle immagini esposte in questa mostra, i singoli fotogrammi potrebbero avere una vita autonoma. La fotografia del film risente dell’influenza del fotogiornalismo, figlio del neorealismo, sviluppatosi in Italia intorno ai primi anni Cinquanta, e appare in sintonia con quella di Franco Pinna e Pablo Volta che più o meno nello stesso periodo avevano fotografato la Barbagia. La mostra, prodotta dalla Società Umanitaria-Cineteca Sarda a partire da un progetto di ricerca condotto dal Dipartimento di Lettere, Lingue e Beni culturali dell’Università di Cagliari e promossa in collaborazione con l’Istituto Superiore Regionale Etnografico e la Fondazione di Sardegna, può essere visitata a Cagliari alla Fondazione di Sardegna in via San Salvatore da Horta, dal 26 maggio al 30 giugno (lun-sab 10:00-19:00) e a Nuoro al Museo del costume in via Mereu dal 9 luglio al 15 agosto. L’ingresso è libero. isresardegna.it umanitaria.it

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N

Foto fondazionenivola

ato a Padria, il 19 ottobre 1899, Michele Schirru trascorre la sua infanzia nel paese della madre, Pozzomaggiore. Frequentata la scuola del paese sino alla 6° elementare, viene assunto come apprendista nella bottega di un fabbro. Secondo quanto da lui stesso affermato, fa la conoscenza delle idee anarchiche sin da bambino grazie ad un anziano muratore anarchico suo compaesano, tale Antonio Solinas Chessa, che lo incaricava di distribuire dei manifestini di propaganda sovversiva. Durante il processo del 5 maggio 1931 dichiarerà di essere stato un adolescente «scapigliato e selvaggio», assolutamente ostile ad ogni forma di oppressione. Partito il padre per gli Stati Uniti in cerca di fortuna, viene ammesso da autodidatta alla Scuola marittima di La Spezia, ma è costretto ad interrompere gli studi a causa di una forte polmonite. Nell’agosto 1917 è presente alle agitazioni sociali di Torino, dove per la prima volta viene arrestato dalle forze dell’ordine. Rilasciato, in quello stesso anno viene chiamato a svolgere i tre anni di servizio militare, di cui 14 mesi li passerà al fronte. Partecipa alla guerra con la speranza che da imperialista si trasformi in guerra di liberazione degli oppressi prima e rivo-

29 maggio 1931 Viene fucilato

Michele Schirru, l’anarchico sardo viene condannato a morte e esecutato per aver progettato l’uccisione di Mussolini. Il Duce stesso volle che fossero 24 sardi volontari a sparare al giovane sardo.

luzione sociale poi. Al termine del “grande massacro” rimane in Italia, a Torino, dove incontra altri compagni che gli permettono di conoscere meglio e approfondire i principi e la storia del pensiero anarchico. Sino ad allora si era definito socialista, ma da questo momento inizierà la vera e proprio militanza nel movimento anarchico: «Allora la mia mente che s’apriva conobbe l’ideale anarchico, la sua bellezza, la sua grandezza. E il socialismo mi parve una povera cosa con le sue preoccupazioni politiche, con le sue battaglie elettorali, con le sue paure di turbare le laboriose digestioni di lor signori. Il mio era un temperamento ribelle, la mia era una coscienza, se pure in formazione, tutta tesa verso un completo ideale di libertà e di giustizia; e nei libri e negli opuscoli anarchici, così vibranti di entusiasmo, trovavo le parole e i pensieri che perfettamente esprimevano il mio stato d’animo e le mie speranze. Così divenni anarchico.» A Torino, durante il luglio 1919 (20-21 luglio), Schirru è in prima fila nelle nuove agitazioni sociali che gli costano un nuovo periodo detentivo, quantunque per fortuna riuscirà ad evitare il tribunale militare. Ritornato da disoccupato in Sardegna e deluso dal tra-


Foto elisacarta

Foto fondazionenivola

dimento del PSI durante le occupazioni delle fabbriche del 1919-20, decide di emigrare negli Stati Uniti d’America. Sbarca a New York il 2 novembre 1920, stabilendosi nella “Grande mela” alla 187a strada n. 561est, salvo un periodo di residenza (dal 1920 al 1921) a Pittsfield, Massachusetts. A Pittsfield, nel marzo del 1921, viene aggredito e ferito da quello che lui definisce un emissario del prete locale: «Fui ferito ad una spalla ed al fianco sinistro. Il mio assalitore fu ferito da una palla di rivoltella ad un piede, ed io venni arrestato ed accusato di assalto con intento di uccidere. Liberato sotto cauzione di trecento dollari, evitai il processo assentandomi...io, l’aggredito, ero l’accusato; il mio aggressore, perché sicario di un prete, era l’accusatore. La giustizia dello Stato è uguale in tutti i paesi. » Quando nel 1922 viene fondato il giornale anarchico «L’Adunata dei Refrattari», Michele Schirru si lega al gruppo, di cui fanno parte anche altri anarchici sardi, tra cui Salvatore Dettori, Antonio Giuseppe Meloni e Costantino Zonchello (per un breve periodo questi sarà anche direttore del giornale). Più tardi conoscerà Raffaele Schiavina, di cui peraltro

diventerà anche amico. A New York si sposa con una cittadina americana, Pirola Minnie, con cui si unisce in matrimonio nel 1925 e con la quale avrà due figli (Lela e Spartaco). Dopo aver svolto la professione di meccanico a Pittsfield, a partire dal 1925 a New York inizia un’attività di commercio di frutta che gli permette di migliorare notevolmente la sua situazione economica. Avrebbe potuto vivere tranquillamente se non avesse seguito il suo istinto libertario, che negli USA si era sicuramente consolidato. Sarà quest’istinto libertario che lo porterà a scontrarsi diverse volte con i fascisti americani ed a mantenere attivo il suo impegno in favore dell’anarchia. Nel 1926 acquisisce la nazionalità americana e partecipa attivamente ad una serie di iniziative di protesta, tra cui la campagna in favore di Sacco e Vanzetti, venendo fermato più volte dalle forze dell’ordine specialmente dopo scontri con i fascisti italo-americani. «Anche in America feci del mio meglio per non essere mai assente dalla lotta: contro l’opera nefanda del prete, contro l’infiltrazione fascista nelle colonie italiane». A partire dal 1929, Schirru viene schedato come “sovversivo” e sorvegliato dalle autorità italiane (segue pagina 18)

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Foto wikipedia.org

(segue dalla pagina 17) e americane in quanto inviava frequentemente ai suoi compaesani, compreso il segretario del fascio comunale, riviste anarchiche di ogni specie. Schirru intende far qualcosa per fermare il regime fascista e per questo decide di far rientro in Europa, dove vi giunge nel gennaio 1930. Nel mese seguente è già a le Havre, in Francia. Di qui si sposta a Parigi, poi nei pressi di Avignone (dove risiedono padre, madre e fratelli) ed infine a Milano, dove prende contatti con diversi compagni con i quali discute dei suoi propositi. Fatto rientro nuovamente a Parigi, fa la spola tra la Francia, Bruxelles (qui il 30 dicembre 1930 redige il suo Testamento), Charleroi e Liegi. Proprio in Belgio prepara i due ordigni che gli sarebbero dovuto servire per l’attentato, mantenendo stabili contatti con Raffaele Schiavina, Giuseppe Polidori (da cui riceve somme di denaro) e Emidio Recchioni. Il progetto, è quello di uccidere il “Duce”, sconfiggere il fascismo e innescare la rivoluzione sociale: accompagnato da Emilio Lussu alla stazione, da Parigi parte per l’Italia con due bombe (gennaio 1931). Giunto a Roma il 12 gennaio 1931, affitta una stanza presso l’Hotel Royal di via XX Settembre. Qui conosce la ballerina

Anna Lukowski, con cui si frequenta per un breve periodo trovandosi reciprocamente simpatici. Quando lo arrestano, il 3 febbraio 1931, si trova in albergo (Albergo Colonna, via Due Macelli) proprio con lei. Mentre lo conducono al commissariato, Schirru impugna una rivoltella e tenta di suicidarsi, ma senza “successo”. Rimane però ferito e per questo verrà ricoverato in ospedale. Nella sua stanza, al Royal, trovano bombe e corrispondenza varia. Inizialmente l’anarchico sostiene che quelle armi servivano per colpire alcuni fascisti del suo paese, solo successivamente, secondo la versione fascista, ammette che aveva intenzione d’uccidere il Duce. Schirru aggiunse però che, consapevole delle difficoltà dell’impresa, aveva oramai desistito dal proponimento di uccidere il Duce e si apprestava quindi a ripartire. Immediatamente dopo il suo arresto, i giornali anarchici dipingono Schirru come un eroe dell’antifascismo e dell’anarchismo: in Michele Schirru, pubblicato su «Il Risveglio anarchico» l’anarchico sardo è catalogato come un “vendicatore” (21 febbraio 1931); «L’Adunata dei Refrattari» lo dipinge come «l’incarnazione della rivolta integrale» (Michele Schirru,


Foto libreriauniversitaria

21 maggio 1931); «Vogliamo!» scrive che Michele Schirru «é l’eroe che balza sempre a tentare con il proprio sacrificio la conquista della libertà» (Battaglie d’attualità Michele Schirru, gennaio-febbraio 1931). Michele Schirru viene giudicato dal Tribunale speciale presieduto dal deputato fascista Guido Cristini. Il procedimento inizia il 27 maggio 1931. Michele Schirru ha il volto deturpato dallo sparo subìto dopo l’arresto. I giudici fascisti riescono ad aggravare la posizione dell’imputato, facendo credere che, al momento dell’arresto, egli intendesse sparare per uccidere e non per suicidarsi, cosa abbastanza inverosimile perché secondo le testimonianze il funzionario che lo aveva arrestato gli dava le spalle, al momento dello sparo e perché Schirru si ferisce alla faccia in seguito allo sparo. Di diverso parere è però Garosci, che scrive: «In questura quando vide che sarebbe stato perquisito, non volle almeno morire senza essere vendicato: estrasse la rivoltella e sparò sugli agenti e sul commissario, ferendoli». Al di là di tutto si può comunque immaginare che al momento dell’arresto ci sia stata una colluttazione e siano partiti alcuni spari in seguito alla stessa.

Durante il dibattimento l’anarchico sardo dice che aveva progettato l’attentato «per le mie idee anarchiche, per i compagni confinati nelle isole, per la speranza che con la caduta di Mussolini, cadesse tutto l’ordinamento politico dittatoriale e borghese della società». Schirru ribadisce alla corte che ormai aveva abbandonato ogni proposito d’attentato perché “l’operazione” era per lui troppo difficoltosa. Il suo avvocato Cesare D’Angeloantonio (avvocato d’ufficio, e quindi probabilmente non estraneo alle congetture fasciste) - “proverà “ a salvargli la vita, ma senza riuscirvi. La sentenza viene pronunciata alle 21 del 28 maggio 1931 e Schirru viene condannato alla pena di morte in quanto: «Chi attenta alla vita del Duce attenta alla grandezza dell’Italia, attenta all’umanità, perché il Duce appartiene all’umanità». L’avvocato presenta domanda di grazia, ma questa non viene nemmeno inoltrata dal comandante a cui era stata affidata. Il 29 maggio 1931, alle 4:27 viene eseguita la sentenza di morte. Mussolini volle che fossero 24 sardi volontari a sparare all’anarchico. Davanti al plotone d’esecuzione il giovane grida: «Viva l’anarchia, viva la libertà, abbasso il fascismo!». (segue pagina 20)

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Foto teatromassimo

(segue dalla pagina 19) Non aveva ancora compiuto 32 anni. Schirru affrontò il plotone d’esecuzione con molto coraggio suscitando, a quanto risulta da alcune fonti, l’ammirazione dello stesso Mussolini. Per il suo tentativo fallito e per il coraggio dimostrato Schirru si trasformò, dopo l’esecuzione, in un modello per l’anarchismo e per l’intero Antifascismo Reazioni all’esecuzione Il quotidiano locale de «L’Unione Sarda», il giorno dopo l’esecuzione, dedica due piccole colonne all’accaduto: «All’alba di ieri la giustizia ha compiuto il suo corso: Michele Schirru è caduto sotto il piombo del plotone d’esecuzione». L’articolo proseguiva ricordando che si trattava «della sanzione fisica di una morte moralmente già avvenuta». La colpa di Schirru era infatti doppia, oltre che anarchico egli si era anche ormai “americanizzato”, e in quanto tale non era degno di alcuna considerazione. «L’Adunata dei Refrattari» pubblica Il testamento di Michele Schirru esaltando «la nobiltà dei suoi scopi» e «l’adamantina fierezza del suo carattere». «Studi sociali», giornale di Montevideo, lo paragona ad Oberdan (12 giugno 1931), «Il Risveglio anarchico» ad un nuovo Gaetano Bresci (giugno

1931), aggiungendo enfaticamente anche che «dietro Michele Schirru, giovane sentinella perduta, già avanza la folla dei vendicatori e dei liberatori ignoti» (18 luglio 1931). Anche Camillo Berneri lo esalta: «Egli era certo che il suo esempio non sarebbe stato infecondo, che la disfatta rispetto all’obiettivo dell’impresa poteva risolversi in una vittoria. Egli ha vinto infatti. Egli è più vivo che mai.» (Pubblicato da Carlo Frigerio in Almanacco libertario pro-vittime politiche). Mesi dopo l’assassinio di Schirru, il 2 novembre, alcuni cittadini lasceranno due garofani rossi sulla sua tomba. Arrestati, saranno perseguitati a lungo. L’anno seguente, Angelo Sbardellotto, considerato il suo vendicatore, attenterà alla vita del Duce. Condannato a morte sarà poi sepolto in incognito. In “Michele Schirru. Vita, viaggi, arresto, carcere, processo e morte dell’anarchico italo-americano fucilato per l’«intenzione» di uccidere Mussolini”, Giuseppe Galzerano scrive che Michele Schirru fu rinnegato dal padre, dal fratello prete e dalla sorella. È certamente vero che la sorella Antonietta, segretaria della sezione femminile del fascio di Pozzomaggiore, non solo rinnegò il fratello ma chiese anche il cambio del suo cognome in Esquirro, arrivando quindi, per


dell’anarchico sia spesso rappresentata proprio da un autoritratto di Nivola. L’idea di Nivola era di realizzare una sorta di quadro storico che recuperasse dall’oblio la figura dell’anarchico, sconosciuta ai più e che rischiava di essere dimenticata”. I disegni vennero esposti a Roma nel 1977 ma non riuscì a realizzare quanto si proponeva. Tanto che in uno dei disegni accanto alla dedica scrive “mancato tentativo di esprimere l’epica storia di un sardo”.

puro fanatismo fascista, alla negazione dei più elementari e naturali sentimenti umani. Al contrario, non corrisponde al vero che il padre lo abbia rinnegato, infatti, pur essendo molto lontano dalle idee del figlio, egli sostenne attivamente il Comitato di difesa, rimanendo sempre in relazione costante con Jean Bucco di Parigi, e spedendo al figlio i soldi che venivano dai compagni di Parigi e di New-York, che pubblicarono successivamente il testamento politico nel loro settimanale «L’Adunata dei Refrattari». Dal blog: La bottega del Barbieri Una notazione a parte merita la figura di Schirru nell’arte di Costantino Nivola. L’artista di Orani, anche lui sardo trasferitosi negli States quasi 20 anni dopo, ha sentito per Schirru un sentimento particolare. Scrive nel suo blog Angelino Mereu, di Orani: “La vicenda di Schirru lasciò un segno profondo nell’artista (…) che in un certo qual modo si identificava con l’anarchico: entrambi sardi, entrambi vicini alle idee libertarie e antifascisti convinti, entrambi emigrati negli Stati Uniti. Non è un caso, quindi, se negli anni ’70, quando l’artista decide di onorare la memoria di Schirru”, nei numerosi schizzi e disegni che realizza, la figura

Canzoni: All’anarchico Michele Schirru è stata dedicata la canzone “Kenze Neke” dall’omonimo gruppo etno-rock sardo dei Kenze Neke. vedi il video https://youtu.be/W5kUq8t7sxo Teatro L’Associazione figli d’arte Medas ha messo in scena, insieme al gruppo dei Kenze Neke che ha curato le parti musicali, un’opera teatrale intitolata “L’Anarchico Schirru“e tratta dall’omonimo libro di Giuseppe Fiori. Interpretata ad Aritzo, Bittyi Cagliari é diventato ormai un classico del teatro sardo. vedi il video https://youtu.be/LgV4lF_4ZCw Fonti: Anarcopedia Ornella Demuru https://www.facebook. com/ainnantis/

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Foto galleria degli uffizi

NINETTA BARTOLI SINDACO

N

inetta Bartoli (Borutta, 24 settembre 1896 – Borutta, 1978) è stata una politica italiana, prima donna ad essere stata eletta sindaca in Italia. Nata da una famiglia nobile, Ninetta Bartoli (alcune fonti sostengono che avesse come secondo nome “Bartola”) ebbe la possibilità di studiare presso l’istituto “Figlie di Maria” di Sassari, la scuola più esclusiva della città. Avendo deciso di non volersi sposare e di rimanere nel suo paese, si avvicina all’ambiente culturale ecclesiastico locale dopo aver conosciuto il missionario Giovanni Battista Manzella. Nel 1945, dopo la fine della guerra, divenne segretaria della sezione locale della Democrazia Cristiana. L’anno successivo, quando decise di candidarsi alla carica di sindaco, venne sostenuta dai membri più importanti della DC provinciale, principalmente dalla famiglia Segni. Vinse le elezioni del 1946 con l’89% dei consensi, 332 voti su 371. A partire da quel momento, restò in carica per 12 anni, fino al 1958, quando il suo partito smise di sostenerla. Il giorno del suo insediamento scelse di farsi fotografare con indosso il costume tradizionale di Borutta, quello utilizzato nelle occasioni importanti.

Nel corso del suo mandato fece costruire le prime case popolari, le scuole elementari, l’asilo, il cimitero, il Municipio, l’acquedotto e l’impianto fognario. Istituì una cooperativa per la raccolta del latte e per la produzione del formaggio, una casa di riposo, una cooperativa agraria e avviò tutta una serie di iniziative per offrire posti di lavoro qualificati alle donne. Si occupò anche del patrimonio artistico; il restauro del complesso monastico di San Pietro di Sorres avvenne per opera sua, con l’investimento di soldi appartenenti a lei e alla sua famiglia. A partire dal 1955, venne fatta arrivare in quello stesso monastero una comunità di monaci benedettini, l’unica in Sardegna dopo molti secoli. Morì nel 1978 nel suo paese, a Borutta, dopo aver continuato a lavorare per la comunità anche in seguito alla fine del proprio mandato e ruolo istituzionale. Il comune di Borutta le ha intitolato un premio, dedicato a tutte le donne che si sono contraddistinte in ambito sociale, politico, economico o che hanno partecipato al lavoro in generale. È trascorso più di mezzo secolo da quando, nel 1946, per la prima volta in Italia una donna varcava la soglia di un Municipio per ricoprire il ruolo più importante, quello di sindaco.


MARGHERITA SANNA Da allora, tra battaglie femministe e quote rosa, l’ascesa delle donne nell’olimpo della politica è proseguita, rivelandosi, spesso, un percorso irto di insidie. E non senza curiose polemiche o rivendicazioni, come quella relativa a chi fu, cronologicamente parlando, la prima donna sindaco in Italia. Accanto alla Bartoli, fra le primissime donne elette alle elezioni di primavera del 1946 ci sarebbero, infatti, anche Margherita Sanna, al comune sardo di Orune, Ada Natali, al comune di Massa Fermana in provincia di Ascoli Piceno, e ancora Caterina Tufarelli Palumbo Pisani, eletta alla giovanissima età di 24 anni al comune di San Sosti in provincia di Cosenza. Secondo quanto alcuni storici da noi interpellati hanno ricostruito, a partire dalla documentazione conservata negli archivi comunali, nel 1946 le elezioni amministrative di primavera si tennero nelle giornate del 10, 17, 24 e 31 marzo e del 7 aprile. La Bartoli ottenne già nelle prima giornata di votazioni del 10 marzo l’ottantanove per cento delle preferenze, affermandosi , quindi, subito a sindaco del proprio paese. Per Caterina Tufarelli Palumbo Pisani il riconoscimento sarebbe avvenuto il 24 marzo, per Ada Natali il 31 marzo, per Margherita Sanna il 7 aprile. Questo quanto le nostre cronache hanno potuto racco-

gliere, ma che volentieri rimetteremo in discussione qualora emergessero evidenze diverse. La realtà dei fatti, però, è che al di là delle genuine e vivaci considerazioni campanilistiche, nel 1946 e per la prima volta alle donne italiane fu data la possibilità di esprimere la propria capacità di leadership anche nell’ambito della politica locale: risposero con autorevolezza, determinazione, tenacia, grandissimo impegno. Ninetta Bartoli avrebbe mantenuto l’incarico per 12 anni, Margherita Sanna per tre legislature, Ada Natali per 13 anni. E accanto a loro molte altre donne elette in quella stessa tornata elettorale: come la veneta Ottavia Fontana, la maestra elementare Alda Arisi di Borgosatollo, nel bresciano, Elena Tosetti di Fanano, nel modenese, Anna Montiroli di Roccantica, in provincia di Rieti, la calabrese Lydia Toraldo Serra di Tropea, la perugina Elsa Damiani Prampolini di Spello. Una prova di amore civico senza pari, nella complicata situazione politica e sociale del secondo dopoguerra italiano. E una lezione di quella generosità e dedizione che, molto spesso, solo il genere femminile sa dare. E che merita di non essere dimenticata. © Riproduzione riservata L’Unione Sarda wikipedia.org

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Foto ilmanifestoinrete

C’

è chi il coraggio non riesce proprio a darselo e chi viceversa ne fa una cifra stilistica declinata in modo personalissimo. È questo secondo il caso della curatrice artistica Elena Digioia, fiera anzitutto di appartenere alla genia degli operatori-creatori culturali, figure fondanti per la valorizzazione e interconnessione di tutto ciò che ancora non sappiamo esserci necessario conoscere o riscoprire. L’audacia che si attribuisce alle programmazioni targate Agorà, spettacoli ed eventi di pianura est, ben prima che molti volessero riferirsi a questo lessico alto e civile e più in generale, già antecedentemente, ai grandi progetti di Digioia per Liberty associazione, sulla pregnante drammaturgia europea di intellettuali donne, non è quella del nuovismo ad ogni costo o della furia sperimentatrice iconoclasta. La consapevolezza che abbiamo tutti oggi davanti, come commentatori, operatori, artefici e spettatori, è che occorra “mettere le mani in pasta”, dunque accettare il rischio di sporcarsele e rimodellare, ricostruire, ricomporre ciò che una crisi epocale di riferimenti, valori, motivazioni, orientamenti sta producendo nei sistemi della convivenza, nei nervi scoperti della società, nelle reti di prossi-

Epica

un festival teatrale ad alto contenuto poetico arti performative e linguaggi della scena contemporanea

dal 2 al 6 giugno 15 e 16 giugno

Castel Maggiore Pieve di Cento Castello d’Argile Bologna Tél.: +39 3338839450

mità, ora a rischio di falle visibili e non. Agorà, innanzi a questo scenario ha risposto con diverse scommesse ben ragionate prima durante e dopo la pandemia perché prima ancora che essere una stagione teatrale, sarebbe davvero improprio definirla cosi, specie ora che i tempi di vita attiva si sono rarefatti e dilatati in modo peculiare, dunque di fatto, sono molte, tutte le stagioni, è in realtà in primis un patto fiduciario tra molte comunità che hanno potuto riconoscersi come tali grazie al potere identitario del fatto culturale. Nei fatti, sta procedendo la ripresa in presenza di questa stagione bella e continua, al netto dei dispetti climatici, che porta un forte segno femminile, non solo a partire dallo staff di Digioia, ma anche dal forte input di Gottardi, assessora alle politiche culturali dell’Unione Reno Galliera, nonché sindaca di Castelmaggiore, ripresa che propone anteprime, chicche sperimentali, eventi pensati ad hoc e intanto guarda a questa idea di Festival davvero inusuale per diversi aspetti. Stiamo naturalmente parlando di Epica, un festival, in un certo senso positivo, non tale: non tale se per festival intendiamo un evento a parte, un po’ avulso dal contesto che funzioni come vetrina o super rassegna di cose mai viste che non potrebbero altrimenti


passare da qui o lì, una kermesse bulimica e vorace nello stesso tempo che consegni alla fretta degli incastri gli incauti globe trotters degli eventi più o meno culturali. E che mescoli, nell’ansia di offrire la famosa panoramica, le esperienze e situazioni più disparate, di nuovo a caccia della prossima big next thing di cui chattare, magari destinata ad un rapido mediatico consumo. Niente di tutto questo, in questa ennesima scommessa. “Quando ho avanzato la proposta di un festival, effettivamente, all’inizio” – chiosa Digioia – “ci sono state perplessità, perché proprio ora, mi dicevo io stessa e mi dicevano, in un momento così difficile perché transitorio, preludio di tante cose in fieri, forse è rischioso, poi proprio a partire da qui, dove festivals di un certo tipo non ci sono mai stati…. Ma in fondo neppure a Bologna, dove poi sconfineremo…perché alla fine, bisogna anche avere il coraggio di dire che questa è la nostra vasta e composita area metropolitana… E questo discorso, che sembra, forse è un azzardo, di partire per primi…nella stagione dei festivals, a ridosso di una insidiosa pandemia che non possiamo dare per sconfitta. Nello stesso tempo, tutte queste ragioni di dubbio pro-

Il fiore di Nino Migliori Immagine simbolo del festival un’opera del fotografo Nino Migliori tra i più autorevoli e multiformi ricercatori nel campo della fotografia. La foto è tratta da Muri, del 1973.

ficuo, sono punti di forza, se intenderemo festival come festa, celebrazione del tornare a trovarci intorno al fatto teatrale. Se intenderemo Epica, non solo nel senso di una lotta romantica e titanica, ma, recuperando la radice epos, se penseremo ad un racconto, una narrazione che Agorà ormai snoda da anni in spazi e luoghi consacrati e no al genio teatrale, ma certamente, in territori che si fregiano di un’attenzione alla tutela ambientale e paesaggistica che è già epica culturale per suo conto. Territori che sono resi forti dalla risposta resiliente ad eventi potenzialmente catastrofici, come terremoti e pandemie. Territori dunque pronti per una proposta ulteriore, che preveda un passo in più, che chiami a raccolta un pubblico ormai fidelizzato e lo faccia incontrare con la vasta e variegata comunità teatrale itinerante tipica delle abituali kermesses insieme con quella di addetti ai lavori ed operatori di settore, che hanno bisogno soprattutto di linfa relazionale, in modalità non stressanti e competitive. Infatti le riserve si sono sciolte subito e la risposta come sempre è stata compatta e coesa, perché evidentemente si dava corpo ad un bisogno profondo di prendersi tempo in più per stare ancora una volta insieme”.(p26)

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Foto melinamulas

(segue dalla pagina 25) Festa mobile dunque sì, ma connotata dal respiro profondo, regolare, ritmico, dell’esperienza immersiva, quella in cui l’abbandono si accompagna ad una capacità accresciuta di pensiero ed elaborazione. “C’è tutto l’opposto dell’ansia del fare ad ogni costo e del riprendere tutto come prima in questa nostra avventura. Credo abbiamo tutti voglia di incontrarci, di rivederci, lì dove troviamo terreni comuni e di affinità, ma abbiamo bisogno di ripensarci, di prendere tempo per curarci con parole balsamiche, di stupirci di nuovo con la bellezza, per un lungo attimo così distante dalle nostre vite. Lentezza, ci serve, per capire cosa non è andato bene e cosa tuttora non va. In questo senso un festival che è una opportunità in dono a noi stessi e che vuole sedimentare e radicare, aggiungo io”. La caratteristica infatti saliente di questo festival, oltre alla nota attenzione alla teatrabilità dei paesaggi e dei posti del cuore di ogni comunità, è quella che personalmente mi è molto cara, della trasmissione di esperienza tra generazioni, dell’innesto quasi arboreo dei linguaggi così come avveniva per i nostri antichi lari tutelari, del lasciare spazio sia alla crescita del nuovo, che al riproporsi e rapportarsi al nuovo del già sperimentato, acqui-

Voce che apre Mariangela Gualtieri Teatro Valdoca Mercoledì 2 giugno ore 21.30 Villa Salina Malpighi Via Galliera 2 Castel Maggiore BO rito sonoro di e con Mariangela Gualtieri con la guida di Cesare Ronconi

sito, anteriore. Tutto questo sembra scaturire con naturalezza dalle visioni di Digioia, avvezza a pensare la scena teatrale tutta come una sorta di ecosistema che si nutre di molte linfe in delicato equilibrio chimico. Quella chimica che accende ogni innamoramento e che fa scaturire la parola, da sempre elemento portante delle proposte di Agorà, parole che è bene ricordare in questa magnifica piazza espansa, non si sono mai spente neppure nei momenti di clausura più dura, raggiungendoci come soffio e poi come scoria, singhiozzo, reperto, dal nostro piccolo mondo sospeso fatto di relazioni virtuali, consegne e coprifuoco. Adesso qui, tuttavia, con prudenza, accortezza si discuterà anche perché è importante avere voglia di confrontarsi e dibattere su tutto questo nostro raccontare. Un festival dunque sfaccettato e ricco di momenti e movimenti diversi che vede una inedita sinergia tra programmazioni di area metropolitana e cartellone di Bologna Estate, con particolare attenzione al tema lettura e parola detta, che è sempre stato nelle corde di Digioia, come del resto l’attenzione a quei presidi socioculturali complessi che sono le biblioteche, troppo spesso neglette nel novero degli spazi culturali. Le compagnie dunque saranno quindici e una trentina gli eventi tra Castel maggiore, Castello d’Argile, Pie-


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ve di cento e naturalmente Bologna. Ci sono i teatri, ma anche tanti luoghi insoliti coinvolti come la rocca a Pieve di Cento, il giardino dell’ex cimitero ebraico e ci sono anche raffinati intrecci tra cinema e teatro che ci stupiranno sicuramente e contribuiranno a creare dimensioni diverse al nostro stare e guardare. Tutto inizierà il 2 giugno a Villa Salina Amorini con un rito sonoro, come lei stessa li definisce, agito da Mariangela Gualtieri di Valdoca dal titolo emblematico Voce che apre, mentre all’interno della villa sarà visibile una mostra fotografica dedicata al progetto le Stagioni invisibili, tra danza e paesaggio, una delle cifre di riconoscibilità di stagione Agorà. Il gesto del dire si esplicherà peraltro anche in Sala Borsa a Bologna ad opera di Roberto Latini, recentemente visto con commozione prodursi in una sorta di evocazione del poeta Garcia Lorca e qui impegnato con il poemetto Venere e Adone e una riflessione sulla immaterialità della rappresentazione. Il dire pubblico è anche la cifra dello scrittore, traduttore, affabulatore Paolo Nori che propone l’esperimento della lettura integrale nel cimitero di cui sopra, della morte di Ivan Illic da Tolstoj. Che ci sia voglia di sostenere il coraggio degli artisti di andare comunque avanti, nella tessitura di questa

Venere e Adone siamo della stessa mancanza di cui son fatti i sogni

Roberto Latini Fortebraccio Teatro Giovedì 3 giugno 2021 ore 20, 21, 22*

Salaborsa Piazza del Nettuno, 3 Bologna INGRESSO LIBERO CON PRENOTAZIONE

Venerdì 4 giugno 2021 ore 18 e ore 20

Villa Salina Malpighi Via Galliera 2, Castel Maggiore BO BIGLIETTO UNICO EURO 5

rassegna è evidente anche nella presentazione di questo primo studio sul testo Marta e Harvey da parte di Oscar de Summa e Marina Occhionero, come pure nel riproporre al giardino delle sculture “A colpi d’ascia” quel lavoro da Bernhard di Marco Sgrosso che andava recuperato da una sfortunata serata di pioggia. Luogo più topico di un podere non potrebbe invece esserci per presentare una chicca come il bestiario di Teatrino del Giullare e Angela Malfitano, una riflessione sul rapporto tra noi e mondo animale che i tempi per tanti versi sembrano davvero richiedere. Possiamo poi dire un classico: toh, chi si rivede, se ci riferiamo alla compagnia Tiresia Banti che vede insieme due figure davvero epiche della scena teatrale di ricerca, cosi deprivata drammaticamente di maestri in questi due ultimi anni, quali Antonio Attisani, già realizzatore di memorabili edizioni del festival di Santarcangelo e Cesar Brie, magnifico esponente di quella scuola sudamericana che adopera stilemi popolari del teatro di figura per parlare grottescamente della nostra tragicità di umani: anche in questo caso il lavoro è un’anticipazione dal significativo titolo, “Le conseguenze dell’amor teatrale”. Il nome di Tiresia, quanto mai evocativo, ci conduce (segue pagina 28)

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Foto paoloporto

(segue dalla pagina 27) dritti alla presenza al festival di Giorgina Pi, ovvero bue motion teatro da Roma, straordinaria figura di teatrante cineasta attivista femminista, maestra della decolonizzazione linguistica che pratica costantemente anche nel lavoro di traduzione e proposizione al pubblico di artisti anglofoni. Nel caso di Kate Tempest, artista indefinibile tra scena musicale e poetica, al centro di un processo di transizione di genere che oggi la identifica come Kae, si è trattata di una felice folgorazione basata proprio sul potere della parola, che ha prodotto il bellissimo lavoro Tiresia, qui distillato in opera video, Hold your own, Tiresia, b side, che verrà presentato unitamente ad una sorta di installazione in cuffia, della durata, anche questa inafferrabile come la materia dei sogni cara a Latini, di un “abbraccio intimo” (e sfido chiunque a dire non ve ne sia bisogno, proprio adesso), dal titolo “Nata vicino ai fantasmi, nata Tempesta”. Video, cinema, dicevamo che fanno la loro parte in queste giornate che si suppongono e sperano dedicate anche ad un felice ritrovarsi tra compagni di viaggio e conseguentemente esploratori di linguaggi. Proprio per questo le sensibili antenne di Ateliersi saranno rappresentate da una produzione filmica dell’artista visuale e vi-

Boccascena ovvero, le conseguenze dell’amor teatrale Prova aperta con racconto

Antonio Attisani e César Brie Compagnia Tiresia Banti Venerdì 4 giugno 2021 ore 19

Villa Salina Malpighi Via Galliera 2, Castel Maggiore BO Sabato 5 giugno ore 19 Teatro La Casa del Popolo Via Matteotti 150, Castello d’Argile BO

sionario Cosimo Terlizzi e la conclusione di questa prima tranche del festival, il 6 di giugno sarà affidata alla festosa proiezione del film che le Albe teatro hanno realizzato negli slums di Nairobi, ovvero Kybera, periferia dell’impero, alle prese con una illuminante pedagogia dantesca universale, consolatoria per il superamento della condanna biblica alla incomprensione, appunto, dei linguaggi. A questo punto dobbiamo ancora dire che le tavole rotonde sul raccontare, cosa, come raccontare, sono affidate alla sapiente cura di Lorenzo Donati, di Altre velocità e che comprenderanno la presentazione di un libro di Laura Mariani dedicato appunto alla produzione filmica di Albe. Fin qui, abbiamo parlato, della tranche del festival 2-6 di giugno, ma è doveroso dire che per il 15 e 16, nell’incantevole scenario di Arena orfeonica, è previsto il debutto dell’ultimo lavoro di Kepler 452, visto in anteprima a Castello d’Argile. Un lavoro di cui vi ho accennato, su cui ritornare, che offre molteplici chiavi di lettura e che, dobbiamo dirlo, rappresenta un momento significativo nell’evoluzione di Kepler. Un lavoro duro, tutt’altro che buonista, non consolatorio, ma che, a mio avviso, offre spunti interessantissimi sul nostro rapporto, non tanto e non solo con le


attivando spunti di riflessione sull’alterazione e le trasformazioni avvenute a causa di questo anno pandemico “mai prima d’ora”. Vorrei essere in grado di guardare il mondo con gli occhi di altre cento persone, diceva Proust. Se facessimo così saremmo in grado di cogliere qualcosa di questo mondo. Frie Leysen

Foto lauchourmo

A modalità social di odierna interazione, ma anche con tutto il nostro patrimonio storico-culturale. Un lavoro giustamente che anche i super giovani dovrebbero vedere, imparando forse strumenti con cui metabolizzare per trascenderla la violenta volgarità che ci circonda, ci assedia perché insita forse nei rapporti di forza, nella cupa fatalità dei tempi e non solo nelle tecnologie in se stesse. Detto questo, mi pare d’obbligo consigliare a tutti di collegarsi in ogni modo a Agorà per prenotare: le primizie, si sa, attirano tanto e le normative da rispettare sono altrettanto stringenti. Ma, come sempre, in casi come questi, ne vale la pena. Silvia Napoli

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al 2 al 6 giugno e il 15 e 16 giugno nel territorio della Città Metropolitana di Bologna – nasce e germoglia come frutto della semina di relazioni e azioni creative e culturali delle ultime cinque stagioni di Agorà, Epica Festival, arti performative e linguaggi della scena contemporanea, nuova creazione teatrale a cura di Elena Di Gioia. Epica Festival, dopo un anno in cui il sistema teatrale si è fortemente isolato e forzatamente chiuso, intende rilanciare la centralità del sostegno a artisti generando occasioni di confronto, azioni di sostegno,

Tiresias Bluemotion/Giorgina Pi Venerdì 4 giugno ore 21.30* Villa Salina Malpighi Via Galliera 2, Castel Maggiore BO un progetto di BLUEMOTION da Hold your own/Resta te stessa di Kae Tempest traduzione di Riccardo Duranti

regia Giorgina Pi con Gabriele Portoghese una produzione Angelo Mai/ Bluemotion

Frie, ai passi minuti da gigante. Quali passi minuti compongono un orma gigante? Come attraversare l’avventura? Come nasce un nuovo festival? Epica Festival è un nuovo fiore di progetto che riconvoca la comunità del Teatro. Un atto concreto e simbolico, far nascere un nuovo progetto proprio ai tempi della pandemia. Per sottolineare la necessità di un rilancio verso artisti, linguaggi della scena, pubblico. Mescolando le carte, ricombinando processi, progetti e prossimità, riflessioni e sostegno ad artisti e artiste, antenne della contemporaneità, rilanciando la relazione con il pubblico, negli orizzonti inquieti verso i quali intravvedere scenari possibili, per provare a ritrovarci compagni di viaggio nell’arte e nel teatro. Elena Di Gioia Direttrice artistica Epica Festival (segue pagina 30)

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(segue dalla pagina 29)

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Foto peterlindbergh

i riparte! Siamo particolarmente felici che la stagione teatrale Agorà, interrotta per tanti mesi a causa delle restrizioni Covid-19, possa ripartire con uno slancio progettuale nuovo, che innerva e rafforza il lavoro di affondo nelle comunità e nei luoghi della Unione Reno Galliera. Il teatro e la cultura in generale rappresentano un settore produttivo fondamentale per la crescita e la socializzazione della nostra collettività. E’ importante ripartire in sicurezza e con nuovo “viaggio” di spettacoli e incontri con il festival Epica. Sono certa che il coraggio di questa scelta potrà suscitare la risposta entusiastica del territorio della Unione Reno Galliera nel ritrovarci al centro di quella “piazza del teatro e della cultura” che stiamo insieme componendo. Belinda Gottardi Cultura, Pari opportunità, Promozione del Territorio – Unione Reno Galliera

h t t p s : / / w w w. i l manifestoinrete. it/2021/05/29/epica-un-festival-teatrale-ad-alto-contenuto-poetico/

Untold Stories é la prima esposizione su Peter Lindbergh organizzata dall’autore stesso A Torino sarà presentata la versione completa del progetto fino al

13 agosto 2021

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ato nel 1944 e cresciuto a Duisburg, il fotografo tedesco ha trascorso due anni lavorando a una libera raccolta di 140 fotografie che offriranno una visione profonda della sua vasta opera, dai primi anni ’80 ai giorni nostri. La mostra celebra l’eredità di Peter Lindbergh, scomparso nel settembre 2019, e mostra l’approccio molto personale di questo maestro nel suo lavoro. La mostra è concepita in tre capitoli. Due installazioni di grandi dimensioni completano la presentazione e gettano una luce fresca e sorprendente sul lavoro di Lindbergh. Manifest, la monumentale installazione di apertura, che presenta diversi blueback di grandi dimensioni, è stata sviluppata appositamente per la presentazione e fornisce un’introduzione coinvolgente e stimolante alla comprensione della fotografia di moda di Lindbergh. Nella sezione centrale della mostra, Lindbergh ha scelto e organizzato insieme le immagini che considerava personalmente fondamentali nell’ambito della sua opera. Ha sperimentato con i suoi materiali d’archivio e ha rivelato nuove storie rimanendo fedele al suo linguaggio. Fotografie emblematiche insieme ad altre mai viste prima, vengono esposte in coppia o in gruppi, dando luogo a interpretazioni inaspettate e suggestive.


La mostra si chiude con la video installazione Testament (2014), che svela un lato fino ad ora sconosciuto della pratica e del carattere del fotografo tedesco. Girato attraverso uno specchio unidirezionale, il video mostra lo scambio silenzioso tra la telecamera di Lindbergh ed Elmer Carroll. Il detenuto nel braccio della morte della Florida ha trascorso 35 minuti a guardare attentamente il suo riflesso: meditativo, introspettivo e con un’espressione facciale minima. Presentata per la prima volta, l’installazione Testament aggiunge una dimensione inaspettata alla mostra e apre una discussione su argomenti che erano di centrale importanza per Peter Lindbergh: introspezione, empatia e libertà. “La retrospettiva su Peter Lindbergh (1944-2019) è insieme un omaggio, un ritratto e un autoritratto. La selezione delle immagini è stata curata da Lindbergh stesso, con una lunga immersione nei suoi archivi attraverso quarant’anni di vita e di lavoro. Una mostra intima, quasi un testamento inconsapevole, che si sviluppa come un diario, dove Lindbergh si racconta attraverso le sue immagini. Molto le fotografie famose, molte quelle inedite, pagine celebri e altre segrete, untold stories, che ora, tutte insieme, formano un percorso avvolgente e suggestivo.

Sono le immagini a creare la narrazione, a raccontare Lindbergh come le parole non riuscirebbero, instaurando un rapporto diretto con lo spettatore, con un’intimità e una sensorialità che nega la natura fredda e patinata dell’obbiettivo di moda. D’altronde Lindbergh è un fotografo, non solo un’icona di quella fotografia di moda che rivoluzionò all’inizio degli anni Novanta, quando ritrasse un gruppo di giovani modelle sconosciute cogliendole per strada, senza trucco e vestite in jeans e maglietta. Erano Linda Evangelista, Naomi Campbell, Christy Turlington, Tatjana Patitz e Cindy Crawford. Bellissime ragazze vere, ciascuna con una propria personalità. Qualcosa di completamente diverso dai soliti stereotipi. Uno scatto che la neodirettrice di Vogue, Anna Wintour, usò per la copertina del gennaio 1990, l’inizio del fenomeno delle supermodelle. Nessuno le aveva mai mostrate come donne, persone, la cui bellezza si anima andando oltre al puro piano estetico. Così è stato per chiunque si sia posto davanti al suo obbiettivo, volti e corpi di attrici, modelle e attori che si rivelano in ritratti intimi e psicologici, profondamente umani e organici. Scatti al naturale, empatici, senza ritocchi in postproduzione. (segue pagina 32)

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PETER LINDBERGH

Foto stefanrappo

«Dovrebbe essere questa la responsabilità dei fotografi di oggi: liberare le donne, liberare finalmente tutti, dal terrore della giovinezza e della perfezione», scriveva nel 2015 nel suo libro “Images of Women II”. Un’attenzione estetica ed etica sulla potenza della verità spontanea della bellezza femminile, che evoca quello della grande fotografa Eve Arnold, colei che raccontava le dive (e non solo) cercando di conoscerle come persone attraverso l’obbiettivo. E così le rendeva stupende e immortali. Vengono anche in mente i ritratti pittorici di Lucien Freud, che tirava fuori dai suoi modelli delle confessioni private, riuscendo a trasfondere nella carnalità dei corpi la loro natura e lo spirito più profondo. Come per Freud, a volte si prova quasi imbarazzo di fronte a personaggi famosi di cui si intuisce l’anima, e se ne percepisce sempre una certa malinconia. Lindbergh, infatti, diceva di non cercare il sorriso nei volti, perché toglie le sfumature e tutto quello che emerge dai lineamenti. E proprio dai volti è partito quando ha scoperto la fotografia, dopo aver fatto il pittore, il vetrinista e altri lavori in giro per il mondo. Olga Gambari Paratissima https://paratissima.it/peter-lindbergh-untold-stories-torino/

“Mio fratello ebbe dei bambini meravigliosi prima che diventassi padre io e, per qualche motivo, li avevo voluti fotografare. Fu allora che acquistai la mia prima macchina fotografica. C’è qualcosa di totalmente inconscio nei bambini. È così che ho imparato», dichiarò al Guardian nel 2016. el suo sguardo e nel suo senso compositivo si ritrova il realismo di un certo documentarismo antropologico, da Walker Evans, Garry Winogrand e August Sander a Paul Strand e Dorothea Lange (quale volto ha una bellezza più struggente di quello della donna che guarda l’orizzonte con i figli al collo, vestita di stracci, già vecchia nei suoi trent’anni, simbolo degli Stati Uniti stremati dalla Grande Depressione del 1929?). E si ritrova anche la lezione della street view, l’occhio inquieto che si aggira per le strade metropolitane e ne fotografa scorci e piccoli eventi improvvisi, le masse e gli individui, la solitudine nella folla. Una visione e un’inquadratura spesso cinematografica, la sua, con immagini in movimento, che a volte sembrano frame estratti da una pellicola e altre fanno riferimento ai set negli studi di ripresa e ai generi del cinema, dall’on the road nel paesaggio americano alla fantascienza. Il suo caratteristico bianco e nero duro e pastoso, for-

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temente contrastato, ha dentro la forza drammatica del cinema espressionista tedesco, con un’ispirazione diretta a Metropolis, capolavoro visionario del 1927 con cui Fritz Lang realizzò un manifesto d’accusa contro la nascente società meccanizzata e disumanizzante. Un’atmosfera familiare per Lindbergh, cresciuto a Duisburg, cittadina industriale nel nord della Germania. onosciuto per le sue memorabili immagini cinematografiche in bianco e nero, Peter Lindbergh è stato pionere di una nuova forma di realismo ridefinendo gli standard di bellezza. Il suo approccio onesto lo distingue dagli altri fotografi poiché dà priorità all’anima e alla personalità dei soggetti ritratti. Lindbergh ha cambiato drasticamente gli standard della fotografia di moda in tempi di ritocchi eccessivi, credendo che “la bellezza è avere il coraggio di essere se stessi“. Alla fine degli anni ’80, Lindbergh ottiene consensi internazionali e lancia le carriere di una nuova generazione di modelle, fotografandole successivamente con camicie bianche e trucco appena accennato, e subito dopo per le strade di New York per il numero di gennaio 1990 di British Vogue. Considerata da molti come il “certificato di nascita delle top model”, la copertina ora leggendaria ha lan-

ciato la carriera di figure come Linda Evangelista, Naomi Campbell o Tatjana Patitz. Lindbergh è stato il primo fotografo a includere una narrazione nella sue serie di moda e il suo racconto ha introdotto una nuova visione della fotografia di moda. Il suo lavoro è noto soprattutto per i suoi ritratti singolari e rivelatori e le forti influenze del primo cinema tedesco e dei suoni industriali della sua infanzia trascorsa a Duisburg, nella Renania settentrionale-Vestfalia. Dalla fine degli anni ’70, Peter Lindbergh ha collaborato con tutti i principali marchi e riviste di moda tra cui le edizioni americana e italiana di Vogue, Rolling Stone, Vanity Fair, Harper’s Bazaar US, Wall Street Journal Magazine, Visionaire, Interview e W. Il suo lavoro è parte delle collezioni permanenti di numerosi musei d’arte e le sue fotografie sono regolarmente esposte in prestigiose istituzioni in tutto il mondo, tra cui il Victoria & Albert Museum (Londra), il Centre Pompidou (Parigi), il MoMA’s PS1 (New York), l’Hamburger Banhof ( Berlino), il Bunkamura Museum of Art (Tokyo), il Pushkin Museum of Fine Arts (Mosca) e più recentemente il Kunstpalast di Düsseldorf. Olga Gambari, https://paratissima.it/peter-lindbergh-untold-stories-torino/

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SEDIA (SEat Designed for Interactive Arts)

Foto albarobot

nome è più semplice che non si può, «Sedia», ma promette di essere la prima poltrona intelligente a rivoluzionare la mobilità all’interno dei musei. A partire dalla nostra Gam. Un sistema a supporto degli spostamenti del pubblico, con l’utilizzo delle migliori tecnologie provenienti dal mondo della robotica. Merito di Alba Robot, startup torinese fondata nel 2016 e capace di trasformare i veicoli personali elettrici in veicoli autonomi e intelligenti. Forme e comodità invece sono firmate Granstudio, azienda specializzata in consulenza creativa nel campo del mobility design. Il risultato è una poltrona a guida assistita e a comando vocale, capace di trasportare l’utente in tutti gli angoli del museo e di raccontare storia e aneddoti delle opere d’arte. Un servizio completo pensato inizialmente per le persone con disabilità, ma adatta a tutti. «Nel 2016 mia nonna ha dovuto cominciare a muoversi in carrozzina per un’artrosi al ginocchio (racconta Andrea Segato Bertaia, 46 anni, informatico e mente del progetto Alba) e da lì è nata la nostra idea: creare piattaforme per lo spostamento autonomo di veicoli elettrici sia per le persone diversamente abili, sia per quelle normodotate.

Vogliamo lanciare un messaggio che valichi la morale comune e che rovesci il punto di vista, facendo capire che la tecnologia è prima di tutto libertà, anche nell’apprezzare le bellezze del nostro Paese». La pandemia ha impattato fortemente sul versante culturale e i vari enti hanno riformulato e adeguato le proprie proposte alle nuove esigenze, tant’è che l’80% dei musei oggi offre almeno un contenuto digitale. Questo ha reso la cultura più accessibile e ne ha permesso la sperimentazione in situazioni diverse. Grazie al digitale, infatti, si è aperta l’opportunità di ripensare il rapporto con l’utente come un’esperienza estesa nel tempo e nello spazio. «Sedia» intercetta questa nuova necessità, aumentando l’esperienza museale sia in modo fisico che digitale. Una poltrona mobile per chi ha difficoltà a stare in piedi per ore, ma anche una guida museale perfetta. «Dalla mia personale esperienza, come studiosa e amante dell’arte in sedia a rotelle, mi sono accorta che spesso nei musei lo spazio di transito non è adeguato al passaggio di carrozzine e passeggini ( racconta Lorenza Trinchero, consulente di Alba Robot) l’altezza dei reperti esposti non consente l’agevole visione a persone con campo visivo più basso, e


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lo stesso problema si pone per i pannelli esplicativi. Così ho unito il mio background storico-artistico con le competenze di Alba Robot per riaprire i luoghi di cultura e bellezza a tutti, in modo che questa nuova ripartenza – anche del sistema dell’arte – possa essere più inclusiva verso le categorie più fragili». Ma le potenzialità di «Sedia» sono infinite, e difatti la startup ha già attirato le attenzioni internazionali: «Attualmente stiamo parlando con alcune aziende americane per portare la nostra piattaforma anche negli aeroporti e negli ospedali (afferma Bertaia) con poltrone meno belle esteticamente ma più funzionali per i pazienti. In città invece stiamo già collaborando con Torino City Lab, e abbiamo firmato il primo accordo con il museo della Gam. Il nostro obiettivo è di riuscire ad accontentare tutti i musei d’Italia con funzioni personalizzate. Speriamo di poter garantire i primi prodotti entro la fine del 2021». Nicolò Fagone La Zita https://torino.corriere.it/economia/21_maggio_26/ nasce-sedia-poltrona-smart-che-ti-sposta-musei-tispiega-l-arte-

a pandemia ha impattato fortemente sul versante culturale ponendolo di fronte a nuove sfide, ma anche a nuove opportunità in risposta alle mutate esigenze degli utenti. Le istituzioni culturali hanno riformulato e adeguato le proprie competenze, mutando il tipo di esperienza offerta: l’80% dei musei ha offerto almeno un contenuto digitale¹. Questo ha reso la cultura più accessibile e ne ha permesso la sperimentazione in situazioni diverse. ALBA Robot, startup innovativa specializzata nella realizzazione di sistemi di mobilità evoluta, in collaborazione con Granstudio, società di consulenza creativa nel campo del mobility design, ha ideato SEDIA, (SEat Designed for Interactive Arts), un servizio di micromobilità per interni costituito da una serie di sedute innovative che rendono più confortevole e mobile lo spostamento all’interno degli ambienti museali e regalano una fruizione completa e senza ostacoli del patrimonio artistico e architettonico italiano. “SEDIA” presenta un design minimale ed elegante, che si sposa con ogni interno museale, così da creare un’esperienza di mobilità autonoma e comoda, non ingombrante, e che fa sgranchire le gambe (segue pagina 36)

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Foto corrieredellasera

(segue da pagina 35) o riposarsi a qualsiasi persona in ogni momento del suo percorso di visita. “Lavoriamo per realizzare una nuova mobilità personale indoor ed in aree pedonali, partendo dalle esigenze di chi va più piano” - dichiara Andrea Segato Bertaia Ceo e Co-founder di ALBA Robot. “Nel 2016 mia nonna ha dovuto cominciare a muoversi in carrozzina per una artrosi al ginocchio e da lì è nata l’idea di ALBA Robot: creare piattaforme per lo spostamento autonomo di veicoli elettrici, sia per le persone diversamente abili, sia per quelle normodotate. Vogliamo lanciare un messaggio che valichi la morale comune e che rovesci il punto di vista, facendo capire che la tecnologia è prima di tutto libertà, anche nell’apprezzare le bellezze del nostro Paese.” “Accessibilità significa anche buona accoglienza, gentilezza, mettere a proprio agio il visitatore” racconta Lorenza Trinchero, social media e consulente di progetti di ALBA Robot. “Dalla mia personale esperienza, come studiosa e amante dell’arte in sedia a rotelle, mi sono accorta che spesso nei musei lo spazio di transito tra le vetrine allestitive non è adeguato al passaggio di veicoli (come carrozzine e passeggini); l’altezza dei reperti esposti non consente l’agevo-

le visione a persone con campo visivo più in basso; lo stesso problema si pone per i pannelli esplicativi. Ho voluto unire il mio background storico-artistico con le competenze di ALBA Robot per riaprire i luoghi di cultura e bellezza a tutti, di modo che questa nuova ripartenza - anche del sistema dell’arte - possa essere più inclusiva anche verso le categorie più fragili”. “Il nostro futuro conoscerà una maggiore diversità di veicoli e servizi che si adattano a un uso e un contesto molto specifico. ALBA Robot - Advanced Light Body Assistant - spinoff di Moschini Spa e Teoresi Spa - è nata nel 2016 da Andrea Segato Bertaia per rispondere inizialmente a un’esigenza personale e dal 2019 è una startup innovativa. Attraverso l’esperienza maturata su applicazioni critiche per la sicurezza nei trasporti, ALBA Robot lavora allo sviluppo di veicoli autonomi connessi per muovere in sicurezza persone e merci per realizzare servizi di mobilità avanzati, autonomi ed economici, che soddisfano anche le esigenze di strutture e utenti privati, come musei, ospedali e aeroporti. Granstudio è uno studio di ricerca e design di mobilità innovativa. Lo studio unisce un’ampia comprensione del futuro della mobilità con una profonda esperienza nel design automobilistico. https://www.ipresslive.it/


Foto anfiteatro mastaura

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questi ultimi anni è un continuo susseguirsi di “scoperte eccezionali” in ambito archeologico: ma è davvero così? Ciò che viene comunicato sui media è sempre eccezionale? Cosa accade in realtà e come stanno le cose? A un lettore accanito di giornali, se poco incline all’approfondimento personale, questa potrebbe, dovrebbe apparire un’età straordinariamente fiorente per la ricerca archeologica italiana e globale: nell’ultimo quinquennio sono state comunicate al mondo scoperte quali quella di una città che costituirebbe “la più importante scoperta archeologica in Egitto dopo la tomba di Tutankhamon”, o dell’iscrizione che “cambia la data” dell’eruzione di Pompei; e ancora, è stato comunicato il ritrovamento del “Colosseo d’Anatolia”, della tomba di Aristotele, del vino più antico del mondo, del birrificio più antico del mondo, del dipinto più antico del mondo… E per focalizzarci sull’Italia nuove scoperte descritte come “eccezionali” costellano le pagine dei giornali locali e non, siano esse ville con mosaici, anfiteatri, teste d’Augusto, necropoli puniche, tracce di insediamenti preistorici e tanto altro ancora. Basta un rapido sguardo sui principali motori di ricerca per notare che, solo limitandoci alla lingua italiana, “scoperte archeologiche eccezionali” o “straordina-

Ma perché in questo periodo fioccano tante “scoperte eccezionali” in archeologia? di Leonardo Bison https://www.finestresullarte.info/

rie” vengono comunicate circa una volta al mese, o più, dalle Alpi alla Sicilia. Tutto questo può lasciar interdetto il lettore: possibile che ciò avvenga in un momento in cui la disciplina archeologica lamenta da anni tagli e carenze strutturali, sia nella sua parte ministeriale, sia nella sua parte di ricerca universitaria? Davvero questi eroici archeologi, nonostante i fondi limitati, riescono a individuare così tante straordinarie scoperte? La risposta a questa domanda è complessa, e non legata soltanto, o per la maggior parte, alla necessità delle testate giornalistiche di ottenere molti clic con titoli altisonanti. Ci sono diverse ragioni e motivazioni che portano ad annunciare scoperte “straordinarie” con questa frequenza: attraverso l’analisi di alcuni casi recenti proveremo a illustrarle in breve. La terra da cui indubbiamente sono arrivate la maggior parte delle scoperte eccezionali che hanno avuto eco globale nell’ultimo quinquennio è l’Egitto. Qui è stato annunciato, in ordine sparso e non esaustivo, solo tra la fine del 2019 e oggi la scoperta della tomba di Cleopatra, di un centinaio di sarcofagi intatti, del birrificio più antico del mondo ma soprattutto della “città d’oro perduta” di Aten, (segue pagina 38) (segue dalla pagina 37) presso Luxor, annunciata

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Foto pompei termopolio

nell’aprile 2021 e presentata come “il più importante ritrovamento dalla scoperta della tomba di Tutankhamon”. A presentare queste scoperte scoperte, in un climax interrotto solo dalla dovuta smentita riguardo la supposta tomba di Cleopatra, c’era sempre lui, Zahi Hawass, il direttore delle antichità per il governo di Al-Sisi, che già aveva rivestito lo stesso incarico per il governo di Mubarak, deposto dalle rivolte del 2011. Come sempre in questi casi, i comunicati stampa precedono qualsiasi pubblicazione scientifica contenente i dati di scavo. E dai comunicati sappiamo che è stata ritrovata “una grande città in buone condizioni di conservazione” (abitata e poi abbandonata nel XIV secolo a.C.) ricca di strumenti che raccontano la vita quotidiana: non è ancora chiaro in che modo rappresenterebbe il più importante ritrovamento dai tempi della tomba di Tutankhamon (che, per i non addetti ai lavori, presentava un corredo completamente integro, cosa di fatto quasi unica in archeologia dati i ripetuti saccheggi di tombe faraoniche avvenuti nel corso dei secoli). L’area di Luxor, che sorge, come noto già dal Settecento, sul sito dell’antica Tebe, capitale d’Egitto nel Medio Regno, è uno scrigno di rinvenimenti archeologici continuo. Lo scavo del sito indivi-

duato è iniziato a settembre 2020 e nonostante lo scontato paragone con Pompei propugnato dagli scavatori, gli elementi diffusi fino a oggi non paiono permettere conclusioni riguardo l’impatto che lo scavo avrà sulla conoscenza dell’Antico Egitto. Nel caso egiziano, il proliferare di scoperte eccezionali e straordinarie, più che dall’effettiva straordinarietà delle stesse, deriva da un comune vantaggio: da una parte, per il potente Hawass, che utilizza la comunicazione per accrescere la propria popolarità interna ed esterna al paese, dall’altra del regime di Al-Sisi, che in questo cadenzato annuncio di nuove scoperte legittima il proprio potere, come tipico dei governi nazionali egiziani che vogliono prendere le distanze dalla tradizione islamica del paese, e dalla politica islamista (Al-Sisi è al potere dopo aver rovesciato il governo dei Fratelli Musulmani). Si tratta di un utilizzo nazionalista e politico dell’archeologia, per compiersi che trova sempre qualche appoggio da parte dei dirigenti archeologi, come in questo caso. Un modus operandi che trova chiari epigoni, pur in maniera minore, anche in paesi europei: il caso più evidente è il rapporto tra Massimo Osanna e gli scavi di Pompei, già analizzato da questa testata. Nel luglio del 2017 rimbalza sui giornali nazionali e


Foto sepolcrodiromolo

internazionali la notizia di una scoperta sorprendente: in alcuni contenitori preistorici siciliani sono state trovate tracce del vino più antico del mondo, datato addirittura a 6 mila anni fa. Una scoperta in grado di riscrivere la storia dell’archeologia e dell’alimentazione umana, dato che prima di quell’annuncio solide tracce di vinificazione esistevano solo dall’Età del Bronzo in poi, dunque da circa 3 mila anni più tardi. A dare l’annuncio, con un comunicato stampa, i ricercatori della University of South Florida. In poche ore la notizia esplode su tutti i media. Qualche mese dopo arriva una breve e netta nota su Facebook della Soprintendenza locale: non siamo stati interpellati, dicono, i composti chimici usati per identificare il vino non sono sufficienti e la datazione proposta per quei frammenti ceramici appare priva di fondamento. In pochissimi leggono quella nota, e così la notizia, falsa, che in Sicilia sia stato trovato vino risalente a 6 mila anni fa continua a circolare fino a oggi. Questo genere di annuncio si inserisce in un trend, in cui università statunitensi annunciano di aver fatto scoperte straordinarie, nei loro laboratori, su reperti che arrivano da paesi lontani, dall’Italia alla Georgia. Scoperte che spesso riguardano il vino.

Un trend talmente problematico che nel 2020 un gruppo di ricercatori di York, Tubinga e Monaco ha pubblicato una lunga disamina scientifica per spiegare quando e come è possibile affermare che, forse, un determinato reperto archeologico contenesse vino. L’aggravante, nel caso siciliano, è di aver dato l’annuncio senza neppure il consenso degli archeologi locali, che consci dell’assoluta improbabilità (archeologica) di trovare vino in reperti tanti antichi, avrebbero almeno messo sull’attenti i ricercatori statunitensi. Ma ciò non è avvenuto. Si tratta di un secondo filone di eccezionalità “forzata”, proprio della ricerca scientifica che, complice il calo dei finanziamenti e la retorica dell’eccellenza, è spinta sempre più a pubblicare ad ogni costo, e rapidamente, lasciando a volte da parte l’accuratezza del dato e dell’interpretazione. Così da ottenere una più veloce carriera e più finanziamenti: non un problema propriamente archeologico, ma anche archeologico. L’eccezionalità dei poveri: caccia all’ultimo finanziamento Ci sono poi casi molto diversi, in cui archeologi (segue pagina 40) (segue dalla pagina 39) attribuiscono aggettivi come “eccezionale” o “straordinario” a scoperte che lo sono solo relativa-

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Foto egitto città di aten

mente, o che non lo sono affatto. Casi in cui però la “poca eccezionalità” è nota solo agli addetti ai lavori. Qui la casistica è ampia, si va dal rinvenimento di anfiteatri o tombe di cui si conosceva l’esistenza, ma non l’esatta ubicazione; di mosaici o alzati molto belli, ma di cui esistono tanti esemplari simili noti; o ancora di siti e contesti archeologici di straordinario rilievo e interesse, in grado di fornire tante nuove informazioni, ma non di cambiare la storia come il comunicato stampa vorrebbe. A volte si arriva all’evidente forzatura, presentando come eccezionali contesti o rinvenimenti di fatto normali in determinati contesti (pensiamo agli affreschi rinvenuti a Pompei, o a lapidi iscritte o ricche tombe trovate in cimiteri in cui ciò era d’uso). Il caso recente più noto è il cenotafio di Romolo, contesto già noto ma presentato come scoperta eccezionale nel febbraio 2020. Di solito a divulgare questo tipo di comunicati sono due genere di enti: le Università o le Soprintendenze. E il motivo è simile, se non lo stesso: l’assoluta necessità di nuovi fondi. A volte lo fa una missione di ricerca universitaria che vuole convincere il rettore (o altri committenti) a rinnovare o aumentare il finanziamento; a volte lo fa la Soprintendenza

per convincere l’ente locale a permettere, attraverso un finanziamento, lo scavo di quei contesti altrimenti destinati ad essere prontamente riseppelliti. In ogni caso, è proprio il momento di crisi della disciplina a spingere verso questo atteggiamento: di fronte a un ritrovamento estremamente interessante, non ci si limita a raccontarlo come tale, ma si spinge sull’acceleratore dell’eccezionalità, della straordinarietà, descrivendolo come incredibile, unico. Questo perché il cappio della carenza di fondi costringe a lottare per quei pochi finanziamenti che vengono messi a disposizione (o si spera possano essere messi a disposizione). Non sempre, in questo contesto, si è in grado di mantenere un approccio collaborativo ed equilibrato: a volte un comunicato stampa ben fatto è, o viene ritenuto, l’unico modo per emergere. E poco male, si pensa, se offrirà ai lettori un’informazione parzialmente falsa o esagerata. In sintesi, questo proliferare di scoperte eccezionali, lungi dall’essere un segno di vitalità, è un segno di grande fatica. L’archeologo lancia un comunicato altisonante, esagerato o addirittura fuorviante; le redazioni dei giornali, anch’esse in grossa difficoltà e a caccia di click, lo rilanciano, a volte aggiungendo dettagli, a volte


Foto vinoantico

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semplicemente copiando e incollando; a questo segue (spesso) un dibattito social in cui gli addetti ai lavori o riducono o addirittura smentiscono la rilevanza della scoperta: ma questo dibattito non arriva quasi mai al grande pubblico, o in ogni caso mai con la forza del primo annuncio. Crisi di finanziamenti, crisi dell’editoria, forse anche crisi della nostra società, ossessionata dall’idea dell’unicità e dell’eccellenza, per cui chi finanzia, chi paga, non vuole una molteplicità di situazioni, siti, contesti, “normali”, anche banali a volte, che insieme raccontano una storia straordinaria, che sia la storia di una regione, di una città, la storia umana dalle origini alla contemporaneità. No, ora si preferisce sempre “la più importante scoperta” non “un importantissimo tassello in più per comprendere il nostro passato”. E questo è figlio di una retorica propria di una società che si vuole individualista, e che vuole autorappresentarsi così attraverso il passato. Ma se tutto diventa eccezionale, niente lo sarà più: neppure le (pochissime, ma comunque esistenti) scoperte in grado realmente di riscrivere la storia dell’umanità, costrette nel vortice degli annunci fuorvianti. https://www.finestresullarte.info/opinioni/eta-delle-scoperte-archeologiche-eccezionali-perche?

ianni Atzeni (Cagliari 1947), avvia il suo percorso artistico nella metà degli anni Settanta, quando il forte interesse per le arti visive lo spinge ad approfondire i vari aspetti propri della pratica pittorica e della grafica originale. Negli anni ‘80, partecipa ai concorsi di Grafica Internazionale U.T.P. della capitale, ed espone alle rassegne di grafica internazionale a Istambul, Budapest, Roma, Bruxelles, Leeds, Vienna e Gent. Dopo essersi impadronito della materia incisoria, attraverso numerosi corsi e stages, adotta un torchio calcografico e apre nel 1986 sotto la Torre dell’Elefante nello storico quartiere di Castello, a Cagliari, un suo atelier il “PoliArtStudio”, laboratorio artistico e, dal 1999, anche “Centro di Sperimentazione Grafica” con annessa stamperia e spazio espositivo nel quale organizza corsi di incisione di tecniche calcografiche tradizionali (xilografia, linoleografia, acquaforte, acquatinta, bulino, puntasecca, maniera nera) e sperimentali. Dal 1995 al 2013 ha svolto seminari di tecniche incisorie antiche presso l’Università di Cagliari su richiesta della Prof. ssa Maria Grazia Scano Naitza, docente di Storia del Disegno, dell’Incisione e della Grafica Moderna. (segue pagina 42)

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(segue dalla pagina 41) Negli stessi anni, si lega a una delle esperienze artistiche più significative che la Sardegna abbia conosciuto: la rivista “Thélema”, ideata da Luigi Mazzarelli. Gianni Atzeni prende parte a tutte le fasi di realizzazione del progetto. Ogni momento libero lo passa in redazione, per lavorare non solo alla tiratura e rilegatura dei volumi ma realizzando centinaia di monotipi, dipinti a olio su carta con la tecnica dei rulli e stampe originali da allegare alle copie, come nella tradizione di questo storico periodico, andato in stampa e distribuito fino al 1987. Negli stessi anni inizia a sperimentare le tecniche incisorie più svariate, collografie e carborundum sui generis, per proseguire negli anni Novanta con la realizzazione di opere in grande formato, mantenendo sempre i suoi orizzonti nell’informale polimaterico, con una particolare attenzione per la libertà del segno. Le sue ricerche nel campo specifico dell’incisione, proseguono e sono molteplici. Incisore atipico, di ispirazione informalista con fasi di ricerca che lo avvicinano al lirismo neofigurativo, utilizza svariate gamme di materiali, assembla carte stampate e matrici metalliche, contempla nel suo fare artistico espressioni di tipo performativo ed installazioni di grandi dimensioni.

GIANNI ATZENI

“Carta Love 2” Installazioni calcografiche Spazio Arte Contemporanea Centro Commerciale MARCONI Cagliari Via Dolianova, 35, 09134 Cagliari

Segue, dunque, una nuova produzione seriale di stampe originali basate sull’impiego di nuovi metalli al posto delle usuali matrici in rame o zinco: il ferro. La sua attività incessante artistica, gli ha permesso di esporre in numerose personali e collettive, in Italia e all’estero, e di avviare un suo programma di attività didattiche attraverso seminari teorico-tecnici sia nel suo studio sia nelle aule dell’Università di Cagliari, su richiesta della Prof. ssa Maria Grazia Scano Naitza (1995-2013). Offre la sua esperienza, maturata nel settore calcografico, per guidare adulti e ragazzi interessati a scoprire come si stampa con i sistemi precedenti l’era digitale. Ama realizzare a mano libri d’artista, arazzi cartacei calcografici e, da ultimo, si esibisce in curiose performances con giochi di luce, chiamate “Kriorbs”, progetto studiato con i compositori di musica elettronica Roberto Zanata e Marco Ferrazza. Con l’associazione Fogli Volanti organizza laboratori creativi per ragazzi in tutta la Sardegna. Ha partecipato come conduttore di laboratori al Festival Letterario per ragazzi ”Tuttestorie” (Ca); Festival Controcaos (Castelsardo Ss); Festival Letterario “Florinas in giallo” (Florinas Ss); Festival Letterario della Sardegna “L’Isola delle Storie” di Gavoi (Nu) fin dalla sua fondazione.


“Le antiche fattezze del tempo.

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on appena ci si pone davanti alle opere di Atzeni la prima cosa che ci viene davanti, al di là dei significati reconditi che possono nascondere le forme, è l’idea del lavoro, della fatica fisica dell’impegno che sta dietro l’attività creativa dell’artista. Di certo dopo un lungo periodo dove il carattere artigiano come supporto dell’attività creativa, è stato messo al bando, dopo che la critica ha osannato a lungo la casualità, la spontaneità, l’azione creativa, l’happening, l’escremento o l’alito prodotto dall’artista, la ricerca di alcuni maestri contemporanei ci sta riportando all’arte che, ripristinando i metodi e i mezzi del passato, ritorna a coniugare la dimensione artigianale con l’azione creativa. Quasi quasi se ne cominciava ad avvertire il bisogno! Quando il gesto immediato, carico di spontaneità traccia grafi o glifi sul foglio o sul piano pittorico rappresenta una dimensione dell’artista che affida alla componente inconscia il massimo della presenza nell’attività creativa e la rappresentazione della poetica dell’artista stesso. In questo caso è possibile inneggiare alla spontaneità, all’ingenuità, all’elementarità del fare pittorico o scultoreo.

Ma quando l’artista ritorna a rivestire i panni di artigiano, a produrre arte con tecniche antiche, sapientemente integrate e rimaneggiate, quando il tempo ridiventa una componente fondamentale dell’arte, del fare arte e la tecnica usata non può fare a meno del tempo, allora il tempo ritorna ad essere una dimensione dell’arte. La morsura, l’azione che l’acido compie sulla lastra di zinco, ha come componente primario il tempo: più la lastra resta immersa e più si corrode. Il tempo in questo caso assume le sue antiche fattezze, quelle di unità di misura, non più categoria del pensiero. Il concetto, come prodotto dell’intuizione e, pertanto, latore di sintesi di pensiero metabolizzato si allontana, per fare posto al ragionamento, alle certezze che si ottengono l’una dopo l’altra, ponendosi in contrasto, in antitesi, in posizione dialettica. Il tempo diventa l’alveo all’interno del quale maturano certezze, non più ritenute nascenti da verità preconfezionate e predigerite, ma dal raggiungimento di fini, risultati di processi, completamenti di operazioni reali, che per essere tali si avvalgono della sperimentazione continua. La realtà artistica diventa costruzione, elaborazione diuturna, forme in fieri. La verità si scopre per tentativi, così come il prodotto artistico: per l’artista questa verità è arte […]” Diego Gulizia

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