Sardonia Luglio Agosto 2021

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SARDONIA

Foto maurizio onnis

Ventottesimo Anno / Vingt Huitième Annèe Luglio Agosto 2021/ Juillet Aout 2021

Museo d’Arte Siamese Galleria Fumagalli Vivi Sardegna & Enjoy Your Life El Amor Brujo Chi ha detto Bètile ? La Nave di Mariano Chelo Maria Dolores Picciau La strage di Itria Filippo Bacciu Gabriella Locci Iconografia Millenaria Marie Noelle Fontan Bosonik e Stefano Daga Pecora Nera di Arbus Pietrina Atzori La donna sarda Christian Boltanski Lea Vergine Giovanni Pintori Pinuccio Sciola https://www.vimeo.com/groups/sardonia https://www.facebook.com/sardoniaitalia


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Cagliari Je T’aime Programma di creazione di Esposizioni e Manifestazioni Artistiche nella città di Cagliari a cura di Marie-Amélie Anquetil Conservateur du Musée du Prieuré Directrice de la revue “Ici, Là bas et Ailleurs” Espace d’exposition Centre d’Art Ici, là bas et ailleurs 98 avenue de la République 93300 Aubervilliers marieamelieanquetil@ gmail.com https://vimeo.com/channels/ icilabasetailleurs Vittorio E. Pisu Fondateur et Président des associations SARDONIA France SARDONIA Italia créée en 1993 domiciliée c/o UNISVERS Elena Cillocu via Ozieri 55 09127 Cagliari vittorio.e.pisu@email.it http://www.facebook.com/ sardonia italia https://vimeo.com/groups/ sardonia https://vimeo.com/channels/ cagliarijetaime SARDONIA Pubblicazione dell’associazione omonima Direttore della Pubblicazione Vittorio E. Pisu Maquette, Conception Graphique et Mise en Page L’Expérience du Futur une production UNISVERS Commission Paritaire ISSN en cours Diffusion digitale

vedi i video https://vimeo.com/ groups/sardonia

uesto numero di Sardonia che arriva molto in ritardo, quasi venti giorni, non potrà quindi reclamizzare gli eventi che già hanno avuto luogo e dei quali comunque vi avevamo informato sulla nostra pagina Facebook. Troppa carne al fuoco si direbbe ed é vero che tra le mostre della serie “Meglio una donna” che si svolgono con un crescendo successo di pubblico e di critica (fino al giornale locale che ne parla) la gestione dello spazio espositivo presso piazza Yenne, che riprenderà le sue esposizion con il titolo “L’Arte é di Casa” a partire dal mese di agosto prossimo. Ci ritroviamo comunque ancora una volta nell’incertezza dovuta alle disposizioni ministeriali ed al progresso fluttuante della pandemia che sembra mutare allegramente. Abbiamo cercato comunque, come di consueto, di proporvi una scelta, certo eccletica e assolutamente soggettiva, salutando tra l’altro la nomina della dottoressa Maria Dolores Picciau all’Assessorato alla Cultura (e tante altre mansioni) del Comune di Cagliari alla quale assicuriamo il nostro supporto senza condizioni ed alla quale auguriamo buon lavoro, conoscendo la sua professionalità non saremo assolutamente delusi. Come nostra abitudine ci piace anche frugare un pò nella storia passata recentemente o anticamente della nostra isola e siamo naturalmente felici di scoprire e riesumare tanti talenti spesso un pò dimenticati. Cercheremo di riacchiappare il tempo perso con la pubblicazione del supplemento S’Arti Nostra che uscirà a brevissimo tempo. Salutiamo le espressioni sempre interessanti e poliedriche di Mariano Chelo, che non si contenta di dipingere magnificamente, e di esporsi da New York ad Hamburg, passando naturalmente per Parigi, che non solo organizza dei concerti eseguiti in buona parte del pianeta delle opere di Erik Satie illustrate dalle sue, ma pubblica anche un primo romanzo, messo in scena ed in musica al teatro degli Intrepidi Monelli dove avete sicuramente partecipato ad una creazione magistrale. Felicitiamo naturalmente la bella Gabriella Locci per i suoi successi meritati e il gruppo Bosonik accompagnato Stefano Daga che ancora una volta ci hanno regalato della loro musica all’occasione del vernissage delle opere di Laura Zidda che dopo Cagliari Villanova espone all’Arrubiu Art Gallery Cafè di Chiara Cossu ad Oristano che ringraziamo per la sua squisita accoglienza Non mancate la prossima mostra di Dolores Mancosu che avrà luogo il 29, 30 e 31 luglio in Via San Domenico 10 a Cagliari Villanova, appunto e non perdetevi l’intervista a Pinuccio Sciola, celebrato sia alla Biennale di Venezia che all’Aeroporto di Cagliari Elmas ed al Castello San Michele a Cagliari. Ci vediamo in settembre grazie. Vittorio E. Pisu


Foto ilissoedizioni

MUSEO D’ARTE SIAMESE L

a storia del Museo d’Arte Siamese inizia con la donazione alla sua città natale da parte di Stefano Cardu (Cagliari 1849 – Roma 1933) di una preziosa collezione di oggetti d’arte provenienti dall’Estremo Oriente. Cardu, imbarcatosi da Cagliari in giovane età, dopo quasi dieci anni di navigazione approda in Siam, l’attuale Tailandia. A Bangkok, sotto il regno di Rama V, egli diviene progettista e costruttore di importanti edifici per la nuova capitale: fra questi il Palazzo del Principe Chaturonratsami (1879) il Royal Military College (1890-92), l’Hotel l’Oriental (1890), destinato a ospitare i diplomatici e regnanti in visita alla corte siamese. Stefano Cardu è assiduo viaggiatore e raffinato collezionista dell’arte d’Oriente. Raccoglie negli anni oltre milletrecento manufatti di squisita qualità e fattura, databili tra il XIV e il XIX secolo, provenienti dal Siam e dal Sud Est asiatico, da Giappone, Cina e India. Tornato in Europa nel 1900, con grande generosità, il 22 luglio 1914 egli offre in dono alla città di Cagliari parte cospicua della sua collezione. Sculture, argenti, porcellane, armi, manoscritti, tempere, una notevole varietà di pregiatissimi pezzi artistici, datati tra il XIV e il XIX secolo.

La preponderanza degli esemplari provenienti dall’antica Thailandia fa si che il Museo Cardu sia la più grande raccolta di arte siamese presente in Europa. Di notevole interesse anche il nucleo di avori giapponesi, le porcellane cinesi e le armi provenienti dalla Malesia. Il Museo Siamese è finalmente aperto al pubblico nel 1918, in una sala dedicata al piano nobile del Palazzo civico Ottone Bacaredda. Lo stesso Cardu si occupa dell’allestimento e del catalogo della mostra, i cui proventi, per sua volontà, saranno destinati agli orfani della Prima guerra mondiale. Trasferita per essere salvata dai bombardamenti durante la seconda guerra mondiale nelle grotte dei Giardini Pubblici, la collezione fu riordinata dall’orientalista Gildo Fossati e esposta nella Galleria Comunale d’Arte fino al 1981. Per la prima volta, dopo oltre cento anni, l’intera raccolta è presente all’interno del Museo con i suoi 1300 pezzi, che saranno oggetto di approfondimento, alla luce di nuovi studi e pubblicazioni recenti. Al termine delle ricognizioni di ogni singola cassa, gli oggetti saranno esposti a rotazione, in modo da fornire una lettura completa dell’importante lascito. Vi aspettiamo. https://sistemamuseale. museicivicicagliari.it/museo-darte-siamese/

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Foto galleriafumagalli

alleria Fumagalli presenta la prima mostra del ciclo MY30YEARS – Coherency in Diversity, un programma ideato e curato dal critico ungherese di fama internazionale Lóránd Hegyi che intende celebrare i 30 anni di carriera di Annamaria Maggi, alla guida della galleria dal 1991. Il progetto nasce dalla volontà di offrire uno spaccato sull’orientamento estetico e curatoriale perseguito dalla Galleria Fumagalli nel corso degli ultimi tre decenni, esaltandone la coerenza, ma anche con l’intento di stimolare nuove prospettive sull’interpretazione dell’opera di grandi maestri in dialogo con artisti più giovani. Ognuna delle otto mostre del ciclo “MY30YEARS – Coherency in Diversity” prevede, infatti, l’esposizione congiunta dell’opera di tre artisti seguiti e rappresentati dalla Galleria, appartenenti a diverse generazioni e gruppi, provenienti da città e paesi differenti, che rappresentano posizioni e strategie metodologiche diverse, eppure riconducibili ad alcune idee estetiche di base convergenti. Come specificato dal curatore Lóránd Hegyi nel testo critico che accompagna l’esposizione, «è intenzione di questa serie di mostre presentare le opere selezionate nel contesto di una reinterpretazione costante, imparziale, rigenerante,

MY 30 YEARS GALLERIA FUMAGALLI Via Bonaventura Cavalieri 6,

20121 Milano Dal lunedì al venerdì dalle 13 alle 19

Tel.: +39 02 36799285 info@galleriafumagalli.com

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come effettivamente accade nel processo storico-culturale reale di rivalutazione e reinterpretazione radicale delle opere d’arte. Si tratta di un processo – storicamente legittimo, inevitabile o addirittura necessario – in cui le giovani generazioni di artisti proiettano la propria comprensione dell’arte sulla situazione storico-culturale e recepiscono queste condizioni attraverso un legittimo arbitrio storico, selezionando per se stesse [e perseguendo] una radicale revisione e rivalutazione di sistemi dati, ereditati, convenzionali, ma anche – nonostante l’apparente discontinuità e critica – una continuità e permanenza di certe idee di base, o la durabilità di varie componenti dei loro sistemi di valori, che possono sopravvivere molto dopo la loro creazione, molto dopo lo scioglimento dei loro contesti concettuali originari e che possono essere inclusi nelle nuove realtà mentali.» La prima mostra Architettura – Spazialità – Artefatto presenta congiuntamente le opere di Anne & Patrick Poirier, Marco Tirelli, Giuseppe Uncini consentendo una lettura plausibile e poeticamente efficace di certi loro orientamenti tematici senza voler suggerire alcuna forzata uniformità. I termini architettura, spazialità, artefatto, infatti, si concretizzano nelle loro opere in modi diversi, coniu-


gando però connotazioni architettoniche, ricerca della presenza spaziale e significato metaforico dell’artefatto. Mentre l’opera di Anne & Patrick Poirier combina forme architettoniche archetipiche a significati ed esperienze umane attuali, restituendo una continua reinterpretazione metaforica e un aggiornamento dell’eredità storico-culturale, collettiva e convenzionale, la ricerca plastica di Giuseppe Uncini si traduce in opere che si dispiegano immediatamente nello spazio come concrete, tangibili, eppure fondamentalmente mai mimetiche bensì astratte, che trasmettono una situazione spaziale stimolante, dinamica e un senso di nobile semplicità. A chiudere la triade, nell’opera di Marco Tirelli si palesano forme architettoniche volutamente enigmatiche, recanti poetiche allusioni a ricordi personali, spunti immaginari e associazioni mentali avulsi da qualsiasi contesto comprensibile, di fronte a cui lo spettatore diventa partecipe di un evento indefinito e spirituale che si svolge in uno spazio metaforico. Anne & Patrick Poirier https://galleriafumagalli.com/mostre-my30years/ architettura-spazialita-artefatto/

“MY30YEARS Coherency in Diversity”. Il progetto nasce dalla volontà di offrire uno spaccato sull’orientamento estetico e curatoriale perseguito dalla Galleria Fumagalli nel corso degli ultimi tre decenni, esaltandone la coerenza, ma anche con l’intento di stimolare nuove prospettive sull’interpretazione dell’opera di grandi maestri in dialogo con artisti più giovani. Ognuna delle otto mostre del ciclo “MY30YEARS – Coherency in Diversity” prevede, infatti, l’esposizione congiunta dell’opera di tre artisti seguiti e rappresentati dalla Galleria, appartenenti a diverse generazioni e gruppi, provenienti da città e paesi differenti, che rappresentano posizioni e strategie metodologiche diverse, eppure riconducibili ad alcune idee estetiche di base convergenti. Come specificato dal curatore Lóránd Hegyi nel testo critico che accompagna l’esposizione : «L’intenzione di questa serie di mostre è quella di incoraggiare per le opere selezionate una reinterpretazione continua, imparziale, rigenerante, come del resto comporta il processo storico-culturale della permanente rivalutazione e radicale rilettura delle opere d’arte. Si tratta di un processo storicamente legittimo, imprescindibile e necessario, in seno al quale le nuove generazioni di artisti proiettano la propria percezione dell’arte sul contesto storico-artistico dato, percependo, selezionando singoli elementi con una legittima arbitrarietà storica. (segue pagina 6)

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Foto galleriafumagalli

(segue dalla pagina 5) [Questo] comporta da un lato una rivalorizzazione e una revisione radicale di sistemi esistenti ereditati e di gerarchie convenzionali; dall’altro garantisce (nonostante l’apparente discontinuità e posizione critica) la continuità e la persistenza di determinati concetti e idee di base, nonché la stabilità dei diversi elementi, che vanno a comporre i sistemi di valori dell’arte. Sono questi sistemi che continuano a esistere e possono persino entrar a far parte di nuove realtà mentali, anche molto dopo la loro comparsa e persino molto dopo la dissoluzione dei loro contesti intellettuali originari.» La prima mostra “Architettura - Spazialità – Artefatto” presenta congiuntamente le opere di Anne & Patrick Poirier, Marco Tirelli, Giuseppe Uncini consentendo una lettura plausibile e poeticamente efficace di certi loro orientamenti tematici senza voler suggerire alcuna forzata uniformità. I termini architettura, spazialità, artefatto, infatti, si concretizzano nelle loro opere in modi diversi, coniugando però connotazioni architettoniche, ricerca della presenza spaziale e significato metaforico dell’artefatto. Mentre l’opera di Anne & Patrick Poirier combina forme architettoniche archetipiche a significati ed esperienze umane attuali, restituendo una continua reinterpretazione metaforica e un aggiornamento dell’eredità storicoculturale, collettiva e convenzionale, la ricerca plastica di Giuseppe Uncini si traduce in opere che si dispiegano immediatamente nello spa-

zio come concrete, tangibili, eppure fondamentalmente mai mimetiche bensì astratte, che trasmettono una situazione spaziale stimolante, dinamica e un senso di nobile semplicità. A chiudere la triade, nell’opera di Marco Tirelli si palesano forme architettoniche volutamente enigmatiche, recanti poetiche allusioni a ricordi personali, spunti immaginari e associazioni mentali avulsi da qualsiasi contesto comprensibile, di fronte a cui lo spettatore diventa partecipe di un evento indefinito e spirituale che si svolge in uno spazio metaforico. Anne & Patrick Poirier (rispettivamente: Marsiglia, 1941 e Nantes, 1942) ideano e firmano congiuntamente il proprio lavoro a partire dalla residenza a Villa Medici di Roma avvenuta tra il 1968 e il 1972 sotto la direzione Balthus. Artisti poliedrici, viaggiatori, archeologi e appassionati scopritori di antiche civiltà, raccolgono materiali e si ispirano alla mitologia, alle grandi narrazioni archetipiche e collettive per esprimere significati metaforici legati alla realtà antropologica contemporanea, mantenendo un continuum storicoculturale in cui i confini tra passato e futuro, tra storia e utopia, tra individuo e comunità, tra conoscenza e sogno si mescolano indissolubilmente. Il corpo di opere di Anne & Patrick Poirier si traduce in manufatti molto eterogenei: installazioni, sculture,


fotografie, lavori su carta, dipinti spesso connotati dalla poetica della fragilità e caducità delle esperienze umane. Hanno esposto nei più importanti musei e istituzioni culturali di tutto il mondo e alle manifestazioni Documenta di Kassel (1977) e Biennale di Venezia (1984, 1980, 1976). Dal 2017 sono rappresentati in Italia dalla Galleria Fumagalli che partecipa alla pubblicazione della monografia “Anne et Patrick Poirier” edita da Flammarion in collaborazione con la MEP – Maison Européenne de la Photographie e della Galerie Mitterrand di Parigi. Marco Tirelli (Roma, 1956), diplomatosi in scenografia con Toti Scialoja all’Accademia di Belle Arti di Roma, inizia a esporre nella seconda metà degli anni ’70, trasferendosi presto negli spazi dell’ex Pastificio Cerere a San Lorenzo insieme agli artisti della Nuova Scuola Romana. Frutto di un processo intellettuale e di astrazione dei dati della realtà, l’arte di Marco Tirelli arriva a distillare forme allegoriche che evocano memorie personali, esperienze biografiche, reminiscenze oniriche. La forma rimane enigmatica, in bilico tra riconoscibilità e astrazione, mentre luce e ombra segnano la misteriosa esperienza della percezione dello spazio. Espone per la prima volta alla Biennale di Venezia nel 1982, nel 1993 gli viene dedicata una sala personale, e nel 2013 realizza una grandissima installazione per il Padiglione Italia curato da Bartolomeo Pietromarchi. Marco Tirelli è membro dell’Accademia Nazionale di San Luca e dell’Accademia dei Virtuosi del Pantheon.

La sua collaborazione con la Galleria Fumagalli inizia con la prima mostra personale nel 2003, seguita dalla pubblicazione di una preziosa monografia, con testi di Klaus Wolbert, Peter Weiermaier e Giorgio Verzotti, edita in occasione delle esposizioni all’Institute Mathildenhöe di Darmstadt e alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna. Giuseppe Uncini (Fabriano, 1929 – Trevi, 2008) si trasferisce a Roma nel 1953 dove inizia a realizzare i primi cicli di opere: le “Terre” (1956-57), ancora immerse nel clima dell’Informale, anticipano l’iconica serie dei “Cementarmati” (1957-61), sculture di cemento e ferro (elementi che caratterizzano l’intero corpus di Uncini) che rivelano il principio costruttivo del loro farsi. Partecipa a diverse mostre con la Giovane Scuola Romana e nel 1962 costituisce il Gruppo 1 per la valorizzazione del ruolo sociale dell’arte. Il percorso artistico di Uncini continua coerentemente: il suo solido pensiero strutturale, mai mimetico, è oggettivato nei successivi cicli di opere (“Ferrocementi”, “Strutturespazio”, “Mattoni”, “Ombre”, “Dimore”, “Muri d’ombra”). Tra gli anni ‘90 e i primi 2000 l’attenzione di Uncini è polarizzata dal desiderio di concretizzare lo spazio vuoto (“Spazi di ferro” e “Spazicemento”), per indirizzarsi poi verso la realizzazione di grandi conformazioni architettoniche (le “Architetture”) in cui nulla è davvero abitabile né mera rappresentazione della modernità industriale. (segue pagina 8)

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(segue dalla paginan 7) Giuseppe Uncini prende parte a prestigiose rassegne internazionali: Quadriennale di Roma (1999, 1992, 1973, 1965, 1955), Biennale di Venezia (1995, 1984, 1978, 1976, 1966), e Biennale di Tokyo (1963). Dal 1995 ha collaborato con la Galleria Fumagalli che gli dedica 5 mostre personali, 8 libri di mostre e il catalogo ragionato edito nel 2008.

Foto toctocsardinia.it

La Galleria Fumagalli, fondata nel 1971 a Bergamo, è stata diretta da Stefano Fumagalli e Annamaria Maggi in un sodalizio di grande sintonia dal 1991 al 2007, anno della prematura scomparsa di Stefano Fumagalli. La direzione passa, quindi, nelle sole mani di Annamaria Maggi che prosegue la realizzazione di un programma artistico estremamente vario basato sulla collaborazione con maestri riconosciuti e spesso parte di importanti correnti o movimenti, come l’Informale, l’Arte Astratta italiana, la Pittura Analitica e l’Arte Povera, affiancando anche l’analisi di artisti internazionali dell’Arte Concettuale, della Body Art, dell’Astrattismo americano. Traferitasi nel 2016 a Milano, la Galleria Fumagalli non si pone come semplice luogo di compravendita di opere d’arte, bensì come punto di incontro e di promozione artistica grazie alle esposizioni in galleria, alle collaborazioni con istituzioni d’arte italiane ed estere, e attraverso la redazione di cataloghi e monografie curati da critici insigni.

https://galleriafumagalli. com/

Vivi Sardegna & Enjoy Your Life

Il progetto Toctoc Sardinia nasce in una notte di eclissi di luna, una di quelle notti dove si sente ancora più forte l’appartenenza ad una terra straordinaria, magica e misteriosa... Perché non condividere con gli altri la passione, l’amore, l’orgoglio di essere sardi? Siniscola un territorio dalle grandi potenzialità, un territorio da scoprire e far scoprire. La Sardegna con i suoi angoli di paradiso, le sue tradizioni e la sua gente ospitale e generosa. Toctoc Sardinia ti condurrà alla scoperta di realtà sconosciute che rimmarrano indelebili nel tuo cuore, nei tuoi ricordi. Toctoc Sardinia è frutto dell’esperienza ventennale nel turismo di Maria Giovanna e Paola, veri professionisti e cultori delle realtà sarde, con passione sapranno guidare il visitatore alla scoperta di tutto il territorio sardo. https://toctoc-sardinia.it/


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a Compañía Antonio Gades porta in scena dal 7 al 10 luglio alle 21, all’Arena del Parco della Musica di Cagliari, “Fuego”. Quattro serate per una full immersion nella danza flamenca nell’ambito della rassegna estiva del Teatro Lirico “Classicalparco”. Il balletto di Antonio Gades e Carlos Saura ispirato a “El amor brujo” (L’amore stregone) su musica di Manuel de Falla, sarà proposto in prima esecuzione a Cagliari. Alla guida dell’Orchestra del Lirico, Tommaso Ussardi, giovane compositore e direttore, al suo debutto nel capoluogo sardo. Un successo quello di “Fuego” che dura da trentadue anni, per uno spettacolo capace di rinnovare con freschezza l’ammaliante tradizione culturale iberica. Uno degli esempi più puri dello stile di Antonio Gades, secondo cui “se si vuole cambiare, si deve tornare alla tradizione”, questo balletto è un’opera di transizione tra i capisaldi “Carmen” e “Fuenteovejuna”. In origine lo spettacolo viene commissionato nel 1989 dal Théâtre Châtelet di Parigi come trasposizione teatrale del film co-diretto con Carlos Saura “El amor brujo”, ottenendo un grandissimo successo, a cui segue una tournée in Francia, Italia, Germania, Svizzera, Giappone e Brasile, ma per motivi personali

Foto ansa

EL AMOR BRUJO

L’Arena all’aperto del Parco della Musica, inaugurata nell’estate 2020, è una struttura temporanea per spettacoli, situata nella piazza Amedeo Nazzari tra il Teatro Lirico e il Conservatorio di Musica. Classicalparco 2021 propone 19 serate di spettacolo (fino al 14 agosto), per 7 distinti programmi musicali, replicati nei tre giorni successivi (per l’operetta, l’opera e il balletto) e il giorno successivo, con inizio sempre alle 21, e vede in primo piano l’Orchestra e il Coro del Teatro Lirico di Cagliari diretto da Giovanni Andreoli.

e artistici non venne mai presentato in Spagna. Nel 2014, ricorrenza del decimo anniversario dalla morte di Antonio Gades, la Fondazione che porta il suo nome affronta una sfida importante: il riallestimento di “Fuego”, su musica di Manuel de Falla. Un riallestimento che è quasi come un nuovo debutto: molte delle risorse artistiche dell’epoca non sono mai più state utilizzate tanto che oggi l’opera mantiene la sua freschezza, così come quando è stata creata. Finalmente il Teatro Lirico di Cagliari ha spalancato nuovamente, già dallo scorso 17 maggio (con Don Pasquale di Donizetti), le porte al suo pubblico e il sipario si è alzato su uno spettacolo dal vivo, dopo la chiusura forzata dell’intera struttura, a causa dell’emergenza sanitaria da COVID-19, che ha bruscamente interrotto le stagioni musicali in corso. Lo spazio sarà condizionato dalle normative di sicurezza sanitaria anti COVID-19 e, pertanto, la platea composta da n. 1335 sedute, sarà utilizzabile solo per n. 700 posti. Lo spettacolo ha una durata complessiva di 70 minuti circa e non prevede l’intervallo. Prezzi (posto unico numerato): operetta, opera, balletto € 40/concerti € 30 (metà prezzo abbonati, disabili e under 30).

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Foto domus

architetto anglo-iracheno Zaha Hadid è la vincitrice del concorso internazionale di architettura Betile, promosso dalla Regione Sardegna in collaborazione con Domus e il Politecnico di Milano, per la realizzazione del Museo Mediterraneo di Arte Nuragica e Contemporanea sul fronte mare Sant’Elia di Cagliari. “La giuria ha valutato la straordinaria sensibilità contestuale del nuovo organismo architettonico, che comportandosi come una ‘concrezione corallina’ asseconda, ricuce e riconfigura un intero brano del fronte mare cagliaritano”, ha spiegato Stefano Boeri, presidente della giuria. “La plasticità del nuovo museo – ha aggiunto Boeri – rappresenta un segno rigenerativo e di indiscutibile forza e visibilità nel paesaggio del golfo di Cagliari, oltre che esprimere con l’intreccio dei suoi sinuosi corpi di fabbrica la volontà di fondare il nuovo museo proprio sulla interazione tra i contenuti espositivi (relativi all’arte nuragica e all’arte contemporanea) e i percorsi dei suoi utenti-visitatori”. Il progetto firmato da Zaha Hadid rappresenterà insieme un nuovo landmark nel paesaggio cagliaritano, l’occasione per un’esperienza inedita (sia percettiva che

https://www.domusweb.it/it/ architettura/2006/10/27/betile-zaha-zadid-vince-il-concorso-per-il-museo-dell-arte-nuragica-e-contemporanea.html

corporea) e il luogo di sviluppo e sedimentazione di fertili contaminazioni tra identità storica identità futura per tutto il sistema territoriale e insulare della Sardegna. Proprio in questa luce, la giuria ha riconosciuto nel progetto vincitore la forza di diventare quel “volano di rimandi” tra il luogo museale cagliaritano da un lato e, dall’altro, i siti archeologici distribuiti nel territorio e i luoghi dell’arte contemporanea insulare, che il bando indicava come finalità prima del concorso di progettazione. Tre le menzioni: allo studio Archea, il cui progetto di un grande volume cubico trapassato da un vuoto che collega acqua e cielo ha saputo cogliere in modo originale e profondo il valore identitario del programma del museo nel contesto sardo; agli architetti Herzog & de Meuron, che hanno proposto un impianto museografico originale sviluppato verticalmente e l’idea di un intervento di forestazione urbana; e infine al raggruppamento dell’architetto Lagnese, autore di una proposta di grande lirismo e chiarezza d’impianto. I nove progetti, frutto di una selezione tra 116 candidati, saranno esposti nelle prossime settimane in una mostra realizzata dalle Regione Sardegna e dal Comune di Cagliari, nel Lazzaretto di Sant’Elia, vicino


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a dove sorgerà il museo, per consentire ai cittadini di valutare le idee progettuali proposte. Domus, insieme alla Regione, sta lavorando a un supplemento speciale, dedicato alla presentazione dettagliata degli esiti del concorso, che sarà pubblicato in gennaio. I nove progetti finalisti, sono stati presentati da: Massimiliano Fuksas con Arup Herzog & de Meuron Kengo Kuma & Associates con Obr architetti associati, Buro Happold, Hilson Moran, Eta, Ecologic studio, Bob Noorda design, Carlotta De Bevilacqua, Paolo Inghilleri, Aubry & Guiguet, De-ca, M. A. Mongiu, Mosign, M. Desvigne Gonçalo Byrne Garofalo Miura architetti con Proger S.p.a. Yung Ho Chang (Atelier Fcjz), Interaction Design Lab, Mutti&Architetti con DotDotDot, Fabrizio Leoni, Luca Poncellini (Cliostraat) e Giovanni Romano (Postmedia Books) Studio Archea con Franz Prati, MDU architetti associati, Francesco Chessa studio di ingegneria e Milano progetti Roberto Cosenza, Giampiero Lagnese, Klaus Schuwerk http://www.regione.sardegna.it/bandi_internazionali/betile/

e il progetto del Bètile non é stato realizzato, ritorna invece spesso a far parte di certi discorsi emananti da politici più o meno in cerca di notorietà e non avendo nient’altro a mettersi sotto i denti ecco che spunta immancabile l’idea di costruire il progetto della nota star dell’architettura Zaha Hadid, misconoscendo non solo la creazione che é stata immaginata per un luogo preciso, ma anche l’utilizzazione e la destinazione di questo edificio che avrebbe dovuto essere il Museo dell’Arte Nuragica e Contemporanea della Sardegna, un pò troppo lungo e complicato da pronunciare mentre Bètile é chiaramente più facilemnte memorizzabile anche se non ci si pone neanche la domanda di che cosa ci sarà dentro, chi lo gestira, chi lo curera, eccetera. Domande inutili, sulla falsa riga delle informazioni mal digerite del successo del Guggenheim Museum de Bilbao, che riusci a trasformare una cittadina ormai abbandonata dalle sue attività industriali e commerciali, in meta turistica particolarmente ambita. Ricordiamo anche che un certo rappresentante politico arrivò fino a coniare un neologismo (Ecomostro) che da allora ha avuto un successo evidente impiegato a definire qualsiasi costruzione che non arrivi a trovare una sua destinazione d’uso, vedi l’ex Colonia Dux sulla spiaggia del Poetto. Vittorio E. Pisu

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rottanegra è il paese di tutte le fiabe che si rispettino, da quelle dei fratelli Grimm a quelle del grande Gianni Rodari. È un luogo triste dove non c’è sole anche se il nostro astro primario, come scrive Mariano, tramonta ogni giorno davanti al mare, ma ogni giorno uguale all’altro, senza emozionare chi abita nel paese. Poi c’è la Nave, il titolo del racconto, che potrebbe essere il mostro, la balena di Pinocchio. Solo che in questo caso quando vi si entra, si apre e rende tutti diversi da prima, felici. Ridona ottimismo, positività, gioia di vivere. Mariano Chelo ci regala una favola pulita, del tutto e per fortuna anacronistica rispetto allo scrivere di oggi così volutamente intricato tra il noir e la violenza seriale. Sono nato tante volte, la prima nel 1958 in Sardegna, per scelta, ed esattamente a Bosa, e non me ne sono mai pentito. Faccio il pittore per professione da sempre e anche di questo non mi sono mai pentito. Nel 2006 mi sono trasferito a Cagliari dove ho aperto uno studio d’arte e non mi sono ancora pentito. Ora sto pubblicando un racconto che ho scritto qualche anno fa, spero di non pentirmene! ISBN 9788899685980pag. 98 – euro 13,00 disponibile in eBook

Intrepidi Monelli Centro di Produzione per lo Spettacolo Cagliari Vi aspettiamo l’8 e il 9 LUGLIO 2021 alle ore 21, per il nuovo spettacolo di Paolo Putzu

“La Nave”

dal racconto illustrato di Mariano Chelo Posti limitati prenotazione obbligatoria

W. App 3801767692 3206835292

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ariano Chelo non la smette di regalarci sempre qualche cosa, così dopo i concerti delle opere di Erick Satie che hanno viaggiato per il nostro più grande piacere per mezzo mondo partendo da Bosa e ritornando poi in sardegna dopo New York, Parigi, Londra e Moscow (excusez du peu!) non contento di proporci le sue opere pittoriche, i suoi quadri come preferisce indicarmi sia a Cagliari che a Bosa l’estate, ecco che a partire dal suo gustosissimo libro uno spettacolo, solamente per due giorni agli Intrepidi Monelli, a Cagliari in Viale Sant’Avendrace n. 100. Animato e diretto da CriCri Bocchetta, interpretato da Paolo Putzu, con l’accompagnamento musicale di Andrea Schirru ed un’intrusione di Luigi Lai, ispirato dal suo romanzo, che non sarà certamente l’ultimo, “La Nave”, ecco arrivare a puntino per rinfrescare le giornate afose cagliaritane una brezza marina che ci porterà lontano, cullati dalle onde rinfrescati dalla brezza marina. Sono sicuro che i cocktail del bar di bordo sono sicuramente famosi come quelli del Bar Chelo, dove per dieci anni, a Bosa, Mariano figurò tra i dieci migliori bar d’Italia, sperando che abbia trasmesso le sue ricette al Bar degli Intrepidi Monelli. Non ci resta che andare a vedere e la pièce ed il Bar. Vittorio E. Pisu


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aria Dolores Picciau è giornalista, storica dell’arte e scrittrice. Nata in provincia di Varese da genitori sardi, dall’età di cinque anni si è trasferita a Cagliari, dove si è laureata nella Facoltà di Lettere con una tesi sulle donne pittrici tra Cinquecento e Seicento. Nel 1998 si è specializzata in storia dell’arte contemporanea e ad oggi ha frequentato numerosi master. Dal 1986 ha iniziato a lavorare come speaker e giornalista nella stampa regionale tanto in carta stampata, quanto in radio e televisione. Dal 2000 ha iniziato a collaborare con il quotidiano L’Unione Sarda, dal 2009 con l’emittente sarda Videolina dove ha ideato e condotto diverse trasmissioni su tematiche di genere come Donne e Donne di quadri e Obiettivo Sviluppo su istruzione, turismo e cultura. Da vent’anni insegna comunicazione e si occupa della valorizzazione delle espressioni di cultura locale. Ha compiuto diverse ricerche sulle radici dell’identità nel suo rapporto con le espressioni artistiche e ha indagato a fondo le declinazioni dell’arte contemporanea, della cultura e della fotografia. Ha curato numerose mostre in Sardegna e nella Penisola. Collabora con diversi giornali, emittenti televisive,

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MARIA DOLORES PICCIAU

radiofoniche e riviste specializzate. Ha condotto alcune ricerche su storie sommerse e personaggi “minori” come Raimondo Carta Raspi, Mariangela Maccioni, Marianna Bussalai, Elisa Nivola, Joyce Lussu, e diversi video reportage su tematiche d’attualità come la violenza sulle donne, le discriminazioni di genere, l’emigrazione, l’ambiente, che ha scritto, diretto, girato e montato. Nel 2003- 2004 ha diretto la rassegna No Arte e dal 2016 al 2020 ha diretto il festival Bianco e Nero, un progetto sulla valorizzazione delle arti che si svolge ogni anno in Sardegna. Ilsindaco di Cagliari Paolo Truzzu ha scelto il nuovo assessore alla Cultura, Spettacolo e Verde Pubblico del comune. Oltre a Cultura, Spettacolo e Verde Pubblico, Picciau ha le deleghe alle Attività culturali, Gestione Musei e Centri Culturali, Spettacolo ed Eventi, Film Commission, Progettazione, Esecuzione, Gestione e Manutenzione Parchi e Giardini, Gestione Verde Pubblico, Politiche per il Benessere degli animali. “Sono onorata e ringrazio il Sindaco Paolo Truzzu per il prestigioso incarico”, ha commentato. “Cagliari ha tutte le caratteristiche per diventare un centro di produzione culturale e creativo internazionale. (segue pagina 14)

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(segue dalla pagina 13) Abbiamo siti, monumenti e realtà prestigiose da valorizzare”. Tutti i nostri migliori auguri. Maria Dolores Picciau ha scritto numerosi saggi e libri. Tra le pubblicazioni più significative annoveriamo: Visioni Concrete, Condaghes, Cagliari 2020 La forma e la mente, Condaghes, Cagliari 2019 Sequenze di tempo, Condaghes, Cagliari 2016 Segni disegni. Omaggio a Giacomo Puccini, Noarte paese museo, Cagliari 2014 La ricerca della forma assoluta. L’itinerario artistico di Maria Lai, Condaghes, Cagliari 2014 Tra Sardismo e fascismo. Arte e identità nelle riviste del primo Novecento, Zonza, Cagliari, 2007 Di luce e di vento. Asinara e arcipelago di La Maddalena, (con Bachisio Bandinu) Grafiche Solinas Cagliari, 2005 Tracce nell’acqua, Condaghes, Cagliari, 2004 La memoria e l’immaginario, Zonza, Cagliari, 2003 C’arte d’autore, Zonza Edizioni, Cagliari, 2002 La storia sommersa, Condaghes, Sassari, 1996 (2°ed. 1998). Nel 2014 per il gruppo editoriale L’Unione Sarda insieme ad Alberto Contu ha curato la collana sui Pensatori sardi diretta da Gianni Filippini. https://mariadolorespicciau.it/biografia/

LA STRAG Q

uella del 12 luglio 1911 è una data infausta per il popolo sardo. A Itri, nel Lazio, alcuni operai che lì vivevano e lavoravano per realizzare l’odierna tratta ferroviaria Napoli-Roma, furono uccisi e altri feriti per mano di cittadini itrani fomentati dalle autorità. Erano “colpevoli” di non voler pagare il pizzo alla camorra. Ma sotto per sotto ci fu una componente razziale. Mercoledì 12 e parte di giovedì 13 luglio 1911 il paese di Itri,in provincia di Latina, nel Lazio, si macchiò del sangue di tanti operai sardi che lì vivevano e lavoravano onestamente. La loro “colpa” fu quella di essersi ribellati al pagamento del pizzo alla camorra, infiltrata nel territorio e tra i vertici della ditta Spadari che gestiva il progetto dell’attuale tratta ferroviaria Roma-Formia-Napoli, alla cui realizzazione lavorarono gli operai sardi presi di mira nella cittadina laziale. Ma pagarono con la vita anche il fatto di essere, appunto, sardi, in un periodo storico in cui chi proveniva dall’Isola veniva considerato “sporco, rozzo, cattivo”. Tutto iniziò la mattina del 12 luglio, giorno di paga, allora chiamata “quindicina”; i sardi non solo subivano condizioni di lavoro molto più gravose rispetto alla po-


GE DI ITRIA polazione del posto, ma venivano anche pagati meno. Come sua natura, il sardo non si è mai chinato a certi soprusi. Così, gli operai si recarono in piazza Incoronazione, al centro del paese ed ebbero qualche diverbio con un uomo a cavallo che si fermò di passaggio. Intervennero i carabinieri, che però se la presero solo con una parte: arrestarono un sardo, tale Giovanni Cuccuru di Silanus; i suoi corregionali la considerarono un’ingiustizia e protestarono vivamente, provocando l’ira di un carabiniere che minacciò, pistola alla tempia, di uccidere Cuccuru se le proteste non fossero cessate. Alla notizia dell’arresto accorsero altri sardi che si fronteggiarono con gli itrani. Questi ultimi, coadiuvati dal sindaco, dagli assessori, da guardie campestri e dai carabinieri, si scagliarono contro gli operai al grido di «Fuori i sardignoli», ferendo e uccidendo alcuni di loro. Nulla poterono le vittime dinanzi ai forconi, ai pugnali, ai bastoni e ai fucili degli aggressori. Le violenze proseguirono anche il giorno successivo e da parte degli abitanti di Itri ci fu una vera e propria caccia al sardo. L’odio fu fomentato dai discorsi dei politici locali che fecero credere agli itrani che i sardi gli stessero rubando il lavoro e contribuissero all’incremento della criminalità.

https://www.vistanet.it/ cagliari/2021/07/12/accadde-oggi-itri-12-luglio-1911la-strage-dei-sardi-che-dissero-no-alla-camorra

I sopravvissuti denunciarono i fatti al procuratore del Re di Cassino, chiedendo l’intervento dello Stato e dell’allora governo italiano. Fu loro vietato un comizio sui diritti dei lavoratori, per il quale si era battuto anche Gennaro Gramsci, fratello di Antonio. La ditta Spadari licenziò tutti i sardi, che furono “invitati” dal prefetto ad andare via; alcuni di loro cercarono rifugio a Fondi e Formia, due cittadine in provincia di Latina, ma anche qui ricevettero l’ordine perentorio: “Tornatevene a casa vostra in Sardegna”. Il governo italiano, che fino ad allora non era intervenuto, fece arrestare 60 itrani ma al culmine di una lunga inchiesta, al processo del 1914 a Napoli vennero tutti prosciolti. I feriti furono una sessantina, tutti sardi, e 10 le vittime: Zonca Giovanni di Bonarcado, Antonio Baranca di Ottana, Antonio Contu di Jerzu, Antonio Arras, Efisio Pizzus, Giovanni Marras di Bidonì, Giuseppe Mocci di Villamassargia, Giovanni Cuccuru di Silanus, Sisinnio Pischedda di Marrubiu, Baldasarre Campus di Birori, Deligio (Giovanni Battista Deligia) di Ghilarza. Nomi dimenticati troppo velocemente ma che simboleggiano la determinazione di un popolo che non si fa mettere i piedi in testa da niente e nessuno. Stefania Lapenna

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ilippo Bacciu, pastore di Buddusò, vince “Lascia o Raddoppia?” Nel 1957, quando in Sardegna l’analfabetismo era ancora purtroppo altissimo, un pastore di Buddusò si aggiudicò il premio nel mitico programma di Mike Bongiorno “Lascia o Raddoppia?”. Filippo Bacciu, pastore di professione, conosceva tutto de “I Promessi Sposi”. Il concorrente rispose a tutte le domande, vincendo una fortuna. L’uomo si aggiudicò il premio massimo di 5 milioni di lire, somma che nessuno arrivò mai a vincere e che per l’epoca era veramente capace di cambiarti la vita. Filippo Bacciu fu il primo sardo a vincere in un programma televisivo e in particolare in quello più celebre negli anni 50/60. Quello che tutte le famiglie che possedevano una televisione aspettavano il giovedì per riunirsi tutti davanti alla televisione. Nel suo ambito – un settore tutt’altro che specialistico visto il ruolo della tv nella storia italiana recente – quasi eguaglia in importanzala distinzione fra Prima e Seconda Repubblica. Al pari di quest’ultima, con cui si sovrappone spesso nonostante i limiti cronologici siano sfalsati, è una categoria onnicomprensiva, pronta a riempirsi dei contenuti più

FILIPPO BACCIU vari. In pochi anni il Paese, l’orizzonte politico-culturale, ilpaesaggio antropologico sono radicalmente mutati (e altrettanto è cambiata la televisione italiana) e questa ‘grande trasformazione’ promette di impegnare storici, scrittorie intellettuali ancora a lungo. Il medium sembra perdere la sua ‘trasparenza’, l’accento non è più posto sulla ‘verità dell’enunciato’, bensì sulla ‘verità dell’enunciazione’, la funzione metalinguistica e dicontatto hanno la meglio sulla funzione referenziale. Tale passaggio è scandito da una sequenza repentina e caotica di trasformazioni : l’esplosione delle tv locali dopo la liberalizzazione dell’etere del 1976; i networks nazionali che emergono nei primi anni ottanta; infine il duopolio Rai-Mediaset sancito dalla legge Mammì del 1990 e rimasto inalterato fino ai giorni nostri. Fra anni settanta e ottanta, tuttavia,non è solo l’assetto dell’industria televisiva a cambiare, c’è una vera e propria rivoluzione della cultura televisiva e dei valori di riferimento. L’11 luglio 1957 in Sardegna erano in pochi a possedere un televisore, ma l’emozione di quelle famiglie che lo possedevano era così tanta, che dai pochi fortunati che lo possedevano, furono invitati a centinaia anche i vicini di casa per fare il tifo per lui. Ornella Demuru


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a 15a Biennale Internazionale d’Arte Grafica Suva Igla, che nutre e promuove questa antica e complessa tecnica grafica, è aperta alla Galleria Grad di Užice fino al 25 agosto. Il premio principale - il Gran pri Bijenala - è andato a Gabriella Locci dall’Italia, che è stata insegnante al primo Bijenala, per la serie “La forma del tempo”. L’Ago d’Oro viene assegnato a Maja Zemunik (Croazia) per la grafica “Bez naziva”, l’Ago d’Argento a Tatjana Marticki di Novi Sad e l’Ago di Bronzo a Daniela Savini (Italia) per l’opera “Tempo sospeso”. Il premio della Facoltà Pedagogica di Užice è andato a Ivana Pavlović (Bosnia ed Erzegovina), mentre le menzioni speciali sono state assegnate a Anja Dosković (Serbia), Maggie Kitching (Regno Unito) e Nevena Kežić (Bosnia ed Erzegovina). I premi sono stati assegnati da una giuria internazionale che, su 251 proposte di 159 artisti provenienti da 21 paesi di tre continenti, ha selezionato 86 stampe di 84 artisti per la vetrina. Per l’opera di Gabriella Locci, il presidente della giuria Vesna Todorivić ha detto che è “una composizione eccezionalmente meravigliosa”, che “lo associa formalmente al rilievo della montagna, inoltre, suggerisce una grafia ordinata e insolita”. “Non dobbiamo sottrarci alla soddisfazione dei do-

GRAN PREMIO INTERNAZIONALE assegnato a Gabriella Locci alla Biennale di UZICE

mini nettamente definiti dell’espressione artistica, alla ricchezza e alla diversità del motivo, dell’approccio e del modo di espressione, della scrittura e del modo di pensare, dove anche l’esposizione più introversa non può sacrificare l’emozione e i suoi orientamenti, sia nella villa, sia nella massa, sia nella sua trasfigurazione pura e complessa”, ha scritto Vesna Todorović nel catalogo di Bijenala, tra altri dialoghi. Ha detto che in questo anno, che è stato difficile per il mondo dell’arte, il numero di artisti iscritti (159) è chiaramente invidiabile. Questa covata, ha detto, parla di onestà e impegno verso l’istituzione della Biennale, o anche “prevashodno o uverenju da se život mora nastaviti i da individualna kreativnost nije i ne može biti kategorija “na čekanju”” (troppo sulla convinzione che la vita deve adattarsi e che la creatività individuale non è e non può essere una categoria “na čekanju”). Zran Cvetić, direttore della Galleria Grad, e Ratko Trmčić, il sindaco di Grad, hanno parlato del carattere di questa manifestazione unica, che attira artisti da tutto il mondo (Sarajevo, 1932 - Belgrado, 2009). “Il loro desiderio era di promuovere una tecnica grafica specifica, o i valori culturali di Užica e della Serbia”

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Foto josephinesassu

Museo dell’Intreccio Mediterraneo, MIM CASTELSARDO, sito all’interno della fortezza dei Doria, si propone come luogo ideale per preservare l’antica tradizione dell’intreccio. Il percorso museale è articolato su undici sale disposte su due piani. L’intreccio della città di Castelsardo si configura come un sapere antico non scritto, ma ancora oggi documentato e tramandato dagli abitati del borgo medievale alle nuove generazioni. Nelle vie della città è possibile incontrare le cestinaie, figure storiche e moderne, che al di fuori dall’uscio di casa intrecciano la palma nana, il fieno marino e la rafia. I loro manufatti, esposti ai turisti e ai passanti, riprendono le tecniche, le forme e i decori della antica tradizione ad intreccio di Castelsardo ma altresì richiamano i gusti personali e il talento innovativo dell’artigianato contemporaneo del luogo. Nasce così l’idea di una mostra organizzata e realizzata dallo spazio VIVACE di NOVARA di Veronica Armani e Diego Maria Rizzo che metta insieme l’antico, la tradizione e l’arte contemporanea. Ernesto Jannini, Dario Brevi, Vittorio Valente, Massimo Romani, Costantino Peroni, Davide Ferro, Gianni Cella, Federico Cozzucoli, Gio-

ICONOGRAFIA MILLENARIA

vanni Sesia, Antonio Toma, Gianantonio Abate, Josephine Sassu sono i 12 artisti che si sono messi in gioco per rivedere e rielaborare in visione moderna, cesti e intrecci a seconda delle loro declinazioni artistiche. Come nei periodi passati, anche nel terzo millennio è molto sentito il passaggio da un secolo all’altro. Esistono già dai primi anni di questo nuovo secolo tre grandi categorie di artisti, ovvero quelli che si sentono di ripercorrere la strada dell’iperrealismo, del Realismo, altri che sono spinti da un certo tipo di rinnovamento atto ad integrare l’arte tradizionale, ed i gruppi dalle forti e decise caratteristiche come le nuove avanguardie. Si passa quindi dalle audaci installazioni realizzate utilizzando microcircuiti stampati a lavori influenzati da quella contaminazione tipica dei mass media e dalla pop art. Da rielaborazioni e sovrapposizioni , con ritocchi pittorici e inserti calligrafici, a opere che ci parlano con un linguaggio dall’aspetto giocoso e colorato, il tutto caratterizzato da linee sinuose e selvagge, dove la creatività disinibita é libera da ogni gabbia concettuale o di sistema. http://www.mimcastelsardo.it/it/mostre/mostra/Iconografia-Millenaria/


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ari amici di Velones In Action, ciao! La bravissima francese Marie-Noelle Fontan, nata a Toulouse nel 1948, è una tessitrice e botanica che tesse con le piante che raccoglie nei suoi frequenti viaggi in Europa, Messico o Guatemala, opere bellissime, estremamente sensibili e incredibilmente carine... Il suo lavoro generale può essere visto come un ritorno alle fonti tessili naturali. I suoi materiali principali sono le piante e le loro forme e texture: foglie, corteccia d’albero, semi, fiori, frutti, radici, steli, lobi e legno ricoperto di licheni gialli, che conservano la loro forma ma non la loro freschezza. Lasciateli asciugare per trasformarli in fibra. Da questo composto di filo e piante, nascono opere incredibili nell’aria, con tutti questi materiali pazientemente tessuti, portando struttura e colore alla sottigliezza del lavoro creativo. Giocando con forme e colori, li tesse direttamente in una composizione usando il telaio che sua madre usava per fare i suoi vestiti quando era piccola. Il risultato finale sono dipinti intrecciati che trovano nella natura un motivo di ′′ eliminazione ′′ e derivati dalla sensibilità, leggerezza, poesia, che ci portano in un mondo di sogni e fragilità. Marie-Noelle Fontan è diventata una famosa parteci-

Foto velonesinaction

MARIE NOELLE FONTAN

pante alla mini-triennale internazionale di Angers. Ha ricevuto il Grand Prix nel 2007. Ha una grande conoscenza delle piante e delle erbe e una grande conoscenza generale delle piante botaniche. I suoi tessitori portano i loro nomi. Gioca con i fili del tronco, visibili e trasparenti, così come con gli elementi vegetali che formano il tessuto e con i fili dai colori naturali. In alcune delle sue opere, la foglia, oltre ad essere usata come intreccio, è l’intreccio dell’opera stessa, cioè i fili dello stelo sono posti intorno alla foglia, e l’artista arriva poi a riparare un punto dove la foglia manca. La foglia non è cucita, ma è posta tra i fili del gambo. L’artista gioca con le forme (coni, struttura elicoidale, cinture, cerchi,) e scivola. Nella tessitura più volte, usa il filo di bronzo, per la sua luminosità e colore, producendo un contrasto con la maturità delle foglie e altri materiali vegetali. Le foglie possono essere verdi quando le incorporano, e si decompongono lentamente, rivelando le loro sottili venature. In effetti, suona molto trasparente, appendendo questi tessuti trasparenti in mezzo alla stanza. In altre tessiture, i semi sono posti in una membrana sottile e trasparente di forma rotonda. (segue a pagina 20)

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Per ulteriori informazioni sull’artista, visitate il suo sito web o seguitela su Facebook http://www.marie-noelle-fontan.com/ https://www.facebook. com/marienoelle.fontan

Foto vittorio.e.pisu

(segue dalla pagina 19) Gioca anche con la rigidità di alcuni materiali che raccoglie, come il lino. Infatti, egli tesse, usando la paglia di lino come trama. E poi lo gira e dà al progetto una forma elicoidale. I suoi tessuti sono un inno alla natura, un riflesso della fragilità del mondo vegetale che ci circonda, nutrendo così i nostri sensi e la nostra immaginazione. “Marie-Noëlle è riuscita a dipingere senza pennelli, per offrirci quadri di insolita bellezza plastica. I suoi materiali sono costituiti da fili nell’ordito di un telaio e, nella trama, i baccelli dei nostri alberi, radici, cortecce, fibre che formano texture inquietanti.” Claudia Herodier, testo per la mostra a San Salvador “È un’erborista e una tessitrice. Raccoglie le piante, le intreccia e le lascia asciugare. Peperoni....cossi... fichi d’india... Il risultato sono quadri intrecciati che trovano nella natura una ragione di “astrazione”. J.P. Delarge. Dizionario delle arti plastiche. Grund 2001

BOSONIK E ST L

es Bosonik, come il nome stesso lo lascia immaginare, sono particolarmente difficili da localizzare, isolare, studiare e sopratutto capire. Una sofisticata e complessa messa in opera é necessaria e non si tratta di spendere somme esorbitanti o di utilizzare macchine complesse e difficili da manovrare. Una certa dose di chance é assolutamente necessaria e potrei anche azzardare che solo delle anime incontaminate potrebbero riuscire ad avvicinarli e lasciarsi trasportare dalle melodie che il connubio della batteria nelle mani di Sem Devigus e di una stranissima chitarra azionata da Sandro Perdighe riescono a creare in un modo assolutamente inconsueto e direi assolutamente unico. Qui sopra un’immagine che siamo riusciti ad isolare all’occasione di un fenomeno particolarmente raro svoltosi l’anno scorso ad Oristano nel luogo stesso nel quale una veglia si sta organizzando alfine di riceverli degnamente e sperare che si degnino di esibirsi insieme al saxofonista Stefano Daga che, a volte, li accompagna. Il loro periplo può svolgersi generalmente sulla costa occidentale della Sardegna al nord di Oristano, diciamo nei dintorni di Bosa, dove alcune volte é possibile, con un una certa dose di fortuna, incrociare la loro traiettoria erratica. Ultimamente alcuni documenti video, pubblicati da una


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TEFANO DAGA associazione astrofisica che si occupa più specialmente di produzioni di whisky sardo secondo la ricetta ancestrale egiziana migliorata ed applicata in seguito in Irlanda, ci spingono a sviluppare alcune teorie sia musicali che sociologiche che per il momento necessitano di una confermazione sperimentale che speriamo poter effettuare quest’estate. Non possiamo che invitarvi assolutamente a tentare la vostra chance, trovandovi sabato 10 luglio davanti all’Arrubiu Art Gallery Cafè, dove, a partire dalle ore 19 un posto di osservazione sarà installato a cura delle associazioni Sardonia e Terra Battuta che hanno invitato Laura Zidda, approfittando della generosa offerta di Chiara Cossu di esporre le sue opere pittoriche nella speranza che siano capaci di rallentare la loro corsa parabolica ed esternarsi alfine di verificare appunto alcune delle ipotesi sucitate senza naturalmente nessuna garanzia del resultato ben che le condizioni ideali potrebbero essere riunite e se la temperatura al suolo non sarà troppo elevata un ascolto ed una osservazione ottimale del fenomeno così costituito sarebbero anche probabili. Non possiamo promettervi niente ma vi invito comunque ad essere numerosi, discreti e concentrati per assaporare, se possibile, questo raro, eccezionale e gustoso fenomeno solitamente indimenticabile ma che sarà eventualmente registrato se la meteo lo permette. V.E.Pisu

urtroppo la paruzione di questo mensile a subito un ritardo molto importante e quindi quando leggerete queste linee la performance avrà già avuto luogo. Per consolarvi i video, anche se non riuscirete malgrado le immagini e la banda sonora, a ricostituire l’atmosfera magica che ha presieduto al vernissage dell’esposizione delle opere di Laura Zidda all’Arrubiu Art Gallery Cafè che le ha generosamente accolte dopo il successo della mostra nella serie “Meglio una donna” in Via San Domenico 10, che continua nella sua corsa ormai ben installata con le fotografie di Dolores Mancosu dal 29 luglio in poi. Chiara Cossu, che ringraziamo per la sua ospitalità, ci ha inoltre espresso il desiderio di accogliere altre delle mostre che programmiamo. Così non sarà eccezionale che probabilmente ritroveremo il nostro trio musicale dall’espression particolare. Qui di seguito i links per consultare i filmati finora realizzati:

vimeo.com/439831868 vimeo.com/440420024 vimeo.com/440171417 vimeo.com/449449667 vimeo.com/449582399 vimeo.com/575088560

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Foto associazione pecora nera di arbus

SAGRA PECORA NERA DI ARBUS

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a Sagra della Pecora Nera si tiene ai primi di agosto presso la località Pitzinurri di Ingurtosu ed è organizzata dall’Associazione Allevatori di Pecora Nera di Arbus, in collaborazione con il Comune di Arbus. La manifestazione celebra le qualità di questo tipico animale arburese con momenti di informazione e visita agli ovili locali, allestimenti di stand espositivi, laboratori ed ovviamente degustazioni dei prodotti ricavati dall’ovino. La pecora nera rappresenta una delle principali biodiversità presenti nel territorio di Arbus e più in generale nel Medio Campidano. Questa specie, che era stata messa da parte per parecchio tempo e rischiava l’estinzione, ha recentemente riacquistato la sua importanza grazie all’impegno di allevatori locali che ne hanno accresciuto la presenza negli ovili di Arbus. Di particolare interesse è il suo manto naturale: una lana che, infeltrita con latte, olio d’oliva, miele e liscivia, arreda la casa, impreziosisce i gioielli, abbellisce il legno, il ferro, entrando di buon diritto nella “linea bellezza” dei prodotti locali. Inoltre, ha capacità di isolamento termico, acustico e di purificazione dell’aria. www.arbusturismo.it/it/territorio/tradizioni/sagra-della-pecora-nera/index.html

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in dai tempi antichi l’area del Medio Campidano e con essa la zona arburese venne sfruttata per le estrazioni di rame, argento e piombo dai ricchi giacimenti minerari presenti sul territorio. Ma è nel corso dell’Ottocento che prendono vita e intraprendono la loro attività le principali miniere di cui ancora oggi sono visibili cantieri, pozzi, villaggi e borghi abbandonati. Ad Arbus sono visitabili i complessi minerari di Ingurtosu e di Montevecchio, entrambi inseriti nel Parco Geominerario della Sardegna. Questi luoghi, un tempo centri propulsori dell’economia locale, sono, ad oggi, suggestivi esempi di archeologia industriale e rimangono a testimoniare le storie delle persone che qui ci vissero e lavorarono. Ad Arbus la buona tavola passa attraverso ricette di antica tradizione culinaria e prodotti genuini e di ottima qualità. Tra i prodotti più conosciuti spiccano i formaggi caprini e ovini, l’olio d’oliva, ed il miele (base di molti imperdibili dolci); tutti prodotti che si possono acquistare presso le aziende agricole, agriturismi, ristoranti e botteghe enogastronomiche del territorio. Piatti e prodotti tipici vengono celebrati anche durante le sagre e gli eventi di paese, tra cui la tradizionale Sagra della Capra che propone ai visitatori interessanti laboratori e momenti di degustazione di piatti e prodotti succulenti.


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on ho condotto studi accademici ma ovviamente ho molto studiato – e studio tuttora – perché ho sempre considerato seriamente il fare arte. Il mio paese natale e tutta la regione sono un continuo rimando all’arte, anche quella antica (basti pensare ai bronzetti nuragici, alle sculture megalitiche come i nuraghi, le tombe dei giganti, i dolmen, menhir ecc.) disseminata in tutta l’isola, tanto che in ogni momento puoi inciampare in una testimonianza del nostro passato. Tutte queste presenze hanno costituito per me la culla e l’energia per la mia pratica d’artista. Probabilmente all’appartenenza all’isola devo due caratteristiche della mia personalità: la curiosità per ciò che sta oltre il confine e il saper fare delle mani, che in una terra come questa era fondamentale dato che, fino ai primi decenni del ‘900, tutto veniva prodotto in loco.

PIETRINA ATZORI

Foto pietrina atzori

Un’intervista ricca di molti contenuti quella con Pietrina Atzori che partendo dal suo lavoro di artista tessile, mi ha accompagnato in un lungo excursus attraverso tecniche, materiali, territorio, comunità. Con i piedi ben piantati nella sua terra sarda ma lo sguardo che vede lontano. Un’artista che sa raccogliere dal passato e operare per il futuro. Barbara Pavan

La mia comunità e il modo di vivere, la mia fervida immaginazione, la ricchezza di espressioni artistiche intorno a me fin da piccolissima mi hanno naturalmente indirizzato alla pratica dell’arte. Per me è vitale sentirmi radicata al terreno, camminare a piedi scalzi, sentire che tutto il mio essere poggia sul suolo. Appartengo ad una comunità contadina. Ogni cosa necessaria diventava disponibile per attingervi: valori, pratiche, attenzioni, conoscenze, riti e rituali imprescindibili per la vita. Sono anche una donna contemporanea che ha vissuto, come tanti di noi, grandi cambiamenti e quello che maggiormente mi inquieta oggi è la mancanza di identità verso cui ci stiamo muovendo. I legami con la tradizione e la natura sono recisi. Qualunque “valore” duraturo è negato. Nella più ampia cultura occidentale, di cui siamo parte, è esaltata la provvisorietà, la precarietà, l’effimero in tutti gli aspetti dell’esistenza: il che è davvero un controsenso. Nel mio lavoro d’artista le radici sono riconoscibili nei materiali naturali che utilizzo: lana, cotone, lino, seta, canapa. Non mi limito ad utilizzarli, spesso li produco; ciò vale specialmente per il filo di lana. I colori li ottengo a partire dalle piante del territorio in cui vivo. (segue pagina 24)

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Foto pietrina atzori

(segue dalla pagina 23) Radici sono anche le numerose tecniche, in particolare quelle tessili, che ho imparato a praticare molto bene per poi, solo dopo, “decostruirle” in modo espressivo, spesso in modo non convenzionale ma più divertente e funzionale alle mie esigenze comunicative. Infatti solo dopo aver studiato, appreso e praticato i fondamenti ho potuto costruire un mio codice espressivo attraverso i materiali tessili. Nel mio lavoro quindi materiali e tecniche rappresentano le radici che manipolo, trasformo e impiego per costruire una riflessione ed una narrazione intorno ad alcuni temi della nostra contemporaneità. La comunità è il luogo in cui mi identifico; la storia del mio paese e della mia regione incidono e influenzano il mio sguardo. La comunità è un po’ come la mamma: è il luogo in cui trovo protezione, accoglienza. Talvolta può anche risultami stretta ma è sempre lì a ricordarmi chi sono e da dove vengo. Dipende sempre da come guardi le cose. Nel tempo ho allargato il mio orizzonte andando a scoprire altri spazi, altri luoghi per conoscere – e riconoscere – pratiche che erano anche le mie ma in nuove modalità di organizzarsi, di esprimersi e di codificare il proprio gruppo. Ciò che più mi incuriosi-

Nigra Sum Sed Formosa sono nera ma bella (anno 2021) 6 tavole in canvans plastificato – dimensioni cm 51×41 1 tavola in pizzo dorato – dimensioni cm 51×41 6 tavole in multistrato – dimensioni cm 21×21 Tecnica mista: manipolazione di immagine, ricamo a mano, pizzi e perline, santini devozionali NIGRA SUM SED FORMOSA è un percorso attraverso il culto delle Madonne Nere nel meridione d’Italia L’Opera è inserita nell’Osservatorio artistico digitale Nazionale di Futuro Arcaico https://futuroarcaico.it/ https://www.atzoripietrina-art. com/portfolio/embroidery-nigra-sum-sed-formosa-madonne-nere/

sce è vedere come ogni comunità si rapporta con la sua identità: è lì che trovo sovente ispirazione per il mio lavoro. Spesso essa si caratterizza in funzione delle risorse del territorio e il territorio condiziona la vita delle persone. Molte tracce del passato sono ancora rintracciabili nel presente, ma di altre si è persa la memoria; un vero peccato perché con essa si perde anche l’identità. Non penso al passato come valore nostalgico ma conoscerlo per fruirne nel presente proiettandolo nel futuro credo sia importante. Mi spiego con un esempio: se in passato una comunità fondava la sua sussistenza sull’allevamento delle pecore e da essa traeva tutti i benefici possibili, oggi la stessa comunità se punta tutto solo sul latte o sulla carne abbandonando, ad esempio, la lana perde non solo questa produzione ma tutto un sapere che ha conseguenze non solo sulla perdita di quella risorsa ma anche sulla cultura di quella stessa comunità. È importante sapere, poi, che l’attività pastorale è fondamentale per la cura e conservazione di un territorio: la sua perdita determinerebbe un progressivo e inesorabile abbandono delle campagne con conseguenti e irreparabili risvolti sull’habitat naturale e sull’uomo. Barbara Pavan https://filifor.wordpress.com/2020/10/25/


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sce in Sardegna “La donna Sarda” la prima rivista femminile “È permesso? Vi è un posticino vuoto nel vostro elegante salottino dove possa nascondermi senza darvi molestia? Guardate, prendo poco spazio, sono sottile, sottile, quasi diafana, non mi ci si vedrà nemmeno. Son venuta a farvi una visita, è da un pezzo che lo desideravo, degli anni addirittura, ed è appunto per questo motivo che sono deperita, venni tanto gracilina; ma mi rimetterò subito in gamba se mi farete buona accoglienza (…) ” Con questo particolare editoriale scritto dalla direttrice Maria Colombo esce a Cagliari il 15 luglio 1898 “La donna sarda” la priva rivista femminile scritta e pubblicata in Sardegna che portò alle donne sarde nuove speranze di emancipazione che avrebbero riguardato non le sole donne, ma tutta la società sarda. Si pubblica mensilmente sino al 25 dicembre 1900. Dal 19 gennaio 1901 cambia periodicità e sottotitolo e dal luglio dello stesso anno si pubblica col titolo «Il Rinnovamento: rivista quindicinale di lettere, arti e scienze». L’ultimo numero di «La donna sarda» è datato 31/5/1901. La sorte del giornale, che nei primi due anni di vita gode di un notevole successo di pubblico (per la gran-

de richiesta viene fatta una ristampa del primo numero), va peggiorando col tempo: i duri giudizi espressi nel 1901 da Raffa Garzia (critico letterario) sullo scarsissimo valore delle “giovani penne” che scrivono sul giornale, la netta impronta socialista che gli viene impressa a partire dagli ultimi mesi del 1900, aspramente criticata dal quotidiano «La Sardegna cattolica» coincideranno con le dimissioni della direttrice e con il rapido declino del giornale. La fondatrice e direttrice era Maria Colombo (poi Manca), piemontese di origini, ma giunta in Sardegna in giovane età e sposata ad un sardo, Cesare Manca. Già collaboratrice di altri giornali e animata da un forte impulso pedagogico in un’epoca di riforme sociali, fonda un periodico dedicato alle donne, che si propone un compito gravoso: emancipare le donne sarde, renderle coscienti del fatto che esse possono avere un ruolo definito e riconosciuto nella società. “La donna sarda” è anche la firma della Presentazione, in cui si legge che il giornale intende parlare con garbo alle donne sarde dei loro compiti e dei loro passatempi, delle bellezze della loro isola, della storia e delle scienze (che spesso conoscono poco perché non hanno tempo o modo di conoscerle viaggiando o studiando)(segue pagina 26)

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Foto ainnantis

(segue dalla pagina 25) come lo farebbe una buona amica, affinché siano più preparate nel dare (da madri e maestre) un’adeguata educazione ai propri figli e più informate non solo sulle ultime mode, ma anche sui loro diritti. Con questo fine il giornale si occupa anche della divulgazione del Questionario del Movimento femminile, diffuso a livello italiano, sulla condizione sociale delle donne, di cui però non vengono poi resi noti i risultati. L’emancipazione femminile non è un argomento facile da trattare in una società fortemente conformista e cattolica come quella della Sardegna di fine Ottocento. E dunque, che sia per un’intelligente scelta tattica o per sincerità, il femminismo propugnato da Maria Colombo e dalle sue amiche-collaboratrici non è radicale ed estremistico; è un femminismo moderato, che non incita le donne a ‘mascolinizzarsi’, rubando il ruolo e la veste degli uomini per sostituirli nei loro posti di responsabilità, ma che propone un modello di donna assolutamente femminile, che svolge il suo ruolo di madre e moglie in maniera più consapevole ed adeguata all’importanza del posto che la Natura e la Bibbia le hanno assegnato. Su questi toni moderati si manifestano anche le idee della penna più feconda del giornale, che si firma

Maria Xanta, ma che in realtà è un uomo, l’insegnante elementare Andrea Pirodda, fondatore e direttore di «Gallura letteraria» e «La Scuola sarda», oltre che collaboratore di numerosi giornali e riviste del tempo («Vita sarda» 1991, «L’unione sarda» molti altri). Pirodda su «La donna sarda» si firmerà col suo vero nome solo nei numeri pubblicati nel Novecento. Nei suoi numerosi articoli moltiplica gli inviti alle donne a non lasciare il loro ruolo di “regine della casa”, ma ad esercitarlo con lo scettro in mano e non come graziosi soprammobili, ed invoca la necessità di una meglio strutturata educazione scolastica. Maria Xanta riconosce importanza fondamentale alle scuole femminili, alle quali chiede di “fortificare il carattere della donna per […] formare delle madri”, interrogandosi su quali figli mai potrebbe educare una madre che non avesse altro da insegnare che pregiudizi ed ipocrisie. Combatte le teorie di scienziati e filosofi che cercano di dimostrare scientificamente la diseguaglianza fisica tra l’uomo e la donna (più piccola, più debole, col cranio meno sviluppato e l’encefalo con meno “circonvoluzioni”), spiegando che uomo e donna non sono stati creati per contendersi gli stessi ruoli, ma per compensarsi ed equilibrarsi a vicenda. Secondo Andrea Pirodda, ciascuno dovrà (dunque) cercare di svolgere al meglio il proprio dovere natura-


le, senza interferire nella sfera dell’altro. In più occasioni si trova a difendere le categorie di donne più esposte a critiche: operaie, minatrici, prostitute e ballerine, giustificandole perché costrette dalle condizioni economiche a professioni che sono disonoranti per loro stessa natura. Il suo articolo di commento alla speranza che il movimento femminista in Inghilterra conquisti il diritto di voto per le donne (nel quale ricorda le prime avvocatesse ed invoca pari opportunità di formazione per le donne che stanno dimostrando di poter ricoprire anche ruoli fino ad allora prettamente maschili) suscita, perché troppo progressista, due

risposte, una maschile ed una femminile, che invitano a una maggiore moderazione di idee. La prima di Edgardo Rosa (pseudonimo di Giuseppe Mangiameli), direttore di un periodico corleonese, con sottile ironia rimprovera le donne di non essere coscienti della superiorità che loro già hanno per la disposizione naturale che conferisce loro il potere nella vita privata sul marito e sui figli. L’altra di Luigina Lupi, collaboratrice de «La donna sarda», dopo aver ricordato come nel pensiero comune la donna inglese non sia citata come esempio di femminilità, sostiene che le donne hanno già “tante belle occupazioni che l’uomo ha

voluto a noi lasciare, che facciamo un danno a noi stesse se vogliamo sconfinare dalla nostra missione!” e che la donna “prima di disputare all’uomo la laurea, dovrebbe pensare ad essere donna, donna e null’altro che donna”. Anche Gina Sequi sostiene che le donne devono semplicemente migliorare la propria cultura per essere più adeguate al loro importantissimo compito di essere delle buone madri. Tra le altre collaboratrici del giornale vanno ricordate, per il loro impegno politico nel movimento d’emancipazione femminile, Sofia Safo (che nel n. 3, 1898 dedica un articolo alla scrittrice Emilia Mariani, “la più balda propu-

gnatrice della causa femminile”), Maria Bobba e Anna Maria Mozzoni. Queste ultime inizieranno la loro collaborazione alla testata solo nel 1900. Maria Colombo è orgogliosa di poter vantare un’autorevolissima “ospite”, “un genio”, “un essere superiore”: Grazia Deledda, una donna “affermata” e, a tutti gli effetti, la più degna rappresentante di quanto il giornale afferma e propone. La Deledda, però, non ricambia nella stessa misura gli sperticati elogi e i numerosi tributi a lei indirizzati da Maria Colombo e da altre collaboratrici del mensile (in omaggio alle sue nozze viene addirittura pubblicato un numero speciale, 11 gennaio 1900) ma si limita a far pubblicare un breve raccontino, qualche verso ed un’altra prosa, che sarà pubblicata sul «Rinnovamento» quando Maria Colombo non era già più direttrice del giornale. Nell’articoletto di presentazione di Grazia Deledda la Colombo incita le sue amiche e collaboratrici, autrici di poesie e di racconti pubblicati sul giornale, a perfezionarsi per divenire degne di rimanere in contatto con la grande scrittrice. «La donna sarda», infatti, oltre ad articoli ‘impegnati’, consigli pratici, recensioni di libri o riviste, critiche teatrali, pettegolezzi, propone poesie, racconti, pensieri di vario tono e livello. (segue pag. 28)

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Foto librisardi.it

(segue da pagina 27) Era opinione comune, già a quell’epoca, che questi contributi non fossero d’altissima qualità, tanto che Ida Gessa Paoletti sente la necessità di ammonire le collaboratrici a non voler vedere pubblicato per mera civetteria qualunque scritto esse avessero prodotto, per non rischiare di essere definite scolastiche e melense, e consiglia loro di rifuggire dalle “scioccherie da donnine isteriche” come “uccellini, fiorellini, bestioline”. Non tutte, però, mostrano di volere (o potere) seguire questi saggi consigli, se – poco più d’un anno dopo – una nota su «La donna sarda», pubblicata sul giornale padovano «Veneto», per altri aspetti favorevolissima, le rimprovera il permanere di un certo “sentimentalismo” dal quale era invece importante staccarsi, anche procedendo per gradi. Molto meno clemente, e di più nocivo effetto, sarà la già citata critica di Raffa Garzia sul suo «Bullettino Bibliografico sardo». Tra le collaboratrici ‘letterarie’ si possono citare Eva Pepitoni dai toni macabro-realistici, e la più dolce Emilia Simonetti. I collaboratori del sesso ‛forte’ cominciano a farsi più numerosi nei fascicoli pubblicati nel Novecento, quando il mensile – già vicino al suo tramonto – ospiterà le firme di giovani esordienti. Nell’Ottocento scrivono sul mensile Rinaldo Cad-

deo, G. Andrea Cossu, Sebastiano Pintus ed Edgardo Rosa (Giuseppe Mangiameli). «La donna sarda» (nonostante le promesse del primo numero) dedica poco spazio alla storia ed al folklore della Sardegna, forse per restare allineata agli orientamenti della stampa femminile italiana. Pubblica in “Appendice” il romanzo Peppeddu Tolu di Maria Colombo (sempre col cognome da sposata Maria Manca). La veste grafica è piuttosto curata: la copertina, di quattro pagine, è colorata; i titoli degli articoli sono composti con caratteri particolari; molti articoli iniziano con un capolettera ornato; vari sono i fregi che spesso separano gli articoli l’uno dall’altro. La pubblicità di prodotti, ditte e negozi non solo sardi (a riprova di una buona diffusione del periodico sul territorio italiano) occupa solitamente un’intera pagina della copertina. Ornella Demuru https://www.facebook.com/ainnantis Fonte: I giornali sardi dell’Ottocento - Quotidiani, periodici e riviste delle biblioteche della Sardegna Catalogo (1774 – 1899), a cura di Rita Cecaro – Regione Autonoma della Sardegna


Foto lauchourmo

L’

idea di un periodico femminista (s’è però è lecito usare del nuovo vocabolo giornalistico) che promuova il germoglio intellettuale della donna sarda, è ottimo e geniale”. Era il luglio 1898 quando Maria Manca Colombo, una giovane di origini piemontesi, determinata e ambiziosa, presentava al pubblico il numero uno de “La donna sarda”: per la prima volta compariva a Cagliari un giornale per le donne, fatto dalle donne. Dobbiamo immaginare un gruppo di amiche che lavorano sodo per dare vita a un mensile eclettico, talvolta segnato da testimonianze contraddittorie, ma interessato a sviscerare l’universo femminile, prendendo coscienza del mondo che cambia, affrontando le tematiche più spinose per una città ancora fortemente cattolica, monarchica e conformista, come era la Cagliari di fine ottocento. Una redazione tutta al femminile, se escludiamo la collaborazione del maestro elementare gallurese, Andrea Pirodda, celato sotto il nome di Maria Xanta (sua madre), il quale si fece interprete delle esigenze delle donne più emancipate. Con il passare del tempo trovano spazio anche alcune firme maschili, sebbene sempre in netta minoranza. Dal 1898 inizia una collaborazione autorevole: Grazia Deledda, il prototipo della donna culturalmente impegnata, è ospite a Cagliari di Maria Manca.

Magazine online La donna sarda un progetto divenuto realtà La donna sarda è un portale di informazione e intrattenimento, suddiviso in due blocchi principali : i n primo piano c’è il magazine, con articoli corposi : storie raccontate con parole e immagini. Una sfida che lanciamo a noi stesse e alle lettrici. E poi trovano posto le rubriche tematiche, la sezione degli Esperti, le pagine ironiche e la pagina dei nostri video. A breve arriverà anche una Web TV.

L’intraprendenza della direttrice guiderà il gruppo con entusiasmo fino alla svolta socialista del 1901: il giornale cambia veste, diventando un quindicinale completamente differente nei contenuti. Naufraga così l’impresa di Maria e la parola fine è definitivamente segnata dal cambio di direzione nel luglio dello stesso anno. È passato più di un secolo da quel luglio 1898, ma ancora una volta tutto nasce da un gruppo di donne, desiderose di raccontare il proprio mondo, le proprie storie e la propria terra. Anche questo è un progetto ambizioso che inizia a prendere forma un anno fa e ha raccolto, intorno ai tavoli di case, bar e locali, diverse donne, differenti tra loro, tutte speciali, uniche e indimenticabili. Un anno di lavoro intenso trascorso tra i libri, riviste specializzate, siti giornalistici e gli occhi, insaziabili di sapere, rivolti a scoprire e inseguire un mondo in continuo mutamento: l’editoria e il giornalismo 2.0. È un lavoro di cuore, di squadra, di passione e di riscatto. Vogliamo disegnare la nostra “Isola delle donne”, lasciando doverosamente uno spazio anche agli uomini, perché sappiamo bene, ahimè, di non poter vivere senza di loro. Vogliamo le chiacchiere di un frivolo pomeriggio tra amiche, esattamente come 116 anni fa voleva Maria Manca. (segue pagina 30)

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Foto fondazionemerz

(segue dalla pagina 29) Il nostro è un portale di informazione e intrattenimento, suddiviso in due blocchi principali: in primo piano c’è il magazine, con articoli corposi: storie raccontate con parole e immagini. Una sfida che lanciamo a noi stesse e alle lettrici: possono funzionare sul web i contenuti non esattamente mordi e fuggi? E poi trovano posto le rubriche tematiche, la sezione degli Esperti, le pagine ironiche e la pagina dei nostri video. A breve arriverà anche una Web TV. Ci sono delle avventure, che nel più ampio significato del termine, possono trasformarsi in sogni che diventano realtà. Non accade solo nei film e questo portale ne è una degna testimonianza. Se è vero che non si dovrebbe mai guardare la fatica fatta, nel valutare il proprio lavoro, lasciateci dire che siamo orgogliose di poter condividere con voi questo progetto. Siamo in attesa dei vostri consigli per migliorare quello che sappiamo essere un sito imperfetto, ma speriamo vicino anche alle vostre esigenze e ai vostri cuori di donne. Inizia la nostra avventura, donne sarde, scopriamo insieme l’Isola delle donne guerriere (coi tacchi). “Verrò da voi come una buona amica e non con la pretesa di dettarvi la morale” La Donna sarda, 15 luglio 1898... www.ladonnasarda.it www.emigratisardi.com/

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in dal giorno della mia nascita, la morte ha iniziato il suo cammino. Sta camminando verso di me, senza fretta”. Incarna l’ossessione dell’artista che archivia battiti del cuore e che ha venduto la propria vita a un collezionista, la citazione di Jean Cocteau, ovvero l’inesorabile scorrere del tempo e la consapevolezza della precarietà dell’esistenza, dal momento che siamo inevitabilmente destinati alla fine ma nulla sappiamo del Dopo. Ragion per cui Christian Boltanski (Parigi, 1944) si appropria di esistenze passate per ripercorrere la storia, costruire archivi della memoria per preservare dall’oblio la gente comune ed esorcizzare la caducità della vita, i misteri dell’inconscio e la morte. Dopo la quale nulla è possibile. Nel tentativo ultimo di dimostrare l’assenza, più acuta e drammatica della presenza. Si presenta come una sintesi delle riflessioni sviluppate nell’arco della sua carriera, l’ultimo progetto site specific che l’artista ha presentato a Torino: un percorso espositivo concepito come un’installazione totale, che accoglie il pubblico con duecento monumentali fotografie stampate su tessuti leggeri e trasparenti. Anime diafane, evanescenti e fluttuanti rivelano che ciò che resta dopo la morte è solo uno sguardo cattura-


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to da una vecchia foto. Ma è anche la metafora dell’esistenza, sospesa in balia dell’incertezza, di passaggio in questo mondo in attesa della morte. E se il passato ritorna nell’installazione dinamica a concretizzare fantasmi attraverso il racconto dell’umanità e della lanterna magica che proietta ombre oscure che in una danza macabra si dilatano nello spazio, nel piano sottostante l’artista dà vita a un cimitero consacrando altari, costruendo torri, edifici instabili fatti di materiali effimeri, che pone al cospetto della flebile luce di lampadine colorate a comporre la parola Dopo. Ma non prima di sorprenderci con l’improvvisa esplosione dell’applauso interminabile di Clapping Hands – video che l’artista dedica a Mario Merz –, lo stesso a cui assistette per la prima volta in occasione del funerale dell’amico artista. In lotta contro il tempo, passato e presente convivono in simbiosi in un’integrazione a tratti sconcertante, in questo progetto di forte impatto emotivo che si conclude con Entre Temps, fotogrammi in loop che insistono su volto dell’artista scandendo il passaggio del tempo. Perché nessuno è immune dalla fine e nulla ha più senso davanti alla morte. Unica certezza dell’esistenza. Roberta Vanali

Torino // fino al 31 gennaio 2016

Christian Boltanski Dopo a cura di Claudia Gioia FONDAZIONE MERZ Via Limone 24 011 19719437 info@fondazionemerz.org www.fondazionemarz.org

https://www.artribune. com/dettaglio/evento/47226/christian-boltanski-dopo/

Christian Boltanski, nato il 6 settembre 1944 a Parigi e morto nella stessa città il 14 luglio 2021, è un artista visivo francese riconosciuto come uno dei principali artisti francesi contemporanei. È stato fotografo, scultore e regista, ma è più famoso per le sue installazioni. Si definisce un pittore, anche se da tempo ha abbandonato questo mezzo. Christian Boltanski è figlio di un padre medico, ebreo di origine russa. Sua madre, nata Marie-Elise Ilari-Guérin, è una scrittrice con lo pseudonimo di Annie Lauran. In un’intervista ha detto: “Mio padre era ebreo [di origine russa]. Durante la guerra, mia madre [cattolica] aveva paura. Un giorno ha fatto finta di litigare con lui. Poi lo nascose sotto il pavimento e chiese il divorzio. Rimase per un anno e mezzo in quel nascondiglio... Poi i miei genitori si risposarono”. Ha iniziato a dipingere nel 1958, all’età di 14 anni, senza alcuna scuola formale o formazione artistica in senso tradizionale. I suoi primi lavori tendevano ad essere piuttosto oscuri e di natura storica. Da adolescente, si dice che suo padre gli abbia presentato André Breton, suo compagno di studi al Lycée Chaptal, che gli ha sconsigliato questa strada: (segue pagina 32)

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Foto grandpalais

CHRISTIAN BOLSTANSKI

(segue dalla pagina 31) “Vous avez l’air très gentil. Ne devenez pas artiste. Ils sont tous méchants. C’est un sale milieu“. Boltanski si allontana dalla pittura a partire dal 1967 e sperimenta la scrittura, attraverso lettere, installazioni o dossier che invia a personalità artistiche. Nella biografia che scrisse nel 1984, in occasione di una retrospettiva, descrive così la sua vocazione artistica: “1958. Dipinge, vuole fare arte. 1968. Non compra più riviste d’arte moderna, ha uno shock, fa fotografie, bianche e nere, tragiche, umane...”. La sua prima mostra ebbe luogo nel 1968 al teatro Le Ranelagh di Parigi, con marionette a grandezza umana e un film intitolato La Vie impossible de C. B.; l’invito all’evento fu scritto dalla poetessa Gisèle Prassinos, che iniziò scrivendo: “Christian Boltanski mostra con insistenza la miseria, la vecchiaia, la solitudine e la morte”. Nel 1969, pubblica il suo primo libro e realizza una serie di cortometraggi tra il 1969 e il 1971, in cui mette in scena se stesso con degli artifici grotteschi (L’Homme qui couse, L’Homme qui lèche, Derrière la porte). Dice di sentirsi più vicino a Giacometti che a Picasso. Christian Boltanski è sposato con la fotografa Annette Messager. Si sono incontrati poco dopo la Biennale di Parigi del 1969.

Ha vissuto a Malakoff, un sobborgo di Parigi, in un edificio industriale convertito in alloggi per artisti dall’architetto Robert-Antoine Montier. Il suo studio si trovava lì. Christian Boltanski è morto a Parigi, all’Hôpital Cochin10, il 14 luglio 2021 all’età di 76 anni a causa di una leucemia fulminante. Boltanski si interroga sul confine tra assenza e presenza. In effetti, l’assenza è un tema ricorrente nel suo lavoro: il video e la fotografia sono presenze, ricordi che, secondo lui, invece di far rivivere gli assenti, evidenzieranno invece la loro scomparsa. Utilizzando vari materiali (vecchie fotografie, oggetti trovati, cartone ondulato, pasta da modellare, luci, candele, ecc.), Boltanski cerca l’emozione attraverso tutte le espressioni artistiche che usa: foto, cinema, video. I temi onnipresenti nella sua opera sono la memoria, l’inconscio, l’infanzia e la morte. Una delle particolarità dell’artista è la sua abitudine di ricostruire momenti di vita con oggetti che non gli sono mai appartenuti ma che tuttavia espone come tali. Immagina una vita, la fa sua, e tutti gli oggetti dei suoi archivi, libri e col-


lezioni sono depositari di ricordi. Hanno un forte potere emotivo, perché fanno appello alla “piccola memoria “ , cioè alla memoria affettiva. Queste opere fanno appello ai ricordi, da quelli dell’infanzia a quelli dei defunti, e da una storia personale alla storia comune di tutti. Nel 1972, in una mostra a Kassel (Germania), Boltanski espone in una sala intitolata “mitologia individuale”, un concetto rappresentativo del suo rapporto con l’autobiografia. Dagli anni 2000 in poi, il suo lavoro privilegia soprattutto le grandi installazioni, come Personnes alla Monumenta del Grand Palais (2010)14 , No Man’s Land all’Armory di New York (2010)15 e Chance al padiglione francese della Biennale di Venezia nel 2011. Oltre a questi progetti effimeri, installa opere permanenti che sono in costante crescita, come “The Heart Archives” sull’isola Teshima in Giappone o “Te life of C.B.” sull’isola Tasmania in Australia. Quest’ultimo progetto consiste nel filmare l’artista con telecamere durante la sua giornata. Lo sponsor del progetto, che vive in Tasmania, spera di vederlo “morire in diretta”; di conseguenza, il rapporto tra i due uomini è “talvolta difficile “. Qui di seguito Installazioni ed esposizioni

Monument, Musée du MAC/VAL La Chambre ovale, 1967 Les Archives de C.B., enregistrement vidéo, Brigitte Cornard, Christian Boltanski, participant, 1998 (avec notamment L’Homme qui tousse) Essai de reconstitution (Trois tiroirs), 1970-1992 Sans titre, 1971, vitrine contenant 98 sucres taillés et fixés sur carton, 56 × 85,5 × 10 cm, musée d’art de Toulon Saynètes comiques, 1974 Les Registres du Grand-Hornu, 1977 Composition théâtrale, 1981 Monument, 2,60 × 11 m, musée de Grenoble, 1985 Enfants de Dijon, 1996 Les Archives de C.B. 1965-1988, 1989 L’homme qui tousse (réalisé avec J.-C. Valesy), 1969 Film 16 mm couleur, sonore, 3 min. Une pièce teintée de rouge et noir, éclairée par une fenêtre, un homme assis par terre dont seule la bouche est visible est en train de cracher du sang, le sang se déverse sur ses jambes allongées sur le sol. La Maison manquante, 1990 Réserve, 1990 Installation présentée dans une pièce aux murs blancs pour présenter l’horreur de la guerre ; les murs de la pièce sont recouverts de vieux vêtements, qui semblent répartis en plusieurs étages. Reliquaire, les linges, 1994 (segue pagina 34)

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Foto theguardian

(segue dalla pagina 33) Les Abonnés du téléphone, 2000 Le Parcours d’ombre à Vitteaux, 2004 La Parabole, 2005 Installation au Museo per la Memoria di Ustica à Bologne autour des éléments du DC-9 reconstitué et des objets personnels des victimes de la tragédie d’Ustica, 2007 Les Archives du cœur, musée de l’Île de Teshima (Japon), 2008 Les Dernières Années de C. B., Tasmanie, 2009 Personnes, 2010 No Man’s Land, Armory de New York, 2010 Animitas, Musée national des beaux-arts du Québec à Québec, 2017 Expositions Biennale de Paris : 1975 documenta, Cassel 1972 : L’album de la famille D. lance sa carrière internationale. 1987 montre un tournant dans ses sources d’inspiration ; Boltanski s’éloigne de la photographie et se tourne vers le vêtement, objet de mémoire notamment de la Shoah. Biennale de Venise : 1986 L’arteppes-espace d’art contemporain24, 1997 Monumenta 2010 : Boltanski investit la nef du Grand Palais Sa création intitulée Personnes25 est ensuite présentée au Park Avenue Armory (en) de New York (du 14 mai au 13 juin 2010) et au HangarBicocca de Milan (du 25 juin au 26 septembre 2010)

MAC/VAL, musée d’art contemporain du Val-deMarne (du 15 janvier au 28 mars 2010) « Après » Biennale de Venise 2011: Boltanski représente la France lors de la 54e édition. Il a choisi comme commissaire d’exposition Jean-Hubert Martin. Mons 2015 : « La salle des pendus » au Grand-Hornu (du 15 mars au 16 août 2015) Monnaie de Paris 2015 : « Take Me (I’m Yours)» (du 16 septembre au 7 novembre 2015) Conçue par Christian Boltanski et Hans Ulrich Obrist, l’exposition est recréée à la Monnaie de Paris après avoir été initiée vingt ans auparavant

à Londres. Elle donne l’occasion au visiteur de participer de façon interactive en pouvant emporter, troquer ou échanger des objets ou vêtements trouvés ou apportés sur place. Musée d’art moderne de Bologne (it), « Anime. Di luogo in luogo » (du 6 juin au 12 novembre 2017) Musée national d’art, Osaka, « Christian Boltanski Lifetime » (du 9 février au 6 mai 201927) Centre Pompidou, «Christian Boltanski : Faire son temps » (du 13 novembre 2019 au 16 mars 2020) Liste non exaustive

Publications

Écrits et témoignages 1998 : Kaddish, musée d’art moderne de la ville de Paris 2001 : La Vie impossible, Cologne, Walther König éditeur Catalogues d’exposition Dernières années, musée d’art moderne de la ville de Paris, 1998 Les Suisses morts, musée cantonal des beaux-arts de Lausanne, 1993 Boltanski, Centre Pompidou, 1984 Compositions, ARC-musée d’art moderne de la ville de Paris, 1981


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ggi ci sono solo curatori, i critici sono rarissimi. E il curatore chi è? È una persona che passa il tempo sugli aerei a cercare su commissione le novità in tutto il mondo. Cioè, è un manager. È quello che prima faceva il mercante mosso da passione. Questi sono mossi dalla necessità degli ordini che hanno avuto, cioè trovare il nuovo, trovare un nuovo con cui si può fare un affare. Il nuovo. Però il nuovo non c’è mai”. Sono parole che Lea Vergine (Napoli, 1938 - Milano, 2020), la grande critica d’arte scomparsa l’anno scorso, rivolgeva lo scorso anno in un’intervista a Stefania Gaudiosi, da cui poi sarebbe scaturito il libro “Necessario è solo il superfluo. Intervista a Lea Vergine”, edito da Postmedia Books nel 2019 Negli ultimi tempi, Lea Vergine aveva in più occasioni sottolineato una delle caratteristiche dell’arte di oggi: la presenza di troppi curatori e la quasi scomparsa della critica. In pratica, sono quasi del tutto sparite quelle figure che fornivano al pubblico giudizi sugli artisti (anche negativi e pesanti, se necessari) aiutandolo a fare ordine tra le proposte in arrivo dall’ambiente. Per Lea Vergine, una delle caratteristiche fondamentali

Foto elledecor

LEA VERGINE

del critico è la sua capacità di farsi comprendere dal pubblico. E in questo senso è decisamente rivelatore un brano tratto da “L’arte non è faccenda di persone perbene”, una sorta di autobiografia di Lea Vergine scritta con la collaborazione di Chiara Gatti e pubblicata nel 2016 da Rizzoli. In questo brano, Lea Vergine si scaglia contro il “critichese” e rimarca l’esigenza di una critica che sia in grado di farsi capire dal pubblico. Ma non solo: nel testo, la critica di origini napoletane indica anche quali devono essere i presupposti per giudicare un’opera d’arte. Riportiamo di seguito il brano come omaggio alla figura di Lea Vergine. “Quanto è importante la scrittura nella critica d’arte? Non si può voler fare il critico d’arte e non saper scrivere, perché cessa la funzione di mediare tra l’opera e il pubblico. Molto spesso si parla di «critichese» riferendosi a un linguaggio involuto e poco chiaro. Il critichese è sempre esistito. Il critico, invece, deve aiutare a fare comprendere le idee ai lettori, scrivere osservazioni che ne facciano sorgere altre nella mente, sollecitare chi legge, ma anche stupire, stimolare la curiosità. Ci si rivolge sempre a una persona di media cultura, che leggerà le tue parole, (segue pagina 36)

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Foto finestrasull’arte

(segue dalla pagina 35) quindi gli si daranno i riferimenti giusti, gli si spianerà il percorso. Non dovrà servirsi di nozioni stramasticate o di stranezze pseudoconturbanti. Dovrà avere anche umorismo e ironia. Sì, nel mondo dell’arte, dovrebbe esserci più ironia. In passato ci sono stati critici d’arte spiritosi. Cesare Brandi, per esempio, era frizzante quando scriveva. Aveva levità e leggerezza. Oltre alla virtù di non prendersi troppo sul serio. Perché, alla fine, si tratta pur sempre di arte e non certo di trascendente. La critica, esattamente come la narrativa, si fa di frase in frase, di periodo in periodo, di parola in parola. Oggi, a distanza di tempo, guardando indietro, ho capito che quello che mi è sempre interessato di più era il suono della frase abbinato alla sua rivelazione. Le cose che importano sono quelle nascoste al di là dell’opera d’arte stessa; le cose che non si vedono, ma che tu – critico – devi cavare fuori. Devi addirittura inventarle, se serve. Un lettore non deve essere ammorbato. E l’ammorbamento deriva dal fatto che il critico spesso non capisce quanto sia importante muoversi in una dimensione dove si conoscono musica, letteratura, teatro, cinema eccetera; un confronto che ossigena la testa.

Come si giudica un’opera d’arte? L’arte è una questione di forma. Se ascoltiamo un canto gregoriano o ambrosiano o un notturno di Chopin, siamo coscienti del fatto che siano tutte musiche splendide, diverse tra loro, ma ugualmente intense. Perché la loro forma è perfetta, al di là del tempo e dello spazio. Lo stesso vale per l’arte. Buster Keaton era divino. Ti catturava con le sue movenze. Come certi danzatori. Il corpo come linguaggio trova i suoi migliori interpreti già ai primi anni del Novecento, se pensiamo, per esempio, alle danze delle artiste futuriste: Giannina Censi ballava con un costume che si fece disegnare da Enrico Prampolini. Possedere il senso della composizione è fondamentale. Dalle grotte di Altamira alla body art, la storia non cambia. Una volta, vidi Gilbert & George al Museo d’Arte Moderna di Torino. Tutti dipinti d’oro, in piedi sopra un tavolino, cantavano con una voce un po’ roca e danzavano con un bastoncino in mano, alla maniera degli anni Trenta, intonando un motivetto antico. Incantevole. C’era qualcosa che andava oltre la musica e oltre la


danza. E così Gina Pane. Qualunque cosa facesse era impressionante. Impiegava lunghi mesi per preparare le sue performances. Aveva una fotografa che la seguiva nelle prove. Prima di esibirsi si sottoponeva alla dieta del fantino per perdere peso. Entrambe le performances avevano una cosa in comune: una componente formale. Erano quadri in movimento. Quadri viventi, «sculture viventi», come le battezzarono proprio Gilbert & George. Entrambe mostravano un senso della composizione impeccabile.Molto diverso dalla performance a cui assistetti una sera nella galleria di Inga-Pin. Vidi un’azione del performer californiano Ron Athey, The Solar Anus (1998), omaggio allo scrittore surrealista Georges Bataille. Un corpo quasi interamente tatuato, un sole nero irradiante nella zona anale dalla quale, in luogo delle feci, escono matasse di perle e aureole di luci. Circo, décor stradale come nel Settecento, esibizione masochista e narcisizzante? Certo: aggiungiamoci il regresso all’infanzia. Ma se, tra grottesco e patetico, viene fuori una sinistra allegrezza, insieme a un’atmosfera da favola; se l’offi-

ciante, per così dire, nel mezzo di questo «non mori sed pati», si applica con estrema lentezza una corona aurea sul capo; se cioè nel corso di un avvenimento che può essere giudicato demenziale e abietto si dà un tratto di letizia e di poesia nei gesti minimi, nei minimi episodi, nelle circostanze minori, una poesia fatta di piccoli niente che fanno prendere coscienza di qualcosa d’altro (come nell’arte), vorrà dire che la patologia è infranta per arrivare a essere culturalmente redenta. Ogni tanto mi viene qualche dubbio, guardando un quadro di Pollock e tutti quei tubetti di colore spremuto. Certi moti di sarcasmo sono giustificati. L’arte non è una religione, né una faccenda per persone perbene. Le cosiddette persone perbene si astengano dal partecipare e dal giudicare, nessuno le obbliga. Ai loro occhi si formano cliché abusati, come il solipsismo di artistoidi considerati tipi bizzarri. L’arte richiede di essere studiata per essere situata, inquadrata. Inutile pensare che il rapporto con l’arte si determini nell’assoluta insipienza. L’arte è irregolare. Ma ne abbiamo bisogno, come del superfluo. Il superfluo è il veramente necessario. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/lea-vergine-i-critici-devono-farsi-capire-dal-pubblico

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Foto ainnantis

asce il 14 luglio 1912 Giovanni Pintori, il designer che fece conoscere l’Olivetti nel mondo e che i sardi ignorano Giovanni Pintori nasce nel 1912 a Tresnuraghes, le sue doti nel disegno e nella grafica si riconoscono fin da giovane, tanto che a 18 anni gli consentono di vincere una borsa di studio bandita dal Consiglio dell’Economia di Nuoro che gli permette di entrare all’ISIA, l’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Monza. Qui studia dal 1930 al 1936, anni in cui insegnano personaggi del calibro di Edoardo Persico, Giuseppe Pagano, Marcello Nizzoli. Pintori si fa velocemente riconoscere rispetto agli altri studenti e nel 1934 viene chiamato da Pagano per collaborare alla Mostra dell’aeronautica a Milano. L’incontro con la Olivetti avviene nel 1936, quando Adriano Olivetti invita dapprima Costantino Nivola e poco dopo Giovanni Pintori a partecipare alla preparazione delle tavole del Piano Regolatore di Aosta, ideato dallo stesso Olivetti. Ben presto le doti di Pintori si fanno nuovamente riconoscere e già nel 1937 lo portano a lavorare in quello che rimarrà il suo settore per tutta la durata della sua permanenza in Olivetti: l’Ufficio Tecnico della Pubblicità, diretto dapprima da Renato Zveteremich e poi da Leonardo Sinisgalli.

GIOVANNI PINTORI

La sua creatività e le sue valide doti di disegnatore e grafico gli permettono di guadagnare in pochissimo tempo la stima dei collaboratori all’interno e una fama superiore ad ogni attesa all’esterno, tanto che gli verrà affidata la responsabilità dell’Ufficio Tecnico della Pubblicità per il quale lavora. Il suo nome è legato ad una serie lunghissima e decisamente fortunata di manifesti, pagine pubblicitarie, copertine, insegne esterne, stand. Tra i suoi lavori più conosciuti di questi anni si possono ricordare “La rosa nel calamaio”, disegnata insieme a Leonardo Sinisgalli e impiegata per la pubblicità delle macchine per scrivere Studio 42 e Studio 44; oppure i manifesti dedicati al calcolo e alle calcolatrici Olivetti, come “Il pallottoliere” o “I numeri”; o ancora, la copertina del famoso libro “Olivetti 1908-1958”. Nel 1950 diventa direttore artistico dell’Ufficio Tecnico e ottiene il primo di una lunga serie di riconoscimenti: la Palma d’Oro della Federazione Italiana Pubblicità. li anni ’50 rappresentano per Pintori sicuramente il periodo più ricco di soddisfazioni sotto il profilo professionale. E’ di questo periodo, infatti, tutta una serie di riconoscimenti che gli vengono conferiti e di mostre allestite per le sue opere. Nel 1952, ad esempio, il MoMA di New York organizza la mostra Olivetti Design in Industry; in quella occasione i lavori di Pintori ottengono


un enorme successo. Dopodiché, le mostre cominciano a toccare tutte le città più importanti, come Londra, Parigi, Losanna, Venezia con la Biennale. Nel 1953, Pintori entra a far parte dell’AGI (Alliance Graphique Internationale) che nel 1955, durante un’esposizione al Louvre di Parigi, dedica un’intera sala al suo lavoro svolto per la Olivetti. Lo stesso anno gli viene conferito il “Certificate of Excellence of Graphic Arts” dell’AIGA (l’associazione dei graphic designer statunitensi) e, l’anno dopo, ottiene la Medaglia d’Oro e il Diploma di Primo Premio di Linea Grafica e della Fiera di Milano. Le sue immagini accompagnano numerosi articoli sulla Olivetti, nonché le campagne pubblicitarie di alcuni tra i prodotti di maggior successo dell’azienda, come le macchine per scrivere Lexikon 80 e Lettera 22 o le calcolatrici Divisumma 24 e Tetractys. Il suo design e la sua comunicazione fanno il giro del mondo, comparendo anche su testate internazionali come Fortune, Graphic Design, Horizon. Un altro merito che va attribuito a Pintori è costituito dai calendari d’arte dell’Olivetti, che vedono la luce proprio grazie ai suoi sforzi: è lui, infatti, che si occupa della scelta dei soggetti da presentare, che stabilisce i tagli delle illustrazioni e ne cura, in modo veramente perfetto, la riproduzione a colori.

Le tavole che lui propone sono selezionate con molto gusto tra le opere di famosi pittori, a cominciare da quelle del primo calendario, uscito nel 1951 e dedicato a Rousseau, continuando poi con quelle degli anni successivi (la pittura Pompeiana nel 1952, Carpaccio nel 1953, i Dipinti Etruschi nel 1954). Dopo aver ricevuto una vasta serie di premi e dopo aver allestito diverse mostre nei più grandi musei del mondo, Pintori decide di lasciare la Olivetti nel 1967 , dopo una collaborazione durata oltre trent’anni, e di dedicarsi alla libera professione. In un primo tempo continua a lavorare sempre nel campo del graphic design e collabora a progetti di grandi aziende come Pirelli, Ambrosetti, Gabbianelli. Nel 1981 inizia una collaborazione con la Merzario Lines, ditta di trasporti commerciali navali e aerei, per la quale realizza la grafica dei bilanci annuali e delle pagine pubblicitarie. Nell’ultima fase della sua carriera, Pintori si distacca dal graphic design per dedicarsi completamente alla pittura, un’attività che aveva perseguito con passione fin da giovane e che ora gli consente di organizzare varie mostre, tra cui una personale presso la Fondazione Corrente di Milano. Muore a Milano il 15 novembre del 1999. Ornella Demuru https://ainnantis.home. blog/

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Foto artribune

ound Architectures racchiude una selezione di opere di Pinuccio Sciola (San Sperate, 1942 – Cagliari, 2016) che si collegano al tema della pluralità e della complessità urbana. Si tratta, in particolare, delle serie scultoree delle Città Future e delle Città Sonore che sono protagoniste dello spazio espositivo; la loro mutazione morfologica, fatta di sincronie e contrappunti, definisce un ecosistema scultoreo complesso e articolato, arricchito dal repertorio audiovisivo dell’artista. Il 10 agosto, sempre nel Padiglione Italia, si terrà inoltre il Concerto per pianoforte tenuto dal compositore e pianista Andrea Granitzio ispirato al dialogo con la liquidità del suono delle Pietre Sonore di Sciola che, per l’occasione, verranno suonate dalla figlia Maria. L’esposizione, realizzata dalla Fondazione Sciola in partnership con la Galleria Copetti Antiquari di Udine e con il contributo della Fondazione di Sardegna, sarà accompagnata dalla pubblicazione di un catalogo: Pinuccio Sciola. Una sensibilità architettonica a cura di Giulia Pilloni, con la collaborazione di Viviana Vergerio Guerra, e la prefazione del curatore della mostra Pierandrea Angius. www.fondazionesciola.it

youtu.be/vnEsUSjzHlc

Sound Architectures Le sculture di Pinuccio Sciola alla Biennale Architettura Il Padiglione Italia della Biennale Architettura di Venezia presenta, dal 10 al 22 agosto, una mostra dedicata alle opere di Pinuccio Sciola. curata da Pierandrea Angius ...

La Fondazione Sciola, in collaborazione con la Sogaer e la Frem group, omaggia lo scultore Pinuccio Sciola (1942 – 2016) con il Giardino Interno dell’aeroporto che diviene spazio artistico di richiamo al Museo a cielo aperto di San Sperate, il Giardino Sonoro, nel quale sono custodite, immerse tra aranci e piante aromatiche mediterranee, innumerevoli opere scultoree che creano un’identità in pieno connubio con la natura. Una natura viva fino al suo più immobile e silenzioso elemento: la pietra. Nato da una pietra, amante della terra, dell’acqua, dei fiori e del sole. Pinuccio Sciola è un autentico figlio della Sardegna, della sua cultura megalitica e della sua storia. Pittore, intagliatore, scultore, Sciola prende spunto dalle sue origini, dai numerosi viaggi per il mondo per creare, inventare e comunicare emozioni. Da oggi ad accogliere i turisti ci saranno le opere più importanti della produzione scultorea di Pinuccio Sciola, dalla Pietra Sonora in basalto ai Semi della pace che vennero esposti anche alla Basilica di San Francesco, ad Assisi. Dalla, inaspettatamente, morbida poltrona in basalto all’omaggio, in ferro, a Grazia Deledda, le canne al vento. Mentre nel nuovo spazio culturale della biblioteca troveremo la Città Futura, opera in basalto forte richiamo della incombente necessità di rinascere in un nuovo futuro fatto di più amore e rispetto per la Natura.


L’esposizione, curata da Simona Campus e Tiziana Ciocca, in collaborazione con Maria Sciola, enuclea gli sviluppi di una costante ricerca condotta sulle potenzialità espressive dei materiali e delle loro prerogative primordiali, nell’orizzonte del tempo senza tempo, delle origini del mondo e dei suoi infiniti cicli. Madre Pietra, la natura, la scultura, la città, realizzata grazie al partenariato con la Fondazione Sciola, rientra nell’ambito della programmazione dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Cagliari.

Foto vinoantico

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ono nato da una pietra, sono amante della terra, dell’acqua, dei fiori, del sole”: queste parole amava dire di sé Pinuccio Sciola, artista autorevole nel panorama contemporaneo internazionale, che in Sardegna, tra XX e XXI secolo, più di ogni altro ha indagato in maniera costante, originale, poetica il rapporto tra arte e natura. A tale rapporto, elaborato con estrema coerenza attraverso i decenni, supportato da un’instancabile vena creativa e progettuale, è dedicata la mostra Madre Pietra, la natura, la scultura, la città, allestita a Cagliari, al Castello di San Michele a cinque anni dalla scomparsa dello scultore e visitabile fino al 3 ottobre, nei limiti imposti dalle restrizioni anti COVID.

LA MOSTRA MADRE PIETRA, LA NATURA, LA SCULTURA, LA CITTÀ, VISITABILE FINO AL 3 OTTOBRE 2021 Castello di San Michele Tel.: +39 070 15240479 castellosanmichele@ consorziocamu.it

La prenotazione dei biglietti potrà avvenire attraverso la compilazione dell’apposito modulo online scaricabile dal sito

www.castellosanmichelecagliari.it

“A cinque anni dalla scomparsa dell’Artista, la Fondazione Sciola ha accolto con grande entusiasmo l’iniziativa di rendere, insieme a tutta la Città di Cagliari, un omaggio così importante a Pinuccio Sciola. La mostra, per completezza e varietà di opere esposte, rappresenta una grande occasione per conoscere ancora più a fondo uno degli Artisti sardi più noti del panorama artistico contemporaneo” (Chiara Sciola Presidente Fondazione Sciola) Grazie ad un corpus di materiali, alcuni del tutto inediti, la mostra, che sarà arricchita da attività didattiche dedicate ai gruppi e al pubblico libero di tutte le età, costituisce anche una preziosa occasione per richiamare l’attenzione sul legame dello scultore con la città di Cagliari. Il percorso espositivo coniuga la dimensione immersiva ed emozionale al rigore dell’interpretazione storico-critica, snodandosi attraverso un’ampia selezione di opere; i lavori più rappresentativi sono accostati ad altri meno noti e inediti, facendo emergere in una molteplicità di risonanze la sensibilità ambientale, e ambientalista, che sempre sottende alla produzione dell’artista. L’allestimento comincia già all’esterno, con la suggestiva installazione delle guglie in ferro, (segue pagina 42)

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(segue dalla pagina 41) concepite da Sciola come omaggio a Antoni Gaudí e alla sua tensione verso l’infinito, per proseguire in maniera organica negli spazi del Castello di San Michele, instaurando un dialogo rispettoso e armonico con le preesistenze storiche del monumento. Varcata la soglia di una seconda installazione (ancora un omaggio, questa volta a Grazia Deledda e alle sue Canne al vento, metafora dell’esistenza umana) i Semi in basalto attraggono definitivamente il visitatore nell’esperienza diretta e profonda dell’arte di Sciola: perfetta sintesi della sua idea di scultura, rappresentano la pietra che feconda la terra, origine della vita e della creatività. Perché «la pietra è natura. E la natura è madre». Dai Semi (impossibile non ricordarli adagiati sul sagrato della Basilica Inferiore di Assisi nel 2008) germogliano le altre pietre, che prendono forma di Spighe e di Foglie, come quelle allestite nel 2004 al Jardin du Luxembourg di Parigi per il poeta Jacques Prévert. In un crescendo di intensità e raffinatezza esecutiva, dalle Pietre nude che l’artista ha lasciato pressoché intatte rispetto alla loro conformazione originaria (con un atteggiamento di assoluta essenzialità che richiama Constantin Brancusi) si giunge progressivamente alle Pietre sonore, in basalto o calcare, espressione più nota dell’arte di Sciola, nate

dall’intuizione di rendere eloquente e viva quella che per tradizione viene indicata come “pietra muta”. La pietra, invece, racchiude il canto del fuoco e dell’acqua, la magia dei cieli stellati, l’energia dell’universo. È madre, ma anche sorella, in accezione francescana, e arriva a coincidere con un profondo sentimento del sacro: a chiudere il percorso, al piano terra, la pietra suonata dallo scultore (appena qualche settimana prima della sua scomparsa) in San Pietro Vincoli, a Roma, davanti al Mosè di Michelangelo. Al piano superiore del Castello la mostra assume un andamento nuovo, funzionale ad approfondire il modo in cui le opere di Sciola interpretano e abitano il paesaggio, non solo naturale ma anche urbano. Un’intera sezione, infine, è rivolta ad analizzare l’aspetto più propriamente “costruttivo” insito nell’arte scioliana, in virtù del quale la scultura diventa essa stessa paesaggio, architettura, città. Particolarmente rilevante la presenza di un ricco corpus di oltre cento disegni, fotografie e scritti relativi alla progettazione di installazioni scultoree negli spazi pubblici della città di Cagliari, materiali molti dei quali vengono presentati qui per la prima volta. La loro esposizione costituisce l’anteprima di un più ampio progetto itinerante che vedrà presto la luce, denominato “I luoghi di Sciola”, ideato e coordinato da Maria Sciola.


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iuseppe Sciola, noto Pinuccio, nasce a San Sperate nel 1942 da una famiglia di contadini. Conseguito il diploma di maturità artistica a Cagliari, perfeziona i suoi studi a Firenze e a Salisburgo dove segue i corsi di Oskar Kokoschka, Emilio Vedova ed entra in contatto con diverse personalità artistiche. Nel 1967 è all’Università della Moncloa a Madrid, mentre l’anno successivo si trova a Parigi, in coincidenza del maggio francese. Dalla fine degli anni Sessanta intraprende l’opera di trasformazione di San Sperate in un autentico Paese Museo. Nel 1973, a città del Messico, lavora con il grande muralista Alfaro Siqueiros; nel 1976 è alla Biennale di Venezia “Ambiente, partecipazione, strutture culturali”. Gli anni Ottanta sono costellati di riconoscimenti, con importanti esposizioni in Italia e all’estero. Nel 1994 conferma la sua poetica di un’intima e stretta relazione tra arte e natura, esponendo nel parco del castello di Ooidonk in Belgio; nel 1995 partecipa alla III Biennale di Arte Natura di Niederlausitz nei pressi di Berlino. Dell’anno successivo sono la personale “Coeur de pierre” nel parco del Trianon Palace di Versailles e la mostra nel parco del Kunst Project di Barendorf, a Vienna. La sua incessante curiosità e la voglia di conoscere e

vedi il video vimeo.com/143230566

confrontarsi in un contesto dal respiro internazionale, lo portano a viaggiare spesso per il mondo. Nascono le Pietre sonore, suonate per la prima volta nel 1996 al Festival Time in Jazz di Berchidda. Nel 2002 Renzo Piano fa collocare un grande basalto nel giardino prospiciente il nuovo Auditorium della Musica a Roma. Nel 2003, dopo ventisette anni, Sciola torna alla Biennale di Venezia. Nel 2010 è nominato Presidente della commissione regionale per il Paesaggio e la qualità architettonica. Il 20 febbraio 2012, in occasione della visita a Cagliari del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, vengono inaugurati di fronte alla Stazione Marittima tre monoliti, rispettivamente in granito, calcare e basalto, simboli della Sardegna e del tricolore. Il 12 giugno dello stesso anno Napolitano nomina l’artista “Commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana”. Pinuccio Sciola muore il 13 maggio 2016: San Sperate si veste di bianco, con lenzuola e drappi appesi ovunque alle finestre e ai balconi, per ricordare quella rivoluzione artistica iniziata proprio dai muri candidi dell’amato paese. A San Sperate si trovano oggi la casa-studio, dove ha sede la Fondazione, e il Giardino Sonoro, il museo all’aperto dell’artista, luogo nel quale l’unione tra arte e natura raggiunge la sua massima espressione.

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