Sardonia Marzo 2021

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SARDONIA

Foto dietrichsteinmetz

Ventottesimo Anno / Vingt Huitième Annèe

Marzo 2021/ Mars 2021

I.S.O.L.A. Gavino Sanna MESA Paolo Fresu Sardegna vista da Forbes Patta Artista Su cantu a curba Legge sulla Biodiversità Fashion Week Antonio Marras Ichnusaite https://www.vimeo.com/groups/sardonia https://www.facebook.com/sardoniaitalia


Cagliari Je T’aime Programma di creazione di Esposizioni e Manifestazioni Artistiche nella città di Cagliari a cura di

Marie-Amélie Anquetil Conservateur du Musée du Prieuré Directrice de la revue “Ici, Là bas et Ailleurs” Espace d’exposition Centre d’Art Ici, là bas et ailleurs 98 avenue de la République 93300 Aubervilliers marieamelieanquetil@gmail. com https://vimeo.com/channels/ icilabasetailleurs Vittorio E. Pisu Fondateur et Président des associations SARDONIA France SARDONIA Italia créée en 1993 domiciliée c/o UNISVERS Elena Cillocu via Ozieri 55 09127 Cagliari vittorio.e.pisu@email.it http://www.facebook.com/ sardonia italia https://vimeo.com/groups/ sardonia https://vimeo.com/channels/ cagliarijetaime SARDONIA Pubblicazione dell’associazione omonima Direttore della Pubblicazione Vittorio E. Pisu Maquette, Conception Graphique et Mise en Page L’Expérience du Futur une production UNISVERS Commission Paritaire ISSN en cours Diffusion digitale

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uesto numero di Sardonia, che arriva in ritardo rispetto agli altri mesi, é particolarmente disgraziato, perché un crasch informatico che ha interessato sia l’hard disk esterno che il computer sulquale era redatto ha eliminato tutti i dati archiviati e distrutto la bozza già pronta. Siamo quindi obbligati a cercare di sopperire a questa catastrofe invocando gli elementi più peculiari e più legati alla nostra storia come l’eccelso trompettista Paolo Fresu, che suo malgrado fu il padrino della trasmissione televisiva omonima (parlo di Sardonia) iniziata nel lontano duemila con un intervista del nostro artista prediletto realizzata in una banlieue parigina. Fortunatamente Gavino Sanna e le sue prodezze ci permettono di parlare anche del vino, elemento fondamentale della Sardegna, che tende a svilupparsi sempre più fino ad attirare indusriali e viticultori del continennte e non solo italiani, ma ne parleremo un’altra volta. Rimanendo nel tema degli elementi costitutivi della sardità come evitare il canto a curba e sopratutto l’accabadora ? Impossibile, sopratutto in questi momenti di pandemia che nonostante tutto sembrano volgere ad un miglior destino per la Sardegna, designata ormai come zona “bianca” e godendo del relativo allegerimento dei confinamenti ed dei lock down anche se musei, teatri ed altri luoghi di spettacolo o di cultura rimangono ancora chiusi. Il modo in cui una rivista seria come Forbes ci descrive è veramente divertente e ci rivela in che modo siamo apprezzati all’esterno della nostra splendida isola. Che manca ancora oggi di una legge sulla biodiversità quando la sua fauna e la sua flora sono particolarmente non solo diverse ma estremamente interessanti ed aspettiamo quindi che la tanto deprecata Regione Autonoma si occupi della questione, non é mai troppo tardi. Naturalmente un murale miniero per completare gli elementi basilari non poteva mancare ed é con piacere che vi presentiamo un artista comme Patta. Come evitare infine di parlare del filmato realizzato da Antonio Marras all’occasione della Fashion Week e realizzato interamente in Sardegna ? Con la partecipazione naturalmente, se giudichiamo dai titoli di coda, di una pletora di artisti che eccellono in ogni campo, dalla fotografia al maquillage, passando naturalmente dal cinema senza dimenticare la moda dove Antonio Marras si esprime proponendoci diversi modi di vestirci sia per le mansioni quotidiane che per le festività importanti, senza dimenticare naturalmente il matrimonio. Potete consultare il filmato e farvi la vostra opinione. Perdonate le poche ma interessanti pagine, ci vediamo in Aprile.Vittorio E.Pisu


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asce ISOLA l’Istituto sardo organizzazione lavoro artigianale il 6 marzo 1957 L’Istituto sardo organizzazione lavoro artigianale, in acronimo ISOLA, un ente della Regione Sardegna, aveva come scopo primario la promozione dell’artigianato sardo in ambito locale, italiano e internazionale, favorendo, incentivando, valorizzando e diffondendo la cultura e i prodotti della Sardegna. La sua direzione fu affidata ad Eugenio Tavolara e Ubaldo Badas. Lo stesso anno l’ISOLA partecipò alla Triennale di Milano e fu premiata con la medaglia d’oro. Nel 1958, sempre nell’intento di proporre i lavori artigianali tradizionali nel mercato contemporaneo, allestì una mostra dal titolo “L’artigianato sardo nella casa moderna” e la rivista statunitense Home gli dedicò un numero. Dal 1984 con la legge regionale n. 14 a tutela della produzione artigiana, viene introdotto il marchio di origine e qualità dei prodotti dell’artigianato tipico della Sardegna. Detto marchio però non venne mai applicato e rimase di fatto “lettera morta”. I campi d’interesse dell’ente riguardavano le ceramiche, i gioielli, il legno, l’intreccio, i tessuti e i metalli. Per quanto atteneva alle iniziative promozionali e alle

I.S.O.L.A. VIA BACAREDDA, 176-178 CAGLIARI TEL.: +39 070 492756 NEGOZIO@ISOLA-CAGLIARI.COM

mostre, ogni anno l’ente aveva uno padiglione dedicato all’interno della fiera campionaria della Sardegna. La manifestazione più importante era però “La Biennale dell’Artigianato” che si teneva con cadenza regolare ogni due anni, nel Padiglione Tavolara di Sassari. In questa manifestazione gli artigiani avevano occasione di presentare le nuove linee di prodotto frutto della ricerca tecnica e formale. La Biennale era vista come il momento del riconoscimento ufficiale del raggiungimento di un livello qualitativo molto alto, si accedeva infatti, solo dopo severe selezioni. I maggiori nomi dell’artigianato d’arte sono stati ufficializzati dalla Biennale: Vincenzo Marini, Giuseppe Silecchia, Gavino Tilocca, Angelo Sciannella, Saverio Farci, Gianluigi Mele, Giampaolo Mameli, Massimo Boi. In Sardegna l’ente disponeva di numerosi spazi espositivi nei principali centri commerciali e turistici, spesso di qualità architettonica, come il padiglione per l’artigianato “Eugenio Tavolara” a Sassari. L’ente è stato soppresso dal Consiglio regionale sardo nell’ambito della Finanziaria 2006. Ma esiste tuttora come iniziativa privata. https://www.isola-cagliari.com/

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avino Sanna (Porto Torres, 1940) è un pubblicitario, scrittore, imprenditore e critico d’arte italiano. Per la sua attività di pubblicitario è considerato tra i più importanti al mondo, avendo ricevuto per tale attività numerosi premi. Dopo gli studi all’Istituto statale d’arte Filippo Figari a Sassari ed in seguito a New York, dove studia anche presso Andy Warhol, negli anni settanta comincia a lavorare nel campo pubblicitario americano, e torna in Italia alla fine degli anni settanta, realizzando alcune tra le prime pubblicità dopo la chiusura del plurideccennale spazio televisivo del Carosello. Nel 2006 lascia l’attività di pubblicitario per dedicarsi alla sua azienda vinicola Mesa. Nel 2011 presenta il pittore Salvatore Garau alla Biennale di Venezia. Tra le campagne pubblicitarie da lui realizzate si possono se non altro citare quelle per: Pasta Barilla, Mulino Bianco, Pasta De Cecco, Tuborg, Giovanni Rana, Fiat, Simmenthal, Ariston, campagna elettorale del 2004 per Renato Soru, campagna elettorale del 2009 per Ugo Cappellacci, avversario di Renato Soru. Celebri le sue pubblicità per Fiat e Barilla: sua l’invenzione del Mulino Bianco e di mille altre campagne anche di impronta sociale.

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avino, sarà la bellezza a salvarci? «Le rispondo così: e chi salverà la bellezza? Il regno della cultura e del buon vivere esiste ancora? Spesso sono gli stranieri a spiegarci che il nostro è un Paese stupendo. Noi fatichiamo ad accorgercene. Roma non sarebbe ridotta in questo modo. E anche la mia Sardegna. Sa una cosa? Siamo in mano ai pasticcioni, ai profittatori, agli odiatori di professione». Gavino Sanna, 79 anni, il creativo italiano «più stimato, copiato e premiato», con 7 Oscar della pubblicità e oltre trenta libri, l’autore di campagne «che fecero epoca», collezionista di caffettiere da western in ferro-smalto, non usa computer e gira al largo «dall’inferno di Internet». Una vita da romanzo. Da Porto Torres dov’è nato, a New York. Dall’Italia di Carosello alla cavalcata americana. Oggi si dice «ottimista e in pace con se stesso». Si tiene in disparte nella casa-museo di Milano e confessa di amare la solitudine, «che può essere una magnifica compagna». Per tutta la vita, sostiene, ha inseguito una passione e si è rotto la schiena «per andare al massimo, per essere il migliore».


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Ha fatto campagne elettorali per quattro governatori della Sardegna e se n’è «pentito amaramente». In una riunione pubblica, ricorda, «mi sono anche scusato». S’accalora: «La protesta ci affascina. Rispondiamo ai richiami ideali. Le foreste minacciate coinvolgono tutti. Ma se vuoi pulire le strade di Roma chi ti viene dietro?». Racconti come tutto cominciò. «Male. A scuola ero un somaro, bocciato due volte alle medie. I miei genitori non sapevano cosa fare di me. Poi uno zio ebbe un’intuizione. Gavino, suggerì, è il nipote di uno dei pittori più importanti della Sardegna tra 800 e 900, Mario Paglietti: mandatelo all’istituto d’arte Filippo Figari di Sassari. È stata la mia fortuna. Sono stato l’unico allievo dell’istituto promosso con 10 in disegno dal vero». La pubblicità era lontana. «Finita la scuola, andai da un altro zio: Giovanni Manca, pittore, giornalista e caricaturista, collaboratore del Corriere dei Piccoli, inventore dell’arcivernice che rendeva reali i quadri e del sor Cipolla. Quando entrai nel suo studio, a Bergamo, mi sembrava di sognare. Tornai a casa felice, ma a mani vuote». Allora? «Seguii l’indicazione di un amico che lavorava nel-

la più importante agenzia dell’epoca, lo Studio Sigla del commendator Mario Bellavista. Fui assunto con lo stipendio di 45 mila lire al mese, una miseria. Trovai alloggio a Ospitaletto, Brescia. All’alba prendevo il treno dei pendolari per Milano. Mi infilavo sul tram 33 e arrivavo in piazzale Biancamano, sede della Sigla. La città mi appariva enorme, con la neve, il traffico e le latterie dove mi sfamavo a furia di pane e caffellatte. Allo Studio Sigla, che lavorava per Bic e Spic e Span, dovevo indossare un camice cremisi, come tutti i creativi. Stavo in un salone con le penne ben disposte e la carta fine. Non sapendo che fare, disegnavo. E tutti mi si facevano intorno. Il disegno è sempre stato il mio asso nella manica». Il primo cliente importante? «Baci Perugina. Chiamammo un famoso regista-fotografo. Fece uno splendido servizio. Lo slogan era: Ovunque c’è amore c’è un Bacio Perugina. Preparammo i bozzetti e andammo a Perugia, ma inaspettatamente fummo presi a male parole. Bocciati. In una settimana dovevamo rivedere tutto, senza più soldi. (segue pagina 6)

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(segue dalla pagina 5) Trovammo uno stagno e una barchetta sul Lambro, un fotografo di matrimoni e due modelli improvvisati: io stesso e una segretaria, molto carina, appena assunta. Fu il successo che sappiamo». Poi? «Passai alla Ata Univas e ottenni il primo stipendio accettabile, 240 mila lire, ma rimasi solo un anno. Trovai alloggio da una sartina sposata con un investigatore privato che riceveva nello Studio Lince. Lessi sul giornale che un’agenzia di marketing cercava collaboratori e passai alla Lintas. Creammo l’uomo in ammollo di Franco Cerri. Il copy nel frattempo se n’era andato alla Mc Cann Erickson e poco dopo mi chiamò con sé. Lui era Massimo Magrì e divenne un bravo regista. Avevamo commesse di Gillette, Esso, Motta. Ci arrivavano le “pizze” americane: ero affascinato. Non ci misi molto a decidere: mollai il posto e volai a New York». Come andò? «Prima di tutto mi iscrissi a un corso di inglese. Dormivo nel ricovero dei ragazzi cattolici. Intanto un grafico romano che aveva lavorato a Cuba ed era diventato il pittore della Rivoluzione mi fece incontrare il titolare di una piccola agenzia: John Paul Itta, origini greche. Gli portai i miei disegni.

Mi assunse e cominciò un periodo magnifico. Conobbi Patricia, una bellissima hostess della PanAm nata a Memphis: divenne mia moglie. Grazie a lei ottenni un colloquio con il direttore della Mc Cann. Mi assegnò la campagna per Tampax e subito dopo quella per la famosa birra Miller. Tra i nostri clienti c’erano la Coca Cola e il governo Usa. Strinsi la mano a Richard Nixon: non mi fece una grande impressione». Il passo successivo? «Entrai nel tempio della creatività internazionale, Scali McCabe & Sloves. Avanti paisà, mi disse Sam Scali, il capo. Mi consegnarono il budget per Revlon. Lavorai con Richard Avedon, il grande fotografo, e Lauren Hutton, l’attrice di American Gigolò. Facemmo insieme un’indimenticabile campagna per i prodotti di bellezza. Lei nuda, e la crema: incantevole». Come nasce la pettinatura a caschetto? «Da bambino avevo un taglio alla tedesca. Ma, per eredità di famiglia, ho le orecchie come Dumbo, perciò le copro con i capelli. In Usa li tenevo fino a mezza schiena. Mi scambiavano per un apache: di che tribù sei, Gavino?».


Foto comunedivarese Foto bompiani

I suoi incontri: Frank Sinatra, Elvis Presley, Paul Newman, Catherine Deneuve, Luciano Pavarotti, Sophia Loren, Alain Delon, Christian Barnard. E poi lui, Andy Warhol. «Appena arrivato seguivo le sue lezioni sul cinema. Raccontava di sé, spiegava come aveva girato Sleep, un anti-film in cui John Giorno dorme per 5 ore e 20 minuti. Il suo studio era un covo di gente bizzarra. Girava sporco di vernice, con la Polaroid in mano. Aveva una collezione di parrucche: la preferita era rosa. Un rivoluzionario. Attaccatissimo alla madre. Diceva: gli italiani mi sono simpatici, hanno sempre la patta sdrucita perché continuano a toccarsi lì. Lo incontravo spesso al Club 54, seduto in un angolo con Truman Capote». Perché, al culmine del successo, è tornato in Italia? «Un’agenzia internazionale, Benton and Bowles, voleva aprire una sede in Italia e mi fece un’offerta irrinunciabile. Davanti a me si stendeva la Milano da bere. Avevo appena divorziato. Il mio matrimonio era stato seppellito dalla crisi del settimo anno. Decisi che avrei rivoluzionato il linguaggio della pubblicità e per questo mi feci molti nemici. Una mano me la diede anche Berlusconi, che con le

sue tv stava cambiando le regole della comunicazione pubblicitaria. Arrivarono clienti come Barilla, Giovanni Rana, Fiat, Simmenthal». Già: il cliente Barilla. «Andai a Parma a conoscere Pietro e i figli. Lui mi portò in un piccolo ufficio. Mi disse: vede, questo non è solo il marchio della pasta, ma il nome della mia famiglia, ne tenga conto. È stato il brief più bello della mia carriera. Proposi un film di 90 secondi. Un distinto signore dalla stazione centrale di Milano viaggia per tornare in famiglia. In tavola trova pacchi di pasta. Dove c’è Barilla c’è casa, lo slogan. Tutto sbagliato, mi sgridò Pietro. Una settimana dopo si scusò: Gavino, è un capolavoro». Motivo? «Barilla faceva le vacanze a Cortina e il suo migliore amico era Indro Montanelli. Che un giorno lo incontrò: ho visto il tuo spot, caro Pietro, è davvero bellissimo. Arrivò la bambina che torna a casa con il gattino e mette il fusillo in tasca a papà. Fioccarono i premi». Con Berlusconi ha lavorato a lungo. «L’ho conosciuto al rientro in Italia. Mi invitò al Gallia per una tavola rotonda. Vedevo che mi fissava da lontano.(seguepag.8)

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(segue da pagina 7)Mi raccontò: quando ero giovane portavo i capelli come i suoi, poi li ho tagliati e la mia vita è cambiata. Mi dia retta: li tagli anche lei. Se lo fa, ci daremo del tu. È diventato il titolo di uno dei miei libri». Com’è arrivato a essere viticoltore? «Un bel giorno, qualche anno fa, mi stavo facendo la barba. Chiamo Lella, mia moglie, e le dico: oggi sento i miei partner americani e vendo tutto. Detto, fatto. Il vino è la mia attività dal 2004. Pensi che nella mia famiglia nessuno beveva. E io sono astemio. Tutto da solo, ho disegnato la bottiglia, il logo e ideato gli slogan per il lancio, un vero atto d’amore per la Sardegna. Così, nel Sulcis, è nata Cantina Mesa». Come si definirebbe? «Gavino, che si diverte come un bambino a fare le caricature». Paolo Baldini corriere.it Premi 7 Clio, oscar della pubblicità americana, 7 leoni a Cannes, 1 telegatto per la pubblicità Barilla (1986) Opere : Le uova di Woody Allen , Bompiani, 1988 Professione creativo, Aldo Biasi e Gavino Sanna, Bridge, 1991 Se si taglia i capelli ci daremo del tu, Mursia, 1998 L’inganno di un sorriso, Carlo Delfino Editore, 2003 Gavino sono. La vera storia dei martiri turritani, Carlo Delfino Editore, 2009

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anta Margherita, gruppo fondato nel 1935 da Gaetano Marzotto, investe in Sardegna: secondo quanto scrive la rivista on line specializzata WineNews, il gruppo vinicolo avrebbe acquisito la Cantina Mesa, di proprietà del grafico e pubblicitario sardo Gavino Sanna. Si tratta di 70 ettari di vigneto nel Sulcis Iglesiente. La cantina sorge a Sant’Anna Arresi e ha una capacità produttiva intorno alle 700.000 bottiglie all’anno. Secondo le indiscrezioni di WineNews, Santa Margherita, che mette insieme molti territori top del vino italiano, come Veneto Orientale, Conegliano-Valdobbiadene, Franciacorta, Trentino-Alto Adige, Chianti Classico, Maremma e Sicilia, ora aggiungerebbe un altro pezzo: la proprietà di Mesa, il cui nome in lingua sarda significa tavola. Nata nel 2005, Mesa coltiva e imbottiglia principalmente vitigni Carignano, Vermentino e Cannonau.

https://www.lanuovasardegna.it/cagliari/cronaca/2017/07/18/news/ceduta-la-cantina-mesa-di-gavino-sanna


Foto mesa

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uella di Cantina Mesa è la scommessa di Gavino Sanna, forse uno dei pubblicitari italiani più famosi e premiati, che dal 2004 ha voluto puntare sulla sua terra, la Sardegna, con un progetto giovane e attento. La cantina si trova a Sant’Anna Arresi, nelle valli di Porto Pino: 70 ettari nel cuore del Sulcis Iglesiente, in una valle sfiorata dal maestrale e a pochi km dal mare, dove viene prodotto ‘Buio”, il Carignano del Sulcis e il Carignano barricato ‘Buio Buio”. Da qui parte la sfida imprenditoriale di Cantina Mesa, accompagnata da oculate scelte di marketing e comunicazione. La veste grafica della produzione Mesa colpisce alla prima occhiata: le etichette in bianco e nero che avvolgono le bottiglie scure come il carbone (che una volta era la ricchezza di queste terre) si ispirano graficamente ai tappeti insulari tessuti con il vello delle pecore sarde. Lo stesso design che avvolge le pareti di ingresso dello stabilimento Cantina Mesa. Abbiamo avuto l’opportunità di fare qualche domanda a Gavino Sanna per conoscere i primi passi di questa avventura ed i motivi di alcune determinanti scelte estetiche Come era impostata la “comunicazione del vino” nel 2004, quando muove i primi passi Cantina Mesa, ed

in che modo si è voluto cambiare registro? Domanda complessa e ampia. Cercherò di essere sintetico nella risposta. In generale la comunicazione del vino la distinguo tra quella nazionale e quella extra; in particolare quella del Nuovo Mondo. Quest’ultima spesso è sempre stata più innovativa, fuori dai soliti schemi e contenuti, più impattante. Vuoi per la minor tradizione come produttori di vino di certi paesi, vuoi per la maggior deficienza in termini di marketing e advertising tipica del nostro paese. In soldoni; gli States avranno una storia vitivinicola “solo” secolare anziché millenaria; ma loro sì sanno cos’è l’advertising con la A maiuscola. E non solo. Comunque negli anni le cose sono cambiate anche nel nostro paese. Per ciò che concerne Mesa non abbiamo voluto cambiare nulla; abbiamo semplicemente seguito una nostra strada: strategia conseguente anche ad alcuni dati di fatto. Nel mondo del vino nel 2004 eravamo il classico last comer; senza una storia come produttori che affondasse le radici in un passato più o meno remoto; inoltre nati in un luogo (il Basso Sulcis in Sardegna) (segue pagina 10)

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(segue dalla pagina 9) che non ha neppure una fama che possa essere non dico quella di Bolgheri, delle Langhe o del Sud Tirolo; ma neppure quella del Prosecco, del Collio, dell’Etna e via dicendo. Per cui nessun richiamo alla terra, alle antiche radici, al trisavolo già nobile e fattore. No, fondo limbo e protagonismo assoluto da parte delle nostre prime meravigliose bottiglie. Una headline amichevole, che ci permettesse di approcciarci al potenziale wine lover in modo soft. Insomma un pacato “Buongiorno permette che mi presenti?” ; come si conviene ad uno sconosciuto ben educato e di buone intenzioni che voglia farsi conoscere. Un esempio? La parata delle nostre bottiglie e la headline “Sorridi, sei tra amici”. Certo in altre uscite abbiamo poi suggerito la nostra origine sarda (seppur in modo indiretto ed elegante) oppure ci siamo in alcuni casi adattati alla particolarità dell’occasione di uscita o al mezzo stesso. Come nel caso della nostra partecipazione alla manifestazione del Girotonno nell’anno in cui il nostro Carignano Buio Buio ha ottenuto i 3 Bicchieri ed altri prestigiosi riconoscimenti anche internazionali. In quel caso specifico; per il giornale che usciva

ad hoc in occasione della manifestazione di Carloforte abbiamo realizzato un soggetto con la nostra referenza vincente e una semplice parola come headline: RAIS. La baseline riportava semplicemente alcuni dei premi ottenuti dal nostro Buio Buio 2010. Chi frequenta il Girotonno e ha aperto quella pagina ha capito senza bisogno di altre parole il parallelo tra il Rais della tonnara e il nostro vino, e cosa volevamo quindi suggerire. L’appeal emotivo di chi incontra e osserva per la prima volta una bottiglia della Cantina Mesa è sicuramente diverso da quello veicolato dalle classiche (solite?) bottiglie di vino. Quale è stato il processo creativo che ha portato alla definizione della bottiglia, del logo e dell’etichetta delle bottiglie Mesa? Con una punta di orgoglio devo dire che dopo l’uscita delle nostre bottiglie c’è stato un proliferare di bordolesi tronco-coniche e rigorosamente nere in Sardegna. Così come più di una cantina ha ripreso la forma delle nostre 500 ml, quando addirittura non l’idea stessa di fare il mezzo litro come referenza “piccola”.


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Non siamo stati certo i primi in Italia a optare per questo formato, ma almeno sull’Isola una piccola scossa l’abbiamo sicuramente data. Le prime bottiglie da 750 ml di MESA pesavano la bellezza di 900 grammi ed erano assolutamente nere. Così le volevo: nere nel vestito, forti, austere e dignitose, come le donne di Sardegna; da sempre protagoniste della storia dell’isola e depositarie dei suoi valori più antichi e profondi. Le etichette minimali, che rappresentano stilizzati gli originari motivi dei primi tappeti sardi. Bianchi e neri, come il vello naturale delle pecore. La seconda parte un tocco di colore; che rende omaggio ai policromi e affascinanti costumi di Sardegna. Un packaging insomma estremamente grafico e moderno ma che ha le sue radici nella millenaria civiltà dell’isola, un design che in modo nuovo racchiude e racconta uno dei più antichi tesori di Sardegna, il vino appunto. Circa il logo poi, per quel che concerne il “segno” grafico da una parte rientra sempre in quella volontà mai abbandonata di dare una vesta moderna a tutto ciò che concerne l’immagine di Mesa –qualcuno ha persino definito “futurista” il nostro logo-, dall’altro lato è il risultato dei mie anni di studio e lavoro a New York; ma è un aspetto minoritario.

Qui l’essenza è il nome stesso MESA, al di là che sia stato poi espresso con un font reinventato, un severo Futura o un classico Bodoni. Mesa in Sardegna è la tavola dove anticamente le donne preparavano il pane. In queste quattro lettere è racchiuso un intero universo. La famiglia, l’importanza dei frutti della terra, l’amore per il buon cibo, le tradizioni alimentari mediterranee di cui pane e vino sono elementi fondamentali. Inoltre, la tavola per noi “latini” non è semplicemente il posto dove ci si alimenta e disseta; no è il luogo centrale che unisce la famiglia, gli amori, le amicizie, il piacere. Un luogo emotivo prima ancora che fisico. Ecco “sa mesa” è un simbolo di quella Sardegna che ho nel cuore, quella Sardegna buona, sana e pulita che ho sempre rappresentato ovunque nel mondo e che ho voluto celebrare questa volta attraverso uno dei suoi prodotti d’eccellenza. Possiamo dire che la mia avventura di vigneron è la mia ultima campagna pubblicitaria regalata alla mia isola: i media però non sono billboard o spot televisivi; ma bellissime bottiglie che esaltano la bellezza di questo luogo unico attraverso la freschezza del Vermentino o le note balsamiche dei Carignano. (segue pagina 12)

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(segue dalla pagina 11) Perché in quei vini trovi il vento forte da Nord, la brezza marima, la forza del sole e la storia millenaria di Sardegna. Ovviamente se non è buono il vino…cade tutto quanto il resto. Ma quanto pesa l’immagine con la quale Cantina Mesa ha deciso di portare in giro il proprio prodotto e la percezione da parte degli importatori stranieri? Durante una delle prime riunioni con il team della Cantina espressi proprio questo concetto: io studio un “vestito” che sia accattivante, che possa costituire uno stimolo visivo tale da portare un potenziale acquirente a fare il primo passo: cioè essere attratto, incuriosito e avvicinarsi quindi al prodotto. Una volta che costui ha la bottiglia in mano o meglio sul tavolo, beh… poi spetta al vino farsi valere. Non c’è alcun packaging che possa funzionare se poi il prodotto non c’è. Chiunque può essere fregato una volta, ma mai tutti tutte le volte. E poi, il vino è sostanza; tanto lavoro e fatica. Non si può pensare di sostituire tutto questo con un’immagine vincente. Circa l’export qui le cose si fanno più complicate; in primis perché ho delegato alla retro-etichetta la narrazione di tutte quelle informazioni “di

servizio” che all’estero sono importanti. In secondo luogo perché non si può pensare di approcciare diversi mercati (e molto distanti tra loro in termini culturali prima ancora che geografici) con un unico messaggio. Va bene che la globalizzazione avvicina (o appiattisce secondo alcuni) ma ci sono poi caratteristiche nazionali e individuali che restano. Nel caso dell’estero direi che ha pesato sicuramente di più la qualità del vino che l’immagine. Se dovessi selezionare una tipologia di consumatore che è maggiormente attratto dal valore dell’immagine; direi che la pole position se l’aggiudicano i giapponesi. Non serve vi parli io del gusto estetico di questo paese verso un certo tipo di grafica, design, comunicazione. Anche i nomi dei vini e la descrizione sulle etichette del retro bottiglia sembrano non aver lasciato spazio all’improvvisazione. Come sono stati delineati ? Tutto tranne che improvvisazione! Ancora una volta pensiero e lavoro. Per le retroetichette il brief era chiaro: non volevo la solita retro-etichetta. No, non mi interessava neppure dare indicazioni di


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“servizio” come la temperatura ideale o il cibo cui accompagnarsi. Volevo invece delle piccole poesie; direi una sorta di haiku che sapesse raccontare in modo originale alcuni caratteri del vino e del territorio. A una prima lettura veloce sembrano esercizi poetici messi lì per essere appunto stravaganti; ma invece c’è sempre una corrispondenza tra il vino e il suo racconto. Nella descrizione del nostro Carignano Riserva si legge “corpo forte di tronco secolare che racconta nell’uva il vento e il mare mai spenti”, parole non scelte a caso, per vezzo creativo ma per raccontare questo vino di buona struttura, che nasce da vigneti con antichi alberelli a piede franco, che da cent’anni vivono sulle sabbie di Porto Pino di fronte al mare; accarezzati dal maestrale e dalla brezza salata. Vento e mare che danzano davanti alle vigne da tempi infiniti, senza mai fermarsi appunto. I nomi fanno parte anch’essi di quella linea che voleva comunicare in modo diverso e innovativo la Sardegna. Forse a livello di marketing poteva servire dare ai vini nomi dal profumo “etnico”, che so chiamarli con i nomi delle nostre vigne: Bentu Estu, Sa Carubbedda, Su Baroni…ma no, assolutamente! Mi riportavano a quella comunicazione tipica nostra

che ci vede come nel ballo tondo: sempre rivolti a guardarci tra noi sardi, a chiuderci. Così i nomi sono nati dall’osservazione dei primi campioni di vino. Il nome Buio, perché il vino si presentava con un colore carico, un rubino intenso e scuro, con riflessi di un blu profondo. Chiamarlo Buio fu naturale, anche perché suonava bene all’orecchio. Il Giunco è una pianta che caratterizza la nostra zona marittima, tra l’altro nell’isola è sempre stato impiegato per fare bellissimi cesti. La delicatezza vegetale e floreale di questo bianco, gli incredibili profumi che rapiscono il naso per poi scivolare via solo un attimo e tornare ancora più pregnanti al naso e poi in bocca; ricordano proprio la leggerezza e il dolce movimento dei giunchi mossi dal vento. Moro è un tributo al vitigno simbolo dell’enologia sarda: il Cannonau. E il moro, o meglio i 4 Mori, sono il simbolo stesso dell’isola e della sua bandiera. E così via sino a Malombra che è un vino non per tutti, che non si concede al primo sorso ma che bisogna saper capire per apprezzare sino in fondo. Un vino capace di far innamorare e perdere la testa a un uomo: come Malombra, affascinante e seducente entreineuse in un racconto dello scrittore Giancarlo Fusco. (segue pagina 14)

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(segue dalla pagina 13) Detto ciò, sì i nostri vini si stanno affermando nel panorama vitivinicolo indubbiamente in virtù della loro qualità (è di pochi giorni fa l’ennesima medaglia ottenuta ad un concorso internazionale in Asia) ma indubbiamente l’aspetto estetico ha contribuito a rendere il vino Mesa “invitante”, e in tutto questo assolutamente nessuna improvvisazione. Guardi voglio essere onesto ultimamente ho visto qualcuno proprio in Sardegna scimmiottare l’idea di utilizzare versi poetici –che poi neppure tali sono- per narrare l’anima del vino. Beh, le assicuro che finita la lettura di quanto scritto uno si domanda: “e allora!?”. Non c’è alcun nesso, o per lo meno è così criptico e non palesato; tra ciò che si legge e la bottiglia che lo veicola. Che c’azzecca quanto scritto con il vino è un mistero assoluto. Chissà forse volevano essere esoterici oltre che poetici… Comunicare significa anche essere semplici, diretti. Gli intellettualismi esagerati o snob sono l’antitesi di una buona comunicazione commerciale. Angelo Superti Editor in chief e fondatore di Polkadot. La Puglia è la sua casa. https://www.polkadot. it/2014/10/27/cantina-mesa

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intervista interrompe Paolo Fresu mentre sta scrivendo certi suoi pensieri ispirati a Platone e il tempo. Accenna: «In fondo, il tempo è eterno. Peccato che non lo siamo anche noi». Se coi concerti fermi per pandemia uno si aspetta di trovarlo che suona la tromba tutto il giorno o lo immagina placidamente a riposo, dimentica che si è esibito tremila volte in cinque continenti; ha inciso oltre 450 dischi, 90 solo suoi, spesso corredati da testi che sono veri libretti; ha un’etichetta discografica; ha composto colonne sonore; insegna in master e seminari. Oltre che una stella del jazz, è uno stakanovista della musica e un uomo incapace di star fermo. Vive in tre città, Parigi, Bologna e nella natia sarda Berchidda. Il 10 febbraio, ha compiuto 60 anni. E scherza: «In pandemia, il tempo è dilatato e i compleanni valgono il doppio. È come aver compiuto 120 anni, anche se mi sento molto più giovane. Ho scoperto un tempo più lento e prezioso. Se non avessimo visto tante immagini strazianti e non avessimo tante preoccupazioni per il futuro, sarebbe stata una rivelazione interessante. Temevo la noia.


Foto corriere.it

INTERVISTA

All’improvviso mi sono trovato nel vuoto apparente e, soprattutto, senza viaggi, che sono per me il momento della massima creatività: su treni e aerei, sei in un Fresu: «Aiutavo papà con luogo di nessuno e io lì penso, creo, organizzo. Ora, stando tanto a casa, ho dovuto reimpostare il le pecore, il Conservatorio pensiero e ci sono riuscito: ho prodotto comunque il mi respinse: ora scrivo mio festival in Sardegna, un cofanetto triplo, un conbrani su treni e aerei» certo online per il compleanno. Prima, prendevo un volo Roma-New York e i miei col- Il jazzista: da bambino ho laboratori avevano paura, perché atterravo e avevo vissuto come ai tempi di pensato un tour, avuto idee, scritto musica». Lei compone in treno e in aereo? Platone. «Lo faccio al Pc o appunto il pentagramma sulle riAppena mi diplomai viste di bordo. La colonna sonora del film su Ilaria Alpi l’ho annota- perito elettrotecnico mi fu ta su un Parigi-Olbia. offerto un posto alla Sip. Il brano sulla morte di Federico Fellini l’ho scritto su un Firenze-Bologna quando non c’era l’alta ve- Mi vestii bene, andai al locità». colloquio. Com’è che un figlio di pastori diventa un musicista Li ascoltai e rifiutai. jazz celeberrimo? «Non mi piace raccontare la mia storia come quella Mio padre disse: però non di un eroe che esce dai canoni della normalità. fare il pastore La mia è la storia di un bimbo che amava la campagna e la terra e amava tanto la musica e, con passio- https://www.corriere.it/cronane e testardaggine, è riuscito a farne la sua ragione di che/21_marzo_03/fresu

vita. Non dovrebbe esserci nulla di anormale. Avevo una tromba in casa, vedevo passare la banda del paese e sognavo. Ricorderò per tutta la vita la prima processione in divisa blu e mostrine d’oro». Ricordi della Berchidda della sua infanzia? «Era una campagna tipica del Logudoro. Dietro c’è la Gallura, con le sue rocce di granito dalle forme fantastiche che erano i miei libri di pietra: ognuna era un viso o un animale con una storia che mi raccontavo mentre aiutavo mio padre con le pecore. Il tempo scorreva come in quel saggio di Platone del 360 a. C., con i riti della raccolta delle olive, della vendemmia, dell’uccisione del maiale e degli agnelli. A 15 anni, i ragazzi si ripetevano quanto erano sfortunati a vivere tagliati fuori da tutto. Io ero l’unico convinto che essere sardi fosse un segno di distinzione, che avevamo cose uniche, anche certi dolci, anche la bottarga e la nostra lingua: io ho parlato solo sardo. Ancora oggi, a volte, penso in sardo». A che punto è il suo «Vocabulariu saldu-italianu in Logudoresu de ‘Elchiddha»? «A 25 mila lemmi. È un dizionario emozionale, nato in omaggio a mio padre: (segue pagina 16)

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(segue dalla pagina 15) aveva la terza elementare ma ha scritto poesie, piccoli romanzi naif e raccoglieva modi di dire, cognomi, bestemmie in dialetto. Li annotava sugli scontrini, nel quaderno delle vaccinazioni delle mucche e, se non aveva da scrivere, sulla terra, con un legnetto». Grazie a lei, Berchidda, una volta all’anno, diventa l’ombelico del mondo del jazz. «Per il “Time in Jazz”, c’è gente che arriva da tutti i Paesi e lì nascono collaborazioni, amori, c’è chi s’incontra e si sposa. Quando arriva uno da New York e vede questo paesino abbarbicato sulla collina e gli dicono “quello è il posto dove suonerai” ed è un posto che puoi circoscrivere con un dito, so che si sta chiedendo perché mai è venuto. Poi arriva e trova un laboratorio umano straordinario. Al bar vedi il pastore che parla col jazzista australiano, non si capisce in che lingua, forse quella della birra». L’estate scorsa, è riuscito a fare il festival nonostante il Covid, mentre nella vicina Costa Smeralda impazzava il contagio. «Abbiamo fatto 50 concerti nei boschi, sui laghi, nelle chiese e senza un contagio. Abbiamo dimostrato che i concerti si possono fare, all’aperto e al chiuso».

Ora, il «Time in Jazz» è rimasto vittima di un Click Day. Andrà avanti? «Abbiamo perso 60mila euro di finanziamenti regionali per quattro secondi e non sarà questo a fermarci. Il tema, però, è che un festival con 33 anni di storia non può stare sulla stessa corsia di uno nato il giorno prima. Noi generiamo 3 milioni di euro di ricaduta sul territorio. Questo episodio dimostra quanto poco lo spettacolo sia considerato dalla politica. Neanche la pandemia ha fatto capire che, dietro un due per cento di famosi, ci sono migliaia di lavoratori preziosissimi e senza tutele». Lei quando ha capito che avrebbe vissuto di musica? «Appena mi diplomai perito elettrotecnico, mi fu offerto un posto alla Sip. Mi vestii bene, andai al colloquio. Li ascoltai e rifiutai. Non l’avevo deciso prima. In certi momenti, la scelta non può essere razionale. Non avevo niente, studiavo ancora al conservatorio. Papà disse solo: basta che non fai il pastore. Ma feci bene: subito dopo, fui chiamato per delle supplenze di musica alle medie e diventai autonomo». Al conservatorio, era stato accolto come il promettente talento che era? «A Sassari, al primo tentativo, non fui ammesso: all’esame attitudinale mi dissero che non ero musicale.


Foto ilpunto

Non voglio farne un processo: la scuola la fanno gli insegnanti e in parte il sistema. Il professore, alla fine, mi mise tre in tromba e dovetti finire gli studi a Cagliari: erano cinque ore di treno, ma trovai un insegnante straordinario, che mi ha compreso». Il jazz, tuttavia, era lontano e non oggetto di didattica. «Lo scoprii attraverso un gruppo in cui suonavo. Il pianista era figlio di un dentista melomane, che aveva tanti dischi. Andai a seguire due seminari di “Siena Jazz”. Tornai e passai ore in cantina a provare gli accordi fotocopiati lì. Però, mi annoiavo a suonare da solo: venivo dalla banda. Poi, in un giorno di primavera, dentro una luce meravigliosa, mi viene una nota che aveva un significato totalmente nuovo. La mia vita è cambiata. È stato un momento luminoso. La tromba è diventata la mia voce». Una volta ha detto «io canto con la tromba». «È lo strumento del canto: il mezzo vibrante siamo noi. Io, per anni, ho ossessivamente passato il tempo a trovare il suono, perché canto significa melodia, melodia significa testo. Miles Davis e Louis Armstrong avevano grande senso della melodia». Se pensa in sardo, suona anche in sardo?

«So che, alla fine di un concerto, arriva sempre uno che dice: si sentiva un pezzo di Sardegna. Forse è vero, non saprei. L’attore può interpretare altri da sé, il musicista, sul palco, è solo con se stesso». Perché suona seduto, in precaria posizione fetale? «So che in quella posizione la musica funziona bene. Infatti, due volte, a New York e a Firenze, la musica non stava funzionando e sono cascato per terra. Per fortuna, la gente ha pensato che fosse una specie di performance». Lei ha digiunato per lo Ius Soli; è salito sull’Aquarius ferma a Marsiglia; ha firmato sul «Corriere» un appello per la scuola. L’impegno politico e sociale che pezzo di vita è? «Fondamentale: mi sentirei in colpa se vedessi accadere certe cose e facessi finta di nulla. E più vai avanti, più hai bisogno di trovare motivazioni per vivere che non possono essere solo partire per un concerto. Sarebbe più facile non esprimermi, così sui social non scriverebbero “perché non suoni solo la tromba?”, ma non riesco. Sullo Ius Soli risposi: se non vi stanno bene le mie idee, non comprate i miei dischi e se li avete già comprati, vi ridò i soldi». Qualcuno le ha chiesto i soldi indietro? «Nessuno. Dietro alla tastiera, sono tutti bravi a criticare. (segue pag.18)

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(segue dalla pagina 17) Invece bisogna fare, e lavorare per le cose in cui si crede. Con mia moglie, per dire, ho creato “Nidi di note”, organizziamo eventi per finanziare laboratori musicali nelle scuole primarie e per l’infanzia». Sua moglie è Sonia Peana, violinista, di Alghero. Poteva essere solo musicista e sarda? «Non credo, ma nulla accade per caso, dietro c’è uno scrivere una partitura, segnare un percorso. L’ho incontrata nel 2000 a una messa jazz. È scattata la scintilla, ci siamo sposati, abbiamo avuto un bimbo che ora ha 13 anni. Non avevo in programma di mettere su famiglia, ma ho visto in lei la persona giusta». Per il compleanno è uscito con un cofanetto di tre album, «P6OLO FR3SU», che include un libretto con le 60 parole importanti per lei. «Sono partito da Sardegna, Italia, Francia, le mie “nazioni”. L’ultima parola è: educazione. In mezzo, ci sono caparbietà, amore, fiducia, civiltà, umanità, vento, resilienza, accoglienza. È stato un modo per raccontare quello che vorrei essere a 60 anni». E cosa vorrebbe essere a 60 anni? «Quello che sono, né più ne meno, senza rimpianti: uno che ha fatto cose molte belle e altre forse non necessarie. E che, a 60 anni, non guarda indietro, ma avanti».

Candida Morvillo

LA SARDEGNA V M

entre il numero di casi di coronavirus continua a salire in Italia (18.916 nuovi casi al giorno da ieri e 280 morti), con il governo che si muove verso l’attuazione di nuove restrizioni, una regione del paese si sveglia per essere quasi libera dal Covid. Si tratta dell’isola di Sardegna, nota per le sue belle spiagge e le sue acque limpide, meta estiva amata da italiani e turisti stranieri. Qui, il numero di casi è diminuito così tanto nelle ultime settimane che in pratica non c’è più bisogno di restrizioni: a partire dal primo marzo, negozi e ristoranti possono essere aperti a tutte le ore, viene imposto un coprifuoco più breve (tra le h.23.30 e le 5 del mattino) e scuole e altre strutture possono lavorare al 100% della loro capacità. Il concetto di “zona bianca” (che comporta che si registrino solo 50 casi di coronavirus ogni 100.000 abitanti per tre settimane successive), è stato introdotto solo di recente: mai, dall’inizio della pandemia, una regione si è comportata così bene con i tassi di contagio. Questo è particolarmente significativo per un paese come l’Italia, che è stato colpito più duramen-


Foto enricospanu

VISTA DA FORBES te in Europa fin dalle prime fasi della pandemia. “Una zona bianca non significa un approccio ‘liberi tutti’, piuttosto dobbiamo prenderla come una motivazione per continuare a osservare il massimo grado di responsabilità”, ha detto Christian Solinas, governatore della Sardegna. “A partire da questo risultato ci può essere una graduale ripresa del settore produttivo, che ha sofferto molto in questi mesi. Ma tutto deve essere fatto con pazienza e attenzione”. Attualmente ci sono tre zone rosse all’interno dell’isola, nello specifico i comuni di Bono, San Teodoro e La Maddalena. “Essere la prima regione in una zona bianca è un privilegio per me e per tutto il popolo sardo. È un riconoscimento del grande senso di responsabilità che abbiamo avuto e che continuiamo ad avere. Dobbiamo mantenere una cautela assoluta, perché solo così rimarremo in questa zona”, ha detto Mario Nieddu, rappresentante regionale della sanità. Le autorità regionali hanno già annunciato che rafforzeranno i controlli nei porti e negli aeroporti per chi viene da fuori dell’isola, per tenere fuori

il virus. Durante l’estate, la Sardegna era stata sotto i riflettori a causa di un certo numero di club che avevano raccolto un gran numero di persone nonostante le restrizioni, portando a una serie di focolai di virus. Con una popolazione di 1,6 milioni di abitanti e un grande problema di emigrazione, la Sardegna vive soprattutto durante l’estate, quando la gente raggiunge le note destinazioni di Porto Cervo, Alghero e Porto Rotondo, tra le altre. “Stiamo vedendo la luce alla fine del tunnel. Finalmente i caffè, i bar e i ristoranti potranno accogliere i clienti anche di sera”, ha detto Nicola Murru, direttore di Confesercenti Cagliari, l’associazione imprenditoriale locale. “Avremo un’impennata del commercio, perché la gente vuole andare a mangiare fuori la sera”, ha aggiunto. Secondo la Coldiretti, l’associazione nazionale dell’agricoltura, saranno circa 12.000 i posti aperti nell’isola. Irene Dominioni h t t p s : / / w w w. f o r b e s . com/sites/irenedominioni/2021/02/28/sardiniathe-lucky-island-almostfree-from-covid-19/

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entimenti, stati d’animo, emozioni; questi sono i punti focali nelle mie opere. Affascinato dalla critica sociale e dal mondo rurale riguardanti principalmente la mia terra, la Sardegna, ho indirizzato la mia ricerca artistica verso l’autoanalisi, mezzo indispensabile per arricchire il mio lavoro dal carattere antropologico. Dal 2014 ho iniziato il mio percorso nell’arte muraria, la quale è diventata il mio principale mezzo di espressione. Mi sono avvicinato a questa pratica per il suo ruolo sociale, lo stretto contatto con le persone e la possibilità di riqualificare spazi urbani. Creare un’opera per tutti, anche per chi non se la può permettere è una cosa impagabile e l’arte può essere il giusto carburante per i piccoli centri abitati che hanno fame di cultura, bellezza e confronto con l’esterno. Penso sia molto importante andare avanti senza dimenticare le proprie radici. Mi definisco un ponte tra il muralismo classico sardo e la street art contemporanea. Il mio obbiettivo è stimolare i ricordi degli anziani, far riscoprire le proprie radici ai giovani e far conoscere la storia e le tradizioni di un posto ai visitatori. Tutto questo cerco di farlo in una chiave più moderna, ottenendo quindi,

Salto nel buio - 38mq - Silius 2021

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ilius è un piccolo paese del sud Sardegna dove dagli anni ‘50 sino ai primi del 2000 l’economia principale era l’estrazione in miniera della fluorite. L’opera è dedicata ai minatori di Silius e al cambio di vita che hanno dovuto affrontare lasciando le terre per andare a lavorare nelle miniere. Il minatore, illuminato solo dalla luce della sua lampada a carburo, va alla scoperta di un nuovo mondo, un’altra dimensione simboleggiata dalla presenza dei minerali sospesi nell’aria, quasi a ricordare un senso di insicurezza e instabilità a cui tutti questi uomini facevano fronte lasciando le proprie terre. Parallelamente si crea un ambiente magico e nuovo dove il protagonista, curioso, ci va alla scoperta. I minerali rappresentati sono 20 come il numero di minatori che purtroppo hanno perso la vita dentro le miniere di Silius. Un ringraziamento va all’Associazione Minatori a memorie del Gerrei e il Comune di Silius che hanno reso possibile la realizzazione dell’opera, e a tutta la comunità di Silius per l’ospitalità. #pattaartist #murales #mural #murals #streetart #urbanart #contemporaryart #muralsart #painting #muralpainting #urbancontemporaryart #urban #silius #gerrei #sardegna #sardinia #minatore #miner #minerali #minerals #fluorite #fluoritecrystal

PATTA ARTISTA l’attenzione di tutti e ho capito che in Sardegna c’è bisogno di un muralismo legato alla tradizione ma fresco e contemporaneo. Per questo che continuo ad aggiornarmi e a prendere ispirazione dai grandi street artists internazionali. Ho lavorato 4 anni come pittore di porcellana alla Richard-Ginori e penso che questo mi abbia influenzato non poco nella mia scelta di usare parti decorative più grafiche, alternate naturalmente con la mia pittura figurativa. Di conseguenza ho iniziato a fare una perenne ricerca dei tessuti sardi che utilizzo spesso nelle mie opere.

Do molta attenzione alla composizione, cercando sempre dei tagli fotografici che aiutano l’opera a rimanere fresca. Penso che ogni opera è figlia del periodo in cui viene realizzata. Viviamo in un mondo che va molto veloce e l’arte urbana segue il suo passo. Ogni artista ha sempre qualcosa da dire in ogni sua opera ma non per forza sempre messaggi politici e sociali. Alla fine bisogna essere sinceri con se stessi così da trasmettere questa sincerità nelle proprie opere. I più grandi penso facciano questo. Patta https://pattaartista.wixsite.com/portfolio/artista


foto “Sa Femina Accabadora, la dama della buona morte” Fabrizio Galatea

Vi presentiamo oggi: “MORTI CANDU BOLIS”, cantzoni a curba scritta da Giuseppe “Peppino” Porcu di Cagliari. L’autore parla nel testo delle sofferenze dell’agonia, di terribili, numerosi e continui dolori e invoca alla morte di non beffarsi della sua sofferenza, ma di abbracciarlo e seppellirlo quanto prima. Il testo, scritto ai primi del ‘900, ci descrive con empatica ed incalzante verve una triste agonia, in un’epoca in cui la sanità non poteva alleviare certe pene. “Morti Candu Bolis” / “Morte Quando Vuoi” di Peppino Porcu Morti candu bolis beni e piga-mi-ndi = Morte quando vuoi, vieni e prendimi No mi lessist prus in su mundu a penai = non lasciarmi più nel mondo a penare No ti-ndi scarèsciast, arregorda-ti-ndi = Non ti dimenticare, ricorda No fatzast de mancu de mi-ndi pigai = e non farne a meno di prendermi De mesu de custas penas boga-mi-ndi = dal turbine di questo penare toglimi O sana-mi in totu, o lassa-mi spirai = O mi guarisci in tutto o lasciami morire Antonino Rubattu. http://www.zenit.to.it/.../ docume.../66/sa-femina-accabadora Simone Grussu Frantziscu Grussu www.accademiadimusicasarda.com/.../rubrica-de-su.../

SU CANTU A CURBA T

ra i moduli di canto che fanno parte del repertorio campidanese, abbiamo i canti a strofe, meglio noti come “cantus a curba”, dove il termine ‘Curba” deriverebbe dallo spagnolo ‘Copla” che significa strofa, appunto (Rubattu

A.). Questi canti talvolta vengono chiamate semplicemente “cantzonis”, ed avevano il compito (specialmente in passato) di raccontare storie, tragedie, storie tristi, storie comiche, circolavano in foglietti o oralmente in is tzilleris, accompagnati dalla chitarra. In pratica la “cantzoni a curba” è la versione campidanese dei “mutos prolungados”, dove si parla di un unico argomento. Inizialmente esso veniva accompagnato dalle launeddas, ma successivamente l’accompagnamento di questi canti è stato sostituito quasi in toto dalla chitarra sarda. Avendo il compito di narrare una storia, il canto “a curba” è solitamente di dimensioni importanti e nei suoi testi compaiono personaggi spesso molto divertenti. Le cantzonis a curba sono componimenti caratteristici del Campidano, sia meridionale che settentrionale, strutturate in versi senari doppi secondo uno schema tipicamente sardo.

Fonti: Unu de Danimarca benit a carculai – Il mondo poetico di Ortacesus nelle registrazioni e negli studi di Andreas Fridolin Weis Bentzon tra il 1957 e il 1962 a cura di Dante Olianas; Dizionario universale della lingua di Sardegna: Italiano-sardo-italiano antico e moderno. EDES editore, ISBN 8886002394, 9788886002394 N.B: Il presente testo è stato estrapolato dalle registrazioni rinvenute dall’autore di questo articolo e viene riportato secondo le attuali norme di scrittura.

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BIODIVERSITA LA LEGGE

foto vistanet

iodiversità, serve una legge regionale. la richiesta arriva dal “Festival delle erbe spontanee” in corso a Ussaramanna: la Sardegna è l’unica regione italiana ancora senza una normativa di protezione della propria flora, nonostante solo la Sicilia disponga di un numero di specie vegetali più alto di quelle presenti nell’Isola “La Sardegna è l’unica regione italiana senza una legge regionale di protezione della propria flora, nonostante 2700 specie vegetali autoctone e oltre 2000 varietà di interesse agronomico, che fanno dell’Isola la seconda regione italiana (dopo la Sicilia) per numero di specie”. Lo ha detto Gianluigi Bacchetta, direttore dell’Orto Botanico dell’Università di Cagliari, durante la tavola rotonda che ha aperto il Festival delle Erbe spontanee, in corso a Ussaramanna, con la 35 Mostra delle erbe e la Sagra de sa Pardula. “La collaborazione con l’Università di Cagliari – ha sottolineato il sindaco Marco Sideri – è assolutamente strategica, farà fare un salto di qualità all’iniziativa e ci consentirà di proseguire nella direzione intrapresa” Quello a cui ha fatto riferimento il docente di Botanica dell’Ateneo del capoluogo sardo è un patrimonio che (nel contesto mondiale) ha un rilie-

vo enorme: quelle vegetali rappresentano il 98% delle biomasse viventi del pianeta. Per questo, per la prima volta a Ussaramanna sono riunite tutte le istituzioni che hanno competenze sulla diversità vegetale sarda: assessorati, agenzie regionali, ordini professionali e atenei della Sardegna stanno facendo il punto della situazione, per capire come conservare, tutelare e valorizzare l’immenso patrimonio sardo. Gli Stati Generali della Biodiversità intendono proporre ai nuovi amministratori regionali un percorso che possa condurre finalmente all’approvazione di una legge, necessaria anche perché la globalizzazione dei mercati rischia di far scomparire molte specie vegetali locali, a favore di quelle più commercializzate, e soltanto pochissime specie presenti in Sardegna sono attualmente utilizzate a scopi nutrizionali, farmaceutici e nutraceutici proprio perché poco conosciute o poco sfruttate. “Non dobbiamo mettere in cassaforte questa ricchezza – ha rimarcato Bacchetta – ma valorizzarla, ma come si fa se dopo 10 legislature regionali non è mai stata approvata una legge? La prima proposta risale a 46 anni fa, su un tema evidentemente bipartisan. Ma, ad oggi, dal 1973, non si è ancora riusciti ad avere una legge”.


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foto antonio marras fashion week

MARRAS FASHION WEEK In

un testo del Seicento si parlava dei sardi come “poco, locos y malunidos” (pochi, matti e poco uniti). Siamo ancora pochi (e, ammetto, la cosa ci ha aiutato non poco in tema di distanziamento nell’ultimo anno), siamo ancora matti (quello che segue lo conferma), ma quando crediamo in un sogno comune siamo uniti eccome. In tanti abbiamo abbracciato l’intuizione visionaria di Antonio Marras di realizzare la sfilata digitale della #milanofw21 (milano fashion week per gli ignari)Camera Nazionale della Moda Italiana nella sua - e nostra - Sardegna, ambientandola in uno dei simboli più cari, la reggia nuragica di BARUMINI : Su Nuraxi - Casa Zapata - Centro Giovanni Lilliu. Ecco qui De Innui Ses, con un cast misto modelli e real people interamente sardo curato da Lucio Aru + Franco Erre, gli attori di Sardegna Teatro, e squadre make up e parrucco con base isolana (capitanate rispettivamente da Daniela Dessì e Manuel Sunda). Ve lo racconto con malcelato orgoglio, perché sperimentare la transmedialità e la promozione eterodossa del patrimonio culturale è una delle forze motrici del mio lavoro degli ultimi anni, e un po’ di commozione, perché in questo folle progetto per la prima volta sono stata parte di un set cinema, e imparare dai tanti professionisti coinvolti è stato un regalo bellissimo. (E bravi noi di #sardegnafilmcommission) Vedi il filmato in https://antoniomarras.com/

minerali più rari al mondo: al primo posto l’Ichnusaite, trovata in Sardegna I diamanti in confronto sono estremamente dozzinali. È uscito su American Mineralogist l’elenco dei 2.500 minerali al mondo più rari, belli, e molto complessi Sono circa 2.550 i minerali più rari dei diamanti. Microscopici: per molti di loro la quantità totale presente sull’intero pianeta starebbe in un ditale. Nessuno è stato rinvenuto in più di cinque località in tutto il mondo. I più rari dei più rari sono 25: alcuni presenti in uno solo luogo sulla faccia della Terra. Come l’ichnusaite sarda, un fragile minerale scoperto a Su Seinargiu, Cagliari, nel 2013. Se ne conosce un unico esemplare. L’ichnusaite è un molibdato idrato di torio, affine alla nuragheite, un altro minerale rarissimo. Il suo studio è interessante per scoprire l’alterazione del combustibile esausto delle centrali nucleari e l’eventuale rilascio di radioattività durante lo stoccaggio.

Il filmato creato da Antonio Marras con il concorso dei più rinomati nel loro campo cineasti, direttori della fotografia, truccatori, musicisti, attori, e chi più ne ha più ne metta, ha naturalmente suscitato plausi e critiche come c’é da aspettarsi. Marras aveva già messo le mani avanti nella presentazione ricordando come ci si vedeva più di quattrocento anni fa, ma forse le cose non sono molto cambiate. Comunque a partire dal link qui accanto potrete farvi un’opinione personale che è sempre meglio di quella altrui. Per noi di Sardonia è di un comico involontario ma forse sarete più magnanimi. Vittorio E. Pisu

Carola Traverso Saibante https://www.corriere. it/scienze/cards/i-minerali-piu-rari-mondo-primo-posto-l-ichnusite-trovata-sardegna/ ichnusaite_principale. shtml

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