Sardonia Ottobre 2021

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SARDONIA

Foto doloresmancosu

Ventottesimo Anno / Vingt Huitième Annèe

Ottobre 2021/ Octobre 2021

Come Come una una brezza brezza leggera leggera Fiorenzo Fiorenzo Serra Serra La La Dea Dea Madre Madre didiTino Tino Nivola Nivola Adelasia Adelasia Cocco Cocco Tre Tre formaggi formaggi Slow Slow Food Food Casca Casca 2021 2021 Progetto Progetto Borghi Borghi inin Sardegna Sardegna La La retorica retorica tossica tossica sui sui Borghi Borghi Tessart Tessart Cogoni Cogoni Piermariano Piermariano Sanna Sanna Rug Rug Lab Lab Villamassargia VillamassargiaTerra Terra Cruda Cruda Ventanas Ventanas Walter Walter Secci Secci Filippo Filippo Figari Figari Le Le pietre pietre sonore sonore didi Elmar Elmar Daucher Daucher Maria Maria Lai Lai Jo Jo Coda Coda Roberta RobertaVanali Vanali Ripetutamente Ripetutamente Manca Manca Spazio Spazio https://www.vimeo.com/groups/sardonia https://www.facebook.com/sardoniaitalia


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Cagliari Je T’aime Programma di creazione di Esposizioni e Manifestazioni Artistiche nella città di Cagliari a cura di Marie-Amélie Anquetil Conservateur du Musée du Prieuré Directrice de la revue “Ici, Là bas et Ailleurs” Espace d’exposition Centre d’Art Ici, là bas et ailleurs 98 avenue de la République 93300 Aubervilliers marieamelieanquetil@ gmail.com https://vimeo.com/channels/ icilabasetailleurs Vittorio E. Pisu Fondateur et Président des associations SARDONIA France SARDONIA Italia créée en 1993 domiciliée c/o UNISVERS Elena Cillocu via Ozieri 55 09127 Cagliari vittorio.e.pisu@email.it http://www.facebook.com/ sardonia italia https://vimeo.com/groups/ sardonia https://vimeo.com/channels/ cagliarijetaime SARDONIA Pubblicazione dell’associazione omonima Direttore della Pubblicazione Vittorio E. Pisu Controllo qualità Prof.ssa Dolores Mancosu Maquette, Conception Graphique et Mise en Page L’Expérience du Futur une production UNISVERS Commission Paritaire ISSN en cours Diffusion digitale

vedi il video https://vimeo. com/609005412 e naturalmente https://vimeo.com/ groups/sardonia

uesto numero di Sardonia, che illustra una doppia pagina di una delle spiaggie sarde, esattamente nel Sulcis, con uno splendido tramonto, vuole al contrario augurare una rinascita, un’energia ritrovata, un entusiasmo all’opera. Forse oggi possiamo più serenamente credere che la pandemia che ci ha rubato quasi due anni della nostra esistenza, stia per essere se non debellata almeno arginata grazie ad i vaccini sempre più numerosi assunti dalla popolazione e questo in tutte le classi di età. Certo rimangono ancora degli irreduttibili che si rifiutano di credere fino all’esistenza del virus, che sono purtroppo costretti ad ammetterne l’esistenza quando ci si accinge ad intubarli mentre sono distesi su di una barella. Allora piangono a calde lacrime, singhiozzando “non ci volevo credere”, mentre tanti altri negazionisti ed altri esaltati rivendicando una pretesa libertà, alla quale senza rendersene conto avevano già riunciato da tempo, tracciati che sono sin dal contratto di distribuzione dell’acqua, per non parlare di quelle dell’energia elettrica e fino, naturalmente, ai loro smartphone (sic) ed ai social media sui quali deversano tonnellate di corbellerie, tutte ben registrate fino al luogo esatto dove si trovano quando eruttano le loro idiozie. Ma tutto ha una fine, come dicono i taoisti, ed anche questo finirà per diventare un vago ricordo, mentre altre catastrofi si annunciano, e che già nel 1970 (per coloro che non avessero mai letto un romanzo di Ray Bradbury) gli scenziati del mondo intero lanciavano allarme su allarme riguardo alle conseguenze del consumismo sfrenato, della distruzione delle risorse planetarie ed altri segnali delle catastrofi climatiche che si annunciano e che gli ultimi nubifragi ed inondazioni conseguenti tentano di farci capire e mostrarci a che punto stiamo sbagliando. Due mesi e qualche di confino, non sono bastati a dimnostrarci a che punto la vita animale e vegetale poveva riprendere i suoi diritti ,solamente perchè smettevamo per qualche setimana di circolare, inquinare e distruggere. Rimane l’Arte a consolarci ed anche la Storia, ma sembra che non impariamo mai, almeno in numero sufficiente per cambiare le nostre abitudini ormai chiaramente suicidiarie. Spero che quest’autunno sia un momento di rinascita e che le manifestazioni culturali e artistiche, lungamente impedite, possano riprendere, gli artisti non hanno mai smesso di produrre, ispirandosi dalla situazione e cercando di aiutarci a capire quali dovrebbero essere le nostre attitudini adesso e domani. Mi auguro che il ricordo dei artisti scomparsi di cui abbiamo celebrato questo mese l’anniversario di nascita ci serva di guida e che le opere degli artisti ancora attivi possa essere considerato ed apprezzato alla sua giusta misura. Buona lettura. Vittorio E. Pisu


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ggi i giornali sono attraversati da venti incontrollati. Per esempio, si riesce a dare una sorta di smentita senza aver dato prima la notizia che si vorrebbe correggere. Mi riferisco al fatto che non mi pare alcun giornale abbia pubblicato la notizia della bocciatura della richiesta di aspettativa presentata dal nominato segretario generale della Regione Sardegna. Oggi, con preannuncio dell’accoglimento del ricorso (evidentemente il giornale ha ottime informazioni tra i magistrati), si pubblica la notizia secondo la quale a metà ottobre tutto si risolverà. Amen. La Nuova dà la notizia di

un processo in corso contro funzionari dell’Università di Sassari che avrebbero guardato senza motivo i dati dello studente Solinas. Siamo orgogliosi di noi stessi: noi raccontiamo Solinas senza spiarlo, cosa antipaticissima, perché lo conosciamo a memoria e vediamo le sue tracce sul terreno di gioco della politica perché sono evidenti. Resta un fatto: diviene paradossale che sia processato chi illegittimamente ha guardato i dati di Solinas e non chi protegge dalla semplice lettura la sua tesi. Questa è l’Italia, un impiccato al giorno toglie il medico di torno. Oggi, almeno L’Unione descrive il putiferio in cui la Sardegna è precipitata nei porti e negli aeroporti.

https://www.sardegnaeliberta. it/linformazione-in-sardegna-segue-il-manuale-dello-gnorri/ Siamo isolati. Il problema è la memoria. Non si ricorda più il perché, che ha una data precisa e un responsabile preciso che cade sotto il nome di Solinas, il quale appena eletto e insediato devastò il duro lavoro fatto dalla Giunta Pigliaru sulla continuità territoriale. e perché lo fece? Perché si sporcò la mutanda dinanzi a un ventilato ricorso da parte di Ryanair, la compagnia che in questi giorni di annullamento dei voli Alitalia fa pagare per le prenotazioni last minute un pacco di soldi. Ma questo non si racconta. E allora io mi butto in letteratura. Alessandro Zorco è un giornalista che ha scritto Come un brezza leggera,

Abbà Edizioni, 22 euro. È un libro che avrebbe bisogno di una nuova edizione, come accadde a Nuovo Cinema Paradiso, perché ha un’ambizione, quella della costruzione di un mondo col solo linguaggio piuttosto che con l’azione narrata, che non riesce a centrare pienamente per assenza del troppo pieno, cioè di quel meccanismo regolatore che ti sa dire quando stai coprendo il meglio di te con l’eccessivo uso di te. Ma è un libro originale in Sardegna, un libro sulla potenza del gioco di parole, sull’ironia, sul calembour, sullo sguardo straniato con la sola inversione di una sillaba. Un maestro del genere fu Umberto Eco. Celebre il suo Silvio Pellusconi, Le mie televisioni, oppure, l’altra, magnifica, Cazzandra. Profetessa che non ne indovina una. Su questa lunghezza d’onda, in un libro che vuole essere onirico ma che non ci riesce per l’eccessiva voglia di prendere in giro il mondo sardo conosciuto, trasfigurandolo in un mondo di favola che di favoloso non ha nulla tanto è reale, si stagliano i giochini sillabici. Per cui si va dal blasfemo Spirito Sardo che spira dove vuole, allo stendardo dei Quattro morti, dal baccalaurearsi di lì a poco. Con minzione d’odore, all’agenzia giornalistica Ansia, dall’elfico Qui, in mezzo alle contrade, narfi e puttarde (segue pagina 4)

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(segue dalla pagina 3) consumano gatti osceni, alle star dell’archeoporno Mutanda Pozzi, Marina Fraintese, Rocco Manfredi e Cipollina che solo i cinquantenni o giù di lì sanno ormai chi erano. In mezzo a questo tripudio del cazzeggio (che è pur sempre un’arte e un grande esercizio di libertà), distinto in aulico e plebeo, ilare e mesto, spicca il capitolo 46, intitolato Lo gnorri. Tutto il libro, in verità, è un atto d’accusa al sistema dell’informazione in Sardegna, ma questo capitolo è degno di nota. Non tanto perché nei precedenti si è parlato di RaiSuola; non tanto perché i redattori del giornale si chiamano Calloni e Frejus; quanto perché genialmente vi si legge che il manuale da cui studiare per fare i giornalisti si intitola Lo gnorri. Ci vuole intelligenza per pensare una cosa del genere, così semplice e così perfettamente aderente alla realtà. Fare finta di non sapere, questa è la suprema abilità dello gnorri e come non ricordare un grande calembourista come Roberto Gervaso che ha scritto: c’è chi scrive per dire ciò che non sa e chi per nascondere ciò che sa. In questi giorni di evidente emersione dell’emergenza trasporti e sanità, si dà conto delle proteste ma si evita accuratamente di raccontare le responsabilità, si finge di non sapere per non dire ciò che si sa. Paolo Maninchedda

FIORENZO SERRA L

avorava a un progetto, Fiorenzo Serra, una di quelle idee che nascono da una instancabile passione per il lavoro e per il cinema, ma anche dal desiderio di riappropriarsi di un’opera girata negli anni Sessanta per darle nuovo vigore, arricchirla di immagini e contributi, offrirle l’opportunità di confrontarsi con le moderne tecnologie, come il digitale, e proporla a un pubblico nuovo. Il documentarista sardo voleva rimettersi a lavorare al suo “L’ultimo pugno di terra”, film nato “come contributo intellettuale al primo Piano di Rinascita”, con la collaborazione di alcuni dei più importanti intellettuali sardi: Antonio Pigliaru, Emilio Lussu, Manlio Brigaglia, Giuseppe Fiori, Michelangelo Pira, Salvatore Mannuzzu, Luca Pinna e con la supervisione di Cesare Zavattini. Fiorenzo Serra se ne è andato, a ottantaquattro anni, prima di riuscire a realizzare il progetto per cui era pronto a trasferirsi a Roma per chiudersi in una sala montaggio e rimettersi a lavorare sul film che, nel 1966, gli aveva consegnato il premio Agis al Festival dei Popoli di Firenze, una delle più prestigiose vetrine internazionali del cinema documentario. La Sardegna perde un grande documentarista che, negli anni Cinquanta e Sessanta, seppe cogliere e mostrare con il suo cinema sociale ed etnografico le con-


traddizioni e i mutamenti dell’Isola. Fiorenzo Serra era nato a Porto Torres nel 1921 e aveva studiato Scienze naturali all’Università di Firenze. Si considerava “un vero autodidatta” del cinema e proprio sull’Arno aveva girato i suoi primi documentari come la “Barca sul fiume”. In Sardegna era tornato nel 1945 e, dopo qualche anno di lavoro all’Università, aveva deciso di dedicarsi a tempo pieno al cinema. Dal 1949 al 1982 ha girato 58 cortometraggi, in gran parte dedicati alla cultura tradizionale della Sardegna. Ricordiamo “Alba sulla Nurra”, “San Co-

stantino”, documentario sull’Ardia di Sedilo, “Nei paesi dell’argilla”, descrizione del Campidano di Oristano, “Fame di pietre” sulla costruzione di nuove strade nelle zone delle bonifiche agrarie della provincia di Cagliari, “Artigiani della creta” sulla produzione artigianale e la cultura materiale dell’argilla, “Desulo”. Molti documentari furono prodotti o finanziati dalla Regione o da enti regionali come l’Etfas, l’attuale Ersat, anche se Fiorenzo Serra difese sempre la sua libertà di espressione. Accadde anche per “l’Ultimo pugno di terra” che la richiesta di girare questa opera arrivasse

Fonti: Regione.Sardegna.it Film Festival Fiorenzo Serra

dall’assessorato alla Programmazione, che “voleva un documentario celebrativo del primo Piano di rinascita”, racconta Fiorenzo Serra in un’intervista al critico cinematografico Gianni Olla: “Proposi di documentare la situazione attuale, di “fermare il tempo” con il cinema, di riflettere sulla memoria della Sardegna, prima di intraprendere il cambiamento”. Il regista iniziò a girare nel 1960 e nel 1964 il film fu presentato in anteprima alla Giunta regionale al cinema Fiamma. “Il presidente della giunta Efisio Corrias – ricordava Serra – mi avvicinò e mi disse: complimenti per la qualità tecnica ed artistica delle riprese, ma sul contenuto dovremo riparlarne. Sembrava molto seccato, non tanto per le immagini, quanto per l’impostazione generale, che era sempre dubbiosa, interrogativa: mostrava il cambiamento, ma senza eccessivi ottimisti, senza panegirici”. Dubbi che volevano fare del bene alla Sardegna, ieri come oggi. Nel 1968 assume l’incarico di preside del neonato Istituto d’Arte di Nuoro e nel 1973 ad Alghero, dove istituì il corso di grafica. A lui è dedicato il Film Festival Fiorenzo Serra con il relativo Concorso “Fiorenzo Serra” per film e documentari etnografici che si tine dal 2015 a Sassari.

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Foto unionesarda

LA DEA MADRE DI TINO NIVOLA

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i presentò come “Costantino Nivola, sardo”, queste del resto erano all’epoca le mie uniche credenziali». E’ il 1946. A fare le presentazioni in un ristorante nel cuore di Manhattan è Jose Luis Sert, architetto. Al cospetto del grande maestro di Orani c’è il numero uno: Charles Edouard Jeanneret, per tutti Le Corbusier. Il più grande architetto al mondo aveva varcato la Grande Mela come delegato per la selezione del sito per realizzare il palazzo di vetro delle Nazioni Unite. Antine, come amava farsi chiamare Nivola, e Le Corbusier non parlano molto: si intendono con gli occhi, tra i due è subito chimica dell’arte. Qualche tempo dopo, infatti, si ritrovano per strada: Le Corbusier riconosce al volo Nivola. Lui, il sardo a New York, vede il maestro stanco e lo invita a casa sua, ancora modesta, ma accogliente. L’ambasciatore di Orani nel mondo rievoca quel giorno: «Dopo aver salutato mia moglie nel suo modo cortese, quasi ottocentesco, si è rivolto a me con un sorriso di approvazione e mi ha detto: “Monsieur Nivola, lei ha una bella famiglia che entra nel contenuto della sua arte. Hai talento». E’ lì che inizia una storia straordinaria che segnerà

la vita artistica di due personaggi esclusivi dell’architettura, dell’arte e del “modernismo”. Racconta Nivola: «…Con un Bourbon in una mano e un taccuino nell’altra ci siamo seduti al tavolo rotondo. Davanti a un vaso di fiori freschi, sotto lo sguardo angelico e divertito di mio figlio, è iniziato il tutorial: un esclusivo dialogo didattico tra me e Le Corbusier». Sono trascorsi più di settant’anni dall’inizio di quella storia straordinaria intrecciata d’arte tra il paesino di Orani e i grattacieli di Manhattan. Ora i due protagonisti rimbalzano nuovamente sul proscenio mondiale grazie ad un progetto che da qualche ora sta spopolando nel sistema internazionale dell’architettura innovativa, sperimentale e avveniristica. Un mix esplosivo di design, innovazione e arte messo nero su bianco da uno studio di architettura polidimensionale con residenza fiscale ad Olbia, base operativa in Umbria e diramazione internazionale ad Istanbul, nel cuore della Turchia. A capo, insieme alla collega turca Öznur Pinar Çer, c’è Danilo Petta, un sardo geneticamente non modificato, madre di Iglesias, padre di Olbia. Le riviste internazionali, milioni e milioni di visitatori in poche ore, hanno rilanciato come uno tsunami il


progetto che lo studio Mask Architects ha concepito traendo ispirazione dalla più grande opera di Nivola, “La Madre”. Una rivoluzione progettuale che i commentatori più accreditati paragonano all’avvento architettonico proprio del grande amico di “Antine”, il grande Le Corbusier. Il primo impatto è avveniristico. Ad una lettura più attenta e ragionata emergono, con una forza dirompente, il tratto identitario del progetto, le linee architettoniche e artistiche, il design di efficacia straordinaria e soprattutto l’innovazione concettuale della realizzazione. Il progetto che Danilo Petta e il suo studio hanno presentato alla comunità scientifica internazionale è la prima struttura al mondo stampata in 3D, in acciaio. In pratica case modulari per i visitatori del Museo Nivola, i turisti e gli artisti che si recheranno a Orani, il paese natale del grande maestro sardo. Il nome del progetto balzato agli onori delle riviste mondiali specializzate è emblematico: “Exosteel Mother Nature”. “Madre Natura ExoAcciaio” è il primo modello di architettura e design al mondo ad utilizzare un sistema di costruzione con “esoscheletro” in acciaio stampato in 3D che supporta e distribuisce tutti gli elementi dell’edificio, utilizzando una inedita tecnica costruttiva che ha preso il nome di “Exosteel”.

A raccontarla è Danilo Petta, architetto di nascita, vita da designer, sardo senza confini. Il Ministero degli Esteri lo ha appena nominato Ambasciatore 2021 del Design italiano nel mondo e da quest’anno figura tra i primi 40 designer in Europa. Lui per professione disegna i “preziosissimi” orologi della “Bulgari”, una delle più grandi potenze al mondo nel campo dei gioielli da mille e una notte, ora, coniugando la modernità del design con il fascino dell’identità, ha firmato un progetto che molti già considerano rivoluzionario. Le sue parole raccontano il viaggio intrapreso per varcare un orizzonte sino ad oggi inesplorato: «Per noi è stata una sfida esaltante. Mai ci saremo aspettati un riscontro internazionale di questa portata per un progetto sul quale abbiamo lavorato tanto per mettere insieme ingegneria strutturale civile, disegno industriale e architettura. Un’opera che abbiamo voluto dedicare alla terra di Sardegna, capace di aprirsi al mondo e di traguardare i più moderni orizzonti, proprio come fece il Maestro di Orani». «Alla base di tutto – racconta Petta - abbiamo messo l’identità artistica e culturale di Nivola, con quella sua straordinaria opera de “La Madre”. (segue pagina 8)

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Foto museonivola

(segue dalla pagina 7) Abbiamo utilizzato quei tratti artistici unici e straordinari per realizzare quanto di più moderno e innovativo si potesse concepire, a partire dal primo edificio realizzabile con stampa tridimensionale in acciaio». Il tutto si basa su “esoscheletro” d’acciaio, seguendo la linea artistica e identitaria della più importante opera di Nivola. «In questo progetto per Orani, utilizzando le tecniche più moderne, abbiamo cercato di armonizzare i due diversi concetti di Natura e Madre. Vogliamo che i nostri moduli abitativi siano in grado di aprire e riunire le comunità, nonché di creare una sorta di influenza artistica in tutto il design. Orani può diventare un’icona mondiale, per essere ammirata da lontano, così come dall’interno del paese, come visualizzazione di opere d’arte e monumenti. La nostra ambizione è trarre somiglianza dalla Madre Natura del grande maestro Nivola». Il progetto, che sta facendo parlare di Orani e della Sardegna nel mondo, è stato concepito per diventare un “punto di riferimento vivente”, in connessione con il patrimonio locale, a partire dal Museo Nivola. «Pensiamo – dice Danilo Petta - a questo progetto come un nuovo elemento architettonico per le aree sociali, espositive, abitative e turistiche di Orani.

Una combinazione di spazio vivibile e spazio socievole, distribuita sui diversi livelli del terreno e in vari moduli». L’obiettivo è sintetizzato: «Miriamo a integrare architettura, arte e tecnologia in questo progetto museale vivibile. Il nostro obiettivo è preservare e proteggere il patrimonio di Orani, dare il grande valore che merita a Costantino Nivola e al suo lavoro e continuare la sua eredità utilizzando tecniche moderne e il nostro stile integrato nel design». Ogni edificio è stato progettato come “autosostenibile” e può fornire risorse energetiche anche alla rete cittadina. Al centro di ogni edificio

ci sarà una “Torre dell’Energia” che fornirà tutta l’elettricità naturale generata dal sole e dal vento di Barbagia. Si realizzerà mai? Per adesso il 28 settembre prossimo ad Amsterdam si inizia a progettare la realizzazione di un prototipo di dimensioni ridotte, poi si vedrà. L’accordo è stato già raggiunto con la MX3D olandese, un laboratorio robotico in grado di stampare l’acciaio in forma tridimensionale. Il progetto è stato concepito per un pendio di Orani, utilizzando lo scenario naturale del paese. La storia, la lezione e l’evoluzione artistica e innovativa dei grandi illuminati, Nivola e Le Cor-

busier, dunque, viaggiano ancora una volta ai massimi livelli internazionali. Le più prestigiose riviste mondiali di architettura, da World Architecture a Design Boom, da Amazing Architecture a Wired, da giorni non parlano che di Orani e della Sardegna. Un proscenio internazionale per un progetto all’avanguardia. Ora spetta alle istituzioni valutare. Le “suites” di “Madre Natura”, identitarie e straordinariamente innovative, sono state ideate e progettate per Orani ma, se non si realizzeranno in terra sarda, seguiranno le orme lontane di Antine Nivola, artista di mondo, senza confini. Mauro Pili


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22 settembre 1885, nasce Adelasia Cocco, il primo medico condotto donna in Sardegna e in Italia Nata a Sassari nel 1885, Adelasia (un nome che ricorda l’ultima giudicessa di Torres e regina di Sardegna) è figlia di una famiglia colta: il padre è l’intellettuale progressista Salvatore Cocco Solinas, scrittore e studioso amico di Grazia Deledda e di Angelo De Gubernatis. Per Adelasia le parole del professor Gughetti “nessuna donna è in grado di raggiungere un posto eminente nella professione medica” sono un vento flebile, che non spezza la sua voglia di rincorrere

Foto ainnantis

ADELASIA COCCO una professione che sente tagliata su misura delle sue conoscenze e inclinazioni. Decisa a diventare medico, in un Paese come l’Italia, che contava ai primi del Novecento un pugno di laureate in Medicina (tra cui Anna Kuliscioff e Maria Montessori) si iscrive, nel 1907, alla prestigiosa facoltà di Medicina dell’Università di Pisa. Studia, supera esami, e sceglie di andare oltre il microscopio: la sua passione è infatti esercitare la professione medica, e nel 1910, rientrata in Sardegna, si laurea in Medicina, seconda donna dell’Isola dopo Paola Satta, con una tesi dal titolo “Potere autolitico

del siero di sangue come contributo alle reazioni immunitarie”, sotto la guida del professore Luigi Zoia, direttore dell’Istituto di patologia e clinica medica dell’Università di Sassari. Nel 1914 presenta la domanda per diventare medico condotto in Barbagia. Nei primi anni della vita professionale, a Nuoro (dove aveva seguito il marito veterinario) la giovane dottoressa, che deve conciliare famiglia e lavoro, si scontra con l’ostracismo della corporazione medica maschile, con la diffidenza di una parte dell’opinione pubblica e con la resistenza delle autorità locali. Mai nessuna prima di lei

aveva osato farlo, e davanti a quella richiesta così “irriverente e spudorata” il prefetto di Nuoro rifiuta di firmare il decreto di nomina. (sic) Ma è rivolta e il valore di Adelasia trova il giusto riconoscimento in una società in cui iniziano a germogliare i primi semi dell’istruzione femminile. Rotti gli indugi, i consiglieri comunali di Nuoro le assegnano un posto nel vecchio rione di Seuna, dove ben presto la giovane dottoressa conquista la fiducia della gente. A cavallo, scortata da un assessore comunale, attraversa regioni deserte e pericolosi guadi per prestare assistenza. Guardandosi indietro, a metà degli anni Cinquanta, la dottoressa Cocco (medico curante di Attilio Deffenu e amica personale del pittore Antonio Ballero e Sebastiano Satta) ricorderà la sua straordinaria esperienza in Barbagia, ma anche le difficoltà. “Non è stato facile essere accettata dalla società. C’erano troppi tabù da abbattere, ho dovuto lottare contro tutti, in un ambiente ostile che voleva il sesso debole relegato tra i fornelli di casa”. “Ho vissuto – scriverà – un’esperienza bellissima a contatto con i poveri, i contadini, i pastori, quasi in terra di missione. Alla fine però ebbi la stima della popolazione”. La sfida continua, e nel 1915 (segue pagina 10)

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(segue dalla pagina 9) Adelasia chiede ed ottiene il posto del medico condotto di Lollove (piccolo paese vicino a Nuoro) Andrea Romagna, ferito a morte in un agguato. Prende in cura i 400 abitanti del piccolo paese sperduto tra i monti: scortata sempre da un assessore a cavallo, è il medico che batte strade polverose curando corpo e spirito e portando conforto e presenza in una terra poverissima, minata da banditi e aspre vendette. Ma non finisce qui, Adelasia brucia ancora una volta le tappe e diviene, nel 1919, la prima donna a prendere una patente automobilistica in Sardegna. È accusata di compiacenza quando redige il certificato medico per l’amica Mariangela Maccioni, insegnante nuorese coraggiosa oppositrice del fascismo, in cui attesta che la maestra è malata e “non può prendere parte a cerimonie che abbiano carattere emotivo”. Svolse una costante attività di educazione sanitaria in qualità di Ufficiale sanitario a Nuoro nel 1928, e come direttrice dell’Istituto provinciale di Igiene e Profilassi, nomina questa del 1935. Si spegne in una serena vecchiaia nel 1983, all’età di 98 anni. Dalla sua laurea è passato quasi un secolo. Venticinque anni dopo in Italia c’erano soltanto 367 donne iscritte all’al-

bo dei medici; dopo un altro quarantennio in Italia le donne erano soltanto il 12% di tutti i medici e bisogna attendere ancora otto anni per vedere una donna (la famosa Rita Levi Montalcini)ricevere il Nobel per la Medicina: siamo al 1986. Oggi le mediche costituiscono il 37% delle iscrizioni all’Albo e il 64% dei medici sotto i 35 anni, ma spesso sono ancora vittime di pregiudizi di genere, tanto ai vertici, quanto in realtà di frontiera, nelle guardie mediche dei piccoli Comuni. In Sardegna Adelasia Cocco è praticamente sconosciuta. Nella toponomastica sarda è praticamente inesistente.

Le è stata intitolata una strada a Nuoro, vicino alla Cattedrale di Santa Maria della Neve, tra via Matteotti e via Antonio Mereu, e a Sassari di recente le viene dedicato un parco sportivo collegato con la pista ciclabile della Buddi Buddi. Vite come quella di Adelasia Cocco, di donne che hanno lottato, che non si sono arrese, che hanno affermato i loro diritti, non appartengono soltanto al passato ma ci ricordano da dove si è partiti e cosa resta ancora da fare per un cambiamento culturale profondo che possa garantire uguali opportunità e parità di condizioni tra uomini e donne. Per questo motivo andrebbero ricordate sem-

pre e ovunque. Ricordiamo Adelasia Cocco il 22 settembre, per una nostra libera scelta, non perché sia nata realmente in questo giorno, infatti la sua reale data di nascita non è nota, a parte l’anno naturalmente. Ma ci sembra importante per i tanti incredibili protagonisti e protagoniste della storia di Sardegna per i quali non è dato sapere la data precisa della loro nascita, dedicare un giorno della nostra rubrica, laddove non ritroviamo altre notizie di rilievo. Ornella Demuru Fonti: L’Unione Sarda La Nuova Sardegna https://www.facebook. com/ainnantis


Foto di @slowfood a Sardegna, la terra dell’albero di Eleonora d’Arborea. Una terra conosciuta per le sue bellezze naturalistiche, per il suo splendido mare, per le sue asperità e per la sua cucina così unica e particolare come spesso accade quando si parla di

isole. Anche Slow Food, finalmente, da un po’ di tempo ha intensificato la sua attività di ricerca in questa regione per scoprire altre piccole eccellenti realtà enogastronomiche che trovano le loro radici in questa territorio. In una terra che conta un milione e mezzo di abitanti e tre milioni di pecore i nuovi presidi Slow Food non potevano che riguardare tre formaggi di pecora: il pecorino dell’Alta Baronia, La fresa di Ittiri e l’Axridda di Escalaplano. Il Pecorino dell’alta Baronia Nella zona Nord Orientale della Sardegna, all’interno del parco naturale Oasi di Tepilora, Gianni Mele e suo padre producono il Pecorino dell’Alta Baronia: un formaggio a latte crudo di forma cilindrica, il cui peso varia dai 3 ai 10 chili. La “storia” del Pecorino dell’Alta Baronia è iniziata 12 anni fa quando Gianni Mele ha deciso di lasciare il suo posto fisso da agente penitenziario: “Sentivo che mancava qualcosa nella mia vita, così ho chiesto una

TRE FORMAGGI

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mano a mio padre, che ha sempre fatto il pastore e prodotto i formaggi, e ho imparato anch’io. I nostri padri facevano questo lavoro con passione, ognuno produceva il proprio formaggio imparando dai nonni e bisnonni quei piccoli segreti che caratterizzano il sapore di ogni forma. Io ho studiato, ho compreso che il formaggio è fatto di tanti tasselli, dal pascolo agli attrezzi utilizzati, dalla salamoia al modo in cui lo si lo affina. Il mio vuole essere un formaggio naturale che racconti l’identità e le unicità del territorio dove nasce, come i lentischi e i corbezzoli di cui si cibano gli ovini”. Così oggi il pecorino di Gianni, prodotto sia con stagionatura di oltre sei mesi che semistagionato, è uno dei tre nuovi presidi Slow Food sardi. La fresa di Ittiri Un pecorino fresco, unico nel suo genere, è quello prodotto da Rosa Canu che a Ittiri, una piccola cittadina tra Sassari e Alghero, ha deciso di distaccarsi dalla tradizione del luogo in cui da sempre si produce e si consuma pecorino ,ma rigorosamente stagionato, per produrne uno fresco. Fresa deriva dal latino “fresus”, ovvero schiacciato. Questo formaggio, infatti, nella sua lavorazione viene pressato per evitare che le alte temperature dell’estate lo facciano gonfiare, (segue pagina 12)

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Foto Valerie Ganio Vecchiolino.

(segue dalla pagina 11) in questo modo lo si può portare in tavola in soli 20 giorni. “La consistenza è molto morbida e il sapore è più delicato di quello a cui si è abituati pensando al pecorino sardo, con una punta acidula”. La passione di Rosa per la fresa arriva dalla madre, che come molte donne di Ittiri si prendeva tradizionalmente cura della fresa: “Una quarantina di anni fa, mio padre decise di cominciare a lavorare il latte in prima persona, rinunciando a darlo ai grandi caseifici industriali della zona. Continuiamo a produrlo seguendo la tradizione, così come lo facevano mio padre e gli altri pastori della zona”, spiega Rosa Canu. Il piccolo caseificio della famiglia Canu è l’unico a vendere la fresa di Ittiri, gli altri pastori della zona, invece, lo producono solo per il consumo familiare. “Mi auguro che, grazie al Presidio, altri pastori decidano di seguirci per valorizzare questo formaggio, assicurando reddito al territorio e tramandando una tradizione così particolare, conclude Rosa”. Axridda di Escalaplano Questo nuovo presidio Slow Food, è un formaggio unico al mondo, dal colore paglierino e ricoperto di una crosta dura. Prodotto usando latte di ovini allo stato semibrado, senza l’utilizzo di mangimi e seguendo una la lavo-

razione molto particolare. L’Axridda deve la sua origine alle particolari condizioni climatiche del territorio. “Quando le forme di pecorino sono già piuttosto compatte, dopo almeno cinque mesi, vengono ricoperte di argilla estratta da una cava poco distante da Escalaplano, così si conservano fino a tre anni senza mai diventare troppo asciutte” spiega Rino Farci, che produce e vende questo formaggio da tre anni. “Questo formaggio era una pratica comune in paese, ma a un tratto nessuno ha più voluto continuare, alimentando il rischio che scomparisse per davvero. Allevare pecore, d’altronde, non è facile. La pastorizia vive una crisi decennale: molti pastori sono nelle mani di alcuni gruppi industriali che, invece di valorizzare il latte ovino, sfruttano il loro lavoro corrispondendo prezzi bassissimi. Oltretutto spesso pastorizzano il latte, ma così facendo il pecorino si omologa, diventa tutto uguale, e si cancellano di fatto le peculiarità dei territori”, prosegue Farci. Quello che caratterizza il l’Axridda di Farci, invece, è il forte legame con il territorio Rino, infatti, alleva le sue pecore in modo biologico. “ Mediamente abbiamo due pecore a ettaro. Credevo di essere l’unico a pensarla in un certo modo e invece il riconoscimento come Presidio Slow Food mi ha fatto capire che molte persone stanno dalla nostra parte”.


Foto Valerie Ganio Vecchiolino.

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opo diciotto anni la sagra del Cuscus si trasforma in un Festival Internazionale dedicato al piatto tipico di un isola dalle profonde radici tabarchine. Ecco il programma ufficiale:

Venerdì 1 Ottobre 10:00 - 21: Villaggio espositivo di produzioni tipiche 11:00 Laboratorio del Cuscus di Carloforte a cura di Carolina Rossino (@ricettedicaro) 11:30 Laboratorio del Cuscus Mediterraneo a cura dello chef della Tunisia 12:00 Le varianti di cuscus per le intolleranze alimentari a cura di Noemi Pais (Adelante in cucina) 11:00 - 12:00 Due chiacchere con Rita Pomata nutrizionista 12:00 - 20:00 Degustazioni di Cuscus e specialità tabarchine da asporto 16:00 - 20:00 Visite guidate a cura della guida Natalia Lapicca

Sabato 2 Ottobre 10:00 - 21: Villaggio espositivo di produzioni tipiche

11:00 Laboratorio del Cuscus di Carloforte a cura di Carolina Rossino (@ricettedicaro) 11:30 Laboratorio del Cuscus Mediterraneo a cura dello chef del Senegal 12:00 Le varianti di cuscus per le intolleranze alimentari a cura di Noemi Pais (Adelante in cucina) 11:00 - 12:00 Due chiacchere con Rita Pomata nutrizionista 12:00 - 20:00 Degustazioni di Cuscus e specialità tabarchine da asporto 16:00 - 20:00 Visite guidate a cura della guida Natalia Lapicca

Domenica 3 Ottobre

CASCÀ 2021 IL FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL COUS COUS DI CARLOFORTE

Dal 1mo al 3 ottobre 2021 Mostra sull’epopea dei galanzieri a cura di Antonello Falchi dalle 11 alle 20:00 Arco di Via Solferino Animazioni per grandi e piccini dalle 16 alle 20:00 Momenti Musicali dalle 20:00 alle 21:00

10:00 - 21: Villaggio espositivo di produzioni tipiche 11:00 Laboratorio del Cuscus di Carloforte a cura di Carolina Rossino (@ricettedicaro) 11:30 Laboratorio del Cuscus Mediterraneo a cura dello chef del Senegal 12:00 Le varianti di cuscus per le intolleranze alimentari a cura di Noemi Pais (Adelante in cucina) 11:00 - 12:00 Due chiacchere con Rita Pomata nutrizionista 12:00 - 20:00 Degustazioni di Cuscus e specialità tabarchine da asporto 16:00 - 20:00 Visite guidate a cura della guida Natalia Lapicca. #cascà #carloforte #discoverycarloforte

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150 anni dalla nascita di Grazia Deledda, la Repubblica celebra una donna di grande talento, una scrittrice sensibile e profonda, una personalità che ha dato lustro al Paese fino a conseguire - unica donna italiana - il Premio Nobel per la letteratura nel 1927».

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Così il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in una dichiarazione. «Sentiva la forza delle proprie radici afferma Mattarella - nella Sardegna che le ha dato i natali e l’ha resa partecipe di quell’umanità che ha poi descritto con realismo nelle sue storie intense e drammatiche. Ha provveduto per gran parte da sola alla propria formazione culturale e anche all’avvio della carriera di scrittrice: proprio la personale tenacia è stata ragione non secondaria della sua affermazione e dell’apprezzamento che ha saputo conquistare tra i letterati europei. Con impegno e costanza ha continuato a lavorare e a perfezionare le capacità espressive, anche dopo i primi romanzi di successo. Questo le ha consentito di sviluppare, nei racconti, il suo ricco mondo interiore». La narrazione di Grazia Deledda, aggiunge il presidente della Repubblica, « aveva una forte carica

GRAZIA DELEDDA

etica, che ha contribuito a rendere universali il dolore, il calore, i sentimenti dei personaggi tratti dalla sua terra. La sua visione dell’esistenza umana, unita alle qualità delle opere, venne pienamente riconosciuta nelle motivazioni del Nobel, che esaltarono »la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale«. Una eredità che rende ancor più ricco il patrimonio della letteratura italiana». (ANSA).

https://www.lanuovasardegna.it/nuoro/cronaca/2021/09/27/news/ mattarella-celebra-grazia-deledda-una-donna-di-grande-talento

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razia Maria Cosima Damiana Deledda, nota semplicemente come Grazia Deledda o, in lingua sarda, Gràssia o Gràtzia Deledda (Nuoro, 27 settembre 1871 – Roma, 15 agosto 1936), è stata una scrittrice italiana vincitrice del Premio Nobel per la letteratura 1926. È ricordata come la seconda donna, dopo la svedese Selma Lagerlöf, a ricevere questo riconoscimento, e la prima italiana Quarta di sette tra figli e figlie, in una famiglia benestante. Il padre, Giovanni Antonio Deledda, laureato in legge, non esercitò la


Fotto leviedellasardegna.eu

professione. Agiato imprenditore e possidente, si occupava di commercio e agricoltura; si interessava di poesia e lui stesso componeva versi in sardo; aveva fondato una tipografia e stampava una rivista. Fu sindaco di Nuoro nel 1863. La madre era Francesca Cambosu, donna di severi costumi; dedita alla casa, educherà lei Grazia. Dopo aver frequentato le scuole elementari fino alla classe quarta, Grazia venne seguita privatamente dal professore Pietro Ganga, un docente di lettere italiane, latine, greche, che parlava francese, tedesco, portoghese, spagnolo. Ganga le impartì lezioni di base di italiano, latino e francese. Proseguì la sua formazione totalmente da autodidatta. Dovette affrontare un lungo corpo-a-corpo per dare forma alle aspirazioni profonde, per rispondere alla voce interiore che la chiamava irresistibilmente alla scrittura, soprattutto contro la piccola e chiusa società di Nuoro in cui il destino della donna non poteva oltrepassare il limite di «figli e casa, casa e figli». Grazia reagì, rivelando così da protagonista il travaglio della crisi epocale del mondo patriarcale (contadino e pastorale), incapace ormai di contenere e di promuovere le istanze affioranti nelle nuove generazioni.

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ono nata in Sardegna. La mia famiglia, composta di gente savia ma anche di violenti e di artisti primitivi, aveva autorità e aveva anche biblioteca. Ma quando cominciai a scrivere, a tredici anni, fui contrariata dai miei…. Ho guardato per giorni, mesi ed anni il lento svolgersi delle nuvole sul cielo sardo. Ho mille e mille volte poggiato la testa ai tronchi degli alberi, alle pietre, alle rocce per ascoltare la voce delle foglie, ciò che dicevano gli uccelli, ciò che raccontava l’acqua corrente. Ho visto l’alba e il tramonto, il sorgere della luna nell’immensa solitudine delle montagne, ho ascoltato i canti, le musiche tradizionali e le fiabe e i discorsi del popolo. E così si è formata la mia arte, come una canzone, o un motivo che sgorga spontaneo dalle labbra di un poeta primitivo”.

Il bisogno di realizzarsi in spazi sociali aperti e vasti, la progressiva coscienza delle proprie capacità e il confronto con modelli comportamentali diversi da quelli imposti la poteva indurre ad assumere altre identità. Ma questo rischio era lontano dai suoi intendimenti. Se l’identità da un lato non può pensarsi stagnante, immobile e senza relazioni nutritive, dall’altro assumere l’identità di un altro significa perdere la propria, dare l’identità a un altro significa sottrargli la sua. Grazia ha seguito una strada esemplare: ha fatto esplodere le contraddizioni di una società ormai in declino, ma senza tradirne la radice identitaria profonda che la distingue da tutte le altre. La sua ribellione è stata interpretata come un «tradimento». Invece, tutta la sua opera testimonia l’opposto. Importante per la formazione letteraria di Grazia, nei primi anni della sua carriera da scrittrice, fu l’amicizia con lo scrittore, archivista e storico dilettante sassarese Enrico Costa, che per primo ne comprese il talento. Per un lungo periodo scambiò delle lettere con lo scrittore calabrese Giovanni De Nava, che si complimentava del talento della giovane scrittrice. Queste missive poi si trasformarono in lettere d’amore (segue pagina 16)

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(segue dalla pagina 15) in cui si scambiavano dolci poesie. Poi, per l’assenza di risposte da parte di Giovanni per un lungo periodo, smisero di scriversi. La famiglia venne colpita da una serie di disgrazie: il fratello maggiore, Santus, abbandonò gli studi e divenne alcolizzato; il più giovane, Andrea, fu arrestato per piccoli furti. Il padre morì per una crisi cardiaca il 5 novembre 1892 e la famiglia dovette affrontare difficoltà economiche. Quattro anni più tardi morì anche la sorella Vincenza.. Nel 1888 inviò a Roma alcuni racconti (Sangue sardo e Remigia Helder), pubblicati dall’editore Edoardo Perino sulla rivista “L’ultima moda”, diretta da Epaminonda Provaglio. Sulla stessa rivista venne pubblicato a puntate il romanzo Memorie di Fernanda. Nel 1890 uscì a puntate sul quotidiano di Cagliari “L’avvenire della Sardegna”, con lo pseudonimo Ilia de Saint Ismail, il romanzo Stella d’Oriente, e a Milano, presso l’editore Trevisini, “Nell’azzurro”, un libro di novelle per l’infanzia. Deledda incontrò l’approvazione di letterati, quali Angelo de Gubernatis e Ruggiero Bonghi, che nel 1895 accompagnò con una sua prefazione l’uscita del romanzo “Anime oneste”. Collaborò inoltre con riviste sarde e continentali,

quali “La Sardegna”, “Piccola rivista” e “Nuova Antologia”. Fra il 1891 e il 1896 sulla Rivista delle tradizioni popolari italiane, diretta da Angelo de Gubernatis, venne pubblicato a puntate il saggio “Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna”, introdotto da una citazione di Tolstoi, prima espressione documentata dell’interesse della scrittrice per la letteratura russa. Seguirono romanzi e racconti di argomento isolano. Nel 1896 il romanzo “La via del male” fu recensito in modo favorevole da Luigi Capuana. Nel 1897 uscì una raccolta di poesie, “Paesaggi sardi”, edita da Speirani. Il 22 ottobre 1899 si trasferì a Cagliari, dove conobbe Palmiro Madesani, un funzionario del Ministero delle finanze, che sposò a Nuoro l’11 gennaio 1900. Madesani era originario di Cicognara di Viadana, in provincia di Mantova, dove anche Grazia Deledda visse per un periodo. Dopo il matrimonio, Madesani lasciò il lavoro di funzionario statale per dedicarsi all’attività di agente letterario della moglie. La coppia si trasferì a Roma nel 1900, dove condusse una vita appartata. Ebbero due figli, Franz e Sardus. Nel 1903 la pubblicazione di Elias Portolu la confer-


mò come scrittrice e l’avviò a una fortunata serie di romanzi e opere teatrali: “Cenere” (1904), “L’edera” (1908), “Sino al confine” (1910), “Colombi e sparvieri” (1912), “Canne al vento” (1913), “L’incendio nell’oliveto” (1918), “Il Dio dei venti” (1922). Da Cenere fu tratto un film interpretato da Eleonora Duse. La sua opera fu apprezzata da Giovanni Verga, oltre che da scrittori più giovani come Enrico Thovez, Emilio Cecchi, Pietro Pancrazi, Antonio Baldini. Fu riconosciuta e stimata anche all’estero: David Herbert Lawrence scrisse la prefazione della traduzione in inglese de “La madre”. La Deledda fu anche traduttrice: è sua infatti una versione in lingua italiana di “Eugénie Grandet” di Honoré de Balzac. Grazia Deledda, fuori dall’isola, era solita stringere amicizia e confrontarsi con personaggi internazionali, anche di piccolo calibro, che solevano frequentare il suo salotto. Il 10 dicembre 1927 le venne conferito il premio Nobel per la letteratura 1926 (non vinto da alcun candidato l’anno precedente, per mancanza di requisiti), «per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità

e con calore tratta problemi di generale interesse umano». La Deledda è stata la prima donna italiana a vincere il premio Nobel ed ancora la sola non solo in letteratura a tutt’oggi. Un tumore al seno di cui soffriva da tempo la portò alla morte nel 1936, quasi dieci anni dopo la vittoria del premio. Sulla data del giorno di morte c’è controversia: alcune fonti riportano il 15 agosto, altre il 16. Le spoglie della Deledda trovarono sepoltura nel cimitero del Verano a Roma, dove rimasero fino al 1959 quando, su richiesta dei familiari della scrittrice, furono traslate nella sua città natale. Da allora sono custodite in un sarcofago di granito nero levigato nella chiesetta della Madonna della Solitudine, ai piedi del monte Ortobene, che tanto aveva decantato in uno dei suoi ultimi lavori. Lasciò incompiuta la sua ultima opera, “Cosima, quasi Grazia”, autobiografica, che apparirà in settembre di quello stesso anno sulla rivista “Nuova Antologia”, a cura di Antonio Baldini, e che poi verrà edita col titolo “Cosima”. La sua casa natale, nel centro storico di Nuoro (nel rione Santu Predu), è adibita a museo. La critica in generale tende a incasellare la sua opera di volta in volta in questo o in quell’-ismo: regionalismo, (segue 18)

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(sue dalla pagina 17) verismo, decadentismo, oltre che nella letteratura della Sardegna. Altri critici invece preferiscono riconoscerle l’originalità della sua poetica. Il primo a dedicare a Grazia Deledda una monografia critica a metà degli anni trenta fu Francesco Bruno. Negli anni quaranta-cinquanta, sessanta, nelle storie e nelle antologie scolastiche della letteratura italiana, la presenza di Deledda ha rilievo critico e numerose pagine antologizzate, specialmente dalle novelle. Tuttavia parecchi critici italiani avanzavano riserve sul valore delle sue opere. I primi a non comprendere Deledda furono i suoi stessi conterranei. Gli intellettuali sardi del suo tempo si sentirono traditi e non accettarono la sua operazione letteraria, con l’eccezione di alcuni: Costa, Ruju, Biasi. Le sue opere le procurarono le antipatie degli abitanti di Nuoro, in cui le storie erano ambientate. I suoi concittadini erano infatti dell’opinione che descrivesse la Sardegna come terra rude, rustica e quindi arretrata. Più recentemente, le opere e i saggi della Deledda sono stati reinterpretati e ristudiati da altri corregionali. Tra questi si possono citare Neria De Giovanni (che pur marcando le ra-

dici sarde della Deledda le riconosce una dimensione che va oltre l’ambito geoculturale isolano), Angela Guiso (con una critica lontana dalle precedenti, più internazionale) e Dino Manca. Ai primi lettori dei romanzi di Deledda era naturale inquadrarla nell’ambito della scuola verista. Luigi Capuana la esortava a proseguire nell’esplorazione del mondo sardo, «una miniera» dove aveva «già trovato un elemento di forte originalità». Anche Borgese la definisce “degna scolara di Giovanni Verga”. Lei stessa scrive nel 1891 al direttore della rivista romana “La Nuova Antologia”, Maggiorino Ferraris: «L’indole di questo mio libro a me pare sia tanto drammatica quanto sentimentale e anche un pochino veristica se per ‘verismo’ intendiamo il ritrarre la vita e gli uomini come sono, o meglio come li conosco io». Ruggero Bonghi, manzoniano, per primo si sforza di sottrarre la scrittrice sarda al clima delle poetiche naturalistiche. Tuttavia, recentemente, altri critici la ritengono invece completamente estranea al naturalismo. Emilio Cecchi nel 1941 scrive: «Ciò che la Deledda poté trarre dalla vita della provincia sarda, non s’improntò in lei di naturalismo e di verismo... Sia i motivi e gli intrecci, sia il materiale linguistico,


in lei presero subito di lirico e di fiabesco...». Il critico letterario Natalino Sapegno definisce i motivi che distolgono Deledda dai canoni del Verismo: «Da un’adesione profonda ai canoni del verismo troppe cose la distolgono, a iniziare dalla natura intimamente lirica e autobiografica dell’ispirazione, per cui le rappresentazioni ambientali diventano trasfigurazioni di un’assorta memoria e le vicende e i personaggi proiezioni di una vita sognata. A dare alle cose e alle persone un risalto fermo e lucido, un’illusione perentoria di oggettività, le manca proprio quell’atteggiamento di stacco iniziale che è nel Verga, ma anche nel Capuana, nel De Roberto, nel Pratesi e nello Zena.» Vittorio Spinazzola scrive: «Tutta la miglior narrativa deleddiana ha per oggetto la crisi dell’esistenza. Storicamente, tale crisi risulta dalla fine dell’unità culturale ottocentesca, con la sua fiducia nel progresso storico, nelle scienze laiche, nelle garanzie giuridiche poste a difesa delle libertà civili. Per questo aspetto la scrittrice pare pienamente partecipe del clima decadentistico. I suoi personaggi rappresentano lo smarrimento delle coscienze perplesse e ottenebrate, assalite dall’insorgenza di opposti istinti, disponibili a tutte le esperienze di cui la vita offre occasione e stimolo».

È noto che la giovanissima Grazia Deledda, quando ancora collaborava alle riviste di moda, si rese conto della distanza che esisteva tra la stucchevole prosa in lingua italiana di quei giornali e la sua esigenza di impiegare un registro più vicino alla realtà e alla società dalla quale proveniva. La Sardegna, tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento, tenta come l’Irlanda di Oscar Wilde, di Joyce, di Yeats o la Polonia di Conrad, un dialogo alla pari con le grandi letterature europee e soprattutto con la grande letteratura russa. Nicola Tanda nel saggio “La Sardegna di Canne al vento” scrive che, in quell’opera di Deledda, le parole evocano memorie tolstojane e dostoevskiane, parole che possono essere estese a tutta l’opera narrativa deleddiana: «L’intero romanzo è una celebrazione del libero arbitrio. Della libertà di compiere il male, ma anche di realizzare il bene, soprattutto quando si ha esperienza della grande capacità che il male ha di comunicare angoscia. Il protagonista che ha commesso il male non consente col male, compie un viaggio, doloroso, mortificante, ma anche pieno di gioia nella speranza di realizzare il bene, che resta la sola ragione in grado di rendere accettabile la vita». (segue pagina 20)

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(segue dalla pagina 19) Negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, quelli in cui la scrittrice si dedica alla ricerca di un proprio stile, concentra la sua attenzione, sull’opera e sul pensiero di Tolstoj. Ed è questo incontro che sembra aiutarla a precisare sempre meglio le sue predilezioni letterarie. In una lettera in cui comunicava il progetto di pubblicare una raccolta di novelle da dedicare a Tolstoj, Deledda scriveva: «Ai primi del 1899 uscirà “La giustizia”: e poi ho combinato con la casa Cogliati di Milano per un volume di novelle che dedicherò a Leone Tolstoi: avranno una prefazione scritta in francese da un illustre scrittore russo, che farà un breve studio di comparazione fra i costumi sardi e i costumi russi, così stranamente rassomiglianti». La relazione tra Deledda e i russi è ricca e profonda, e non è legata solo a Tolstoj ma si inoltra nel mondo complesso degli altri contemporanei: Gor’kij, Anton Čechov e quelli del passato più recente, Gogol’, Dostoevskij e Turgenev. Attilio Momigliano in più scritti sostiene la tesi che Deledda sia “un grande poeta del travaglio morale” da paragonare a Dostoevskij. Francesco Flora afferma che «La vera ispirazione della Deledda è come un fondo di ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza, e nella trama di quei

ricordi quasi figure che vanno e si mutano sul fermo paesaggio, si compongono i sempre nuovi racconti. Anzi, poiché i primi affetti di lei si formano essenzialmente con la sostanza di quel paesaggio che ella disegnava sulla vita della nativa Sardegna, è lecito dire, anche per questa via, che l’arte della Deledda è essenzialmente un’arte del paesaggio». Su di lei scrisse prima Maksim Gor’kij e, più tardi, D. H. Lawrence. Maksim Gor’kij raccomanda la lettura delle opere di Grazia Deledda a L. A. Nikiforova, una scrittrice esordiente. In una lettera del 2 giugno del 1910 le scrive: «Mi permetto di indicarle due scrittrici che non hanno rivali né nel passato, né nel presente: Selma Lagerlof e Grazia Deledda. Che penne e che voci forti! In loro c’è qualcosa che può essere d’ammaestramento anche al nostro mužik». David Herbert Lawrence, nel 1928, dopo che Deledda aveva già vinto il Premio Nobel, scrive nell’Introduzione alla traduzione inglese del romanzo “La Madre”: «Ci vorrebbe uno scrittore veramente grande per farci superare la repulsione per le emozioni appena passate. Persino le Novelle di D’Annunzio sono al presente difficilmente leggibili: Matilde Serao lo è ancor meno. Ma noi possiamo ancora leggere Grazia Deledda, con interesse genuino».


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Parlando della popolazione sarda protagonista dei suoi romanzi la paragona a Hardy, e in questa comparazione singolare sottolinea che la Sardegna è proprio come per Thomas Hardy l’isolato Wessex. Solo che subito dopo aggiunge che a differenza di Hardy, «Grazia Deledda ha una isola tutta per sé, la propria isola di Sardegna, che lei ama profondamente: soprattutto la parte della Sardegna che sta più a Nord, quella montuosa». E ancora scrive: «È la Sardegna antica, quella che viene finalmente alla ribalta, che è il vero tema dei libri di Grazia Deledda. Essa sente il fascino della sua isola e della sua gente, più che essere attratta dai problemi della psiche umana. E pertanto questo libro, La Madre, è forse uno dei meno tipici fra i suoi romanzi, uno dei più continentali». Anche il poeta, scrittore e traduttore armeno Hrand Nazariantz collaborò alla diffusione dell’opera della Deledda in lingua Armenia occidentale traducendone due racconti che furono pubblicati sulla rivista Masis nel 1907, si tratta di “վԱՆԱԿԱՆԸ” apparso sul numero 12 e “ՍԱՐՏԻՆԻՈՅ ԶԱՏԻԿԸ” pubblicato sul numero 35. Luigi Pirandello non nascose la sua avversione per

Grazia Deledda, tanto da ispirarsi a lei e al marito per la composizione del romanzo “Suo marito”, come traspare dalla corrispondenza con Ugo Ojetti e poi dal rifiuto dell’editore Treves di pubblicarlo. È stata la stessa Deledda a chiarire più volte, nelle interviste e nelle lettere[senza fonte], la distanza tra la cultura e la civiltà locali e la cultura e la civiltà nazionali. Ma anche questo suo parlare liberamente del proprio stile e delle proprie lingue ha suscitato e suscita soprattutto oggi interpretazioni fuorvianti, e tuttavia ripropone senza posa l’intenso rapporto tra civiltà-cultura-lingua come una equazione mal risolta. In una sua lettera scrive: «Leggo relativamente poco, ma cose buone e cerco sempre di migliorare il mio stile. Io scrivo ancora male in italiano - ma anche perché ero abituata alla lingua sarda che è per se stesso una lingua diversa dall’italiana». La lingua italiana è quindi, per lei sardofona, una lingua non sua, una lingua che deve conquistarsi. La composizione in lingua italiana, per uno scrittore che assuma la materia della narrazione dal proprio vissuto e dal proprio universo antropologico sardo, presenta numerose e sostanziali difficoltà e problemi. (segue pagina 22)

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(segue dalla pagina 21) Né il dibattito recente sul bilinguismo è riuscito ancora a chiarire questo rapporto di doppia identità. Doppia identità per questa specie particolare di bilinguismo, e di diglossia che è stata per secoli la “condizione umana degli scrittori italiani non toscani; ma anche dei toscani, quando non componevano in vernacolo”. L’attività epistolare e autocorrettoria di Grazia Deledda è ben ponderata, cosa che non le impedì di scrivere in lingua italiana questa lettera del 1892 sull’italiano: «Io non riuscirò mai ad avere il dono della buona lingua, ed è vano ogni sforzo della mia volontà». Dall’epistolario e dal suo profilo biografico si evince un distinto senso di noia per quei manuali di lingua italiana che avrebbero dovuto insegnarle lo stile e che sarebbero dovuti esserle di aiuto nella formazione della sua cultura letteraria di autodidatta, di contro emerge una grande abitudine alla lettura e una grande ammirazione per i maestri narratori attraverso la lettura dei loro romanzi. Quella di Deledda era una scrittura moderna che ben si adattava alla narrazione cinematografica, infatti dai suoi romanzi vennero tratti diversi film già nei primi anni dieci del XX secolo. Nel 1916 il regista Febo Mari aveva incominciato a girare Cenere con l’attrice Eleonora Duse, purtroppo a causa

della guerra il film non fu mai concluso. Nel più recente dibattito sul tema delle identità e culture nel terzo millennio, il filologo Nicola Tanda ha scritto: «La Deledda, agli inizi della sua carriera, aveva la coscienza di trovarsi a un bivio: o impiegare la lingua italiana come se questa lingua fosse stata sempre la sua, rinunciando alla propria identità o tentare di stabilire un ponte tra la propria lingua sarda e quella italiana, come in una traduzione. Comprendendo però che molti di quei valori di quel mondo, di cui avvertiva imminente la crisi, non sarebbero passati nella nuova riformulazione. La presa di coscienza,

anche linguistica, della importanza e dell’intraducibilità di quei valori, le consente di recuperare termini e procedimenti formali del fraseggio e della colloquialità sarda che non sempre trovano in italiano l’equivalente e che perciò talora vengono introdotti e tradotti in nota. Nei dialoghi domina meglio l’ariosità e la vivacità della comunicazione orale, di cui si sforza di riprodurre l’intonazione, di ricalcare l’andamento ritmico. Accetta e usa ciò che è etnolinguisticamente marcato, imprecazioni, ironie antifrastiche, risposte in rima, il repertorio di tradizioni e di usi, già raccolto come materiale etnografico per la Rivista di tradizioni

popolari, che ora impiega non più come reperto documentario o decorativo ma come materiale estetico orientato alla produzione di senso. Un’operazione tendenzialmente espressionistica che la prosa italiana, malata di accademismo con predilezione per la forma aulica, si apprestava a compiere, per ricavarne nuova linfa, tentando sortite in direzione del plurilinguismo o verso il dialetto». Alcuni studiosi asseriscono che Deledda, benché sardofona, abbia deciso di scrivere in lingua italiana, in risposta al clima di italianizzazione e omogeneizzazione culturale, per raggiungere un più ampio mercato. Wikipedia


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ipensare i piccoli paesi della Sardegna, soprattutto quelli dell’entroterra, come borghi, località turistiche organizzate e consapevoli del proprio valore aggiunto dal punto di vista storico, culturale e ambientale: questo in sintesi l’obiettivo del “Progetto Borghi”, iniziativa nata nella Maremma Toscana e ora in procinto di diffondersi in tutto il territorio nazionale per valorizzare i piccoli centri e trasformarli in vere e proprie località turistiche. La Sardegna è stata scelta come seconda regione in cui sviluppare il progetto. A portarlo nell’Isola sono stati due destination manager, Giancarlo Dell’Orco, responsabile del Progetto Borghi, e Martino Di Martino, amministratore di Sintur – Sinergie Turistiche di Cagliari. Il 6 e il 7 ottobre si terrà il Forum Digitale dei Borghi Italiani, ma il primo incontro operativo nell’Isola si è svolto (in via telematica) il 15 settembre. A partecipare, oltre a Giancarlo Dell’Orco, Martino Di Martino e Giuseppe Melis, professore di Marketing Turistico dell’Università di Cagliari, sono stati invitati alcuni amministratori e sindaci della Sardegna: Alberto Urpi e Fabrizio Collu, Sindaco e Assessore al Turismo del Comune di Sanluri, Francesco Sanna, Sindaco di Collinas, Marco Pisanu, Sindaco di Siddi

IL FORUM DIGITALE DEI BORGHI ITALIANI Il 6 e 7 ottobre si terrà il Forum Digitale dei Borghi Italiani, una conferenza aperta a tutti i piccoli comuni. Si potranno apprendere le basi per imparare a realizzare una mappatura socio economica di un Borgo e del territorio circostante, come generare tanti nuovi posti di lavoro, come preservare e valorizzare il patrimonio esistente, come strutturare e realizzare progetti di governance turistica, e come trasformare i Borghi in prodotti turistici organizzati.

e presidente dell’Unione dei Comuni della Marmilla, Ennio Vacca, Sindaco di Masullas, Sergio Lorrai, Sindaco di Gairo, Francesco Usai, Sindaco di Ussassai, Tito Loi, Sindaco di Osini, Gianluigi Serra, Sindaco di Ulassai, Giovanni Santo Porcu, Sindaco di Galtellì e Andrea Locci, Sindaco di Tuili. Il progetto consiste nella creazione e nello sviluppo di microdestinazioni turistiche (un borgo, un paese, una località) da mettere in connessione con una rete di altre piccole realtà sparse nel territorio nazionale per lo scambio di competenze, buone pratiche e strategie. «È un’iniziativa che nasce con la convinzione che la pandemia abbia amplificato la necessità di orientare i territori e le comunità ad uno sviluppo economico e sociale che tuteli e valorizzi il patrimonio ambientale, culturale e identitario dei borghi, dei centri rurali e delle aree interne della Sardegna – dice Martino Di Martino, destination manager e amministratore di Sintur Sinergie Turistiche -. La crisi del lavoro, l’estinzione degli antichi mestieri e il fenomeno dello spopolamento possono essere arginati da azioni di marketing territoriale che saranno efficaci solo se frutto della collaborazione fra istituzioni, imprese e popolazione residente. (segue pagina 24)

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IL PROGETTO BORHI IN SARDEGNA

(segue dalla pagina 23) Lo slow tourism, quello sportivo, le attività outdoor, il turismo enogastronomico, culturale e religioso rappresentano una reale opportunità di sviluppo e rinascita per le aree interne della Sardegna. Però bisogna trasformare le intenzioni, gli slogan e le strategie in un prodotto turistico fruibile. Stiamo organizzando incontri sui territori con le istituzioni locali, le imprese, le associazioni e i residenti per proseguire le attività di ascolto, la verifica delle esigenze e la valutazione delle possibilità d’intervento anche in relazione alle opportunità di finanziamento offerte dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza». Ma quali sono gli elementi necessari perché un piccolo paese della Sardegna possa diventare una località turistica attrattiva? Lo ha spiegato ai primi cittadini a cui è stato presentato il progetto il professor Giuseppe Melis. «Nessuno si può sostituire agli abitanti dei paesi e dei borghi in un percorso di crescita e di sviluppo turistico ed economico – sottolinea Melis -. Progetti come questo servono ad aiutare le popolazioni a prendere coscienza delle prospettive e delle potenzialità di sviluppo della propria realtà. Ma come sappiamo i pro-

getti calati dall’alto hanno fallito quasi tutti. Non c’è un unico modo di intraprendere un percorso di crescita, ma l’unico vincolo è di partire da coloro che abitano quelle realtà per renderli protagonisti attivi del proprio futuro. Il progetto Borghi ha l’ambizione di invertire, partendo dal basso, il processo di spopolamento e abbandono dei piccoli centri. Questa è la scommessa da vincere nei prossimi anni. Un piccolo “aiuto” è venuto dalla pandemia, che ha modificato le propensioni delle persone ad ammassarsi negli stessi luoghi ridando valore alla distanza. I borghi assicurano rapporti sociali in situazioni più protette». I casi positivi? «Ci sono – assicura professor Melis -. Prendiamo il contesto montano-alpino. Ci sono piccoli comuni di 300-400 abitanti situati in luoghi di difficile accesso in cui lo sviluppo economico-turistico è tangibile. Innanzitutto c’è un ufficio informazioni aperto tutto l’anno, ma sono anche i singoli commercianti ad essere orgogliosi del lavoro che fanno e del centro in cui vivono. Danno informazioni utili ai visitatori sulle attrazioni locali, vendono prodotti e souvenir di qualità del territorio, raccontano storie e aneddoti.


Tutti sono coinvolti nell’accoglienza e questo è un valore aggiunto frutto di un lungo processo culturale. Anche in Sardegna qualcuno ha iniziato a seguire questa strada e il Progetto Borghi può aiutare ad accelerare i processi». «Ho sempre pensato che un bravo tecnico delle destinazioni debba essere in grado di sviluppare un piano strategico locale prima di approdare alla gestione di un piano strategico provinciale e regionale – spiega Giancarlo Dell’Orco -. Avere un campo di azione più limitato ad un comune, ad un ambito, ad un distretto non ti rende professionalmente meno capace di chi magari gestisce aree più vaste ma, al contrario, ti permette non solo di applicare al meglio strategie di destination marketing, di gestire un numero chiuso di soggetti appartenenti alla filiera turistica locale, ma anche a comprendere meglio le complesse dinamiche di un territorio e della sua comunità di residenti. Il Progetto Borghi è strutturato in una azione locale e nazionale. La prima consiste in un prototipo operativo di rigenerazione turistico extra alberghiera e destination management e nella creazione di un piano di marketing territoriale chiamato “Accoglienza Turistica Diffusa per un Turismo Esperienziale ad Approccio Partecipativo”.

La seconda è una Piattaforma Digitale Permanente che ha l’obiettivo di mettere a confronto tutte le realtà coinvolte nella riattivazione economica e sociale di questo patrimonio e di facilitare l’incontro di progetti, idee, finanziamenti, opportunità e nuove professioni per giovani e professionisti». I SINDACI Giovanni Santo Porcu, Galtellì: «Si tratta di un progetto valido di rete. Ci aiuta ad emergere con tutti i mezzi disponibili e a promuoverci nel modo giusto. Confido molto sul lavoro di squadra e credo molto nel turismo sostenibile, da valorizzare ulteriormente, soprattutto in questo periodo in cui il flusso turistico è in aumento ed è alla ricerca di peculiarità. Le nostre hanno un potenziale assurdo soprattutto nel collegamento tra montagna e mare. Galtellì è il paese di “Canne al vento” di Grazia Deledda, è un centro ricco di storia, cultura, religione e patrimonio ambientale. Siamo una destinazione perfetta per il turismo esperienziale. Abbiamo già circa 250 posti letto, frutto soprattutto della riconversione delle seconde case, che ci hanno permesso di incentivare l’economia. Senza fare grossi artifizi ma puntando su storia, cultura e ambiente e facendo rete possiamo davvero creare sviluppo». (segue pagina 26)

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Foto comunediulassai

(segue dalla pagina 23) Sergio Lorrai, Gairo: «Credo sia il punto di partenza per contribuire, facendo rete, a valorizzare i piccoli borghi. Sperando sia la prima di tante discussioni che possano portare, concretamente, a potenziare tradizioni, cultura e turismo delle piccole realtà attraverso la riqualificazione e recupero del patrimonio storico. Gairo ha, in tal senso, un potenziale inestimabile da ripristinare. Auspico che la rete dei borghi possa arricchirsi e magari avere una “costola” come quella dei borghi abbandonati, fra i quali Gairo, conosciuto a livello regionale e non solo, che destano incredibile attenzione fra i visitatori». Francesco Sanna, Sindaco di Collinas e presidente del Consorzio Turistico “Sa Corona Arrùbia”: «Nel mio duplice ruolo sento l’urgenza di strutturare il prodotto turistico delle aree dell’interno. È stata una proficua occasione di confronto, utile a focalizzare le strategia d’azione; cultura, anche d’impresa e recupero urbanistico coerente dei nostri centri storico sono al momento i fronti in cui investire». Marco Pisanu, Sindaco di Siddi e presidente dell’Unione dei Comuni della Marmilla: «Il Progetto Borghi ci sprona ad andare avanti anche se ci sono tanti ostacoli da superare.

L’approccio giusto è questo, speriamo in un coinvolgimento maggiore sia tra i comuni, sia tra chi è preposto a tutti livelli per una crescita dei nostri territori, decisamente in linea con questi progetti. La cultura è l’asse portante. È questo il vero sviluppo, con la valorizzazione del settore primario, secondario e terziario: accoglienza e turismo messi in connessione con le nostre conoscenze e i nostri saperi, dall’agricoltura, all’industria di trasformazione. Bisogna remare tutti nella stessa direzione e mettersi in testa l’idea che possiamo ipotizzare un futuro diverso per chi vuole restare nei nostri territori. Per quanto riguarda i finanziamenti il Progetto Borghi può aiutare a intercettare queste risorse e a utilizzarle al meglio». Tito Loi, Sindaco di Osini: «Noi eravamo estremamente interessati a questo incontro, anche perché noi abbiamo circa 40 appartamenti nuovi della Regione in comodato d’uso che sarebbe bello poter utilizzare come strutture ricettive. Sono tante le attrazioni del nostro territorio il “Volo d’Angelo” in fase di realizzazione dai tacchi di Osini a Gairo Vecchio, il parco archeologico, le grotte, il Passo San Giorgio e il borgo vecchio colpito dall’alluvione di 70 anni fa che necessita di un recupero. Ci sono poi il turismo religioso, gli appassionati di


È possibile iscriversi al forum sul sito https://progettoborghi.host-b2b.com/. Per info contattare info@sintur.com.

LA RETORICA TOSSICA SUI BORGHI

arrampicata e le strade ferrate che percorrono tutta la valle del Pardo. Una delle nostre lacune è che siamo in una vallata, comprendente Osini, Ulassai e Jerzu, e mancano quasi del tutto le strutture ricettive e la giusta formazione del personale addetto al ricevimento e a tutto il resto. Il Progetto Borghi può aiutarci a migliorare tutti questi aspetti». Chicco Usai, sindaco di Ussassai: «Questo progetto è una chance che abbiamo accettato subito per avere un ulteriore biglietto da visita per le persone che capitano in Sardegna. Il nostro obiettivo è di non far scomparire i piccoli paesi: resistere e continuare a esistere. Ci fa piacere che esista una rete che voglia tutelare queste piccole comunità. Offriamo natura e aria incontaminata, boschi, fiumi e un ambiente preservato. Ma soprattutto una qualità della vita difficile da trovare nelle grandi città. Siamo un piccolo paese di 485 abitanti, ma siamo molto aperti. Vogliamo cogliere questa opportunità».

C

orvara, nell’entroterra abruzzese, è una località più o meno nota soprattutto per il suo stato di abbandono e per la resistenza dei tre soli abitanti che ne continuano ad animare il borgo medievale, provato dai terremoti e in serie condizioni di abbandono. Uno di quei cosiddetti “borghi fantasma”, che caratterizzano la retorica mediatica soprattutto per l’Italia centro-meridionale: luoghi sospesi nel tempo, dominati dal silenzio, abitati (quando lo sono ancora) da poche decine di persone e frequentemente motivo di interesse nel sempre attuale discorso su ripartenza e valorizzazione. Quei luoghi che spesso entrano nel dibattito pubblico come ideali “hotel diffusi”, come nell’intervista del Ministro Franceschini rilasciata al Corriere della Sera il 31 maggio del 2020. Ma solo chi conosce dall’interno Corvara sa che la sua attuale condizione è proprio dovuta a un tentativo spericolato di farne un borgo per turisti, con l’obiettivo di supplire alla mancanza di popolazione: nel 2010 il gruppo imprenditoriale Paggi, dopo aver comprato a cifre infime buona parte del borgo medievale con la promessa di un riscatto comunitario, festeggiava l’inaugurazione di una piccola parte di albergo diffuso, (segue pagina 28)

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Foto comunedicorvara/miriconosci.it

(segue dalla pagina 27) che avrebbe dovuto fungere da polo attrattivo per ricchi turisti alla ricerca di un’esperienza alberghiera di lusso nella suggestività di strutture storiche sullo sfondo del Gran Sasso. Purtroppo, oltre il ristretto nucleo di immobili interessato dall’opera di restauro, il resto della proprietà non ha goduto di grande fortuna quando il gruppo imprenditoriale è fallito e i terremoti e l’incuria hanno reso inagibili le strutture: calcinacci, impalcature alla buona e ruderi accompagnano le odierne passeggiate per la parte di borgo finita sotto le mani del presunto benefattore. La storia recente del piccolo borgo medievale di Corvara è non solo utile a gettare un po’ di luce su un cosmo di realtà troppo spesso dimenticate o volontariamente tralasciate, ma anche per sdoganare il mito del rilancio del Patrimonio tramite turismo ricco e persone facoltose che non vedano beni culturali, ma beni di consumo: ottica che invece traspare ancora dall’intervista di Dario Franceschini del 31 Maggio 2020 al Corriere della Sera, incentrata su rilancio del Turismo, Alta Velocità (di cui abbiamo trattato in altra sede) e, appunto, Borghi. L’Italia secondo il Ministro dei Beni Culturali dovrebbe puntare “a un turismo internazionale di livello alto e con capacità di spesa”.

Il Ministro dei Beni Culturali vuole valorizzare i borghi attraverso alberghi diffusi e turismo internazionale ricco: una retorica tossica che ha già mostrato i suoi limiti.

Si propone un piano di rilancio dei borghi appenninici, “luoghi bellissimi”, purtroppo “spesso abbandonati o trascurati”, che in qualche modo vanno rivalorizzati; e poi: “hotel diffusi, cammini ciclabili, ferrovie storiche, cibo, natura, arte. Un modo di offrire turismo esperienziale, quella possibilità di vivere all’italiana che tutti nel mondo sognano”. A parte la suggestività tipica dell’immaginario rurale, riaffiorante anche nelle parole del Ministro, le atmosfere particolarmente nazionalpopolari (sembra che chi lì vive debba sentirsi onorificato da qualche speciale merito alla resilienza), la realtà dei fatti è che c’è una parte di Penisola che semplicemente non ce l’ha fatta, e non ce la fa, a rimanere al passo con l’era del consumo e le comodità contemporanee. I motivi sono tanti e accomunano i piccoli comuni montani o a vocazione agricola da Nord a Sud, dall’isolamento geografico alla pessima organizzazione dei trasporti pubblici, che spesso non collegano questi luoghi con gli altri centri o lo fanno a fatica; dal gap digitale alla difficoltà nel garantire ovunque giusti servizi energetici e all’impoverimento progressivo di servizi pubblici (rimandiamo all’articolo di OpenPolis per un approfondimento sulle disuguaglianze nell’istruzione pubblica, anche su base territoriale).


Duole constatare che il Ministro, quando parla delle aree montane appenniniche, sembri non ricordare (o voler ricordare) che sono le stesse zone ad alta incidenza sismica che negli ultimi decenni hanno visto disastri e crolli ingenti di interi paesi: i centri storici sono ancora puntellati, per metà diroccati, spesso immersi nel silenzio di una vita che ha cessato di essere ed ha dovuto ricostruirsi altrove e intrappolati nell’istante che li ha visti tremare, perché da allora molti non hanno ricevuto alcun tipo di aiuto per ripartire. Nel centro storico de L’Aquila (solo uno degli esempi possibili) a dieci anni dal sisma la maggior parte degli edifici ricostruiti e riportati alle loro funzioni erano quelli di matrice privata, mentre in tantissime realtà abruzzesi i servizi pubblici, specialmente scolastici, si svolgono ancora nelle strutture leggere provvisorie allestite nel 2009. Eppure, ciò stante, la prospettiva ministeriale sembra quella di vendere l’immagine stereotipata delle “Vacanze romane” di hollywoodiana memoria, senza realmente riflettere su quali siano le necessità del Patrimonio e di chi i luoghi storici li vive quotidianamente. E venderla a un “turismo internazionale con grande capacità di spesa”, mentre il resto del mondo parla di turismo di prossimità. Non proporremo in questa sede soluzioni per proble-

mi strutturali che vedono gli albori negli anni ‘50 e ‘60: le letture a riguardo non mancano. Ciò che ci interessa è notare, dopo decenni, che ogni volta che la politica nazionale parla delle disagevoli condizioni di molti borghi italiani, la risposta sembra risiedere nel miracolo turistico. L’intenzione di investire sul serio in questo tipo di turismo sembra tutt’altro che presente nelle pianificazioni del MiBACT e la frettolosità nel passare da valorizzazione dei borghi, a turismo internazionale “con grande capacità di spesa” ad Alta Velocità e Ponte sullo Stretto sembra esserne la conferma, così come lo sembra uno spunto in particolare che nell’intervista viene dato nell’immaginare lo sviluppo del centro-sud: l’hotel diffuso, nuovo modello di esperienza italiana per quel “turismo con grande capacità di spesa” già menzionato. A chi giova questa retorica? Chi vive i borghi lo sa: gli alberghi diffusi vengono sempre più ben visti dai piccoli centri che vivono lo spopolamento e temono il decadimento delle strutture. Ma da chi amministra ci si aspetterebbe una puntuale analisi dei dati: per la ricostruzione dei nuclei storici e la gestione di essi il paradigma del deus ex machina che arriva da lontano ha pienamente dimostrato... (segue pagina 30)

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https://www.miriconosci. it/retorica-tossica-borghi/07.06.2020 Questo articolo è già staso pubblicato nel numero di Sardonia del luglio/ agosto 2020. Ci è sembrato doveroso di riproporlo nel momento nel quale lo stesso tipo di soluzioni viene presentato in Sardegna come rimedio miracolo o quasi.

Foto piermarianosanna

(segue dalla pagina 27) anche i suoi rischi e limiti, legati a tentativi di semplice speculazione a basso costo. Per un esempio felice che arriva sui giornali ci sono tanti esempi di borghi decadenti e spopolati, magari ormai proprietà di aziende in fallimento o all’inseguimento del guadagno maggiore, che spariscono dai media, come il caso sopra menzionato del borgo di Corvara, o di Santo Stefano di Sessanio, dove nel 2017 l’Hotel diffuso “Sextanio”, la creatura dell’imprenditore italo-svedese Daniele Kihlgren, è divenuto struttura stagionale con la conseguente trasformazione dei contratti dei lavoratori da un giorno all’altro. I borghi italiani hanno bisogno di sostegno, di aiuto, di pianificazione, e del riconoscimento della loro unicità. La salvezza può arrivare solo da lì, non dal turismo internazionale con grande capacità di spesa, né da investimenti poco mirati e mal coordinati.

Tessart Cogoni Via Mazzini 09010 Villamassargia (CI)

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L’

azienda Tessart Cogoni nasce da una lunga e sedimentata esperienza familiare nell’arte tessile. I raffinati tessuti sono realizzati, come da tradizione, dalle abili mani di tessitrici al lavoro sui telai manuali orizzontali, nel rispetto dei canoni tradizionali locali ma con l’introduzione d’innovazioni. Accanto ai manufatti realizzati secondo tradizione si sviluppa una importante ed esclusiva linea di complementi d’arredo ideata in collaborazione con designer ed architetti. La Tessart da decenni con le sue produzioni è presente alle principali rassegne fieristiche nazionali del settore, a Milano, a Roma e a Firenze. Nel Laboratorio showroom di Villamassargia e nello showroom di Villasimius è possibile ammirare i tessuti per apprezzare nei dettagli la cura della qualità. La produzione comprende tessuti decorativi e funzionali destinati al corredo tessile della casa e degli ambienti abitati in generale: tappeti, arazzi, tende, tovaglie, lenzuola. I motivi ornamentali si rifanno alla tradizione nelle diverse modalità espressive. Moduli geometrici, motivi floreali e vegetali e temi più compositi, simboli araldici e allegorici, segni magici e religiosi. Anche le cromie riprendono la tradizioni, ispirandosi volutamente alle tonalità naturali del paesaggio isolano.


Foto piermarianosanna

Il

laboratorio tessile di Piermariano Sanna è una azienda artigiana a conduzione familiare, fondata nel 2000 in collaborazione con la moglie Cinzia Lai. La sua famiglia si tramanda da generazioni l’arte tessile del tappeto e negli anni 80 avvia una importante produzione artigianale. Deciso a seguire la tradizione Piermariano ha l’intuizione di specializzarsi nella produzione di tappeti, che vengono tessuti esclusivamente su telai tradizionali a mano, utilizzando l’antica tecnica detta “a pibiones”. Oggi la struttura creativa del laboratorio garantisce livelli produttivi che rispondono al crescente interesse del mercato per la manifattura artigianale. I nostri telai tradizionali utilizzano la battuta manuale di ciascuna fila, costruendo il tappeto lavorando in orizzontale. Una tecnica millenaria rimasta invariata fino ad oggi. Consentono quindi l’intervento creativo sull’altezza del punto per ottenere un disegno a rilievo di particolare effetto creativo utilizzando la tecnica a pibiones, una trama di altezza variabile da 1 a 2 cm su un ordito in robusto cotone utilizzato come base. Il risultato è una pregevole composizione di forme data dalla lavorazione a rilievo e dal colore. Produciamo i nostri tappeti utilizzando lana di pecora sarda, esclusivamente prodotta e cardata in Sar-

Piermariano Sanna

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degna. Si ottiene così un trecciato di lana formato da soli quattro fili ma dalla consistenza e resistenza migliori, che si tramuta in tessuti dal risultato estetico piacevolmente uniforme ed elegante. La lana di pecora sarda si presta magnificamente ad essere tessuta a pibiones poiché riesce a mantenere un eccellente risultato estetico anche su tappeti con altezza del punto più alta. La resistenza al calpestio e la robustezza conferiscono ai nostri tappeti in lana una lunga durata nel tempo in condizioni sempre ottimali. Una valida alternativa che proponiamo è il cotone di alta qualità. Si ottengono tappeti più adatti ad un utilizzo domestico, solitamente usati nelle residenze estive per le caratteristiche di morbidezza e freschezza tipiche del cotone. L’effetto estetico è più soft rispetto allo stesso disegno realizzato in lana, e l’altezza tende ad essere inferiore a causa della diversa robustezza dei materiali. Piermariano Sanna si pone oggi come mediatore fra tradizione e innovazione. La cifra stilistica distintiva è la rivisitazione della tessitura tradizionale ottenuta anche attraverso la collaborazione con stilisti e designers. Ne derivano composizioni in cui i tipici modelli della tradizione sarda sono scomposti e rivisitati con un’attenzione creativa dalle linee più essenziali, con abbinamenti cromatici di particolare pregio, consoni alle esigenze attuali.

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Foto zahahadid

VILLAMASSARGIA TERRA CRUDA

A

vegliare sul centro abitato dall’alto, c’è il castello de Sa Gioiosa Guardia, ultimo baluardo di un passato lontano che testimonia l’importanza che Villamassargia ricopriva in tutto il Sulcis. A valle, un esercito di ulivi vegliardi che se potesse, racconterebbe di invasioni e saccheggi da parte popoli invasori, incapaci tuttavia di soggiogare la gente che ha contribuito a creare questo paese ricco di storia e di cultura. Bellezze naturali, siti archeologici, artigianato e ospitalità: basterebbero questi quattro elementi a convincere i turisti che questo piccolo borgo del sud-ovest Sardegna merita di essere visitato. Ma è solo inoltrandosi nei suoi boschi o sentendo il rumore dei telai delle tessitrici che da tempo immemore filano la lana, chesi comprende come questo sia un posto difficile da dimenticare. A dimostrare come queste terre siano state popolate già dal 3500 a.C., ci sono gli scavi condotti nella grotta funeraria di Su Konkali de Korongiu Acca, che hanno permesso di riportare alla luce importanti reperti del periodo neolitico. Disseminati nel territorio di Villamassargia ci sono ben sei nuraghi,

oltre a quello più conosciuto di Monte Exi, e due tombe dei giganti, una accanto al bosco dei pini di Mont’Ollastu, l’altra sull’altopiano di Astia. Nel periodo medioevale, Villamassargia era il centro più popoloso ed importante del Sulcis e come capoluogo della Curatoria aveva ben trenta paesi sotto la propria giurisdizione. In questo periodo furono costruiti il castello de Sa Gioiosa Guardia e numerose chiese campestri. Proprio sul castello che fin dal XIII secolo controllava le vie d’accesso alla zona mineraria dell’Iglesiente, aleggia una leggenda che lo vorrebbe collegato al centro abitato da un passaggio segreto che però nessuno ha mai scoperto. Mistero che, come nel caso di un favoloso tesoro sepolto sotto monte Scorra in epoca bizantina, aggiunge un fascino arcano a queste terre. Da vedere le chiese situate nel centro storico come quella della Madonna del Pilar, eretta nel 1307 dal capomastro Arzocco di Garnax, che conserva ancora oggi uno splendido dipinto sull’altare maggiore e un’acquasantiera decorata con motivi floreali e zoomorfi del XVII secolo, e la chiesa delle Madonna della Neve,


che all’interno presenta uno splendido altare in legno policromato e sulla facciata esterna un superbo rosone gotico-catalano che cattura l’attenzione di chi percorre la strada pedemontana. Passeggiando nel centro storico si possono ammirare ancora oggi numerose abitazioni costruite con il ladiri, l’antico mattone di terra cruda, una tradizione talmente radicata che ha portato il paese ad aderire all’Associazione Nazionale della Terra Cruda. Non si potrà mai dire di aver visitato con attenzione Villamassargia se non si è camminato almeno una volta tra gli ulivi plurisecolari de S’Ortu Mannu, o nella foresta di Lecci di Orbai che conducono all’omonimo villaggio minerario: un viaggio tra sentieri naturali che sembrano usciti da un libro di fiabe. “Il fiore all’occhiello di Villamassargia, rimane comunque il settore tessile, esistono dodici laboratori che producono manufatti di assoluto valore: durante il periodo estivo i tappeti provenienti dal nostro paese vengono esposti nelle località di mare come Villasimius, Alghero e Sant’Antioco, contribuendo a diffondere la nostra tradizione.” La posizione di Villamassargia è assolutamente

strategica, infatti stando a venti chilometri dal mare consente ai vacanzieri estivi di trovare una sistemazione in un posto tranquillo, lontano dal traffico dei centri balneari. “Da alcuni anni abbiamo puntato sull’ospitalità diffusa, che grazie alla cultura agropastorale e alla tradizione artigianale ci ha permesso di avvicinare un numero di visitatori sempre maggiore. Puntiamo inoltre sulla riqualificazione di edifici storici, esempio dell’abilità dei massargesi nel lavorare la terra cruda, per incrementare l’offerta turistica del paese. Oltre ai vacanzieri, il nostro paese continua ad essere apprezzato anche dai visitatori provenienti da varie parti dell’Isola, che vengono ogni anno a Villamassargia per assistere ai festeggiamenti della Madonna del Pilar e della Madonna della Neve, e alla Sagra delle olive, capace in ogni edizione di avvicinare a S’Ortu Mannu più di seimila persone”. Ivan Murgana http://www.cittaturistica.it/sardegna/ villamassargia-paese-nato-dalla-terra-cruda www.comune.villamassargia.ca.it

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Foto ventanas

n Sardegna è presente un importante patrimonio architettonico in terra cruda, da alcuni anni questo patrimonio è oggetto di tutela e di recupero per il riuso. Nella Sardegna meridionale fino agli ’60, nei territori di pianura, si costruiva ancora con la terra cruda secondo la tecnica del mattone crudo. La terra è un materiale composto da ghiaie, sabbie, limi argilla. Mescolata con l’acqua la terra può essere messa in opera con tecniche diverse, che possono essere utilizzate per realizzare ogni elemento dell’edificio: murature, coperture, pannelli isolanti, rivestimenti e finiture, pavimenti, arredi, ecc. Per decenni la terra cruda è stato un materiale accostato ad un’idea di povertà e arretratezza, e di conseguenza completamente sostituito da altri a base cementizia o di sintesi. Oggi, in un contesto progettuale più consapevole e attento ai temi legati alla sostenibilità del processo edilizio, la terra cruda rappresenta un materiale sano, ha apprezzabili proprietà di isolamento termico e acustico, protegge da campi elettromagnetici, è totalmente riciclabile. Nel mondo tecnologicamente avanzato la terra cruda è un materiale da tempo sul mercato, ed anche in Italia il settore dell’edilizia eco-compatibile offre prodotti a base

VENTANAS

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info@ventanas.it www.ventanas.it/

di terra cruda, prevalentemente rappresentati da prodotti per tamponature e finiture. Se siete interessati a conoscere la terra cruda, possiamo organizzare tour guidati per farvi conoscere il patrimonio storico-architettonico, i proprietari delle case, gli artigiani, e se volete possiamo anche organizzare laboratori per il riconoscimento delle terre da costruzione, per la preparazione dei mattoni o delle malte di intonaco. Ventanas nasce a seguito del recupero contemporaneo di una tipica casa a corte in terra cruda situata nel centro storico di Villamassargia. L’intervento di recupero è stato effettuato conservando gli elementi costruttivi degli anni ’30, quali i pavimenti di cementine, le porte, le finestre ed i tavolati, a questi sono stati accostati materiali della contemporaneità a basso impatto ambientale: legni certificati FSC, isolamento dei tetti con la lana di pecora sarda, intonaci di terra e paglia e pitture a base calce con pigmenti di argilla. Ventanas promuove l’incontro tra creativi e artigiani, secondo il modello della “residenza d’artista”, per la realizzazione di nuovi oggetti per la casa, favorendo l’uso di materiali naturali e di recupero. Ventanas alla sua apertura ospita la linea di arredi “Taulas” disegnati dall’arch. Chiara Secci e realizzati


L’

Associazione delle Città della terra cruda nasce nel 2001 come alleanza tra le città che riconoscono il valore delle architetture e degli insediamenti in terra cruda quali componenti del paesaggio che caratterizzano il loro territori, come base per un modello di sviluppo sostenibile. L’Associazione, aderisce al Documento internazionale “Abitare la terra, per il diritto a costruire in terra cruda”, promosso nel 2010 da CRATerre, Ecole Nationale Supérieure d’Architecture di Grenoble e dalle numerose istituzioni e personalità che promuovono l’architettura di terra nel mondo. dall’artigiano del legno Paolo Secci, la linea “Taulas” si basa sull’uso di materiali di recupero, con i quali sono stati realizzati i letti (sonnugrai), le poltrone (mandronia), gli scrittoi (pensamentu), gli armadi (arreguau), le lampade da tavolo (ekilibriu) e le lampade a sospensione (spèndula). Gli arredi della linea “Taulas” sono disponibili alla vendita. Ventanas è una location a disposizione per ospitare eventi culturali, quali: incontri letterari, musicali e teatrali, esposizioni d’arte e di artigianato artistico, set fotografici e video, presentazione di prodotti eno-gastronomici e laboratori del cibo.... Ventanas, in collaborazione con l’Associazione Città della terra cruda, organizza tour per conoscere l’architettura di terra in Sardegna. Oltre alla visita di edifici storici o di edifici costruiti ex-novo, è possibile partecipare ad attività di laboratorio per conoscere il materiale terra e le tecniche costruttive... Partendo da Ventanas in poco più di mezz’ora si raggiungono i siti di interesse turistico della Sardegna del sud-ovest. Il territorio offre alcune peculiarità quali l’archeologia mineraria, con la possibilità di visitare miniere, gallerie e villaggi abbandonati. Di notevole interesse anche i siti dell’archeologia classica:...

Walter Secci

Consulente amministrativo, attuale Presidente del Consorzio turistico l’Altra Sardegna, sostenitore di un turismo diffuso in equilibrio con la natura e che salvaguardi l’autenticità dei luoghi. Da oltre 20 anni si occupa di tutela e valorizzazione delle architetture in terra cruda, attualmente segretario dell’Associazione Città della Terra Cruda. Promotore della residenza creativa “Ventanas” nella quale progetta ed organizza incontri culturali e conviviali. Conoscitore dell’arte contemporanea e dell’artigianato artistico della Sardegna e da buon gourmet fine intenditore di cibi e di vini. www.ventanas.it

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Foto camera di commercio

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ilippo Figari nasce a Cagliari il 23 settembre del 1885 da Bartolomeo, ingegnere delle Ferrovie sarde, e da Carmela Costa. Stabilitosi con la famiglia a Sassari, frequentò il ginnasio e, nei primi anni del Novecento, realizzò caricature e illustrazioni che espose a Cagliari nell’ottobre del 1904 in una piccola mostra organizzata insieme con Felice Melis Marini. Nel dicembre dello stesso anno Figari si trasferì a Roma, per iscriversi alla facoltà di giurisprudenza. Agli studi di legge, che presto abbandonò, preferì quelli artistici: frequentò l’Istituto di Belle arti e alcuni corsi presso l’Accademia di Francia. Intanto mantenne contatti di lavoro con la Sardegna: nei manifesti disegnati nel 1905 e nel 1906 per la Compagnia reale Ferrovie sarde e per due stabilimenti vinicoli di Cagliari (ditte Larco e Rocca) Figari adattò suggestioni stilistiche di matrice secessionista ai temi e ai caratteri formali della tradizione locale. Nel novembre del 1907 si trasferì a Venezia per frequentare, presso l’Accademia di belle arti, le scuole libere di E. Tito e L. Nono; l’anno seguente studiò per un anno all’Accademia di belle arti di Monaco di Baviera. Stabilitosi definitivamente a Cagliari dal

1909, nel 1911 Figari fu incaricato di eseguire dipinti di soggetto nuziale nella sala dei matrimoni del nuovo palazzo comunale. Ad Atzara invece conosce il pittore spagnolo Antonio Ortiz Echagüe (1883-1942), dal quale riprende lo spiccato gusto folcloristico. Negli anni seguenti ottenne l’incarico di decorare nello stesso palazzo, anche il salone dei ricevimenti, opera portata a termine nel 1916 e andata distrutta nel 1943, e la sala consiliare, che terminò nel 1924. I lavori per il palazzo comunale furono, infatti, interrotti nel 1917 dalla partenza del Figari per il fronte; nel dicembre dello stesso anno fu fatto prigioniero. Alla fine della guerra Figari rientrò a Cagliari e riprese a lavorare ricevendo, nel corso degli anni Venti, numerose commissioni per edifici pubblici e privati. In queste opere continuò ad ispirarsi ai prediletti temi del folclore regionale, nel 1924 pubblicò su “Il Nuraghe” il saggio dedicato a “La civiltà di un popolo barbaro”, nell’interpretazione dei quali, stavolta, abbandonò la linea modernista a favore di una maggiore resa plastica e monumentale che risente del generale clima di ritorno all’ordine. Nel 1921 e 1922 eseguì, nel cimitero di Cagliari, pitture per le cappelle delle famiglie Faggioli e Larco; nel 1925 decorò l’aula magna dell’Università


di Cagliari e, negli anni successivi, collaborò con Mario Delitala per le pitture dell’aula magna dell’ateneo di Sassari. Nella seconda metà degli anni Venti a Cagliari eseguì dipinti per il palazzo della Società Tirso, ora presso la sede dell’ENEL di Cagliari, per il palazzo del Consiglio dell’economia (l’attuale Camera di commercio) e per il palazzo del provveditorato per le Opere pubbliche (oggi sede del tribunale amministrativo regionale della Sardegna). Nel 1927 eseguì il trittico con la Sagra di San Costantino, che fu esposto nel padiglione della regione Sardegna alla Fiera di Milano.

Nel 1924 Figari sposò a Roma la cantante lirica Alma Bucci. Divenuto nel 1929 segretario regionale del Sindacato fascista di belle arti della Sardegna, l’anno seguente prese parte a Sassari, come espositore e come membro della giuria, alla prima mostra del sindacato sardo; vi espose otto opere, tra cui un Cristo deposto. Sempre nel 1930 Figari espose “Preghiera” alla Biennale di Venezia rassegna alla quale prese parte ininterrottamente sino al 1936. Nel 1931, a Cagliari, partecipò alla II Sindacale della Sardegna, dove espose, tra l’altro, una “Donna in casa”, “particolare dei dipinti

del palazzo del Provveditorato” di Cagliari; il bozzetto per la Moltiplicazione dei pani e dei pesci, opera dipinta nel 1930 per la parrocchiale di Mussolinia, oggi Arborea; sei tavole del bozzetto per la decorazione del Duomo cagliaritano, realizzata con F. Giarrizzo, cui attese dal 1933 al 1935 dipingendovi gli Evangelisti nei pennacchi della cupola. Sempre nel 1931, a Roma, espose alla prima Quadriennale (partecipò anche alla III edizione del 1939); l’anno seguente prese parte alla Biennale veneziana con Madonnina dei pastori, dipinto riproposto nel 1950 all’Esposizione internazionale di arte sacra

che si tenne a Roma. Con due dipinti dal titolo Paesana Figari partecipò nuovamente, nel 1932, alla Sindacale sarda, rassegna cui prese parte costantemente, sino alla decima edizione del 1939 quando espose, tra l’altro, il bozzetto e cartone per la vetrata della chiesa di Carbonia; Figari partecipò anche alla prima e alla seconda edizione delle Sindacali nazionali. Su invito di C. E. Oppo, nel 1940 il F. realizzò, per la chiesa romana dei Ss. Pietro e Paolo, otto bozzetti per le vetrate della cupola, non realizzate. Già direttore, dal 1935, della scuola d’arte di Sassari (nel 1940 trasformata in istituto d’arte), dal 1944 al 1945 assunse la presidenza del Museo artistico industriale di Roma, città nella quale si stabilì definitivamente dal 1959. Anche nel secondo dopoguerra Figari realizzò opere per l’edilizia sacra: a Sassari progettò le decorazioni per le vetrate del duomo (1950), per la chiesa di S. Caterina (1954) e per quella del Ss. Sacramento (1959); nel 1957 portò a termine i lavori iniziati più di vent’anni prima nel duomo di Cagliari. Filippo Figari morì a Roma il 30 ottobre del 1973. Ornella Demuru Fonti: Treccani Giuliana Altea, Marco Magnani, Ilisso.

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Foto wikipedia

el 1974 Elmar Daucher (19321989) scoprì, il funzionamento interno musicale delle sue sculture in pietra, che sono attraversate da tagli di sega profonda, e sviluppò da loro tutta una serie di pietre sonore. I prototipi di Daucher sono influenzati dalle rappresentazioni della ricerca armonica Hans Kayser . Le sue pietre sonore sono state al centro delle mostre “Klangskulpturen ’85” (Würzburg), “SteinKlangStein” (Ulm 1986) e “Klangsteine – Steinklänge” (Monaco 1989). In termini di composizione, Stephan Micus, Michael Vetter e Klaus Hinrich Stahmer si sono occupati del mondo sonoro delle pietre sonore create da Daucher (1992), i toni di una pietra sonora sono fusi con un quartetto d’archi usando la modulazione elettronica dell’anello. Luciano Bosi propone un sintetico excursus sulla storia più recente della “pietra che suona” e delle sostanziali differenze tra la sua ricerca e quella di Sciola: Vorrei spiegare la direzione ed il senso della mia ricerca sonora perché ultimamente, quando utilizzo i miei litofoni, c’è sempre qualcuno che maliziosamente richiama il lavoro del grande scultore Pinuccio Sciola, volendo sottolineare un

vedi i video youtu.be/-4kGmrun6xQ youtu.be/Iozmz7akhj8 youtu.be/sIODt7nrWnY youtu.be/ajiyZ_a30Lo

“plagio” da me perpetrato ai danni dell’artista sardo. Questo approccio superficiale all’arte e alla ricerca da parte del pubblico, a volte ahimè pure qualificato, è quello che a mio parere va contrastato, anche se purtroppo in quelle specifiche occasioni spesso manca il tempo per approfondire l’argomento. Approfitto allora volentieri di questa occasione per proporre un sintetico excursus sulla storia più recente della “pietra che suona” (escludendo volutamente, per esigenze di sintesi, tutti i riferimenti etnomusicologici ben più antichi). Un nome per tutti: Elmar Daucher, scultore tedesco, vero pioniere nel campo, che licenzia per la prima volta nel 1974 una serie di opere sotto il titolo “Klangsteine”, pietre sonore, appunto. Le opere di Daucher presentano innegabili similitudini con le pietre sonore di Sciola, realizzate ben 20 anni dopo. Si pensi solo ai tagli ortogonali, o lamellari, che caratterizzano le pietre di Daucher e che ritroviamo anche nelle pietre di Sciola. Successivamente, nel 1987, il pianista e compositore tedesco Klaus Fessmann, con la collaborazione della SVERAM (impresa che si occupa della produzione di strumenti musicali non tradizionali), rimase ammaliato dal suono delle pietre di Daucher, e da allora


LE PIETRE SONORE DI ELMAR DAUCHER

decise di dedicare la sua ricerca musicale alla pietra che suona, nella dichiarata intenzione di ispirarsi agli strumenti sonori ancestrali in pietra provenienti dall’Asia. Venendo ora a Pinuccio Sciola, è possibile individuare un drastico mutamento nell’evoluzione delle sue opere scultoree a partire dalla seconda metà degli anni ’90. Così, nel 1996, Sciola licenzia le sue prime “Pietre Sonore”, opere decisamente astratte e concettuali, che presentano tratti a dir poco molto simili alle opere di Daucher, precedentemente citate. Detto ciò, non ritengo che l’evidente ispirazione, sebbene non dichiarata, di Pinuccio alle precedenti intuizioni di Daucher mini in alcun modo le riconosciute capacità artistiche dello scultore sardo, che ha comunque saputo reinterpretare le Klangsteine legandole indissolubilmente alla cultura sarda. E non mi riferisco alle pietre sonore realizzate da Pinuccio di dimensioni più ridotte, ma piuttosto ai grandi monoliti conservati nel parco di San Sperate, elementi di straordinaria potenza e potere evocativo. Nulla di male dunque per l’ispirazione tratta da Sciola dai predecessori sopra richiamati, perché è proprio dalla continua contaminazione che l’arte può rigenerarsi per creare ogni volta qualcosa di unico e

nuovo. Ma va sottolineato il fatto che Sciola fosse uno scultore, non un musicista. Di conseguenza la direzione della sua ricerca non è mai stata quella sonora, sebbene abbia tratto spunto dalle intuizioni di Daucher e di Fessmann, ma piuttosto quella della forma estetica e rappresentativa, con una particolare attenzione alla forma grezza e naturale dell’elemento pietra. In realtà sono stato il primo ad aver utilizzato le pietre di Sciola nella realizzazione di un disco in una dimensione rigorosamente acustica, così da far emergere il suono della pietra per quel che è, completamente naturale , e non invece enfatizzato o modificato elettronicamente come spesso accade. Va detto che, da musicista e ricercatore, i suoni della pietra mi avevano affascinato già parecchio tempo prima che Pinuccio realizzasse le sue prime pietre sonore. L’inizio delle mie ricerche in ambito etnomusicologico risale all’anno 1979, che segna la nascita del progetto “Quale Percussione?” (progetto che ad oggi vanta oltre 3.000 strumenti a percussione provenienti dalle varie culture del mondo, conservati e fruibili nell’omonimo museolaboratorio a Modena, in convenzione con il Comune). (segue pagina 40)

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Foto cagliariartmagazine

(segue da pagina 39) Seguendo tale percorso è stato inevitabile imbattersi nei meravigliosi litofoni, da sempre utilizzati da diverse culture nel mondo, che esercitano un fascino non indifferente legato all’utilizzo di un elemento naturale così potente ed evocativo come la pietra. Conoscevo già il lavoro di Daucher, le cui pietre sonore erano state splendidamente utilizzate per la realizzazione del disco “Music from the Stones”, di Stephan Micus (1989, EMC Records) che ho amato e che consiglio vivamente di ascoltare. Tuttavia, l’essere stato coinvolto dall’Associazione Culturale “Circolo Nuraghe” di Fiorano Modenese nella ideazione del disco “Suoni e Silenzi di Pietra – musiche per un’esposizione” (2008), realizzato con l’utilizzo delle sculture di Pinuccio Sciola (che ho voluto dedicare a “Le città invisibili” di Calvino), mi ha dato per la prima volta l’opportunità di esplorare direttamente il suono delle pietre sonore sulla base delle mie conoscenze e sensibilità acquisite in tanti anni di ricerca e sperimentazione. È stato grazie a una mia particolare capacità di “toccare il suono”, più volte riconosciutami, tra gli altri , anche dallo stesso Pinuccio, che ho deciso che avrei sfruttato le potenzialità della pietra senza alcun utilizzo

di ausili elettronici, ossia interamente in acustico. Entusiasmato da quella esperienza, negli anni successivi la mia personale ricerca sul suono della pietra è proseguita con nuova consapevolezza e vigore, esplorando nuove forme e diversi tipi di pietra, quali marmo ed onice. In particolare dal 2015 sono arrivato a fondere nel mio lavoro sulle pietre sonore le competenze antropologiche ed etnomusicologiche acquisite in tutti gli anni di studio e ricerca con le più recenti esplorazioni sulle sculture sonore di pietra. Dunque una ricerca del suono, quale ancestrale porta di accesso ed espressione di credenze

antiche, nella sua valenza di suono della pietra, così come inteso all’interno delle culture arcaiche da me studiate. La sacralità dei riti ancestrali che ho approfondito richiedeva infatti l’utilizzo di sonorità timbriche molto particolari, lontane dal concetto di musica, che grazie al loro insito potere evocativo consentono ancora oggi di trasportare l’ascoltatore in un altrove che pulsa nelle nostre viscere, e risuona richiamato in vita nella nostra memoria antica. Ritengo che proprio questo possa essere il mio particolare contributo alla estesa e variegata ricerca sul suono della pietra, che è certamente

favorita dalla personale ed unica “banca dati etnografica acustico-percussiva ed analogica” a cui posso attingere e che è frutto della ricerca di una vita. È una ricerca che ho interiorizzato e probabilmente per questo riesco a tradurre in un modo di esplorare il suono. Mi auguro che dopo questo intervento qualcuno decida di citare anche Daucher, magari, o Fessmann o una delle tante popolazioni tradizionali che utilizzano da sempre le pietre sonore. Luciano Bosi https://gammm.org/2020/02/08/i-litofoni-di-luciano-bosi-e-le-sculture-di-pinuccio-sciola/


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aria Lai nasce il 27 settembre 1919 a Ulassai, è seconda di cinque tra figli e figlie, zia del fotografo Virgilio Lai e della scrittrice Maria Pia Lai Guaita. La famiglia Lai, oltre ad avere Maria come artista di fama, ha dato i natali a Giuliana, sua sorella talentuosa scrittrice; prima di morire all’età di 92 anni, quest’ultima ha pubblicato la trilogia: “L’erede del corbulaio”, “Mi piacerebbe usare bene Word” e “Ritagli”. Giovanni, il fratello maggiore di Maria, è stato invece un importante medico imprenditore, colui che fondò nel 1952 la Clinica Medica “Ospedale Tommasini” di Jerzu. Alberto Cannas, suo cugino, fu il Presidente del Museo Fondazione Stazione dell’arte. Durante l’infanzia è di salute piuttosto cagionevole, il che la porta ad essere trasferita per i mesi invernali dal paese di Ulassai alla pianura di Gairo per potersi riprendere: viene ospitata da zii contadini senza figli. Nei mesi invernali salta completamente le scuole materne ed elementari; in completo isolamento inizia a scoprire e cogliere in sé l’attitudine per il disegno. Nel 1928 accade il primo fatto tragico della sua vita, lo zio spara ad un vicino di terreno e convinto di averlo ucciso si costituisce, la stessa notte si suicida in carcere.

Foto stazionedellarteulassai

MARIA LAI

Maria da quel momento vivrà tutto l’anno a Ulassai sino al 1932. Nel 1933 muore Cornelia, la sorellina minore, e Maria posa come modella da Francesco Ciusa, è in questa altra triste occasione che vede per la prima volta la bottega dell’artista e l’atmosfera del mondo dell’arte nei quali rimane profondamente colpita e affascinata. La famiglia decide di iscriverla alle scuole secondarie a Cagliari, dove ha la fortuna di conoscere il suo maestro d’italiano Salvatore Cambosu. Egli per primo comprende le difficoltà della bambina nell’inserimento scolastico e per primo scopre la sua sensibilità artistica; grazie a lui, la giovane allieva ulassese si farà carico dell’importanza e del valore del latino e delle poesie e scoprirà “il valore del ritmo delle parole che portano al silenzio”. Nel 1939, “se pur con tante difficoltà”, decide di continuare la sua ricerca del segno, iscrivendosi al Liceo Artistico di Roma, dove conosce maestri di scultura come Angelo Prini e Marino Mazzacurati, che vedono subito in lei un segno maturo e molto maschile, estremamente essenziale e rapido. Completati gli studi al liceo, partirà alla volta di Verona e, appena dopo, di Venezia, poiché la seconda guerra mondiale impedisce il suo ritorno in Sardegna.(segue pag 42)

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Foto stazionedellarteulassai

(segue dalla pagina 41) Trasferitasi a Venezia senza aiuto finanziario alcuno da parte della famiglia, s’iscrive all’Accademia di Belle Arti, dove frequenta un corso di scultura tenuto dall’artista Arturo Martini e da Alberto Viani, ha come tutor l’artista Mario De Luigi. Nell’ambiente accademico veneziano incontra diverse difficoltà. Inizialmente è disarmante per lei la figura del suo maestro, che fatica a accettare le donne nel mondo dell’arte; inoltre egli in quel tempo attraversa una crisi poetica e solo in un secondo momento comincia a comprendere quanto siano importanti le sue lezioni, trovando diverse affinità con Cambosu, cioè sul valore del ritmo, “in questo caso nella scultura”. Nel 1945 decide di tornare in Sardegna in modo rocambolesco, con delle scialuppe di salvataggio dal porto di Napoli a quello di Cagliari. Sull’isola resta fino al 1954; nel frattempo riprende l’amicizia con Salvatore Cambosu e insegna disegno presso scuole elementari della città e di alcuni paesi. Di questo periodo è l’amicizia con lo scrittore e artista Foiso Fois. Nel 1947 il fratello maggiore Gianni, subì un agguato, in un tentativo di sequestro di persona, presso Monte Codi in territorio di Ulassai: salvandosi per miracolo, grazie

al pronto intervento di una camionetta di soldati americani in transito in quella zona. Ritorna a Roma nel 1954, portando con sé un bagaglio di profonda tristezza, a causa dell’assassinio del fratello minore Lorenzo, accaduto lo stesso anno nei pressi di Ulassai. Nel 1957, presso la galleria L’Obelisco di Irene Brin, terrà la sua prima personale con i disegni a matita dal 1941 al 1954; potrà nel frattempo aprire un piccolo studio d’arte, intraprendere rapporti d’amicizia con artisti come Jorge Eduardo Eielson, e nel frattempo comparire in alcuni servizi televisivi dell’Istituto Luce. Dopo la mostra, pare andar tutto per il meglio; ma ad un tratto decide di ritirarsi dal mondo dell’arte, in un silenzio che l’accompagnerà per circa 10 anni: una crisi poetica che la tiene lontana da gallerie e artisti, ma che l’avvicina al mondo dei poeti e degli scrittori. Per tutti gli anni sessanta, infatti, coltiva un rapporto di amicizia e di collaborazione con lo scrittore Giuseppe Dessì, dirimpettaio di casa sua a Roma. Nel 1963 tra Ulassai e Cardedu, in Sardegna, ci fu un’altra violenta sparatoria tra carabinieri e banditi presso la sua casa di campagna dove già da tempo risiedevano i genitori, per via di un ennesimo tentativo di sequestro di persona ai danni del cognato.


Attraverso lo scrittore Giuseppe Dessì, riscopre il senso del mito e delle leggende della sua terra, trae profonda ispirazione dai suoi libri, capisce ancora di più quanto sia importante e privilegiata la sua origine sarda. In questo silenzio romano, osserva le correnti emergenti contemporanee, come l’Arte Povera e l’Informale, e di li a poco comprende quanto fossero importanti le lezioni di Martini (inizialmente vissute come un completo fallimento), le parole di Cambosu, le tradizioni, i miti e le leggende della sua terra natia. Intervenendo sulla materia attraverso gli oggetti ansiosi Ready-made del telaio e della magia del suo utilizzo, del pane e degli oggetti del passato arcaico sardo, inizia il suo percorso, che vede il passato come indagine del futuro. Il 1971 è per lei un anno triste e al contempo estremamente fecondo di attività: triste perché nel settembre muore in un incidente aereo l’unico fratello rimasto, Gianni; mentre a livello artistico, presso la Galleria Schneider di Roma, espone i primi Telai, la mostra fu a cura di Marcello Venturoli, un ciclo che caratterizza tutti i dieci anni successivi. Un avvicinamento all’arte tessile favorito dall’incontro con il maestro Enrico Accatino che inizia a operare per il rilancio dell’arte tessile, coinvolgendo anche alcune manifatture sarde.

Nel 1976 conosce Angela Grilletti Migliavacca, proprietaria e direttrice della galleria Arte Duchamp di Cagliari e sua futura curatrice personale, con la quale poi avrà un rapporto di lavoro e d’amicizia pluridecennale. Nel 1977 conosce la storica dell’arte Mirella Bentivoglio la quale l’anno successivo permetterà a Maria di sbarcare alla Biennale di Venezia. Gli anni ottanta del XX secolo, invece, sono caratterizzati dal ciclo delle Geografie e dei Libri cuciti. Iniziano a chiederle delle collaborazioni per delle copertine (p. es. il libro vero di Giulio Angioni, A fogu aintru, EDeS, 1978, con disegni di Maria Lai), e tantissime altre, ma soprattutto iniziano le prime operazioni sul territorio: “Legarsi alla Montagna”, per esempio, è l’opera che la porta alla realizzazione delle future opere nel paese di Ulassai, a Roma stringe amicizia con Bruno Munari e a New York con Costantino Nivola. In questi anni spesso realizza anche installazioni effimere ed opere in altre città, non solo in Sardegna. Negli anni novanta le sue opere appaiono come una reinterpretazione del suo percorso complessivo ed i vari cicli si assemblano armonicamente l’uno con l’altro; la velocità inattesa dei segni-disegni si fonde con i grovigli di fili e di corde di telaio e di Geografie. (segue p 44)

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Foto robertavanali

(segue dalla pagina 43) In questo contesto storico il suo lavoro sarà molto apprezzato anche a livello internazionale, a questi anni risale l’amicizia con lo stilista Antonio Marras e le cantanti Marisa Sannia e Elena Ledda. Negli ultimi anni ha vissuto e lavorato nella casa di campagna vicino al paese di Cardedu; a Ulassai, invece, l’8 luglio del 2006 ha inaugurato il Museo di Arte Contemporanea Stazione dell’arte, che raccoglie una parte considerevole (circa 140 pezzi) delle sue opere, dopo il successo del museo, le sue opere sono entrate nelle Istituzioni più importanti, quali Palazzo Grassi di Venezia con la mostra “Italic” a cura di Francesco Bonami, a Palazzo Mirto e a Villa Borghese di Roma. Dopo le recenti esposizioni negli Stati Uniti e in altre prestigiose manifestazioni europee, Maria Lai è riconosciuta come una tra gli artisti più significativi della Sardegna. Secondo l’opinione dell’artista l’opera più importante che ha realizzato è Legarsi alla montagna. Muore nel 2013 e viene sepolta presso il cimitero di Ulassai, accanto ai suoi familiari. A distanza di sei mesi dalla sua morte è stato promosso un convegno in suo ricordo da Laura Boldrini Presidente della Camera dei deputati presso la Sala della Regina a Palazzo Montecitorio. Ornella Demuru

G vedi i video https://youtu.be/ Svqa7ieoT4E https://youtu.be/ kHy9DwJUf64 https://youtu.be/ 6PpS4dsS6rs www.facebook.com/ youtg.net/videos/ 10155921229177320

iovanni Coda è un regista, videoartista e fotografo cagliaritano. Dopo l’esordio letterario e teatrale, nel 1996 fonda il V-art (Festival Internazionale Immagine d’Autore), festival di cortometraggi con particolare attenzione alla video arte. È autore di installazioni di fotografia e videoarte in musei e mostre internazionali tra cui la Biennale di videoarte a Venezia e Milano, Università di Tokyo, il Watermans Arts Centre di Londra, la Maison d’Italie a Parigi, il Museo Reina Sofia di Madrid, il Teatro Vittorio di Roma e altri. Il suo curriculum vanta una vasta lista di collezioni fotografiche, pittura, arte elettronica e performance premiate in Italia e all’Estero. Dalla sua filmografia citiamo tra gli altri L’Ombra del Ricordo (1996), Il passeggero (1998), Serafina (2002), One tv Hour (2005), Big Talk (2007) Brighteness (2012). Nel 2013 realizza il suo primo lungometraggio, “Il Rosa Nudo”, ispirato alla vita di Pierre Seel, deportato in un campo di concentramento all’età di 17 anni poiché schedato come omosessuale. Il film, che vanta più di venti selezioni ufficiali in festival di tutto il mondo, si è aggiudicato(tra i tanti) il premio per il miglior lungometraggio al Social Justice Film Festival 2013 di Seattle, il premio Film For Pea-


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ce Award al Gothenburg Indie Film Fest 2014, il Best International Film Award al 15° Melbourne Underground Film Festival (MUFF) 2014, il Gold Award al Documentary & Short International Movie Award 2014, Jakarta, Indonesia e il Premio Miglior Film Al Festival Omovies di Napoli. Una delle sue ultime produzioni l’ultimo film della trilogia dedicata alla violenza di genere “La sposa nel vento” che tratta il tema della violenza sulle donne. Inoltre “Histoire d’une larme” presentato in anteprima al Florence Queer Festival nel settembre 2021, con un successo di pubblico e di critica che gli ha fatto scrivere sulla sua pagina Facebook “il film è piaciuto molto e questo è l’importante! Dopo oltre un anno e mezzo di stop pandemico la “ripartenza” non è stata semplice. È stato bello “riabbracciare” le care amiche Titina Maccioni Titti Basagni e Fiorenza con Stefano Stefani, Paola Mancini e tutti gli amici del Festival. Grazie al caro Giovanni Minerba a Marco Oppo e Bruno Petrosino per la condivisione di queste giornate “umidissime” ma belle! appuntamento a Londra, Seattle, Dublino, Roma e Torino (Willy Vaira ti aspettiamo) … poi finalmente Cagliari” www.arcigaynuovicolori.it/intervista-a-jo-coda-regista/

oberta Vanali è critica e curatrice d’arte contemporanea. Ha studiato Lettere Moderne con indirizzo Artistico all’Università di Cagliari. Per undici anni è stata Redattrice Capo per la rivista Exibart e dalla sua fondazione collabora con Artribune, per la quale cura due rubriche: Laboratorio Illustratori e Opera Prima. Per il portale Sardegna Soprattutto cura, invece, la rubrica Studio d’Artista. Orientata alla promozione della giovane arte con una tendenza ultima a sviluppare ambiti come illustrazione e street art, ha scritto oltre 500 articoli e curato circa 150 mostre per gallerie, musei, centri comunali e indipendenti. Tra le ultime: la doppia mostra di Carol Rama in Sardegna, L’illustrazione contemporanea in Sardegna, Archival Print. I fotografi della Magnum. Nel 2006 ha diretto la Galleria Studio 20 a Cagliari. Ha ideato e curato la galleria online Little Room Gallery (2010-13). Ha co-curato le mostre del Museo MACC (201517), per il quale nel 2018 è stata curatrice. Ha scritto saggi e testi critici per numerosi cataloghi e pubblicazioni. Il cinema è l’altra sua grande passione. http://robertavanali. blogspot.com

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2 settembre 2021 ha avuto luogo l’inaugurazione della mostra fotografica “Nuda e Viva” di Beppe Fumagalli. Prodotta da Cristian Castelnuovo e curata da Roberta Vanali, l’esposizione è il racconto in bianco e nero di un cammino visionario attraverso una delle zone più inaccessibili e sconosciute della costa sarda. Il Centro Fotografico Cagliari di Cristian Castelnuovo riapre dopo la chiusura forzata dell’ultimo anno e lo fa con una programmazione ricca di eventi. Il primo, giovedì 2 settembre alle 18.30 con l’inaugurazione della mostra fotografica “Nuda e Viva” di Beppe Fumagalli. Prodotta da Cristian Castelnuovo e curata da Roberta Vanali, l’esposizione è il racconto in bianco e nero di un cammino visionario attraverso una delle zone più inaccessibili e sconosciute della costa sarda. Uno spazio magico, tra Capo Pecora e Scivu, dove la nuda roccia sembra animarsi, assumendo le più sorprendenti sembianze del mondo vivente. A seguire la mostra personale di Jo Coda (il primo ottobre) e le collettive “In my town” (https:// www.centrofotograficocagliari.com/my-town) e “Stand by” (https://www. centrofotograficocagliari.com/stand-by-online) presentate online nel

ROBERTA VANALI 2020 finalmente visibili in presenza a fine anno. La pandemia ha mutato l’umana condizione esistenziale già gravemente compromessa. Afflitto dalle infinite possibilità di eventi catastrofici che incombono sulla sua vita, l’uomo si ritrova in una situazione al limite dove umori feroci, rabbia incontrollata che sfocia in slanci di violenza inaudita e azioni distruttive nei confronti della natura e dell’esistenza stessa vanno ad esasperare quel processo di disumanizzazione alienante che ora appare senza via di scampo. “Nessun Dorma”, celebre citazione tratta dalla Turandot che vuole essere un’esortazione nei con-

fronti dell’indifferenza imperante, è il titolo della mostra che ha riunito 27 opere di forte impatto sociale della Collezione Bartoli Felter selezionate dalla curatrice Alessandra Menesini con l’obiettivo, per quanto difficile, di tirare le somme sul primo quarto del XXI secolo e indurci a guardare in faccia una realtà diventata inaccettabile. La natura si riprende i suoi spazi con irruenza, nelle opere di Antonio Bardino e Monica Lugas, per mettere in risalto l’incapacità umana di sfuggire alla propria sorte evitando eventi catastrofici che hanno ripercussioni sull’intero sistema climatico. E dove una delle conse-

guenze più lampanti si ritrova nell’ibrido di Niko Straniero: una meravigliosa conchiglia resa irriconoscibile da fili elettrici e rifiuti urbani che la avviluppano. E se Ruben Mureddu rappresenta la miseria umana come povertà spirituale e bassezza d’animo che degrada l’uomo a un numero, Marco Pautasso ci mostra la miseria come povertà assoluta, quella di non disporre dello stretto necessario per vivere dignitosamente. Sui diretti effetti della pandemia si concentrano Tiziana Sanna col suo drammatico abbraccio nella terra dove tutto ha avuto inizio, Elena Franco con le immagini fotografiche di luoghi


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I BLOG

abbandonati che ci fanno ripiombare nell’isolamento e nella solitudine del lockdown appena trascorso, la stessa solitudine che si respira nel light box di Marcello Nocera, ed Elisabetta Lo Greco che, con le sue sagome a grandezza naturale, auspica una riappropriazione della vita di ogni giorno. Una chance ce la mostra anche Stefano Serusi coi suoi sgabelli nuragici disposti in circolo come nella notte dei tempi quando ci si riuniva per risolvere controversie e prendere decisioni importanti per tutta la comunità. Per ribaltare una direzione ostinata e ritrovare quell’umanità perduta.

a mostra Ripetutamente, nasce con l’idea di riportare l’attenzione sulla grafica del secondo Novecento e i suoi sviluppi, mantenendo un focus sugli artisti sardi (che l’hanno utilizzata in molteplici occasioni come medium espressivo, dagli anni ’70, fino ad oggi) con alcune divagazioni particolarmente interessanti. Le opere esposte, dall’incisione alla serigrafia, mantengono pienamente i principi estetici di ognuno dei 18 artisti selezionati, pur con le variabili che ogni serie presenta nella realizzazione. Proprio nella realizzazione la grafica, rispetto agli altri medium, ha una particolarità fondamentale: è frutto di un lavoro a quattro mani, fra artista e stampatore. Le prove di stampa, che spesso rimangono nelle stamperie, riportano appunti a mano con le indicazioni per il colore, la centratura nel foglio o la grammatura della carta. Le stampe nascono dal dialogo, seppure necessitino di un’idea chiara, fin dal principio, da parte dell’artista, per poter essere realizzate. Le opere grafiche, sono l’emblema dell’intento divulgativo dell’arte,

che necessariamente matura dalla convinzione che l’arte abbia una funzione educativa e formativa: si pensi ad esempio ai quaderni per i bambini delle elementari che riportano in copertina le xilografie di Remo Branca o Melkiorre Melis degli anni ‘30. La stessa convinzione è uno dei principi fondamentali di MANCASPAZIO e proprio per questo motivo si è scelto di ricominciare la stagione espositiva con le opere di 18 artisti (molti già esposti con opere uniche) fra i quali, spicca un nome celebre in tutto il mondo Salvador Dalì.

Artisti in mostra: Giuseppe Bosich, Zaza Calzia, Tonino Casula, Aldo Contini, Antonello Cuccu, Salvador Dalì, Nino Dore, Maria Lai, Ermanno Leinardi, Angelo Liberati, Mino Maccari, Bernardino Palazzi, Primo Pantoli, Domenico Purificato, Dante Riceputi, Rosanna Rossi, Aligi Sassu.

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