SARDONIA
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Ventottesimo Anno / Vingt Huitième Annèe
Settembre 2021/ Septembre 2021
La tavola di Esterzili Museo Archeologico di Teti Gorropu Orto Botanico Cagliari Inchietos Claudia Sarritzu Cala Grande Santa Teresa di Gallura CAMUC Casa Museo Cannas Il Popolo di Bronzo a Torpé Angela Demontis Fiber Art al MURATS Anna Marongiu Pernis Saccargia Letizia Battaglia La rivoltella di Antonio Broccu Giuliana Luigia Evelina Mameli Incendio e Botanica Si parla ancora del Betile PierAndrea Angius Histoire d’une Larme Jo Coda https://www.vimeo.com/groups/sardonia https://www.facebook.com/sardoniaitalia
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Cagliari Je T’aime Programma di creazione di Esposizioni e Manifestazioni Artistiche nella città di Cagliari a cura di Marie-Amélie Anquetil Conservateur du Musée du Prieuré Directrice de la revue “Ici, Là bas et Ailleurs” Espace d’exposition Centre d’Art Ici, là bas et ailleurs 98 avenue de la République 93300 Aubervilliers marieamelieanquetil@ gmail.com https://vimeo.com/channels/ icilabasetailleurs Vittorio E. Pisu Fondateur et Président des associations SARDONIA France SARDONIA Italia créée en 1993 domiciliée c/o UNISVERS Elena Cillocu via Ozieri 55 09127 Cagliari vittorio.e.pisu@email.it http://www.facebook.com/ sardonia italia https://vimeo.com/groups/ sardonia https://vimeo.com/channels/ cagliarijetaime SARDONIA Pubblicazione dell’associazione omonima Direttore della Pubblicazione Vittorio E. Pisu Maquette, Conception Graphique et Mise en Page L’Expérience du Futur une production UNISVERS Commission Paritaire ISSN en cours Diffusion digitale
vedi i video vimeo.com/586995140 vimeo.com/581672379 vimeo.com/581506405 vimeo.com/579459862 e naturalmente https://vimeo.com/ groups/sardonia
uesto numero è certamente marchiato dai terribili incendi che hanno devastato una buona parte della Sardegna durante quest’estate. Sembra però che noi sardi abbiamo la memoria corta perché già nel 1983 e poi nel 1994 un simile disastro si era già verificato, questo non ha assultamente impedito che le strutture che dovrebbero essere utilizzate per prevenire questo genere di eventi siano state conscentemente o incoscientemente smantellate, private della possibilità di agire fino a delegare a delle società private il compito di spegnere gli incendi, suscitando naturalmente gli espisodi che giustificano il loro intervento prezzolato. A pensar male si fa peccato diceva l’altro, ma a volte ci si azzecca. Possiamo già prevedere che tra un nove o dieci anni lo stesso genere di fenomeni se non ancora più spettacolare e distruttivo si ripeterà? Come e cosa fare per impedirlo ? Questo mese di agosto, durante il quale preparavo questo mensile é stato inoltre particolarmente segnato dall’abbandono dell’Afghanistan alle sue sorti, dopo vent’anni di presenza dell’esercito degli Stati Uniti e di quelli dei paesi della NATO. Naturalmente si depreca l’arrivo al potere dei talibani con le conseguenze assolutamente prevedibili. Anche lì mi sembra che la nostra memoria sia particolarmente labile perché abbiamo dimenticato che quesa nazione era un paese assolutamente progressista e sopratutto del genere che gli U.S.A. detestano particolarmente e di cui si sono fatti la specialità di destabilizzare, lasciando un campo di rovine alla fine dell’ennesima guerra persa, ma non per l’apparato militaro-industriale che tra l’Irak e l’Afghanistan ha potuto incassare più di 7 (sette) mila miliardi di dollari in vent’anni. Quando l’Afghanistan chiese l’aiuto dell’U.R.S.S. per contrastare gli sforzi per destabilizzarlo, fino al cinema si mise della parata con Rambo 3 mostrandoci i cattivi sovietici, combattuti dai FreedomFighter, talebani foraggiati dall’U.S.A. e forniti d’armi quali i razzi Stinger in grado di abbattere gli elicotteri sovietici. Fino al Ben Laden finanziato largamente dagli stessi Stati Uniti con l’esito che conosciamo. Anche McCurry, falso fotografo, tanto celebrato anche a Cagliari, era una spia infiltrata per fornire immagini alla propaganda antisovietica. Così cerco di consolarmi presentandovi delle figure emergenti sarde sia del passato che del presente, perché l’Arte e la Cultura (considerata inutile e costosa da molti esponenti politici) forse non riesce a salvare il mondo ma riesce almeno a renderlo più sopportabile ogni giorno che passa e ci permette di credere che forse tutto non é perduto e che gli artisti di ogni sorta lavorano a renderci la vita più interessante, più curiosa, più esplicita e francamente più bella. Buona lettura Vittorio E. Pisu
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LA TAVOLA DI ESTERZILI L
a Tavola di Esterzili venne rinvenuta in maniera del tutto fortuita nel marzo del 1866 da un agricoltore durante i lavori di aratura di un terreno, in località Corti ‘e Lucetta” poi venduta al parroco Giovanni Cardia giungendo in seguito nelle mani del canonico Giovanni Spano che provvide a farne dono al Reale Museo di Sassari dove venne inventariata da Ettore Pais il 26 dicembre 1878. La Tavola di Esterzili rappresenta il documento epigrafico più importante rinvenuto in Sardegna, si tratta di una trascrizione di una sentenza con la quale il proconsole Lucio Elvio Agrippa condannava durante l’età di Otone i pastori sardi della tribù dei Galillenses: si tratta di un esempio significativo di una politica tendente a privilegiare l’economia agricola dei contadini immigrati dalla penisola italiana in Sardegna. Inciso sicuramente a Carales il 18 marzo 69, esposto al pubblico per iniziativa dei Patulcenses originari della Campania all’interno di un villaggio agricolo, il documento (scoperto nel 1866, studiato da Giovanni Spano e Theodor Mommsen e conservato al Museo Nazionale di Sassari) ci informa su una lunga controversia, conclusasi con una sentenza con la quale il governatore provinciale ripristinava la linea di confine fissata 170 anni prima dal proconsole Marco Cecilio Metello, dopo una lunga campagna militare durata
per almeno cinque anni e conclusa con la sconfitta della popolazione locale e con il trionfo del generale vittorioso celebrato a Roma fino al tempio di Giove Capitolino. Il documento è una una lastra di bronzo larga 61 cm, alta 45 cm e pesante circa 20 kg, e ci fornisce informazioni preziose sul governo provinciale della Sardegna, passato nell’età di Nerone dall’imperatore al Senato, sul funzionamento degli archivi in provincia e nella capitale e sul conflitto tra pastori sardi dediti all’allevamento transumante e contadini immigrati dalla Campania, sostenuti dall’autorità romana, interessata a contenere il nomadismo sul quale si alimentava il brigantaggio; ma anche decisa a valorizzare le attività agricole ed a favorire un’occupazione stabile delle fertili terre nelle pianure della Trexenta e della Marmilla, soprattutto a promuovere l’urbanizzazione delle zone interne della Barbaria sarda, dove si era andata sviluppando una lunga resistenza alla romanizzazione. La Sardegna arretrata dell’800 è stata la meta privilegiata di una lunga serie di viaggiatori stranieri, interessati in particolare alla civiltà nuragica, come ad esempio il Conte Lamarmora ed il Barone Maltzan, che hanno dedicato pagine indimenticabili all’isola selvaggia.(seguepagina 4)
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segue dalla pagina 3) Meno conosciuti sono i difficili viaggi compiuti in Sardegna, negli anni successivi alla “perfetta fusione” con gli Stati di terraferma ed all’Unità d’Italia (1866-1881), da tre studiosi tedeschi, veri e propri pionieri della ricerca epigrafica, Theodor Mommsen ed i suoi collaboratori Heinrich Nissen e Johannes Schmidt per la raccolta della documentazione epigrafica da inserire nel X volume del Corpus Inscriptionum Latinarum pubblicato nel 1883. I loro viaggi si affiancano a quelli di altri studiosi tedeschi come Julius Euting di Tübingen che fu a Cagliari ed a Sassari nel 1869 per le iscrizioni fenicie e Wolfgang Helbig, segretario dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica di Roma, che visitò Cagliari e Ploaghe nel 1875. Solo di recente ci è stato possibile raccogliere presso la Sezione Manoscritti della Staatsbibliothek di Berlino una ricca documentazione epistolare (Nachlass Mommsen) che comprende originali autografi provenienti dall’archivio e dalla biblioteca del Mommsen e copie di lettere provenienti dal Municipio e dalla Biblioteca Universitaria di Cagliari. Arrivato a Napoli dopo qualche settimana, il ventisettenne Nissen riferiva i risultati ottenuti nel viaggio in Sardegna ed in Corsica in una lettera del 10 luglio: per la Sardegna precisava di aver verificato quasi tutte le iscrizioni di
Carales, rinunciando a quelle disseminate nelle campagne, anche se con rammarico per il fatto che il Lamarmora e lo Spano le avevano trascritte in modo orribile; il giudizio verso chi l’aveva preceduto è veramente severo. Emerge da subito il ruolo svolto dall’Istituto di Corrispondenza Archeologica ed in particolare dal suo Primo Segretario Johann Heinrich Wilhelm Henzen, che, come vedremo, finanziò gran parte delle spese sostenute in Sardegna (probabilmente anticipando per conto dell’Accademia) e curò a partire dal 1870, dopo la liberazione di Roma, i rapporti con il Ministero ed in particolare col Fiorelli. Un mese e mezzo dopo (il 28 agosto), rispondendo da Pompei ad una lettera del Mommsen che non ci è rimasta, il Nissen deduceva che il facsimile della Tavola di Esterzili non era stato consegnato dallo Henzen: ne mandava perciò una nuova copia, pensando che il Mommsen avrebbe potuto pubblicare un articolo a commento del documento sulla rivista “Hermes” una volta che lo Spano avesse pubblicato sugli Atti dell’Accademia di Torino l’editio princeps, che il Nissen immaginava del tutto inadeguata. Insomma dobbiamo molto a questi studiosi tedeschi in merito agli studi della nostra storia antica e se ad oggi conosciamo il valore della Tavola di Esterzili. Fonti:Attilio Mastino, più fonti Ornella Demuru
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mmaginate di uscire di casa lasciando una pentola sul fornello acceso. E a come, per un caso della vita, da quel piccolo fuoco controllato si sviluppi velocemente un incendio, con le fiamme che nel giro di qualche minuto avvolgono, distruggendolo, tutto ciò che può bruciare. Vengono divorati suppellettili, arredi, porte e finestre, resi cenere, e travi del soffitto, provocandone il crollo. Il fumo denso impedisce l’ingresso all’interno della casa e ben presto anche i muri, cederanno sotto il peso delle strutture portanti che collassano, causando una estrema cottura degli intonaci che quasi esplodono, fratturandosi e mischiandosi ai blocchi di pietra che vengono giù. Tutto ciò che era presente all’interno della casa sarà infine sepolto da quelle macerie. Per fortuna nessuno è rimasto ferito, ma l’edificio è distrutto per sempre. Questo è quanto è successo in una delle capanne che costituivano il villaggio nuragico di S’Urbale, a Teti (Nu), intorno al IX secolo a.C. Un volta spento l’incendio, la casa non fu più ricostruita, e i suoi ruderi e le sue macerie restarono lì, fino a venire interamente coperti dagli strati di terra che si depositarono nei millenni, per poi scomparire alla vista.
Ricostruzione di una capanna del IX secolo a.C. Museo archeologico comprensoriale Via Roma 6 08030 Teti +39 0784 68120 tacs.snc@gmail.com www.tacsvt.it/
Fino agli anni ‘80 del 1900, quando i resti di quella struttura furono riportati alla luce in una fortunata campagna di scavo, condotta dalla Dott.ssa Maria Ausilia Fadda, per la Soprintendenza di Sassari e Nuoro. Lì sul cucuzzolo di S’Urbale, dove i gli scavi abusivi e gli aratri nulla potevano contro gli affioramenti di granito, l’archeologa poté documentare una situazione intatta. Davanti ai suoi si materializzò una vera e propria fotografia che raffigurava quei tragici eventi capitati migliaia di anni prima. Sotto i primi strati di terreno, e tolti i crolli della copertura e delle pareti collassate, al di sotto di un livello costituito da grossi pezzi di intonaco d’argilla cotto dal fuoco (che era stato steso sulle pareti della capanna e nella parte interna del tetto conico), stavano, ancora adagiati sul pavimento e nelle loro posizioni originali, tutti gli oggetti d’uso quotidiano utilizzati dai proprietari di quella casa. Circa un centinaio di oggetti, molto dei quali integri, alcuni sfasciati dal crollo delle murature ma perfettamente ricomponibili: ciotole ancora impilate l’una nell’altra, brocchette, scodelle, grandi ciotoloni da cottura ancora sui loro fornelli accanto al focolare centrale, grossi contenitori per liquidi accostati alle pareti e poi ancora tante fusaiole in terracotta (segue pagina 6)
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(segue dalla pagina 5) e una riserva di argilla (cotta anch’essa dal fuoco, ma non ancora utilizzata) accuratamente sistemate in uno stipetto, realizzato con lastre di granito infisse verticalmente nel pavimento. Una immagine perfetta di quotidianità. Lo scavo permise, inoltre, di recuperare eccezionali, clamorose e preziosissime informazioni sui modi di realizzazione e di isolamento dei pavimenti delle abitazioni di età nuragica. Dato che il fondo naturale del terreno era caratterizzato da spuntoni rocciosi, i costruttori nuragici stesero un primo strato di argilla sciolta, in modo da ottenere un piano orizzontale calpestabile agevolmente. Su questo stesero una serie di spessi pezzi di sughero, capaci di assicurare isolamento termico al pavimento, che vennero poi coperti da un secondo strato di argilla ad uniformare il tutto. Sulla superficie fu poi stesa una stuoia di fibre vegetali intrecciate che lasciò la sua impronta sull’argilla fresca. Insomma, un sistema di isolamento termico e coibentazione che non ha invidia delle strategie moderne. Quella capanna, di cui vedete una foto qui sotto, è stata ricostruita fedelmente all’interno delle sale del Museo Archeologico di Teti. Fateci una visita (sia al Museo che al sito), merita sicuramente.
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GORR
Lo sapevate? Gorropu è uno dei canyon più grandi e suggestivi d’Europa. La Gola di Gorropu (che si trova nel territorio comunale di Urzulei e Orgosolo) è uno di questi: dimenticate gli smartphone (o al limite portateli per le foto), armate i vostri piedi di comode scarpe da trekking e preparatevi a vivere la bellezza incantata del canyon più profondo e spettacolare d’Europa. Ci sono luoghi dove la tecnologia e le macchine devono inchinarsi alla natura. Qui l’intensa azione erosiva provocata delle acque del Rio Flumineddu ha scavato una gola con pareti altissime sotto le quali vi sentirete una formichina in un mondo di giganti. Camminerete tra magnifici esemplari di ginepro, endemismi, tassi e foreste primarie di lecci sopravvissute al taglio incontrollato dei carbonai. Siete in mezzo al Supramonte, un vasto sistema montuoso di origine calcarea: questo è il posto più selvaggio della Sardegna, dove vivono e lavorano i caprari nelle loro capanne, i cuiles. È l’habitat delle aquile reali e dei mufloni: qui si esplicò la resistenza militare e culturale dei Sardi (i cosiddetti “montes insani” citati da Cicerone) davanti alle tante invasioni della storia.
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ROPU
Gorropu in sardo significa dirupo, burrone, gola, voragine. Un’antica leggenda narra che dal punto più stretto e oscuro della gola, dove le pareti si ergono verticali superando i 450 metri, sia possibile vedere le stelle in pieno giorno. È qui, nelle pareti più scoscese, che si dice sboccino di notte, i magici fiori della felce maschio. Per il trekking è indispensabile considerare alcuni fattori: assenza di segnaletica, orientamento difficile e scarsa copertura GSM. Assolutamente sconsigliato, quindi, affrontare questi percorsi da soli. Per raggiungere Gorropu si può partire da Genna Silana, nel territorio di Urzulei, con un percorso a bastone in gran parte in discesa all’andata e in salita al ritorno. Per una camminata ugualmente bella, si può passare anche dal territorio di Dorgali, dalle pozze di s’Abba Arva, nella vallata di Oddoene. La gola di Gorropu si trova nella subregione del Supramonte: per chi parte da Cagliari ci vogliono circa due ore e venti per arrivare nel territorio. (Statale 131, poi dcn per Nuoro, sino a Dorgali o Urzulei). Volendo si può passare anche dalla 125: si impiega più tempo ma ne vale la pena. https://www.vistanet.it/cagliari/2021/08/25/
Orto Botanico è stato inaugurato nel 1866. Venne impiantato in un luogo semi abbandonato e malfamato già allora ricco di alberi e vegetazione, dove un tempo si nascondevano ladri e malavitosi e dove venne ordita la famosa congiura di Palabanda (una lapide ricorda nell’Orto quell’evento). Esteso circa 5 ettari, è un giardino botanico progettato e diretto dall’Università di Cagliari. Il giardino si trova nel centro di Cagliari, nella Valle di Palabanda, tra i quartieri di Stampace e Castello, in un’area archeologica importante, dove domina l’Anfiteatro Romano ma che inizialmente faceva parte del sistema di approvvigionamento delle acque della Cagliari romana. Lo stesso giardino, infatti, si inserisce in un’area molto più grande, che racchiude anche l’Orto dei Cappuccini e lo stesso Anfiteatro, ricca di cisterne, pozzi, canalette, spazi di raccolta dell’acqua e aree più piccole di raccordo, utilizzate anche per la prigionia delle persone condannate a morire nei giochi dell’anfiteatro. Fanno parte della stessa grande area anche la villa di Tigellio, e i resti di altre domus romane e di un edificio termale. Da anni è allo studio un progetto per trasformare tutta quest’area in un grande parco archeologico, (segue pagina 8)
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(segue dalla pagina 7) che comprende le zone in questione. L’Orto Botanico è stato inaugurato sotto la direzione di Patrizio Gennari (il progetto iniziale è di Gaetano Cima) e prima della definitiva sistemazione era stato allestito, senza grande successo in altre zone della città, rivelatesi sbagliate, per clima ed esposizione. La scelta della Valle di Palabanda, che può vantare un vero e proprio microclima, fu invece azzeccata. Si tratta di un grande spazio verde nel cuore della città che racchiude e conserva ormai da decenni migliaia di specie vegetali, alcune molto rare, provenienti da tutto il pianeta. Al suo interno, dislocate in più punti, l’area custodisce un gran numero di reliquie romane di grande importanza. Nel 1820 si iniziò a parlare della realizzazione di un orto botanico nella valle appartenuta nel corso dei secoli ai Gesuiti, al Reale patrimonio, a vari privati, fino all’acquisto da parte dell’Università. I lavori puntavano a trasformare un luogo semi abbandonato e malfamato già allora ricco di alberi e vegetazione, dove si nascondevano ladri e malavitosi e dove venne ordita la famosa congiura di Palabanda (una lapide ricorda nell’Orto quell’evento). I lavori iniziarono nel 1864 sotto la guida del
ORTO BOTANICO
fondatore Patrizio Gennari e ricalcarono il progetto originale dell’architetto Gaetano Cima. Oggi il giardino contiene circa 2000 specie vegetali, prevalentemente originarie del bacino mediterraneo, ma con una buona presenza anche di piante grasse e tropicali e altre rare specie, più diversi alberi secolari, come ad esempio i grandi ficus magnolioides, che sono persino più antichi dell’orto stesso. Il giardino è suddiviso in tre sezioni principali: le piante del Mediterraneo, che rappresentano le tre fasce della vegetazione della Sardegna così come le specie provenienti dall’Australia, California e Cile; piante grasse,
circa 1000 unità di piante grasse quali l’Echinocereus, Euphorbia, Lamphrantus, Mammillaria, Opuntia, coltivate in serra e all’aperto, equamente suddivise tra specie di origini africane e americane, e piante tropicali. In tutto, il giardino contiene circa 600 alberi (diversi dei quali secolari e giganteschi) e 550 arbusti. Di grande importanza l’area dedicata alla collezione palmizia (estesa per 4000 metri quadri) con circa 60 esemplari di Euphorbia canariensis, e una in particolare, a ridosso del muro che divide l’orto dall’Anfiteatro Romano, dell’estensione di 100 metri quadri, una delle più vaste d’Europa.
Come detto l’area del giardino riveste inoltre una notevole importanza di carattere archeologico anche per la presenza di cisterne e pozzi di età romana. Partendo da fondo valle, il giardino è caratterizzato da una serie di aiuole simmetriche rispetto a un viale, che si sviluppa dall’ingresso sino alla fontana del piazzale centrale e prosegue sino a una vasca occupata da un maestoso cipresso delle paludi, sino alla Fontana Pampanini. Qui sono sistemati alcuni degli esemplari di alberi più vecchi del giardino. Sul versante a sinistra del viale, si trovano le specie succulente (le piante grasse) nel cosiddet-
CAGLIARI to “deserto”, distinto in piante di origine africana e flora neotropicale e, più spostate verso l’ingresso, le arecaceae (palme) nel palmeto, dove è stato ricostruito l’habitat di un’oasi. A destra del viale principale si trova lo spazio dedicato alle piante mediterranee, dove è possibile ammirare le specie arbustive e arboree della macchia, e l’Orto dei semplici, che ospita piante officinali usate nella tradizione popolare, considerate le più efficaci dalla scienza erboristica. L’Esposizione delle geofite è uno dei settori più recenti (2009) con una collezione di circa 200 esemplari. Dal fondovalle si rag-
giunge la parte alta dell’Orto Botanico grazie a una lunga scalinata. Da visitare assolutamente anche la Grotta Gennari, la Vasca a trifoglio, la Cava romana, la magnifica cisterna romana, la passeggiata sopraelevata, la banca del Germoplasma e il museo botanico. Imperdibili, infine, le Roccaglie delle biodiversità, allestimenti che ricreano condizioni nelle quali vivono in natura alcuni tipi di piante che crescono in territori pietrosi. In quest’area è conservato il 90 per cento delle specie endemiche, rare e minacciate, delle isole del Mediterraneo occidentale.
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ura.
Ha un suono gentile e l’abbiamo trascurata. Proprio lei, che non è mai cambiata. Che è rimasta immobile per rassicurarci. Cura viene dal latino “cura”, la lingua si trasforma, velocissima, ‘Cura’ no. È un termine resistente, lo usavano allo stesso modo secoli fa, non è mai cambiato perché diciamo, è stato “tenuto con cura da tutti”. Ma come tutte le cose che resistono, che ci attraggono ha sempre avuto un’ambivalenza affascinante simile a quella che ha per noi oggi. ‘Cura’ è innanzitutto il riguardo, la preoccupazione per qualcosa o qualcuno a cui teniamo. Ma cura è molto più di una semplice attenzione, perché non è frettolosa, istantanea. Ricordate la Rosa del Piccolo principe? Che diventa importante proprio per la cura che ci abbiamo messo per farla fiorire? C’è una bella differenza tra essere attenti alle rose, interessarsi alle rose o prendersene cura. Sono azioni molto diverse. La cura è un processo, un progetto proiettato verso il futuro. Aver cura significa avere a che fare con l’altro da noi. Aprirci al prossimo. La cura partecipa, non è zelo, educazione, buone maniere. (segue a pagina 10)
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(segue dalla pagina 9) La cura ha bisogno di personalità sensibili. Di fautori dotati di empatia. L’aver cura di qualcuno o qualcosa significa coltivare la libertà. Perché cura ha solo un vero unico sinonimo che è Amore. Battiato lo sapeva molto bene e ci ha scritto la più bella canzone sull’amore, badate bene non d’amore, che esista. Ma purtroppo cura, oggi, in mezzo alla pandemia l’abbiamo travisata, costretta a un significato non suo. Cura come un’operazione che arriva dopo. Dopo il virus, dopo il dolore, dopo la sofferenza. L’abbiamo usata come sinonimo di “rimedio”. E mai quanto in questi due anni l’abbiamo tradita. Dovremmo arrivare prima che le cose si rompano. Dovremmo prenderci cura prima della salute pubblica. Chi fa politica dovrebbe prendersi cura del benessere dei cittadini. Ma per farlo, per onorare con gesti concreti questa parola che ha un significato profondo bisognerebbe avere una personalità profonda capace di provare complicità, condivisione. Coinvolgimento. Preoccuparci di una mancanza che non dovrebbe lasciarci indifferenti. Ci auguro dunque di essere all’altezza di questa
INCHIETOS DONA ORA
parola. Perché a lei ci aggrappiamo da 24 secoli, non per caso. È bellissimo essere qui oggi per prenderci cura di chi è rimasto vittima di questi incendi, gli ultimi in ordine di tempo ma non gli ultimi per sempre, purtroppo. Ma ciò che dobbiamo imparare a fare da ora in poi è insegnare ai nostri figli e alle nostre figlie che la Terra, la nostra matria Sardegna ha bisogno di cure preventive. Di attenzione metodica, di essere amata, ascoltata, rispettata. Di governanti con una visione a lungo termine. IT 63 K 0101588170000000060145 L’epoca dei Rimedi vorrei finisse oggi, qui, con tutti voi e noi. Vorrei ci prendessimo cura, per mano, tutti insieme di ogni ramoscello d’ulivo, fiore di campo, sasso, tronco di albero, frutto e animale. Bruciare la propria Nazione è molto più di un reato. È un abominio. Siate degni della parola “cura” che è stata capace di aspettarci in tutti questi secoli. Siate degni di questa isola che non ci meritiamo. Donate e promettiamoci che Non permetteremo mai @webtvdesaslimbasdesardigna più che tutto questo accada. Grazie. https://www.facebook.com/ Claudia Sarritzu Inchietos - Uniti per la Sardegna groups/inchietos/
Comune di Usellus Donazione per emergenza incendi
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CALA GRANDE SANTA TERESA L’
eden selvaggio di Cala Grande, tra graniti e macchia mediterranea, assomiglia sempre di più al regno dell’illegalità, del degrado e degli abusi edilizi. Più nota come Valle della Luna, nome che la comunità hippy diede a questo angolo di paradiso negli anni Sessanta quando vi si stabilì, l’area da alcuni decenni è un’oasi fuori dalle regole, una repubblica . Quest’anno però le segnalazioni sullo stato della zona hanno travolto i social e i cellulari degli amministratori al punto da spingere i consiglieri regionali, Dario Giagoni della Lega e Nico Mundula di Fratelli d’Italia, a chiedere l’intervento della Regione. Propongono l’esproprio dei terreni, attualmente di proprietà privata, per pubblica utilità e di affidare il controllo della valle a Forestas per rirpristinare lo stato dei luoghi e garantire la vigilanza. A Cala Grande le regole che ogni cittadino è tenuto a rispettare non si applicano. Area marina protetta all’interno della penisola di Capo Testa, area Sic, sito di interesse comunitario, candidata a diventare patrimonio dell’umanità, nei fatti nella Valle della Luna vige la totale anarchia. Vietata la pesca. Ma qualche giorno fa la Capitaneria di porto ha sequestrato il gommone di un “abitante”
Come stupirsi che siano proprio gli esponenti (sic) della Lega e di Fratelli d’Italia, due formazioni politiche note per la loro tolleranza che si facciano carico di chiedere l’esproprio di un terreno privato alfine di contrastare manifestazioni ormai insediate da più di sessant’anni senza alcun problema? Visibilmente il piacere altrui disturba. Qui l’immagine di un meraviglioso concerto parte de Musica sulle Bocche
delle “case nelle rocce” perché scoperto a pescare. Il pesce sarebbe stato poi venduto ai turisti. Vietato raccogliere conchiglie dall’arenile. Alla Valle della Luna le conchiglie nostrane vengono invece vendute in improvvisati banchetti e si possono acquistare a “offerta libera”. Vietato accendere fuochi e fare campeggio. In tutta l’area ci sono tende e materassi e le serate del fuoco vengono finanziate dalle offerte degli escursionisti. Ci sono poi le grotte naturali, spettacolari sculture di madre natura scavate nel granito, utilizzate come abitazioni, colorate sia all’interno che all’esterno. In alcuni casi i sassi della valle sono stati usati come mattoni e impilati con cemento fino a creare muri e locali. Tutto rigorosamente abusivo. Non mancano poi rigogliose piante di marijuana coltivate in vaso. «Un’area da preservare e tutelare (si legge nell’interrogazione di Giagoni e Mundula). Questo però non avviene come dovrebbe. Sono sempre più frequenti, infatti, le segnalazioni di abitanti del posto e/o turisti che dopo averla visitata rimangono basiti dalla situazione che vi ritrovano. I campeggiatori abusivi, ormai da decenni abituali dell’area, (segue pagina 12)
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CAMUC CASA MUSEO CANNAS
(segue dalla pagina 11) sono soliti praticare tagli nella vegetazione e accendere talvolta fuochi che costituiscono un problema per la sicurezza e la libera fruizione del luogo, alcuni vivono nei vari anfratti delle rocce arrivando a modificarne pesantemente la morfologia altri, addirittura, parrebbero essere arrivati alla realizzazione di vere e proprie opere edilizie abusive con annesse recinzioni e divieti di passaggio che inevitabilmente modificano i sentieri naturali che da anni vi si ritrovano. A tutto questo si aggiungono le attività illecite, quali vendita non autorizzata di prodotti di varia natura, vendita abusiva di conchiglie recuperate nelle spiagge limitrofe e spaccio di sostanze stupefacenti. Una situazione paradossale, che stride con la bellezza e la meraviglia del paesaggio e dell’ambiente che necessita di un intervento risolutivo e decisivo. Per questo abbiamo deciso di presentare un’interrogazione consiliare agli assessori dell’Ambiente e degli Enti locali in primis per dare risalto alla questione, e poi per chiedere di prevedere l’esproprio dell’area, essendo ancora in parte in mano di privati cittadini, e affidarla al controllo dell’Agenzia regionale Forestas che garantirebbe il ripristino dello stato dei luoghi e la sua salvaguardia».
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edificio è imponente e domina il paese di Ulassai, volgendo il suo sguardo alle rocce dei tacchi che incorniciano il borgo ogliastrino. È situato nel centro storico e ha due ingressi: uno, in particolare, è nella via dei Libretti murati realizzati da Maria Lai, opere di terracotta disseminate nei muri a rimandare al profondo legame dell’artista coi luoghi in cui è nata e dove ha vissuto per tanti anni. Qui sorge un nuovo museo dedicato alla jana, uno spazio espositivo che si compone di una serie di edifici che comprendono un insieme di piccole strutture disposte intorno al cortile interno. Si chiama Camuc, Casa museo Cannas, ed è stato inaugurato di recente in occasione della nuova mostra dedicata all’artista ogliastrina e pensata proprio per quegli spazi, in occasione dei quarant’anni della sua opera più celebre: Legarsi alla montagna. L’edificio è stato costruito ai primi del Novecento ed era di proprietà di un imprenditore facoltoso, Massimo Cannas. All’interno erano collocati un frantoio, un mulino elettrico per cereali e un impianto a carbone per la produzione di energia elettrica, che consentì al paese – primo della zona – di avere l’illuminazione pubblica e privata.
Gli spazi sono stati rilevati negli anni Novanta dal Comune che ha coinvolto uno studio di architettura romano, LaiBe, con l’obiettivo di riqualificarli seguendo due direttrici principali: inserire elementi contemporanei ma facendo attenzione a valorizzare ciò che la struttura aveva già al suo interno (un caminetto, il forno, le mattonelle riutilizzate per evidenziare gli elementi storici dell’edificio collocandole all’interno del percorso museale). Il risultato è un centro culturale polivalente che ospiterà mostre, convegni, workshop, laboratori e proiezioni. La prima mostra è naturalmente dedicata a Ma-
ria Lai e si intitola “Di terra e di cielo“. “Due concetti fondamentali per l’artista (spiega Davide Mariani, direttore della Stazione dell’arte e curatore dell’esposizione in programma fino al 24 ottobre): la terra ricorda l’attaccamento alla sua origine, il suo universo creativo, i riferimenti al paesaggio, all’infanzia, ai ricordi e alla tessitura. E poi c’è il cielo, quell’ansia di infinito che è presente in molte delle sue opere”. Il progetto si articola in due percorsi espositivi: uno all’interno degli spazi del Camuc e l’altro tra le vie del centro storico, per connotare sempre di più Ulassai come un “museo a cielo aperto”,
spiega Mariani. Nel museo si possono ammirare oltre cento tra opere autografe, foto, video, bozzetti e nuove acquisizioni, con un filo sottile che lega la mostra all’anniversario della performance di arte relazionale di quarant’anni fa. “Maria Lai non parlava di opere d’arte ma di tentativi e vedeva Legarsi alla montagna come un tentativo riuscito, il suo più importante. Così ha continuato a riflettere anche negli anni Duemila su quella esperienza. Ad esempio con “La frana”del 2002, che riproduce alcuni sassi (in ceramica o veri) che simulano la frana appun-
to, l’elemento scatenante che ha innescato l’opera relazionale. Per “Tra terra e cielo” del 2006 invece utilizza la tela di jeans celeste che è la stoffa usata per legare le case alla montagna”. L’analisi dell’opera di Maria Lai arriva fino alla sua sfera più intima, con un allestimento realizzato per ricreare la sua stanzetta-atelier-laboratorio con elementi di arredo che ricordano la sua dimora. “Abbiamo utilizzato la sua macchina da cucire, donataci da una sua nipote, i libri che l’hanno formata, e gli elementi architettonici che ricordano lo studio dove ha lavorato per oltre trent’anni . In questo modo i visitatori possono cogliere l’attitudine dell’artista, che non scindeva mai tra arte e vita. Troveranno oggetti che le sono appartenuti, anche un vestitino da carnevale cucito per una nipote”. A questo proposito è importante sottolineare come diversi parenti dell’artista abbiano deciso di donare delle opere al museo e al Comune, specie a seguito della diatriba giudiziaria tra la Fondazione Stazione dell’arte e l’erede universale di Maria Lai, la nipote Maria Sofia Pisu. “La maggior parte della famiglia ha scelto di sostenerci se l’artista ha deciso di creare un museo lo ha fatto perché potesse contribuire a divulgare la sua arte (segue pag. 14)
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Foto vistanet.it
(segue dalla pagina 13) e la sua visione dell’arte. Diversi nipoti si sono privati di opere importantissime e le hanno donate alla Fondazione. Gliene siamo grati”. Tra le vie del centro storico si possono ammirare invece oltre cinquanta fotografie, molte delle quali inedite, che raccontano l’opera di 40 anni fa, quella in assoluto più emblematica per cogliere il rapporto tra l’artista e la sua comunità. Fino a questo momento quelle più note al grande pubblico sono state quelle scattate da Piero Berengo Gardin. In seguito a un lavoro di studio e ricerca condotto negli ultimi due anni dalla Fondazione, sono emerse ulteriori tracce capaci di svelare alcuni retroscena dell’azione partecipata. Tra queste, le immagini realizzate da Virgilio Lai durante l’evento che, unitamente a quelle di Gardin, sono per la Parco di Tepilora e prima volta esposte en Comune di Torpè plein air per le vie del Ceas Torpè Porta del Parco paese, arricchendo l’itiOrari visite: 17:00 – 20:00 nerario del Museo a cie(giorni feriali) lo aperto “Maria Lai”, recentemente dichiarato fine settimana fino alle ore 22:00 sito di interesse culturaè possibile prenotare le dal ministero dei Beni Tel 3395852515 culturali.
Il P O P O L O D I B R O N Z O 2.0 mostra permanente ideata e realizzata da Angela Demontis
ingresso è gratuito con Green pass h t t p s : / / w w w. s a r d i n i a p o s t . i t / c u l t u r e / (ai sensi del D.L. 23Luglio 2021) un-nuovo-museo-nelcuore-di-ulassai-ledificio-rivive-nel-nome-dimaria-lai/
MUSEO CIVICO Via S. Nicolò n°61 08020 Torpè
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ono gli antichi nuragici i protagonisti dell’estate di Torpè. Dal giorno di ferragosto è infatti aperta al pubblico nei locali del nuovo museo civico la mostra “Il popolo di bronzo 2.0”. Si tratta di un allestimento permanente con archeologia sperimentale ispirata alla statuaria in bronzo di epoca nuragica ideata e realizzata da Angela Demontis che ha trovato la piena collaborazione dell’amministrazione comunale. La mostra si tiene nei locali comunali realizzati grazie al finanziamento ottenuto del Parco naturale regionale di Tepilora con la collaborazione del centro di educazione ambientale. Si tratta di un’opera unica realizzata dall’artista Angela Demontis diventata di proprietà esclusiva del comune e presentata già lo scorso anno al Ceas. Un lavoro ampliato con nuove statue e nuovo materiale grazie ad una ricerca storica più accurata che ha portato all’analisi di centinaia di bronzetti nuragici rivenuti in tutta l’Isola. Il museo sarà inaugurato ufficialmente a breve con una cerimonia a cui parteciperà la realizzatrice di questo immenso lavoro, l’artista Angela Demontis. (s.s.) https://www.facebook.com/CeasTorpePortadelParco/
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so, a Toronto, a Glasgow, in Germania, in Francia ed addirittura al Metropolitan Museum di New York. La lista è lunga, lunghissima: sono quasi incredula nel pensare a come la mia terra abbia dato così poca importanza ad un’artista che ha raggiunto importanti vette, un’artista che sembra anche lei venire dal passato. Dai modi dolci e gentili, Angela mi accompagna in questo viaggio nel passato alla scoperta dei miei antenati. Raccontami: chi è Angela Demontis? “Bella domanda! Dipingo, disegno, sono stata illustratrice scientifica, ho fatto ricostruzioni archeologiche collegate a questo lavoro del popolo di bronzo, ho ricostruito i costumi dell’epoca nuraIl progetto gica, sono ceramista, ho nasce da un’idea che avevo fatto, sempre a riguardo da bambina. al popolo di bronzo, speNei libri di storia ci spiega- rimentazioni sui colori minerali.” no come erano vestiti i Gre- Spiegami meglio questa ci, gli Etruschi, i Romani, gli cosa dei colori. Egizi ecc., di loro sappiamo “Sono dovuta partire dai minerali e dalle piante tutto. per la tintura dei tessuti, Ma i Sardi come si vesti- ricerca, tra l’altro, che vano? Come sono cresciuta, ho condotto parallelamente alla stesura del diventando disegnatrice, libro per capire come in sono andata al Museo Ar- quell’epoca tingessero le cheologico di Cagliari con varie stoffe. I primi sono quelli che si ricavano dai un blocco per gli schizzi e la minerali che io stessa matita a guardare bene tutti polverizzo con un classii dettagli dei bronzetti...” co mortaio, li setaccio e li raffino sino a farli diAngela Demontis ventare pigmento da pitvedi il video tura; https://vimeo.com/284460867 (segue pagina 16)
ANGELA DEMONTIS
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uando vidi per la prima volta i bronzetti sardi in una delle grandi sale del Museo Archeologico di Cagliari ero solo una bambina. Quel popolo mi incuriosiva, stipati in quella vetrina: quasi ammassati, mi sembravano come imprigionati in quelle statuine da uno strano incantesimo. Da allora non smisi più di pensarci.” Così inizia la conversazione con una delle più illustri conoscitrici del popolo di bronzo, Angela Demontis. Figlia d’arte, la mamma ceramista e scultrice, il papà pittore trasmettono ad Angela questa passione fin da piccola coinvolgendola nelle più svariate attività. Angela Demontis è l’autrice di uno dei libri che raccontano una popolazione vissuta in Sardegna nel periodo nuragico (dal 1855 al 900 a.C.), dai cui il titolo del suo libro “Il popolo di bronzo”, periodo caratterizzato da un’ampia presenza nel territorio sardo di torri di pietra di varie dimensioni meglio conosciute come nuraghi. Il libro, pubblicato nel 2005, ha oggi una diffusione a livello mondiale. Copie di questa straordinaria raccolta di bronzetti sardi le troviamo nelle biblioteche di illustri università di tutto il mondo, da Harvard ad Oxford , da Yale ad Harvard sino alla Public Library di New York. E ancora, a Whashington nella libreria del Congres-
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(segue dalla pagina 15) stesso lavoro con le varie piante, con le quali va fatto in maniera ancora più certosina.” Le tue sono riproduzioni fedeli. Immagino in passato la scala dei colori fosse molto ridotta: quanti colori hai classificato ricavandoli dalla natura? “Per ora nelle mie escursioni ho trovato 37 tonalità diverse, dalle piante si possono ricavare poi infinite sfumature e, come oggi, anche in passato mischiavano i colori per crearne di nuovi.” Mi fa vedere alcuni colori ricavati dalla terra di Sardegna rigorosamente catalogati per località di raccolta della materia prima e conservati in piccole ampolle di vetro: i gialli, il verde, il rosa, il celeste, l’azzurro, l’arancio, il lilla, l’oro… Sembra incredibile tutto quello che si può ricavare dalla natura ! “Penso che la ricerca non finirà mai, le tonalità sono tante. I colori predominanti sono le sfumature dell’ocra che è un ossido di ferro che può avere diverse intensità di rosso.” Come è nato questo progetto? “Nasce da un’idea che avevo da bambina, una curiosità più che altro. Nei libri di storia ci spiegano come erano vestiti i Greci, gli Etruschi, i Romani, gli Egizi ecc, di loro sappiamo tutto, ma i Sardi come si vestivano? Come sono cresciuta, di-
ventando disegnatrice, sono andata al Museo Archeologico di Cagliari con un blocco per gli schizzi e la matita a guardare bene tutti i dettagli dei bronzetti. Era un luogo che ero già abituata a frequentare fin da piccola, accompagnata dai miei genitori che, essendo artisti, sono sempre stati molto sensibili all’arte ed alla storia antica e mi hanno instradata in questa mia passione. Già da allora i bronzetti ammucchiati all’interno di una vetrina sembravano un popolo sotto incantesimo. Nel libro ho raccolto 105 illustrazioni dove spiego in maniera dettagliata l’abbigliamento di 100 personaggi. I bronzetti sono tantissimi, ho dovuto fare una scelta, ho cercato di capire la stratificazione degli abiti, il tipo di armi, se c’erano analogie con altri popoli contemporanei, ecc.” Osservandoli attentamente ho notato che sei riuscita a risalire anche al ceto sociale di numerosi personaggi, la descrizione che accompagna ogni singolo disegno è talmente dettagliata da non lasciare spazio ad altre interpretazioni. “Sì, si capisce molto bene, soprattutto le donne! Sono rappresentate delle signore molto importanti, delle regine o capi delle comunità, non sono donne qualsiasi.”
Da quello che hai potuto capire studiando la loro vita, i loro usi, i loro costumi e le loro abitudini era una società matriarcale o patriarcale? “Secondo me matriarcale, le donne erano le enciclopedie viventi della comunità, avevano la conoscenza della tecnologia, delle erbe, della geometria e della matematica. Successivamente bollate di stregoneria dal cristianesimo, la nuova religione che doveva sovrapporsi alla precedente e tendeva ad eliminare i personaggi potenti e più in vista, vennero messe in secondo piano.” Per quanto riguarda i tessuti dell’epoca, come ti sei documentata? Come sei risalita agli stessi? “Usando il buon senso. Purtroppo la Sardegna non ha un clima conservativo e di conseguenza non sono stati trovati i tessuti, quindi mi sono basata sul ritrovamento degli animali che allevavano in quel periodo. Si sa che avevano allevamenti di caprini ed ovini, quindi ho immaginato che da questi ricavassero la lana e come tessuto più morbido da indossare a contatto con la pelle molto probabilmente il lino. Quest’ultimo in Sardegna si coltivava già in epoca romana, erano tessuti pregiatissimi che venivano portati sino a Roma, e poi ho avuto conferma dal ritrovamento nella zona di Arzachena di un filo di lino
incastonato nella perla di un’antica collana di epoca nuragica risultata del 900 a.C.” Dal libro alla mostra, raccontami… “Il libro è uscito nel 2005, la mostra nel 2010. La prima tappa fu dentro il Museo Archeologico di Cagliari, per due mesi nella sala dei bronzetti fu un viavai di persone locali e turisti, totalizzando in così poco tempo 20.500 visitatori, un record mai visto. La mostra ha il marchio MIBAC, che certifica l’approvazione del mondo archeologico, questo per me è stato un grande onore perché ho capito che avevo fatto un buon lavoro, che ero riuscita nel mio intento.” Il tuo libro gira nelle più prestigiose università del mondo, Oxford, Harvard, Yale, Columbia University di New York, Toronto, Cambridge, Oxford, Heidelberg e tante altre. Come ti spieghi questo successo? “Per la precisione è esattamente negli atenei di 26 località sparse in tutto il mondo. È arrivato in questi posti tramite un’organizzazione internazionale che sta attenta quando escono pubblicazioni particolari, vengono diffuse se sono di interesse storico e c’è un passaparola tra le biblioteche universitarie. A New York, per esempio, lo si può trovare non solo alla Columbia University (segue pagina 18)
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(segue dalla pagina 17) ma anche al museo MOMA ed alla Public Library. A dire il vero non mi aspettavo tutto questo successo… (sorride)” Che cosa hai voluto trasmettere con questa mostra riconosciuta ed apprezzata a livello mondiale? “Ho voluto far conoscere la grandezza di questo popolo che è poco conosciuto dagli stessi sardi. Gli ho voluto rendere dignità umana, per questo li ho fatti a grandezza naturale per farli ammirare in tutto il loro splendore.” In cosa differisce questa civiltà dalle altre? “La cultura nuragica innanzitutto è più antica di quella etrusca e di quella greca, tant’è che dovrebbero essere riscritti anche i libri di storia dell’arte perché i Sardi hanno iniziato a scolpire prima dei Greci: le statue di Monte Prama sono datate all’anno 1000 a.C., i Greci hanno iniziato nel 600 a.C. e questo andrebbe enfatizzato a livello mondiale. Se poi parliamo dell’architettura, i nuraghi stessi sono dei capolavori inarrivabili con lavori di ingegneria importanti ed unici.” Per la mostra quanti personaggi hai ricreato? Descrivimi alcuni di loro. “Esattamente dieci, tre donne e sette uomini. Il Capo tribù di Uta, caratteristico perché porta sia la spada che il bastone scettro detto nodoso. Portando la spada rispetto ad altri capi tribù rin-
venuti ci sta facendo capire che non era solo il capo della comunità ma era anche il capo militare. Ha un tipo di spada che veniva usata all’epoca anche in ambito miceneo, la spada di Achille e di Agamennone era fatta così, a lama larga. Queste spade sono state ritrovata veramente e sono lunghe 80 cm. -La Dama di Teti (Teti È il paese che ha restituito il più alto numero di bronzetti) con il cappello a punta rappresentava non solo un Capo della comunità ma la Curatrice, la persona a cui rivolgersi quando si stava male. L’Arciere di Teti: il suo abbigliamento ricorda quello di stile orientale, con l’elmo con il pennacchio e l’arco a braccio. La maggior parte dei guerrieri erano arcieri. Alcuni bronzetti rappresentano degli artigiani: ho cercato di ricreare individui dell’intera società dell’epoca, ce ne sarebbero tanti da riprodurre di molto interessanti ma ho dovuto fare delle scelte.”Mi preme infine molto ringraziare la signora Graziella Pinna Arconte che è stata così gentile da portare il mio libro sino a New York con tanto di foto all’Onu e di consegnarlo nelle mani del Direttore Stefano Vaccara che è venuto così a conoscenza del mio lavoro”. Federica Sabiu The Big Cranberry https://www.lavocedinewyork.com/arts/arte-e-design/2019/03/07/angela-demontis-lartista-che-rida-vita-al-popolo-dei-bronzi-dellantica-sardegna/
di opere in mostra e alle informazioni biografiche degli artisti, una sequenza di scatti amatoriali dell’inaugurazione. Precursori, maestri e giovani artisti sardi sono i protagonisti di una mostra che intende raccontare le molteplici nature di una corrente artistica sperimentale, in continuo divenire, capace di esiti effimeri e concettuali, percorsi da un’energia ancestrale. L’accesso alla mostra sarà consentito secondo la normativa anti-Covid vigente. Foto museomurats
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due anni dalla prima edizione della Biennale della Fiber-Art della Sardegna, il Museo Unico Regionale dell’Arte Tessile Sarda (MURATS) di Samugheo, prosegue il proprio lavoro di ricerca, riscoperta e inventariazione delle esperienze maturate dagli artisti sardi in tale ambito, allo scopo di definire percorsi, sviluppi ed esiti della ricerca contemporanea. Il secondo atto di INVENTARIO 20, curato dal Direttore del Museo MURATS Baingio Cuccu e da Anna Rita Punzo, mette in scena un percorso espositivo eterogeneo, caratterizzato dalla co-presenza di grandi installazioni e opere di piccolo formato e dal costante dialogo tra lavori di recente produzione e progetti risalenti agli anni 80/90, talvolta inediti, poco noti o conosciuti solo attraverso foto e cataloghi dell’epoca. Spazio anche alle incursioni nella pittura e nella fotografia, media attraverso cui gli artisti conferiscono nuova linfa e significato a cuciture, ricami, manipolazioni tessili e sovrapposizioni materiche. L’edizione 2021, che annovera tra i propri partner la rivista dedicata alle arti tessili ArteMorbida Textile Arts Magazine, è suggellata dalla presentazione del catalogo ufficiale della prima Biennale della Fiber-Art della Sardegna, che propone oltre ai testi dei curatori, alle immagini fotografiche di una selezione
Artisti in mostra: Silvia Argiolas Pietrina Atzori Pietruccia Bassu Betty Casula Giulia Capsula Casula FIBER ART Cenzo Cocca Nietta Condemi De Felice Sardegna 2021 Tiziana Contu • fiber artist Giuliana Fanelli MURATS Daniela Frongia Museo Unico Regionale Veronica Gambula dell’Arte Tessile Sarda Daniela e Francesca Manca Maria Grazia Medda Gianluca Melis Via Bologna sn Monica Mura Samughèo Antonella Muresu Tel +39 0783 631052 Sabrina oppo museomurats@gmail.com Antonello Ottonello http://murats.it/ Igino Panzino Romeo Pinna vedi video Josephine Sassu https://www.facebo- Antonio Secci ok.com/ Maria Jole Serreli museomurats/videos/ Stefania Spanu
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nna Marongiu Pernis, la sua storia è di quelle che non si dimenticano: scomparsa ad appena 34 anni in un incidente aereo, Anna Marongiu è stata una pioniera dell’illustrazione durante il ventennio fascista. Il suo talento e amore per il disegno ha portato le sue opere fino al The Charles Dickens Museum di Londra. Scarse notizie e una esigua letteratura critica documentano la vita e l’opera di questa grande artista nata a Cagliari nel 1907 da Efisio Luigi, medico oculista, e da Nelly Pernis, cagliaritana di origine svizzera. Ebbe due fratelli: Valentina ed Enrico. Avviata per volontà della famiglia agli studi di ragioneria, che condusse sino al diploma, la Marongiu sin da bambina praticò, da autodidatta, il disegno, rivelando un’inclinazione per l’illustrazione e la caricatura. Datano al 1926 Le tavole per «I promessi sposi» a tempera e matita, recentemente pubblicate. Queste delicate opere giovanili presentano, pur con alcune ingenuità e soluzioni convenzionali, una eco del gusto déco internazionale. Decisa a intraprendere la carriera di artista, nel biennio 1927-28 la Marongiu soggiornò a Roma, dove frequentò l’Accademia Britannica e lo studio di Umberto
ANNA MARO Coromaldi, presto delusa, d’altro canto, dall’insegnamento marcatamente accademico del pittore. Più formativa dovette essere la vicinanza con il cugino Giuseppe Capponi, valente architetto razionalista e, nel 1929, progettista degli interni della casa di Gloria Bishop Gould a Roma, per la quale la Marongiu decorò i mobili della camera dei bambini. La Marongiu produsse delle figurazioni di tono incantato, dai colori leggeri, dando all’insieme un’atmosfera metafisica, assai aggiornata per l’epoca. Il 1929 fu un anno di intensa attività: si dedicò a illustrare il Circolo Pickwick di Ch. Dickens, realizzando acquerelli e oltre duecento disegni a penna, che attualmente sono custoditi presso il Dickens House Museum di Londra: i personaggi sono individuati da un segno nitido e teso, mentre un’ironia sottile anima le scenette, ispirate alle illustrazioni ottocentesche. Sempre nel 1929, in aprile, la Marongiu espose per la prima volta, partecipando a Cagliari alla mostra «Primavera sarda» accanto ai più noti conterranei Giuseppe Biasi e Mario Delitala. La Marongiu presentò acquerelli di tema campestre, oggi perduti, che suscitarono attenzione: da questa data, infatti, la Marongiu compare nelle più importanti rassegne e manifestazioni artistiche isolane. Risalgono al 1930 i raffinati disegni per il Sogno di
ONGIU PERNIS una notte di mezza estate di W. Shakespeare, ambientati in una classicità rarefatta e lontana, che ricorda, pur con una qualche tenerezza femminile, il gusto di Gio Ponti. Nei primi anni Trenta la Marongiu si accostò all’acquaforte, tecnica nella quale eccelse: si formò a Roma, con Carlo Alberto Petrucci, alternando a lunghi soggiorni romani la vita a Cagliari. Le prime stampe, raffiguranti soprattutto nature morte, sono del 1932: si ricordano Crisantemi e Gallo e gallina (Cagliari, Biblioteca universitaria, Gabinetto disegni e stampe). Se la prima opera colpisce per il ritmo compositivo serrato e per la maestria nel go-
verno delle morsure plurime, Gallo e gallina è un omaggio alle incisioni secentesche, che dichiara, per altro, una diretta conoscenza dei migliori incisori italiani contemporanei, come Giorgio Morandi e Luigi Bartolini. I due animali, in primo piano, sono definiti da solchi profondi e marcati da un’inchiostratura decisa: la M. si qualifica, sia per il segno sia per la luce, come una calcografa di rara chiarezza esecutiva. Nel medesimo periodo, la Marongiu si volse al paesaggio, realizzando tavole di piccolo formato caratterizzate da un tratteggio fitto e dinamico, interrotto da spazi bianchi come luci improvvi-
se: è la lezione di Felice Melis Marini, maestro degli incisori sardi e valido paesista, che conobbe e apprezzò la giovane collega. Nel 1933 la Marongiu si distinse alla IV Mostra sindacale sarda, svoltasi alla Galleria comunale d’arte cagliaritana, dove figuravano, accanto ai sardi, artisti italiani importanti come Giannino Marchig e Francesco Menzio. Rappresentativo della produzione del periodo della Marongiu, ricca di suggestioni metaforiche e simboliche, è il disegno L’amorosa tragedia, sul tema dell’amore come commedia della vita. Affermata acquafortista, la Marongiu. appa-
re estranea, nei soggetti prescelti, al tema della vita popolare sarda, che invece connota la vasta e acclamata produzione incisoria isolana dell’epoca: Altalena di pagliacci, Circo equestre, Maschere sono alcuni dei titoli, che evidenziano una ricerca avulsa da ogni regionalismo. Dalla metà degli anni Trenta, inoltre, la Marongiu si indirizzò ai temi sacri, incidendo anche una Crocifissione e una Fuga in Egitto. Entrambe esposte nel 1936 nell’ambito della VII Sindacale sarda, le due tavole prospettano ricerche formali divergenti. La Crocifissione difatti si presenta affollata di personaggi dai forti contrasti chiaroscurali che sottolineano le masse plastiche dei corpi; all’opposto nella Fuga in Egitto prevale un elegante grafismo di superficie, sostenuto dalla intensa luminosità del paesaggio desertico popolato solo da esili palmizi che, come quinte teatrali, inquadrano l’azione. In armonia con i progressi e i successi della Marongiu si intensificò, anche grazie alla stima di Petrucci, la sua partecipazione alle rassegne nazionali e internazionali di incisione e grafica: nel 1935 a Riga, nel 1936 ad Abbazia, in Istria, l’anno seguente ad Atene e Bucarest. Nel febbraio del 1938 tenne, (segue pagina 22)
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Incisione AnnaMarongiu
(segue dalla pagina 21) con soddisfazione di critica e di vendite, la prima personale alla galleria Palladino di Cagliari: una settantina di opere tra disegni e incisioni, a sunto di tutta l’attività svolta. Nello stesso anno la Marongiu illustrò il romanzo per ragazzi di Giuseppe Fanciulli, La barca della fortuna (Torino). Ambientato in Sardegna: ella si ispirò alla xilografia isolana, allora in gran voga, per raffigurare una inedita Cagliari moderna e antica insieme, non folcloristica ma originale nelle sue usanze. Per Filiberto Farci, scrittore isolano tra i più noti del tempo, preparò le illustrazioni per i Racconti di Sardegna e per il romanzo L’ultima tappa. Nel 1939 ottenne l’incarico di affrescare la cappella del Centro traumatologico di Iglesias, vicino a Cagliari, con scene dalla vita di Maria e Gesù. Per apprendere tale tecnica – poco o nulla frequentata dall’arte sarda – e prepararsi adeguatamente, la Marongiu seguì a Roma i corsi di Ferruccio Ferrazzi; realizzò a matita i bozzetti, che suggeriscono un ambiente in stile neorinascimentale, di ascendenza toscana. La Marongiu riponeva grandi speranze in questo lavoro, ma lo scoppio della guerra impedì che il progetto si realizzasse. Contemporaneamente, tra il 1936 e il 1941 la Marongiu, che ormai risiedeva piuttosto stabil-
mente nella capitale sarda, disegnò, incise e stampò la serie delle Vedute di Cagliari, per la quale è a tutt’oggi ricordata. Si tratta di quindici acqueforti dedicate ai monumenti e agli scorci urbani più suggestivi – vanto della città prima dei bombardamenti che ne mutarono la fisionomia – condotte con vera maestria tecnica e con una vena narrativa allegra, attenta ai piccoli fatti della strada eppure non aneddotica. Spicca per qualità il rame Il porto (1941): sullo sfondo, nella luce del primo mattino, ferve la vita e il lavoro nella banchina del porto, ma in primo piano e in controluce giocano i bambini, si abbracciano gli innamorati. Ormai sicura dei propri mezzi espressivi e con la guida di Petrucci, la Marongiu si accostò allora, con esiti incoraggianti, alla tecnica del bulino. La morte giunse improvvisa, per un incidente aereo presso Ostia, il 30 luglio 1941. Alla Marongiu è intitolato il Gabinetto disegni e stampe della Biblioteca universitaria di Cagliari, dove sono custoditi – donati dai genitori alla morte dell’artista – un ampio corpus di incisioni e il torchio calcografico a lei appartenuto. Ornella Demuru https://www.facebook.com/ainnantis www.marongiu.org/AMWEB-2018/default.htm https://fb.watch/73o4BC6Ztg/
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SACCARGIA
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olto si è discusso sull’origine del toponimo Saccargia che secondo lo Spano deriverebbe dal vocabolo fenicio sachar ossia luogo chiuso, riferito probabilmente alla vallata circondata da rocce vulcaniche nel quale si erge la basilica. L’immagine di alcune vacche scolpite nel capitello del portico antistante potrebbe avvalorare l’ipotesi che il toponimo avrebbe origine, invece, da sa acarpa ossia vaccheria, data la notoria fertilità della vallata nel periodo medievale. Secondo il Libellus Judicum Turritanorum la fondazione dell’abbazia camaldolese della SS. Trinità di Saccargia sarebbe da attribuire al giudice Costantino I de Lacon Gunale e a sua moglie Marcusa per adempimento ad un voto. Consacrata il 5 ottobre 1116 sotto il pontificato di Pasquale II, l’abbazia è documentata tra i possedimenti camaldolesi anteriormente al 1112. Dal XVI secolo risulta abbandonata per la progressiva decadenza dei benedettini fino al principio del XX secolo, quando, sotto la direzione di Dionigi Scano, si operò il restauro e la ricostruzione integrale di alcune parti senza sostanziali modifiche. L’impianto a croce commissa, con aula mononavata, è costituito da un transetto triabsidato con bracci voltati
a crociera e una facciata preceduta da un portico. L’edificazione della basilica in opera bicroma alterna cantonetti calcarei e basaltici che ne distinguono due diverse fasi costruttive, la prima propria di maestranze pisane attive nel giudicato di Torres alla fine dell’XI secolo, mentre la seconda, risalente alla seconda metà del XII secolo, è collocabile in ambito pisano-pistoiese. All’impianto appartengono il transetto e parte dell’aula, successivamente sopraelevata, allungata e munita di una nuova facciata. Divisa in tre ordini, in quello inferiore si apre il portale sormontato da architrave a timpano rialzato, mentre i due superiori sono costituiti da una finta loggia di colonnine trachitiche sulle quali s’impostano arcatelle pausate da intarsi geometrici a losanghe e a ruote concentriche. Al centro dell’ordine mediano si apre una bifora con colonnina spartiluce, che tra il 1903 e il 1906 ha sostituito l’originario rosone. Alla seconda fase appartengono il portico, con volte a crociera, impostato su colonne e pilastri angolari, la sacrestia e il campanile a canna quadrata, nel quale la prima cella riceve luce dalle bifore con capitello a stampella, mentre nella seconda, pausata da archetti pensili, si aprono una serie di trifore. (segue p 24)
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Foto orlyniscu
(segue dalla pagina 23) Capitelli e ghiere scultoree del portico sono esemplate sull’unico modello originario custodito all’interno della chiesa. Le tre arcate frontali sono rifasciate da sopracciglio intagliato, la ghiera centrale conserva le sculture originarie con animali fantastici, mentre le due laterali presentano tralci fitomorfici realizzati con l’uso del trapano. Nel settore meridionale del sito si conservano i pochi resti del monastero e del chiostro. All’interno la monotona nudità della navata è spezzata dall’abside affrescata con un ciclo neotestamentario, l’unico del periodo romanico conservato integralmente in Sardegna. Al centro del catino absidale il Cristo benedicente sul globo è racchiuso in mandorla ed affiancato da angeli, arcangeli e serafini, nel registro mediano un personaggio inginocchiato davanti a San Benedetto precede la Vergine accompagnata da undici apostoli. Nella fascia sottostante si stagliano cinque scene della Vita di Cristo: l’Ultima cena, il Bacio di Giuda, la Crocefissione, il Seppellimento e la Discesa agli inferi. La fascia inferiore conclude l’affresco con un finto velario. La suddivisione in riquadri è comparabile ad una giustapposizione di pagine miniate presenti nei codici dell’epoca, riferiti
probabilmente a monaci benedettini particolarmente sensibili ad influssi bizantini. Il Toesca vi riconobbe un anonimo pittore umbro-laziale dei primi anni del XIII secolo, ascrizione confermata dal Maltese che attribuisce l’esecuzione dell’affresco al Maestro della Croce del Museo Nazionale di Pisa, inserendoli cronologicamente nella seconda fase costruttiva dell’abbazia. Roberta Vanali Bibliografia essenziale R. Coroneo, Architettura romanica dalla metà del Mille al primo ‘300 = Storia dell’Arte in Sardegna, Nuoro, 1993. R. Delogu, L’architettura del Medioevo in Sardegna, Roma, 1953. G. G. King, Pittura sarda del Quattro – Cinquecento, a cura di R. Coroneo, Nuoro, 2000. C. Maltese, Arte in Sardegna dal V al XVIII secolo, Roma, 1962. G. Padroni, Orme pisane in Sardegna, Pisa, 1994. M. Pintor, “La badìa e la chiesa di Saccargia” in Sardegna Economica, Cagliari, 1962. D. Scano, Storia dell’Arte in Sardegna dall’XI al XIV secolo, Cagliari-Sassari, 1907. A. L. Sechi, Ritrovare Saccargia, Cagliari, 1992. R. Serra, Pittura e scultura dall’età romanica alla fine del ‘500 = Storia dell’arte in Sardegna, Nuoro, 1990. P. Toesca, Il Medioevo, Torino, 1927.
LETIZIA BATTAGLIA
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a guardato in faccia i mafiosi in manette. Ha fotografato morti ammazzati e scene di miseria estrema e sofferenza, ma anche la vita quotidiana, le feste, i momenti felici della sua Palermo. A 86 anni, dopo tante immagini drammatiche e nere, Letizia Battaglia, palermitana, considerata la più grande fotogiornalista italiana, premiata in tutto il mondo per il suo impegno professionale e il suo occhio sempre attento a catturare tutti gli aspetti della vita, dalla cronaca al momenti più semplici del quotidiano, è oggi in cerca della gentilezza: come quella che si scorge in un angolo di Neoneli, piccolo borgo in provincia di Nuoro dove si è appena concluso Licanìas, il festival di parole, arte e paesaggi alla sua quinta edizione. Battaglia è stata invitata dall’amministrazione comunale che organizza l’evento e dal direttore artistico Alessandro Marongiu per raccontare : “Mi prendo il mondo ovunque sia. Una vita da fotrografa tra impegno civile e bellezza”, biografia scritta a quattro mani con la giornalista Sabrina Pisu pubblicata pochi mesi fa da Einaudi. E’ qui che l’abbiamo incontrata per una chiacchierata su cronaca, bellezza, femminismo e tenerezza. Prima di avviare la registrazione si assicura che si veda bene il vicolo, le vecchie case in pietra su cui si affaccia
prepotente un groviglio di rampicanti verdissimi. “Accanto a questo incubo che era la mafia ho fotografato anche cose belle, per me e tanti altri che volevamo un mondo migliore e più gentile. Sono segnata da quello che ho visto, ma c’è anche la vita, le donne, i bambini e le bambine, i fiori, la banale bellezza che tanto ci conforta”. Letizia Battaglia, che per decenni, da quando ha iniziato a lavorare con L’Ora e poi come free lance a Milano, è stata l’unica fotografa in un mondo di uomini, ha testimoniato con la sua stessa vita la ribellione al patriarcato, a un modello familiare che vedeva le donne relegate in casa. Oggi però si dichiara “arrabbiata con le donne”: “Le donne dovrebbero andare a gestire il potere con gli uomini, candidarsi alle cariche pubbliche, sporcarsi e rischiare e farlo in un modo diverso. Quelle che oggi occupano posti di rilievo lo fanno come lo fanno gli uomini adeguandosi a una cultura maschile. Che è meno generosa di quella femminile, perché gli uomini sono meno generosi delle donne”. “Cosa mi emoziona, mi colpisce oggi? Sono alla ricerca della tenerezza, ricevere e dare tenerezza, sarà banale ma dopo tante schifezze ora cerco questo”. Francesca Mulas https://cultura.tiscali.it/ libri/articoli/Letizia-Battaglia-autobiografia/
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ANTONIO BROCCU
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Print Collector Foto di Focus Storia
la pistola dei cowboy, quella dei film western. Storicamente è legata al nome dell’inventore americano Samuel Colt, che brevettò la pistola a tamburo, detta revolver in inglese o rivoltella in italiano, nel 1836. Pochi sanno però che la prima vera pistola a tamburo fu inventata a Gadoni, in Sardegna. Francesco Antonio Broccu (Gadoni, 16 maggio 1797 – 1882), inventore dal multiforme ingegnò, costruì la prima rivoltella nella sua Gadoni nel 1833, ben tre anni prima del collega americano Samuel Colt, che però ebbe il merito di registrarla all’ufficio brevetti assicurandosi così una rendita milionaria per lui e per i suoi discendenti. L’invenzione di Antonio Broccu, incuriosì non poco anche il re di Sardegna Carlo Alberto. Broccu qualche anno dopo fu invitato a tenere un corso sul funzionamento della pistola a Cagliari ma rifiutò l’invito per lo stesso motivo per cui non brevettò la sua invenzione: troppo l’amore per la sua Gadoni che non volle mai lasciarla. Una storia che ricorda da vicino la diatriba tra Meucci e Bell per l’invenzione del telefono, ma in realtà profondamente differente, non vi sono infatti prove di alcun contatto tra Broccu e Colt, semplicemente i tempi erano maturi per tale invenzione, ed il geniale inventore sardo
peccò unicamente di eccessiva timidezza (o sfortuna in base alle ipotesi). Ecco perché la Colt non si chiama Broccu: Qui la storia si fa infatti più confusa, c’è chi spergiura che dalle sue ricerche la pistola di Broccu, un revolver a quattro colpi a quattro canne e poi a due canne (e che rispetto alle armi in uso fino ad allora presentava un cilindro più corto, ossia il tamburo, che permetteva di allineare la camera con il proiettile alla canna e al percussore grazie alla rotazione intorno al proprio asse), fu spedita nel 1833 in continente perché venisse esaminata dal Re d’Italia. E poi c’è la ricostruzione in base alla quale lo stesso Broccu venne invitato a Cagliari per presentare la sua pistola in prima persona al Re, ma che invece di recarvisi preferì rimanere nel suo paese natale, a Gadoni, continuando a inventare orologi, organi, mulini, e attrezzi agricoli per rendere più facile la vita dei suoi compaesani. Quale che sia la versione più corretta, la notizia non ha avuto la vasta eco che avrebbe meritato, si ricorda una tesi di laurea, una domanda di Carlo Conti nell’Eredità su Raiuno “Come si chiama l’italiano che inventò la pistola a tamburo prima di Colt?” e la valorizzazione del suo antenato illustre a Gadoni durante le scorse edizioni di Autunno in Barbagia. Fonti:diverse
GIULIANA LUIGIA EVELINA MAMELI
Fotowikipedia
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gli inizi del Novecento non era affatto normale che una donna studiasse. Se di buona e ricca famiglia, un’istruzione di base sì, ma andare al liceo, era un’eccezione. Figuriamoci una laurea in matematica, nel 1905. E poi una seconda, in Scienze Naturali, e prenderne addirittura la docenza. Giuliana Luigia Evelina Mameli, detta Eva (Sassari, 12 febbraio 1886 – Sanremo, 31 marzo 1978) Alla morte del padre, alla quale è particolarmente legata, si trasferisce con la madre a Pavia presso il fratello maggiore, Efisio (1875-1957), uno dei futuri fondatori del Partito Sardo d’Azione, e già docente universitario. Dopo la laurea in Scienze Naturali nel 1907, nel 1908 consegue nel frattempo il diploma presso la Scuola di Magistero e, due anni dopo, l’abilitazione per la docenza in Scienze Naturali per le scuole normali dove insegna per due anni. Ottiene la cattedra di Scienze presso la scuola normale di Foggia, chiede e ottiene il distaccamento presso il Laboratorio crittogamico dell’Università di Pavia. Vince però anche due borse di studio di perfezionamento che le permettono di continuare l’attività di ricerca. Nel 1911 le viene infatti assegnato il posto di assistente di Botanica e nel 1915, prima donna in Italia, consegue la libera docen-
za in questa disciplina. Il suo primo corso universitario ha come titolo “La tecnica microscopica applicata allo studio delle piante medicinali e industriali”. Poi scoppia la Grande Guerra (si chiamava così, prima che si dovesse numerarle) la scienza diventa impegno da crocerossina, dalla cattedra alla corsia dei feriti in guerra. La sua fama, però, ha ormai valicato i confini, e a guerra finita un italiano che lavora a Cuba va a cercare il suo prezioso contributo di botanica. Pare si innamorino a prima vista, e lei parte. Saranno loro, al ritorno, a portare palme, pompelmo e kiwi. I litorali liguri non sarebbero così senza la stazione botanica sperimentale “Orazio Raimondo” a Sanremo, che dirigono. Lei continuerà da sola, dopo la morte del marito, nel 1951. Una donna così andrebbe ricordata col suo nome, per il suo nome, per il suo impegno, per la sua opera di partigiana nella Resistenza, insieme al marito e ai figli, esperienze terribili. Se volete sapere quanto siete vecchi, a qualche ragazzino di quindici anni (come diceva una canzone) non chiedete chi erano i Beatles, ma chi era Eva Mameli. Probabilmente non saprà nemmeno che, oltre tutto questo, fu pure la mamma di Italo Calvino.
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Foto forestale
botanici sardi rispondono così alla proposta di piantare migliaia di alberi per riforestare le aree bruciate, regalando una straordinaria lezione di botanica a tutti coloro che si interessano di ambiente e natura: “Il vasto e intenso incendio che il 24-26 Luglio 2021 ha interessato oltre 20.000 ettari di territorio in 10 comuni del Montiferru ha gettato nello sconforto tutti i cittadini Sardi e colpito di riflesso anche l’opinione pubblica e la classe politica a livello nazionale. Un immenso patrimonio ambientale, agricolo e zootecnico, ma anche industriale e infrastrutturale andato in fumo nel giro di pochi giorni. Alcuni territori comunali bruciati interamente (su tutti: Sennariolo), altri con una percentuale importante del territorio incenerita, con la quasi totalità del patrimonio colturale drammaticamente danneggiato, come Cuglieri. In altri casi ancora, luoghi emblematici, di grande significato paesaggistico e identitario, sfregiati dal passaggio del fuoco, come le cime tra Badde Urbara e Monte Urtigu a Santulussurgiu o l’oleastro monumentale di Tanca Manna a Cuglieri. Ma soprattutto centinaia di aziende agro-zootecniche in ginocchio. Dopo lo sgomento e lo
Esiste un territorio, in Sardegna, dove la montagna respira piano. Un pulsare calmo, sino alla costa. È un posto di verde, di acqua, di fresco. È la terra del Montiferru. Dove lecci, olivastri, querce accarezzano la roccia. Dove ruscelli, fonti, cascate abbracciano il mare. Dove l’olio incanta, il cicaleccio culla e l’aria cura. 24 luglio 2021 La montagna inizia a soffocare. In poche ore diventa un paesaggio di nero, di fiamme, di cenere. Tre giorni di incendi. L’alito bollente dello scirocco
INCENDIO E
sconforto viviamo l’ora della solidarietà tra cittadini e tra paesi, un bellissimo esempio di resilienza dal basso delle nostre comunità. Ma con il passare dei giorni si sviluppa, spesso in maniera confusa, il dibattito sulle cause e, soprattutto, sulle azioni da compiere perché simili eventi non si ripetano in futuro, e per assicurare che il territorio si risollevi al più presto e nella maniera migliore possibile da questo evento drammatico. Spinti dall’onda emotiva, sono stati proposti “grandi numeri” come soluzione del problema: tanti aerei ed elicotteri per costituire una flotta antincendio regionale; milioni di alberi da piantare nei prossimi anni per ricostituire il manto boschivo andato in fumo, per citarne alcune. La comunità scientifica, pur partecipe dell’emozione del momento e solidale con le comunità colpite da questo incendio, ha però il dovere di rilevare le criticità e le opportunità da valutare per ottenere risultati duraturi e sostenibili sia dal punto di vista socio-economico sia da quello ecologico. Come Botanici sentiamo l’urgenza e il dovere di partecipare a questo dibattito sulla base delle nostre competenze e di chiederci, e di chiedere a tutti i Sardi, se la soluzione a tutto questo sia quella di ri-piantare 100 milioni di alberi nei prossimi anni: quali alberi?
E BOTANICA
Dove e come saranno prodotti e poi piantati? È questa una soluzione ecologicamente duratura e sostenibile per il territorio? Già dopo i disastrosi incendi del 1983 e del 1994, per citare solo gli ultimi di entità paragonabile, nell’area vennero realizzati dei rimboschimenti a gradoni con l’introduzione di piante che nulla avevano a che fare con l’ecosistema del Montiferru, come pini e aceri campestri, che vennero messi a dimora dissodando con mezzi meccanici la cotica spontanea di corbezzolo ed erica ed aumentando il dissesto idrogeologico dei versanti montani senza migliorarne la resistenza al fuoco. Inoltre, gran parte di questi rimboschimenti a pini sono stati irrimediabilmente distrutti vanificando anche le ingenti risorse impiegate. Vogliamo evitare che si ripetano gli stessi errori. Non solo le nostre comunità umane sono resilienti, lo sono anche le comunità vegetali: una parte degli alberi e arbusti autoctoni del Montiferru è ancora vitale a livello di apparati radicali, e nelle prossime settimane reagirà al passaggio del fuoco producendo nuovi getti (polloni) che diventeranno i pionieri della ricolonizzazione da parte della vegetazione della montagna. Auspichiamo e suggeriamo quindi che l’impegno
gonfia la furia del fuoco: avvolge il bosco, le case, il litorale. Una processione triste di canadair e elicotteri rimbomba sul cielo rosso. A terra alberi e animali, sacrifici e futuro, affetti e lavoro si trasformano in polvere. Valigie riempite senza tempo del necessario e di ricordi: si lasciano le case, con la paura e il dolore nel cuore. Solo lacrime, disperazione, silenzio. Distruzione assoluta. Poi il fumo soffia via: è il momento di rialzarsi, subito. Il Montiferru è la nostra casa, la nostra terra, la nostra vita. RICOSTRUIAMOLO, TUTTI ASSIEME. http://prosumontiferru.org/
principale di denaro pubblico sia indirizzato per favorire questo naturale processo ecologico, mediante interventi che contemplino il taglio delle parti ormai non più vitali, operazioni di succisione e di tramarratura sulle ceppaie, interventi selvicolturali di cura del bosco e la messa a dimora di postime autoctono ove lo stesso non sarà risultato resiliente. La Sardegna non ha solo bisogno di nuovi alberi, ma anche di oliveti, vigneti, campi coltivati e soprattutto di prevenzione e di corrette politiche di pianificazione del territorio e di gestione forestale, che andrebbero ripensate con una visione partecipativa e transdisciplinare. L’intervento dell’uomo può essere utile per favorire la rinascita del bosco e accelerare la conversione della macchia in foresta. Nei primi anni dopo l’incendio si svilupperanno, infatti, comunità vegetali di taglia bassa come i cisteti, che pian piano evolveranno in una macchia a erica e corbezzolo. Questa poi avrà la potenzialità di evolvere in lecceta, sughereta o bosco misto con querce caducifoglie. La conoscenza delle dinamiche naturali, già recepite sulla carta nel Piano Forestale Ambientale Regionale (PFAR), può aiutarci ad indirizzare le politiche di gestione e ripristino, (segue pag.30)
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Foto lanuovasardegna
(segue dalla pagina 29) che dovranno essere basate più su un approccio qualitativo che quantitativo. La Sardegna, infatti, come altre regioni italiane, ha visto negli ultimi decenni un incremento notevole delle superfici forestali, a scapito soprattutto dei pascoli montani, per cui non si ravvisa l’urgenza di aumentare la superficie forestale, quanto di migliorare la qualità dei boschi: abbiamo un patrimonio costituito soprattutto da boschi giovani (cedui) spesso non governati, con un notevole accumulo di biomassa. È necessario quindi ripensare in maniera transdisciplinare le politiche e gli strumenti normativi di pianificazione del territorio e agro-forestali regionali, inglobando temi quali il pastoralismo e la gestione dei sistemi agro-silvo-pastorali, la conservazione della biodiversità e dei servizi ecosistemici, la lotta ai cambiamenti climatici, la tutela del suolo, la partecipazione delle comunità locali e degli imprenditori agricoli e forestali. Numerosi studi dimostrano che una copertura forestale continua e omogenea, sebbene ideale nell’immaginario collettivo, non è invece funzionale alla prevenzione degli incendi, alla conservazione della biodiversità, alle produzioni agro-zootecniche e alla erogazione dei servizi
ecosistemici che i boschi ci forniscono (gratuitamente). Ad esempio i sistemi forestali a mosaico, in cui aree di bosco naturale si alternano a boschi pascolati o soggetti ad utilizzazioni selvicolturali, pascoli arborati, garighe di piante officinali, radure, pascoli montani, aree coltivate, oliveti e vigneti, possibilmente tenendo conto dell’orografia, della viabilità, delle risorse idriche e del rischio di propagazione del fuoco, sono molto più efficaci nella difesa contro gli incendi, permettono di produrre più reddito (perché all’allevamento e alla silvicoltura tradizionali è possibile associare altre produzioni come frutti di bosco, funghi e tartufi, miele, piante officinali), sono più attrattivi a livello turistico, e più efficienti nel contrastare il dissesto idrogeologico (un aspetto da tenere in alta considerazione soprattutto nel prossimo autunno quando riprenderanno le piogge) o nello stoccaggio dell’anidride carbonica. Un’ultima considerazione deriva dal fatto che, a parte il Demanio Forestale di Sos Pabariles a Santulussurgiu e quello di Tresnuraghes, questo vasto incendio ha interessato soprattutto terreni privati. Bisogna evitare di calare dall’alto modelli confezionati in ambiti distanti dal territorio, ma sviluppare percorsi partecipati e partecipativi in cui i cittadini
del Montiferru siano parte attiva anche nella fase progettuale, oltre che ovviamente in quella realizzativa. Il Montiferru è il classico esempio in cui i buoni risultati si otterranno solo con una sinergia tra pubblico e privato. Gli studi botanici offrono dati dettagliati sulla presenza di tante specie vegetali spontanee che sicuramente hanno subito danni a causa degli incendi e sopravvivono ancora con piccole popolazioni in aree non interessate dal fuoco (come il tasso, l’agrifoglio, l’alloro, il ciliegio selvatico e l’acero minore). Trasferire queste informazioni agli Enti pubblici coinvolgendo i privati, potrebbe favorire la creazione di una rete di allevatori-agricoltori custodi della biodiversità (e della agro-biodiversità). Una parte delle risorse pubbliche potrebbe essere destinata per la costituzione di piccoli vivai aziendali nei quali le aziende locali raccolgano e moltiplichino le risorse botaniche locali ai fini della ricostituzione del patrimonio vegetale (arboreo, arbustivo ed erbaceo) dell’area, vigilando sul territorio e promuovendone la conoscenza e la valorizzazione, sia verso utenti esterni sia verso la popolazione locale (con particolare attenzione alle scuole). L’auspicata saggezza della comunità Sarda sarà quella di saper cogliere ancora una volta la sfida di
trasformare una criticità in una opportunità. Per far questo è necessario che ognuno faccia la sua parte, che gli Enti pubblici comunichino e collaborino tra loro in maniera coordinata e soprattutto che si prenda una direzione decisamente orientata alla condivisione delle conoscenze. I problemi complessi richiedono una capacità di analisi elevata, e questo significa che nessuno ha da solo la soluzione: le possibili soluzioni vanno valutate, individuate e messe in pratica insieme, nella consapevolezza che ciascuno ha sia da imparare sia da insegnare. I Botanici Sardi sono a disposizione delle comunità del Montiferru e di tutte le aree interessate da incendi, degli Enti pubblici locali e regionali per condividere le proprie conoscenze, confrontarle con quelle di altre aree scientifiche, collaborare alla costruzione di un percorso democratico di resilienza del sistema socio-ecologico del Montiferru che potrà certamente diventare, se avremo saggezza, un modello non solo per la Sardegna ma per l’intera area mediterranea.” Federica Buglioni https://www.facebook. com/federica.buglioni vedi anche https://blog.treedom.net/ it/rimboschire-incendi-italia... https://www.amazon.fr/ Shock-Economy
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Foto zahahadid
SI PARLA ANCORA DEL BETILE
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arebbe dovuto essere il museo dedicato all’arte nuragica e a quella contemporanea, uno spazio iconico in grado di riqualificare un tratto prezioso della città – il lungomare di Sant’Elia – e allo stesso tempo diventare un attrattore turistico di alto livello, come già avvenuto per architetture ed edifici analoghi in grado di fissarsi nell’immaginario collettivo. Sappiamo com’è andata: il Betile alla fine non è mai nato. Il progetto lo aveva creato Zaha Hadid, archistar irachena scomparsa nel 2016 a 65 anni. Il bando internazionale da 40 milioni di euro era stato lanciato dalla Giunta regionale (guidata da Renato Soru) e avevano partecipato alcuni dei migliori architetti al mondo (Massimiliano Fuksas, Herzog & De Meuron…). “Il mio museo è stato concepito come parte del paesaggio, senza distacchi (dichiarò l’architetta a Cagliari). Così come i modernisti erano stati influenzati dall’arte antica, anch’io sono stata influenzata dall’arte classica in combinazione con l’arte del futuro”. Un museo bellissimo pensato come “concrezione corallina”, in grado di delineare un nuovo skyline della zona e pensato per essere un grande nodo di scambio culturale, connettendo la
città non solo con musei e monumenti archeologici del territorio, ma anche con la cultura internazionale. Un peccato. Negli ultimi mesi il tema è tornato d’attualità e si è animato un vivace dibattito sull’opportunità di recuperare il progetto. Il sindaco di Cagliari, Paolo Truzzu, in occasione dell’approvazione della variante urbanistica al Piano guida per Sant’Elia, ha dichiarato in Consiglio comunale che il Betile si potrebbe riproporre. Lo scrittore Marcello Fois, intervenendo ne La Nuova Sardegna, ha colto la palla al balzo proponendo di spostare il progetto a Porto Torres per riqualificare un luogo che paga un prezzo alto al “fallimento del sogno dell’industrializzazione”. La settimana scorsa è stata l’ex assessora alla Cultura della Giunta Soru, Maria Antonietta Mongiu, a rilanciare il tema sulle pagine dell’Unione Sarda, esortando il sindaco a “Ripartire per oltrepassare le paure, pensando in grande. Coraggio Sindaco, Cagliari lo ha sempre fatto. Ecco perché c’è urgenza del Betile”. Pierandrea Angius è un architetto cagliaritano 41enne che ha lavorato per 11 anni (dal 2010 al 2021) nello studio di Zaha Hadid a Londra e ha avuto modo di conoscere dall’interno il progetto del Betile.
“Sono entrato nello studio quando il museo era già stato progettato ma mi sono subito messo a disposizione nel caso ci fosse necessità di un contatto locale”, racconta a Sardinia Post. Il suo giudizio sul Betile è ampiamente positivo e rivela un grande rimpianto per quello che sarebbe potuto essere. “Un’idea fantastica e visionaria. Aveva una visione ampia e un carattere proiettato sul piano internazionale. Avrebbe potuto stimolare una serie di eventi culturali e di attività di contorno che sarebbero stati importantissimi non solo per Cagliari, ma per l’Isola tutta. Non credo ci sia mai stato in Sardegna un progetto di tale portata ed è un peccato che non si sia portato a termine”. Angius condivide l’idea di poterlo recuperare con i dovuti accorgimenti per aggiornarlo. “Il Betile era nato per Cagliari, in determinato periodo storico e in una determinata zona. Bisognerebbe pensare in grande, come avvenne in quegli anni, ma riconfigurandone la strategia, capire come ricollocare quell’idea, quel seme, in un contesto come quello attuale. Dopo 15 anni è difficile pensare al progetto in modo identico, per motivi culturali e anche sul piano tecni-
co, normativo e programmatico. I musei si evolvono, sono la fotografia di un tempo”. Del resto la zona di Sant’Elia ha subito delle trasformazioni negli ultimi anni e (giusto per fare un esempio) i lavori per riqualificare il Padiglione Nervi sono quasi ultimati, insieme all’area verde intorno all’edificio inaugurata di recente. Recuperare il Betile significherebbe fare i conti con i cambiamenti recenti, per adattare la strategia del museo alle nuove esigenze del territorio. Da Zaha Hadid ci fu delusione quando il progetto si interruppe. “Era un periodo importante per lo studio e si passò da 50 a 200 persone. C’erano fiducia e ottimismo. Se se un progetto si blocca così drasticamente si perde la fiducia nella possibilità di completarlo. Secondo me, se la città decidesse di far ripartire il progetto, lo studio incaricato affronterebbe la nuova sfida con entusiasmo”. Quando si parla di Betile si fa spesso l’esempio del Guggenheim di Bilbao, inteso come museo iconico in grado di attivare dinamiche virtuose nel luogo dove è situato e diventare una attrazione a livello internazionale. “In passato si è fatta molta attenzione all’edificio come oggetto scultureo con una caratteristica formale molto forte.” (segue pagina 34)
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Foto sardiniapostt
(segue da pagina 33) Oggi ci sono sensibilità differenti, per esempio più cura della sostenibilità e dell’integrazione con il verde, e in generale un’idea differente rispetto alla vita, al lavoro, al contesto della ricreazione e della fruizione della cultura. Un progetto così importante si può fare ancora ma adattandosi ai nuovi trend, alle nuove necessità e ai nuovi vincoli. Il museo di Bilbao ha funzionato molto bene ma quel seme non si può impiantare in un altro terreno decontestualizzandolo”. Ma con i dovuti accorgimenti uno spazio dall’identità marcata come il Betile avrebbe un impatto enorme sulla città e sulla sua proiezione a livello internazionale. “Se l’edificio è iconico ha una capacità trainante enorme e può essere in grado di attrarre turismo culturale importante, innescando poi una reazione a catena valorizzando i siti archeologici e i piccoli musei distribuiti nel territorio. Il Guggenheim ha funzionato come icona a se stante (ci sono poche cose intorno) e non hai la percezione che sia parte di un sistema, che offra delle connessioni. Il progetto a Cagliari dovrebbe essere nodo di una rete. Abbiamo nell’Isola una quantità di siti archeologici che è incomparabile rispetto al resto d’Europa.
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Il Betile dovrebbe quasi obbligare il fruitore a capire che quello è un contenitore in grado di stimolare nuove attività artistiche e culturali ma anche essere una tappa di un sistema più ampio, catapultarti in un network di siti archeologici che rappresentano uno dei valori più alti di quello che possiamo offrire come sardi. Non bisognerebbe puntare solo sul Betile, insomma, ma creare un museo che sia totalmente rivolto all’esterno”. Ora Angius ha lasciato lo studio londinese per un altro lavoro prestigioso presso una importante casa automobilistica, ma se ne avesse la possibilità gli piacerebbe senz’altro lavorare al Betile. “Da cagliaritano sarei più che felice di poter collaborare, in qualsiasi modo. Sarebbe un progetto davvero importante per l’Isola che amo”. Il suo ultimo lavoro è un edificio a Città del Messico che andrà a trasformare in maniera importante lo skyline della zona di Santa Fe, quartiere ricco e dinamico dove si trovano tre università e le sedi regionali di aziende come Apple, Amazon, Microsoft e Sony. “La Bora Residential Tower sarà completata nel 2021 ed è destinata a diventare il palazzo residenziale più alto della città e uno dei più alti in tutto il Sudameri-
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ca: un lavoro fortemente iconico”, racconta l’architetto sardo Pierandrea Angius, che da quasi quattro anni segue il progetto per lo studio in cui lavora, uno dei più importanti e prestigiosi al mondo: quello di Zaha Hadid, una vecchia conoscenza nell’Isola per via della straordinaria occasione mancata del Betile, il museo cagliaritano progettato da lei e poi mai costruito. La torre messicana è uno degli ultimi edifici a cui ha lavorato la celeberrima architetta irachena prima della scomparsa, avvenuta nel 2016. Un lavoro imponente. E l’architetto sardo è responsabile dell’intero progetto. ierandrea Angius è nato a Cagliari 39 anni fa ed è entrato a far parte dello studio nel 2010, culmine (per ora) di una carriera che lo ha visto bruciare le tappe. Si è laureato al Politecnico di Milano e ha conseguito un dottorato in Tecnologia delle costruzioni, ha lavorato per uno studio italiano, One Works, e poi ha deciso di trasferirsi a Londra per crescere professionalmente e continuare a studiare. Lì ha ottenuto un master all’Architectural Association dove, poco dopo, ha iniziato a insegnare. All’università c’è stato l’incontro decisivo del suo percorso, quello con Patrik Schumacher, storico partner professionale di Zaha Hadid: dal lavoro in stu-
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dio a quello con lui come assistente il passaggio è stato breve. Ricerca accademica e lavoro quotidiano di progettazione sono i due cardini del percorso di Angius: si alimentano a vicenda. “Fin dall’inizio sono stato esposto al modello educativo e lavorativo di Zaha: un metodo progettuale guidato da un desiderio inesauribile di ricerca, dalla volontà di superare le barriere delineate da pregiudizi e convenzioni”. Di Zaha ricorda in particolare modo il carisma, la sua capacità di trasmettere una metodologia e una visione. “La sua capacità di guardare sempre oltre e non accontentarsi mai”. Ciò che lo ha attratto di più del lavoro dello studio (“quasi risucchiato”) è proprio la capacità di stimolare e promuovere la ricerca progettuale a tutto campo. “Le interferenze e le magie prospettiche delle rappresentazioni visionarie di Zaha nascono da costruzioni geometriche rigorose e procedure ricorrenti e riconoscibili”. “Nel corso degli anni ha dato vita a un linguaggio che si è evoluto con coerenza, una sintassi che ha permesso di immaginare e costruire dei mondi possibili, infiniti sogni in bilico tra leggerezza e gravitas”.In studio l’architetto cagliaritano entra in tutte le fasi del lavoro. (segue pagina 36)
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Foto professionearchitetto
(segue dalla pagiuna 35) “Ho iniziato con una specializzazione indirizzata verso la gestione e la progettazione di facciate complesse su grande scala e sullo sviluppo parametrico e procedurale, che è il tema di cui mi occupo anche a livello accademico. Ora gestisco i progetti anche nella fase del concept, nella fase finale e nella supervisione artistica”. Ad esempio, nel caso della cosiddetta torre Hadid a Milano (la torre Generali pensata nell’ambito del progetto CityLife, indirizzato alla riqualificazione della zona dell’ex Fiera) Angius ha seguito la direzione artistica del podio commerciale, definito da geometrie curvilinee generate dall’intersezione sfalsata di tre assi urbani. E ha seguito altri progetti importanti come l’Esfera City Center a Monterrey, in Messico, il Morpheus Hotel a Macau, in Cina, la Bbk Bank a Bilbao, in Spagna, lo Sky Soho a Shanghai e il New Century City Art Centre, a Chengdu in Cina. A livello accademico (all’Architectural Association School of Architecture e al London Design Studio of the University of Pennsylvania ) Angius si occupa di progettazione parametrica e generativa. Un tema abbastanza complesso per i non addetti ai lavori. “È un sistema che permette di generare, at-
traverso dei software, delle variazioni infinite della stessa costruzione geometrica. Il progettista definisce un punto di partenza, delle regole, per poi sviluppare infinite soluzioni ipoteticamente tutte diverse, a volte anche imprevedibili. Per fare un esempio, la crescita di un albero è determinata da regole definite dal suo Dna. Quelle regole sono capaci di adattarsi al contesto: quantità di nutrienti, sole, il suo orientamento. Anche nella progettazione di un edificio possiamo procedere così in relazione a delle performance: come vogliamo che siano la facciata o gli interni, per esempio, in relazione a determinate condizioni ambientali, come l’esposizione solare, il vento, la vista. Adatti quelle caratteristiche come l’albero cerca di adattarsi a quelle del terreno e all’esposizione solare. È come se tu, progettista, avessi una mappatura dei nutrienti dell’albero e di tutte le caratteristiche che andranno a definire la sua crescita. In base a determinate esigenze puoi cambiare queste caratteristiche a seconda di quello che vuoi ottenere”. Angius ormai non vive in Sardegna da quando aveva 18 anni ma la saudade, dice, è sempre molto forte. “La mancanza c’è, il sogno di tornare pure, e sarebbe bellissimo riuscire a fare qualcosa a Cagliari”. È un vero peccato che quel sogno sia stato per cer-
HISTOIRE D’UNE LARME JO CODA
ti versi possibile prima ancora di pensare di volerlo esaudire. Per un architetto, cagliaritano, e che lavora da Zaha Hadid, l’idea di non aver visto nascere il Betile è una delusione ancora maggiore. Come è noto, si sarebbe dovuto trattare di un museo dedicato alla Sardegna nuragica e all’arte contemporanea in riva al mare nel quartiere di Sant’Elia. Il progetto fu approvato nel 2006 ma si arenò a causa dello scontro tra Regione e Comune di Cagliari. Nel 2008 venne definitivamente accantonato. “Il progetto del museo è stata una occasione mancata per Cagliari e la Sardegna. Un progetto di quella portata avrebbe generato interesse a livello internazionale, promuovendo la storia e la cultura dell’Isola e dando visibilità alla città anche a livello turistico. Sarebbe diventato un punto di riferimento per la storia e le culture del Mediterraneo. I l Betile sarebbe stato in grado di innescare anche nel contesto urbano del quartiere dei meccanismi virtuosi e rigenerativi. Non sarebbe stato solo una icona culturale, ma contenitore di attività a favore della comunità locali, in grado di dare vita a nuove reti sociali. Un punto di riferimento forte, un faro culturale. Un’occasione mancata, appunto, ma che può e deve ripresentarsi in futuro”. Andrea Tramonte
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are Amiche e Cari Amici, mi voglio concedere e voglio condividere con voi un attimo di felicità dopo questo lungo periodo di isolmento, incertezza e sofferenze. Histoire d’Une Larme, il mio nuovo film (dedicato al tema dell’eutanasia) inizia il suo cammino nel mondo e lo fa con una sequenza di date che mi riempiono di orgoglio. Seattle, Londra, Firenze, Dublino e Roma (in attesa della Prima a Cagliari). Un debutto a livello mondiale che riprende il cammino già percorso da Mark’s Diary e dai film precedenti. La World Premiere al Social Justice Film Festival di Seattle oltre che un onore è anche una conferma che gli Stati Uniti seguono con attenzione il mio cinema, il mio lavoro. In questo caso un film difficile (anche per via della Pandemia che ne ha rallentato e complicato la lavorazione) sentito, attuale e necessario. Nel prossimo post fornirò maggiori dettagli. Enjoy! Jo Coda
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Foto jocoda
inossi Ispirato al libro “Ocean Terminal” di Piergiorgio Welby. “Quando un malato terminale decide di rinunciare agli affetti, ai ricordi, alle amicizie, alla vita e chiede di mettere fine ad una sopravvivenza crudelmente ‘biologica’, io credo che questa sua volontà debba essere rispettata ed accolta con quella pietas che rappresenta la forza e la coerenza del pensiero laico.” Ringraziamenti: un grazie speciale alla cara Mina Schett Welby e al caro Francesco Lioce, al mio prezioso team di collaboratori Marco Oppo (Andrea Lotta Gianni Yannino Dettori Mater-ia Materia Sarah Panatta ) agli attori che con tanto impego hanno accettato di lavorare a questo progetto (un grazie speciale a Bruno Petrosino e Sergio Anrò) Un abbraccio e grazie infinite ai preziosi Musicisti che hanno prestato la loro arte e un grazie di cuore ai tecnici per il prezioso supporto. La storia di una lacrima (Histoire d’Une Larme) Ispirato al libro Ocean Terminal di Piergiorgio Welby Curato da Francesco Lioce Italia, 75’ bn/colore Scritto e diretto da Giovanni Coda
Con Sergio Anrò Bruno Petrosino Gianni Dettori Voce Narrante Sergio Anrò Aiuto Regista Marco Oppo Fotografia Tore Manca Edition Gianluca Caboni Sound Designer Vincenzo Mario Boi (Audio Voice Studio) Camera Car Cinematographer Maurizio Bibigula Abis Camera Car Machinist Simone Murru Producer Labor Cinema Giovanni Coda Co-producers
Vide@ Moon Arts Marco Oppo Script Editor (French version) Sergio Anrò Poetry intervention Cataldo Dino Meo “Lacrima” from - Amorosa Edizioni Video ALOK Milano 2020 Costumes & Wigs Gianni Dettori Coreography Consultant Donatella Deidda Music Cosimo Morleo Annalisa Mameli e Corrado Aragoni Alessia-Lutecia Desogus Veronica Maccioni e Ottavio Farci Irma Toudjian Les Stick Fluò Still Photographer Giorgio Russo
With (in alphabetical order) Alessandra Corona Angelica Turno Anna Lisa Mameli Antonello Foddis Carlo Santandrea Corrado Aragoni Daniele Pettinau Daniele Russo Davide Vallascas Donatella Deidda Emanuela Erriu Emanuela Mancosu Gerardo Gouveia Giancarlo Pucci Gianni Dettori Irma Toudjian Marco Meloni Maria Paola Nonne Ottavio Farci Rebecca Fois Roberta Marcialis Tango-Pilates Giuseppe Perria Sara Scioni Sonia Floris Valerio Melas Veronica Maccioni Second unit camera Marco Oppo In collaboration with CEMEA della Sardegna Arionline AC Rosa Matriarcale With the support of Fondazione Sardegna Film Commission Comune di Cagliari (bando Filming Cagliari) #eutanasia #EutanasiaLegale #dirittiumani #diritticivili #associazionelucacoscioni #cinemaindipendente #cinemaitaliano
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