“A misura che la storia progredisce e che con essa la lotta del proletariato si profila più netta, essi (i proletari) non hanno più bisogno di cercare la scienza nel loro spirito; devono solo rendersi conto di ciò che si svolge davanti ai loro occhi e farsene portavoce. Finché cercano la scienza e costruiscono solo dei sistemi, finché sono all’inizio della lotta, nella miseria non vedono che la miseria, senza scorgerne il lato rivoluzionario, sovvertitore che rovescerà la vecchia società. Ma quando questo lato viene scorto, la scienza prodotta dal movimento storico… ha cessato di essere dottrinaria per divenire rivoluzionaria”. Karl Marx
Parte terza
Considerazioni sulla crisi della sinistra
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Capitolo 11°
La sinistra e il fallimento della strategia leninista 11.1 – L’assenza di una seria analisi del crollo del socialismo reale Com’era prevedibile, quando al Cremlino la bandiera rossa con la falce e martello è stata ammainata, gli avversari del comunismo hanno dato luogo a manifestazioni di giubilo. Da personaggi alla Conquest che da sempre hanno considerato il comunismo una “idea assassina” e da parte di chi ha nutrito livore nei confronti dei “rossi”, non ci si poteva attendere atteggiamento diverso; gli osanna, dunque, sembrano ben giustificati. A gioire per il fallimento del socialismo reale, però, sono stati anche intellettuali di prestigio quali Karl Popper, Ralf Dahrendorf, Francoise Furet, i quali hanno interpretato l’evento come la chiusura definitiva del ciclo delle credenze rivoluzionarie, la morte dell’utopia, la fine del ruolo messianico della classe operaia. Il guru americano Francis Fukuyama ha addirittura proclamato la “fine della storia”, da intendersi come cessazione delle contese di classe e messa in mora di qualsiasi alternativa ideologica radicale, nonché come trionfo della democrazia liberale e del mercato. A dare voce all’intellettualità cattolica si è fatto carico Pietro Scoppola sostenendo che “il crollo del comunismo non è solo il fallimento di un sistema economico e sociale ma è la più clamorosa smentita dell’idea stessa di rivoluzione, intesa come momento fondante di un ordine sociale totalmente nuovo, capace di creare condizioni di libertà assoluta”. Il sociologo Francesco Alberoni ha inteso propinarci una lezione professorale sulla perversione delle rivoluzioni che inevitabilmente distruggono la democrazia e sopprimono i dissenzienti. Per l’area moderata, l’ex diplomatico Sergio Romano, ha ritenuto doveroso ricordare all’opinione pubblica che “la rivoluzione d’ottobre provocò una sanguinosa guerra civile che ruppe la storia russa in due fasi nettamente distinte, scavò un fossato fra le classi sociali e si prolungò negli anni ’30 con una lunga scia di persecuzioni, epurazioni ed esecuzioni di massa”. In questo concerto di campane a festa non poteva di certo mancare l’epitaffio dei socialisti. Luciano Pellicani dalle colonne de “l’Avanti!” si è premurato di ricordarci che “la rivoluzione leninista avrebbe dovuto edificare una nuova civiltà, infinitamente superiore a tutte quelle precedentemente sperimentate. Per contro, oggi di fronte a noi non c’è che un immenso cumulo di macerie. Macerie di ogni tipo. Economiche, prima di tutte. Ma anche politiche e soprattutto morali”. E pure l’ex comunista, pentito, Lucio Colletti, non ha voluto mancare alla festa profetizzando che “con il crollo dell’Urss e il fallimento del ‘socialismo reale’ le fatidiche parole ‘destra’ e ‘sinistra’ perdono di senso”. In sostanza, siamo stati spettatori di un tripudio anticomunista che era da immaginarsi. I chierici dell’evoluto mondo occidentale, del resto, si sono sempre contraddistinti per una viscerale avversione alle teorie marxiste e nel momento in cui il mondo che esse hanno prodotto è crollato, non potevano fare altro che speculare ideologicamente. E non si sono limitati solo a questo, visto che di fronte alla scomparsa della “guardia rossa”, come lupi famelici, si sono avventati sulla preda con l’obiettivo di trasformare quel mondo in un mercato di sbocco delle loro mercanzie e luogo per far fruttare il capitale e reclutare manodopera a basso costo. E per conseguire tale obiettivo hanno inviato in quel mondo, per lungo tempo detestato, spregiudicati imbonitori con il compito di diffondere il verbo della libera concorrenza e promettere fantasmagorici “piani Marshall” che puntualmente non sono mai stati realizzati. A meravigliare dunque non sono le invettive e i necrologi degli avversari storici e moderni del comunismo, bensì il comportamento del mondo della sinistra la quale, a fronte della dèbacle, ha fatto come lo struzzo, ha cioè nascosto la testa nella sabbia per non vedere, per non sentire, per non esprimersi. I post-comunisti, infatti, si sono affrettati a negare il rapporto di stretta parentela con quei regimi, si sono affannati a ripudiare le loro origini e la loro natura, si sono dimostrati indisponibili all’autocritica e hanno assunto un atteggiamento vergognosamente opportunistico. 377
Loro compito avrebbe dovuto essere quello di svolgere una riflessione su quei sistemi, e pure sulle loro stesse responsabilità per averli avallati; avrebbero dovuto proporsi conseguentemente l’obiettivo di rendere finalmente chiara e praticabile una “terza via”, ma com’è già avvenuto negli anni venti, di fronte alla mancata rivoluzione in Occidente, si sono rivelati incapaci di assolvere tale dovere. Ossessionati dalla preoccupazione di confermare la loro totale estraneità a quelle esperienze, hanno preferito omologarsi al sistema che si erano proposti di mutare. “Di fronte al crollo del muro di Berlino e alla fine del comunismo non bisogna lasciarsi trasportare da vecchi sentimenti, per quanto nobili, ma guardare le realtà con la ragione”, ha argomentato il segretario del Pci Achille Occhetto, mentre Massimo D’Alema ha puntualizzato che “la caduta del Muro ha segnato anche la fine dell’illusione di un comunismo democratico, e quindi dell’esperienza originale che il Pci aveva rappresentato”. Alla resa dei dirigenti politici ha fatto seguito quella dell’intelligentia di sinistra la quale, ribadendo diagnosi stantie e assolvendosi da ogni responsabilità, ha liquidato qualsiasi prospettiva di riflessione critica. Massimo L. Salvatori, uomo di pensiero sganciato dagli apparati di partito, ha discettato sulla rottura del ’17 definendola una “rivoluzione fuori controllo”, cioè un processo sfuggito al controllo da parte non solo dei suoi iniziatori, ma anche dei suoi prosecutori. “La rivoluzione d’ottobre fu un avvenimento che si sviluppò in maniera grandiosa, ma sulla base di un crescente divorzio dai progetti su cui venne fondata. Non realizzò né la giustizia sociale né migliore ordine politico, bensì uno stato tirannico”. Pietro Barcellona ha insistito nel precisare che “il comunismo reale è la tragedia moderna della comunità impossibile dentro la struttura dello Stato onnipotente”. Aldo Schiavone, già direttore dell’Istituto Gramsci, ha sostenuto che con la caduta del socialismo reale è rimasto soltanto il nulla e che la sinistra sarebbe ormai giunta al tramonto. Silvio Pons e Robert Service, nel “Dizionario del comunismo del XX secolo”, hanno scritto che “l’universalismo (del comunismo, appunto) non ha lasciato alcuna tangibile eredità culturale e istituzionale. Il suo esperimento sulle strutture sociali si è rivelato tanto gigantesco quanto distruttivo. La sua dimensione statuale ha rivolto l’originario sogno di una palingenesi liberatrice in un incubo totalitario. La sua memoria è inseparabile da alcune delle peggiori tragedie e dei più infami crimini contro l’umanità compiuti nella storia contemporanea”. Marco Revelli ha sostenuto che i fini perseguiti dai dirigenti sovietici erano buoni (abolire le ingiustizie e lo sfruttamento capitalistico, perseguire l’emancipazione integrale dell’uomo), ma i mezzi adottati erano cattivi. Umberto Cerroni ha invitato ad “assumere dalla tradizione liberale la decisa difesa dei diritti individuali e dalla tradizione socialista lo spirito internazionalista umanitario”. Biagio De Giovanni si è detto convinto che “nel 1989 è finita l’ipotesi di una società alternativa, una vicenda che è durata quasi un secolo, a partire dal 1917” e che la lotta per il cambiamento passa attraverso il diritto di cittadinanza considerato questo “il punto da cui muovere” per andare oltre la tematica immediata del rapporto capitale-lavoro e la stessa idea di forza-lavoro in quanto tale. A suo giudizio, “occorre accettare e cogliere la potenzialità della democrazia, perché altrimenti democrazia diventa un ‘flatus vocis’, una parola astratta”. Dopo il crollo dell’Urss ad emergere, dunque, è l’anima moderata della sinistra, quella che già da tempo sognava la rottura con la tradizione comunista, quella cioè dei “Micromega”, dei “Reset”, dell’area migliorista. “Non ho mai considerato una Waterloo la caduta del muro di Berlino – ha dichiarato orgogliosamente Emanuele Macaluso – anzi, mi apparve come un’occasione storica per dare finalmente vita ad un grande partito socialista di stampo europeo”. Ed è così successo che quella aspirazione che covava nel fondo dell’animo di molti comunisti è venuta finalmente alla superficie provocando una vera e propria trasmigrazione intellettuale. Emblematico è l’esempio dell’attuale presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il quale nel febbraio 2013, sull’“Osservatore Romano” ha scritto: “E’ stato impossibile – se non per piccole cerchie di nostalgici sul piano teoretico e di accaniti estremisti sul piano politico – sfuggire alla certificazione del fallimento dei sistemi economici e sociali d’impronta comunista”. Di fronte a siffatti atteggiamenti viene spontaneo chiedersi come sia stato possibile che queste teste 378
d’uovo non si siano accorte nei decenni precedenti che nei Paesi del socialismo reale si stava costruendo non una società a misura d’uomo, ma un grande lager e non si siano sentiti in dovere di pronunciare per tempo le loro condanne, anzi, si siano essi stessi scagliati contro quei compagni (il gruppo de “il manifesto”) che ha pagato il suo dissenso con la radiazione. Fatto è che a difendere la causa sono rimasti in pochi, precisamente una sparuta minoranza di “nostalgici” i quali con determinazione hanno promesso di operare una “rifondazione” dello stesso comunismo. Il grado d’onorabilità della sinistra è così decaduto al punto tale da indurre uno spregiudicato democristiano come Francesco Cossiga a inveire contro i suoi antichi avversari con il seguente sermone: “Non potete condannare o rinnegare il comunismo storico.. e non potete condannare o rinnegare né Stalin né lo stalinismo… il comunismo è stato un grande ideale di giustizia, indipendenza, libertà e liberazione… senza il presidio militare dell’Europa centro-orientale da parte dell’Armata rossa e del Kgb, l’Urss non avrebbe resistito alla pressione dell’Occidente e i partiti comunisti, Pci compreso, non avrebbero avuto il ruolo che hanno avuto”. E da provocare in Norberto Bobbio l’impressione che 70 anni di comunismo siano passati senza lasciare alcuna traccia. Ma nemmeno tali paradossali affronti hanno indotto i post-comunisti a un qualche ripensamento. Eppure occorreva scavare con coraggio e onestà intellettuale per capire motivi del crollo. Era loro dovere indagare sulle cause storiche di quel fallimento; riflettere sul perché della realizzazione del socialismo in Paesi caratterizzati dall’arretratezza economica e sociale come la Russia, la Cina, Cuba, il Vietnam, mentre in Occidente la rivoluzione non è stata possibile. Era il caso di interrogarsi sul divario tra teoria e prassi del marxismo e sulle strategie seguite per oltre un secolo dal movimento operaio. Bisognava rifarsi alle scelte, entrambe parziali, che al tempo della rivoluzione d’ottobre hanno diviso il movimento fra chi, prendendo gli aspetti più meccanicisti del marxismo, voleva prima passare attraverso la “necessaria” rivoluzione borghese (i menscevichi) e chi invece, privilegiando la “coscienza” sulla “necessità” (i bolscevichi), aveva ritenuto possibile il salto rivoluzionario. Una contraddizione questa che si è ingrandita col passare del tempo e che ha tenuto diviso la sinistra fino ai giorni nostri consentendo al capitalismo di essere vincente. Su tutto questo però non si è voluto meditare. Storici e politici eminenti si sono limitati a fare banali constatazioni. “Lo sviluppo del pensiero europeo ha depositato la sua concezione più avanzata, il marxismo, nella Russia arretrata industrialmente ed economicamente, mentre ha esportato il suo impulso allo sviluppo tecnologico e scientifico negli Stati Uniti che erano il Paese più arretrato politicamente e ideologicamente”, ha affermato uno degli intellettuali di area comunista, come se la storia degli uomini dipendesse non da loro stessi ma dal fato. “L’Urss era da considerarsi una realtà socio-politica a due livelli: la base economica sarebbe stata socialista, mentre la sovrastruttura politica non lo sarebbe stata affatto”, ha sentenziato un esimio economista appartenente alla sinistra. Mentre il capitalismo ha saputo globalizzarsi, il socialismo, a dire ancora di un altro esponente del mondo scientifico, avrebbe perso la sfida perché sarebbe rimasto ancorato allo Stato-nazione. Altri ancora hanno così giustificato il tracollo dell’ìEst: “La distruzione della proprietà privata ha distrutto le basi dell’economia”; “Tutti i modelli economici che hanno cercato di funzionare distruggendo il mercato o marginalizzandolo hanno fatto fallimento”; “La fine dei paesi dell’Est europeo e dell’Unione sovietica non fu dovuta al fallimento del socialismo: è stata una conseguenza di pretese egemoniche e dispotismo”. In sostanza, sono state date spiegazioni parziali, si sono fatte congetture, ci si è accontentati di stereotipi, non ci si è curati di costruire un ragionamento metodico, organico, completo. Sono ormai trascorsi anni dal collasso di quei sistemi e, almeno in Italia, non si è assistito all’organizzazione di un solo convegno di studi su quel tragico evento. E’ successo così che il crollo del socialismo reale è stato interpretato in maniera superficiale, semplicistica, inteso soprattutto come risultato di inefficienze e di errori di governance. Si è individuata la causa principale nel mancato sviluppo della democrazia politica, mentre si sono trascurati l’aspetto economico e le ipoteche storiche di quei sistemi. Persino i più quotati osservatori 379
hanno dato dimostrazione di soffrire di un deficit di spirito critico concentrando la loro attenzione su singoli aspetti e in modo generico. Ci si è trovati di fronte a un vero e proprio bazar intellettualistico dove il discernere tra cultura di sinistra e cultura moderata e liberal-democratica era diventata impresa difficile. “La sconfitta del modello sovietico è derivata dal fatto che la dittatura, che Marx voleva provvisoria, è diventata stabile forma di governo” (Nicola Badaloni). Il socialismo reale si è rivelato un sistema alla cui radice c’era una “forma partito centralizzata”, pensata più come “complesso di comando dall’alto” che come “strumento di raccolta”delle domande che vengono dal basso (Mario Tronti). “Il significato della parola socialismo, in Urss, si era progressivamente svuotato di qualsiasi sostanza, assumendo solo quello di potere monopolistico del partito comunista” (Edgar Morin). “L’Urss ha fallito non perché abbia deciso di entrare nell’economia di mercato, ma perché ha fatto solo questo; non possiede, oggigiorno, né Stato né imprenditori né sistema politico” (Alain Touraine). ”Il fallimento, scaturisce dall’incapacità del sistema comunista di offrire ai cittadini una qualunque possibilità di scelta. Nessuna scelta nei supermercati, nessuna sul luogo in cui vivere, nessuna sulle persone cui affidare un mandato politico… Marx sbagliava quando pretendeva che esistesse un legame necessario fra le trasformazioni economiche e quelle politiche”… “non c’è nessuna evidente priorità della politica o dell’economia” (Ralf Dahrendorf); “Penso che non sia un’esagerazione affermare che la causa finale della caduta del comunismo nell’Unione sovietica sia stata la letargia sociale determinata dalla prolungata assenza dei diritti di proprietà nel più ampio senso della parola, una letargia che nessuna violenza riuscì a sconfiggere” (Richard Pipes); “L’elevazione del tenore di vita nel Nord del pianeta ha reso sempre più difficile l’azione politica dei partiti comunisti che hanno fatto generalmente leva sulla povertà delle masse… la lotta di classe è diventata obsoleta” (Emanuele Severino). Sono pochissimi gli osservatori che si sono sforzati di comprendere la complessità di quel fallimento e che hanno tentato di individuare le cause di fondo che lo hanno determinato. Tra questi, va ricordato il migliorista Napoleone Colajanni il quale ha sostenuto che “Il crollo è avvenuto su problemi economici. E’ su questo che bisogna riflettere. Purtroppo a sinistra si è diffuso una specie di nichilismo che vuole una grande povertà culturale”. E va pure menzionato Jurgen Habermas il quale, a differenza della generalità dei critici, ha colto l’entità del disastro per il movimento operaio mettendo in rilievo come quell’evento abbia significato “il tragico logoramento di tutte le speranze ed energie generose, di tante biografie piene di sacrifici che si erano identificate con questa impresa umana fallita”. Non si è inteso nemmeno prestare la dovuta attenzione alle inquietanti testimonianze di miseria morale e intellettuale che le società post-comuniste hanno fornito e sulle quali si sarebbe dovuto compiere una seria riflessione critica e autocritica. Pure coloro che hanno affermato la necessità di “rifondare” il comunismo si sono limitati a contrastare le astiose e rivoltanti campagne propagandistiche condotte degli avversari storici del marxismo, ma non hanno saputo affrontare un’analisi approfondita dei motivi che hanno portato al crollo di quel mondo. Una delle eminenze grigie di “Rifondazione”, il filosofo Domenico Losurdo, si è detto convinto che “non può essere l’economia la chiave di spiegazione della disfatta del ‘socialismo reale’… Se un collasso si è verificato in Europa orientale, esso è ideologico ben più che economico”. Altri esponenti di quel movimento hanno individuato come radici del collasso l’assenza di una “cultura costituzionale sovietica” del gruppo dirigente bolscevico, il suo “prometeismo”, il “dominio militare sul lavoro”, l’incapacità di promuovere l’innovazione produttiva, la macchinosità della pianificazione che ha sacrificato la democrazia socialista, le riforme della perestrojka, colpevoli di aver dissestato irrimediabilmente il sistema. Insomma, ognuno ha teso a sottolineare singoli aspetti del problema senza riuscire a comporre un ragionamento complessivo e convincente. Persino ad anni di distanza da quel tragico evento, dirigenti come Marco Rizzo hanno giustificato l’accaduto sostenendo che “non è fallito il socialismo, ma la sua revisione” la quale, a suo dire, avrebbe avuto inizio con Chruscev. 380
C’è poi stato anche qualcuno che, anziché misurarsi con la drammaticità degli eventi, ha preferito consolarsi facendo l’apologia di ciò che l’Urss ha rappresentato per il proletariato mondiale e per il movimento di emancipazione umana, dichiarandosi fiducioso in una futura rivincita, poiché “delle due grandi esportazioni europee, quella della moderna ‘ideologia’ potrà rivelarsi assai più feconda dell’esportazione della tecnologia”. In conclusione, un esame approfondito e compiuto del crollo del socialismo reale resta ancora da fare. 11.2 – L’atavica incapacità di critica e di previsione Anziché impegnarsi al fine di comprendere le ragioni del fallimento dei regimi dell’Est, la sinistra ha ritenuto prioritario impiegare la sua intelligenza nel ricercare la più idonea definizione nominale di queste realtà. Aspetto questo di certo non marginale, però, meno importante di un’analisi sulle cause del loro crollo. Sta di fatto che, nel corso degli anni, su questa dizione si è sviluppato un sorprendente dibattimento contrassegnato da polemiche e contrapposizioni ideologiche, cosa che, all’interno della sinistra, non è avvenuta sulla sostanza di quel evento. Il socialismo dei Paesi dell’Est, prima e dopo il crollo, è stato, infatti, definito in più modi: “socialismo realmente esistente”, “socialismo realizzato”, “socialismo reale”, “socialismo avvenuto”, “socialismo burocratico”, “comunismo storico”, “comunismo reale”, “capitalismo di Stato”, “modo di produzione di Stato”, “via non capitalistica alla società industriale”, “capitale monopolistico di Stato”, tanto per ricordarne alcune di queste espressioni. Una varietà di definizioni che è indubbiamente indice di un’approssimazione d’analisi. Ad aver convinto la maggior parte dei contendenti è stata alfine la dizione “socialismo reale” la quale è divenuta di uso corrente. Nel periodo precedente il crollo, la sinistra ha dimostrato di essere priva di alcuna capacità di percezione circa quanto stava avvenendo, mentre subito dopo si è prodigata senza indugio a prendere le distanze da quelle stesse esperienze. Solamente alcuni politici e studiosi hanno espresso scetticismo e ritenuto impossibile che un sistema siffatto avrebbe retto alla prova della storia. Occorre risalire a tempi lontani per trovare previsioni nefaste per quanto si stava costruendo in Russia all’indomani della rivoluzione d’ottobre. Oltre alla decisa avversione alla strategia bolscevica dei teorici della 2a Internazionale, a ritenere impraticabile il socialismo sovietico è stato anche l’economista austriaco liberale Ludwig von Mises il quale, analizzando il meccanismo della pianificazione economica, ha sostenuto che “proprio perché nessun fattore di produzione diventerà oggetto di scambio, sarà impossibile determinare il suo valore monetario… la moneta in uno Stato socialista non esplicherà mai la funzione ch’essa esplica in una società concorrenziale”. Pertanto, l’assenza del ‘calcolo economico’ in una società dove è stata abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione, avrebbe reso impossibile – secondo l’economista austriaco – il successo di un tale esperimento; a suo giudizio, esso era oggettivamente condannato al fallimento. Nel ’36, è stato lo stesso Lev Trotzkij a vergare l’epigrafe del modello staliniano. “Qui riposa la teoria del socialismo in un paese solo”, ebbe a sentenziare, argomentando così il suo giudizio: “L’instaurazione di forme socialiste di proprietà in un paese arretrato è entrata in conflitto con una tecnica e una cultura arretrate. … L’isolamento e l’impossibilità di mettere a profitto le risorse del mercato mondiale, sia pure su basi capitalistiche, determinavano, a parte le enormi spese per la difesa nazionale, una distribuzione delle forze produttive tra le più svantaggiose e una lentezza nel miglioramento delle condizioni materiali delle masse. Il flagello burocratico era tuttavia la più nefasta conseguenza dell’isolamento…. Quanto più l’Urss resterà nell’accerchiamento capitalista, tanto più profonda sarà la degenerazione dei suoi tessuti sociali. Un isolamento indeterminato dovrebbe portare immancabilmente non all’instaurazione di un comunismo nazionale, ma alla restaurazione del capitalismo”. Egli è tra l’altro uno dei pochi che ha saputo distinguere la statalizzazione dalla socializzazione dei mezzi di produzione.
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Ad esprimere una stimolante riflessione critica, anche se da un punto di vista del revisionismo di destra, è stato il politologo tedesco Iring Fetscher, il quale si è detto convinto che “Il concetto di “dittatura del proletariato”, da concetto che descrive una condizione sociale del periodo di transizione tra il capitalismo e il socialismo, è stato trasformato in una categoria di “tecnica del potere”. “Era forse giusto parlare di dittatura del proletariato – si è poi chiesto – mentre nei fatti il potere veniva esercitato soltanto da un apparato di partito, in nome di un proletariato quasi non più presente, per di più decimato dalla guerra civile?... La società russa era immatura dal punto di vista sociale ed economico per una trasformazione proletario-socialista. L’accelerata industrializzazione di un paese agrario arretrato non poteva essere realizzata senza un’élite che imponesse la ‘accumulazione originaria’. Che questa accumulazione sia stata chiamata ‘socialista’, mentre in fin dei conti era un fenomeno di capitalismo di Stato, è un’altra questione”. Negli anni ‘70, in un saggio (“Sopravviverà l’Unione Sovietica fino al 1984?”), il dissidente esule Andrei Amalrik ha previsto il crollo del sistema russo entro la metà degli anni ottanta; di fronte alla mancata profezia, successivamente ha protratto la scadenza di un decennio. Altri dissidenti ancora hanno presagito la “fine del comunismo russo”, tra questi Shalamov e Solzenitsyn. Anche per essere stati uccelli del mal augurio, a loro è stato proibito di scrivere e pubblicare le loro opere. La sinistra, quella dell’Occidente capitalistico, non ha invece dimostrato di avere questa capacità di previsione, e questo perché non si è curata di analizzare a fondo quel sistema, di coglierne le insanabili contraddizioni, di prendere atto della sua fragilità. Basti ricordare che nessun dirigente comunista di rilievo ha mai messo in discussione la mancata socializzazione dei mezzi di produzione, mentre ha spacciato per socialismo la loro statalizzazione; e ancora, che nessun gruppo dirigente ha avuto il coraggio di compiere alla luce del sole una rigorosa analisi dello stalinismo che non fosse sterilmente trotzkista o socialdemocratica. La sinistra ha continuato a coltivare la convinzione che, come ha sostenuto fino all’ultimo l’illustre economista Maurice Dobb, la forza del socialismo sarebbe consistita nella sua straordinaria capacità di crescere attraverso la mobilitazione delle risorse di investimento e tramite la pianificazione. Per una lunga fase storica, ha difatti continuato a credere nel crollo del capitalismo, un evento questo che, come sappiamo, non si è verificato. E’ successo così che il fallimento del socialismo reale l’ha colta di sorpresa, unitamente ai tanti guru del mondo occidentale. Non solo i politici, infatti, ma gli stessi uomini di scienza della sinistra si sono trovati spiazzati dagli eventi dell’“89” e questo a causa della diffusa convinzione che quel sistema era solido e invincibile. Per limitarmi a due soli eloquenti esempi, voglio ricordare che nel ’67, il dirigente del Pci, l’economista Paolo Ciofi, considerava “la superiorità del socialismo rispetto al capitalismo” come una verità indiscutibile. A suo giudizio, questo convincimento trovava ragione “non nell’assenza di contraddizioni, ma nella possibilità di superarle dialetticamente senza provocare effetti recessivi e tanto meno catastrofici”. Un altro illustre esponente del comunismo italiano, Giuseppe Vacca, nel ’71 su “Rinascita”, a proposito della necessità di comprendere meglio “l’epoca di transizione mondiale al socialismo, quale quella in cui noi viviamo”, assicurava i militanti della sinistra che “storicamente la transizione al socialismo è incominciata solo dopo l’unificazione capitalistica del mercato mondiale in un unico sistema di dominio” e che pertanto la prospettiva per il movimento operaio era garantita. Appare singolare che tutti quei dirigenti di partito che nei decenni precedenti all’”89” hanno avuto un rapporto non critico, anzi di compiacenza, nei confronti del socialismo reale, non si siano sentiti in dovere di “fare autocritica” alcuna, ma abbiano invece fatto capolino passando frettolosamente dalla parte di chi verso quel mondo provava da sempre disagio e avversione. Altro aspetto curioso è che nessuno degli esponenti di spicco della sinistra ha mai supposto che dopo l’esperienza del socialismo reale in quei paesi potesse ritornare a imperare il sistema capitalista. Anche un tale atteggiamento di sicumera è da considerarsi un prodotto della tradizione. Già alla fine degli anni ’60, il noto economista del Pci Antonio Pesenti, ammettendo l’esistenza in Urss del pericolo di incrostazioni burocratiche, affermava di non credere “alla possibilità di un 382
processo di ritorno al capitalismo o di ricostituzione di una specie di capitalismo… non sarà possibile, anche se vi saranno errori e deviazioni, alcun ritorno al passato”. E una decina di anni dopo a confermare tale convinzione era Giancarlo Pajetta il quale con spavalderia ha affermato: “Non c’è nessun paese socialista che sia tornato a un’altra epoca: si parla spesso dell’alternanza. Nei paesi borghesi, l’alternanza è tra i partiti che amministrano una democrazia borghese. Per i paesi socialisti problemi di alternanza con gli stessi metodi non si pongono… non possiamo parlare di ritorno a sistemi borghesi… (Questo perché) non ci si trova di fronte a una storia di errori o di occasioni mancate… i fatti compiuti si sono avverati in un modo che conforta i marxisti nel loro giudizio storico, nella loro prospettiva”. Fino agli anni ’80, seppure con i dovuti distinguo, a riguardo delle prospettive del socialismo realizzato, la sinistra italiana si è trovata in sintonia con quanto Isaac Deutscher ha scritto in “Stalin” nel ‘69, e cioè: “Vent’anni hanno fatto il lavoro di venti generazioni… E’ possibile immaginare una violenta reazione del popolo russo contro lo stato di assedio in cui è vissuto per tanto tempo. E’ perfino possibile immaginare qualcosa di simile a una restaurazione politica. Ma è certo che anche una restaurazione modificherebbe soltanto la superficie della società russa, mentre dimostrerebbe tutta la sua impotenza di fronte all’opera della rivoluzione”. E questo convincimento è risultato essere dominante in tutto il movimento comunista internazionale. A fare eccezione sono stati in pochi. Tra questi il marxista eterodosso Paul Sweezy che una diecina d’anni prima del crollo ebbe a dichiarare: “Non nego che l’Urss possa prendere la strada verso il capitalismo, che dopo tutto ha una sua logica e potrebbe parere, a certi elementi della borghesia di stato sovietica, preferibile al caos manifestamente in atto oggi”. In Italia, oltre al gruppo de “il manifesto”, alle cui posizioni accennerò poi, si è distinto Mario Tronti il quale nell’87, riferendosi ai fermenti politici in atto nell’Unione sovietica, ha scritto: “Alla radice di questa crisi vedo il sommarsi di due fattori: innanzitutto, una sorta di vero e proprio ritorno di capitalismo… ad esso si aggiunge un ‘esaurimento’ del modello di società socialista”. L’incapacità della sinistra di individuare le cause e di presagire gli eventi, dimostrata al tempo della crisi e poi del crollo del socialismo reale, è anche il prodotto dell’atteggiamento non sufficientemente critico che essa ha avuto nei confronti di quei regimi durante gli anni dello stalinismo e del post-stalinismo. I partiti comunisti europei, compresi i fautori dell’eurocomunismo, la cui stessa proposizione strategica si è posta in aperta polemica con Mosca ma mai in termini di critica radicale, hanno sempre rifiutato di verificare il grado di corrispondenza del socialismo reale ai postulati della teoria marxiana e anche ai propositi di emancipazione dal dominio del sistema capitalistico. Non è un caso che una “terza via” non sia mai stata sperimentata nel concreto, ma sia sempre rimasta nel libro dei sogni. Se è pur vero che il Pci di Berlinguer ha elaborato una propria autonoma visione del processo rivoluzionario, e pure una certa ricerca sulle cause di fondo del totalitarismo dell’Est, è altrettanto assodato che lo ha fatto senza andare a fondo del problema e senza trarne le debite conseguenze. Il suo è stato un cammino tormentato, pieno di contraddizioni, di reticenze e di timidezze, lento e tardivo nelle determinazioni. Nel suo sforzo è risultata assente la volontà di analizzare a fondo la natura del potere, nonché l’impianto economico su cui è stata fondata quella società. E anche di fronte alle agghiaccianti testimonianze di repressione in Urss e nei Paesi dell’Est europeo, i comunisti italiani hanno continuato a dare segno di avere paura di ammettere che quel modello di socialismo realizzato rappresentava di fatto una sconfessione delle loro stesse politiche. Sulla determinazione di andare a fondo nell’analisi è prevalsa l’angoscia e la tendenza alla rimozione. Quei vuoti si sono così sommati alle remore più antiche che hanno contraddistinto il partito nell’epoca staliniana e chrusceviana (dall’invasione dell’Ungheria, alle repressioni operaie di Poznam, fino ai fatti cecoslovacchi) e si sono tradotti in un rebus inestricabile. La subordinazione del Pci all’influenza sovietica è durata decenni segnando nel profondo non solo la tattica politica, ma anche la strategia e la cultura del partito. Il dissenso su questo aspetto era proibito. Quando ad esempio, all’indomani dell’invasione sovietica dell’Ungheria, la Cgil approva un documento di condanna dell’intervento, esaminato il testo, Togliatti accusa Di Vittorio di essere 383
“un sentimentale e non un politico” e vieta la sua pubblicazione sulle colonne de “l’Unità”. Quando Nagy viene arrestato e fucilato sul quotidiano di partito non viene data notizia e per anni si continuerà a considerare questo martire comunista con disprezzo. Anche dopo la morte del “Migliore” la linea di ossequio all’Urss non è cambiata. Su “Rinascita” dell’aprile ’67 Paolo Bufalini ha scritto: “La rivoluzione socialista dell’ottobre russo ha superato vittoriosamente la prova della storia. Il socialismo non è più un’idea: è una realtà, che ha trasformato una grande parte del mondo e ne ha mutato la struttura”. Alcuni mesi dopo su “Critica marxista” Emilio Sereni ha sostenuto che “la rivoluzione d’ottobre ha segnato il primo avvio al passaggio da una struttura i cui rapporti di produzione sono di tipo capitalistico, a una struttura i cui rapporti sono socialisti, fondati sulla proprietà sociale dei mezzi di produzione… La formazione economico-sociale socialista ha rivelato fin da questi primi pochi decenni della sua esistenza, una ben superiore ed autonoma capacità di espansione produttiva e geografica… e ha potuto affermarsi anche in settori geografici ed in ambienti economico-sociali come quelli feudali dell’Asia centrale e della Mongolia, ad esempio, o come quelli preclassistici, addirittura, dell’estremo nord sovietico, che neanche il capitalismo era mai giunto ad integrare effettivamente nel proprio sistema… Quella storica rottura ha inaugurato per l’Urss, e per tutta l’umanità, quei rapporti di produzione di tipo nuovo, nei quali non a caso per la prima volta si sono realizzate l’utilizzazione pacifica dell’energia atomica e le conquiste dell’astronautica”. A suo giudizio, c’è stata un’incomprensione teorica del carattere “non antagonistico del processo di espansione economica e geografica della formazione economico-sociale socialista”, dal momento che essa ha favorito “uno sviluppo delle forze produttive sociali non solo nei paesi del sistema socialista, o in quelli appena liberati, o in lotta per la loro liberazione dal giogo colonialista e imperialista, bensì anche e persino in quelli imperialisti dominanti”. E Giorgio Mori, su “Critica marxista”, ha scritto che “Paesi come la Cina, la Corea, il Vietnam, Cuba e l’Algeria hanno combattuto e vinto nel secondo dopoguerra contribuendo anche a gettare il seme non eliminabile della rivoluzione attraverso interi continenti. Perciò, non appare più retorico parlare di rivoluzione mondiale”. Era convincimento generale, infatti, che la vittoria del comunismo sul capitalismo sarebbe stata prossima. Quando le forze del Patto di Varsavia hanno invaso la Cecoslovacchia il mondo comunista si è diviso: ad approvare l’intervento sono stati i partiti comunisti di Mongolia, Corea del Nord, Cipro, Germania federale, Vietnam del Nord, Cuba, Siria, Venezuela, Perù, Argentina e Colombia; il Pc degli Stati Uniti si sono divisi, mentre i Pc di Cina e di Albania hanno condannato sia i governi dei Paesi socialisti che hanno inviato le truppe, sia la “cricca revisionista” al potere in Cecoslovacchia. A pronunciarsi a favore del “nuovo corso” sono stati la Romania e la Jugoslavia, mentre il resto dei partiti comunisti ha giudicato l’invasione un atto deplorevole e da condannare. Il Pci ha espresso una dura condanna, ma anche in questa occasione non ha avuto il coraggio di andare a fondo nell’analisi e quindi, conseguentemente, nella definizione di una strategia alternativa. Nel 1969, in un clima di estesa contestazione studentesca e operaia, Antonio Pesenti su “Rinascita” così ha risposto a quel ristretto gruppo di compagni che nel partito rivendicava un ripensamento sull’esperienza sovietica: “Mezzo secolo d’esistenza del socialismo nell’Urss e poco meno di un quarto di secolo di successi del socialismo negli altri paesi hanno dimostrato nei fatti la superiorità storica della democrazia socialista rispetto a quella borghese”. Il partito, per la verità, ha riconosciuto che nella costruzione di quel sistema si sono compiuti alcuni errori, ha biasimato il non riconoscimento del diritto di sciopero, ha denunciato certe iniquità sociali, ma nel complesso ha assolto l’apparato di potere. Soprattutto, non ha ritenuto necessario dare avvio a una seria analisi di quel mondo. E quando sono stati colti i segni della natura strutturale delle contraddizioni che lo hanno investito, il gruppo dirigente si è limitato a constatarne l’esistenza senza procedere a un approfondimento. Sempre nel ’69, Achille Occhetto, che neanche un ventennio dopo diventerà segretario del partito, nel commentare criticamente la rivoluzione culturale cinese ha scritto: “Nella società socialista permangono le contraddizioni tra i rapporti di produzione e le forze produttive, tra la 384
sovrastruttura e la base economica… (le quali) si distinguono dalle contraddizioni tra i rapporti di produzione e le forze produttive sussistenti nella vecchia società… Ogni controversia di ordine ideologico può essere risolta solo con metodi democratici e non con metodi coercitivi e repressivi… Il problema reale di queste società è il non completo passaggio dalla socializzazione dei mezzi di produzione a quella che Marx chiamava l’appropriazione sociale del prodotto… Il problema storico specifico che sta di fronte alle società socialiste è la ricerca, che non troverà ovunque le stesse soluzioni, del passaggio dalla fase della socializzazione dei mezzi di produzione a quella dell’appropriazione sociale da attuarsi attraverso i meccanismi della democrazia socialista… Va (poi) studiato il motivo per cui tra l’ipotesi finale della dissoluzione dello Stato e la pratica burocratica è mancata una teoria dello Stato di transizione, teoria di cui sentiva l’esigenza lo stesso Lenin”. In questa sua riflessione, il futuro leader comunista coglie due contraddizioni fondamentali del socialismo realizzato, cioè la mancata socializzazione dei mezzi di produzione e il non avvio del processo di estinzione dello Stato, ma non sa andare oltre una semplice constatazione, dimostrando così un’incapacità o una non volontà di trarne le dovute conseguenze in termini teorici e politici. A fornire un’altra prova dell’assenza di coerenza politica è uno dei più prestigiosi teorici del partito, Luciano Gruppi il quale a metà degli anni ’70, su “l’Unità”, ha scritto: “Nella costruzione del regime sovietico qualche cosa è venuto a mancare rispetto a ciò che da esso la classe operaia e i popoli si attendevano e si attendono… Mi riferisco a ciò che dal XX congresso non è venuto avanti… Occorre dire che quell’edificio statale, quel modo di dirigere, storicamente ereditato, continua a operare, nella sostanza, quando molte delle ragioni che ad esso spinsero non operano più od operano molto meno”. Questa sua riflessione dimostra che nel partito c’è chi percepisce i vuoti e le contraddizioni dell’esperienza sovietica, ma non ha poi il coraggio di andare a fondo e di agire di conseguenza. Lo stesso sapere collettivo del partito non si misura con questo aspetto nodale del socialismo reale, ma continua a far propria la strategia statalista. E pur avvertendo le incongruenze di quell’esperienza, ricerca altrove giustificazioni e soluzioni. Come più volte ha osservato Lucio Lombardo Radice, il Pci ha letto le inefficienze e i problemi del socialismo dei Paesi dell’Est esclusivamente nella contraddizione tra una struttura socialista e una sovrastruttura politica inquinata e autoritaria. Non ha in sostanza mai rimesso in discussione l’operato di Lenin sul fronte dell’economia politica. Ad ammettere questi limiti è stato lo storico Giuseppe Boffa quando, di fronte alle rivolte dei lavoratori polacchi ha scritto: “Noi ci muoviamo per approssimazioni molto generiche perché un’analisi delle forze sociali esistenti nei paesi socialisti non è mai stata fatta”. Diventa quindi difficile non convenire con il dissidente cubano Fernando Claudin quando sostiene che “la sinistra europea, oltre a non essere stata capace di fare la sua rivoluzione, è stata la complice principale dello stalinismo, della repressione contro i migliori rivoluzionari dell’Europa centrale e contro milioni di lavoratori…Si è ingannata sul ‘socialismo reale’”. Ovviamente torna d’obbligo distinguere fra i partiti europei, giacché i loro atteggiamenti e le loro prese di posizioni sono stati differenti. Nel complesso, però, il giudizio non può che essere negativo. Lo stesso modo in cui la sinistra ha affrontato il cosiddetto “movimento dei dissidenti” è dimostrativo della sua incoerenza e del suo opportunismo. E’ pur vero che dopo l’ottobre polacco il dissenso nei Paesi dell’Est si è presentato variegato, cioè con una connotazione politica e culturale tutt’altro che omogenea (una corrente di destra, personificata da Solzenitsyn, era ispirata a un romanticismo reazionario e antimoderno; una di centro, rappresentata da Sacharov, si ricollegava all’eredità riformatrice di Chruscev; quella di Bahro, Djilas e Vajda era molto critica sugli aspetti più di fondo del socialismo reale), e questo ha contribuito a rendere più difficile un giusto rapporto di solidarietà e d’impegno politico. E’ però indubbio che quel dissenso è stato considerato dalla sinistra dell’Occidente opera esclusiva di intellettuali e comunque interpretato come un segno di rivolta per i ritardi e le disfunzioni che si registravano nella costruzione di un modello di socialismo, quello sovietico, sul quale si è continuato nonostante tutto a scommettere.
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Mentre in quei Paesi era in atto un tentativo, pur minoritario, di ritornare a una pratica marxista critica e rivoluzionaria, i comunisti del cosiddetto “mondo libero” non hanno saputo cogliere la sfida che era loro implicitamente rivolta in termini di confronto e di iniziativa politica. Essi si sono limitati a esprimere semplicemente attestati formali di solidarietà. Sulla spinosa questione della “Chiesa del dissenso”, ad esempio, si è notato grande imbarazzo, mentre essa era un’occasione per affrontare un tema le cui implicazioni non erano solo politiche, ma assumevano uno spessore culturale e teorico. C’è poi un altro dato sconcertante che induce a riflessione. Per decenni i dirigenti dei Partiti comunisti dell’Occidente hanno avuto modo di recarsi nei Paesi del socialismo reale, ospiti di quei governi, e di constatare di persona come le cose stavano per davvero. Ebbene, nella letteratura politica ufficiale del tempo non c’è traccia alcuna di rilievi critici o di denunce sulle contraddizioni di fondo che pur caratterizzavano quei regimi. E’ forse da ritenere che il loro soggiorno sia stato sottoposto a controlli e limitazioni tali da rendere loro impossibile di scorgere la realtà dei fatti? E perché mai non si sono ribellati a tali restrizioni? Oppure è da supporre che essi siano stati compiacenti con le autorità ospitanti al punto tale da rendersi complici della censura? Nell’un caso o nell’altro si è in ogni modo in presenza di comportamenti ingiustificabili per delle persone votate alla causa del comunismo. Aveva ragione Paolo Spriano quando alla fine degli anni ’70 commentava amaramente: “Non è inutile chiedersi se i tempi del Cominform non fossero già maturi per una ridefinizione dei rapporti tra l’Urss e i partiti comunisti e se per caso non mancò il necessario coraggio di dare battaglia da parte dei grandi partiti comunisti occidentali membri più o meno passivi del Cominform”. Certo, una rottura con l’Urss da parte dei partiti comunisti dell’Occidente avrebbe potuto significare un indebolimento del fronte anticapitalistico, ma una tale preoccupazione non è sufficiente a giustificare il silenzio che c’è stato per decenni. Alcuni interrogativi su quelle realtà era proprio il caso di porseli, soprattutto nel momento in cui la contrapposizione tra quei regimi si è tradotta in rivalità e poi in guerra aperta (scontri armati Cina-Urss, Cina-Vietnam, Vietnam-Cambogia, guerra fratricida tra gli Stati dell’ex Jugoslavia). Lo stesso venire meno di una visione unitaria e internazionale della costruzione del socialismo avrebbe dovuto allarmare e far riflettere anche l’ultimo dei comunisti. Questo coraggio invece è mancato e i più non hanno saputo aprire bocca nemmeno quando Boris Eltsyn ha trasformato l’economia sovietica in società di capitali e in nome della democrazia ha distrutto completamente ciò che era stato costruito in settanta anni, restaurando così il capitalismo. 11.3 – L’atteggiamento riflessivo ma inefficace de “il manifesto” Nei confronti del socialismo reale e del suo fallimento le formazioni della “nuova sinistra”, salvo poche eccezioni, anziché assumere un atteggiamento critico e problematico, hanno preferito ricorrere agli slogan. Il timore di smobilitare i miti sui quali hanno fondato la loro esistenza, ha prevalso su una visione dialettica della realtà. Nella circostanza dell’invasione della Cecoslovacchia, i gruppi “extraparlamentari” della sinistra hanno denunciato il “socialimperialismo della burocrazia sovietica” e criticato le tesi “apertamente socialdemocratiche” della “primavera dubcekiana”. Alcune delle formazioni più radicali della contestazione hanno contrapposto al “comunismo falso della Polonia quello vero rappresentato dalla Cina”. Come ha sostenuto Lucio Magri, l’errore della “nuova sinistra” di fronte al problema del socialismo realizzato “sta nel non aver portato a fondo, sulla base dell’esperienza storica ormai ricca, una riflessione e una elaborazione intorno al concetto di transizione”. Mentre gli eurocomunismi lo “hanno ridotto all’ovvietà, secondo cui la rivoluzione è un processo, rinunciando così sia a determinare scientificamente le scansioni a livello mondiale, sia a precisare via via i meccanismi e le strutture che dovrebbero garantire il decorso, la nuova sinistra ha invece soppresso il problema,
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vedendo il comunismo a portata di mano, o almeno lo ha ridotto alla meccanica proiezione dell’autonomia operaia e della conflittualità che essa può esprimere”. Solo una minoranza dello schieramento politico nato nel corso e immediatamente dopo l’esperienza del “’68-‘69” ha avuto il coraggio di una riflessione critica. Tra questi è da annoverare il gruppo de “il manifesto”, cioè di quei compagni radiati dal Pci nel ’69 e nel ’70 proprio anche per “eresia” sulla natura del socialismo dell’Est. Lo sforzo compiuto da questi compagni è stato appunto quello di indagare sull’indole delle società post-rivoluzionarie. A differenza di chi sosteneva che quei regimi erano entità talmente nuove da non consentire l’uso di categorie marxiane per la loro analisi e la loro comprensione; e anche di chi, pur sottolineando l’aspetto di novità, non li considerava riconducibili né al modo di produzione capitalistico né a una fisionomia socialista, essi li hanno interpretati come regimi di “capitalismo di Stato”, prodotto della teoria delle due fasi care ai bolscevichi e cioè: prima si costruiscono le basi materiali del socialismo, poi si costruiranno i rapporti socialisti. Di fronte alla repressione della “primavera” di Praga, “il manifesto” non si è limitato alla condanna severa della prepotenza di Mosca, ma ha indagato sulle cause che hanno determinato quella tragica situazione. Rossana Rossanda ha sostenuto che “spedendo i suoi tanks a Praga, l’Unione sovietica ha preso atto dell’impotenza della sua forma di egemonia o controllo politico economico e ideologico sul blocco dell’Est”, mettendo così a nudo la degenerazione e la precarietà di quel sistema. Constatando che tutte le rivoluzioni avvenute si sono bloccate sul punto chiave dello Stato e della libertà, si è quindi chiesta: “E se non fosse vero che nel 1917 in Urss, nel 1948 in Cina è stato risolto in senso socialista il problema della base, della struttura – ma solo avviata una sua tappa iniziale, che è il mutamento della proprietà e l’abolizione del profitto privato? Se questa non fosse che una ‘forma’ del modo capitalistico di produzione… è possibile ipotizzare di essere di fronte alla ‘immaturità’ delle rivoluzioni del nostro secolo, al loro scappar fuori dalla parte ‘sbagliata’? ‘La rivoluzione contro il Capitale’ come ebbe a scrivere Gramsci”? Nel ’77 “il manifesto” ha organizzato a Venezia un convegno di studi sul socialismo reale e nel ’79 ha proseguito la ricerca riconvocando a Milano oltre ai comunisti non ortodossi dell’Occidente, molti dissidenti dei Paesi dell’Est. Si è trattato di due momenti di riflessione che hanno provocato non solo un atteggiamento repressivo da parte dei governi “socialisti” nei confronti dei dissidenti che hanno aderito all’iniziativa, ma anche l’imbarazzo e il disimpegno dei partiti comunisti dell’Occidente. Gli stessi organi di stampa e televisivi hanno dimostrato scarso interesse non attribuendo loro l’attenzione che meritavano. Queste due assise hanno dato il segno di quanto grande fosse la volontà dei promotori di comprendere il corso della storia e hanno messo in evidenza la tenace determinazione degli organizzatori di intessere un rapporto organico con le espressioni del dissenso dei Paesi del socialismo realizzato. Le testimonianze e il confronto che ne è scaturito hanno consentito di stabilire che un punto nodale dello sviluppo di quelle società era da individuarsi nel modo di formazione ed elaborazione della volontà collettiva. Le scelte e gli orientamenti dei governi di quei paesi, giusti o sbagliati che fossero, non rappresentavano affatto oggetto di verifica e di controllo da parte del popolo, ma venivano calati dall’alto e dovevano essere applicati e rispettati senza riserve. Si era cioè in presenza di un grave deficit di democrazia. A stabilire la stessa scala di bisogni, distinguendo tra quelli primari e quelli secondari, non era la società civile, ma il partito-principe. Quello vigente nei Paesi del socialismo reale era di fatto un sistema che creava delle barriere allo sviluppo del libero dispiegamento della soggettività cosciente e dell’autonomia individuale, di conseguenza, esso generava una de-responsabilizzazione diffusa. In teoria lo Stato avrebbe dovuto estinguersi, mentre nella pratica la separazione tra governanti e governati raggiungeva livelli intollerabili. La presenza della burocrazia si moltiplicava a tal punto da rendere la società civile prigioniera dei suoi diktat e privilegi. L’interesse principale del gruppo de “il manifesto” era però rivolto al problema della mancata socializzazione. Partendo dal convincimento che la natura dello Stato socialista è riconoscibile anzitutto dallo sviluppo dei rapporti economici, questi compagni hanno ricostruito il processo 387
dell’evoluzione storica di quelle società e sono giunti alla conclusione che mentre in principio, con la nazionalizzazione dei mezzi di produzione e la trasformazione rivoluzionaria, si erano create le premesse oggettive della socializzazione, con il procedere del loro sviluppo nella struttura sociale si è determinata una frattura che ha impedito il compimento della transizione. A impedire che il processo rivoluzionario si compisse sono intervenuti diversi ostacoli determinati dal basso livello economico della società russa, dall’atteggiamento ostile delle potenze capitalistiche e dalla mancanza di tradizioni politiche democratiche. Nell’assunzione del taylorismo, considerato da Lenin come uno strumento neutro da far proprio in una fase di transizione garantita da uno Stato operaio, era già implicita la rinuncia a una democrazia dei produttori e la conseguente realizzazione di una democrazia “per” i produttori. Difatti, tutto il pluslavoro, tranne una parte di quello dei colcos, apparteneva allo Stato ed era gestito non dai produttori, ma dalla casta burocratica che era in posizione antagonistica alle masse. Il modo di produzione statale, dunque, non solo non ha abolito il lavoro salariato, ma lo ha addirittura generalizzato. Anziché liberare la forza lavoro dal valore mercantile che il capitale le ha conferito, e pure dall’alienazione economica e sociale, ha lasciato che gli individui fossero subordinati alle regole della mediazione fra cose. Nel corso dei convegni promossi da “il manifesto” è stato fatto notare come nei Paesi del socialismo reale venissero adottati modelli di sviluppo differenti da quelli del capitalismo, solo in campo sociale, mentre nel modo di produzione e nel campo tecnico-scientifico fosse del tutto assente qualsiasi diversificazione. Togliattigrad e Mirafiori risultavano essere del tutto simili. La figura del lavoratore salariato e in generale del lavoratore dipendente era rimasta la stessa di quella esistente nel sistema capitalistico. In quelle società continuavano a sussistere i rapporti della vecchia divisione del lavoro. Secondo la Costituzione, i singoli erano chiamati a collaborare, a contribuire alla definizione della pianificazione, a partecipare al governo, in base alle loro competenze, ma nella realtà della vita quotidiana questo loro protagonismo veniva negato. Il dissidente Rudolf Bahro ha fornito la seguente spiegazione. Le “caratteristiche del socialismo realizzato (salvo alcune conquiste) sono: la sopravvivenza del lavoro salariato, della produzione di merci e del denaro; la razionalizzazione dell’antica divisione del lavoro; il mantenimento delle disuguaglianze sociali; la liquidazione completa delle libertà negate alle masse nell’età borghese, piuttosto che un loro ampliamento; la responsabilità univoca verso l’alto dei principali funzionari, oltre che dell’esercito e della polizia”. “Non si ha nessuna forma di riappropriazione diretta o indiretta del lavoro, né a monte né a valle, nessuna modifica nella gerarchia di fabbrica, nessuna cancellazione delle differenze tra lavoro intellettuale e manuale, nessuna abolizione tendenziale della differenza tra città e campagna”. L’alienazione dell’operaio sovietico era ridotta solo dall’acquisizione della sicurezza del posto di lavoro. Niente di più. Si trattava in sostanza di una forma di capitalismo di Stato: scomparso come proprietà giuridica, il capitale sopravviveva come funzione. E l’ampiezza dell’intervento statale e della proprietà pubblica dei mezzi di produzione non modificava per nulla la natura del modo di produzione. Il superamento della fabbrica capitalistica era un problema del dopo, così come quello dell’estinzione dello Stato. Nei Paesi dell’Est – concludevano le iniziative de “il manifesto” – c’è poco o niente di socialismo; si è invece in presenza di un capitalismo di Stato che è degenerato. “Le condizioni di illibertà delle società dette socialiste non cambieranno – ha sostenuto Rossanda – se non avverrà un processo rivoluzionario in Occidente. Non cambierà nulla in esse se non cambierà la società qui, se l’Europa non abbatterà la sua struttura capitalistica, non avvierà il mutamento del modo capitalistico di produzione”. Purtroppo, però, una simile prospettiva era ben lontana dal divenire realtà. Le sinistre dell’Occidente e gli stessi movimenti rivoluzionari erano, nella stragrande maggioranza, saldamente schierati con i governi del socialismo reale, e chi lottava in quei Paesi per la democrazia e per il cambiamento non aveva che sponde incerte e sfuggenti. A dare ascolto e a sostenere il dissenso erano solo gli avversari del comunismo i quali, gaudenti, vedevano nella sciagura di quelle realtà la prova che il socialismo era un “progetto aberrante”. 388
Lo stesso eurocomunismo e i socialismi-democratici non erano in grado di costituirsi come alternativa poiché pativano come proprio limite la stessa malattia del socialismo reale. Quando Gorbacev ha varato la perestrojka e la glasnost sulle colonne del quotidiano “il manifesto” è stato scritto: il suo “richiamo all’efficienza e alla funzionalità, ma anche alle norme elementari della democrazia e della circolazione dei beni, non può che rallegrare il nostro animo borghese (sempre attivo, come la parte più antica del nostro cervello), esso rappresenta invece, per il nostro animo marxiano, un colpo duro, una sconfitta (poiché significa) la rinuncia a quell’approfondimento della libertà individuale che doveva essere realizzata a partire dal terreno della produzione in un più alto livello di uguaglianza”. E Rossanda ha commentato: “Quelli di noi che si sono preoccupati, dalla parte di alcune grandi idee di giustizia e di libertà, del destino del socialismo dell’Est si erano chiesti senza speranza quale esito si potesse dare a queste società bloccate che non fossero reazioni spaventose, bagni di sangue, ritorni indietro di un secolo di storia… In via di fatto, il gorbaciovismo è il contrario del marxismo leninismo dell’Est. In Urss il partito è ancora un corpo separato che agisce in gran segreto. Quella di Gorbacev è una proposta demolitrice di ciò che è stato il Pcus dal ’24 a oggi. Gorbacev chiede al Pcus di essere il soggetto della propria sparizione”. E quando il regime è imploso il giudizio della cofondatrice de “il manifesto” è stato netto: “Il processo avvenuto ad Est non è stato la messa in atto di una formazione storico-sociale di natura comunista, ma la formazione di un regime a capitale monopolistico di stato, identificato nel potere del partito unico…. Si tratta del fallimento di un blocco diretto da forme inedite di capitalismo monopolistico di stato, con un vasto contratto con i ceti direttamente produttivi in una fase primaria e secondaria dell’accumulazione... Al fondo della disinterpretazione (ricorrente) sta l’aver collocato nella proprietà l’essenziale del modo di produzione capitalistico. La questione della proprietà è per Marx consequenziale al problema della libertà e quindi di un ‘lavoro libero’ nei modi, nei fini, nei tempi…. La trasformazione non avviene con il mero passaggio di proprietà del capitale o dei mezzi di produzione… Ne consegue che per Marx il comunismo è un modo di produzione nel quale il rapporto fra gli uomini è libero e uguale, e non sia più mediatizzato da cose… La storia dell’Urss come storia d’un modo di produzione non può definirsi comunista (né, per quanto discutibile sia il significato di questa parola in Marx, socialista)”. Un altro cofondatore del gruppo, Ado Natoli, è stato ancora più drastico: “Nei regimi comunisti non vi era né comunismo né capitalismo, ma in campo produttivo e sociale avevano preso corpo forme di dipendenza e di garanzia tipicamente feudali, serrate da espressioni di dispotismo asiatico… (caratterizzate da) degrado persino antropologico… Quando si dice ‘rivoluzioni dell’Est’ ci si autoinganna. Quelle non sono rivoluzioni. C’è stato il crollo del vecchio, ma niente di nuovo vi si è sostituito”. Torna spontaneo chiedersi come mai il gruppo de “il manifesto”, il quale, come si evince dai richiami che ho fatto, ha dimostrato di avere lucidamente analizzato la natura del socialismo reale, non sia poi riuscito a muoversi coerentemente sul piano politico nella riproposizione della rivoluzione in Occidente. Anche questo è un argomento che merita un’approfondita riflessione, dato che un bilancio esauriente sull’esperienza di questo gruppo politico non è ancora stato fatto, almeno in modo compiuto. La mia modesta opinione è che le ragioni del mancato conseguimento del suo progetto iniziale sono molteplici. Tre in particolare andrebbero indagate a fondo: 1) anzitutto, la critica portata avanti da questi compagni all’interno del Partito comunista italiano è avvenuta in tempi troppo avanzati rispetto all’esplosione del movimento di contestazione del “’68-‘69”, rendendo assai difficile la possibilità di divenire un valido e credibile referente nella costruzione di una alternativa alla sinistra storica; 2) nell’orientamento del gruppo è prevalsa quasi da subito la predilezione della delega che ha contribuito a causare la rottura tra il giornale e il movimento politico il quale, alla fine, è stato risucchiato nella logica dei vecchi partiti e si è reso inidoneo a dare vita a esperienze nuove sul fronte del protagonismo sociale e della democrazia diretta; 3) infine, gli è mancato il coraggio della sperimentazione, precisamente di occupare il ruolo di 389
avamposto della socializzazione nella lotta per un nuovo modo di produrre e di consumare. In sostanza, nonostante il notevole acume politico-culturale, gli è mancata la weltanschauung alla quale ispirare con estrema coerenza la sua azione quotidiana. 11.4 – Le molteplici cause del crollo Com’è risaputo, la spinta al cambiamento in Urss non è venuta dalla società civile, ma dal vertice del potere, cioè da Gorbacev. Solo dopo che egli ha dato inizio alla perestrojka e alla glasnost si è registrato lo sviluppo di un movimento dalle dimensioni di massa, il quale però, anziché sostenere la sua azione riformatrice l’ha decisamente contestata. Questa paradossale situazione ha fatto sì che proprio al capo del Pcus venissero attribuite tutte le colpe del fallimento. Che Gorbacev sia il principale artefice di ciò che alla fine degli anni ’80 è avvenuto nell’Unione sovietica è un dato incontestabile; che però egli debba essere considerato il capro espiatorio di quel disastro rappresenta un torto alla realtà dei fatti. La storia insegna che tutte le modernizzazioni sociali sono state determinate da vasti movimenti di massa e con la ferma determinazione dei loro protagonisti, giammai simili processi sono stati il frutto di una decretazione dall’alto. Soprattutto, per quanto riguarda l’esperienza storica del movimento operaio, tutte le trasformazioni in senso socialista hanno avuto come riferimento l’elaborazione marxiana. Nell’89, invece, Gorbacev, pur richiamandosi più volte al Lenin dei soviet ed evocando l’estinzione dello Stato, ha fatto sua la politica delle riforme comportandosi come un revisionista moderato. Lui stesso, del resto, anni dopo non ha avuto esitazione a rendere chiaro il suo orientamento politico; al “Corriere della sera” del 23 marzo 2006 ha dichiarato: “Mi sono sempre mosso nella direzione che oggi viene definita socialdemocratica”. La sua stessa Fondazione ha ufficialmente preso le distanze dal marxismo sposando in modo inequivocabile le tesi riformiste. Uno dei limiti di Gorbacev è consistito proprio nell’essersi dimostrato incapace di svolgere un’analisi rigorosa della società che intendeva cambiare, e questa lacuna non può certo considerarsi caratteristica di un leader politico che assume come riferimento la teoria messa a punto dall’autore de “Il capitale”. Egli era convinto che la crisi dell’Urss coinvolgesse le sole sovrastrutture del sistema e non invece le strutture stesse. Non si è reso per altro conto che i partiti comunisti non erano in grado di apportare l’innovazione che lui proponeva. Poi non ha tenuto nella dovuta considerazione la stessa storia recente del suo Paese, sottovalutando il fatto che sia Georghij Malenkov, nel ’55, che Nikita Cruscev, tra la metà degli anni ’50 e la metà di quelli ’60, ebbero a tentare di avviare dei processi innovatori ma furono sonoramente sconfitti. Egli si è trovato a governare un sistema che era ormai giunto alla sua fase terminale e non si è reso conto che la sua strategia si sarebbe scontrata con insormontabili resistenze, in ogni caso di certo non l’avrebbe rianimato. Il suo sforzo è stato avversato non solo dalla potente burocrazia, ma persino da una larga parte dei suoi stessi compagni di partito che non hanno gradito la sua decisione di spossessare il partito del potere acquisito e di sopprimere la sua prerogativa di essere fonte di ogni legittimità. Un intento il suo che non è rintracciabile in nessuna altra esperienza di regimi a partito unico e che la dice lunga sulle sue velleità. Egli ha fallito anche per essersi illuso che il mondo occidentale gli avrebbe teso una mano, sostenendolo nel suo progetto riformatore; dunque, per non aver avvertito le insidie dei nemici del socialismo. Difatti, dopo essere stato declamato e osannato è stato abbandonato e a lui è stato preferito l’ambiguo Eltsyn. A Gorbacev va comunque riconosciuto il merito di aver insegnato ai sovietici che la democrazia è anche conflitto e che la libertà altrui è la vera garanzia della propria. Le cause del crollo del socialismo reale trascendono dunque l’operato di Gorbacev e vanno ricercate nel passato dell’Urss, nella sua storia, nel suo processo evolutivo. Se si è interessati a individuarle, si deve necessariamente procedere a una rigorosa analisi di quanto avvenuto nel corso dei settant’anni della sua esistenza. Una simile operazione non è stata compiuta né dalla generalità degli 390
storici e dei commentatori politici né dai partiti della sinistra. E questa è un’imperdonabile dimostrazione di superficialità e insieme di presunzione. E’ solo attraverso la ricostruzione storica che si supera una visione parziale e ci si rende conto della pluralità delle cause che hanno determinato il crollo di quel sistema. E’ peraltro indispensabile compiere un’operazione del genere non solo per comprendere l’accaduto, ma – almeno per chi continua a credere nel comunismo – anche per evitare di ripetere gli stessi errori nella costruzione di una alternativa al capitalismo. Nel compiere un’analisi critica della storia dell’Urss è a mio parere fuori discussione il valore storico della rivoluzione d’ottobre. Ciò che è avvenuto in Russia nel 1917 ha significato per molti milioni di persone una via d’uscita da una condizione di servilità, dall’oscurantismo e dall’ignoranza. Essa ha assicurato al popolo russo un avanzamento sociale e l’apertura di nuovi orizzonti culturali. L’esistenza dell’Unione sovietica ha altresì rappresentato per i proletari di tutto il mondo non solo la speranza di una prospettiva di vita degna di un essere umano, ma un incentivo alla lotta per la liberazione dallo sfruttamento del capitale e il loro protagonismo ha segnato profondamente il corso della storia. Così come la rivoluzione francese ha affermato il diritto di cittadinanza, quella bolscevica ha sancito la possibilità di sopprimere il potere tirannico e prospettare un regime di autogoverno del popolo. Le intenzioni di Lenin erano proprio queste. Naturalmente un cambiamento del genere non poteva non essere che violento e costare in termini sociali prezzi estremamente pesanti. Due delle cause del collasso del socialismo reale che gli osservatori più attenti hanno individuato sono il persistere di elementi semi-feudali nella costruzione del nuovo modello sociale e un uso dissennato delle risorse. Dato il carattere arretrato della società zarista, la cui economia era rimasta allo stadio semi-asiatico, come ebbe a definirla Marx, e data la conseguente debolezza della classe operaia, il modello di socialismo che a Lenin fu possibile realizzare era abbondantemente segnato da fattori precapitalistici, sia di tipo sociale che culturale. Sono questi fattori ad aver costituito un ostacolo all’avvento di una vera modernità. Mentre la rivoluzione aveva trasformato alcuni aspetti del vivere civile (Stato, proprietà, parte del sistema economico), allo stesso tempo ne aveva congelati altri nelle loro forme prerivoluzionarie preservandoli nel tempo. In questo processo di cristallizzazione lo stalinismo è risultato essere un fattore determinante, al punto di trasformare la macchina comunista in strumento di conservazione. L’isolamento prima, le conseguenti difficoltà economiche, l’invasione nazista e le distruzioni della guerra poi hanno consolidato queste ipoteche impedendo al Paese di diventare moderno. Solo all’indomani del secondo conflitto mondiale, nonostante la “guerra fredda” e il regime autarchico pressoché totale in campo economico e tecnico-scientifico, l’Urss ha vissuto momenti di tregua conseguendo un certo progresso. All’inizio degli anni ’60, infatti, capitalismo e socialismo, almeno in alcuni campi, si sono confrontati su un piano di parità, anche se il grado di sviluppo e di efficienza dell’Unione sovietica è rimasto inferiore a quello degli Stati Uniti. Nonostante il sistema socialista risultasse esteso su un terzo della popolazione mondiale e la classe operaia dei paesi capitalistici raggiungesse l’apice del suo sviluppo, con il movimento di liberazione nazionale antimperialista in piena espansione, l’evoluzione qualitativa del Paese e quella dei regimi dell’Est ebbe a subire un arresto. Mentre l’ideologia marxista perdeva forza e credibilità, la libertà economica e intellettuale su cui fonda il sistema capitalistico, anche in forza del crescente benessere economico che esso riesce ad assicurare a larga parte della popolazione, si rivelava più forte e attraente. Sottoposti ad attacchi esterni d’ogni genere, i Paesi del socialismo reale sono stati costretti a destinare all’accumulazione e alle spese militari per la difesa, quote molto elevate del loro prodotto nazionale e questo condizionamento ha fatto sì che al soddisfacimento delle esigenze sociali venissero sottratte ingenti risorse. Paradossalmente, il settore più moderno dell’Urss era proprio quello dell’industria militare. Si è trattato però di una modernità perversa. Mentre negli Usa l’industria della guerra procurava alla società uno straordinario patrimonio di innovazioni (dalla 391
telefonia mobile a internet), nell’Urss il complesso militare–industriale rimaneva gelosamente chiuso in se stesso causando una diminuzione del prodotto nazionale e della produttività del lavoro, facendo così scendere il tasso di innovazione. Arretratezza e dissipazione delle risorse sono dunque da annoverare tra le cause principali del fallimento del socialismo reale. Non sono, però, le sole, ad esse se ne sono accompagnate altre. Come ci hanno ricordato i commentatori più attenti e obiettivi, sono da considerarsi concause l’assenza di internazionalismo in politica estera, la falsa autonomia attribuita alle numerose nazionalità e il persistere di una pratica populista nell’azione dei governi. L’Urss di Stalin e del post-stalinismo è venuta meno al principio ribadito da Lenin secondo cui “il capitalismo è una forza internazionale. Per vincerlo si richiede un’alleanza internazionale, una fratellanza internazionale degli operai”. All’indomani del secondo conflitto mondiale la Patria del socialismo ha agito non nello spirito di partnership ma da superpotenza. Verso i Paesi satelliti ha messo in atto forme di oppressione che non sono molto dissimili dal modo in cui le potenze imperialistiche, sul piano dei rapporti di produzione e della divisione sociale del lavoro, hanno regolato le loro relazioni con i Paesi poveri e in via di sviluppo. Avendo incoraggiato la rinascita di lingue e di culture primitive la, politica sovietica non ha favorito altresì una reale autonomia delle Repubbliche che facevano capo all’unione, ma anzi il sistema federale ha incentivato l’erezione di barriere commerciali a difesa degli interessi delle imprese. L’aspirazione all’autonomia nazionale si è trasformata nel tempo in ideologia, o meglio ancora in una vera e propria religione, nel senso che ha spinto gli individui a costruirsi un futuro immaginario in cui cercare di credere al fine di sopportare il peso delle inefficienze e delle ingiustizie. L’esacerbazione del nazionalismo “granrusso” è un esempio eloquente di un tale decadimento. Ad avere poi una grande influenza nella gestione corrente dei problemi economico-sociali è stato l’atteggiamento populista delle dirigenze le cui proposizioni utopistico-massimaliste si sono mescolate con i tratti operaisti-statalisti del marxismo-leninismo dando così luogo a una degenerazione politico-culturale. Altra causa su cui si è concentrata l’attenzione della maggioranza degli osservatori è quella relativa al sistema politico-istituzionale. In molti hanno insistito sull’assenza di democrazia quale motivo principale della dissoluzione dell’Urss. In effetti, sul fronte della statualità è da registrare un vero e proprio paradosso. I bolscevichi si erano proposti di costruire una nuova comunità e hanno invece dato vita a un regime la cui caratteristica principale è stata quella di negare, anzi di reprimere la libertà. Il comunismo presuppone in teoria l’autogoverno e l’estinzione dello Stato, mentre la pratica dei sovietici ha partorito un moloch. La democrazia era rimasta ancorata al principio della delega e il sistema elettorale consisteva nella presentazione di una lista unica di candidati scelti dall’alto. L’univocità e la centralizzazione del potere ha dato luogo a una “fabbrica globale”. Mentre in regime socialista la democrazia avrebbe dovuto essere integrale, cioè trasferire il potere alla società, nei fatti si è trasformata nella forma più ottusa di Stato. Gli apparati di potere non si sentivano per nulla responsabili di fronte alla società civile, ma risultavano obbedienti alle sole istanze superiori. Con la negazione del principio della divisione dei poteri (legislativo, esecutivo, giurisdizionale) l’esperienza sovietica ha fatto registrare un regresso rispetto alle conquiste della stessa rivoluzione borghese. L’assenza del pluripartitismo ha significato la negazione e la repressione violenta di qualsiasi teoria e prassi non conformi a quanto stabilito dal regime. La minaccia della repressione fisica e della “morte civile” non è venuta mai meno per chi si è messo in aperta opposizione al sistema. A dominare non erano dunque i proletari, ma la nomenclatura e la burocrazia. Il partito unico, gerarchizzato e autoritario, dirigeva la società secondo un’unica ideologia, quella marxista-leninista ispirata alla dittatura del proletariato. La nomenklatura era diventata una classe e aveva dato corpo a un sistema fatto di nepotismo e di pagamenti occulti e caratterizzato da incompetenze e corruzione.
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L’apparato economico e politico dello Stato, anziché servire la società, ha finito col dominarla. In “La nostra crisi attuale”, edito nel ’68, il filosofo polacco Karel Kosik ha così descritto la classe dirigente delle società dell’Est: “Al politico-pensatore, del tipo di Masaryk, Rosa Luxemburg, Lenin, Gramsci, è subentrato il politico-pragmatico che tende a ridurre tutto al suo livello, nella sfera della tecnica, dell’utilitarismo e dell’effetto immediato. Costui pensa la realtà attraverso gli schemi della manipolazione e del dominio, considera reale solo ciò che si può dominare e manipolare vantaggiosamente, mentre tutto il resto gli si disgrega come nullità e irrealtà. Il politico-pragmatico può risolvere alcuni problemi sociali e crisi di un certo genere, ma rimane impotente nei riguardi di una realtà che travalica il suo orizzonte. Può cercare di dominare una crisi economica o costituzionale, ma è incapace di far fronte a una crisi morale. E la crisi morale concerne l’esistenza stessa della nazione e l’essere dell’uomo”. L’incompetenza dei quadri dirigenti ai vari livelli nei Paesi socialisti derivava spesso non dalla scarsa preparazione o dalla mancanza di intelligenza e di capacità degli individui, ma da una situazione organizzativa che li metteva nell’impossibilità di sviluppare le proprie doti, che stroncava l’iniziativa, che generava un contrasto permanente tra il muoversi secondo le regole del gioco imposte o secondo criteri razionali e socialmente utili. Chi tra i dirigenti si proclamava comunista non era per nulla tale. Pochi di loro hanno dimostrato di conoscere la teoria di Marx, i più l’hanno interpretata come si interpreta una fede, altri hanno considerato conveniente farla propria, intravedendo l’occasione di realizzare non l’aspirazione di costruire una nuova umanità, ma di avverare le proprie ambizioni. Pochissimi hanno saputo praticarla coerentemente. Nella generalità si sono rivelati degli opportunisti e degli arrivisti. A dire di Andrei Graciov, ex portavoce di Gorbacev, gli stessi ultimi capi del Pcus (Breznev, Andropov e Cernienko) sarebbero stati degli uomini “meschini, gelosi e corrotti”. La dipendenza della pianificazione da un simile sistema politico ha dato luogo a gerarchie prive di legittimazione democratica e inevitabilmente a un regime burocratico strapotente e poliziesco. Eppure, per un lungo periodo il socialismo è stato presentato nella letteratura marxista ufficiale come un sistema privo di conflitti. L’immagine costruita artatamente è stata quella di una società tutta operosa, consensuale e regolata, in cui la contraddizione risultava essere una ferita da sanare con la repressione. L’esistenza di conflitti è stata dichiarata solo nel momento in cui non era più possibile ignorarli e quando si è ammesso la verità, gli scontri di idee e di interessi sono stati presentati come categorie di antagonismo di classe, quelle stesse che il marxismo ha elaborato per il capitalismo. In realtà i movimenti politici autonomi venivano soppressi e pure i dibattiti e i confronti pubblici erano vietati. Non esisteva alcun meccanismo attraverso cui convinzioni e valori diversi da quelli propinati dal regime potessero confrontarsi e guadagnare consenso nella società. A dominare erano il servilismo e il conformismo che per una comunità costituiscono fattori che guastano la civile convivenza. Dopo aver descritto la società del socialismo reale, Kosik s’interrogava: “Ci siamo ormai degradati al livello di masse anonime, per le quali la coscienza, la dignità umana, il senso della verità e della giustizia, l’onore, il decoro, il coraggio sono una zavorra non necessaria, ingombrante nella caccia al benessere reale o presunto, oppure siamo capaci di riprenderci e di risolvere i problemi economici, politici, ecc., in accordo con i diritti individuali e nazionali?”. Un altro dissidente, Rudolf Bahro, ebbe a sostenere che “la società socialista comprime e blocca la crescita, lo sviluppo e l’affermazione di una quantità innumerevole di persone a uno stadio iniziale. I bisogni corrispondenti sono appagati con soddisfazioni sostitutive”. In effetti, l’homo sovieticus partorito dal sistema era abituato alla dipendenza, alla passività, all’irresponsabilità e all’indolenza, ed era dominato dal timore dei rischi e delle incognite della libertà. Si era assuefatto a tal punto da difendere il suo stesso status quo. Non va dimenticato che in Urss il cittadino medio si trovava a suo agio nel sistema perché aveva garantito un certo tenore di vita, seppure minimo, una certa sicurezza sociale. L’epoca di Breznev è stata per la maggior parte dei cittadini sovietici l’epoca migliore da loro conosciuta. 393
L’economista Nikolai Petrakov, commentando il senso comune dei suoi connazionali, ha sostenuto che “la filosofia di questa gente è: voglio vivere come fossi negli Usa ma lavorare come in Urss”. Il socialismo reale ha dunque soffocato non solo la democrazia, la libertà, lo spirito critico, l’uguaglianza, ma la stessa dignità umana e ha tolto alle persone l’abitudine a pensare con la propria testa. Ha mortificato le intelligenze degli individui e li ha espropriati persino della libertà di pensiero e di espressione. Il carattere autoritario di quel regime ha in sostanza determinato una serie di contraddizioni che erano oggettivamente ingestibili nel lungo periodo e che non potevano non esplodere. Oltre alla contraddizione riguardante lo Stato, la democrazia e le libertà individuali, è da ricordare che mentre Marx ha dato al socialismo il carattere di scienza, i fautori del marxismo-leninismo si sono dimostrati incapaci di decifrare la loro stessa realtà sociale. Sono apparsi inebetiti e impotenti di fronte ai guasti determinati dalle loro stesse scelte. Basti ricordare che a fronte delle ripetute promesse di benessere sociale, nell’ultimo ventennio d’esistenza del regime, l’aspettativa di vita del popolo sovietico si è abbassata, mentre la mortalità infantile è sensibilmente aumentata. E’ questo un dato che farebbe insorgere qualsiasi popolazione del mondo capitalistico mettendo in crisi qualsiasi governo. C’è infine un aspetto che è stato poco discusso dai commentatori politici e sul quale io ritengo giusto far luce perché lo considero assai eloquente a riguardo dell’ottusità della nomenclatura dei Paesi dell’Est. I governi del socialismo reale hanno combattuto le Chiese al pari dei più accesi anticlericali borghesi. Si sono illusi di eliminare la religione abbattendo i santuari e imprigionando (in taluni casi assassinando) i preti. Questo perchè hanno individuato nella religione un soggetto concorrenziale con lo Stato e le sue istituzioni culturali e perciò l’hanno considerata una potenziale forza avversa. L’Albania socialista si è addirittura prodigata a proclamare l’inesistenza di dio nella propria carta costituzionale. Poi, quando si è smesso di abbattere i santuari e di perseguitare i ministri di dio e i loro fedeli, le dirigenze del socialismo reale si sono preoccupate di tenere sotto stretto controllo le gerarchie ecclesiastiche, cercando magari di farsele alleate. Non si sono nemmeno lontanamente resi conto che il bisogno di religiosità è cosa assai ben più complessa dell’esistenza materiale di un simulacro o di un predicatore; che esso può essere sconfitto solo con una crescita culturale, di libertà, di autonomia e di protagonismo sociale. Il fatto stesso che in lunghi anni di terrore non siano riusciti a cancellare definitivamente la religiosità nell’animo della gente, non li ha per nulla stimolati a riflettere. Alla fine è successo che a dare un contributo determinante alla rinascita del bisogno di religione, in un ambiente votato all’ateismo, è stata proprio la crisi ideologica del marxismo-leninismo. Si tratta di una contraddizione che costituisce la più chiara testimonianza di quanto decadente fosse l’impianto culturale staliniano e post-staliniano. I condizionamenti sull’uomo da parte del socialismo reale sono dunque stati molteplici, tanto da suscitare l’interrogativo se una società del genere avrebbe potuto reggere ancora a lungo e da far ritenere il crollo di quel sistema una conclusione naturale e inevitabile. L’assenza di democrazia è quindi senza alcun dubbio una delle ragioni per cui il sistema ha degenerato ed è poi crollato, ma nonostante la sua importanza non è questa la causa decisiva. 11.5 – Fattore determinante: il mancato superamento dell’economia politica La causa fondamentale del crollo del socialismo reale, quella che è all’origine del processo involutivo e che ha determinato la sua irreversibilità consiste, a mio parere, nell’incapacità dei comunisti sovietici, a partire dallo stesso Lenin, di andare oltre l’economia politica, di mettere cioè in campo un modo di produzione diverso da quello capitalistico. Non va dimenticato che alla base di ogni ordine sociale ci sta la struttura economica e pure che proprio Lenin, all’indomani della rivoluzione d’ottobre, assunse il taylorismo come modello per conseguire la modernizzazione della società ereditata dallo zarismo.
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Nel prospettare la società comunista, Marx ha previsto il superamento dell’economia politica attraverso una fase di transizione nel corso della quale i diretti produttori avrebbero dovuto conseguire il controllo sociale delle risorse e insieme l’assegnazione e l’organizzazione del lavoro. Lenin aveva di certo ben presente questo aspetto dell’elaborazione marxiana, ma le condizioni in cui si è trovato a operare non gli hanno consentito di metterlo in pratica. Nell’evoluzione della teoria marxista si è manifestata anche l’opinione secondo cui la fine dell’economia politica come scienza sarebbe avvenuta nel momento stesso della scomparsa del sistema capitalistico. Diversi teorici del marxismo, tra cui Hilferding, Bucharin e la Luxemburg, hanno sostenuto la tesi che l’economia politica non può essere posta alla base di una società comunista, perché ritenuta una legge della produzione capitalistica. Il ruolo dell’economia nel socialismo, secondo loro, deve essere sostituito da una scienza concernente l’organizzazione razionale delle forze produttive. Ne “Il capitale” Marx ha affrontato anche il tema dell’esistenza di fattori alienanti in una società in cui si fosse affermato il socialismo di Stato e ha sostenuto che l’appropriazione del capitale da parte della comunità non può significare la fine dell’alienazione. Anche se la proprietà privata viene abolita e il principio di uguaglianza dei salari viene reso operante, senza che venga realizzata la socializzazione, cioè la gestione cosciente delle risorse e del lavoro da parte dei produttori, in quel sistema continua a sopravvivere sotto nuove forme il rapporto di alienazione. Per far sì che l’estraniazione sia definitivamente superata occorre che la rivoluzione socialista ponga fine al “dominio dei rapporti reificati a cui gli uomini sono assoggettati”, cioè al “dominio dell’economia sulla società”. Condizione per fare questo, è l’abolizione del lavoro salariato, è la fine dell’equazione lavoro uguale merce. Nell’esperienza bolscevica una simile operazione non è stata compiuta, anzi, non è stata neppure iniziata. Come ho documentato, all’indomani della rivoluzione in Russia e per un certo periodo, sono stati eliminati la proprietà privata, il mercato, il denaro, mentre il lavoro è rimasto uguale a prima. L’operaio sovietico anziché avere tanti padroni ne aveva solo uno, lo Stato, ma la sua condizione di salariato era identica a quella del lavoratore dei Paesi capitalistici. La vulgata comunista ha sostenuto che in Urss la situazione era radicalmente differente dalla realtà occidentale. Era convinzione diffusa tra i militanti della sinistra che nel Paese del socialismo non esistesse più alcuna concorrenza tra i lavoratori; ed essendo l’allocazione della forza lavoro decisa in sede politica, si riteneva che il mercato del lavoro fosse sparito del tutto. La retribuzione era considerata una forma salariale parziale, poiché i lavoratori potevano accedere a molti servizi collettivi che erano garantiti gratuitamente. Si indicava la riduzione della giornata lavorativa e la settimana corta come inconfutabili prove del compimento del processo di emancipazione. La condizione lavorativa e sociale dell’operaio socialista era indubbiamente più sopportabile di quella che il capitalismo riservava alla sua forza lavoro. Tolte però queste migliorie, lo stato di subordinazione era pressoché identico a quello imposto dal capitale. Permanevano le storiche divisioni, quelle tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra dirigenti ed esecutori, tra operai e contadini, tra città e campagna. Anche nei Paesi del socialismo reale era diffuso il lavoro alla catena di montaggio e questa forma di occupazione, tipica del modo di produzione capitalistico, non può certo conciliarsi con una visione marxiana del nuovo modo di produrre. Da uno studio svolto nel ’67 sulle condizioni di lavoro nei Paesi dell’Est europeo, emerge che “anche nelle società socialiste ‘avanzate’, nel sistema di lavoro sociale storicamente determinato, rimangono ancora – soprattutto nei confronti del posto occupato nella divisione del lavoro – essenziali differenze che agiscono come variabili indipendenti, come fattori che determinano gli strati sociali: per es., le differenze tra lavoratore manuale e non manuale, controllato e controllante; secondo la possibilità di controllare il proprio e l’altrui lavoro; all’interno del meccanismo economico vengono stabilite le proporzioni degli stipendi e dei salari. Permangono attività intellettuali di carattere creativo, attività che richiedono concentrazione, lavori che richiedono uno sforzo fisico, lavoratori manuali e non manuali. 395
Viene stabilita la distinzione tra lavoratori qualificati, semi qualificati e non qualificati. Oltre alle importanti differenze nel livello medio dei redditi, ci sono differenze essenziali nei rapporti di coscienza e ideologia, nel loro sistema di vita, nei loro giudizi di valore e anche nelle loro aspirazioni sociali. Tra i lavoratori non qualificati, noi troviamo uno sforzo incomparabilmente minore di partecipare alle istituzioni che servono alla democratizzazione della società di quanto non accada tra i lavoratori qualificati. Il progresso tecnologico, specie quello della amministrazione, causa l’incremento del numero di quei lavoratori non manuali che svolgono un lavoro monotono e abitudinario, senza la più piccola possibilità di controllo sul loro proprio lavoro”. Se si prende in considerazione poi il rapporto di genere, quello relativo alla differente condizione tra uomini e donne, si scopre che l’Urss ha ripercorso pari pari la strada del capitalismo. Di fronte a simili condizioni non si può dunque affermare che il lavoro salariato sia stato abolito e che la condizione lavorativa sia stata liberata dall’alienazione. Dal punto di vista dell’interesse collettivo è poi da rimarcare che l’abbattimento dei fattori usuranti sui luoghi di lavoro si è tradotto in un diffuso parassitismo che ha danneggiato il progresso sociale. Il lavoratore era in condizione di non essere incentivato a lavorare e guadagnare di più, anche in considerazione del fatto che sul mercato non trovava i beni desiderabili. Nella generalità dei settori produttivi l’assenteismo e l’inerzia avevano raggiunto livelli sconosciuti nelle economie capitalistiche. In alcuni settori la giornata lavorativa risultava ridotta a sole tre ore e mezza e le giornate di lavoro non superavano quota 150 nell’arco di un anno. Secondo i calcoli di uno studioso, il 40% dei lavoratori sovietici dei settori non produttivi e il 10% di quelli produttivi erano superflui. Le imprese venivano costrette ad assumere lavoratori di cui non avevano bisogno. L’Unione sovietica ha fatto registrare la più bassa permanenza di un operaio in un’impresa rispetto a tutti gli altri Stati del mondo e questo anche perché, essendo l’offerta di lavoro quasi illimitata, si coniugava con l’alta assenza di specializzazione e di promozione. Si è giunti al punto che, data la drammaticità del fenomeno assenteista e dell’inerzia lavorativa alcuni quadri dirigenti d’azienda si erano lamentati della piena occupazione, ritenendola demoralizzante e avevano proposto in alternativa il ricorso a licenziamenti in massa come rimedio alla non adempienza dei doveri da parte dei lavoratori. Le stesse associazioni cooperative presenti non solo nel settore agricolo (i colcos) ma anche nella distribuzione, nella piccola industria, nei servizi e nell’edilizia, erano venute meno alle loro finalità originarie. Il loro funzionamento e la loro stessa strutturazione erano di fatto stabiliti dallo Stato attraverso le rigide direttive della pianificazione. I soci non erano in condizioni di poter decidere nemmeno sugli aspetti dell’organizzazione interna, tanto meno di eleggere liberamente i funzionari che esercitavano su di loro l’autorità. Mentre nei Paesi occidentali le forze di sinistra si battevano per la partecipazione dei lavoratori ai profitti d’impresa e per la cogestione delle aziende, il socialismo reale negava ogni possibilità di intervento dal basso nelle strutture economico-produttive. Come ha documentato un dissidente russo, si sono verificati casi in cui gli stessi operai hanno declinato proposte di partecipazione alle imprese perché considerate fonte di “lacrime e sangue”. In sostanza, la proprietà sociale nei Paesi dell’Est è risultata essere una chimera. Persino l’esperienza dell’autogestione jugoslava, come già abbiamo visto, non è riuscita nel suo intento di socializzazione. Anche nella patria di Tito la relativa autonomia dei soviet e dei consigli è stata soffocata in campo politico dal monocratismo del partito comunista che era di fatto il vero regista. I mezzi di produzione, il reddito nazionale prodotto, e il “surplus socialista” non erano a diretta disposizione del soggetto che produceva la ricchezza, cioè del popolo lavoratore, ma erano gestiti da uno Stato
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che agiva in suo nome. Anziché unire la classe operaia, l’autogestione alla fine l’ha frantumata in collettivi concorrenti. Anche in Jugoslavia i comunisti si sono dimostrati incapaci di sperimentare un nuovo modo di produrre e consumare, di mettere in campo quella “nuova manifattura” che avrebbe dovuto dare origine a un nuovo modello economico-sociale prima ancora che politico. Nell’esperienza del socialismo reale è da registrare quindi un’incapacità dei suoi fautori di trovare una soluzione che rendesse compatibili tra loro struttura di potere e centro di pianificazione. In quel sistema sociale restava operante la legge del valore, nel senso che il valore di una merce continuava ad essere determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario alla sua produzione, e permanevano elementi di mercato: moneta, prezzi, salari, investimenti, capitali che condizionavano i rapporti di produzione. A risultare mutato era solo il sistema di proprietà. Il principio strutturale di funzionamento dell’economia consisteva in due coppie di variabili interconnesse: la piena occupazione si coniugava con la bassa produttività, le garanzie sociali con i bassi consumi. Perciò il sistema determinava inevitabilmente un deficit di efficienza e di competitività nei riguardi del mondo capitalista. Al posto della socializzazione si è imposta una burocrazia tecnica dotata di un forte potere di direzione dell’economia e, come tutte le burocrazie, si è separata dal resto della società. Il modello sovietico ha, in effetti, rappresentato un programma per trasformare i paesi arretrati in paesi avanzati, una specie di scorciatoia per la modernizzazione, ma non una forma di socialismo in grado di transitare la società verso il comunismo. Non c’è alcun dubbio che il coniugare la pianificazione con la democrazia non è cosa da poco, ma questa resta la condizione irrinunciabile se si vuol realizzare il socialismo la cui base è rappresentata da un complesso sviluppo dei fattori economici e sociali e non solo dalla semplice eliminazione del capitale privato. La socializzazione è un processo la cui essenza consiste in un passaggio più o meno graduale da forme indirette a forme dirette di proprietà sociale. L’economia di piano oltrepassa certamente l’accumulazione capitalistica limitando e formalizzando la legge del valore, ma non la elimina. La collettivizzazione delle forze produttive deve necessariamente essere accompagnata dalla socializzazione dei rapporti di produzione i quali, vantando un primato su di esse, non possono essere tenuti separati. Democratizzazione dell’economia e democratizzazione della politica devono marciare necessariamente di pari passo. Così come Marx ebbe a giustificare a suo tempo la sconfitta della Comune di Parigi, anche l’esperienza sovietica non è riuscita a superare l’organizzazione statale mediante la creazione di rapporti sociali di produzione radicalmente nuovi, tali da implicare l’abolizione di tutte le forme gerarchiche tradizionali di potere. E sì che il successo dell’impresa sovietica era stato considerato certo e garantito da molti! Per diversi motivi si riteneva che le difficoltà che il capitale incontra nel suo sviluppo non si sarebbero verificate nella costruzione del socialismo. A dire di alcuni economisti, il socialismo, nella sua forma sviluppata, avrebbe superato le contraddizioni del capitalismo, avrebbe creato premesse economico-sociali più avanzate. Tra le ragioni addotte a favore del socialismo vi era la certezza che esso avrebbe sfruttato le possibilità offerte dall’accresciuto potenziale produttivo e il mantenimento di una giusta proporzione tra la creazione dei mezzi di produzione e la produzione dei beni di consumo. Ernest Mandel ha teorizzato che nell’uso delle risorse la pianificazione avrebbe costituito un’innovazione tale da dar luogo al regno dell’abbondanza. Diversamente che nel sistema capitalistico, gli interessi settoriali avrebbero potuto essere riportati a un quadro di riferimento e a un piano di bisogni e interessi collettivi in modo tale che lo sviluppo economico-sociale sarebbe stato reso più spedito e più armonico. Uno dei semplicismi utopistici era, infatti, la convinzione che governare uno Stato socialista con metodi democratici fosse estremamente facile. Memorabile il discorso di Lenin riguardante la possibilità che la città di Mosca fosse governata da una cuoca. In effetti, nel socialismo il “capitale fittizio” non esisteva, nemmeno esistevano diritti sul capitale, per cui il calcolo economico era reale, avvenendo sulla base di quantità fisiche, a costi e rendimenti 397
che, anche se espressi in termini monetari, esprimevano quantità certe e costanti. In tutti i Paesi socialisti le tasse prelevate dai singoli cittadini erano di scarsa entità e di secondaria importanza per lo Stato. Le sue entrate derivavano principalmente dalle imprese pubbliche ed erano direttamente collegate al processo complessivo di pianificazione e di fissazione dei prezzi dei prodotti. Le due principali voci del bilancio statale socialista erano le imposte sui surplus delle imprese, che rappresentavano un fattore di notevole importanza, e quella che in genere, in modo non appropriato, si dice “tassa di turnover”, la quale corrispondeva alla differenza tra i prezzi all’ingrosso e i prezzi al dettaglio dei beni di consumo, detratto un certo margine commerciale. E questo stato di cose avrebbe dovuto rendere meno complesso sia il reperimento che l’impiego delle risorse. Si è peraltro stimato che la Russia possedesse il 50% delle risorse del pianeta e anche questa ricchezza avrebbe dovuto agevolare il progresso di quel mondo. Ricordare tutto questo, ovviamente, non significa trascurare il fatto che anche nel socialismo le contraddizioni nei rapporti tra produzione e consumo esistono e che l’originaria arretratezza della Russia e l’isolamento conseguente alla rivoluzione bolscevica hanno reso più complesse le cose. Ciò che mi preme evidenziare è che se in teoria, rispetto a una società capitalistica, nel socialismo è possibile realizzare un massimo di concentrazione delle forze produttive e conseguire uno sviluppo più rapido e più equo, nella pratica questa regola non ha funzionato. E pure che, nonostante il potere politico agisse in condizioni più favorevoli a una transizione rispetto alle forze di sinistra che operano in Occidente, questo vantaggio non ha pagato. La fine del socialismo reale non è avvenuta per cause esterne, bensì per una serie di spinte centrifughe e di implosioni interne. Paradossalmente, a distruggere l’Urss non è stato lo scontro armato, ma proprio la distensione. Appena la cortina di ferro si è infranta, il processo di globalizzazione ha travolto e disintegrato il sistema. Questa esperienza ha dimostrato l’incapacità dei suoi fautori di far fronte alla sfida del capitale. Era forse possibile ai dirigenti dell’Urss di andare oltre lo schema di produzione capitalistica? Era loro possibile prescindere o bypassare il taylorismo e il fordismo? Ecco un quesito al quale si rivela importante dare una risposta precisa e non approssimativa! Dato certo è che Lenin ha posto attenzione agli aspetti politici, mentre ha sottovalutato la complessità della trasformazione economica del Paese. Con l’applicazione del taylorismo ha consentito alla Russia di uscire dallo stato di miseria in cui si trovava e di accelerare il suo sviluppo, ma al tempo stesso ha decretato l’immaturità della rivoluzione russa. Nel 1859 Marx ebbe a spiegarci che le rivoluzioni sociali avvengono “in una certa fase dello sviluppo delle forze produttive materiali”, esattamente quando queste “entrano in contraddizione con le relazioni produttive esistenti”, le quali si trasformano nelle loro catene. Un secolo e mezzo dopo dobbiamo prendere atto che questo precetto non vale solo per la società del capitale, ma per lo stesso socialismo. Rispondendo alla polemica di un giornalista, Vadim Zagladin che fu capo del dipartimento estero del Pcus, ebbe a sostenere che “non si può dire che il socialismo sia crollato, perché in effetti non era ancora stato edificato”. E’ questa una risposta da ipocriti e il suo è un atteggiamento indegno di chi si proclama comunista. Dinnanzi a quel fallimento non ci può essere nessuna scusante. I comunisti, proprio perché fondano i loro principi sul materialismo storico dialettico, devono essere giudicati non per i loro intendimenti, ma per la loro azione concreta. E’ stato lo stesso Marx a ricordarci nella sua seconda “Tesi su Feuerbach” che il banco di prova di ogni teoria sta nella prassi. 11.6 – Riflessioni sul fallimento Di fronte al crollo del socialismo reale la sinistra non aveva altra scelta se non quella di valutare criticamente un’esperienza che, vittima di insanabili contraddizioni, è finita per autoconsunzione. Coloro che continuavano a credere nella possibilità di ritessere la tela del cambiamento sono stati messi nella condizione di prendere atto di due scomode verità. La prima è che ad essere vincente, 398
almeno per ora, anziché il socialismo è stato il capitalismo; la seconda è che dall’esperienza compiuta dai bolscevichi, e da chi poi li ha imitati, non ha sortito un modello di società del benessere in cui a imperare fossero libertà, giustizia e uguaglianza, ma a risultare dominanti sono state la soggezione, l’iniquità e la discriminazione. Contrariamente a quel che pensano in molti, il XX non è stato il secolo del consenso socialdemocratico, ma il secolo della sfida lanciata dal comunismo alle democrazie borghesi. E una tale sfida è stata persa. Il Novecento si era aperto con la promessa del socialismo, ma nei Paesi capitalistici avanzati dell’Occidente il movimento operaio è risultato sconfitto già nei primi anni venti. E anche più avanti nel tempo, allorquando i comunisti hanno partecipato ai governi borghesi dei loro rispettivi Paesi. Queste loro esperienze sono risultate essere di breve durata, delle semplici parentesi vissute dalla borghesia come “stati di necessità”. Ad assumere un ruolo di baluardo è stata l’Unione sovietica la quale, pur in condizioni di totale isolamento, è riuscita a sopravvivere al nazifascismo e alla guerra. Solo dopo il secondo conflitto mondiale, l’area del socialismo si è allargata fino a investire quasi un terzo del pianeta, ma dopo questo successo ha accusato un ripiegamento su se stessa fino all’esaurimento. Un’età dell’oro del comunismo dunque non c’è mai stata. Soprattutto, non si è mai realizzato un sistema di socialismo in cui democrazia, giustizia sociale e uguaglianza fossero le caratteristiche distintive. Il socialismo appare oggi come la divinità sconfitta del nostro tempo. Con il crollo dei Paesi dell’Est sono andate in crisi tutte e tre le “vie” al socialismo che si erano aperte nella storia di questo secolo, nonostante ciascuna si presentasse come alternativa rispetto alle altre: quella socialdemocratica del riformismo classico; quella realizzata all’Est (dalla Russia alla Cina), con tutte le sue versioni di socialismo realizzato; e infine l’ipotetica “terza via” dell’eurocomunismo occidentale. Quale controcampo del capitalismo, il socialismo era chiamato a rendere concreta la transizione. Questo imperativo si è invece rivelato illusorio, anzi, ha creato mostruosità e fantasmi. Giunti al potere, i rivoluzionari si sono rivelati dei conservatori. Il comunismo marxista-leninista ha fatto la fine della Chiesa di Cristo, quando si è fatto Stato ha avuto paura di ogni innovazione. La dittatura del proletariato si è tradotta in dittatura sul proletariato. A conquistare l’egemonia sulla società sono state le “avanguardie”, e l’hanno fatto in posizione antagonistica alla stessa classe operaia. Il regime cui hanno dato vita non ha esaltato le risorse a disposizione, ma le ha deteriorate e compromesse. Uno degli aspetti su cui si è poco indagato e riflettuto è quello relativo ai danni ambientali provocati dalla gestione “socialista” dell’ambiente: i fiumi più avvelenati del mondo si trovano proprio nei territori dell’ex Urss. Le intelligenze, anziché essere stimolate, sono state bloccate e svuotate. Basterebbe fare un censimento degli episodi di criminalità e d’immoralità di cui si sono resi protagonisti in questi anni molti cittadini dei Paesi ex “socialisti” dell’Est per avere la testimonianza di quanto dubbia sia stata la qualità dell’educazione civica impartita in quei regimi. Il panorama lasciato dietro di sé dal socialismo realizzato è per molti aspetti uno scenario di desolazione sociale, di corruzione politica e morale, di apatia, di scoramento. La brama di denaro che ha pervaso quelle società dopo che si è disgregata la blindatura coattiva che le teneva in piedi è sconcertante e di per sé eloquente. La rivoluzione socialista aveva il compito di imporre cambiamenti non solo alle cose, ma anzitutto alle abitudini e alle menti dell’uomo, ma questo impegno non è stato mantenuto dai suoi fautori. In quei Paesi è stata costruita una realtà che di comunista non aveva proprio nulla. Ora siamo in presenza di una vera e propria crisi planetaria del progetto anticapitalistico. Prendere atto di questo insuccesso non vuol significare di certo considerare del tutto negativa l’esperienza del socialismo reale. Essa ha comportato dei benefici indubbi per le classi subalterne di tutto il mondo ed è senz’altro servita a smorzare e contenere gli spiriti animaleschi del capitalismo. Non è però riuscita a mantenere la promessa che aveva fatto, quella cioè di costruire di un nuovo mondo. Per questa ragione occorre trarre da essa un insegnamento poiché, se non ci indica il percorso da percorrere, ci aiuta sicuramente a fare chiarezza sugli errori che non devono essere ripetuti. Almeno su alcuni aspetti credo ci offra abbondante materia di riflessione. 399
Primo. Il fallimento delle società dell’Est europeo ripropone a noi l’antico dilemma se il socialismo possa essere costruito anche in realtà sociali arretrate o se invece sia realizzabile solo nei Paesi che hanno conosciuto uno sviluppo avanzato dell’economia capitalistica. Si riaffaccia alla storia il quesito che contrappose Kautsky a Lenin, i menscevichi ai bolscevichi. Ora è la storia a darci un contributo nel risolverlo. Ciò che è accaduto ci suggerisce che nel trasformare la società non può mancare una forte carica di progettualità, e quindi di soggettività, ma che questa non può assolutamente prescindere dalle leggi cui sono sottoposti gli stessi processi materiali se non si vuole andare incontro all’insuccesso. L’unico risultato conseguito nelle realtà economicamente e socialmente arretrate è stato quello di aver accelerato il loro decollo economico, di aver rappresentato una via alternativa alla modernizzazione. Quando però si è trattato di passare dallo sviluppo estensivo a quello intensivo il sistema è entrato ovunque in crisi. Fatto salvo il modello cinese che rappresenta un ibrido e la cui traduzione in una società autenticamente socialista, come ho già detto, è assai improbabile. L’insegnamento che ci deriva dall’esperienza storica è che occorre ritessere la tela della rivoluzione nel cuore stesso del capitalismo. Secondo. Da Marx e da Engels il comunismo è stato concepito come processo planetario (“lavoratori di tutto il mondo unitevi!”), non certo improvviso e uniforme, ma come mutamento progressivo e interdipendente. Non solo il socialismo reale è stato condizionato dall’isolamento, ma ha rinunciato sin quasi da subito al principio internazionalista. L’appoggio economico e militare assicurato dall’Urss e dalla Cina ai movimenti rivoluzionari di liberazione dall’imperialismo e lo stesso sostegno alla lotta di classe dei lavoratori dell’Occidente, si sono tradotti in un condizionamento politico che ha leso il protagonismo di queste forze, la loro autonomia, le loro tradizioni e culture. Mentre il capitalismo ha completato la mondializzazione dei mercati e delle economie, il socialismo reale è risultato paralizzato in difesa dei propri interessi nazionalistici. Lo Stato operaio, in assenza di un progetto planetario e di una politica di solidarietà internazionale, resta esposto non solo alle minacce esterne, ma anche a quelle che sorgono al suo stesso interno, alle tentazioni restauratrici dei suoi avversari, rischiando così la distruzione. Terzo. L’idea che si possano costruire le basi materiali del socialismo (l’appropriazione dell’apparato statale, la eliminazione della proprietà privata, la collettivizzazione dei mezzi di produzione) rinviando al dopo la costruzione dei nuovi rapporti sociali (le relazioni tra gli individui, la cultura, il protagonismo), si è nella pratica rivelata funesta. La tesi elaborata e praticata da Lenin delle “due fasi”, in opposto alle teorie di Marx e di Gramsci, è da considerarsi all’origine del crollo dell’Urss. I germi di quel che è accaduto era, infatti, già in nuce nella stessa rivoluzione d’ottobre. Rinviare ad altra epoca, alla conclusione del processo di costruzione del comunismo, la ricomposizione del lavoro e del sapere e anche l’eliminazione della delega, significa inficiare il progetto stesso di cambiamento, non eliminare le condizioni di alienazione che sono insite nel processo produttivo ereditato dal sistema capitalistico; significa lasciar sopravvivere le sue potenzialità reificatrici e consentire che l’economia continui a dominare sulla società. Quarto. La statalizzazione non è socializzazione. Il socialismo deve trasformare gli organi della pianificazione da statali in sociali. E’ la società e non lo Stato ad avere il compito di regolare sia l’economia che i rapporti tra gli uomini. Nell’”Antiduhring” Engels scrive che “né la trasformazione in società anonime, né la proprietà statale sopprime il carattere di capitale delle forze produttive”. Non è possibile realizzare un ordinamento economico fondato sul protagonismo sociale senza mettere in campo un sistema di autogestione della produzione e della riproduzione, senza un sistema di consigli sui luoghi di lavoro e di organismi di democrazia diretta diffusi sul territorio. Senza questi requisiti, a dominare sono la tecnocrazia e la burocrazia. Quei dirigenti della sinistra che pensano di poter realizzare il socialismo dando l’assalto alla “stanza dei bottoni”, dimostrano di non conoscere né quanto hanno prescritto i padri del marxismo né la storia del movimento operaio.
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Quinto. L’azione di cambiamento non può limitarsi alla sola sfera sovrastrutturale (la politica, le istituzioni, il diritto), ma deve investire la struttura economica, anzi deve avere inizio da essa e realizzare contemporaneamente un nuovo modo di produzione e nuovi rapporti sociali. L’evoluzione della struttura e quella della sovrastruttura sono processi che devono marciare di pari passo e risultare interconnessi. I quesiti “perché e per chi lavorare?”, “quale deve essere il modello di Stato nella fase di transizione?”, “quale rapporto tra collettività e individui?” devono necessariamente trovare risposte sincrone e organiche. Come si ricorderà, Lenin ha costruito il socialismo di Stato sull’industrialismo americano ed europeo e proprio per questa ragione ai bolscevichi è risultato impossibile conciliare la sovrastruttura ispirata ai principi socialisti con un modo di produrre e di consumare che restava ancorato ai meccanismi che regolano il funzionamento del capitale. Nelle condizioni storiche dell’economia pianificata il socialismo è risultato essere nella sostanza una società del lavoro, ovvero una società in cui il lavoro si è emancipato dal capitale ma non da sé stesso. Il comunismo non può essere una comunità del lavoro, è invece il processo storico di liberazione del lavoro da se stesso. Per potersi dunque considerare socialista il cambiamento, già nella fase di transizione, deve avvenire contemporaneamente a tutti i livelli, deve riguardare appunto sia l’economia che la vita civile, e in modo coordinato. Sesto. La transizione dalla società capitalistica a quella socialista non deve essere opera di un’avanguardia politica, com’è avvenuto sino ad ora, ma deve contare sulla mobilitazione cosciente della massa degli individui. La delega deve essere resa revocabile e sostituibile gradualmente dalla diffusione in ogni ambito sociale dagli istituti di democrazia diretta. Se nell’Ottocento-Novecento il soggetto storico capace di egemonia risultava essere la classe operaia, nella nostra epoca, a seguito dei profondi mutamenti che il capitalismo ha indotto in tutti i campi, potenziali protagonisti della transizione al socialismo sono la molteplicità di quei soggetti sociali che vengono alienati dal modo di produrre e di consumare. Non è ragionevole credere che una rivoluzione passiva dall’alto, per dirla con Gramsci, possa portare alla liberazione soggetti che sono stati abituati a un diffuso seppur distorto protagonismo e alla esaltazione della propria dimensione individuale. In una simile situazione la rivoluzione politica non basta, diventa necessaria la rivoluzione sociale e culturale. Settimo. Per mettere in moto questo processo e assicurare il suo successo occorre abituare gli individui a una condizione di innovazione continua e dotarli di un forte spirito critico. Una delle condizioni del progresso sociale consiste, infatti, nello sconfiggere un atteggiamento di assuefazione allo stato di cose esistente e nel promuovere l’autonomia e la creatività di ogni individuo. Il socialismo reale è risultato perdente nei confronti del capitalismo anche perché non ha saputo valorizzare l’autonomia dei singoli ai fini del benessere collettivo. Non ha saputo essere alternativo a quel modo di vivere occidentale che ha astutamente esaltato gli aspetti dell’individuo più congeniali alla natura speculativa del capitale. Il carattere dogmatico del marxismo trova origine proprio nel deficit di spirito critico e di autonomia dei suoi stessi sostenitori. Fare i conti con questi aspetti non è solo importante, ma è decisivo. Non è da sottovalutare che il movimento operaio occidentale, inteso in tutte le sue componenti socialdemocratiche, socialiste e comuniste, non ha saputo andare oltre il suffragio universale e la redistribuzione del reddito. Indubbiamente la sua azione ha allargato gli spazi democratici e ha umanizzato i rapporti di lavoro, però non ha scalfito il potere che il capitale esercita sulla società. Se il movimento comunista non ha ancora risolto il problema della rivoluzione in Occidente, ciò è imputabile proprio al fatto che di fronte a questi nodi esso ha assunto un atteggiamento di sufficienza. E’ da considerare che l’”effetto ‘89” rischia di essere devastante, poiché produce un disarmo unilaterale della sinistra di tutto il mondo. Lo slogan “non più ideologia, ma pragmatismo” nasconde il convincimento che il patrimonio storico del movimento operaio non serva più. Vaste aree della sinistra sono state sospinte verso il centro e persino verso la destra dello schieramento politico. A farsi largo non sono solo il moderatismo in politica e il liberismo in economia, ma la 401
disintegrazione dei partiti, soprattutto di quelli che s’ispirano alle classi subalterne, e l’apatia di massa. La sinistra deve reagire energicamente a questa deriva e deve mostrare il coraggio rivedendo criticamente la sua storia, compiendo scelte innovative a partire da una revisione della sua teoria. Che nel fare questo ci sia un’urgenza è fuor di dubbio. La confusione sotto il cielo resta ancora grande se sui fogli delle organizzazioni che si propongono di rifondare il comunismo, un decennio dopo la catastrofe dei Paesi dell’Est, ci si consola scrivendo: “Ma la storia non si ripete mai tal quale. Non va dimenticato che un esperimento comunista dagli sviluppi imprevedibili è vivo nel più grande e popolato paese del mondo, la Cina. E che Cuba e il Vietnam non hanno piegato la testa” (Luciano Canfora – “l’Ernesto” maggio 2001). E ancora, “Di grande interesse appare il nuovo sviluppo cinese… che sembra tesaurizzare al meglio le stesse, grandi, lezioni provenienti dal ‘socialismo realizzato’, dai suoi sviluppi e dal suo crollo” (Fosco Giannini - 2001). Se la sinistra è intenzionata a sopravvivere deve necessariamente compiere una svolta culturale prima ancora che politica. E deve farlo con lucidità e tenacia, avendo a mente che, come notava Rosa Luxemburg, “la rivoluzione socialista presuppone una lunga ed accanita battaglia, nel corso della quale molto probabilmente il proletariato verrà ricacciato indietro più di una volta, cosicché la prima volta, dal punto di vista del risultato finale della lotta, esso sarà necessariamente giunto al potere ‘troppo presto’. In secondo luogo, questa ‘prematura’ conquista del potere statale è inevitabile... è un fattore importante che crea le condizioni politiche della vittoria finale”.
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Capitolo 12°
E’ davvero morta la teoria marxiana? 12.1 – Il comunismo di Marx è dato per defunto sin da quando è nato Per molti politici e osservatori l’“’89” avrebbe decretato non solo la fine del socialismo reale, ma anche la sconfitta dei comunisti dell’Occidente. Non avendo questi fatto la rivoluzione nei loro paesi e avendo riposto le loro speranze nel modello sovietico, ora che quel sistema è crollato, per loro sarebbe svanita ogni speranza di cambiamento. Pertanto, il marxismo sarebbe da considerarsi un passato da dimenticare. A recitare il de profundis, dopo l’abbattimento del muro di Berlino, sono stati soprattutto gli esponenti del mondo della conservazione e della moderazione, ma anche tra i progressisti e i politici della sinistra non sono mancati i necrofori. In “Declino e caduta del comunismo”, il politologo americano Zbigniew Brzezinski si è detto convinto che per alcuni decenni di comunismo non se ne parlerà più. Per il filosofo Emanuele Severino “il comunismo era morto prima del crollo di Berlino e la sua vita era apparente”. A dire dell’editorialista Ernesto Galli della Loggia, “la fine dell’esperienza sovietica ha voluto dire il tramonto definitivo delle ideologie di tipo social-collettivista”. Secondo lo storico Giuseppe Galasso il naufragio dottrinario del marxismo è stato più completo di quello politico. Vittorio Strada ha definito i comunisti “una setta ‘laica’ che, comunque la si valuti, ha ormai chiuso il suo ciclo”. Il democratico Eugenio Scalari, fornendo una testimonianza di grande umanità e tolleranza, ha scritto: “I postcomunisti? Devono morire. E così i loro figli, i loro nipoti. Forse dopo finirà la richiesta di autocritica”. Il cattedratico Giuseppe Are ha sostenuto che al punto in cui si è giunti, “l’interpretazione marxista ortodossa dell’origine del capitalismo non è più sostenuta da nessuna scuola storiografica a un livello scientifico accettabile e degno di controversia”. Sulle colonne de “Il Popolo”, Marcello Gilmozzi ha espresso la convinzione che “il fallimento del comunismo è scritto ormai nella storia dei popoli che l’hanno conosciuto, anche se non tutti sembrano aver preso chiara coscienza del carattere irreversibile di quanto è avvenuto”. Dal canto suo, “La Stampa” ha scritto: “Povero Marx! La rivoluzione a Est ha lacerato il suo carisma, più nessuno gli rende omaggio… La fede in Das Kapital è divenuta la fede in The Wealth of Nations. Marx dormirà sempre più solingo, nel silenzio, nell’oblio”. Persino il Censis ha decretato che i “fondamentalismi anti-utilitaristici” (comunismo e socialismo) non funzionano più”. Ralf Dahrendorf ha sostenuto che “la storia ha ricominciato a correre… Il comunismo è chiaramente fallito… Noi vediamo la fine di quel particolare sogno, quello del marxismo… la fine della credenza che la classe operaia sia il ‘soggetto della storia’ e la forza principale del futuro”. Il filosofo, ex marxista, Leszek Kolakowski si è detto convinto che “di marxisti ce n’è ancora qualcuno, ma è una razza che si estingue. I superstiti restano pateticamente avvinghiati a un insieme di dogmi elementari, veri e propri fossili di un pensiero che non esiste più”. Su l’“Avanti!” è apparso un articolo in cui veniva detto che “il vento del 1989 ha spazzato via quel che restava del marxismo e dei vari marxismi, non solo nella grande politica, ma anche nella cittadella della filosofia. Il marxismo è finito”. Il socialista Giancarlo Lehner ha affermato con compiacimento che “dopo il 1989 non è più possibile riproporre alcuna ‘attualità’ di pensatori leninisti, per quanto originali e rigorosi essi siano stati. Tale la sorte anche dei Quaderni del carcere”. Lo storico Massimo L. Salvatori ha definendo la fine del Pci “l’autodissoluzione del più forte partito comunista del mondo occidentale”, ha sostenuto che essa costituisce la presa d’atto dell’esaurimento del secolo del comunismo sanzionando “la fine ideologica e politica del comunismo occidentale”. Michele Salvati e Alberto Martinelli, bontà loro, hanno definito la fine del socialismo reale “una tragica rovina: la rovina della più grandiosa manifestazione di ‘urbs’ prometeica e costruttivistica mai realizzata nella storia umana, il comunismo”. Hanno però voluto precisare che “questa rovina travolge anche il marxismo come costruzione culturale”. 403
Alcuni commentatori si sono spinti a sostenere che non soltanto la sinistra comunista o socialista, ma la sinistra tout court sarebbe stata sepolta dalle rovine dell’impero sovietico. Tutti coloro che hanno gioito per il fallimento del socialismo, mostrando così un forte risentimento ideologico e un attaccamento morboso ai propri privilegi, hanno completamente dimenticato ciò che esso ha significato nella storia dell’emancipazione della specie umana e l’importanza delle conquiste sociali che esso ha conseguito e fatto conseguire. Si tratta di una rimozione non casuale che evidenzia in tutti questi soggetti la presenza di memoria corta insieme a una buona dose di partigianeria. Accusare il colpo e riconoscere gli errori che la sinistra ha commesso, insieme alle sue inconfessate complicità, appare un dovere di ogni autentico comunista. Occorre giudicare l’accaduto con il massimo di rigore e obiettività, con onestà intellettuale, qualità queste che non si possono certo pretendere dagli avversari del socialismo. E in questo spirito, per essere realisti, torna utile avere consapevolezza di alcune massime. Anzitutto, è bene ricordare che la celebrazione della morte e della sepoltura del marxismo non è per nulla una novità. Essa è una pratica antica, ricorrente nella storia di quest’ultimo secolo e mezzo. A dire dei suoi detrattori, il marxismo era già defunto con la dipartita di Marx nel 1883 e con quella di Engels nel 1895. L’economista austriaco Eugen von Bohm-Bawerk, nel 1896, annunciava al mondo il “crollo del sistema di Marx”. Benedetto Croce ne ha decretato la morte a fine ottocento: “il marxismo teorico si esaurì intorno al 1900, in Italia e nel mondo tutto”, ebbe a scrivere nel suo saggio intitolato appunto “Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia tra 1895 e il 1900”. Nel 1917 si è persino scomodata la vergine Maria, madre di Gesù Cristo. Si è detto che, apparendo ai tre pastorelli portoghesi, essa abbia annunciato che il comunismo sarebbe stato presto debellato. Al IV congresso del Pci che si è tenuto a Colonia nel 1931, Ruggero Grieco ha affermato nella sua relazione: “E’ da dieci anni che sentiamo ripetere che il comunismo è morto e seppellito”. Ora, date le favorevoli circostanze, a scrivere quell’epitaffio ci riprovano in molti, dimenticando le fallaci profezie dei loro predecessori. Si tratta anzitutto di chi il marxismo l’ha temuto da sempre perché considerato una minaccia all’ordine costituito. In realtà, il pensiero e le aspirazioni di Marx e di Engels sono sopravvissuti sia al morso della critica che all’usura del tempo, e oggi, anche se in maniera più selezionata che nel passato, i loro eredi continuano ad alimentarsi delle loro teorie. E’ da tenere presente che il comunismo ha sempre avuto molti avversari. Marx è stato odiato e messo all’indice proprio per essersi schierato dalla parte delle classi subalterne e per aver indicato loro la strada del riscatto. Questa sua scelta era e resta in viso a tutti i benestanti della Terra. Egli non amava la violenza, ma aveva ben chiaro che per sconfiggere il sistema dello sfruttamento si sarebbe dovuto ricorrere necessariamente anche alla forza e anche per questo è diventato il nemico numero uno dei difensori dello status quo. Già a meta Ottocento il sociologo ungherese Max Nordau ha scritto nelle “Menzogne convenzionali” che “il comunismo, come lo intendono e predicano tutte le scuole socialistiche, è l’insulso aborto d’una fantasia che, sprezzando la realtà delle cose e della natura umana, si pasce di sogni”. L’economista inglese Alfred Marshall ha liquidato Marx come pensatore tendenzioso che ha distorto Ricardo. L’austriaco Ludwig von Mises ha asserito che “il marxismo è contro la logica, contro la scienza e contro l’attività stessa del pensiero”. J. Maynard Keynes ha definito Marx il massimo esponente dell’oscuro sottobosco degli eretici. E solo per elencare avversari e insulti si dovrebbero impiegare un’infinità di volumi. Basti ricordare che sono state scritte centinaia di opere per dimostrare che il marxismo non può e non deve essere applicato alla civiltà occidentale. E questo testimonia quanta paura abbia diffuso lo spettro che si è aggirato in tutto questo tempo nel mondo. Berlusconi ne rappresenta un emblema vivente.
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La proclamazione della morte del marxismo, in sostanza, rappresenta l’arma con cui i difensori del sistema capitalistico hanno combattuto e continuano a combattere l’azione delle classi subalterne impegnate a liberarsi dalla loro condizione di sfruttamento. E questo non va mai dimenticato. Un’altra massima da tener presente consiste nell’aver chiaro che quella del marxismo è una storia di crisi. La teoria di Marx e di Engels è stata messa in discussione dai suoi stessi autori nel periodo immediatamente successivo alla pubblicazione de “Il manifesto del partito comunista”, allorquando le insurrezioni del ’48 hanno subito la sconfitta. Da allora ad oggi le crisi sono state ricorrenti: da quella a cavallo dei secoli ottocento-novecento, che ha dato origine al revisionismo socialdemocratico, a quella del post-rivoluzione d’ottobre, che ha sancito la divisione del movimento in due grandi tronconi; poi quella determinata dallo stalinismo e quindi quella della metà degli anni ’50, per limitarmi a citare le più importanti. In permanente stato di crisi ha dimostrato di essere il suo stesso fondatore, giacché le sue intuizioni e la sua stessa teoria sono state sistematicamente sottoposte al vaglio critico e continuamente corrette e aggiornate. Tutto questo conferma che le crisi sono il segno della validità e della fecondità del metodo marxiano il quale è da riassumersi in quattro momenti: indagine, elaborazione, azione e verifica. Sta proprio in questo suo modo d’essere la ragione del continuo processo di ripensamento e aggiustamento che lo contraddistingue. Nulla è assoluto, tutto è relativo e in movimento è dunque la stressa teoria. Chi ha assunto e assume il pensiero marxiano come una dottrina ha compiuto e compie un grave errore. E poi necessario fare una doverosa distinzione fra teoria e pratica. E’ frequente l’attribuzione all’autore de “Il capitale” di colpevolezze che sono frutto dell’errato agire di coloro che si richiamano alla sua teoria. Secondo questa logica sul banco degli imputati dovremmo mettere tutti i grandi uomini di pensiero che la storia ci ha fatto conoscere. Agli illuministi dovremmo far carico degli orrori compiuti dai rivoluzionari francesi e ad Adam Smith le violenze del capitalismo e del colonialismo. Premesso che il banco di prova della teoria marxiana è la prassi e che dunque, ai fini della verifica della validità dei suoi postulati, appare necessario e decisivo accertare il grado di coerenza o di incongruenza tra propositi ed esiti della loro messa in pratica, non si può di certo per questo attribuire a Marx la responsabilità dell’operato dei suoi discepoli, compreso il fallimento del socialismo reale. Del resto, non è solo Dahrendorf a puntualizzare che non si possono dare “a un accademico come Marx colpe che non ha”. Non ostante questa lapalissiana verità, di recente, il capo della Chiesa cattolica, Papa Francesco, ha sostenuto che la teoria di Marx non sarebbe vera, perché nella storia dell’uomo sono vere solo le teorie che realizzano i principi annunciati. Intanto vale la pena notare che tra le massime gerarchie ecclesiastiche esiste un’incoerenza di giudizio se si considera che nell’aprile del 2007, di fronte alle assurde insinuazioni fatte dai nemici del comunismo, Benedetto XVI si è sentito in dovere di precisare che “Karl Marx ha descritto in modo drastico l’alienazione dell’uomo. Anche se non ha raggiunto la vera profondità dell’alienazione perché ragionava solo nell’ambito materiale, ha tuttavia fornito una chiara immagine dell’uomo che è caduto vittima dei briganti”. E che due anni e mezzo dopo gli stessi organi di stampa del Vaticano (“L’Osservatore romano” e “Civiltà cattolica”) hanno voluto precisare che “i poteri dittatoriali socialisti hanno sfigurato le concezioni del Marx storico fino a renderle in parte irriconoscibili… sarebbe un grossolano errore ritenere che lo spirito che sta dietro l’avvento del comunismo coinvolga in ogni caso Karl Marx”. E si sono poi prodigati a chiarire che certe idee dell’autore de “Il capitale” hanno ancora valore. Ma se si assumesse come valida la tesi di Bergoglio, sorgerebbe naturale chiedersi quale destino è riservato alla Chiesa di Cristo dal momento che da due secoli predica l’uguaglianza e la fratellanza fra gli uomini e ancora su questa Terra dominano l’egoismo e la discordia. La stessa Chiesa nel corso del tempo ha commesso errori madornali quali le crociate, le guerre di religione, le inquisizioni, si è opposta alla modernità e ha sistematicamente contrastato tutte le scoperte scientifiche. E nonostante la solenne professione di fede, il popolo cattolico non è sempre rispettoso dei sacri comandamenti. Forse che per tutto questo il cristianesimo è da dichiararsi fallito e che lo
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stesso Gesù Cristo deve essere messo alla gogna perché il suo verbo è stato e continua a essere disatteso? E’ questo un rilievo che vale anche per chi ha una visione laica del mondo. La rivoluzione francese ha avuto come obiettivo l’affermazione di un corpo di diritti che tutti gli uomini avrebbero dovuto avere in comune. A quasi due secoli e mezzo di distanza non solo questa uguaglianza non esiste, ma addirittura le differenze di condizione sociale sono in espansione. Dobbiamo forse concludere che le teorie dei giacobini sono da considerarsi fasulle perché non si sono realizzate? In polemica con Croce e i seppellitori del marxismo Gramsci scriveva: “Accusano Marx di astrattismo... Dove è esistita la perfetta società liberale? Quando si è realizzata nella storia del genere umano?”. Le stesse esperienze religiose stanno a dimostrare che l’uomo, anche quello assistito dalla provvidenza divina, è perfettibile e che il miglioramento della sua condizione esistenziale è il prodotto esclusivo della sua azione terrena. A differenza della teoria marxiana, che fa dipendere tutto dalla materialità dell’esistenza, la dottrina cristiana si autoassolve dei mali terreni e promette la vita eterna proiettando l’uomo nell’aldilà. Non va mai dimenticato che l’uomo vive anche di utopie, anzi – come ha sostenuto il filosofo tedesco Oskar Negt – sena utopie per l’uomo “non è possibile vivere neppure un giorno”. Aspirazione di ogni individuo e di ogni collettivo, difatti, è il miglioramento della propria condizione esistenziale, perciò prefigura il proprio futuro facendo progetti e lottando per il loro perseguimento, senza peraltro ottenere sempre i risultati sperati. Le utopie hanno tempi lunghi di realizzazione e sono destinate a incontrare sulla loro strada enormi difficoltà. Si pensi alla liberazione dell’uomo dalla schiavitù, alla conquista del suffragio universale o della parità giuridica uomo-donna. Forse che la rivoluzione borghese non ha incontrato difficoltà e si è realizzata senza alcun contraccolpo? Le grandi transizioni storiche non sono mai avvenute dall’oggi al domani, ma sono state caratterizzate da processi di mutamento profondi, spesso contraddittori e di lungo periodo che hanno investito l’insieme della società modificando l’economia, il diritto, la cultura, il senso comune. Quante volte in questi ultimi due secoli la rivoluzione francese è stata dichiarata morta perché è sfociata nel Terrore? A riguardo dei zig-zag della storia Lenin commentava: “Sarebbe antidialettico, antiscientifico e teoricamente sbagliato rappresentarsi la storia del mondo come una continua e regolare marcia in avanti, senza qualche gigantesco salto indietro”. Purtroppo, quello dell’Urss è un esperimento non riuscito che ha fatto fare al socialismo un disastroso salto all’indietro, ma questo non cancella il carattere anticipatore di una nuova epoca che la rivoluzione d’ottobre ha assunto. E non è l’unico passo indietro obbligato compiuto dal movimento operaio internazionale visto che nel 1871 a fallire è stata la Comune di Parigi, la quale viene tutt’oggi considerata una tappa fondamentale del processo di emancipazione umana. C’è dunque da convincersi che il marxismo, quale pensiero scientifico, è ancora ai primi passi della sua applicazione e che, come è successo per altre concezioni del mondo che hanno fatto epoca, a dispetto dei suoi avversari ha ancora molta strada da fare. E a pensarla così sono anche molti intellettuali che hanno nulla a che fare con il comunismo. Albert Otto Hirschman, per fare un esempio, ha definito il fallimento del socialismo reale “un tremendo terremoto” e ha giudicato “possibile che ne derivi un tale disincanto che tutte le esperienze fatte saranno abbandonate come fallimento totale… Io penso che le esperienze non sono mai un fallimento totale”. Il sociologo nostrano Francesco Alberoni, all’indomani dell’abbattimento del muro di Berlino, sul “Corriere della sera” ha rilasciato la seguente testimonianza: “Io, che nella mia vita non sono mai stato marxista, credo invece che il marxismo non sia affatto finito. Sta solo subendo una grave crisi da cui uscirà trasformato… Per me il marxismo è una Civilizzazione Culturale. Queste, pensiamo al giudaismo, al cristianesimo, all’islam, ma anche al buddismo, sono Grandi Istituzioni nate da movimenti… Il più probabile erede del marxismo in questi Paesi resta sempre il marxismo. Dopo aver subito mutazioni, aggiustamenti teorici e organizzativi. Un marxismo che riesce a inglobare il mercato e dirigerlo”. Mentre il filosofo Jean-Francois Lyotard ha sostenuto che “il capitalismo ha 406
storicamente sconfitto il comunismo, ma continua a portarselo dentro. Anzi in qualche modo capitalismo e comunismo coincidono”. Il comunismo è appunto da considerarsi una di quelle istanze che la politica ogni volta ripropone, di epoca in epoca; esso rappresenta tra l’altro un’incredibile spinta morale capace di superare tutte le delusioni che le errate esperienze umane possono procurare. Questa convinzione, però, non può significare certezza. L’elaborazione marxiana non ha eliminato, ma ha accolto in sé l’utopia, cioè la visione del futuro, superandola e ciò comporta notevoli difficoltà di ordine intellettuale e politico. Mentre nella religione è conservato il ricordo che trasfigura uno stato primordiale perduto nel paradiso e nell’antica utopia comunista ricorre il regno della giustizia, della libertà e dell’uguaglianza, nel pensiero marxiano il comunismo è un prodotto dell’uomo che per essere realizzato richiede determinazione e impegno. E quando questi requisiti vengono meno il dubbio che esso possa ridursi a un’utopia diventa legittimo. Persino marxisti convinti come Trotzkij e Korsch, di fronte al persistere dello stalinismo, ebbero motivo di giungere a conclusioni disarmanti e ipotizzare che le teorie comuniste potessero essere relegate dalla storia nel regno dell’utopia. 12.2 – Il pensiero marxiano è un metodo scientifico non una dottrina Il comunismo non è un’invenzione di Marx ma un’ambizione sociale antica. Molti scordano che a teorizzare per primo il comunismo come categoria politica è stato Platone, ventiquattro secoli fa. Il padre del socialismo scientifico ha il merito di aver compiuto l’analisi della società del suo tempo e su quella base di aver tracciato l’itinerario di una possibile transizione dal capitalismo a un nuovo sistema sociale in cui lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo venisse abolito. E per dimostrare la fondatezza e la fattibilità del suo progetto, ha richiamato l’attenzione sul fatto che nella storia dell’umanità la proprietà non è sempre stata individuale, ma sono esistite comunità nelle quali essa era collettiva. Difatti, forme di comunismo si sono registrate sia nella preistoria che nell’epoca dopo Cristo. Oltre alle società primitive nelle quali i beni erano possesso comune, sono da ricordare l’esperienza del Regno di Ur III della Mesopotamia, avvenuta nel 2100 a.C., e quella di alcune civiltà precolombiane d’America. Una delle caratteristiche del cristianesimo delle origini, è stata proprio la comunione dei beni. Nel III secolo Sant’Ambrogio, vescovo di Milano, considerava la proprietà privata un prestito fatto al singolo dalla comunità la quale aveva il diritto di riappropriarsene in qualsiasi momento. Tra il IX e il X secolo, nel Bahrain, piccola isola dell’arcipelago vicino alle coste occidentali del Golfo Persico, si sono verificate delle rivolte popolari e una di queste ha avuto come protagonisti i carmati i quali per oltre cento anni hanno instaurato un regime comunista islamico. Uomini di chiesa come l’inglese Tommaso Moro e l’italiano Tommaso Campanella, tra il XIV e il XVI secolo, hanno teorizzato il comunismo: il primo ha scritto “Utopia”, il secondo “Città del sole”. Nella sua opera il domenicano Campanella ha sostenuto che era giunto il momento di liberare la creatività sociale e politica dell’umanità dai vincoli di autorità e tradizioni non più sopportabili. Per queste sue convinzioni e per la sua azione rivoluzionaria è stato fatto prigioniero da papa Paolo V e condannato al carcere per gran parte della sua esistenza. All’epoca della riforma protestante vi è stata una comunità che ha messo in atto un sistema fondato sui principi della giustizia e dell’eguaglianza sociale e per questa ragione è stata soffocata nel sangue. Hanno praticato il comunismo anche ordini monastici come quelli dei benedettini e degli eretici dolciniani. L’inglese Francesco Bacone ne “La Nuova Atlantide” ha affidato agli scienziati il compito di costruire una civiltà superiore, più umana e più giusta. A metà del 1600 in Inghilterra è sorto un movimento, quello dei diggers (scavatori), che ha praticato il comunismo. In Israele, nelle colonie collettive, dal movimento socialista sionista è stato creato il kibbutz e sono state sperimentate forme di vero e proprio comunismo. I kibbutzzim ebraici hanno attuato la collettivizzazione e la cooperazione in modo più armonico con la dimensione privata rispetto a quanto sia stato fatto nelle fattorie statali sovietiche. 407
Ho citato questi esempi perché sono dimostrativi di come il comunismo rappresenti il frutto della ricerca da parte degli uomini di un mondo di giustizia, di uguaglianza e di solidarietà. Si tratta di aspirazioni che sono insite nella natura umana e possono essere definite con diversi sostantivi, la loro sostanza, però, non cambia. Possono essere represse e contenute, di certo non possono essere soppresse fin che vita umana ci sarà sulla Terra. La teoria marxiana, dunque, altro non è che l’espressione moderna di questi antichi e mai sopiti sogni dell’uomo e rappresenta senza alcun dubbio una tappa dell’evoluzione culturale dell’umanità. Pertanto, non sono altro che dei plagiari coloro che si adoperano a far credere che il comunismo è ormai morto. Si deve mettere in conto che il marxismo non è un corpo dottrinario separato dall’esperienza storica, ma è parte integrante della morale umana, scaturisce dai bisogni dell’uomo. Il filosofo francese Jacques Derida, uno dei più ostili nemici dei regimi dell’Est, ha dovuto ammettere che “noi viviamo in un mondo, taluni direbbero in una cultura, che custodisce il segno di questa eredità”, cioè del comunismo. Del resto, nonostante i grandi progressi della scienza e della tecnica, mai come oggi sulla Terra sono esistiti tanti milioni di uomini, di donne e di bambini asserviti e affamati e la cui esistenza è messa a rischio ogni giorno. Fino a che ci saranno ingiustizie e squilibri sociali il comunismo vivrà, con buona pace dei suoi avversari. Potrà cambiare nome, di certo non l’essenza. Come tutte le grandi religioni e ideologie, anche il marxismo ha una enorme capacità di sopravvivenza e di rinnovamento. Se ancora oggi, nonostante il crollo del socialismo reale, i sonni dei benestanti di tutto il mondo continuano a essere turbati dallo spettro del comunismo, la ragione sta proprio in questa verità. Marx continua a far paura, così come Cristo incuteva terrore ai potenti e ai farisei del suo tempo e per quello è stato messo in croce. A chi vorrebbe cancellarne la memoria vale la pena ricordare quanto un vecchio conservatore austriaco, Karl Kraus, aristocratico, satirico e religioso, direttore della rivista “Die Kackel” ai tempi di Rosa Luxemburg, diceva a riguardo del comunismo: “Che il diavolo si porti la prassi del comunismo, ma che Dio ce lo conservi come costante minaccia sulle teste di coloro che per salvare il loro dominio spediscono senza batter ciglio moltitudini alla guerra, al massacro e alla morte”. Se è vero che il comunismo in Urss non si è realizzato, la presenza del socialismo reale e il timore che quell’esperimento venisse imitato da altri, ha indotto i signori della borghesia di tutto il mondo a venire a patti con il movimento degli sfruttati e a fare loro concessioni. Quando il socialismo reale è fallito, anche di fronte al rifugiarsi di gran parte della sinistra dietro le barricate del “buon senso” borghese, i “padroni” hanno rialzato la testa e le pretese. E questa è la dimostrazione della forza delle idee marxiane e insieme, purtroppo, di quali e quanti disastri quel crollo abbia comportato per le classi sociali subalterne sia d’Oriente che d’Occidente. Il bisogno di trasformare la società capitalistica è vivo più che mai, anzi, dopo l’89 è divenuto una necessità ancor più impellente non solo per i proletari, ma per la stragrande maggioranza dell’umanità, considerati i danni sociali che il processo di globalizzazione capitalistica sta determinando. L’esperienza fallimentare dei regimi dell’Est deve dunque essere vissuta dalla sinistra non come una campana a morto, ma come la dimostrazione della complessità del processo storico e della necessità di ritornare a riflettere sulla teoria marxiana. Si deve essere consapevoli che, come ha detto Adam Schaff, “non appena che il terreno sarà ripulito dalla gramigna lasciata dal socialismo reale” ci sarà da aspettarsi di sicuro una sua rifioritura. Ed è a questo appuntamento che ci si deve preparare. Nel ripensare la sua storia, la sinistra deve tenere presente che il marxismo non è una corrente di pensiero e di azione compatta e omogenea, ma è l’insieme di svariate versioni e interpretazioni delle teorie dei fondatori del socialismo scientifico, le quali hanno trovato concretizzazione in diversificate esperienze sociali. Come tanti altri uomini di pensiero, Marx è stato tirato per la giacchetta da molti e questo ha determinato semplificazioni e deviazioni dalle sue idee originarie. C’è stato chi ha sopravvalutato il rapporto di proprietà quale elemento distintivo della stratificazione sociale, chi ha confuso la socializzazione con la statalizzazione, chi ha privilegiato la
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dimensione collettiva a scapito di quella individuale, chi ancora ha trascurato l’importanza della divisione sociale del lavoro. E nel rilevare questi travisamenti si potrebbe continuare a lungo. Così come non esiste un modello di capitalismo teorico puro, quello determinato dalle leggi che lo regolano e che sono state individuate dagli studiosi, non è rintracciabile un marxismo puro ideale, perché nella sua interpretazione e traduzione pratica si sono verificate molte contaminazioni. Il concetto di “marxismo”, come ho già ricordato, è stato ripudiato dallo stesso Marx. Esso è una creazione di Karl Kautsky la cui opera ha dato avvio a quel processo di volgarizzazione progressiva della teoria marxiana che ha determinato i vari “marxismi” dai quali non si può prescindere, almeno se si vuol agire con onestà intellettuale. Una storia del marxismo deve necessariamente fare i conti con una molteplicità di scuole e di tendenze molto spesso autosufficienti, tendenti anche a ignorarsi tra loro quando non addirittura a scontrarsi per contendersi il “vero” comunismo. Per questa ragione, essa si rivela un’impresa estremamente ardua e complessa. Mentre sotto lo stimolo degli eventi storici, Marx ha montato e smontato in continuazione il suo pensiero, i suoi eredi si sono prodigati a costruire una teoria la cui pretesa era quella di essere compiuta e di ritenersi esaustiva per le generazioni future. Tra Marx e il marxismo, dunque, la storia ha scavato un baratro e di questo bisogna tenere conto. Ad aprire la strada alle revisioni della teoria marxiana è stato lo stesso Engels il quale, sotto l’influenza della teoria di Darwin, si è sforzato di annettere alle leggi dei processi naturali la dialettica dei processi sociali. Dopo di lui, i vari Kautsky, Plecanov, Bernstein hanno interpretato a loro modo il pensiero del fondatore del socialismo scientifico. Prese le distanze dal proudhonismo, dal bakuninismo, dal populismo, dal lassalismo, dal tradeunionismo, dal fabianesimo, il marxismo della 2a Internazionale si è articolato nelle diverse correnti evoluzioniste alle quali si sono contrapposti i bolscevichi di Lenin. Già nei primi del ‘900, dunque, il movimento operaio era culturalmente e politicamente differenziato e lo stesso marxismo non era affatto una componente omogenea. Con la rivoluzione d’ottobre e la rottura della 2a Internazionale, la costituzione della 3 a e la temporanea apparizione dell’Internazionale di Vienna, la 2 e ½, il movimento operaio si è lacerato irrimediabilmente. Nel periodo successivo alla fondazione della 3a Internazionale e dopo la morte di Lenin, si è manifestata una pluralità di centri di elaborazione del marxismo, che hanno costituito una feconda varietà di interpretazioni e di scuole, nonché una compresenza di poli di aggregazione diversi: quello bolscevico, quello spartachista-luxemburghista, quello della sinistra comunista occidentale e, inizialmente, persino quello anarco-sindacalista. Il marxismo “rivoluzionario” ha puntato su una riqualificazione teorica e su una ridefinizione del metodo di Marx, a scapito di un aggiornamento dell’analisi degli sviluppi del capitalismo. Le teorie sulla transizione al socialismo si sono moltiplicate, mentre a imporsi su scala mondiale è stato il leninismo. Sul fallimento della rivoluzione in Occidente sono da ricordare le riflessioni di Rosa Luxemburg, di Lukacs, di Bloch, di Korsch e di Gramsci le quali, però, sono risultate minoritarie. Si è sviluppato pure l’austromarxismo che si è caratterizzato per il suo sinistrismo rispetto alla 2a Internazionale. E’ anche nata la Scuola di Francoforte (Horkheimer, Marcuse, Adorno, Grossmann, Pollok, Fromm, Landsberg, Wittfogel, Meyer, Offe, Habermas) alla quale hanno aderito pure studiosi che erano su posizioni borghesi e i quali intendevano avvicinarsi alla teoria marxiana. Nella seconda metà degli anni ’20 è sopravvenuto il “marxismo-leninismo” di Stalin che, incarnandosi nella forza del primo Stato sovietico, è diventato la dottrina ufficiale del comunismo internazionale. Come abbiamo visto, si è trattato di un sapere centralizzato e totalizzante che ha azzerato qualsiasi possibilità di sperimentazione e di confronto, al punto di atrofizzare il marxismo per oltre un quarto di secolo e ipotecare il futuro del movimento fino ai giorni nostri. Nell’Urss di quell’epoca, lo studio di Marx è stato dapprima sostituito dallo studio di Lenin, poi quello di Lenin è stato soppiantato dalle opere di Stalin, mentre la teoria marxiana è stata messa in soffitta.
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In contrapposizione allo stalinismo sono sorti il trotzkismo, il titoismo e, più avanti nel tempo, il maoismo. Durante e dopo lo stalinismo, in Occidente, ci sono stati uomini di pensiero che hanno contribuito al recupero della teoria marxiana e al suo sviluppo. Tra gli altri, sono da ricordare Louis Althusser, Eric Hobsbawm, Jean-Paul Sartre, Paul Sweezy, il cui sforzo, però, si è rivelato insufficiente a contrastare e contenere l’influenza del pensiero unico imposto dal Cremlino. Anche in Italia, dove ha imperato lo storicismo gramsciano e dove addirittura ha preso corpo il “catto-comunismo”, non sono mancati i “revisionisti” del marxismo. I contribuiti di Antonio Banfi, Galvano della Volpe, Cesare Luporini, Nicola Badaloni vantano tutt’oggi un’attualità, solo che sono dimenticati da coloro i quali si sono assunti il compito di tradurre le idee in pratica politica. Ricostruendo l’evoluzione del movimento comunista, gli storici hanno individuato l’esistenza di diverse correnti di marxismo che hanno catalogato con i termini “ortodosso”, “scolastico”, “aperto”, “rigoroso”, “espansivo”, “diluito”. Ventitre ricercatori che hanno operato tra Belgio, Bulgaria, Canada, Francia, Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti e Svizzera, hanno scritto un libro (“Le siècle des communismes”) nel quale sostengono che il concetto di comunismo deve essere usato al plurale, “i comunismi”, considerata la varietà delle esperienze che nel mondo hanno preso corpo. Uno studioso si è preso la briga di fare un inventario delle varie versioni del marxismo ed è giunto alla conclusione che “a partire dal 1800 circa, da più di cento anni dunque, si sono contate più di dieci differenti forme di filosofia marxista e comunista... Per pura comodità del lettore ne indicheremo alcune: l’incorporazione del discorso comunista marxiano in una sorta di positivismo dialettico (Engels); la ritrascrizione del marxismo in un evoluzionismo sociale di progresso (Kautsky); il materialismo dialettico come unità di filosofia scientifica del rispecchiamento del mondo e di filosofia di battaglia fra le classi contrapposte (Lenin, ma anche Althusser); la filosofia della prassi come identità di filosofia e di storia (Gramsci); l’identità fra soggetto ed oggetto come rappresentazione teorica astratta dell’identità storico-sociologica fra proletariato e storia universale (giovane Lukàcs); la distruzione della pseudoconcretezza della presenza ‘statica’ del mondo in nome di un progetto collettivo di emancipazione della società (Sartre, ma anche Kosik); un’ontologia generale unificata della natura e della storia sulla base dell’utopia e dell’incompletezza del mondo (Bloch); un’ontologia dell’essere sociale come filosofia dell’intero genere umano, e non solo della classe operaia (ultimo Lukàcs); ed altre ancora”. A Marx si richiamano scuole innumerevoli e correnti ideali differenti e persino contrastanti. Si tratta di un patrimonio intellettuale e politico complesso e ineguale. Per rendersene conto è sufficiente considerare le varianti grandissime che, nella teoria del partito rivoluzionario, caratterizzano le soluzioni di marxisti (e leninisti) come Mao, Gramsci, Tito. O basta ricordare: “Storia e coscienza di classe” di Lukàcs (1923), “Principi del leninismo” di Stalin (1924), “Democrazia politica o sociale” di Adler (1926), “Concezione materialistica della storia” di Kautsky (1927), “Capitalismo e socialismo dopo la guerra mondiale” di Otto Bauer (1931), “Quaderni del carcere” di Gramsci, e di altri autori ancora. A fronte di questa giungla di interpretazioni e di elaborazioni, appare chiaro che chi andasse in cerca del marxismo vero non lo troverebbe di sicuro, non solo perché esso non esiste, ma soprattutto perché non può esserci un marxismo al di sopra della storia. Se così fosse, quel marxismo diventerebbe metafisica, religione, filosofia, uno di quei prodotti dell’idealismo e del dogmatismo che Marx stesso si è sforzato di combattere. Dinanzi a una tale panoramica viene naturale chiedersi se non sia per davvero un grossolano errore continuare a considerare il marxismo una dottrina monolitica. Tra coloro che non intendono considerare la sua natura complessa sono da individuarsi i manichei, coloro cioè che hanno come unico obiettivo quello di delegittimare politicamente e moralmente il movimento che rappresenta la punta avanzata delle idee di trasformazione sociale. Purtroppo, però, questo mondo di ciechi è popolato anche da uomini di sinistra. Da coloro che danno segno di non voler prendere atto che a rivelarsi vacue sono le versioni dogmatiche della teoria marxiana; e che a fallire è stata proprio quell’esperienza consumata in nome della dittatura del proletariato, la quale ha invece mortificato
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quei fattori che da Marx sono considerati essenziali per la costruzione del socialismo e cioè: la creatività, il senso di responsabilità e l’autonomia di ogni singolo individuo. A fallire sono stati i marxismi che hanno fatto propria la caricatura del comunismo, che hanno interpretato il processo storico in termini di linearità, come naturale passaggio da uno stadio all’altro, o che hanno preteso di violare le sue leggi. Il marxismo che è fallito è quello di stampo ideologico, inteso come depositario della verità assoluta, come pensiero esaustivo e totalizzante. Quello inteso come scienza della ricerca, palestra di dialettica e conseguente strumento di azione trasformatrice, non è affatto morto. 12.3 – Le vere e supposte insufficienze e ambiguità presenti negli scritti marxiani Alla teoria marxiana sono stati imputati anche vuoti e ambiguità. In effetti, Marx non ha chiarito e approfondito diversi aspetti del suo pensiero e con il tempo, certe sue affermazioni hanno assunto l’aspetto di veri e propri nodi non sciolti. Tra questi hanno acquisito un’importanza sempre più rilevante i temi dello Stato e del partito: non è un caso che all’origine della crisi della sinistra ci siano proprio anche le questioni istituzionali e organizzative. A queste insufficienze è da aggiungere anche lo spinoso problema del rapporto uomo-natura che nei tempi odierni è divenuto esplosivo e che, purtroppo, nella letteratura marxiana trova solo alcuni accenni in forma generica. Non c’è dubbio, infatti, che nel sottolineare l’importanza della liberazione delle nuove forze produttive, Marx ha tralasciato di approfondire l’argomento riguardante le distruzioni dell’ambiente naturale che l’evoluzione del sistema capitalistico (ma anche quello del socialismo reale) avrebbe irrimediabilmente prodotto. Non era certo facile prevedere nell’Ottocento i disastri ecologici che sarebbero succeduti alla rivoluzione industriale, alcuni scompensi ambientali, però, erano già evidenti. Le lacune e le insufficienze dei testi marxiani non si arrestano peraltro a questi soli assunti. Gli stessi marxisti non hanno mancato di evidenziare le ambiguità presenti nell’elaborazione del teorico del socialismo reale. C’è stato chi ha messo l’accento sull’eccessiva influenza che su di lui ha avuto l’ideologia del progresso tecnico insita nella filosofia illuministica, chi ha evidenziato una contraddizione nel rapporto tra individualismo e collettivismo, chi ancora lo ha rimproverato di aver esaltato il ruolo dell’avanguardia rivoluzionaria, ma di aver nello stesso tempo teorizzato la democrazia diretta e l’estinzione dello Stato. Pietro Barcellona gli ha addirittura rimproverato di essere prigioniero di un “razionalismo naturalistico tutto interno alla logica capitalistica” e di essere caduto in una sorta di metafisica dello sviluppo economico. Freud lo ha accusato di sottovalutare gli istinti e le pulsioni distruttive sempre presenti nell’animo umano, i quali rendono incerto e precario il suo futuro, e di essersi concentrato soprattutto sull’uomo come signore della natura. Taluni di questi rilievi sono fondati, altri sono opinabili, non c’è dubbio, però, che se dovessimo andare alla ricerca di ciò che nei suoi scritti non appaga le nostre aspettative, di certo a quelli espressi ne dovremmo aggiungere altri. Le varie forme di riformismo e di revisionismo che caratterizzano il pensiero comunista non sono affatto fenomeni casuali. Come ho già ricordato, il marxismo ha sempre conosciuto tensioni politiche e teoriche interne, e questo non solo perché esso fonda sul confronto-scontro, ma anche perchè non sempre una lettura e un’interpretazione degli avvenimenti si rivela espressione adeguata di una determinata situazione storica. Molti dei rilievi e delle critiche che vengono rivolte ai “testi sacri” del comunismo, spesso sono frutto di cattive e superficiali interpretazioni, di semplificazioni e deviazioni dalle idee marxiane originali. Per esempio, ben poche volte si incontrano in Marx espressioni che sono diventate tipicamente marxiste nel lessico della sinistra come “dittatura del proletariato”, “capitalismo”, “imperialismo”, “democrazia borghese”, “dialettica”, “materialismo dialettico”, ecc.. Queste locuzioni, usate e abusate, non hanno certo contribuito a formulare una corretta interpretazione dei suoi scritti, anzi ha 411
comportato complicazioni e devianze. Le molte e difformi versioni del suo pensiero, in epoche diverse e sotto stimoli politici differenti, si sono poi sovrapposte per stratificazione e il trascorrere del tempo, insieme al susseguirsi degli avvenimenti, ha complicato le cose. L’esperienza storica dimostra che l’incontro del marxismo con il movimento operaio e con i suoi problemi ha sempre comportato modificazioni e sviluppi nella teoria, la quale è irrimediabilmente condannata a essere sempre contraddetta dai suoi stessi sviluppi reali. Negare le diversità non è dunque possibile, si può e si deve comprenderle, rendendosi conto dei motivi per i quali esse si sono effettivamente determinate. Il fatto che in tutti i Paesi del socialismo reale si sia discusso a lungo sul carattere del materialismo storico, sulla sua natura di disciplina filosofica o sociologica, è la riprova di una certa immaturità e di una tendenza allo scolasticismo tra gli stessi studiosi marxisti, molti dei quali hanno dimostrato di non avere le capacità e di non essere nelle condizioni di risolvere in modo autonomo i grandi e decisivi problemi dello sviluppo socialista. Molte delle contestazioni e delle riserve che sono state e che vengono sollevate nei confronti della teoria marxiana, sono appunto il prodotto della complessità di tali problematiche, pertanto vanno assunte con la massima cautela e con spirito critico. Sulle più note contese, credo valga la pena di soffermarsi per svolgere alcune brevi considerazioni. Marx è stato accusato di economicismo e di determinismo, cioè di aver ridotto l’attività essenziale dell’uomo alla soggettività economica. Personalmente mi è capitato di sentir teorizzare per bocca di un esimio dirigente politico della sinistra che “il marxismo è solo economia”. Coloro che sostengono questa tesi dimenticano che molti studiosi marxisti, smontando scrupolosamente con citazioni e riferimenti alla sua opera tale accusa, hanno condotto una dura battaglia contro la tendenza a subordinare tutto all’economia e a far dipendere l’uomo dalla struttura sociale. Trascurano poi il particolare che, per l’intero socialismo ottocentesco, l’emancipazione economica dei lavoratori è stata fatta coincidere con la liberazione umana e che questa ha contribuito a deformare la stessa teoria marxiana. Soprattutto, ignorano la grande importanza che, ai fini dell’affermazione del socialismo, Marx ha attribuito all’elevazione culturale e politica del proletariato e che nell’ultimo triennio della sua esistenza ha rivolto non a caso il suo interesse culturale all’etnologia e all’antropologia, che all’epoca erano scienze nascenti. Ascrivergli dunque la patente di economicista è una vera dimostrazione di ignoranza se non di mala fede. Un altro addebito gratuito riguarda la famosa questione della caduta tendenziale del saggio di profitto. Nei “Grundrisse” Marx sostiene che un incremento nella composizione organica del capitale porta inevitabilmente a una diminuzione del saggio di profitto e ciò rappresenta un fattore di crisi del sistema. Egli ne parla come una tendenza che è contrastata da un certo numero di controtendenze, perciò i suoi effetti hanno un’efficacia dilazionata nel tempo. Secondo alcuni critici questa tesi sulla caduta del saggio di profitto era da intendersi come sentenza di morte del capitalismo e poiché ciò non è avvenuto, a loro avviso, Marx avrebbe compiuto un grave errore di previsione. Secondo studi eseguiti sull’economia degli Stati Uniti, a partire dal 1919 in poi, il saggio di profitto ha fatto registrare una progressiva diminuzione dimostrando sia la validità della teoria marxiana sia la caratteristica che le è implicita di avere effetto su tempi lunghi. Altro cavallo di battaglia dei detrattori di Marx è costituito dalla tesi secondo cui egli avrebbe previsto la scomparsa del ceto medio e la riduzione della società capitalistica a due sole classi sociali: quella degli sfruttati e quella degli sfruttatori; avvenimento questo che, non essendosi verificato, dimostrerebbe tra l’altro – a dire dei suoi critici – che la nozione di classe non sarebbe applicabile alla società moderna. Anche in questo caso siamo di fronte a una mistificazione. Se è vero che in taluni testi egli descrive la società capitalistica composta da sole due classi, i capitalisti e i proletari, postulando un capitalismo “puro” che non è mai esistito, è anche da ricordare che egli fa questa semplificazione per rendere più semplice e comprensibile il suo ragionamento. Chi lo accusa di ottusità, dovrebbe leggere anche quella parte de “Il capitale” in cui egli pone l’accento sul “continuo accrescimento delle classi medie”, e pure dovrebbe scorrere il secondo volume delle “Teorie sul plusvalore” nel quale egli si pronuncia contro le tesi di Ricardo rimproverandogli di non 412
tener conto del “continuo accrescimento delle classi medie che si trovano nel mezzo fra operai da una parte, capitalisti e proprietari fondiari dall’altra e che direttamente si nutrono in sempre maggiore ampiezza e in gran parte del reddito, che gravano come un peso sulla sottostante base lavoratrice e aumentano la sicurezza sociale dei diecimila soprastanti”. Già nel “Manifesto” egli aveva sostenuto la tesi della proletarizzazione della società che è da intendersi non come se tutti dovessero diventare operai, ma come processo che espropria gradualmente tutte le varie classi sociali della loro autonomia a causa del concentramento nelle mani di sempre più pochi soggetti del potere decisionale, rendendo così subalterna la maggioranza degli individui ai meccanismi e agli interessi del capitale. In quello stesso testo, infatti, viene puntualizzato che la borghesia ha “trasformato il medico, il giurista, il prete, il poeta e l’uomo di scienza in suoi salariati”. Nella stessa Gran Bretagna, capostipite dello sviluppo capitalistico, anche ai tempi del suo maggior sviluppo industriale, la classe operaia è sempre risultata essere una minoranza della popolazione lavorativa e Marx aveva ben presente questa realtà avendola studiata a fondo insieme a Engels. Attribuirgli la tesi di una semplificazione della complessità sociale è dunque frutto di non conoscenza dei suoi scritti oppure di cattiveria ideologica. Nessuno può smentire che il fenomeno della graduale e progressiva proletarizzazione sia un processo estraneo alla società moderna. Conseguente a questa polemica, vi è quella che gli attribuisce l’impoverimento progressivo della classe operaia. Nel primo libro de “Il capitale” Marx scrive: “Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la massa della miseria, della pressione, dell’asservimento, della degenerazione, dello sfruttamento”. E’ da ricordare che la teoria dell’immiserimento risale a molto tempo prima che Marx prendesse la penna in mano. Questa tesi è stata avanzata da pensatori socialisti, da politici radicali, prima di tutti da economisti borghesi. La legge della popolazione di Malthus, ad esempio, si affannava a giustificare la teoria dell’immiserimento come una legge naturale ed eterna. A questa teoria Marx ed Engels si sono opposti fin dal principio e hanno dimostrato che questo immiserimento non è affatto una legge eterna, ma un fenomeno storico che può essere eliminato. Essi hanno dunque combattuto la tesi dell’impoverimento assoluto e hanno sostenuto quella dell’impoverimento relativo, cioè da porsi in relazione alla ricchezza sociale nel suo complesso, frutto dello sforzo produttivo fornito dal proletariato (plusvalore) in un dato periodo storico. L’immiserimento inteso da Marx è poi da riferire non solo all’aspetto economico, ma al vasto complesso dei bisogni umani materiali e immateriali. Altro motivo di contestazione e di polemica è quello riguardante la definizione di “lavoro produttivo e improduttivo”. Evidentemente, anche a questo riguardo, i suoi critici dimostrano di non conoscere i suoi scritti laddove ha precisato che “produttivo è l’operaio che esegue un lavoro produttivo; ma produttivo è il lavoro che genera immediatamente plusvalore, cioè che valorizza il capitale… un maestro di scuola è lavoratore produttivo se non si limita a lavorare le teste dei bambini, ma se si logora dal lavoro per arricchire l’imprenditore della scuola… Uno stesso lavoro può essere eseguito da un medesimo operaio per conto o di un capitalista industriale o di un consumatore immediato. In entrambi i casi quell’operaio è un salariato o giornaliero; ma, nel primo, è un lavoratore produttivo e nel secondo un lavoratore improduttivo, perché in quello produce capitale e in questo no”. E non ha mai escluso che il lavoro improduttivo possa essere indirettamente produttivo, cioè utile alla produzione. Ho voluto richiamare l’attenzione su alcune delle interpretazioni della teoria marxiana che considero scorrette per dimostrare che: primo, molto spesso i suoi interpreti, consapevolmente o meno, mentre hanno concentrato la loro attenzione su determinati aspetti della sua teoria, ne hanno ignorati altri; secondo, quando ci si approccia a un qualsiasi nuovo pensiero, si rivelano di capitale importanza sia lo spirito che la modestia con cui lo si affronta, e questo criterio non sempre è stato adottato. Se l’atteggiamento è condizionato dallo schematismo o dall’interesse di appartenenza, l’obiettività è destinata a soccombere e, ahimé, la letteratura politica abbonda di esempi del genere. 413
In molti hanno poi considerato il marxismo un imbroglio e Marx un dulcamara. Popper ha paragonato il metodo marxista a quello dei medici che per salvare la diagnosi uccidono il paziente. Fejto ha sostenuto che alla pari del nazismo il comunismo ha rappresentato il principe delle tenebre annidato nel cuore dell’uomo. Solgenitsyn lo ha definito un ostacolo allo sviluppo e al divenire dell’uomo. Monod lo ha considerato una specie di animismo, cioè la scienza al cui centro vi è l’anima. Bell ha definito Marx un narcisista prepotente. Sylos Labini lo ha classificato come un “farabutto fariseo” responsabile di aver “provocato nel mondo un eccesso barbaro di legittima difesa”. Montanelli gli ha rimproverato di essere ”pur sempre un ebreo e quindi uomo di profezia”. Bettiza lo ha accusato di essere “un cattivo maestro”. Galli della Loggia ha scritto che il comunismo vanta una peculiare e diabolica “capacità mimetica di celare la figura ripugnante di Mister Hyde dietro quella angelica del dottor Jekyll”. E pure taluni esponenti della cultura progressista e di sinistra hanno pronunciato inappellabili sentenze denigratorie. Schumpeter gli ha rimproverato di essere “cieco agli elementi ideologici” che sarebbero presenti nelle sue stesse opere, mentre ha mostrato avversità verso il carattere ideologico delle teorie altrui. Nell’89, l’ex di Potere operaio Massimo Cacciari ha scritto: “Non c’è il minimo appiglio in Marx per sviluppare un discorso ecologista che sia coerente, perché Marx, da questo punto di vista, è assolutamente figlio del prometeismo ottocentesco. Non c’è il minimo appiglio nella tradizione marxista per fare un discorso sulla differenza sessuale; e ancora non c’è il minimo appiglio per fare un pur vago discorso movimentistico, perché il grosso e l’eroico della prospettiva comunista è l’organizzazione e la lotta contro ogni spontaneismo”. Sulla rivista del “manifesto” Marcello Cini ha sostenuto che la repentina accelerazione nel passaggio al controllo delle informazioni biologiche, bio-psichiche, ecc. e il brusco ingresso nell’epoca dell’economia e del lavoro immateriali, renderebbero obsoleto l’impianto dottrinario del marxismo e quindi la sua prospettiva storico-politica, poiché esso è modellato sul modo di produzione otto-novecentesco. Secondo Massimo Salvadori, i diversi marxismi sono il risultato della constatazione della drastica e inevitabile scissione dei nessi su cui poggia la teoria dello sviluppo storico di Marx. I diversi marxismi non sono altro che i tentativi di revisione della teoria marxiana stessa poiché essa non si è rivelata all’altezza della palingenesi (resurrezione) umana e sociale che prometteva. Il marxismo, a suo giudizio, sarebbe dunque un’utopia. Anzi, il progetto marxiano si sarebbe rivelato come una delle più gigantesche utopie della storia. Persino il rifondatore comunista Domenico Losurdo, nel ’98, sulla teoria marxiana ha espresso un giudizio liquidatorio sostenendo che “in Marx ed Engels, dopo aver giocato un ruolo fondamentale nella conquista del potere, la politica sembra poi dissolversi assieme allo Stato e al potere politico. Tanto più che, oltre alle classi, allo Stato e al potere politico, dileguano anche la divisione del lavoro, le nazioni, le religioni, il mercato, ogni possibile forma di conflitto. Questa visione messianica, che rinvia in ultima analisi all’anarchismo, ha svolto un ruolo nefasto anche a livello economico”. A contestare, stravolgere e liquidare Marx non sono dunque solo i suoi nemici, ma anche i suoi stessi ex adèpti. Se per alcuni di essi il marxismo ha rappresentato una religione sociale, un messianesimo politico su cui sono state costruite “nuove chiese”, per altri ha costituito solo un’opportunità d’impegno culturale e sociale. Non sono pochi nemmeno coloro che hanno creduto di trovare nei suoi scritti belle pronte le soluzioni a tutti problemi. Se per una larga parte del popolo comunista il verbo di Marx è stato tradotto in ideologia, non c’è dunque da meravigliarsi. Colui che ha capovolto Hegel, ha avuto il paradossale destino di venire da molti immortalato con il capo all’ingiù. Il dibattito culturale e critico su Marx e su Engels è stato oltretutto inquinato dalla strumentalizzazione politica e dalle beghe di partito. La varietà di sviluppi che la loro eredità ha avuto, in particolare l’ampiezza di interpretazioni errate e superficiali, induce a ritenere che essa sia stata causata anche da una scarsa conoscenza dei suoi scritti e pure della stessa storia del movimento operaio e socialista. A una loro disamina, sorge spontaneo il sospetto che i teorici del socialismo scientifico siano stati molto spesso “interpretati” e raramente letti.
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Alle motivazioni di ordine soggettivo si accompagnano poi quelle di ordine oggettivo. Basti pensare alla ritardata pubblicazione dei loro scritti, spesse volte determinata proprio dalla censura politica. Per fare qualche esempio: la “Dialettica della natura”, i “Manoscritti economico-filosofici” e “L’ideologia tedesca” sono rimasti sconosciuti fino agli anni venti del ‘900; i “Grundrisse”, che sono stati scritti nel 1857-58, sono stati pubblicati per la prima volta nel 1935; in Italia la prima edizione integrale è apparsa nel ‘76. Solo negli anni ’60 del secolo scorso la conoscenza dei testi marx-engelsiani si è estesa oltre gli studiosi ed è stato dato inizio a un approfondimento dei problemi che essi pongono. Gli stessi lavori di alcuni dei più illustri teorici del marxismo (Lukacs, Bloch, Korsch, Gramsci, ecc.) negli anni ’50 risultavano essere sconosciuti alla stragrande maggioranza del corpo dirigenziale del movimento operaio e social-comunista. Dell’esistenza dei “marxismi” si è preso atto ufficialmente solo negli anni ’70. E questa diluizione nel tempo della conoscenza della teoria marx-engelsiana ha sicuramente favorito schematizzazioni e semplificazioni e questo ha impedito non solo una sua corretta interpretazione, ma anche lo sviluppo di nuove e superiori teorie sul socialismo e sulla transizione. 12.4 – Anche Marx è uomo del suo tempo Chiunque si trovi nella condizione di affrontare problemi la cui soluzione si rivela complessa, è indotto a ricorrere all’esperienza storica e al pensiero dei grandi saggi del passato con l’intento di ricavare indicazioni e suggerimenti utili. C’è chi, però, nel compiere una tale operazione prescinde della legge del tempo e s’illude di poter avere dal passato le risposte alle problematiche della propria epoca. A compiere un errore del genere sono stati anche molti marxisti i quali hanno preteso di rintracciare nell’elaborazione marx-engelsiana diagnosi e terapie da applicare in epoche in cui l’evoluzione storica aveva cambiato dinamiche. Costoro hanno dimenticato che l’opera di Marx è consistita nell’aver studiato e descritto la società del suo tempo e di aver avanzato linee di comportamento per quella data epoca, in base alle condizioni del suo tempo, e non già per le epoche successive. E come ho già sottolineato più volte, ai suoi posteri egli ha fornito non delle ricette, ma un metodo. Marx è un uomo di pensiero che ha capito molte cose, di certo, però, non può aver capito tutto, tanto meno egli poteva prevedere quel che sarebbe successo nel futuro. Perciò, la pretesa di rintracciare negli scritti di uno studioso ottocentesco ricette valide per tutti i tempi è semplicemente assurda. Althusser ci ha saggiamente ricordato che nei casi in cui la sinistra coltiva simili aspettative, la crisi è da identificarsi non già nella teoria marxiana, ma nella testa di chi non vuole rendersi conto che Marx è uomo del suo tempo e non è Nostradamus. Egli va quindi assunto e interpretato per quel che è stato e per quel che ci ha dato in termini di analisi del suo tempo, di teoria e di metodo. Si tratta di un classico da leggere e rileggere e da collocare nella sua dimensione storica. Il suo studio è rivolto a un periodo ben preciso, quello del capitalismo industriale nascente nella fase degli Stati nazionali, e non può contenere l’analisi dei processi che sono avvenuti in epoche successive. Egli si è trovato nella condizione di osservare le prime fasi dell’accumulazione originaria del capitalismo e quella dell’industrialismo, mentre le fasi successive (imperialismo, postindustrialismo, ecc.) non potevano essere include nel suo campo visivo. Egli non poteva certamente fornirci un’interpretazione del taylorismo o del fordismo o della complessità degli sviluppi del modo di produzione delle società del capitalismo globalizzato; così come non poteva prevedere il rapporto tra governati e governanti che è proprio del mondo moderno. Chi da lui pretende risposte ai problemi dei giorni nostri, cade dunque in grave errore. E’ poi da considerare che la continua evoluzione del capitalismo ha messo in discussione, com’era naturale che fosse, alcuni degli assunti fondamentali del suo pensiero. Se egli fosse vissuto ai tempi di internet o della scoperta del dna, avrebbe sicuramente scritto “il capitale” in modo diverso. Noi siamo anche abituati a vedere in Marx soprattutto il teorico del socialismo scientifico e dimentichiamo spesso che egli, avendo retto per otto anni l’Internazionale comunista, è stato anche 415
un politico. Ebbene, nel guidare la classe operaia egli si è necessariamente sporcato le mani con scelte e decisioni che non sempre hanno conseguito i frutti sperati. Ed essendo stato severo con se stesso nell’autocritica, ha saputo riconoscere i suoi limiti ed errori e ha cercato di ripararli. Vale la pena ricordare che dopo il fallimento dei moti del ‘48, egli si è affrettato con tutta umiltà a corregge le prospettive strategiche che aveva delineato nel “Manifesto del partito comunista” e pure che già nel 1872, unitamente a Engels, giudicava quel proclama “qua e là invecchiato”. Nella sua veste di uomo di scienza e di pratica rivoluzionaria, dunque, mentre ha dato all’umanità un indubbio contributo per il suo progresso, ha inevitabilmente compiuto degli errori. La sua forza è consistita nel non essersi mai irrigidito nelle certezze e ogni qualvolta che ha sbagliato, ha avuto il coraggio di ammetterlo, dimostrando così piena consapevolezza della sua limitatezza. E’ questo un comportamento che lo distingue da tanti altri luminari e che torna a noi come un monito. Va ricordato che la sua opera contiene le ambiguità dovute all’influenza che su di lui ha avuto l’ideologia del progresso tecnico e della filosofia illuministica. Egli, infatti, è legato a una visione ottimistica del progresso umano e delle possibilità della scienza e della tecnica la quale, dopo le tragedie del nostro secolo, noi non possiamo condividere. Accentuando l’importanza della liberazione di nuove forze produttive, egli ha condiviso l’ottimismo borghese e ha trascurato le distruzioni che lo sviluppo capitalistico ha comportato in particolare per i Paesi poveri. Per quanto riguarda lo sviluppo nel tempo degli avvenimenti, specie di quelli seguiti alla sua morte, per alcuni di essi ha azzardato un abbozzo di previsione che non ha avuto conferma, oppure l’ha avuta solo in parte. A chi legge i suoi scritti accade di avere l’impressione che, raggiunto il comunismo, non ci sia più il problema della limitatezza dei beni, cioè che egli confidi in una inesauribilità delle risorse naturali. Anche se Engels ha avvertito che “ad ogni passo ci viene rammentato che non possiamo dominare la natura come un conquistatore domina un popolo straniero, come se stessimo al di fuori della natura, ma che ne facciamo parte come carne, sangue e cervello, e vi siamo immersi; che tutto il nostro dominio su di essa consiste nel fatto che,a differenza di tutte le altre creature, possiamo riconoscere e applicare giustamente le sue leggi”, rimane la sensazione che a questo riguardo Marx abbia subito un forte condizionamento delle idee del suo tempo. Il rapporto uomo-natura appare a noi oggi assai più complesso di quanto egli lo abbia inteso e descritto. Non attribuendo grande valore a culture e a storie differenti dalla sua, la visione del mondo che egli ci ha proposto è per certi aspetti eurocentrica. Appare altresì prigioniero di un concetto di lavoro produttivo storicamente determinato dalla presenza della grande industria come l’aveva formulato Adam Smith. Non a caso sono stati in molti ad attribuirgli impropriamente il convincimento che il lavoro sarebbe produttivo solo quando si fissa in un oggetto materiale (altra definizione di Smith che però egli ha respinto). In realtà – come ho già accennato – ai suoi occhi è irrilevante l’attività entro la quale il capitale opera: che si tratti di un oggetto materiale oppure di un servizio, il lavoro, in quanto è impiegato dal capitale, è sempre, per ciò stesso, produttivo. Tuttavia è anche vero che non tiene fede fino in fondo a questo suo criterio. Difatti, quando tratta del lavoro occupato dal capitale commerciale lo considera improduttivo, ritenendolo un “prelievo” dal plusvalore originato dal lavoro industriale, anche se poi in sede teorica ammette la possibilità che la produzione immateriale sia produttiva. Nei suoi scritti non mancano dunque ambiguità e contraddizioni. In “Critica del programma di Gotha” sottolinea che il lavoro è diventato un bisogno vitale, mentre ne “Il capitale” nega vigorosamente questa stessa affermazione. Pure a riguardo di alcuni altri aspetti cruciali della sua teoria appare in contraddizione, o quanto meno non coerente e lineare. Egli sostiene, ad esempio, che il proletariato per liberarsi dal dominio di una minoranza (la borghesia) e diventare forza egemone, ha bisogno di una guida rivoluzionaria, cioè di un’avanguardia che s’incarna nell’intellettualità borghese, la quale è una componente sociale esterna alla classe operaia; ciò appare discordante con l’attribuzione al proletariato di soggetto esclusivo della palingenesi. 416
Una certa ambiguità la si avverte anche a riguardo del rapporto tra individualismo e collettivismo, e non va dimenticato che ha pure sottovalutato certi processi sociali, mentre ne ha sopravalutati altri. In gioventù si è dimostrato un rivoluzionario impaziente e unitamente a Engels è stato deriso dagli avversari come falso profeta. Alla vigilia del ’48 ragionava nella prospettiva di una crisi definitiva del sistema capitalistico, mentre più tardi ha scambiato la seconda rivoluzione industriale di metà Ottocento con il suo epilogo. Contava sulla possibilità di una rivoluzione militare sopravvalutando la borghesia tedesca e sottovalutando la politica prussiana. Mentre dall’insieme della sua analisi si evince che la transizione al socialismo è il prodotto dell’evoluzione massima del capitalismo, egli si è illuso che questo processo potesse avere inizio anche in un Paese ad economia semiasiatica com’era la Russia zarista. Pur intravedendo chiaramente la strada che prendevano gli eventi, non ha saputo cogliere la quantità di tempo necessaria al loro evolversi. Non ha altresì previsto e valutato a fondo l’immensa capacità della struttura capitalistica di rigenerarsi, di sopravvivere in diverse forme e di assimilare e conservare le strutture e le istituzioni feudali. Le sue disillusioni e quelle dello stesso Engels per le mancate rivoluzioni in Inghilterra, affondano proprio in una certa sottovalutazione degli effetti delle ondate di riformismo borghese e della capacità del capitalismo di far proprie le conquiste della scienza e della tecnica. Si è pure illuso che a seguito dell’internazionalizzazione del capitale, tutti gli antagonismi nazionali si sarebbero attenuati scomparendo e non sarebbero invece sfociati – come poi è avvenuto – in due conflitti mondiali. Non ha poi colto il grado di longevità e di resistenza dei partiti di massa borghesi. Nel primo libro de “Il capitale” egli scrive: “Cresce anche la ribellione della classe operaia che sempre più s’ingrossa ed è disciplinata, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico”, e in questo processo di maturazione ha riposto grandi speranze di cambiamento. E pur avendo compreso che “mano a mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione”, egli non ha calcolato appieno la pressante minaccia d’integrazione nel sistema del proletariato e delle sue avanguardie. La storia dimostrerà che lo stato di povertà e la condizione di subalternità e di sfruttamento degli individui, oltrepassato un dato livello, non agiscono come fattori rivoluzionari, ma si trasformano in atteggiamento opposto, cioè in impotenza, sospingendo la massa dei disperati nel campo dell’indifferenza quando non addirittura in quello della reazione. A Marx, scienziato e critico della società del suo tempo è capitato anche di scrivere pagine che risentono di un forte idealismo laddove esalta una pretesa capacità del soggetto di farsi padrone del suo destino. Egli si dice, infatti, convinto che “la combinazione di lavoro produttivo retribuito, istruzione intellettuale, esercizio fisico e formazione politecnica eleverà la classe operaia ben al di sopra del livello dell’aristocrazia e della borghesia”. L’esperienza ci dice che un simile automatico processo non ha avuto svolgimento. Nei suoi scritti, oltre alle sottovalutazioni e alle ambiguità, troviamo anche delle insufficienze e dei vuoti. Oltre all’assenza di una teoria compiuta sullo Stato e sul partito, aspetti cui ho già fatto cenno, nelle sue elaborazioni non trovano sviluppo concetti riguardanti l’ideologia, le etnie, il sesso, il piacere, il dolore, la nascita, la morte e ancora altri temi che nella società odierna hanno assunto un’importanza vitale ai fini di un progetto di alternativa di sistema. In conclusione, Marx non è un tuttologo, è semplicemente un uomo che ha combattuto con tutte le sue forze le ingiustizie sociali del suo tempo e ha suggerito ai dannati della terra il modo di rovesciare le sorti del mondo. Del resto, non è mai esistito un solo essere umano che, oltre alle cose buone e giuste che ha fatto o scritto, non abbia manifestato punti deboli e contraddizioni. Riconosciuti i suoi limiti e le contraddizioni che s’intrecciano nei suoi scritti, c’è da riconoscere che egli ha gettato le basi per una regolazione dei rapporti sociali che da corpo a una nuova civiltà e che contribuisce a far fare un enorme passo in avanti nel processo di emancipazione umana. Dopo Marx non è più possibile ragionare come si faceva prima di lui. 417
Più che ostinarci dunque nella ricerca dei suoi limiti e delle sue insufficienze, credo abbia maggior senso far tesoro delle cose giuste che egli ha detto e apprezzare le intuizioni che ha avuto molte delle quali, a distanza di oltre un secolo dalla sua morte, mantengono una sorprendente attualità. Lo sviluppo del capitalismo non ha smentito la sua teoria, anzi l’ha resa ancor più convincente. Forse che la storia non ha convalidato le sue tesi sulla legge generale dell’accumulazione capitalistica? Chi può negare che il capitale costante è progressivamente aumentato nel tempo e che contemporaneamente l’esercito industriale di riserva non si è mai estinto? Che il processo di concentrazione e di centralizzazione del capitale abbia espropriato una larga parte del ceto medio e non solo i capitalisti è una realtà che sta sotto gli occhi di tutti. E un discorso analogo potrebbe essere fatto sulla divisione del mondo in paesi ricchi e poveri, sull’alienazione e via dicendo. Vorrà pur dire qualcosa se, nonostante siano ancora in molti ad essere impegnati a sostenere che la teoria marxiana è da considerarsi ormai superata, l’esponente popolare Jean-Claude Juncker, ora presidente della Commissione europea, nel proporre “politiche del lavoro più attive” e il “salario minimo garantito in tutti i Paesi dell’eurozona”, al fine di ridurre gli squilibri e superare il trauma di un lungo periodo di austerità, abbia auspicato una rilettura di Karl Marx. E pure che non solo in Germania, ma in molti paesi del mondo, si registri una domanda crescente dei testi marx-engelsiani, soprattutto de “Il capitale”. 12.5 – Validità e attualità della teoria marxiana Un dato incontestabile è che Marx ha visto giusto più di tutti gli altri economisti del suo tempo. Leontiev ha così elencato le analisi che il teorico di Treviri ha compiuto e che si sono rivelate giuste: “Crescente concentrazione della ricchezza, rapida eliminazione delle piccole e medie imprese, progressiva limitazione della concorrenza, incessante processo tecnologico accompagnato da una sempre crescente importanza del capitale fisso e, ultima ma non meno importante, la non diminuita ampiezza dei ricorrenti cicli”. In effetti, lo sviluppo del capitalismo ha comprovato le tesi marxiane. Trovano conferma nella storia: la legge generale dell’accumulazione capitalistica, l’aumento del capitale costante, il processo di centralizzazione che comporta l’espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi, la permanente esistenza di un esercito industriale di riserva. L’analisi del capitalismo del suo tempo si è dimostrata nel complesso giusta e a inficiarla non basta la mancata realizzazione dei suoi auspici. Nel 2005, il filosofo tedesco Oskar Negt ha affermato che “ironia della storia, per la prima volta il capitale funziona esattamente come Marx l’aveva descritto”. Robert Heilbroner, ha sostenuto che “per la comprensione del capitalismo, Marx è da paragonarsi a Freud per la comprensione della psicologia”. Jean-Francois Lyotard ha asserito che “il primo capitolo del Capitale è un capolavoro. Il guaio è che i marxisti non lo hanno mai letto davvero… L’alienazione, il feticismo, la fantasmagoria del ‘valore’ e del denaro funzionano perfettamente. Lo sanno bene i finanzieri di Wall-Street”. Joan Robinson, keynesiana di sinistra dell’università di Cambridge, ha osservato che “le teorie che Marx ha esposto sono la base indispensabile per trattare i problemi dell’economia del capitalismo che la scuola ortodossa non dà. Molti dei concetti di Marx sono più rilevanti di quanto non fossero cent’anni fa”. Oltre al concetto di alienazione, sviluppato non solo nelle opere giovanili ma anche in quelle della maturità, ne “Il capitale” e nei “Grundrisse”, Marx svolge alcune riflessioni sul “macchinismo” che rappresentano una straordinaria intuizione dello sviluppo che avrebbero avuto sia il rapporto tra lavoro vivo e lavoro morto sia l’impiego da parte del capitale della scienza e della tecnologia nel processo produttivo. Allorquando scrive che “il furto del tempo di lavoro altrui, su cui riposa la ricchezza odierna, appare una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa”, dimostra uno straordinario acume analitico, poiché mette a nudo la dinamica dello sviluppo capitalistico. E prevede poi la sua globalizzazione. La borghesia, osserva, “dappertutto deve ficcarsi, dappertutto stabilirsi, 418
dappertutto stringere relazioni”. I popoli vengono via via intricati nella rete del mercato mondiale fino a sviluppare il carattere internazionale del regime capitalistico. Nel suo libro “Karl Marx ovvero lo spirito del mondo”, edito nel 2006, il non marxista Jacques Attali, che fu consigliere di Mitterrand, sostiene che “nessuno prima di Marx aveva intuito l’importanza della scienza e delle comunicazioni nell’evoluzione dei rapporti sociali. Nessuno aveva compreso l’ascesa della Cina e dell’India sulla scena mondiale. Nessuno come Marx aveva esaltato il valore della democrazia parlamentare, della libertà di stampa e dell’indipendenza della giustizia. Nessuno prima di lui aveva fatto l’apologia del libero scambio e previsto la fine del colonialismo. Proprio Marx aveva sostenuto che il capitalismo è il miglior sistema economico e sociale rispetto ai sistemi che l’hanno preceduto… Marx è ancora oggi lo spirito del mondo, il sogno di un’umanità migliore, mentre il mondo si avvicina alla catastrofe economica, ecologica, militare… Marx ci insegna la forza della contraddizione, l’apertura del pensiero critico, la distinzione fra le cause e le responsabilità, la necessità che sia l’uomo al centro di tutto”. Dal canto suo, il padre gesuita tedesco Georg Sans, nel 2009, dopo aver evidenziato la necessità di distinguere le idee di Marx da quelle di Engels, ha sostenuto che le riflessioni dell’autore de “Il capitale” sul “lavoro alienante” hanno ancora valore e che “il problema dell’origine del plusvalore” non è ancora risolto. Ha concluso dicendo che “in certe cose Marx non può ritenersi superato”. Lo stesso Norberto Bobbio nel 1955 ebbe ad affermare che “chi oggi rifiuta totalmente il marxismo come aberrazione, barbarie, sconsacrazione, sappia che deve punire e rifiutare, se non vuol rinunciare alla propria coerenza, tutto il pensiero moderno; sappia che deve chiamare barbara, aberrante e sconsacrante tutta la scienza moderna, che ha messo sfacciatamente le mani sull’opera di Dio e l’ha posta al servizio dell’uomo anche per finalità non sempre nobili”. Persino Cesare Romiti, nel ’98, ha affermato che “Marx è morto come precursore di una certa ideologia, come ispiratore del modello economico del socialismo reale, ma rimarrà sempre nella storia come uno degli uomini che più hanno lottato per la dignità dell’umanità”. E anche il voltagabbana Lucio Colletti nel ‘90 ha dichiarato a “La Repubblica” che “Marx rimane il più grande pensatore sociale dell’Ottocento… Ora che assistiamo al crollo del mondo comunista, Marx esce come purificato”. In sostanza, Marx va preso in considerazione non per quel che vorremmo fosse, ma per quel che effettivamente è stato, cioè un uomo di pensiero che è vissuto nel diciannovesimo secolo e che, nonostante i suoi limiti e condizionamenti, ci ha lasciato una teoria della società tuttora valida fornendoci intuizioni e stimoli che ancor oggi sono di straordinaria attualità. Lo storico Lucio Villari nel ’90 ha sostenuto che “il crollo del socialismo reale trascina ormai con sé, come un detrito, anche il marxismo, ma è proprio la vittoria (almeno in idea) del modo capitalistico di produzione a ridare dignità allo sguardo acuto di Marx”. Ritornare a Marx, dunque, non è affatto una semplice manifestazione di nostalgia. Come ho già ricordato, occorre però fare distinzione fra la teoria marxiana e il marxismo, giacché si tratta di due concetti analoghi ma differenti che non vanno confusi tra di loro. Le responsabilità di chi si è richiamato alle tesi di Marx interpretandole in maniera errata, tradendo così il suo spirito, non possono assolutamente essere attribuite a lui. Le colpe dei discepoli non possono essere addossate al maestro. Il marxismo nasce dopo la sua morte. Per Engels “il marxismo è un metodo per l’azione”. Per Plechanov: “è una concezione del mondo. In sintesi, è il materialismo contemporaneo che rappresenta l’attuale più alto grado di quella concezione del mondo le cui basi erano state gettate nell’antica Grecia”. Per Lenin “l’essenza del marxismo’ è l’analisi concreta della situazione concreta”. Ai suoi occhi il marxismo coincide con la realtà. Per Sartre rappresenta “il tentativo più radicale d’illuminare il processo storico nella sua totalità, cioè nell’aver posto fine alla ‘incoscienza’ di tutta la storia precedente”. Per Adam Schaff “il marxismo muove lungo l’ampia strada dello sviluppo storico dell’idea socialista, che è un’idea della felicità umana; è umanesimo radicale e umanesimo in lotta, poiché considera l’uomo come sommo bene e indica la via che permette di superare quei rapporti sociali dove – come scrisse il giovane Marx – l’uomo è un 419
essere umiliato, asservito, alienato, disprezzato”. Per Hobsbawm – è la teoria critica della società, la consapevolezza “di ciò che gli uomini possono fare come soggetti e costruttori di storia e di ciò che non possono fare in quanto oggetti di storia”. Nonostante queste nobili interpretazioni, l’esperienza storica ci ha testimoniato che da “vera e nuova scienza della società”, il marxismo si è tradotto in metafisica, in religione, addirittura come strumento di costruzione di in sistema sociale repressivo della libertà e della creatività degli uomini, cioè nel contrario di quanto postulava la teoria marxiana. Con il trascorrere del tempo esso si è deteriorato sia nella teoria che nella pratica applicazione. Da critica di tutta la filosofia e da metodo di analisi economica, sociologica, psicologica ed estetica si è tradotto in ideologia. Da scienza che doveva essere rielaborata in continuazione si è trasformato in dogma. Anziché sottoporsi a verifica permanente si è elevato a giudice senza appello divenendo agente repressore di qualsiasi altra forma di espressione. Avrebbe dovuto esaltare la forza creativa e l’autonomia di ogni singolo, quale soggetto insopprimibile del processo storico, ed è invece divenuto materia di indottrinamento dei popoli trasformando il sapere assoluto in comandamenti. Anziché rappresentare la più alta forma di umanesimo, si è rivelato una delle più odiose forme di convivenza umana che l’era moderna ci ha fatto conoscere. In conclusione, Marx è stato assunto acriticamente e l’essenza della sua teoria è stata smentita dai comportamenti dei suoi stessi adepti e dai fatti. Ora si pone con forza la necessità di una radicale autocritica di ciò che è stato fatto in suo nome. La teoria marxiana non è un corpo di dottrina, ma un metodo di analisi, di ricerca e di azione che va dal concreto all’astratto per ritornare al concreto. Si deve partire dal presente per capire il passato, dall’essere vivente per capire l’embrione e viceversa. Il suo è un modo di pensare sempre aperto a nuove acquisizioni, sempre pronto a mettere in dubbio quello che è già acquisito; è presa di coscienza e di conoscenza della realtà, metodo di indagine scientifica dei processi che determinano l’esistenza dell’uomo, siano essi di ordine materiale che spirituale. Nella tradizione marxista tutto questo è andato perduto fino al punto di negare l’evidenza. Da considerarsi fallito dunque non è il pensiero di Marx, ma la caricatura che ne hanno fatto i suoi eredi. Nella storia del pensiero, il teorico del socialismo scientifico è e resta un grande perché con lui, come diceva Gramsci, ha avuto “inizio intellettualmente un’età storica”. Egli ha dato coscienza all’uomo di quello che è, non di quello che vorrebbe essere e non sarà mai. Gli ha fornito un grande principio: la storia è creata dall’uomo stesso ed è un processo unitario pratico-teorico che dura quanto la vita dell’umanità. Mentre la religione pone la realizzazione dell’uomo in un aldilà, egli l’ha posta in un al di qua. Se per la religione il tutto cui ogni cosa si riferisce è la divinità, per lui ad essere centrale è l’umanità. Prima di lui gli storici si limitavano a scrivere una storia ridotta agli avvenimenti politici e alle idee religiose e filosofiche. Con lui la storia politica e la storia delle idee sono diventate storia di rapporti dell’uomo con la natura e di conflitti tra le diverse classi sociali. Egli ha scoperto l’importanza fondamentale della funzione del lavoro nello sviluppo dell’umanità. E per tutte queste ragioni è da annoverare tra i grandi uomini che hanno segnato le tappe più significative dell’emancipazione umana, al pari di Epicuro, Platone, Socrate, Aristotele, Agostino, Kant, per citarne solo alcuni. Altro suo grande merito è quello di essersi schierato a difesa dei più deboli. La sua passione umana e il suo disprezzo per i soprusi e la prepotenza lo hanno sospinto dalla parte delle masse povere e l’hanno fatto diventare l’alfiere della lotta contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La sua grandezza sta nell’aver indicato alle classi lavoratrici, in termini scientifici, le cause del loro stato di subordinazione ai processi economici, sociali, culturali e politici e nell’aver tracciato il percorso della loro possibile emancipazione. In lui c’è l’idea di rivoluzione come produttrice di felicità e di uguaglianza, c’è l’idea di una potenziale fraternità del genere umano. In occasione della sua morte, Friedrich Engels ha voluto ricordarlo con le seguenti parole: “Così come Darwin ha scoperto la legge dello sviluppo della natura organica, Marx ha scoperto la legge
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dello sviluppo della storia umana… gli uomini devono innanzitutto mangiare, bere, avere un tetto e vestirsi, prima di occuparsi di politica, di scienza, d’arte, di religione.. Ma non è tutto, Marx ha anche scoperto la legge peculiare dello sviluppo del moderno modo di produzione capitalistico e della società borghese da esso generata. Per lui la scienza era una forza motrice della storia, una forza rivoluzionaria. Marx era perciò l’uomo più odiato e calunniato del suo tempo”. La teoria e il metodo di conoscenza sociale marxiani sono i più avanzati che siano mai stati pensati e sperimentati e per essere onorati esigono dai suoi eredi non compiacimento, ma capacità critica, rigore intellettuale e creatività. 12.6 – Ritornare a Marx per aggiornare la sua elaborazione Il “buco nero” dei marxisti è costituito dal non essersi dimostrati all’altezza di continuare e sviluppare il lavoro analitico e teorico iniziato da Marx. Salvo qualche eccezione, essi si sono alimentati del suo pensiero limitandosi a interpretare e spiegare le sue analisi e le sue teorie senza preoccuparsi di aggiornarle rispetto all’evoluzione dei tempi. Non si sono sforzati di comprendere fino in fondo i mutamenti nei modi di produzione e di distribuzione della ricchezza e non hanno saputo cogliere le nuove dinamiche del conflitto sociale rimanendo di fatto succubi del dominio del capitale. Come soleva dire Lenin, Marx “non ci ha fornito che le pietre angolari”, ma queste pietre non sono servite ai suoi fautori per tracciare la strada che porta alla costruzione di un’autentica società socialista. Non per caso la rivoluzione in Occidente non si è mai realizzata. Qualche anno dopo il crollo del socialismo reale Aldo Zanardo si è interrogato sulla “sparizione” dei marxisti e di quel fenomeno ha dato la seguente spiegazione: “Perché nel marxismo c’è debolezza di analiticità: scarsa saldatura ai saperi scientifici; esplorazione sommaria del diverso che costituisce l’uomo, la società, la natura. E poi c’è molto di semplificatorio e di riduttivo”. In effetti, la sua diagnosi appare plausibile. Basti considerare che i militanti del movimento comunista che sanno cos’è la legge del valore e sono in grado di spiegare alle classi subalterne che cosa è il pluslavoro sono pochissimi. Rispetto poi alla concezione marxiana del mondo non solo il proletariato, ma lo stesso soggetto rivoluzionario è rimasto prigioniero dell’idealismo e del dogmatismo, sopravvivendo senza mostrare grande disagio in quello stato di alienazione che Marx considerava la grave malattia dell’umanità dell’epoca del capitalismo. Mentre bisognava non avere alcuna remora nel mettere in discussione lo stesso pensiero di Marx, i suoi discepoli, al contrario, hanno tramutato i suoi scritti in testi sacri. Alla fine degli anni ’70, Louis Althusser ha così commentato questo tramonto del pensiero criticodialettico e della creatività comunista: “La crisi del marxismo (consiste nel fatto che) qualche cosa si è spezzato nella storia del movimento operaio, qualche cosa è intervenuto a romperne la continuità. E’ un fatto. Difficile tenere assieme l’Ottobre 1917, e l’enorme ruolo della rivoluzione sovietica, e Stalingrado, con gli orrori di Stalin e il regime oppressivo di Breznev. Se non si sa più come tenere unito il passato col presente, vuol dire che nella coscienza delle masse non c’è più un ideale realizzato, un ideale vivo. Ma la crisi del marxismo ha un secondo significato. Giacché non solo qualche cosa si è spezzato nella storia del movimento operaio, non solo l‘Urss è passata da Lenin a Stalin a Breznev, cosa già grave, ma ciò che è non meno grave, le organizzazioni di lotta di classe marxiste non hanno dato di questa storia drammatica nessuna spiegazione. Più grave ancora appare la quasi impossibilità di fornire una spiegazione marxista della storia che è stata fatta in nome del marxismo… più che una debolezza è una crisi della teoria… dove ‘teoria’ designa l’articolazione d’insieme della stessa pratica politica. Ci troviamo di fronte alla necessità vitale di rivedere una certa idea dei nostri autori e maestri, sulla quale abbiamo riposato troppo a lungo”.
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Vent’anni dopo Gianfranco La Grassa ha asserito: “La teoria di Marx resta comunque la più avanzata teoria critica dell’attuale formazione sociale, tuttavia essa non può più rendere conto in modo adeguato della sua struttura e dinamica essenziali. E’ necessario non rivedere semplicemente il suo sistema teorico, ma fuoriuscire da esso senza per questo rinnegarlo”. Il problema dei limiti dell’interpretazione della storia e delle conseguenti scelte di lotta da fare, infatti, non è da attribuire ai limiti della teoria marxiana, ma sta in noi stessi, nella nostra incapacità di elaborare una strategia all’altezza dei tempi. L’esigenza, appunto, era e resta quella di ritornare a Marx per andare oltre Marx. Per tutti coloro che si sono formati nei movimenti comunisti, le parole “revisione” e “revisionismo” hanno significato abbandono o addirittura travisamento della teoria marxiana. Eppure, il ripensamento delle sue basi era e resta un elemento fondamentale del pensiero critico-dialettico e per la realizzazione di una società socialista si rivela imprescindibile. La stagnazione teorica si supera soltanto con un rinnovamento del marxismo, assumendo la sua crisi non come barriera entro cui asserragliarsi in difensiva, ma come motivazione per rilanciare l’analisi e l’elaborazione. Poiché la storia propone a ogni passo problemi inediti, non ha alcun senso ripetere a noi stessi le brillanti idee dei marxisti più illustri e limitarsi ad adulare il loro pensiero. Il nostro è un periodo storico molto diverso da quello in cui la praxis marxiana ha preso corpo, e proprio per questo torna utile interrogarsi su cosa non ha funzionato nelle cose e negli uomini. Ci si deve cioè apprestare a svolgere un lavoro enorme sia scientifico che politico. Dalle idee di Marx si può imparare ancora molto senza necessariamente restare agganciati all’itinerario che egli ha seguito nell’elaborarle. Come ci ha insegnato Antonio Labriola, “essendo il marxismo una scienza critica, essa non può essere continuata, applicata e corretta se non criticamente”. Torna pure utile rivedere il dibattito a riguardo del revisionismo di Kautsky e di Bernstein e riconsiderare l’intera esperienza storica del movimento operaio avendo la consapevolezza che, rispetto ai tempi di Marx e delle generazioni a lui immediatamente successive, i rapporti sociali delle realtà capitalistiche si sono enormemente complicati. Insomma, occorre studiare a fondo sia il passato che il presente ricorrendo ai moderni strumenti di analisi e di conoscenza. Appare anzitutto necessario rimediare a uno dei danni che il marxismo al potere ha prodotto, quello cioè di aver pietrificato l’idea del capitalismo. Marx ha presentato “Il capitale” come critica dell’economia politica, noi dobbiamo ripartire dal punto in cui egli si è arrestato, dobbiamo cioè svolgere una critica dell’economia e della politica imposte non solo dall’ideologia e dalla pratica borghese, ma dalla stessa prassi delle espressioni politiche e sociali della sinistra. Oggi più che mai nei Paesi a sviluppo avanzato si avverte la necessità di rielaborare una nuova progettualità rivoluzionaria. E se è pur vero che una ripresa o rinascita del modello sovietico non è né possibile né desiderabile, poiché occorre pensare ad altri modelli di socialismo, nel compiere questo rinnovamento non va dimenticato che la stessa esperienza compiuta nelle società del socialismo reale ha costituito un interessante laboratorio per la transizione; ci ha insegnato quel che non si deve fare. Ed è anche per tale ragione che quell’esperienza va studiata a fondo e interpretata. Occorre saper fare, in sostanza, una nuova grande sintesi dello sviluppo e del funzionamento del sistema capitalistico e individuare il ruolo che ricopre nel corso storico moderno. Una delle tare degli economisti e dei politici marxisti è che hanno vissuto di rendita sulla teoria marxiana; è mancato un aggiornamento dell’analisi del meccanismo di accumulazione del capitale senza la quale non è possibile fornire risposte vincenti ai fini della transizione. Non si tratta semplicemente di restaurare principi ignorati o censurati, o di correggere storture interpretative, o ancora di riscoprire teoricamente il nesso smarrito, ma si tratta di costruire una nuova teoria e di dare corso a una nuova sperimentazione. La teoria deve diventare prassi da sottoporre a costante verifica. Per dirla con una metafora, occorre riscrivere “Il capitale” e tradurlo immediatamente in azione politica. Operazione questa di certo non facile, ma che rispetto al passato, data la crisi economica, sociale e culturale che investe l’intero pianeta, oggi incontra condizioni oggettive favorevoli per essere compiuta con successo. Se un secolo e mezzo fa, per studiare natura e caratteri del capitalismo, 422
Marx ed Engels hanno impiegato la loro intera esistenza, oggi una rilettura della sua evoluzione può essere portata a termine in tempi assai rapidi da un soggetto collettivo. Le risorse ci sono, basta metterle al lavoro. Il “bisogno di comunismo” evocato ancora di recente da alcuni esponenti della sinistra, più che nella soggettività degli uomini, trova giustificazione nei processi materiali e questo deve rappresentare per i marxisti un ulteriore motivo di sprone per compiere finalmente l’auspicato salto di qualità. Quasi un secolo fa, Antonio Gramsci ha sostenuto che “il comunismo è il prossimo domani della storia degli uomini”; recentemente il filosofo del linguaggio Felice Cimatti ha profetizzato nel comunismo “il futuro biologico della specie umana”. Chi è convinto della giustezza di queste affermazioni, è chiamato a dare loro concretezza.
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Capitolo 13°
La rivoluzione continua del capitale 13.1 – La tesi del crollo imminente del capitalismo Tra fine dell‘800 e i primi del ‘900 nel movimento operaio si è determinata una profonda frattura tra i marxisti cosiddetti “ortodossi” e i “revisionisti”. Elemento del contendere sono state le sorti del capitalismo, cioè l’interpretazione da dare alla teoria della crisi formulata da Marx. Mentre gli ortodossi associavano alla caduta tendenziale del saggio di profitto l’idea di un capitalismo dal destino inesorabilmente segnato, minato dalle sue inguaribili e mortali contraddizioni, i secondi sostenevano la tesi di una sua espansività indefinita e di un’assoluta stabilizzazione. Questi ultimi ritenevano che per realizzare il socialismo non si dovesse avere fretta e non ci fosse bisogno di prepararsi a situazioni di emergenza: tutto avrebbe potuto essere aggiustato gradualmente senza violenza alcuna. Le due posizioni erano inconciliabili, anche se le ragioni addotte sia dall’una che dall’altra parte diversificavano. Mentre Paul Lafargue teorizzava che le crisi di sovrapproduzione erano destinate a essere sempre più acute e individuava nel sottoconsumo operaio la causa della generalizzazione di queste crisi, Franz Mehring intravedeva nella politica imperialistica il tentativo della borghesia di rinviare il momento del crollo, anche se pure lui giudicava morente la politica mondiale del capitalismo. Eduard Bernstein vedeva invece nella teoria del crollo economico del capitalismo un punto morto del marxismo teorico e lo attaccava decisamente da posizioni di destra, mentre Karl Kautsky riteneva che dopo l’imperialismo ci sarebbe stata una nuova fase di sviluppo del capitale e la socialdemocrazia sarebbe stata chiamata a misurarsi con l’avversario sul terreno della lotta democratica. Egli ipotizzava che nella fase successiva all’internazionalizzazione del capitale, quella cioè dell’“ultraimperialismo”, ad opera della sua componente finanziaria si sarebbe verificato uno sfruttamento collettivo del mondo. Al congresso di Chemnitz della socialdemocrazia tedesca, che si è svolto nel 1912, Hugo Haase ha sostenuto che “l’imperialismo sarà il becchino del modo di produzione capitalistico. Il capitalismo, raggiunto il culmine del suo sviluppo, si rovescia in socialismo”. A dire invece di Michail TuganBaranovskij, il capitalismo avrebbe anche potuto non andare incontro al collasso per ragioni economiche, sebbene la sua fine avrebbe potuto scaturire da ragioni etiche. L’idea di un probabile sviluppo continuo del capitalismo era sostenuta anche da Rudolf Hilferding. Di particolare interesse è apparsa la posizione di Rosa Luxemburg. In “L’accumulazione del capitale ” essa ha sostenuto che nessun economista non era mai stato in grado di dimostrare la possibilità dell’accumulazione in un sistema capitalistico chiuso, perché in realtà questa evenienza non si era fino allora verificata. A suo avviso, il capitalismo avrebbe potuto vivere ed espandersi solo in un ambiente non capitalistico, il solo in grado di garantire ai capitalisti una domanda effettiva di plusvalore e di metterli così in grado di accumulare. Espandendosi, il capitalismo era a suo avviso destinato a consumare e distruggere il suo spazio vitale non capitalistico, finendo così di rendere impossibile la sua stessa esistenza.“Vista storicamente – ha scritto Luxemburg – l’accumulazione del capitale è un processo di ricambio organico svolgentesi fra il modo di produzione capitalistico e quelli non-capitalistici. Senza di essi l’accumulazione del capitale non può effettuarsi”. Mentre la crescente anarchia dell’economia capitalistica avrebbe reso inevitabile la sua rovina, la progressiva socializzazione del processo di produzione avrebbe creato le premesse positive per il futuro ordine sociale. Ha quindi pronosticato che allorquando il capitalismo avrà formato il mondo a sua immagine, allora esso sarà giunto alla sua morte. Alla luce di questa tesi della Luxemburg, dopo la “globalizzazione”, il capitalismo dovrebbe tramontare sia per l’impossibilità economica del sistema di sopravvivere, sia per la conseguente disgregazione dell’equilibrio socio-politico. 424
In “Tesi sui compiti della socialdemocrazia internazionale” ha poi precisato: “L’imperialismo costituisce l’ultima fase di sistema e l’estrema manifestazione del dominio politico mondiale del capitale”. Anche per Lenin, dopo la fase dell’imperialismo al capitalismo avrebbe dovuto subentrare inevitabilmente il socialismo. In “Osservazioni critiche” egli ha scritto: “Il capitalismo innesca una tendenza storico-mondiale... a spezzare le barriere nazionali, a cancellare le differenze nazionali, ad assimilare le nazioni”, il che “costituisce uno dei fattori principali della trasformazione del capitalismo in socialismo”. Di fronte all’esplodere della guerra mondiale egli si è convinto che il capitalismo era ormai giunto alla sua crisi finale a causa del processo di “putrescenza” che lo ha aveva investito e del conseguente diffondersi del “parassitismo”. All’indomani del primo conflitto mondiale era convinzione della maggior parte dei comunisti russi, Trotzkij compreso, che la società borghese avesse ormai esaurito le sue potenzialità e che le forze produttive non avessero più alcuna possibilità di svilupparsi entro i confini della società capitalistica. Nel ’21, allorquando i contrasti fra le potenze capitalistiche, anziché attenuarsi hanno registrato un andamento in crescendo, Trotzkij ha avuto un ripensamento e ha confessato: “Nel 1919, dicevamo a noi stessi ‘è una questione di mesi’, ora diciamo ‘è forse una questione di anni’”. Nel ‘27, però, scrivendo “La Terza Internazionale dopo Lenin” ha affermato: “La nostra è l’epoca del più alto sviluppo e dell’agonia del capitalismo”. L’interpretazione staliniana delle sorti dell’Occidente può essere così sintetizzata: crisi generale del capitalismo attraverso un restringimento del mercato mondiale, disoccupazione permanente di massa, diminuzione della capacità d’acquisto delle masse e peggioramento del loro livello di vita, deformazione del ciclo economico caratterizzata dall’accorciamento dell’intervallo tra una crisi e l’altra e da un aggravamento delle crisi stesse, ricorso al fascismo e alla guerra tra gli stessi paesi capitalistici con particolari tensioni fra Inghilterra e Usa. In “Problemi economici del socialismo nell’Urss”, scritti nel ’52, i quali costituiscono il suo testamento politico, Stalin ha ritienuto impensabile che si potesse costituire un mercato capitalistico internazionale integrato, poiché considerava ormai prossima la crisi generale del capitalismo. La sua cecità di fronte a quanto stava accadendo nelle società dell’Occidente, rappresenta anche una delle ragioni dell’accusa che egli ha rivolto alla socialdemocrazia di “socialfascismo” nella seconda metà degli anni ’30. Di orientamento differente è stato Bucharin il quale ha criticato gli eccessi nella sopravvalutazione “della tendenza parassitaria di degenerazione del capitalismo” e ha evocato invece il capitale finanziario e il capitalismo di Stato. A pronunciarsi contro la teoria del crollo è stato anche l’economista ungherese Eugen Varga che ha avuto il merito di aver previsto nel ’25 la crisi del ’29. Mentre a metà degli anni ’30 ha scritto che “la crisi mondiale crea oggi le premesse non solo economiche, ma anche politiche della crisi rivoluzionaria e della guerra mondiale”, e all’indomani del secondo grande conflitto ha sostenuto che il capitalismo presentava alcuni caratteri nuovi che determinavano una stabilizzazione del sistema. A lui e a chi non condivideva la teoria del crollo si è contrapposto il dirigente comunista americano W.Z.Foster il quale, nel ’49, in “Il crepuscolo del capitalismo” ha sostenuto: “Oggi, nel periodo della generale decadenza del capitalismo, le crisi cicliche economiche prendono l’aspetto di veri e propri cataclismi…Il prossimo ed inevitabile crac economico che avrà il suo epicentro negli Stati Uniti, sarà originato dal fatto che la produzione americana, resa elefantiaca dagli eventi bellici, ha di gran lunga sorpassato la capacità di consumo degli arretrati mercati capitalistici interni ed esterni…. Le capacità produttive delle industrie americane sono divenute tanto grandi che non esiste modo di vendere le montagne di generi di consumo di ogni specie attraverso le normali vie commerciali. Il futuro del capitalismo appare oscuro ed incerto al nostro popolo e tutti sentono di vivere come sugli orli di un vulcano… Oggi il capitalismo non è più capace di dare un impulso alla produzione e ne è divenuto anzi un ostacolo… l’immiserimento delle masse in Europa, in Asia, nell’America Latina ed in altre parti del mondo è crescente. Il capitalismo europeo non ha alcuna possibilità di rimettersi in sesto. L’umanità è irresistibilmente sulla via del socialismo”.
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Anche Henryk Grossmann è entrato in polemica con la maggioranza della socialdemocrazia che ha adottato come programma la tesi della crescita capitalistica e della socializzazione progressiva. Egli ha sostenuto: “Non si ottiene sufficiente plusvalore per prolungare l’accumulazione, mantenendo il medesimo tasso di accumulazione, e di qui deriva la catastrofe”. A formulare la previsione della decadenza e della scomparsa del capitalismo è stato pure Schumpeter. Sempre nel ’49 Paul M. Sweezy ha scritto su “Monthly Review”: “Se il capitalismo non ha potuto impedire lo sviluppo del socialismo quando era fiorente e dominava da solo il campo, come si può ritenere che sia in grado di farlo ora, che è mortalmente ammalato e sfidato da un sistema socialista effettivamente funzionante e che cresce di forza e di vigore ogni anno che passa?”. Per Sweezy, l’unico vero nemico del capitalismo era il capitalismo stesso. “Proprio i suoi conflitti interni lo porteranno alla disgregazione e favoriranno in forme violente, e in una fase ulteriore di rafforzamento del sistema socialista anche in forme pacifiche, il passaggio al socialismo”. Egli considerava peraltro la classe operaia dei Paesi del capitalismo monopolistico pienamente integrata e riteneva che la spinta liberatrice sarebbe venuta dalle campagne del “terzo mondo” e dalle sacche di emarginati nelle metropoli. Sweezy non aveva dubbi, a suo giudizio il socialismo risultava sicuramente vincitore nella grande contesa con il capitalismo. Persino l’acuto economista Maurice Dobb, in “Teoria economica e socialismo”, scritta nel ’54, ha sostenuto che “oggi, con il potenziale produttivo americano enormemente dilatato, l’ampiezza e le ripercussioni di una nuova crisi nel resto del mondo capitalistico (ormai scosso) potrebbero benissimo eclissare quelle della crisi del 1929-31. E il momento del declino può benissimo giungere rapidamente”. Lo stesso Cominform, la cui costituzione era stata imposta dalla “guerra fredda”, fondava sulla convinzione che la crisi generale del capitalismo era prossima. Pure il Pci togliattiano fece sua la tesi del crollo. Nel ‘55 è stato lo stesso leader del partito a sostenere che in Italia il capitalismo era “ormai all’estremo grado di maturazione”. Solo dopo il XX congresso del Pcus, a partire cioè dal ‘56, la tesi del crollo si rintraccia sempre più raramente nei documenti ufficiali dei partiti comunisti. E solo nel ’79 si ammette solennemente che nonostante la grave crisi che investe l’economia capitalistica, il sistema capitalistico è in grado di continuare a svilupparsi. A farlo è stato Nicolay Inozemtsev, relatore alla “Conferenza teorica internazionale” che si è svolta a Mosca. Nonostante ciò però, mentre nella socialdemocrazia si è continuato a credere in un passaggio spontaneo e indolore dal capitalismo al socialismo, nella sinistra comunista la tesi del crollo è scomparsa nella sua tradizionale formulazione, ma è rimasta viva nella cultura sia dei dirigenti che dei militanti. Nella “Breve storia dello Stato unitario” edita dalle Scuole di partito comuniste, nel ’60, in riferimento al periodo metà anni ’20 - primi anni ’30, era scritto che “il mondo capitalista è già entrato nella sua crisi generale... è scosso dalle crisi cicliche e lacerato dalle acuite contraddizioni... Oggi il socialismo ha vinto su di un terzo del mondo”. Negli stessi anni ’60 nei deliberati ufficiali della direzione del partito veniva ribadito che, con o senza il governo di centrosinistra, il capitalismo italiano non sarebbe mai stato capace di venire a capo delle sue contraddizioni. Nel luglio del ’69, Achille Occhetto ha proclamato che “il marxismo e il leninismo sono oramai vittoriosi nella critica al capitalismo”. L’economista di partito Ruggero Spesso in “Critica marxista” ha sostenuto che “la rivoluzione keynesiana è giunta a un’impasse: frequenti e diffusi sono i rilievi pessimistici circa la possibilità del sistema capitalistico di uscire dal dilemma inflazione o deflazione”. E negli anni ’70 lo stesso Enrico Berlinguer ha affermato che il capitalismo europeo versava “in una crisi profondissima di strumenti, di prospettive e di idee”. Il convincimento del crollo era in ogni modo ancora vivo in tutti gli ambienti comunisti. Il cecoslovacco Ota Klein, nel ’68 ha scritto: “Il limite del capitale è il capitale medesimo. Si può affermare che nella misura in cui gli investimenti nella scienza, nella cultura, nell’uomo diverranno 426
economicamente più redditizi degli investimenti classici in beni capitali, si delineerà una crisi profonda del sistema capitalistico… la rivoluzione tecnico-scientifica acutizzerà all’estremo le contraddizioni del capitale, proprio minando l’intero funzionamento della legge del valore e del processo di accumulazione capitalistica”. Nei primi anni ’70 un documento ufficiale del Partito comunista cinese recitava: “La lotta a morte tra le forze rivoluzionarie e le forze controrivoluzionarie contemporanee è una manifestazione dello sconvolgimento del nostro mondo, nel corso del quale il vecchio mondo dominato dall’imperialismo va verso il crollo e il nuovo mondo socialista marcia verso la vittoria. In questa lunga lotta, il capitalismo, il colonialismo e l’imperialismo si indeboliscono e vanno verso la rovina, mentre i popoli rivoluzionari e le nazioni oppresse delle colonie si sviluppano e avanzano verso la vittoria. Questa è la dialettica della storia. Il capitalismo è votato alla sconfitta, mentre il socialismo riporterà sicuramente la vittoria. Anche se all’inizio deboli, le forze rivoluzionarie dei popoli sono invincibili poiché rappresentano la tendenza dell’evoluzione storica”. L’illusione del crollo del capitalismo erra talmente radicata nel movimento comunista che ancora nel ’98 Fidel Castro si è sentito legittimato a sentenziare: “Il capitalismo è condannato a scomparire nei prossimi cento anni”. Le stesse componenti della “nuova sinistra”, all’indomani della crisi energetica del ’73, parlavano di decadenza del capitalismo. Ricordo di essere stato io stesso protagonista, nel ’74, di una campagna d’orientamento dei militanti de “il manifesto” la quale presupponeva diventasse inevitabile porre una stampella al capitalismo per evitare che il suo crollo si riversasse drammaticamente sulla condizione delle classi subalterne. Nel ’79, sulle colonne di quel quotidiano si è sviluppata una riflessione sul capitalismo in crisi i cui interlocutori sono stati Andrè Gunder Frank e Samir Amin. Mentre i due specialisti delle questioni internazionali, paventavano il susseguirsi di rivolgimenti, anche radicali, dell’assetto del mondo capitalistico, i quali sarebbero stati destinati ad accentuare le contraddizioni, senza peraltro dare luogo a condizioni, anche locali, di tipo rivoluzionario, “il manifesto”, pur rigettando la teoria del crollo, sosteneva che lo sbocco della crisi sarebbe sfociato in una rottura rivoluzionaria nei Paesi della “periferia del centro” appartenenti all’area industrializzata, come l’Italia. L’ipotesi era fondata sul convincimento di una “maturità del comunismo”. Tre lustri dopo, Franco Giordano, prestigioso esponente di Rifondazione comunista, ha scritto su “Liberazione”: “Ci troviamo paradossalmente ad un punto limite delle contraddizioni del capitalismo che naviga con sempre maggiore difficoltà fra crisi di sovrapproduzione e crisi dei mercati”. E alle soglie del nuovo millennio erano in molti i “rivoluzionari” a essere convinti che la crisi dell’“Impero” era ormai imminente. E’ trascorso oltre un secolo da quanto nel movimento operaio si sono affermate, da un lato, la teoria del crollo imminente del capitalismo, dall’altro, quella di una sua stabilizzazione e del conseguente passaggio indolore a una società socialista, eppure il sistema non si è affatto dileguato. Anzi, non solo ha assoggettato alle sue leggi l’intero pianeta, ma ha continuato a condizionare in maniera sempre più pregnante il movimento operaio e lo schieramento delle forze di sinistra. Non è forse giusto riflettere a fondo su queste errate interpretazioni e buttare finalmente a mare qualsiasi residuo di schematismo e di superficialità analitica che ancora contrassegnano la cultura della sinistra? E’ questo un gesto autocritico che a mio avviso va compiuto con estrema determinazione, anche perché in Marx non vi è assolutamente traccia di teorie che contemplino né l’esaurimento automatico né la stabilizzazione del capitalismo. Ritengo utile ripeterlo ancora una volta, egli ha solo evidenziato la caduta tendenziale del saggio di profitto, sottolineando che essa è contrastata da un insieme complesso di controtendenze. Infatti, nel 3° libro de “Il capitale” egli precisa che “la crisi ciclica è il modo in cui il capitale vive e si riperpetua, perché alla caduta del saggio di profitto sono legati tre fattori di ristrutturazione: l’internazionalizzazione dei mercati, l’uso diretto della scienza nella produzione e la concentrazione di capitali in poche mani”.
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Un motivo di meditazione critica ce lo offre lo stesso Engels quando nelle sue varie corrispondenze scrive: “Prevedo che nei prossimi otto-dieci anni (cioè verso la fine secolo) avremo conquistato alla nostra causa abbastanza giovani tecnicamente preparati, tanti medici, giuristi, maestri, da poter affidare a compagni l’amministrazione delle fabbriche e dei grandi beni del paese... Se ciò non accadesse la vecchia società borghese potrebbe continuare a vegetare ancora per qualche tempo; finché un colpo dall’esterno non la schiantasse. Una casa così vecchia e fradicia può sopravvivere di qualche secolo alla propria morte interiore e sostanziale, se le arie restano tranquille”. Purtroppo, va preso atto che in tutto questo tempo la sinistra non ha saputo contrastare adeguatamente le risorse rigenerative del capitalismo. L’idea che esso fosse arrivato alla frutta, come molti speravano, si è rivelata un autentico abbaglio. Si pensi al fatto che la crisi della Borsa di New York del 1987, che per intensità è stata di grado superiore a quella del ‘29, non ha affatto prodotto gli effetti catastrofici che ci si poteva attendere. Questo dovrebbe suggerire cautela a chi oggi ripone le speranze in un disfacimento del capitalismo a seguito della recente crisi provocata dal collasso finanziario statunitense. Dietro il riformismo comunista ha albergato troppo a lungo un catastrofismo economicista. La tesi del crollo finale del capitalismo è sopravvissuta purtroppo sulla base di una lettura del tutto semplicistica degli schemi di riproduzione marxiani. Gli economisti di sinistra si sono impegnati ad aggiornare e aggiustare taluni aspetti dell’analisi di Marx sul sistema del capitalismo, ma non hanno mai tradotto questi aggiustamenti in suggerimenti ai fini della messa in campo di nuove linee politiche e di strategie adeguate. Le dirigenze del movimento, a loro volta, hanno sempre privilegiato l’azione politica all’analisi e all’elaborazione teorica. Esse non hanno meditato a sufficienza sul fatto che nel corso delle sue ricorrenti crisi, la società borghese si riorganizza, si ristruttura, non per destabilizzarsi ulteriormente, ma proprio per portare il suo sistema di dominio fuori della zona pericolosa della crisi. La crisi è una condizione naturale del capitalismo, non la sua fine: il capitalismo si nutre di essa esportandola dai luoghi della produzione alla società nel suo complesso. Il pensiero operaio ha sempre oscillato tra due immagini del capitale colte nell’analisi di Marx e di qui riflesse nella realtà: o sviluppo o catastrofe; o crescita delle forze produttive o blocco dei rapporti di produzione. Di fatto succede che ogni punta acuta della crisi capitalistica mette in moto cause e influenze antagonistiche che consentono al sistema di evitare il rischio di una crisi generale. Si è altresì fatto un uso improprio del termine “crisi” e nell’interpretare lo sviluppo del capitalismo si è ricorso a una concezione stadiale (libera concorrenza-monopoli-monopolismo di Stato-capitale multinazionale-globalizzazione) che ha semplificato la complessità dei processi e favorito una visione distorta della realtà suscitando una speranza (la fuoriuscita dal sistema) la quale è stata puntualmente smentita dalla storia. La riflessione critica deve essere pertanto condotta s fondo e ad ampio raggio. 13.2 – La nascita e lo sviluppo del sistema capitalistico Mentre, per oltre un secolo, i marxisti sono stati in attesa di un imminente crollo del capitalismo e del conseguente arrivo del socialismo, il capitale ha realizzato la sua rivoluzione conquistando l’intero pianeta. Al fine di tentare di comprendere le ragioni di questa grave miopia di chi si era posto l’obiettivo di un’alternativa al sistema, credo sia utile richiamare schematicamente i momenti essenziali del processo di nascita e di evoluzione del capitalismo. Il termine “capitalismo” appare nella letteratura molto tempo dopo il suo avvento; esso viene usato per la prima volta da William Makepeace Thackeray nel 1854, nel romanzo “The Newcomes”. Dopo di che lo si trova nei testi dei riformisti inglesi e francesi e nell’epistolario di Karl Marx. Il sistema economico del capitale ha difatti origine molti secoli prima. Vi sono studiosi che intravedono tracce di organizzazione capitalistica addirittura nell’antica Babilonia, altri nell’antichità classica greco-romana. Di certo sappiamo che il processo di ascesa del capitalismo industriale è lento e tortuoso e che si svolge lungo almeno sette-otto secoli, 428
precisamente dai primi del 1000 al 1800. Alcuni studiosi situano la sua nascita nell’XI secolo, altri nel XII. L’origine del capitalismo in Italia viene fatta risalire al XIII secolo. Nei “Grundrisse” Marx sostiene che già nel XIII e nel XIV secolo talune attività, come la tessitura, venivano svolte su larga scala. Egli ha periodizzato le diverse tappe dello sviluppo del modo di produzione capitalistico in Europa fra il XV e il XIX secolo. Alcuni studiosi fissano la sua nascita precisamente nel periodo che va dal 1440 al 1690 e suddividono questo processo in tre fasi: la prima, quella del Rinascimento che va dal 1440 al 1540; poi la fase delle guerre di religione dal 1540 al 1650 e infine la fase della restaurazione dal 1650 al 1690. Si tratta di periodi non contrastanti fra loro, tutti appartenenti al processo di trasformazione dell’economia feudale in economia capitalistica. Il processo di nascita e di crescita del nuovo sistema è lento, per nulla lineare e si realizza attraverso aspre battaglie politiche, religiose e culturali. Il passo decisivo verso l’industrialismo avviene nei secoli XIV e XV, quando cioè la dissoluzione del feudalesimo è già avanzata e la suddivisione dei mestieri incomincia a svilupparsi su larga scala. Nel XV secolo il modo di produzione capitalistico è ancora ai suoi inizi: esiste qua e là nell’agricoltura e nelle attività industriali in modo sporadico e subordinato. I mutamenti si fanno radicali nel XVI secolo quando il capitalismo si coniuga con la scienza moderna. Il trionfo della borghesia avviene intorno alla metà del seicento, quando essa riesce a imporre il proprio sistema nei paesi più progrediti, cioè in Gran Bretagna e in Olanda. Prima di assicurarsi il controllo di tutta Europa passeranno altri due secoli. La nascita del capitalismo nel vecchio continente coincide con la comparsa del colonialismo moderno. Nel 1415, i colonialisti portoghesi occupano Ceuta, in Marocco, e lì stabiliscono il primo punto d’appoggio coloniale del mondo. Scendono poi verso la parte meridionale del continente africano e fondano molte colonie sul litorale occidentale. Superato il Capo di Buona Speranza, si espandono in Asia. La storia mondiale eurocentrica ha però inizio con la scoperta dell’America, nel 1492. Verso la fine del XV secolo, i colonialisti spagnoli attraversano l’oceano Atlantico e iniziano a occupare il nuovo continente. A questo punto altri Paesi colonialisti allungano i loro tentacoli in diverse parti del mondo. Nel XVI secolo il trasporto marittimo si rivela un fattore chiave per la formazione del mercato mondiale. E’ il periodo del capitalismo manifatturiero e l’Europa rappresenta l’“officina del mondo”: essa importa materie prime ed esporta manufatti. Anche l’emergere del mercato è un processo molto lungo e contraddittorio ed è associato a crisi strutturali e a instabilità. Il capitalismo nasce sulle rovine del feudalesimo da un lato e dell’artigianato dall’altro. Liberatosi dalle prestazioni feudali, il piccolo proprietario, di contro al dominio esercitato dai grandi mercanti sui piccoli artigiani, impiega il proprio capitale nell’industria, anche su scala assolutamente piccola, e avanza con forza e in modo rivoluzionario il suo diritto a trasformare e dirigere il processo di produzione. Padrone dell’officina moderna non diventa il vecchio maestro d’arte, ma il commerciante che investe in essa i capitali accumulati con le vendite di beni. Nasce la manifattura le cui forme di produzione, fondandosi su nuove invenzioni tecniche, si rivelano incompatibili con il vecchio sistema delle relazioni economiche dominato dalle corporazioni. L’uso della macchina a vapore, del telaio meccanico, del filatoio multiplo richiedono, infatti, una struttura economica e sociale più libera e flessibile, in grado di sfruttare pienamente le loro potenzialità, e perciò oltre al sistema economico medioevale vengono messi in crisi anche i rapporti sociali. Come ricorda Marx, ancora nei “Grundrisse”, “la manifattura sorge dove si produce in massa per l’esportazione, per il mercato estero – dunque sulla base del grande commercio marittimo e terrestre, nei suoi empori, come nelle città italiane, a Costantinopoli, nelle città fiamminghe, olandesi, in alcune città spagnole come Barcellona ecc. In un primo tempo la manifattura non investe la cosiddetta industria cittadina – ma l’attività accessoria della campagna, la filatura e la 429
tessitura, il lavoro che esige meno di ogni altro l’abilità acquisita nelle corporazioni e una formazione artistica... Il capitale si crea rapidamente un mercato interno per il fatto che distrugge tutte le attività accessorie della campagna, dunque fila, tesse per tutti, veste tutti, ecc., in breve dà la forma di valori di scambio alle merci che prima venivano create come valori d’uso immediati; un processo che ha luogo automaticamente in seguito al distacco dei lavoratori dalla terra e dalla proprietà (sia pure in forma servile) delle condizioni di produzione”. Come ci ricorda Marx, prima della comparsa del capitalismo, i modi di produzione, cioè quello schiavistico e quello feudale, coesistevano insieme ad altri modi di produzione e tra di loro si verificavano pure delle lotte di classe. Questi vecchi modi di produzione erano fondati sulla riproduzione semplice e non su quella allargata che è appunto propria del modo di produzione capitalistico. In genere la proprietà della terra non esisteva vigendo al suo posto l’appropriazione da parte della comunità. Il capitale, inteso come risorsa destinata al processo produttivo, consisteva per lo più nelle forme delle migliorie agrarie, del legname, degli edifici, delle strade e dei canali. Si trattava di un capitale in grado di produrre una quantità assai limitata di merci e per un breve periodo e il loro scambio era quello tipico del proprietario-produttore, fondato in larga parte sul valore d’uso e sul baratto. Le società erano pressoché statiche e il ritmo con cui avvenivano i cambiamenti era molto lento. La nascita del capitalismo determina un cambiamento radicale della società, ma non elimina completamente i residui dei vecchi modi di produzione. Caratteristica del nuovo sistema non è appunto la distruzione, ma l’inglobazione dei modi di produzione precedenti i quali vengono modellati e resi compatibili con le esigenze del nuovo modo di produrre. Ancora al tempo dell’evoluzione del capitalismo in imperialismo, in Asia, particolarmente in Cina, in India e in Persia, sono presenti in maniera diffusa forme di produzione arcaiche, le cosiddette economie asiatiche. La comparsa del capitalismo, la cui sfera d’azione è internazionale, inaugura l’impiego dell’energia meccanica e l’applicazione della tecnica alla produzione di beni. Con l’accumulazione di capitale ha inizio un cambiamento di valori e di comportamenti destinato a investire l’intero pianeta. Fattore fondamentale della crescita del sistema è il denaro che essendo in uso già da molti secoli, non rappresenta una novità. Dal momento, però, che il nuovo modo di produzione moltiplica i bisogni umani, esso diventa merce di scambio per eccellenza e, regolando i rapporti sociali, permea ogni aspetto della vita degli individui. Si sviluppa così il sistema del credito e nascono le banche. Il commercio registra una rapida espansione e l’accumulazione di capitale viene investita nelle imprese produttive. Il sistema è governato dalla “legge del valore” e agisce indipendentemente dalla volontà dell’uomo. Meccanismo coordinatore è il mercato. Nasce l’economia nel senso proprio del termine. La manifattura capitalistica presuppone il superamento oltre che del lavoro del servo della gleba e dello schiavo, anche del lavoro artigianale. Prende così corpo il lavoro salariato e con esso la moderna classe proletaria. Prima della rivoluzione industriale esisteva un proletariato rurale, caratteristico soprattutto dell’Inghilterra, formato da salariati agricoli impiegati da agricoltori capitalisti. Esso era stanziale, mentre il proletariato industriale è suscettibile di mobilità sul territorio. I flussi migratori del capitalismo ottocentesco sono di un’entità inedita. Basti ricordare che tra il 1815 e il 1915 più o meno cento milioni di esseri umani (60 milioni di europei, 10 milioni di russi, 12 milioni di cinesi, 6 milioni di giapponesi, 1,5 milioni di indiani) si trasferiscono in paesi diversi dal loro, in prevalenza in cerca di lavoro. In Inghilterra, la manodopera necessaria alla manifattura viene coattivamente liberata dall’agricoltura e nella seconda metà del XIX secolo quella maschile, che viene impiegata nelle miniere di carbone, nei trasporti e nell’edilizia, aumenta del doppio. Con la rivoluzione industriale ha inizio lo sfruttamento intensivo della manodopera: le ore di lavoro vengono portate al limite più alto possibile, mentre i salari scendono ai livelli più bassi. Mentre al contadino indipendente o al mastro artigiano era dato di sviluppare nella loro attività cognizioni, intelligenza e autonomia, con l’avvento della manifattura queste proprietà vengono attribuite al 430
complesso dell’officina espropriando così il lavoratore della sua professionalità. Esso viene trattato al pari delle merci. Un aspetto che appare largamente ignorato, e spesso coscientemente, è che il capitalismo nasce grondando sangue. Si ricordano volentieri i delitti staliniani (guai a dimenticarli!), mentre però si dimenticano le violenze compiute dalla borghesia per imporre il suo potere sulla società. Il passaggio dalla fase dominata dai mercanti e dai piccoli imprenditori alla fase dominata dalla finanza e dall’industria pesante avviene grazie a indicibili sofferenze umane. L’espansione capitalistica si rende responsabile di genocidi di proporzioni drammatiche e questo in forza delle leggi fondamentali del suo modo di produzione. Nei paesi investiti dal processo di industrializzazione, i vecchi rapporti sociali feudali vengono rapidamente distrutti, larga parte della popolazione è ridotta alla miseria e il potere economico-politico viene accentrato nelle mani della nuova classe degli imprenditori capitalisti. Nelle colonie, anziché essere forza di progresso, la borghesia scende a patti con i potentati tradizionali o si sostituisce ad essi con la violenza. In Francia, con il successo della rivoluzione del 1830, e in Inghilterra, con il Reform Bill del 1832, lo Stato si trasforma in comitato esecutivo della classe dominante capitalistica. Mai la ricchezza era stata accumulata con altrettanta facilità, mai la miseria era stata così diffusa, mai le classi subalterne erano apparse così indifese. In Italia, la borghesia del Nord delude le aspirazioni di libertà e di progresso della classe operaia settentrionale e dei contadini meridionali facendo blocco sociale con le forze conservatrici e parassitarie del Sud. Nelle Americhe i colonialisti europei distruggono le civiltà precolombiane sterminando milioni di indiani con armi da fuoco, cani, acquavite e sifilide; trasferiscono i superstiti con la violenza dall’Oriente all’Occidente; si appropriano delle loro terre e di ingenti quantità di oro e d’argento. L’esercito spagnolo nel volgere di pochi anni assassina dai 12 ai 15 milioni di nativi. La spoliazione colonialista non è meno brutale in Africa dove prende corpo il criminale traffico di schiavi. In quattro secoli la popolazione del continente nero diminuisce di cento milioni di abitanti e subisce un salasso mai conosciuto nella storia. Dal Sudafrica alla Palestina, dall’Africa del Nord allo Zimbabwe e al Kenia il modello sociale che viene imposto dall’imperialismo europeo è di stampo razzista. Nemmeno il continente asiatico viene risparmiato. In India la dominazione coloniale arreca al popolo un’estrema miseria e causa innumerevoli morti. La Compagnia delle Indie orientali, che fino al 1858 domina il Paese, non scopre nemmeno una sorgente, non scava neanche un pozzo, non costruisce neppure un canale, non innalza nessun ponte a vantaggio di quel popolo, ma gli procura solo miseria e carestie. Nel solo distretto di Orissa, in un solo anno (1865-66) la fame provoca oltre un milione di vittime. In Cina, con le guerre dell’oppio di metà Ottocento, le truppe dell’impero britannico commettono contro quel popolo atrocità e bestiali misfatti. Marx, ne “Il capitale”, illustra il modo selvaggio in cui i capitalisti dell’industria tessile inglese si appropriano del controllo sui processi di lavoro dei vecchi produttori nella prima parte del XIX secolo, creando il proletariato moderno. Eppure, egli spiega che questo processo ha un carattere storicamente progressivo. “La sua distruzione (quella del vecchio modo di produzione, comporta) la trasformazione dei mezzi di produzione individuali e dispersi in mezzi di produzione socialmente concentrati, e quindi la trasformazione della proprietà minuscola di molti nella proprietà colossale di pochi, quindi l’espropriazione della gran massa della popolazione, che viene privata della terra, dei mezzi idi sussistenza e degli strumenti di lavoro; questa terribile e difficile espropriazione della massa della popolazione costituisce la preistoria del capitale”. Se si tiene conto di questo aspetto della storia del capitalismo poco menzionato, si può accusare di “doppiezza ideologica” anche la borghesia: essa ha predicato bene ma ha razzolato male.
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Se da un lato l’avvento del capitalismo unisce il mondo economicamente, dall’altro nega lo spirito comunitario, slega e separa i popoli mettendo gli uni contro gli altri; mentre consente ad alcuni di possedere beni e ricchezze, costringe la maggioranza degli uomini a lavorare per coloro che li sfruttano. Mette in condizione ogni individuo a badare a se stesso ponendolo in uno stato di tensione verso tutti gli altri. Quando, per mantenere il suo ordine, il sistema finisce di esercitare la forza bruta, dà inizio a forme di ricatto e di coercizione economica alle quali diventa difficile sottrarsi. Plagia gli uomini e li corrompe moralmente. L’alternativa al feudalesimo deve necessariamente essere fondata su una filosofia sociale che corrisponde ai sentimenti prevalenti e alle aspirazioni dei fautori del nuovo sistema. La vecchia cultura feudale si rivela, infatti, inadeguata per il nuovo modo di produrre e non può sopravvivere alle contraddizioni che essa stessa genera. Ecco allora il formarsi di un nuovo sistema di idee il cui fondamento è costituito dalla piena autonomia giuridica dell’individuo. Ha così inizio la rivoluzione liberale. Secondo il giudizio di Max Weber è il protestantesimo che ha scatenato la rivoluzione mentale necessaria all’avvento del moderno capitalismo. In particolare è il calvinismo a mettere in moto il capitalismo fornendogli valori e motivazioni. L’attività professionale del capitalista viene intesa dal sociologo tedesco come una chiamata religiosa, come opera che si mette al servizio di dio. L’accumulazione è l’ascensione mistica protestante che sostituisce l’ascesi del cristianesimo medioevale. Come codice fondamentale del capitalismo viene assunto il diritto romano, mentre la teoria economica, almeno in un primo tempo, è presa a prestito dal mercantilismo. Lo Stato viene messo a disposizione dell’economia. Più tardi il mercantilismo viene abiurato perchè lesivo dell’iniziativa dei privati e sostituito dalle dottrine del laissez faire. Quale condizione necessaria allo sviluppo del nuovo sistema, esso viene giudicato nocivo e irrazionale. Artefice di questa svolta è l’autore de “La ricchezza delle nazioni” e fondatore dell’economia politica, l’economista utilitarista scozzese Adam Smith. Con il varo della dottrina del libero scambio i capitalisti conseguono la piena libertà d’iniziativa e il sistema registra uno straordinario sviluppo. Aumenta la produzione, si espandono i mercati, si moltiplicano i profitti e alla classe operaia vengono fatte temporanee concessioni. Vengono così poste le premesse per la conquista da parte del capitale dell’intero pianeta. 13.3 – Dal taylorismo-fordismo all’“età dell’oro” A cavallo tra l’800 e il ‘900, nel periodo che va dalla crisi degli anni ‘70 a quella del ‘29, nascono prima il taylorismo e poi il fordismo. Perché la fabbrica possa produrre sempre di più diventa indispensabile razionalizzare il lavoro e trasformare il mezzo di produzione in meccanismo. Negli Stati Uniti d’America, dove si registra una scarsità di manodopera, un dei problemi che il capitalismo deve risolvere, è proprio quello di rendere il lavoro più efficiente e sostituire il lavoro umano con dei congegni meccanici. Si tende così a scorporare la “meccanicità” dal soggetto sociale e farla diventare un’entità a se stante. Con l’avvio di un tale processo, la divisione del lavoro da soggettiva diventa oggettiva e la specializzazione del lavoratore, una delle condizioni del progresso tecnico, viene gradualmente incorporata nella macchina. Ad assumere un ruolo decisivo in questo processo è il management tecnico-scientifico. Siamo nel periodo che Schumpeter definisce del “mutamento di funzione dell’imprenditore”, ossia della separazione tra proprietà e gestione dei mezzi di produzione. E’ anche il tempo in cui si registra l’espansione della sfera burocratico-amministrativa con la conseguente stratificazione sociale. Incomincia altresì a delinearsi un rapporto stretto tra settori portanti dell’economia e lo Stato il quale interviene nei conflitti di lavoro. Questo processo non lineare, lento e contraddittorio, destinato a segnare profondamente la maggioranza dei Paesi industrializzati, viene sperimentato appunto negli Stati Uniti d’America. 432
Qui, infatti, nel 1911, Frederick Winslow Taylor in “I principi di argomentazione scientifica del lavoro” espone la sua teoria. Essa fonda sull’analisi dei processi produttivi e mira a eliminare in modo razionale ogni dispersione di tempo, di energia e di materie prime. Il modello lavorativo viene organizzato in tre fasi: analisi delle caratteristiche della mansione da svolgere; creazione del prototipo del lavoratore adatto a quel tipo di mansione; selezione del lavoratore ideale per l’inserimento in azienda. Il taylorismo segna il punto di svolta dell’adeguamento integrale dei tempi e dei movimenti dell’operaio ai tempi e ai movimenti della macchina. L’automatismo tende a perfezionare l’oggettività del processo produttivo riducendo al massimo l’apporto cosciente del lavoratore. Il controllo sul tempo di lavoro e la spinta a una sua maggiore intensità determinano un cambiamento radicale e impersonale della condizione dei lavoratori al punto di suscitare inevitabilmente antagonismo e conflitti sociali. Nei propositi del taylorismo vi è difatti il tentativo di ridurre il lavoratore a “gorilla ammaestrato”. La resistenza operaia è però immediata e tale da mettere in crisi quel tentativo. A rilanciare il taylorismo è Henry Ford, capostipite della dinastia americana, il quale applica il rivoluzionario metodo della catena di montaggio alla produzione di automobili. Questo metodo viene introdotto alla Ford in un contesto di estesa crisi sociale caratterizzato da massicce espulsioni della forza lavoro tradizionale e dal ricorso alla manodopera migratoria che si sta riversando in quegli anni sull’America. Sono i tempi in cui anche nell’agricoltura viene introdotta la sgranatrice per la separazione dei semi di cotone. E’ in questo contesto di difficoltà che nasce il fordismo come modello di produzione di massa. Esso si regge sul presupposto che il lavoratore è per sua natura un essere passivo e reticente, perciò deve essere guidato dall’esterno con mano ferma. Il suo campo d’iniziativa deve essere limitato attraverso la parcellizzazione delle mansioni e la riduzione del lavoro a un’operazione esecutiva e meccanica. Il lavoratore viene sottoposto a un controllo minuzioso e sollecitato al rendimento attraverso un articolato sistema di premi e di multe che danno corpo alla cottimizzazione del lavoro. La fabbrica fordista è insieme dispotica e conflittuale. Con essa nasce l’operaio massa, cioè quella figura operaia che dominerà la scena della produzione industriale per oltre mezzo secolo. Prima che venga istituzionalizzato il contratto collettivo, Henry Ford resiste brutalmente e sanguinosamente a tutti i tentativi di sindacalizzazione. Si consideri che la United Auto Workers (Uaw-Cio), il sindacato americano dei lavoratori dell’auto, ottiene i diritti alla contrattazione collettiva alla Ford solo nel 1941. Con il fordismo il capitalismo dichiara guerra alla produzione di vecchio tipo, cioè alla produzione su piccola scala e punta sulle grandi quantità le quali garantiscono maggior profitto. Il nuovo modello è appunto uno strumento per conseguire un maggior plusvalore relativo ai fini di una crescente accumulazione capitalistica. Pur dimensionato entro i confini nazionali, nella fase del suo decollo, il fordismo conosce una splendente fase di crescita. Dal punto di vista politico-sociale afferma la “norma del consumo”. I nuovi sistemi di lavoro abbassano i costi e permettono che i beni durevoli, prodotti in scala, siano acquisibili dai lavoratori. Henry Ford sostiene che è buon senso degli affari pagare i lavoratori alla catena di montaggio cinque dollari al giorno, una somma relativamente elevata per quel tempo, perché abbiano soldi per poter comprare l’auto “modello T”. In forza di un compromesso storico fra capitale e proletariato, mediato dall’azione del movimento sindacale e politico, questo sistema assicura uno sviluppo illimitato della domanda sostenuto da una massa salariale potenzialmente in espansione e incentivata dallo Stato sociale nei momenti di difficoltà. Il fordismo inaugura anche la contrattazione collettiva e garantisce la sicurezza a medio termine per il lavoratore di un certo livello di reddito, messo in condizione di poter comprare a credito. Questa sicurezza ha come contropartita la disciplina del lavoro e l’inquadramento in essa dei lavoratori.
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Il modello fordista è fondato sull’identificazione fra crescita e sviluppo: crescita intesa come estensione quantitativa dei volumi prodotti e dilatazione illimitata della presenza industriale sul territorio. La crescita della produzione equivale a crescita dell’occupazione. La produzione regola il mercato e la fabbrica diviene il centro propulsore dello sviluppo sociale. E’ appunto la fabbrica con la sua razionalità tecnica ad avere il primato su ogni altra sfera sociale. Si assiste così a una integrazione reciproca di mercato, società civile, Stato, la quale viene governata dagli interessi del grande capitale, dei monopoli; essa richiede una ristrutturazione globale non solo della vita economica, ma anche di quella politica. Grazie agli alti salari il capitale invade la vita intima degli individui, sia sotto forma di accentuata progressiva mercificazione del soddisfacimento dei bisogni, sia sotto forma di controllo capillare sul comportamento morale dei lavoratori. Con il fordismo sorge anche la cultura di massa e l’industria culturale. Per le classi dominanti emerge in modo nuovo il problema di ottenere il consenso popolare, attivo o passivo, manipolato o trasparente, democratico o autoritario che sia. Negli Stati Uniti il fordismo s’impone, da un lato, con il ricorso alla forza da parte del capitalismo nei confronti del sindacalismo, dall’altro, con la persuasione che si estrinseca nella distribuzione ai lavoratori di alti salari, benefici sociali e istruzione. Nel fare questo il capitalismo americano è favorito dall’assenza nel Paese di un’ideologia comunitaria, marxismo compreso. Il declino del sindacalismo abbandona difatti i lavoratori americani alla deriva nella lotta contro lo sfruttamento capitalistico. L’egemonia statunitense nella divisione internazionale del lavoro trova ragione anche in questa vittoria del capitale sulla classe operaia. In Europa, invece, la sua diffusione deve fare i conti con molte resistenze. All’epoca della prima guerra mondiale, nel vecchio continente ha inizio quella serie di cambiamenti nella tecnica produttiva cui viene dato il nome di “produzione di massa”. All’indomani della vittoria dell’ottobre rosso, questo processo assume dimensioni massicce. L’impatto del nuovo sistema sull’organizzazione del lavoro incontra non poche difficoltà. Oltre a una classe operaia organizzata e agguerrita, qui esistono molte sedimentazioni di ordine politico, sociale e culturale che rendono difficile qualsiasi azione di rinnovamento. Indisponibili a mettere in gioco i propri interessi sono i proprietari terrieri, il clero, i commercianti di rapina, la burocrazia di Stato, larga parte degli intellettuali. Come annota Gramsci, “l’esercito di parassiti divora masse ingenti di plusvalore, aggrava i costi iniziali e deprime il potere di concorrenza sul mercato internazionale… Si può dire che quanto più è vetusta la storia di un paese, tanto più numerose e gravose sono queste sedimentazioni di masse fannullone e inutili, che vivono del ‘patrimonio’ degli ‘avi’, di questi pensionati della storia economica”. Pur desiderando di godere dei benefici del fordismo, tutte queste categorie sono decise a mantenere in vita il vecchio sistema di privilegi, perciò resistono alle innovazioni. Testimonianza eloquente a questo riguardo è l’esperienza compiuta dall’Italia dove il fordismo viene introdotto nella forma e con la parola d’ordine di “produttivismo” e mediato dal filtro ideologico del nazionalismo. Come ho già documentato, Gramsci è uno dei pochi a comprendere la portata del taylorismo e del fordismo. Nelle sue riflessioni evidenzia come tra la trasposizione in Italia di questo sistema e lo sviluppo del corporativismo ci sia un nesso rappresentato dal compromesso tra grande industria e proprietà terriera, vale a dire tra profitto e rendita. Un’alleanza questa che a suo giudizio avrebbe rappresentato un freno allo sviluppo e avrebbe condotto, presto o tardi, a una nuova devastazione del sistema economico. La storia smentisce però questa previsione poiché la replica capitalistica alla rivoluzione d’ottobre e alla crisi del ‘29 è una gigantesca socializzazione, o meglio, statalizzazione dei rapporti di produzione. Certo, le contraddizioni interimperialistiche porteranno più tardi i Paesi europei al secondo conflitto mondiale, ma negli anni ’30 il capitalismo entra in un nuovo stadio del suo processo di accumulazione. Prende cioè corpo il modello di gestione keynesiana dell’economia e attraverso il sostegno dei redditi, le manovre fiscali, l’intervento diretto dello Stato, gli accordi tra Stati sui problemi del commercio estero e della gestione più o meno armonica delle rispettive politiche monetarie, si realizza quel processo di razionalizzazione il cui obiettivo primario è la riduzione dei costi di produzione. In Europa, dunque, la razionalizzazione degli apparati produttivi 434
finisce per fare tutt’uno con la massiccia adozione del taylorismo. La stessa “grande crisi” si rivela, come ha scritto lo storico Lucio Villari, un vero e proprio “laboratorio del capitalismo internazionale”. Nel periodo tra le due guerre il potere passa dalle mani dei capitalisti in quelle di una nuova classe di tecnici stipendiati. Si assiste all’aprirsi della forbice tra proprietà e controllo, prevalendo appunto il cosiddetto “controllo di minoranza”, quello esercitato da parte di persone che posseggono soltanto una piccola quota del capitale azionario. Nei Paesi dell’Asse, cioè in Germania, Giappone e Italia, il taylorismo assume il carattere di una ristrutturazione della tecnica a prescindere dal mercato e dai rapporti capitale-lavoro, poiché si suppone che la razionalizzazione produttiva debba avvenire in condizioni di capitalismo puro. Ovunque, in ogni modo, si estende la divisione del lavoro, viene migliorata la produttività attraverso l’uso di più macchine in sostituzione del lavoro umano, e per il funzionamento delle macchine medesime viene impiegata la forza meccanica. L’individualismo economico entra in crisi e l’economia finisce di essere un affare privato. Nasce l’industria organizzata, cioè la produzione come organismo, e si sviluppa la scienza dell’industria. Di conseguenza, si registra una nuova interazione tra politica ed economia e la pianificazione incontra ovunque un atteggiamento di favore. A far corso dalla fine degli anni ’30 si espande il capitalismo monopolistico di Stato. Mentre a partire dagli anni ’40 ha il sopravvento la teoria keynesiana caratterizzata da grandi investimenti in infrastrutture e nella produzione e vendita di armi. Il fordismo si coniuga così con il modello elaborato da lord Keynes il quale trova realizzazione pratica non soltanto nel New Deal roosveltiano, ma anche nella politica economica del Terzo Reich. Dopo la seconda guerra mondiale interviene lo stadio preliminare dell’automazione e si assiste a un’impressionante accelerazione dei fattori di sviluppo. Il capitalismo viene modificato e corretto da elementi esterni come, oltre al New Deal, il Welfare state. Nei primi anni ’50 il “boom” si diffonde in Francia, in Italia e in Germania la cui produzione raggiunge e supera i livelli di prima della guerra e, pur se in misura minore, anche in Inghilterra. L’Europa occidentale comincia a godere di una notevole prosperità, la sua economia cresce a un ritmo senza precedenti. Ha inizio la cosiddetta “età dell’oro” la quale comporta modifiche sociali profonde e non ha confronti con le epoche precedenti. Frutto del matrimonio tra liberismo economico e democrazia sociale, il nuovo capitalismo annulla gli storici vantaggi che la città ha avuto nei confronti della campagna e vanta la “democratizzazione” del mercato. Alle fine degli anni ‘50 entra in vigore il Mercato comune europeo che presto diventa uno dei più fiorenti aggregati economici del mondo. Per oltre un ventennio questa crescita e prosperità economica continua senza gravi interruzioni. Essa giova anche agli interessi americani ristabilendo un mercato mondiale di cui gli Usa diventano uno dei massimi beneficiari. E’ questa anche l’epoca in cui la condizione della classe operaia dei Paesi industrializzati migliora notevolmente, mentre più di sessanta Paesi del “terzo mondo” dominati dal colonialismo conquistano l’autonomia, anche se in molti casi si tratta di semplice indipendenza politica, poiché il Paese sfruttatore mantiene vincoli economici di soggezione. Con le lotte di liberazione nazionale, masse enormi entrano a far parte del regime disciplinare della produzione capitalistica. Ha inizio la costruzione del mercato globale che verrà in evidenza negli anni ‘80 e si imporrà definitivamente dopo il crollo dei Paesi dell’Est. Dopo aver funzionato a pieno regime per un ventennio, il fordismo entra in crisi. A partire dalla metà degli anni ‘60 le trasformazioni tecnologiche, con il sostegno della fede nell’automazione, portano i regimi tecnici e organizzativi agli estremi limiti, cioè al punto di rottura della loro efficacia. Il sistema non è più in grado di controllare le dinamiche delle forze produttive e sociali che ha messo in movimento. Si intensifica così l’intervento dello Stato che porta a una sovrapposizione del dominio politico al dominio economico. Nel tentativo di contenere la crisi di riproduzione, il capitalismo cerca di incrementare il plusvalore relativo con l’introduzione di nuove e più sofisticate tecnologie computerizzate. Viene realizzato il controllo automatico della 435
produzione mettendo in condizione le macchine di controllarsi a vicenda e si dà il via alla ricomposizione delle mansioni tramite l’arricchimento e la rotazione del lavoro. Gli anni ‘60 sono caratterizzati dall’esplosione del modello della “specializzazione flessibile”. Sul piano più generale viene portato a compimento lo Stato sociale. Tra la fine degli anni ‘60 e i primi anni ’70 però la crisi matura e diventa irreversibile. Si tratta di una crisi del sistema di mediazione sociale e politica determinata dall’intensificazione delle condizioni concorrenziali di mercato. In Italia si passa da un modello di sviluppo che implicava concentrazione produttiva a livello territoriale a un processo di sviluppo di sistemi territoriali a economia diffusa caratterizzato dalla presenza di microstrutture e da una forte specializzazione produttiva. Si ricorre il più possibile alla conservazione integrale delle piccole e medie aziende, dove il sindacato è meno forte, e questa scelta provoca lavoro nero e lavoro a domicilio. Il metodo fordista si rivela non più adeguato a garantire gli alti livelli dello sviluppo produttivo e all’orizzonte si delinea una nuova fase. Con la crisi del fordismo giunge alla fine della sua parabola la società nata con la rivoluzione industriale, quella cioè rappresentata dalla seconda grande rivoluzione tecnologica dell’umanità, dopo quella iniziata 10.000 anni fa con la pratica dell’agricoltura. Mentre la società agricola ha impiegato millenni per svilupparsi, quella industriale si è evoluta ed esaurita in meno di due secoli, dopo aver modificato alla radice la struttura economica e sociale dei Paesi che ne sono stati coinvolti. Essa ha sfruttato al massimo le tecnologie e ha portato agli estremi il tipo di organizzazione produttiva. Lo sviluppo economico e la produzione in serie hanno enormemente aumentato il numero delle attività umane e hanno reso meno faticosa fisicamente la vita degli individui. Al tempo stesso, però, hanno provocato non pochi problemi ambientali quali l’inquinamento, la degradazione dell’aria e delle risorse idriche, la congestione urbanistica, l’abuso e la devastazione del territorio. Mentre ha costituito un indubbio progresso dell’umanità, ha anche prodotto contraddizioni e conflitti sociali di non facile gestione i quali sono destinati a pesare sulle generazioni future. 13.4 - Postfordismo e globalizzazione Con la crisi del fordismo, all’inizio degli anni ’70, si apre una fase di transizione che dagli studiosi viene chiamata “postfordismo”. Sono i tempi in cui incomincia a prendere corpo la stagflazione, cioè la stagnazione produttiva accompagnata dalla disoccupazione e dall’inflazione. Il postfordismo non è un nuovo modello di sviluppo del capitalismo, giacché esso non contempla né una formula e neppure una strategia di uscita dalla crisi che investe il sistema. Gli elementi di continuità tra il vecchio e il nuovo ordine produttivo appaiono, infatti, più rilevanti di quelli della discontinuità. Proprio per questa ragione esso è da intendersi come una fase di adattamento nella quale si realizza il passaggio dalla produzione di quantità alla produzione di qualità. I processi che investono questo nuovo modo di produrre sono densi di contraddizioni e in essi si mescolano conservazione e innovazione, elementi fordisti con elementi incontestabilmente nuovi e originali. Con il posfordismo viene reintrodotta la deregolamentazione concorrenziale e incentivato l’individualismo. Per alcune fasi della produzione manifatturiera incomincia a svilupparsi l’automazione, quella che precede la “giapponesizzazione” dei luoghi di lavoro. L’economia mondiale va gradualmente ristrutturandosi in direzione della costruzione di cinque grandi monopoli, cioè quello dell’alta tecnologia, con gli Usa all’avanguardia; quello del capitale finanziario costituito da banche e assicurazioni; il monopolio delle decisioni sull’utilizzazione delle risorse naturali del globo; il monopolio delle armi di distruzione di massa; infine, il monopolio dell’informazione e della comunicazione che determina la formazione e la gestione del senso comune a livello mondiale. A determinare i nuovi modelli di produzione e di diffusione dell’informazione e della cultura di massa, a metà degli anni ’70, sono le multinazionali quali I’lbm, la Itt, la Att, la Gte, la Rca, la Trw, la Ncr, la Cbs; aziende che si occupano di calcolatori elettronici, tv via cavo, telefoni e pure di 436
problemi sociali, di controllo delle nascite nei Paesi sottosviluppati, di educazione, di disinquinamento, di edilizia, di tempo libero, di trasporti e che, fra l’altro, sono impegnate a far sì che ogni popolo impari la lingua inglese. La stragrande maggioranza di queste multinazionali, seppure non abbiano proprietari facilmente identificabili e profitti precisi, fanno capo al capitale nord-americano. Dalla seconda metà degli anni ’70, l’accumulazione capitalistica si realizza non solo aumentando il saggio di sfruttamento del lavoro, attraverso la riduzione del lavoro socialmente necessario, ma anche esternalizzando in misura sempre maggiore i costi relativi alle condizioni di produzione. Sul fronte finanziario vengono aboliti i controlli sui movimenti di cambio e liberalizzati i mercati borsistici. Tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio di quelli ’90, il taylorismo viene applicato in molti settori. Una sua massiccia espansione la si registra nel terziario, precisamente nel commercio, nelle banche e nelle amministrazioni pubbliche, confermando così la tendenza dell’ordine produttivo in fase di formazione ad accompagnarsi a forme vecchie e nuove di fordismo e addirittura di prefordismo (è il caso del lavoro a domicilio). Nel corso degli anni ’80, il capitalismo fuoriesce dal modello industriale classico. Con la fine del sistema della grande fabbrica ha inizio la scomparsa di quella figura tradizionale di operaio con cui si è avuto a che fare per quasi un secolo: l’operaio massa. Questo processo di generale cambiamento del sistema economico-produttivo ha pesanti riflessi anche sul piano politico. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti hanno il sopravvento rispettivamente il thatcherismo e il reaganismo le cui politiche comportano una febbrile attività economica fondata sui servizi finanziari e sulla redistribuzione del reddito e della ricchezza dagli strati più poveri a quelli più ricchi della società. Col tempo queste politiche trovano applicazione in tutti i Paesi dell’Occidente capitalistico e la finanza e i servizi specializzati divengono l’oggetto predominante delle transazioni internazionali. Thatcher e Reagan chiudono, infatti, una delle grandi fasi del capitalismo e ne aprono un’altra: chiudono cioè l’“età dell’oro”, del keynesismo, del compromesso socialdemocratico, e aprono la fase neoliberale destinata a sfociare nella globalizzazione. Con il posfordismo si modificano anche i rapporti di potere e di influenza a livello mondiale. Se nel ‘50 i Paesi dell’Europa occidentale disponevano del 17% del prodotto nazionale lordo mondiale, di fronte al 34% degli Usa, nell’80 l’Europa sale al 28,6% mentre gli Usa raggiungono soltanto il 23,3%. A dominare la tecnologia di base più importante, quella dei semiconduttori da cui dipende lo sviluppo di settori chiave quali l’informatica e la robotica, è invece il Giappone. Dalla crisi degli anni ’70 alla fine del secolo il valore degli scambi mondiali di beni manufatti registra un aumento del 350%, quello dei servizi del 400% e quello delle transazioni finanziarie dell’800%. Tra la metà degli anni ’80 e la metà di quelli ’90, fa un balzo straordinario in avanti il mercato dei capitali che passa da 4.700 miliardi di dollari a 15.200. Con la fine del decennio, anche la mondializzazione dell’economia fa progressi facendo emergere due fenomeni fondamentali: l’internazionalizzazione e la globalizzazione dei mercati e delle imprese. Gli investimenti sono destinati sempre meno all’industria e sempre più ai servizi finanziari. Il mercato mondiale, come abbiamo già visto, non è una novità, poiché è integrato da ben due secoli. Il cambiamento in atto nell’ultimo ventennio del Novecento ne consolida però il carattere universale. Il capitalismo penetra in ogni dove e compie un’operazione di egemonia e di dominio a una velocità straordinaria. E’ durante il posfordismo, dunque, che il processo di globalizzazione prende forma, ed è con la crisi dei primi-metà anni ’70 che esso registra un’accelerazione. I rapporti di produzione di carattere nazionale s’intrecciano in modo del tutto inedito con quelli soprannazionali dando vita alla multinazionalizzazione delle strutture produttive, commerciali e finanziarie. I tradizionali assetti di potere degli Stati si confondono con nuove forme di sovranità le quali si automatizzano in una
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pluralità di soggetti: dalle multinazionali, alle istituzioni comunitarie, agli organismi economici internazionali. A giudizio di Hobsbawm, negli ultimi anni ‘80 e nei primi anni ’90, viene a termine un’epoca nella storia del mondo che è durata sette-otto millenni e nel corso della quale la stragrande maggioranza del genere umano è vissuta coltivando i campi. Ha inizio un’epoca nuova. Mentre però finisce il vecchio mondo, quello nuovo resta tutto da interpretare. La globalizzazione è un processo d’integrazione economica a scala planetaria e la sua portata è sconvolgente sotto tutti i punti di vista. Si calcoli che mentre all’inizio degli anni ‘70 nel mondo veniva accertata la presenza di 7.000 multinazionali, all’inizio degli anni ‘90 se ne contano 37.000. Queste imprese possiedono 170.000 agenzie sussidiarie distribuite su tutto il pianeta. Occupano complessivamente 72 milioni di lavoratori che rappresentano il 5% della forza lavoro operaia mondiale. Nella prima metà degli anni ‘90 le transazioni sui mercati monetari e finanziari rappresentano circa 50 volte il valore degli scambi commerciali internazionali. Sessanta anni prima il rapporto era di 1 a 2. Verso la fine secolo, le 500 multinazionali maggiori sono promotrici di circa il 70 per cento del commercio internazionale; 300 di loro controllano un quarto delle attività produttive mondiali e quasi la metà degli investimenti diretti esteri; 200 vantano un ricavato delle vendite superiore a un quarto dell’intero prodotto mondiale. Un terzo delle attività patrimoniali private dell’intero pianeta è controllato da 37.000 imprese transnazionali le quali non sono né europee, né americane, né giapponesi e risultano svincolate non solo dal territorio, ma dal controllo dei governi. Si è, in sostanza, in presenza di una spaventosa concentrazione del potere, ma anche di una profonda modificazione della sua strutturazione territoriale. Si tenga conto che le esportazioni mondiali dei Paesi asiatici più avanzati, Cina compresa, sono cresciute da poco più del 5% del totale nel 1980 a quasi il 15% nel ’94, con un aumento del prodotto nazionale lordo triplo rispetto a quelle dei Paesi Ocse. Con l’avvento del nuovo millennio, la Cina dà inizio al suo straordinario sviluppo e sale nella scala mondiale fino al punto di insidiare agli Usa il primato di potenza mondiale. L’Asia diventa competitiva con i capitali americani ed europei e ciò determina nuovi equilibri. Attraverso lo sviluppo del commercio, dei movimenti di capitale e della produzione transnazionale cresce l’integrazione dell’economia mondiale, e ogni Stato diventa interdipendente dagli altri. La globalizzazione intreccia fra loro tutte le economie in un unico mercato competitivo e i suoi effetti si fanno sentire in tutti i campi della vita sociale. Anche se il processo non può dirsi completo, poiché molte economie mantengono un carattere nazionale, il coinvolgimento delle diverse comunità si rivela un processo in crescendo. La caduta dei confini tra le varie aree geografiche diviene un fenomeno naturale e in grandissima parte essa è da attribuire alle nuove tecnologie. Primo e Terzo mondo, Nord e Sud, Centro e periferia si intrecciano tra loro, perdono l’omogeneità del passato e questa nuova trama distribuisce le ineguaglianze in maniera frammentaria. Le situazioni di ricchezza e di povertà incominciano a convivere in ogni Paese e le diversificazioni diventano più fluide. E’ la realizzazione del “villaggio globale”. Se il capitalismo, dopo il crollo dell’Urss, diventa l’unico sistema economico su scala mondiale, sul pianeta appare una pluralità di modelli di capitalismo i quali corrispondono per lo più alle diverse aree regionali in cui si sono sviluppati. Ad esempio, il capitalismo liberista, tipico degli Usa, è spiccatamente orientato al mercato ed è diverso dal modello sia giapponese che tedesco. I grandi tipi di capitalismo restano però due: il modello americano che contempla la libertà assoluta per i capitali, l’esaltazione del profitto a breve termine e che ha nessuna pietà per i deboli e gli sconfitti; e il modello “renano” che è invece virtuoso, egualitario e prudente. Nell’era della globalizzazione è soprattutto l’America a produrre notizie globali e questo perché gli Usa sono i primi e i massimi produttori dei mezzi di comunicazione. La supremazia degli Usa consiste soprattutto nell’aver inventato e sviluppato le nuove tecnologie e nell’aver determinato le forme di organizzazione e di autorità dipendenti da esse. Gli strumenti della loro egemonia mondiale sono la potenza militare ed economica, la politica estera e anche l’arroganza. Newt Gingrich, capo della maggioranza repubblicana alla Camera, a metà degli anni ’90, ha scritto: “Solo 438
l’America può guidare il mondo. Essa resta la sola civiltà internazionale e universale nella storia dell’umanità... I nostri valori sono ripresi ovunque. La nostra tecnologia, che ha trasformato il modo di vivere, è stato il primo fattore della mondializzazione. Oggi le nostre forze armate stazionano su tutto il pianeta... L’America è la sola nazione abbastanza grande, multietnica e ansiosa di libertà per servire da guida”. Con la globalizzazione, però, la divisione tra il centro e la periferia tende a scomparire. Il denaro, le tecnologie, le merci, le informazioni oltrepassano i confini come se questi non esistessero. La globalizzazione uccide la distanza, con la comunicazione in tempo reale il globo assume compattezza. A vincere sono i grandi poteri corporati: il capitale finanziario, le banche, l’industria tecnologicamente avanzata, le telecomunicazioni, i mass-media. Il mercato è popolato da oligopoli a dimensione continentale, cioè da aggressivi leader di mercato nel quale dominano accordi e alleanze tra “forti” che fanno ricorso a un uso spregiudicato di operazioni finanziarie e detengono potere politico sotto forma di risorse tecnologiche, finanziarie e commerciali. In tutto l’Occidente, l’economia è sempre più in mano ai servizi. Solo un quarto del reddito prodotto dai Paesi avanzati si basa sull’industria, mentre l’agricoltura è ridotta al 4%. Il processo di terziarizzazione modifica profondamente anche i tempi di lavoro e di vita. Con la mondializzazione si verifica un’inversione del modello economico keynesiano: non è più la domanda di beni a determinare il volume del prodotto, ma è l’offerta di moneta – o meglio gli interessi valutari e finanziari – a determinare l’andamento della produzione. Il ruolo assunto dagli investimenti finanziari assume un carattere prevalentemente speculativo. La produzione viene spezzettata, tutti i beni complessi sono ormai composti da parti prodotte in diverse aree del globo e assemblate secondo un’unica logica di controllo centrale. Le imprese decentrano la produzione in Paesi dove i costi della manodopera sono bassissimi. Producono in un Paese, pagano le tasse in un altro e in un terzo richiedono contributi statali sotto forma di interventi infrastrutturali. La novità della globalizzazione è costituita dalla mobilità dei capitali, dei fattori di produzione e del lavoro. Ad essi va aggiunto il processo cumulativo di conoscenze nella ricerca scientifica che consiste nella diffusività dell’innovazione tecnologica. Le tecnologie dell’informazione consentono da un lato di organizzare e trasferire capillarmente in tempo reale qualsiasi informazione su tutto il pianeta, dall’altro esse informatizzano tutte le altre tecnologie e attività umane. La produzione di conoscenze diventa la fonte principale, se non esclusiva, della creazione di valore. Oltre l’80% degli investimenti in ricerca e sviluppo dei Paesi Ocse vengono effettuati dalle grandi aziende, mentre nei Paesi in cui le piccole e medie imprese sono forti, l’innovazione dipende in gran parte dai grandi gruppi. Con il nuovo millennio è iniziata la terza rivoluzione del lavoro che ancora non ha dispiegato del tutto la sua forza d’urto. In essa si intrecciano la tecnologia, la flessibilità, la conoscenza, la precarietà, mentre luogo e tempo perdono di valore. Per il movimento operaio si tratta di una rivoluzione passiva, poiché le imprese privilegiano il rapporto individuale e questo mette in crisi la contrattazione collettiva. Il processo di globalizzazione mira del resto a sbarazzarsi di qualsiasi vincolo sindacale. Con l’epoca della globalità si apre una fase nuova anche per la politica. La sinistra in particolare è destinata a fare i conti con non poche avversità riguardanti la rappresentanza, soprattutto, però, paga il prezzo di avere da sempre evocato l’internazionalismo e di aver continuato a operare entro gli schemi nazionali che stanno per essere superati. Di fronte alle potenti forze di mercato e alle reti globali, lo stesso Stato nazionale mostra di essere inadeguato a governare l’insieme della società e la sua sovranità viene meno. Il processo di globalizzazione tende anzi a sbarazzarsi anche di ogni vincolo statale e a realizzare lo Stato minimale. L’istituzione nazionale non è più nelle condizioni di controllare i flussi di denaro che si spostano oltre i suoi confini, perde autorità in materia monetaria, vede sfuggirgli di mano il governo 439
del mercato del lavoro. In sostanza, lo Stato-nazione non è più in grado di determinare il governo dell’economia nazionale. Mentre i sistemi produttivi e i mercati si coordinano su scala mondiale, i messaggi e le immagini televisive raggiungono masse distribuite a ogni angolo della Terra; mentre l’informatica consente l’azione a distanza, il potere pubblico rimane ingabbiato nella dimensione nazionale. Un governo mondiale democratico, la cui azione sia suffragata da un consenso normativo e su basi condivise non lo si scorge ancora all’orizzonte. E intanto a governare il pianeta è il capitale. Lo sviluppo economico e sociale sfugge così a ogni controllo dal basso. Lester Thurow, un economista americano esperto di new economy, nel 2003 ha così descritto la situazione: “La globalizzazione somiglia molto alla biblica torre di Babele. Questa torre economica viene eretta senza un piano di costruzione. I disegni architettonici necessari non sono neppure in via di preparazione. I governi non stanno pensando a un progetto adeguato, perché la torre viene costruita da privati. I costruttori presenti, aziende private che operano in tutto il mondo, non pensano al disegno e alla costruzione dell’economia globale poiché ognuna di esse è piccola in relazione a ciò che viene costruito. I mercati automaticamente stabiliranno gli standard che serviranno alla costruzione!”. Che questa assenza di governance pubblica generi spinte nazionaliste e vocaliste, non può dunque meravigliare. Poiché il potere assume una dimensione impersonale, ed essendo divenuto il mercato un’ideologia, la società civile, di fronte alla perdita del senso che per tradizione hanno avuto sia il concetto di politica che quello di diritto, è investita dallo smarrimento e va in cerca di rassicurazioni nel localismo e nella semplificazione. Oltretutto, la globalizzazione procede in modo tutt’altro che lineare e inevitabilmente produce contraddizioni e controtendenze che mettono in serio pericolo la convivenza sociale e le prospettive future di intere popolazioni. Siamo a un punto di non ritorno, la globalizzazione è un processo irreversibile e non è il frutto di scelte politiche che possono essere revocate o capovolte, ma di un’evoluzione tecnologica ingovernabile con i tradizionali strumenti del potere pubblico. Non si tratta, come qualcuno ha creduto e continua a credere, di un semplice processo di ristrutturazione, di una delle tante crisi del capitalismo, ma di una sua radicale trasformazione. Essa investe l’intera società, crea nuovi bisogni, produce una concezione della qualità della vita che induce a inediti comportamenti socio-economici della collettività i quali vengono imposti non dalla saggezza, ma dalla spontaneità dei processi. La produzione immateriale ha il sopravvento non solo sulla produzione materiale, ma anche sul “sapere” tradizionale. Vengono perciò messe in crisi intere culture, non solo quelle relative al lavoro e alle politiche di sicurezza sociale, ma anche quelle riguardanti l’esistenza stessa dell’uomo, i suoi interessi, i suoi costumi, le sue aspirazioni. La globalizzazione è dunque una sfida non solo economica ma anche culturale e morale. Noi oggi ci troviamo nel bel mezzo di un passaggio d’epoca e la sinistra stenta ancora a rendersene conto. 13.5 – La sinistra di fronte alla transizione postfordista Benché Marx, già nella seconda metà del XIX secolo, pur non prevedendo quali forme avrebbe assunto, abbia sostenuto che la globalizzazione del capitale è un processo inevitabile e abbia insistito nello spiegare che “la tendenza a creare il mercato mondiale è data immediatamente nel concetto stesso di capitale”, avvertendo che ogni resistenza a un tale processo è considerata dai capitalisti come “un ostacolo da superare”. Sebbene che Lenin, con le sue teorie sull’imperialismo, abbia posto l’accento sulla inevitabilità della conquista del mercato mondiale da parte delle oligarchie finanziarie e abbia dato per scontato la sua spartizione per opera dei grandi cartelli. Nonostante che la storia abbia dimostrato che la tendenza alla concentrazione della ricchezza e alla mondializzazione del capitale sia un fenomeno in crescendo, a datare da quando l’uomo ha inventato il denaro e praticato lo scambio; la sinistra, posta di fronte alla globalizzazione, ha mostrato segni di grande smarrimento. Il passaggio dalla “società solida” alla “società liquida”, come Zygmunt Bauman ha definito il processo che, a partire dalla metà degli anni ’70 ha investito i 440
paesi industrializzati, ha messo in crisi i marxisti, anziché essere da loro vissuto come una conferma delle previsioni dei padri del socialismo scientifico. E’ indubbio che si tratta di materia ostica e a testimoniarlo sono le svariate interpretazioni che della globalizzazione hanno dato e continuano a dare uomini di scienza e di cultura. A determinare però l’imbarazzo degli esponenti della sinistra ci sta, a mio avviso, un motivo che deve suscitare preoccupazione, e cioè il persistere di uno schematismo pregiudiziale coniugato a un deficit di analisi che è frutto di una reminiscenza dell’illusione coltivata nel tempo di un crollo inevitabile del capitalismo. Fare i conti con il compimento della mondializzazione del capitale assume, infatti, per molti comunisti il significato di uno scivolamento sul terreno del revisionismo socialdemocratico e l’implicita attribuzione al capitalismo di qualità e di dinamiche che – a parer loro – devono essere negate in linea di principio. Di conseguenza, fare i conti con la globalizzazione comporta ammettere i limiti che lo stesso marxismo ha evidenziato nell’elaborazione della sua teoria rivoluzionaria e nella sua azione pratica per una lunga fase storica. E una tale ammissione appare a molti un cedimento. Questa remora non ha in ogni modo impedito ad alcuni, o meglio a pochi, di riflettere e porsi degli interrogativi, se non in presenza dei primi segnali di cambiamento, in tempi immediatamente successivi. Alla fine degli anni ’70, ad esempio, Sergio Segre su “Rinascita” si è chiesto se non si stesse assistendo a un momento di internazionalizzazione quale il mondo fino ad allora non aveva conosciuto. E mentre per molti il postfordismo non sarebbe stato altro che un ulteriore approfondimento del processo che prolunga il taylorismo nel fordismo e il fordismo nel keynesismo, per alcuni esso è stato interpretato come sintomo di una svolta storica. Ma per avere un’idea più precisa, seppure ancora approssimativa, di quanta sia stata la confusione interpretativa su un aspetto di così grande importanza, vale la pena di accennare ai principali punti di vista che sono stati manifestati, almeno come io li ho percepiti. Introdotta nel ’93 da Theodore Levitt, della Harvard Business School, l’espressione “globalizzazione del capitale” è stata usata per sostenere la tesi di un mercato ormai unico, dove imprese ancora a base nazionale “vendono la stessa cosa, nello stesso modo, dappertutto”. Non tutti però hanno concordato con tale interpretazione. C’è chi alla globalizzazione economica ha preferito attribuire il nome di “internazionalizzazione” della finanza e chi invece ha sostenuto trattarsi di una semplice ripresa della forma fordista “diretta e accentuata dalla tendenza all’integrazione verticale”. Qualcuno l’ha considerata “una fase del conclusivo consolidarsi di un impero universale anglofobo”, qualcun altro ha ritenuto che parlare di globalizzazione e di postfordismo avrebbe significato evocare dei miti destinati a mortificare la realtà delle cose. C’è pure stato chi ha esortato a rifiutare qualsiasi teoria che interpretasse lo sviluppo del capitalismo come se fosse fatto a stadi (“Si tratta di fasi ricorrenti, prive di un’insita tendenza teleologica, non invece stadi o gradini di uno sviluppo linearmente ascendente ed indirizzato ad un certo ben preciso fine”, ha precisato un esponente di questa tesi), e chi ha sostenuto che saremmo finalmente di fronte alla sua fase evolutiva estrema. A coloro che hanno considerato la globalizzazione il prodotto di un superimperialismo rappresentato dalle grandi società multinazionali di bandiera americana, si è contrapposto chi in essa ha visto lo scontro tra agguerriti imperialismi concorrenti; a chi ha teorizzato la glocalizzazione e paventato un controllo strutturale e ambientale, basato sulla disintegrazione verticale della produzione, si è contrapposto chi ha considerato la globalizzazione un’ideologia. Se alcuni hanno proposto una distinzione tra globalizzazione e mondializzazione, rifiutando l’idea di un capitale globale invincibile, altri hanno sostenuto che globalizzazione e polarizzazione sarebbero da considerarsi fenomeni che non possono essere separati, giacché il capitalismo sfrutta da sempre le risorse delle periferie. Da taluni la globalizzazione è stata interpretata come una divisione planetaria del lavoro, interna alla medesima impresa, il cui scopo sarebbe quello di sfruttare i vantaggi relativi di aree particolari, per esempio il basso costo del lavoro o un ambiente distrettuale particolarmente innovativo, mentre 441
da altri a questa fase storica hanno attribuito la peculiare caratteristica di ridurre il peso del lavoro salariato a vantaggio del lavoro autonomo. Infine, c’è stato chi ha addossato la responsabilità del dilagare su scala mondiale del fenomeno della globalizzazione neoliberista all’arrendevolezza dei ceti intellettuali e alla capitolazione più o meno esplicita della socialdemocrazia. Insomma, le interpretazioni hanno abbondato, soprattutto, sono risultate essere tendenzialmente contrastanti tra di loro. A riguardo della portata storica di questo processo, nella sinistra sono emerse due preminenti posizioni che grosso modo possono essere così descritte: l’una rifiutava di vedere un “salto di paradigma” nello sviluppo del capitalismo e considerava la globalizzazione una semplice prosecuzione del fordismo; l’altra sosteneva di essere entrati in una “nuova epoca”. Gli aderenti alla prima tesi, cioè gli irriducibili, ritenevano che l’uso della categoria globalizzazione fosse indice di un grave stato di inconsapevolezza e proponevano che il termine venisse sostituito dalla categoria leniniana di imperialismo. Come si sa, la teoria leninista vuole che l’imperialismo sia l’ultimo stadio del capitalismo e, a parer di questi assertori, noi oggi saremmo ancora in quella fase. Al loro sguardo, l’evidenza empirica dimostrerebbe che ciò che è avvenuto negli ultimi decenni assomiglia molto a un ritorno dell’economia mondiale al grado di internazionalizzazione raggiunto a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento e non configurerebbe affatto una processo di autentica globalizzazione. Sarebbe la retorica che viene fatta a raffigurare una fase inedita del moderno capitalismo, cioè un’autentica svolta epocale senza precedenti e irreversibile; questa versione le attribuirebbe un carattere di assoluta novità che significherebbe una rottura qualitativa con il capitalismo del passato. Dagli assertori del prima tesi, un’analisi del genere veniva considerata inaccettabile; l’idea del “salto di paradigma” avrebbe suggerito un mutamento del sistema di produzione che comporterebbe una transizione da una formazione sociale all’altra, e questo lo consideravano sbagliato. A chi riteneva essere la nostra una società postindustriale, costoro facevano osservare che a caratterizzare i suoi più diversi ambiti, a pervaderla è proprio la produzione industriale. Il tentativo di determinare l’esistenza di un cambiamento qualitativo sulla base di talune caratteristiche era da loro giudicato arbitrario, poiché per loro non esisteva un criterio convalidato dalla storia e dalla pratica che decidesse del passaggio del capitalismo da uno stadio qualitativo a un altro. Parlare dunque di globalizzazione significava per questa componente della sinistra voler dimostrare che in regime imperialista sono possibili pace e riforme. I cambiamenti intervenuti nel corso degli ultimi decenni nei Paesi dell’Occidente, non inaugurerebbero, nonostante la loro importanza, un nuovo modello di sviluppo del capitalismo, come sostengono i difensori della globalizzazione, ma rappresenterebbero una semplice continuità col passato. Infine, essi hanno denunciato il tentativo di far credere che il capitalismo fosse in procinto di cambiare natura non soltanto in senso dimensionale, ma anche e soprattutto in senso politico ed economico, al fine di attenuare e neutralizzare il conflitto di classe che continua a rendere complicato al capitale la detenzione del timone del mondo. Coloro invece che erano convinti che si stava entrando in una “nuova epoca” insistevano sul fatto che la rivoluzione scientifica che stiamo vivendo è senza precedenti e che è proprio essa a dettare le forme dell’economia, della società e della politica. Per la prima volta nella storia – facevano notare – la nostra specie sta mettendo sotto controllo le condizioni biologiche della propria esistenza e mentre per millenni l’uomo ha considerato la natura un’entità inviolabile, oggi la sta modificando in misura sempre più crescente. Le trasformazioni in atto sembrano determinare un vero e proprio salto di paradigma sociale, un salto caratteristico di una nuova epoca storica. C’era persino chi parlava di “quarto capitalismo” e teorizzava la fine della società della fabbrica e dello sfruttamento, senza più né servi né padroni. A dire di questi, il lavoratore salariato sarebbe stato destinato a diventare autonomo e indipendente; sia la cultura tecnica del capitale che la cultura politica del movimento operaio avrebbero esaurito la loro funzione. Socialismo e comunismo non avrebbero più alcun senso.
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Tra questi due tronconi di pensiero interni allo schieramento di sinistra, per lungo tempo non c’è stata né possibilità né volontà di confronto e di dialogo. Una singolare interpretazione della globalizzazione è poi quella espressa dal leader di Autonomia operaia Tony Negri in “Impero”, scritto assieme a Michael Hardt. L’impero è ai loro occhi la nuova forma di sovranità globale e la sua fonte normativa non è frutto né di un meccanismo contrattuale né di una prassi dei trattati. Esso non stabilisce alcun centro di potere e non poggia su confini e barriere fissi. E’ un apparato decentrato e “deterritorializzante” che agisce su tutti i livelli dell’ordine sociale e amministra delle identità ibride, delle gerarchie flessibili, degli scambi plurali. Nessuna nazione è leader mondiale. Lo sfruttamento capitalistico è diffuso ovunque, non è più limitato alla fabbrica, ma tende a impregnare tutto il sociale pur non potendo essere né localizzato né quantificato. Le relazioni sociali investono completamente i rapporti di produzione rendendo impossibile qualsiasi esteriorità tra produzione sociale ed economia. Oggetto di sfruttamento e di dominio è l’universale capacità di produrre e l’attività sociale astratta. Le forze produttive non producono solo merci, ma anche ricche e potenti relazioni sociali. L’impero non è nato da un proprio atto di volontà, ma è invocato e costituito in funzione della sua capacità di risolvere i conflitti. Negri e Hardt collocano al suo vertice gli Usa, quindi il G8 e i Clubs di Parigi, Londra e Davos. Sotto di questi ci sono le associazioni che dispiegano un potere culturale e biopolitico. Al piano intermedio si trovano le reti delle corporation capitalistiche transnazionali che governano i mercati (capitali, tecnologie, merci, popolazioni) e sotto di queste ci stanno gli Stati-nazione. La base è invece costituita dalle organizzazioni che rappresentano gli interessi popolari, cioè le Ong (organizzazioni non governative) le quali sono indipendenti dagli Stati-nazione, ma sono funzionali all’Impero. Il controllo imperiale si dispiega mediante tre strumenti globali assoluti: la bomba, il denaro, l’etere. Con la concentrazione della potenza distruttiva l’Impero è il ‘non luogo’ della vita. A essere in grado di costruire un controimpero sono le forze creative della moltitudine che però al momento sostengono l’Impero. Dal pur sommario quadro degli orientamenti che hanno albergato nel mondo della sinistra, e che qui ho cercato di tracciare, si evince che la confusione sotto il cielo è stata e resta grande e che ben difficilmente in queste condizioni è possibile contrapporre alla globalizzazione del capitale una strategia di sviluppo alternativa. Gli errori che la sinistra ha compiuto e continua a compiere sono tanti, troppi e hanno una portata strategica. Credo anzitutto abbia poco senso dichiararsi a priori pro o contro la globalizzazione e far dipendere da una tale discriminante la volontà o meno di costruire l’alternativa al capitalismo. Ciò che diventa decisivo è invece avere coscienza che a questo processo nessuna formazione economica, sociale e politica può sfuggire e pertanto con esso, cioè con l’ineluttabile evoluzione delle forze produttive a livello universale, che piaccia o no, si è chiamati a fare i conti fino in fondo. Come ci insegna lo stesso Marx, non ci si può battere contro la tendenza dell’umanità a percorrere la via del progresso, che purtroppo comporta anche costi e sacrifici collettivi e individuali enormi, ma ci si deve sforzare per ridurre al minimo questi effetti negativi, soprattutto se a subirli sono le classi sociali subalterne. La riorganizzazione del rapporto uomo-natura, del sistema produttivo e riproduttivo e delle relazioni sociali è un fenomeno persistente e inarrestabile che non va esorcizzato, ma governato. La discriminante della sinistra, rispetto agli altri schieramenti politici, deve essere la lotta contro la globalizzazione neoliberista i cui obiettivi sono in netta contrapposizione a quelli dell’internazionalizzazione della giustizia sociale e della solidarietà fra i popoli. Illudersi di poter fare a meno di misurarsi seriamente con quanto è successo a seguito della crisi del fordismo, cioè con il processo d’innovazione capitalistica, rifiutarsi di studiare e interpretare le innovazioni che il capitale mette in atto e accontentarsi invece di formulare sentenze di condanna, è un comportamento non solo infantile, ma irresponsabile perché significa rinunciare a capire la realtà e a intervenire su di essa nel modo giusto per cambiarla.
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13.6 – Il rivoluzionamento del modo di produzione capitalistico Alla luce delle modificazioni intervenute nei modelli produttivi e nel rapporto fra impresa e società, appare evidente che siamo entrati in una nuova fase. In particolare, lo sviluppo dell’economia ha registrato un notevole salto di qualità. Se è legittimo dubitare sull’opportunità di definire la nostra epoca con il termine post moderna, come usano fare molti esponenti delle scienze sociali, si rivela esercizio anacronistico considerare il passaggio dal fordismo alla globalizzazione un periodo senza soluzione di continuità. Ci sono tre aspetti, a mio modo di vedere, che distinguono la nostra epoca dalla precedente sancendone il carattere inedito. Il primo di questi aspetti è costituito dal fatto che nella società del capitalismo globale la molla dello sviluppo non è più il lavoro, ma il consumo, non è più l’industria ma lo sono i servizi. I centri di comando della produzione e della finanza estendono, infatti, il loro intervento sui consumi condizionandoli a un punto tale da trasformare in bene di consumo persino il tempo libero. Un ruolo decisivo in questo processo è assolto dai mass-media e dalla pubblicità. Questo fa sì che il limite della produzione sia costituito non più dalla quantità che può essere prodotta dall’industria, come avveniva nel fordismo, ma dalla quantità che può essere venduta con profitto. Le grandi concentrazioni produttive, oltre al controllo dell’offerta, tendono ad assicurarsi anche quello della domanda. Proprio per questa ragione, nelle economie in cui si registra una crescita maggiore, la popolazione addetta allo scambio di merci risulta essere superiore a quella destinata alla loro produzione. Si è, di conseguenza, in presenza di un nuovo tipo di terziario che è concentrato in prevalenza sui servizi, in specie su tutto quanto serve per mantenere in stato di “benessere” le persone, e sulle tecnologie. Si tratta di un’economia che trae valore dalle nuove scoperte della scienza e della tecnica e che si avvale del contributo di istituzioni non-profit come le università, i laboratori scientifici, gli ospedali. Siamo, in sostanza, di fronte a un nuovo business che presuppone una forte interdipendenza tra la sfera pubblica e quella privata. Secondo aspetto. Mentre al centro del sistema fordista vi era la grande fabbrica, oggi assistiamo al declino relativo delle economie di grandi dimensioni e alla diffusione e anche all’importanza, delle economie di media-piccola scala, quelle flessibili e della specializzazione. Stiamo cioè vivendo una rivoluzione di tipo spaziale. Se il fordismo ha significato concentrazione della produzione dal punto di vista geografico, l’economia postfordista risulta caratterizzata dal fenomeno del decentramento. La fabbrica viene ridimensionata quale centro propulsivo e tende ad espandersi sul territorio. A regolare la produzione industriale non è appunto più l’offerta, ma sono le leggi e i tempi della domanda. E’ il mercato a condizionare pesantemente la fabbrica e a modellarla sulle proprie esigenze. Terzo e ultimo aspetto è quello relativo al prevalere sulla produzione materiale della produzione immateriale. Si è, cioè, venuto definendo un nuovo ciclo produttivo che fonda le sue radici sull’informazione in tempo reale e fa apparire i materiali come un reperto del passato. A determinare questo processo d’innovazione hanno contribuito particolarmente due fattori, precisamente il sapere scientifico, che consiste nel ricorso da parte delle unità produttive all’alta tecnologia (high-tech), e l’applicazione dell’informatica sia al modo di produrre che al sistema degli scambi. Ma vediamo nel dettaglio, seppure in modo sommario, gli aspetti più importanti di questa generale mutazione partendo proprio da questi ultimi due fattori innovativi. L’applicazione della tecnologia al ciclo produttivo non è di certo una novità essendo una pratica antica inaugurata con la prima rivoluzione industriale. Lo sviluppo del capitale tende per sua natura a ridurre progressivamente il lavoro vivo fino alla negazione del lavoro necessario. Come ci ricorda Marx, “condizione della produzione per il capitale non è il lavoratore, ma soltanto il lavoro. Se può farlo svolgere dalle macchine o addirittura dall’acqua, dall’aria, tanto di guadagnato… Se il capitale potesse possedere il macchinario senza impiegarvi lavoro, esso accrescerebbe la forza produttiva del lavoro e ridurrebbe il lavoro necessario, senza dover comprare lavoro”. Solo che 444
dopo averlo fatto per oltre due secoli, ora il capitale non si alimenta più del solo lavoro “vivo” trasformandolo in lavoro “morto”, ma estende la sua voracità alla totalità dell’esistenza umana. L’induzione dei consumi trasforma i bisogni umani in fonte di profitto. La capacità del capitale di pervadere la società diviene totalizzante e universale e questa sua azione ha successo anche grazie all’impiego delle nuove tecnologie che consentono di aumentare la produttività del lavoro e insieme di condizionare i rapporti sociali. E’ questa la ragione per cui la civiltà del capitale, che subordina, divide, semplifica e aliena il lavoro, è anche la civiltà delle macchine per eccellenza. La scienza diventa forza direttamente produttiva e il nuovo materiale chiave è rappresentato dai “saperi” i quali non si esauriscono con l’uso come avviene per le materie prime, ma si moltiplicano. Le nuove tecnologie contribuiscono a rendere minimo il consumo di capitale attraverso una più efficace utilizzazione delle materie prime, la diminuzione degli sprechi, la standardizzazione di parti di prodotti e di processi produttivi, il miglioramento dell’efficienza e lo sviluppo dei sottoprodotti. Consentono altresì una più efficiente utilizzazione degli impianti, dei materiali e delle attrezzature intensificando così lo sfruttamento del lavoro. La rivoluzione tecnologica, unitamente a quella informatica, ha reso confusa la distinzione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale scomponendo e dissolvendo quel profilo che li separava e che nell’era fordista risultava netto. L’automazione flessibile della fabbrica fonda su un sistema coordinato dal computer e mentre le attività si trasformano, nascono campi come la meccatronica, la burotica, l’agronica. C’è chi, non a caso, parla di terza rivoluzione industriale. Sta di fatto che la base delle conoscenze tecnologiche non solo muta velocemente mettendo sempre più i lavoratori in condizioni di arretratezza, ma pervade ogni attività umana modificando rapidamente comportamenti, interessi e culture. E questo processo avviene in funzione del mercato, cioè del profitto, e non invece dell’interesse collettivo. Con l’informatizzazione della produzione, il computer si impone come strumento universale attraverso cui passa qualsiasi attività e il lavoro diventa astratto. Un processo analogo a quello che nel passato ha riguardato l’agricoltura, nell’era postfordista investe l’industria: nel passaggio alla modernizzazione l’agricoltura non è certo scomparsa, è invece diventata agricoltura industrializzata. Con la globalizzazione l’industria è investita dalla informatizzazione e mentre da un lato si automatizza, dall’altro accusa un restringimento dell’impiego di manodopera facendo registrare un radicale cambiamento qualitativo. Con l’informatica viene automatizzata anche l’ultima residua funzione corporea, fino a ieri sottratta all’autocrazia della macchina, cioè la funzione cerebrale del lavoratore, quella che esercita il controllo dei processi. Basti pensare che le grandi imprese, attraverso internet, hanno dato vita al cosiddetto crowdsourcing, cioè all’“intelligenza collettiva” che aiuta a sviluppare nuovi prodotti e a risolvere i problemi aziendali. Il lavoro, così come noi l’abbiamo conosciuto, non è dunque più la principale forza produttiva e la sua durata non è più la misura della produzione di ricchezza. A diventare capitale fisso non è la “testa di chi lavora”, ma l’intelligenza oggettivata, la macchina informatica. L’intelligenza si presenta così separata dalla sua base biologica. L’industria postfordista ha bisogno di persone capaci di lavorare in gruppo autonomo, di coordinare le loro iniziative, le loro competenze, senza che nessuno le sorvegli o dia loro ordini. Un’esigua parte di chi lavora è obbligato a essere sempre più responsabile di un sistema complesso di macchine, di robot che necessitano soprattutto di manutenzione e di riparazioni. A valle della produzione si forma una massa di lavoratori temporanei e precari che vengono assunti e licenziati a seconda dei bisogni dell’impresa e ai quali vengono negate le più elementari garanzie sociali. I processi di informatizzazione producono un grande risparmio di forza lavoro e un esercito di lavoratori di riserva in pianta stabile. L’informatizzazione microelettronica, per esempio, consente alle imprese di abbattere enormemente i costi e di incrementare la produzione impiegando non solo lo stesso macchinario, ma rendendolo polivalente e più efficiente. Il processo storico che ha portato all’affermarsi della macchina informatica ha pertanto significato un salto d’epoca paragonabile al passaggio dall’agricoltura all’industria. 445
Si consideri che senza lo sviluppo di internet (ad opera del Pentagono) il “boom” della new economy non sarebbe stato possibile. Informatica e nuove tecnologie applicate al ciclo produttivo hanno così rivoluzionato l’impresa rendendola snella. Un tempo il confine di un’azienda era ben definito e fisicamente percepibile (gli edifici, i reparti di produzione, i magazzini), dopo la crisi del fordismo è invece diventato fluido e sempre meno individuabile. L’impresa è diventata un’entità aperta, indefinita, si estende sul territorio e varca i confini degli Stati. Suoi obiettivi prioritari sono divenuti l’incremento continuo di intensità e produttività del lavoro e la velocizzazione del processo di rotazione del capitale costante. Suo compito precipuo è quello di accrescere il tasso di sfruttamento della forza lavoro e di eliminare qualsiasi forma d’improduttività. E per ottenere questo risultato minimizza il tempo di lavoro necessario alla produzione, riduce all’essenziale l’apparato produttivo, abbatte le scorte di magazzino, impone un miglioramento continuo alla qualità del prodotto. Per acquisire e mantenere un livello di competitività sui mercati è costretta ad accelerare i ritmi di lavoro e a ritagliarsi margini di flessibilità sull’uso della forza lavoro che in concreto significa libertà di assumere e di licenziare. Con la fabbrica flessibile il processo di produzione si adatta alle incertezze del processo di circolazione rispondendo a una domanda che è sempre più diversificata e fluttuante. Il fenomeno dell’esplosione di nuove imprese e della repentina cessazione dell’attività di quelle esistenti trova giustificazione proprio in questo contesto innovativo. Grandi e medie industrie disarticolano la catena del lavoro, allocano singoli segmenti del processo produttivo (ricerca, progettazione, marketing, costruzione di singole componenti, assemblaggio, ecc.) in ambiti territoriali diversi, scegliendo per ogni segmento i luoghi che garantiscono condizioni ideali di produttività. E’ l’outsourcing che consente di gestire in modo nuovo il costo del lavoro, la formazione professionale, il sistema fiscale, il know-how, le infrastrutture, i rapporti sindacali. E’ ancora l’outsourcing che esternalizza porzioni crescenti del processo produttivo e organizzativo, la stessa amministrazione e contabilità e i sistemi logistici e di trasporto. L’impresa scarica in questo modo all’esterno le attività labour intensive (ad alta intensità di lavoro) per risparmiare sul costo della manodopera e anche per eliminare le forme di conflittualità tipiche della grande fabbrica, e si concentra sul proprio core business. La modalità tipica che realizza un simile processo è quella del ricorso alla subfornitura e al subappalto per tutti i lavori di costruzione, installazione, riparazione e diagnostica. E’ la fabbrica diffusa che presuppone un’unità centrale che coordina e pianifica un reticolo di unità produttive periferiche, le quali possono diventare centinaia, persino migliaia attraverso lo sviluppo del sistema delle filiali e del subappalto. L’impresa ricorre anche a forme marginali di prestazioni quali il lavoro a domicilio e il lavoro “nero” la cui funzione è quella di far risparmiare sul costo del lavoro. Per limitarmi a due soli eloquenti esempi, voglio ricordare che nei primi anni del nuovo secolo l’americana General Elettric ha trasferito a società esterne, per lo più estere, il 70% dei suoi 313 mila posti di lavoro. Sempre negli Stati Uniti, da molte imprese è stato sperimentato il working solo che consiste nell’eliminazione totale del lavoro dipendente e la sua sostituzione con l’adozione di nuove tecnologie e la collaborazione di esperti esterni. Reso possibile dalla rivoluzione informatica che consente un controllo delle varie fasi di lavorazione 24 ore su 24 (real-time), l’outsourcing offre appunto i vantaggi di ottimizzare il ciclo produttivo eliminando parte dei costi e di operare in ambienti diversi conseguendo favorevoli condizioni fiscali e doganali. Quella dell’outsourcing è però un’esperienza contraddittoria giacché, alla fine del primo decennio del nuovo secolo, una ricerca dell’Unioncamere ha documentato che un quarto delle imprese manifatturiere italiane che hanno sperimentato questa pratica stavano progettando, per ragioni riguardanti soprattutto la qualità dei prodotti, di riportare all’interno del perimetro aziendale alcune fasi produttive affidate all’esterno. Tale fenomeno è probabilmente da imputare a un eccesso di esternalizzazione.
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Il tradizionale modo di produrre fordista, che non è più compatibile con le innovazioni introdotte, continua a essere praticato nelle aree di nuova industrializzazione e ai margini del ciclo produttivo moderno svolgendo un ruolo di complemento. Un tempo le aziende producevano in base alla commessa, ora adottano il just in time, un metodo inventato e sperimentato dai giapponesi che fonda sul restringimento del magazzino, cioè sulla riduzione delle scorte, dei tempi morti e pure sul controllo continuo di ogni fase del ciclo che prima avveniva a prodotto finito. La quantità e la qualità del prodotto sono determinate direttamente dalla domanda in tempo reale. Con l’adozione di questo metodo, definito anche lean prodaction (produzione leggera o snella), l’aumento della produzione non corrisponde più a un parallelo sviluppo delle forze produttive, come avveniva nell’era fordista, ma grazie a una manodopera multispecializzata e a macchinari automatizzati e altamente flessibili, combina i vantaggi della produzione artigianale con quella di massa, evitando l’elevato costo della prima e la rigidità della seconda. A modellare l’approccio al lavoro qualificato è la priorità attribuita alla flessibilità, vale a dire l’adattabilità istantanea del lavoratore alle mutevoli richieste del management. Anche il just in time presenta però un aspetto di vulnerabilità: è sufficiente che manchi anche solo un elemento del suo schema perché l’intera operazione risulti compromessa. Da qui la rigidità della sua applicazione. Nel campo automobilistico i giapponesi hanno dato vita al toyotismo. Non più scorte di magazzino, non più rigidità, ma comunicazione costante e istantanea tra produzione e consumo. La fabbrica toyotista è monistica ed egemonica. Richiede l’adesione totale dei soggetti e la riduzione della statualità a semplice amministrazione. Il primato ideologico dell’impresa segna la fine della funzione dello Stato come mediatore dei conflitti prodotti dalla logica del mercato. Il toyotismo raggiunge con la forza e con la persuasione ciò che Henry Ford ottenne attraverso gli alti salari, i benefici sociali e l’educazione morale. Esso è un ibrido di feudalesimo e modernità. Si sforza di ricreare l’organizzazione umana del capitalismo nella fase della sua maturità, di riprodurre cioè una moderna etica capitalistica tra i lavoratori, ripescando modelli sociali del passato e applicando ad essi le moderne tecniche di produzione. Non a caso esso viene sperimentato in un Paese come il Giappone dove la modernità convive con tradizioni medioevali. Il capitalismo giapponese, si presenta difatti come la incarnazione del signore feudale che garantisce la sicurezza del lavoro, mentre chiede in cambio al lavoratore, che incarna il servo della gleba, lealtà e obbedienza. All’interno di una fabbrica giapponese, a causa dello stress indotto dalla sottodotazione di personale e dall’intensità del ritmo produttivo, il lavoro è peggiore di quello di una tradizionale fabbrica fordista. Lungi dal costituire una rottura con i principi del taylorismo e del fordismo, esso si limita a portare all’estremo la razionalizzazione del lavoro e il flusso continuo della produzione in una situazione in cui i rapporti di forza sono a favore del padronato. Tutti i compiti vengono razionalizzati e soltanto i lavoratori più abili riescono ad eseguirli mantenendo il ritmo richiesto. Avendo bisogno di una forza lavoro più attenta e più elastica, e dalla quale deve ottenere il consenso, delega allo stesso gruppo di lavoratori il controllo reciproco tra di loro. I lavoratori vengono così ridotti a cose tra le cose. Caratteristica di tutte le imprese giapponesi è il kaizen che rappresenta il miglioramento costante della qualità del prodotto. Si tratta di una filosofia che i capitalisti hanno tentato di applicare anche in Occidente, ma che ha incontrato ostacoli insuperabili e decisa avversità da parte delle organizzazioni sindacali. In Europa ha trovato invece ampia applicazione la Total Productive Maintenance che consiste nel mantenimento della produttività totale tramite la manutenzione garantita dagli stessi operatori dell’attrezzatura o della macchina. Il capitale nostrano ha preferito puntare sulla qualità totale che punta al maggior coinvolgimento dell’intelligenza del lavoratore offrendogli spazi di compartecipazione alle decisioni imprenditoriali. La Fiat di Rivalta Mirafiori, ad esempio, ha persino coinvolto il sindacato (Fiom compresa) nel raccogliere idee da mettere a disposizione della direzione al fine di conseguire più
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alti livelli di produttività, redditività e competitività. Anche il modello della qualità totale assume un carattere anntioperaio e antisindacale tale da incontrare resistenze e contestazioni. Alla luce di questa breve e sommaria carrellata sui nuovi sistemi produttivi che caratterizzano la fase postfordista, si evince che sul palcoscenico della storia economica è apparso un nuovo tipo di impresa, quella cioè che ha come motore oltre al capitale e al lavoro, le idee. E pure che siamo in presenza del passaggio dall’industria “del prodotto” all’industria “della funzione” la quale è chiamata a misurare la sua competitività sui mercati internazionali. La ristrutturazione capitalistica ha dissolto le grandi fabbriche nelle quali si organizzava l’antagonismo di classe, le ha smantellate e divise nei distretti, nelle imprese-rete, nelle filiere, nei reparti produttivi diffusi sul territorio. Dal punto di vista del modello organizzativo della produzione, la catena di montaggio è stata sostituita dalla “rete” che libera la produzione dai vincoli spaziali. L’accentramento e la concentrazione delle aziende avvengono in modi e forme assai diversi dal passato. Mentre le produzioni tecnologicamente più avanzate tendono a concentrarsi nelle aree forti dove vengono adottati i più efficienti metodi di lavoro, quelle ancorate ai metodi tayloristici vengono delocalizzate in Paesi dove il costo del lavoro è basso, la forza lavoro facilmente disciplinabile e il fisco meno gravoso. A consentire questo processo di esternalizzazione a livello planetario sono la diffusione delle strategie informatiche che consentono di comunicare in tempo reale e l’efficienza raggiunta dal sistema dei trasporti. L’outsourcing assume così una dimensione internazionale (offshoring) consentendo a molte imprese occidentali di trasferire la gestione di parecchi servizi in Oriente. Dai soli Stati Uniti, negli ultimi anni, le imprese del credito, dell’assicurazione e dei servizi hanno trasferito all’estero ben un milione di posti di lavoro. A fare da “retrobottega” alle multinazionali già alcuni anni fa vi erano oltre cinquantamila indiani. Operazioni analoghe sono state fatte dai colossi automobilistici, quali la General Motors e la Volkswagen, e dalla stragrande maggioranza dei produttori di consumi durevoli. Del resto, le imprese che sono interessate a competere sui mercati più lontani devono necessariamente integrarsi nelle reti locali di quei territori e perciò nella delocalizzazione e nell’internazionalizzazione trovano la via più idonea a conseguire i loro obiettivi. In questo modo il capitale si denazionalizza, diventa transnazionale e opera su scala planetaria. Queste imprese ripartiscono i posti di lavoro e gli oneri fiscali sullo scacchiere della società mondiale e operano al fine di abolire le regole e i condizionamenti nazional-statali. Le aziende off-shore sono ormai diffusissime. Producono in Slovenia o in Romania, commercializzano con i tedeschi o con i giapponesi o gli americani, fanno logistica con gli olandesi e fanno finanza a Dublino o a Francoforte. Esempio eloquente è la stessa Fiat la quale, facendo alleanza con gli americani, si è trasformata in Fca, Fiat Chrysler Automobiles, ha stabilito la sua base in Olanda e paga le tasse in Gran Bretagna. La flessibilità, prima ancora che riguardare gli orari e le condizioni di lavoro, riguarda la struttura stessa di queste aziende. Il processo di globalizzazione ha poi favorito la moltiplicazione delle holding, cioè di quelle società che possiedono la maggioranza delle azioni o comunque il controllo di svariate altre società dislocate nei più remoti angoli del pianeta. Queste aziende adempiono funzioni strategia e di pianificazione, attendono alle relazioni pubbliche e al coordinamento generale. Esistono holding finanziarie che si limitano a un’esclusiva attività di controllo e holding operative che invece esercitano una propria attività produttiva. Si tratta di società multinazionali i cui azionisti sono diffusi nei Paesi di tutto il mondo. Con la crisi del fordismo è poi nato anche il franchising, una forma imprenditoriale che è molto presente nel settore della distribuzione e che consiste nell’accordo tra più imprese una delle quali, l’impresa madre, concede alle altre il permesso di usare un determinato nome o marchio e il relativo know how, in cambio di una compartecipazione al ricavato delle vendite e di un controllo sulle tecniche di vendita e sulla qualità del prodotto. E’ probabile che nel passare in rassegna il panorama delle novità imprenditoriali determinate dal postfordismo, abbia tralasciato di citare altri soggetti e sistemi e altre particolarità che caratterizzano 448
il nuovo modo di produrre capitalistico e che avrebbero dovuto trovare spazio in questa riflessione. Nello scusarmi con il lettore per le eventuali negligenze, desidero precisare che il mio intento è semplicemente quello di evidenziare la prevalenza che in questa fase ha ciò che è “nuovo” rispetto a ciò che è “vecchio”. Cioè, quel che mi preme mettere al centro della riflessione è che noi siamo in presenza della formazione di un nuovo ordine economico internazionale, oltre che sociale e politico. Nella società mondiale sta cambiando qualcosa che non è per nulla marginale, ma investe il cuore del modo di produzione e il meccanismo stesso dell’accumulazione capitalistica. Quando gli studiosi ci informano che i lavoratori occidentali, dipendenti e autonomi, producono ormai poco plusvalore e che nell’Europa occidentale e settentrionale non ne producono assolutamente, anzi, producono ciò che chiamano “plusvalore negativo”, giacché i loro salari sono maggiori del plusvalore che essi hanno creato (il plusvalore positivo viene conseguito nelle aree di nuova industrializzazione); quando le statistiche dell’Onu e dell’Unione Europea ci dicono che il plusvalore dei lavoratori occidentali equivale al solo 10% dei loro salari, mentre nel Sud del mondo e nei Paesi dell’Est risulta essere superiore ai salari stessi; quando si costata che la vecchia regola secondo la quale più investimenti hanno sempre significato più occupazione, non vale più da noi ai nostri giorni e che qualsiasi ripresa economica è jobless, cioè non produce nuovi posti di lavoro e non fa salire l’occupazione come nel passato, c’è motivo di dubitare che le tradizionali cognizioni della sinistra sulle sorti del capitalismo e sulla lotta di classe siano ancora valide. Avverto perciò un grande bisogno di approfondire l’analisi quale condizione per affinare la teoria del cambiamento. E l’obiettivo di questa mia esplorazione dei fenomeni che hanno contraddistinto il passaggio dal fordismo al postfordismo, e che stanno tuttora investendo il sistema capitalistico, è proprio quello di sollecitare e contribuire a una riflessione. Il processo di mondializzazione della produzione in atto, come ho cercato di evidenziare, porta con sé molti elementi di novità i quali hanno un carattere di originalità che non è riconducibile al vecchio modello fordista. Pertanto, considero un errore non tenere nel debito conto queste novità e continuare invece a persistere nei vecchi schemi mentali come succede ancora per quella stessa parte della sinistra che non ha rinunciato a battersi per un’alternativa al capitalismo. Mentre noi siamo rimasti fermi alle analisi e ai concetti del passato, il capitalismo ha compiuto la sua rivoluzione e ancora oggi, pur gravido di contraddizioni, dà segni di procedere speditamente nel suo processo evolutivo. 13.7 – Gli effetti del postfordismo sul mondo del lavoro Il capitalismo muta pelle, modifica le sue forme, si sposta sul territorio, determina nuovi equilibri mondiali, però non perde il vizio di sfruttare la forza lavoro. Per appropriarsi del plusvalore rinnova in continuazione i metodi che gli consentono di trasformare il “lavoro vivo” in “lavoro morto” e di ridurre al minimo il lavoro necessario. Con l’avvento del postfordismo il lavoro subisce un radicale mutamento, anche se in forza della legge del profitto mantiene inalterate alcune sue caratteristiche di fondo. Il capitale continua ad esempio a riprodurre l’esercito di riserva della forza lavoro e ne fa uso costante ai fini della contrattazione con sindacati e istituzioni. Seppure nel tempo sia stato costretto a ridurre l’orario di lavoro, non rinuncia mai a prorogare oltre i limiti consentiti la giornata lavorativa. Accanto alle moderne forme dell’organizzazione produttiva continua a mantenere vive pratiche antiche quali il cottimo, il lavoro a domicilio, l’occupazione precaria e stagionale, la sottoccupazione. Mentre rivoluziona i metodi di lavoro, in ampie aree del sistema produttivo persevera nel produrre con i vecchi canoni del taylorismo. L’introduzione delle innovazioni tecnologiche, insomma, non soppiantano completamente il vecchio modo di lavorare, bensì lo incorporano e lo adattano alle nuove dinamiche dello sviluppo producendo inedite forme di sfruttamento. C’è chi ha gridato alla fine del lavoro e all’esaurimento dell’epoca dei conflitti sociali; in realtà ad essere in fase di esaurimento è la civiltà del lavoro industriale, non quella del lavoro tout court. Coloro che hanno sostenuto che il postfordismo avrebbe reso l’uomo libero di dedicarsi all’otium 449
creativo hanno scambiato per morte del lavoro quella che invece è una sua mutazione genetica. La situazione, infatti, è molto diversa da quella prospettata da questi fallaci profeti: anche nell’epoca della globalizzazione il lavoro continua a essere il fondamento costituente e imprescindibile della società, anzi, ancor più che nel passato, il capitalismo chiede alle persone di vivere per il lavoro. Con il neoliberismo a dominare è la religione del “darwinismo aziendale” per cui sono gli uomini a doversi adeguare sempre più alle regole del mercato e del profitto e non viceversa. Succede che con il nuovo modo di produzione aumenta lo stato di subordinazione dei lavoratori al capitale e si accentuano le disuguaglianze tra i singoli individui e tra le collettività. Ma vediamo nel dettaglio gli effetti che il passaggio dal fordismo al postfordismo ha prodotto e sta ancora producendo nel mondo del lavoro. Ci sono osservatori che pongono l’accento sul fatto che con il processo di modernizzazione il capitale sacrifica sull’altare del mercato alcuni suoi elementi caratteristici quali la lealtà, la fiducia e la coerenza sociale. Ammesso e non concesso che il sistema sociale fondato sul profitto e sulla competitività capitalistica abbia mai vantato simili virtù, va preso atto che la sua mutazione implica un pesante condizionamento dei rapporti interpersonali e produce conseguentemente un cambiamento nei comportamenti etici e morali degli esseri umani. Ci si interroga spesso, ad esempio, sulle cause che determinano la crisi delle pratiche religiose e sul venir meno del senso di rispetto verso l’autorità costituita, e non sempre ci si rende conto che a determinare il distacco dalla fede, dal dettato canonico e dal rispetto delle istituzioni che l’uomo si è dato per governare la società, è proprio il modo di vivere e di pensare indotto dal sistema capitalistico. Il capitale produce cultura e morale, determina comportamenti e bisogni delle persone e condiziona non solo il mondo della produzione, ma anche quello della riproduzione. Il costume che diffonde non è quello della solidarietà e del rispetto altrui, ma quello del possesso, del guadagno, del primato sui propri simili. Al lavoro produttivo intreccia quello improduttivo e rende vacua la separazione, che anche la sinistra di sovente ha fatto erroneamente propria, tra produttori di beni materiali e operatori intellettuali, tra salariati industriali e occupati nelle attività terziarie. Nell’epoca postfordista, è bene ricordarlo, la creazione di valore oltre che sullo sfruttamento dell’operaio di fabbrica, avviene in ogni altro ambito dell’attività sociale. Le macchine che nell’epoca fordista erano impiegate per eseguire compiti meccanici, ora sostituiscono il lavoro umano a tutto campo, investendo lo stesso lavoro intellettuale. I servizi, la comunicazione, la cultura vengono sempre più asserviti al profitto e la funzione cognitiva del lavoro diventa la base strategica dell’accumulazione. Si rivela fondata la definizione fornita da Marx secondo cui la forza lavoro è costituita da tutte le facoltà fisiche e intellettuali contenute nel corpo di un essere umano e non solo dalle sue braccia. La diminuzione formale dell’orario di lavoro e la possibilità (teorica) di lavorare in proprio a ogni livello contribuiscono a determinare un cambiamento di atteggiamento che richiede al lavoratore una certa dose di intelligenza e fantasia ben più grande di quella che nel periodo fordista veniva richiesta all’addetto alla catena di montaggio. Con lo sviluppo delle tecnologie informatiche, e in generale dell’informazione, nuove porzioni esecutive del lavoro intellettuale, in precedenza appannaggio del cervello umano, vengono erose e incorporate nelle macchine, restringendo in continuazione lo spazio di attuazione del lavoro mentale. Il capitale induce l’intellettuale a lavorare non più col cervello, ma con una macchina la quale maneggia la sua stessa mente. Si consideri che alla metà degli anni ’80, nei Paesi industrializzati dell’Occidente, oltre il 50% di chi era al lavoro risultava impiegato nelle attività di informazione. Alla Ibm italiana su tredici mila dipendenti, tre mila svolgevano il lavoro diretto, mentre gli altri dieci mila si occupavano di pubblicità, pianificazione, progettazione. Da anni la percentuale dei lavoratori informatici è in continua crescita. Se ieri la meritocrazia privilegiava le esperienze lavorative acquisite dall’individuo, oggi tiene soprattutto in conto le sue potenziali capacità e la sua adattabilità ai cambiamenti.
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Nel mentre che la subordinazione del lavoro salariato si trasforma sempre più in dipendenza, in asservimento personale, il confine tra lavoro e non lavoro si assottiglia, in alcuni casi fino al punto di sparire. Il lavoro viene deregolamentato e la giornata lavorativa sovvertita: si lavora anche quattordici ore al giorno e a maggior lavoro corrisponde in proporzione minor salario. Perde così di senso la giornata lavorativa non essendo più possibile misurarla. Il lavoro intellettuale, specie quello svolto tramite internet, è un tipo d’impiego che non richiede più un preciso luogo o un orario, perciò viene svolto senza alcun controllo diretto e in buona parte anche senza alcun compenso. Un recente rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha evidenziato come a partire dal 1976 il tempo di lavoro sia in ascesa negli Usa, in Giappone, in Canada e anche in Italia. L’americano tipo lavora ogni anno 350 ore in più dell’europeo tipo e più del giapponese. La tecnologia ha uno sviluppo tale che la produttività del lavoro aumenta al punto tale da far diventare il lavoro stesso un elemento marginale. Gli incrementi si realizzano con la razionalizzazione dei processi e con la riduzione dei tempi morti e degli stock e anche forzando ulteriormente le prestazioni delle macchine. Per assicurarsi il raggiungimento degli obiettivi di produttività e qualità, vengono coinvolti i lavoratori stessi attraverso l’attribuzione di bonus e la compartecipazione agli utili d’azienda. Il riconoscimento del premio di produzione rappresenta per i lavoratori un incentivo a introdurre nei metodi di lavoro miglioramenti che consentono all’azienda maggiori profitti. Per conseguire ritmi più elevati di produzione l’impresa ricorre alla parcellizzazione del lavoro e tenta di ridurre l’operaio a un autentico robot. Si spersonalizza il lavoratore e mentre si pretende da lui una specializzazione poliedrica, si cerca di privarlo di ogni spirito critico impedendogli una presa di coscienza del suo stato di subordinazione, stroncando in questo modo il suo rapporto solidale con i suoi compagni. Mentre nell’azienda fordista le differenze di resa del lavoro individuale erano contenute, in quella postfordista il rendimento del lavoratore più produttivo rispetto a quello che lo è meno, nell’ambito della stessa categoria professionale, può risultare superiore anche decine di volte. Tra il 1998 e il 2008 la produttività manifatturiera in Italia è cresciuta del 19% con le punte maggiori proprio nelle realtà in cui è stata ridotta la manodopera. Altre caratteristiche dell’organizzazione del lavoro postfordista sono l’ampliamento e la rotazione delle mansioni e il lavoro a squadre. Più di cento anni fa Marx annotava che la moderna industria capitalistica “getta incessantemente masse di capitale e masse di operai da una branca della produzione all’altra, quindi... porta con sé variazione del lavoro, fluidità delle funzioni, mobilità dell’operaio in tutti i sensi”. Ora, l’introduzione dell’automazione implica la costituzione di gruppi di lavoro che riuniscono in sé varie competenze e presuppone la valorizzazione della pluri-abilità e la relazione collaborativa fra lavoratori e dirigenti. L’organizzazione del lavoro imperniata sulle squadre rappresenta il meccanismo chiave che consente di trasferire i processi decisionali verso il basso sfruttando al meglio l’intelligenza dei lavoratori. La squadra è fonte di motivazione, disciplina e controllo sociale e si trasforma in un organismo di auto-regolamentazione tale da garantire la soluzione dei problemi o suggerirla agli stessi dirigenti. I membri di una squadra si sorvegliano e si sollecitano a vicenda in maniera che ognuno esegua il lavoro nei modi e nei tempi stabiliti. Il capitalismo postfordista accentua il ricorso allo sfruttamento intensivo e continua a praticare lo sfruttamento estensivo. Da una parte, infatti, intensifica i ritmi, sostituisce il lavoratore con le macchine, condiziona la sua azione alle nuove tecnologie e riduce il tempo di lavoro necessario per la riproduzione della forza lavoro conseguendo quel che Marx definisce plusvalore relativo. Dall’altra prolunga il tempo di lavoro oltre gli orari stabiliti (le ore straordinarie), cioè oltre il tempo necessario, conseguendo in questo modo il plusvalore assoluto. Oltre a sfruttare il lavoro esecutivo, il capitale si appropria del lavoro creativo di tecnici e lavoratori e trasforma la loro intelligenza lavorativa in intelligenza dell’azienda. Il sapere collettivo, quello che viene chiamato general intellect, subisce costantemente un trasferimento nella macchina accumulandosi nel tempo e diventa sapere di proprietà esclusiva del capitalista. Conseguito in cambio del salario e dello stipendio, viene usato dal capitale non solo per ricavare profitto, ma 451
anche per condizionare la stessa società mediante l’induzione di bisogni e consumi. Il lavoratore diventa così prigioniero dell’uso perverso della sua stessa intelligenza e creatività. Un tempo attraverso gli eccessivi carichi di lavoro e le pessime condizioni lavorative ed esistenziali, il capitale ammazzava fisicamente gli esseri umani sottoponendoli al supersfruttamento e inducendoli in stato di miseria, ora, nella società della libera contrattazione e del “benessere”, pur non essendosi mai interrotta la catena degli omicidi sui posti di lavoro, esso si accontenta di appropriarsi della loro espressione più nobile, cioè della loro intelligenza e creatività, delle loro idee relegandoli nella condizione di moderni schiavi. Anche sul fronte salariale lo stato esistenziale dei lavoratori subordinati ha registrato un peggioramento. Se l’accresciuta produttività del lavoro ottenuta col progresso tecnico ha permesso al capitalismo di concedere con maggiore facilità salari più elevati senza incidere sul saggio del plusvalore, con il postfordismo la situazione è cambiata. Negli Stati Uniti, si è stimato per guadagnare un reddito familiare medio, un operaio avrebbe dovuto lavorare 62 settimane nel 1947, 74 nel 1973, 81 nel 2001. E ciò, nonostante che negli ultimi cinquant’anni la produttività in quel Paese sia complessivamente triplicata e quella industriale quadruplicata. Dal 1979 al 1989, i redditi dei lavoratori americani meno qualificati sono scesi del 16%, quelli delle categorie intermedie del 2%, mentre solo i redditi dei lavoratori più qualificati sono saliti del 5%. Un laureato guadagnava mediamente il 70-80% in più di chi aveva solo un diploma. A metà degli anni ’90, l’80% dei lavoratori hanno accusato una secca riduzione del salario reale, mentre il processo di ristrutturazione delle grosse aziende è passato attraverso massicci licenziamenti. In Italia, tra il 2000 e il 2006, il potere d’acquisto dei salari è rimasto fermo, mentre quello dei lavoratori autonomi è aumentato del 13,6%. Negli anni passati le donne occupate sono aumentate proprio in forza della necessità di arrotondare il bilancio familiare, poiché i salari non aumentavano più, anzi il loro valore reale diminuiva. Con il persistere della crisi, le imprese ricattano i lavoratori con la minaccia del posto di lavoro e pretendono che lavorino di più a parità di salario, quando non chiedono riduzioni consistenti. Il taglio delle pause e dei permessi sindacali, il non pagamento delle festività sono all’ordine del giorno di molte vertenze. E questi sacrifici vengono chiesti ai lavoratori mentre gli utili aziendali e i dividendi continuano a crescere. Non deve dunque meravigliare se le statistiche registrano nella popolazione lavorativa un incremento progressivo sia del disadattamento sociale che delle patologie indotte dall’incertezza occupazionale, dalla deregolamentazione del lavoro, dalla ipercompetizione e dall’impossibilità di sbarcare il lunario con il compenso lavorativo. E questo è un fenomeno che sta dilagando in tutti i paesi. In Giappone ormai da anni viene monitorata la mattanza del “karoshi”, cioè della morte per superlavoro, in particolare per attacco cardiaco o per rottura dei vasi sanguigni a causa dello stress. Agli inizi del secolo sono stati censiti trentamila casi l’anno e si è pure registrato un incremento dei suicidi causati da esperienze lavorative e imprenditoriali fallimentari. Un tempo nel Paese del Sol levante gli sconfitti e i disperati ricorrevano al karakiri, ora a stroncare l’esistenza degli alienati del capitale è il karoshi. Uno dei più inquietanti fenomeni del postfordismo è comunque costituito dalla messa in discussione del posto fisso. La produzione snella induce le aziende a liberarsi dei propri dipendenti sostituendoli con lavoratori assunti a tempo determinato. La certezza del posto di lavoro diviene così una chimera e il destino di molti lavoratori dipendenti è la precarietà. La flessibilità del contratto di lavoro, del tempo di lavoro e del salario espone milioni di persone all’insicurezza privandole di un reddito adeguato e della padronanza del proprio destino. In questi ultimi anni il mondo del lavoro italiano si è popolato di occupati precari a tempo determinato, cioè di nuove figure professionali quali l’interinale, il parasubordinato, il lavoratore a progetto, quello a part-time, il free lance, il telelavoratore, il collaboratore coordinato continuativo, il co.co.pro., il weekendista, lo stagista, il lavoratore in concessione, il falso socio di cooperativa, il lavoratore autonomo eterodiretto e quello di seconda generazione, il titolare di partita Iva e via dicendo. Oltre ai contratti a termine hanno 452
preso corpo i subappalti, le subforniture, la finta formazione lavoro, il job sharing e tante altre forme di contratto che hanno reso confuso ed estremamente complesso il contesto delle relazioni tra chi lavora. In Italia, ma anche in Spagna e in Grecia, la percentuale dei lavoratori precari e a part time ha ormai superato la soglia del 50% ed è in continua ascesa. Se si include l’economia sommersa, il numero dei lavoratori atipici assume dimensioni gigantesche, tali da stravolgere la configurazione del mercato del lavoro ereditato dal fordismo. E il rischio per questa nuova immensa schiera di lavoratori che non gode delle tradizionali garanzie socioassistenziali, è quello di trasformarsi in un esercito di sottoccupati ed emarginati che vanno ad aggiungersi a coloro che un posto di lavoro non riescono a trovarlo, i quali pure sono in continua espansione. E ad essere penalizzate sono in particolare tre categorie: i giovani, dei quali solo uno su due riesce a rimediare un’occupazione; i cosiddetti “esuberi”, cioè quei lavoratori in età matura che vengono espulsi dal mercato del lavoro e non riescono più a rientrarvi; le donne, il cui tasso di attività anziché aumentare di fatto decresce. Affronterò nei prossimi capitoli il problema della disoccupazione, qui mi basta ricordare che proprio a partire dagli anni ’80 e ’90, nei Paesi industrializzati si è registrata una netta contrazione non solo della classe operaia, ma delle persone occupate in rapporto alla popolazione attiva. La globalizzazione sta cioè determinando un cambiamento rilevante nel rapporto tra capitale e lavoro. Dal 1996 al 2005, in Occidente, il peso del lavoro nella formazione del valore aggiunto ha conosciuto una flessione del 9,5%, mentre quello delle imprese e dei dividendi è notevolmente aumentato. Così come è in continuo aumento il lavoro “nero” e sommerso che alimenta l’evasione fiscale e la crisi dello Stato sociale (un fenomeno tipico questo non solo dell’Italia, ma che ormai investe la totalità dei paesi). E pure lo sfruttamento del lavoro minorile, manifestazione caratteristica del capitalismo degli albori, con la globalizzazione è tornato ad assumere dimensioni preoccupanti e indegne di una società civile. Lo stesso lavoro autonomo non rappresenta più un segmento del mondo del lavoro, ma tende ad estendersi e diventare la sua forma specifica. Il lavoratore in proprio non esegue più il solo lavoro che altri gli affidano, ma è costretto a inventare e rifondare di continuo la sua attività se non intende perdere del tutto la sua autonomia e trovarsi nella condizione di lavoratore subordinato. Attraverso l’outsourcing e il franchising si realizza l’autosfruttamento. La forma-lavoro postfordista assume forme di self-employement che risultano essere la condizione lavorativa più vicina alla povertà. E’ anche in dipendenza di queste modificazioni che i ceti medi sono investiti da un processo di proletarizzazione che li espropria dei privilegi, li espone al rischio dell’umiliazione e li declassa socialmente. La rivoluzione tecnologica ha drasticamente ridimensionato la classe media, spina dorsale dell’Occidente nel secolo scorso. Centinaia di lavori impiegatizi, maschili e femminili, dalle banche al commercio, sono stati cancellati. Si consideri che a partire dal 1989, i redditi della maggioranza dei lavoratori americani della classe media hanno incominciato a scendere e che larga parte dei colletti blu sono stati gettati sul lastrico. Si tratta di una tendenza che investe l’insieme delle società dell’Occidente capitalistico avanzato e che è destinata ad accentuarsi con il procedere della globalizzazione. Oggi proletario non è più solo l’operaio, ma lo sono molte figure sociali che fino a ieri erano considerate appartenenti alla piccola e media borghesia. Nel corso del Novecento, nei Paesi dell’Europa Occidentale e in America si è registrato un progresso nel tenore di vita della classe lavoratrice del quale è stato magnificato il capitale. E’ bene ricordare che questo miglioramento lo si deve attribuire non a qualche tendenza naturale del capitalismo, ma esclusivamente alla lotta organizzata del movimento operaio. Le prospettive odierne vanno in tutt’altra direzione, la globalizzazione è foriera di sacrifici e di rinunce oltre che per le classi subalterne, anche per quelle medie. Lontani i tempi in cui il capitale grondava sangue e lordura da tutti i pori, da capo a piedi, e trascorsa l’epoca del fordismo in cui le relazioni industriali erano per loro natura conflittuali e antagoniste, ora è convincimento diffuso nel mondo degli studiosi che i rapporti fra capitale e lavoro tendano a divenire consensuali e collaborativi. La costante interazione fra dirigenti e operai – 453
si sostiene - determina relazioni pacifiche e rende obsoleta la lotta di classe. La realtà dei fatti, se è lì a dimostrare che la lotta di classe, com’è stata concepita da un secolo e mezzo a questa parte, ha perduto di efficacia, ci dice che il capitalismo non ha affatto mutato la sua natura strozzina, ma l’ha solo mitigata e affinata rendendola ancor più subdola e rovinosa. Ha frantumato il lavoro salariato disperdendolo nei continenti, ha messo in crisi tutte le forme di tutela che il movimento operaio ha conquistato nel corso di un secolo e mezzo, ha fatto sì che attraverso la concorrenzialità escludente, il lavoratore consideri come diverso il suo compagno. Con il posfordismo è stato smobilitato lo spirito solidale e svilita l’avversione all’ingiustizia sociale. Insomma, le aspirazioni a un regime fondato sulla solidarietà e sull’uguaglianza sono state pesantemente mortificate. La classe operaia è al centro di uno sradicamento permanente che le fa perdere di valore il senso dell’appartenenza. Come ha scritto l’economista Salvatore Biasco, “a dissolversi è la stessa cultura della società del lavoro”. Il capitale globale non ha più un volto preciso e l’individuazione del “nemico” del movimento dei lavoratori diventa sempre più complessa e difficile. L’operaio diventa sempre più multinazionale e cessa di avere interlocutori nazionali o locali come avveniva nel passato. La fascia di lavoratori effettivamente rappresentata dall’organizzazione sindacale si restringe e il movimento perde progressivamente il potere di contrattazione. Il capitale transnazionale mette in crisi il vecchio contratto collettivo e favorisce la contrattazione aziendale e individuale, sia in materia retributiva che sul terreno scivoloso della cogestione. La fine della fabbrica aggregata, luogo di alienazione ma anche di crescita della coscienza rivoluzionaria, segna la fine del ruolo della classe operaia come unico soggetto del cambiamento. S’impone pertanto una radicale modifica delle leggi che regolano il mercato del lavoro e anche della stessa rappresentanza sindacale, ma una simile svolta trova impreparate e disarmate sia la sinistra sociale che la sinistra politica. In discussione non c’è solamente la vecchia concezione del lavoro, ma l’economia politica e su questi temi il ritardo di elaborazione è spaventoso. Ancorate ai vecchi schemi, le organizzazioni del movimento dei lavoratori si rivelano purtroppo incapaci di interpretare le novità sconvolgenti della situazione e di dare vita a nuove strategie e politiche del cambiamento.
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Capitolo 14°
Potenza, “virtù” e iniquità del capitale 14.1 – Le crisi del capitalismo e le previsioni sulle sue prospettive Cinque anni prima di stendere la “Teoria generale”, riferendosi alla crisi che aveva investito l’economia della Gran Bretagna, John Maynard Keynes ebbe ad ammonire: “La chiamano ‘crisi’ ma non è esatto”. Ottant’anni dopo si potrebbe svolgere un’analoga considerazione a riguardo dell’atteggiamento di quei non pochi politici e studiosi che fanno uso a sproposito di questa accezione. Si assiste, infatti, assai frequentemente all’uso del termine “crisi del capitalismo” per indicare le ricorrenti difficoltà dello sviluppo economico o la sua stessa interruzione, imputandole a disfunzioni del sistema o a fattori esogeni, cioè a cause estranee alle sue dinamiche. Qualcuno attribuisce il fenomeno alla perversione dei processi innovativi del capitale stesso non rendendosi conto che le crisi altro non sono che un loro effetto ineliminabile. C’è persino chi ha teorizzato che esse sono il frutto esclusivo di un “cattivo capitalismo”. Tutti questi osservatori non tengono in debito conto che la crisi è un momento essenziale, insopprimibile della vita stessa del capitale, è la manifestazione della sua continua metamorfosi, della sua stessa evoluzione; e che sue cause di fondo sono le contraddizioni derivanti dal carattere anarchico del suo modo di produrre e di scambiare. E’ altresì importante aver chiaro che a trovarsi in stato di difficoltà, quando la crisi assume un carattere violento, non sono tanto il capitale o i capitalisti, i quali nel complesso trovano sempre un rimedio, quanto invece coloro che nei loro confronti subiscono un rapporto di subalternità, in primo luogo chi vive di salari, di stipendi e di assegni previdenziali. La recessione, infatti, non colpisce tutti allo stesso modo, anzi, c’è chi invece di esserne penalizzato accumula ricchezze e potere speculando su di essa. Uno dei maggiori analisti del ciclo congiunturale, Wesley C. Mitchel, ci ha spiegato che le fluttuazioni di breve periodo del ciclo economico del capitale sono costituite da quattro fasi, precisamente dall’espansione, dalla recessione, dalla contrazione e dalla ripresa. Con l’aumento dei beni d’investimento, l’economia capitalistica entra in una fase di espansione. Con l’aumento dei profitti, dei consumi e dell’occupazione si espande il settore dei beni di consumo e, attraverso un rilevante sfruttamento degli impianti, si registra un’intensificazione della produttività del lavoro e un aumento dei salari: si giunge al boom. A questo punto si fa sentire la tendenza alla caduta del saggio di profitto la cui diminuzione colpisce le imprese più deboli provocando un esubero di manodopera e un blocco dei salari. Diminuisce la domanda e quindi la produzione di beni d’investimento, gli impianti vengono utilizzati in percentuali sempre minori e aumentano i costi di produzione. Si attua così il processo di concentrazione e di centralizzazione del capitale che favorisce il rinnovo degli impianti e l’introduzione di tecniche che aumentano la produttività del lavoro riducendo i costi. La domanda dei mezzi di produzione torna a crescere e il ciclo riprende. Nella storia del capitale, dunque, l’instabilità e la crisi non sono un’eccezione bensì la regola. Il suo ciclo è caratterizzato da fluttuazioni costanti che vengono comunemente definite “onde di Kondrat’ev” (dall’economista russo Nikolaj D. Kondrat’ev che le ha individuate). E’ a partire dagli anni precedenti la prima guerra mondiale che la crisi del sistema capitalistico diviene consapevolmente “fattore progettuale”, precisamente ricomposizione produttiva e di classe, ridistribuzione di reddito e potere, definizione di nuovi blocchi dominanti a seguito della disarticolazione di quelli precedenti. Lo stesso Schumpeter interpreta le fasi di sviluppo economico come lunghe ondate di innovazione tecnologica, mentre l’economista liberista Costantino Bresciani-Turroni definisce la crisi “un processo di risanamento” del capitalismo. Le crisi cicliche, che con l’evoluzione del sistema hanno fatto registrare un progressivo accorciamento dei tempi di stabilità, possono essere contenute e a volte persino impedite 455
dall’intervento dello Stato e dagli ammortizzatori economico-sociali che lo stesso capitalismo pone in essere. E’ la stessa esperienza storica a dimostrare che la crisi è per il capitale una manifestazione organica necessaria al suo stesso sviluppo. Sin dalle sue origini, l’universo capitalistico non si è mai presentato statico. E’ però solo a partire dagli inizi del secolo scorso che il suo processo evolutivo incomincia a cambiare in maniera tale da porre problemi sociali cui nessuno dei suoi fautori si dimostra in grado di fornire risposte risolutive. Il primo conflitto mondiale è proprio la conseguenza tragica di questa novità. Poco più di un decennio dopo la cessazione della grande guerra, negli Stati Uniti d’America esplode la crisi della Borsa che da subito, investendo tutti i Paesi, fatta eccezione dell’Urss, assume una dimensione mondiale. A fronte dei disastri che essa causa, sono in molti a decretare la morte del capitalismo, ma alla fine esso rivela insospettate capacità di rigenerazione perpetuandosi anche in forza delle politiche di riarmo che alimenteranno il secondo conflitto mondiale. Con la ricostruzione post bellica, nel vecchio continente si apre un nuovo ciclo di sviluppo determinato dall’espansione dei mercati, dalle politiche di pianificazione e dall’attuazione dello Stato sociale. Come abbiamo già visto, ha inizio l’“età dell’oro” la quale si conclude alla fine del business cycle, verso la metà degli anni ’70, con l’esplosione della drammatica crisi petrolifera. Oltre oceano, invece, tra il ’45 e i primi anni ’70, si verificano ben cinque crisi economiche, le quali però non impediscono all’imperialismo americano di estendere il suo dominio sull’intero Occidente. Come ci ricorda Eric J. Hobsbawm “gi anni 1977-78 segnano (di nuovo) la crisi dell’economia capitalistica … (e) dalla logica spaventosa del management nasce un capitalismo folle che rinnega se stesso”. E’ il capitalismo che inaugura la stagione del postfordismo. Dunque, anche in questa occasione, la recessione economica rappresenta il punto di partenza per una nuova e superiore fase di sviluppo. All’inizio degli anni ’80, nei Paesi a regime capitalistico, si registra ancora un’altra crisi la quale si conclude con il crollo del socialismo reale e con l’assunzione del sistema della libera concorrenza a padrone incontrastato del mondo. Con la globalizzazione si avvia quel processo che subordina l’economia reale al potere finanziario. Le imprese pubbliche incominciano a denunciare indebitamenti stratosferici e pesanti perdite, quelle private di maggiori dimensioni non fanno più profitti e risultano anch’esse piene di debiti, le imprese di media e piccola dimensione si rivelano fragili e “banca-dipendenti”. Nel ’97, a seguito della “febbre asiatica”, si verifica di nuovo un tracollo delle Borse di tutto il mondo, ma trascorsa la tempesta il sistema fa un nuovo balzo in avanti. A riguardo di questa crisi post crollo del socialismo reale, è da ricordare per inciso che alcuni teorici del neoliberismo avevano sostenuto che la globalizzazione avrebbe permesso al capitalismo uno sviluppo illimitato, senza più crisi economiche di rilievo. Francis Fukuyama, il guru che ha profetizzato la fine della storia, aveva assicurato che “gli Stati Uniti possiedono enormi ricchezze di tecnologia, competitività e imprenditorialità; possono vantare un mercato del lavoro flessibile e istituzioni finanziarie fondamentalmente salde”. Eppure, un decennio dopo si è registrata una nuova caduta delle banche statunitensi che ha determinato il crollo anche di quelle europee. La crisi in questo caso è stata dovuta al disastro degli investimenti subprime. Da essa, mentre scrivo, non si è ancora usciti. Dopo che le autorità monetarie americane hanno chiuso per fallimento il 37° istituto bancario, lo stesso presidente Barack Obama ha parlato di “disastro permanente”. In effetti, nel giro di poco più di un anno gli Stati Uniti hanno perso ben 9 trilioni di dollari. Nonostante tutto questo, il capitalismo ha ripreso la sua marcia. Nel 2011 si è verificato un nuovo choc delle banche mondiali e l’intero Occidente è scivolato verso un’altra recessione provocata da una reazione a catena in campo finanziario e ne è seguita un’ondata di speculazione. Mentre a sinistra qualcuno s’illude sulla fine del sistema, nell’area moderata non mancano economisti che sostengono la tesi della degenerazione del capitalismo e denunciano come causa la collusione tra Stato e politica. Ad avviso di questi, a causare la crisi non sarebbe il mercato e nemmeno la finanza, bensì il perverso rapporto tra istituzioni e big business. 456
Di fronte al dilagare della speculazione, si diffonde la convinzione che a provocare la crisi siano le manovre del capitale finanziario. Sta di fatto che alla sua origine ci sono problemi strutturali che riguardano la sovrapproduzione e il sottoconsumo, i quali si sono accumulati nel tempo e non hanno trovato adeguata soluzione. La generalità degli osservatori tende tra l’altro a dimenticare che larga parte delle popolazioni dell’evoluto Occidente e gli stessi Stati, hanno vissuto per lungo tempo al di sopra delle loro reali possibilità e dei loro mezzi e oggi stanno pagando il fio. Con questa crisi viene bruciato un volume immenso di ricchezza (capitalisticamente parlando), vengono cioè inceneriti milioni di posti di lavoro, viene messo in discussione un sistema di protezione sociale che si è già da tempo dimostrato incompatibile con la logica del capitale. Insomma, la crisi che stiamo vivendo è profonda ed è certamente destinata a cambiare i connotati della nostra civiltà, soprattutto, a peggiorare la condizione di vita delle classi sociali subalterne. Il sistema capitalistico, però, non muore, anzi rilancia la sua iniziativa. Gli strati sociali benestanti sono di nuovo impegnati a riprendersi quelle quote di ricchezza sociale che nei decenni scorsi sono state impiegate per potenziare ed estendere il welfare state. Lo scontro d’interessi si fa sempre più duro, non è però pensabile che si sia giunti alla fase terminale del sistema. Non solo il capitale vanta ancora una sufficiente energia e una straordinaria capacità di rigenerarsi per superare le sue difficoltà, ma soprattutto non appaiono mature le condizioni per un’alternativa ad esso. Seppure non manchino alcune condizioni oggettive per un cambiamento, non si vedono all’orizzonte i soggetti antagonisti adeguatamente attrezzati a sostituire il suo modo di produrre e di consumare e a imporre un regime politico-sociale nuovo. Di fronte alla crisi, la sinistra appare stordita e si dimostra incapace di offrire prospettive alternative credibili e praticabili. Fattore consolatorio è che, come tutte le cose di questo mondo, anche il capitalismo non è eterno e prima o poi è destinato a perire, quel giorno però non sembra affatto vicino. Mentre economisti illustri come Thomas R. Malthus, Edward West, David Ricardo, John Stuart Mill non hanno avuto alcuna idea delle conquiste che avrebbe conseguito la macchina della produzione capitalistica, Marx ha approfondito i caratteri di quel sistema e, come ho già sottolineato, ha pure fatto delle previsioni sul suo futuro intuendo alcuni importanti aspetti della sua futura evoluzione. Anzitutto, egli ha colto la sua natura dinamica evidenziando come “agisce nel senso di un perenne rivoluzionamento, abbattendo tutte le barriere che ostacolano lo sviluppo delle forze produttive, l’espansione dei bisogni, la molteplicità della produzione e lo sfruttamento e lo scambio delle forze della natura e dello spirito”. Nel “Manifesto del partito comunista” ha scritto che “la borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente i mezzi di produzione, e così i rapporti di produzione e con essi i rapporti sociali… Tutto quel che risponde agli antichi ordini sociali, tutto ciò che è tradizionale, tutto quel che è fossilizzato e incrostato svanisce… Il capitale è una forza rivoluzionaria. Cambia le proprie tecniche con violenza, le abbatte, le distrugge, è la forza meno conservatrice che ci sia”. Ha persino esaltato la sua funzione civilizzatrice sostenendo, nei “Grundrisse”, che solo la borghesia “ha mostrato cosa può fare l’attività degli uomini, ha realizzato opere ben più meravigliose delle piramidi egizie, degli acquedotti romani, delle cattedrali gotiche…La sua produzione è di un livello sociale rispetto al quale tutti i livelli precedenti appaiono soltanto come sviluppi locali dell’umanità e come idolatria della natura”. Evidenziando queste sue potenzialità, egli ha teorizzato che una forma superiore di civiltà, cioè il comunismo, non può che nascere dalla stessa società capitalistica giunta all’apice del suo sviluppo. E ha aggiunto che una formazione sociale non perisce prima che siano maturate nel suo seno le condizioni materiali per nuovi superiori rapporti di produzione. Seguendo l’insegnamento di Marx che ha interpretato il corso della storia studiandolo e analizzando le caratteristiche del capitale come nessun altro ha mai fatto, se si osserva lo stato attuale delle forze produttive e dei rapporti di produzione, si riscontra che le condizioni per una transizione non sono ancora mature, mancando sia le condizioni oggettive sia gli attori in grado di gestirla. E se si dovessero prendere in considerazione la tesi di Rosa Luxemburg secondo la quale il capitalismo sarebbe destinato a perire nel momento in cui avrebbe finito di frugare tutto il mondo per procurarsi i mezzi di produzione da ogni angolo della terra, non si può far altro che constatare che le sue 457
capacità di sfruttamento e di dominio non sono ancora del tutto esaurite, pertanto le contraddizioni che pure lo mettono in difficoltà non sono tali da far presagire un suo definitivo collasso, almeno fino a che non intervenga a contrastarle un movimento sorretto da un progetto di cambiamento praticabile. All’orizzonte, questo soggetto in grado di materializzare l’alternativa non lo si vede ancora, mentre le chances di una rigenerazione del sistema e di un suo ulteriore sviluppo appaiono molte. Un’impressione del genere la si ricava passando in rapida rassegna le prospettive che oggi il sistema offre di sé. Torna doveroso, a questo proposito, riconoscere, come ha fatto Marx, che il capitalismo, mentre ha generalizzato lo sfruttamento della natura e dell’uomo, attraverso uno straordinario sviluppo delle forze produttive, ha unificato sotto di sé l’intera realtà sociale e, almeno in Occidente, ha garantito una seppur limitata ridistribuzione del reddito, al punto di consentire a larghe masse popolari di soddisfare i bisogni più elementari. A pagare il prezzo sono state le popolazioni dei paesi poveri e sottosviluppati. Il capitalismo, in ogni modo, è ufficialmente l’artefice di tutto ciò che dà forma al mondo moderno e rappresenta il soggetto più potente della nostra epoca. Esso ha dato all’umanità le ferrovie, le navi a vapore, gli aerei, le automobili, le autostrade, la radio, la televisione, il computer. Ha modificato il modo di lavorare, ha allungato di decenni la durata media della vita umana, ha sepolto l’assolutismo e l’ha sostituito con la democrazia, anche se solo formale. Con la generalizzazione del suo modo di produzione ha dato dimensione universale alle relazioni umane e con la divisione del lavoro ha creato una massa immensa di macchine e di attrezzature idonee a soddisfare i bisogni individuali e collettivi. Noi oggi possiamo solo immaginare quali saranno i progressi che la scienza e la tecnica faranno nel prossimo futuro, abbiamo però la certezza che il loro sviluppo, se almeno l’umanità non si suiciderà e sopravviverà alla catastrofe ecologica che si profila all’orizzonte, sarà tale da riservare altre grandi sorprese. Le nuove basi scientifiche e tecnologiche consentono, infatti, di formulare ipotesi grandiose. L’affrancamento e la liberazione delle potenzialità umane dalla fatica, dal dolore e dai bisogni sono già di per sé una testimonianza delle grandi possibilità che l’uomo ha di migliorare ulteriormente la sua condizione esistenziale. Il nostro è un mondo nuovo fatto di strumenti elettronici con sembianze umane come quelli che negli ospedali giapponesi assistono gli anziani o come i robottini della General Electric che gironzolano sulle piste degli aeroporti e ispezionano i motori dei jet. E ancora di auto che si guidano da sé stesse, attraverso il radar, come sta avvenendo in California. L’impiego di droni e di robot si sta estendendo ormai a un’infinità di settori della vita umana. I mini-robot possono costruire strutture complesse e tridimensionali e in certi lavori fanno a meno del comando centrale dell’uomo, anzi lo superano in precisione e velocità. Uno studio della Oxford University che ha esaminato in profondità 72 settori produttivi, conclude che quasi la metà dei lavori ancora svolti dall’uomo (il 47% per la precisione) verrà prima o poi sostituito dalle macchine. Con la scoperta del genoma da una goccia di sangue potrà esser ricavata la fotografia di tutti i geni e questa conoscenza metterà l’uomo nella condizione di non più le malattie in quanto tali, ma di somministrare al paziente farmaci personalizzati in base alla patologia riscontrata e la cui efficacia sarà certa al massimo delle probabilità. Si giungerà al punto che la nostra specie non sarà più decisa solo dai meccanismi dell’evoluzione naturale, bensì anche dalla nostra stessa intelligenza. Come ha sottolineato Aldo Schiavone, siamo sul punto di staccare l’uomo dal “naturale” e presto saremo padroni della nostra corporeità. “Di fronte a quel che ci aspetta – dunque – noi siamo solo preistoria”. Diventerà possibile costruire in laboratorio nuovi organismi viventi partendo da sostanze chimicamente semplici. Già è stato creato in provetta un micro cervello e gli scienziati americani hanno ottenuto il primo organismo vivente con un Dna semisintetico in grado di replicarsi. L’uomo sta per essere in grado di creare proteine e persino organismi mai esistiti prima
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d’ora, cioè nelle condizioni di costruire la vita. Sono stati fatti esperimenti di innesco del dna umano in animali che sono stati trasformati in “serbatoio di organi da trapiantare nell’uomo”. Se già oggi sono disponibili arti bionici che attraverso elettrodi vengono comandati dal cervello, in un domani prossimo l’uomo potrà disporre dell’occhio artificiale e di altre protesi sostitutive di sensi non funzionanti. Da tempo è allo studio il “naso artificiale” e tra non molto si potranno trasmettere via internet e tv, per film e per telefono odori, sapori e sensazioni tattili. Mentre già da anni certi interventi chirurgici che richiedono la massima precisione vengono eseguiti da robot, in un avvenire non molto lontano nel corpo umano verranno impiantati dei computer di proporzioni molecolari i quali, interfacciati alle cellule nervose, costituiranno una sorta di sentinella degli organi vitali. Saremo iperconessi e diventeremo dei cyborg. Il corpo umano risulterà così controllato nei suoi movimenti sia interni che esterni. L’obiettivo finale al quale stanno lavorando diversi scienziati è l’installazione di un chip nel nostro cervello capace di interagire direttamente con le sue facoltà al fine di riparare quelle funzioni che risultano danneggiate da traumi o da malattie e aumentare le capacità stesse della nostra mente. E’ stato accertato che le tecnologie digitali stanno trasformando il nostro modo di analizzare le cose, i meccanismi stessi del nostro apprendimento, influenzando così la struttura del cervello a livello cellulare. Del resto, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale con tutte le implicazioni per la scienza dei computer e per la robotica avanzata, coinvolge non solo il campo dei materiali, lo sviluppo dei componenti, dell’hardware e del software, ma anche lo studio approfondito dei processi dello stesso ragionamento umano, dell’apprendimento, della decisione. Come ha scritto il padre della cibernetica, Norbert Wiener, a subire una rivoluzione saranno non solo la fisiologia e la psicologia, ma anche la filosofia. Oggi c’è chi si preoccupa, e non a torto, dei prodotti transgenici, eppure il progresso ci sta gradualmente portando verso il nutrimento chimico, quello cioè fondato sulla somministrazione di pillole dosate in base alle caratteristiche genetiche e biologiche del singolo individuo. Lo sviluppo dell’interazione fra reale e virtuale fa pensare a una rivoluzione destinata a sconvolgere l’esistenza umana. Tutta l’informazione sarà presto on line, internet sarà accessibile a tutti o quasi e ognuno potrà comunicare liberamente con ogni parte del pianeta. Si parla di internet tridimensionale e di posta video. L’accesso alla rete è destinato a cambiare la cultura e le gerarchie degli interessi e dei valori e il motore di ricerca diverrà una protesi della nostra mente. Con la diffusione sempre più estesa dei network la stessa vita domestica diventerà pubblica e assumerà una dimensione internazionale. Già oggi si stanno sperimentando supermercati completamente automatici aperti 24 ore su 24, fabbriche che funzionano senza bisogno di operai e controllate da pochi ingegneri-manager. L’automazione intelligente, risultato dell’incontro tra un insieme di tecnologie di punta come l’elettronica, l’informatica, la robotica, i laser, i sensori, ecc., consente un progresso mai visto nella storia dell’uomo deprivandolo della sua qualifica fondamentale di faber e aprendogli scenari inimmaginabili. L’innovazione ricorsiva, cioè la produzione di macchine eseguita dalle macchine stesse, darà luogo a un mondo difficile persino da immaginare. Analogo discorso vale per le ricerche in campo energetico (fusione nucleare e annichilizzazione di materia e antimateria) e per i nuovi materiali (dalle fibre ottiche ai compositi). Non solo le biotecnologie rappresentano un nuovo straordinario salto qualitativo, nonché quantitativo nel modo di produzione capitalistico, ma assai presto si assisterà alla industrializzazione dello spazio che diventerà un’officina per il trattamento di talune lavorazioni rischiose e per la produzione di beni. La fantascienza sta per diventare realtà quotidiana. Il capitalismo si è dimostrato storicamente il sistema di combinazione dei fattori produttivi in grado di produrre al minor costo la maggiore quantità di beni e in una varietà la più ampia. Questo processo non solo non si è mai interrotto, ma è andato assumendo col tempo ritmi sempre più accelerati conseguendo risultati straordinari. Di fronte a un simile panorama sorgono spontanee alcune domande.
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E’ ragionevole supporre che un sistema con tali potenzialità sia destinato al declino e non possieda gli strumenti per superare l’attuale fase di difficoltà? Dov’è rintracciabile il punto debole in cui è possibile che scatti un corto circuito tale da porre fine al dominio del capitale? Che ne pensa la sinistra delle capacità rigenerative del sistema? Fa per davvero i conti con le novità che il capitalismo offre? E come gestirebbe il potenziale tencnico-scientifico accumulato nell’eventualità dovesse conquistare il potere politico? Piuttosto che a un collasso del capitalismo e più ragionevole e verosimile aspettarsi una continuazione di quella che Gramsci chiama “rivoluzione passiva”. Fin che la sinistra non si dimostrerà in grado di correggere i suoi errori e di superare le sue insufficienze, l’alternativa al sistema capitalistico continuerà a essere una chimera. Uno slogan da gridare senza alcun riscontro nella realtà. Come ebbe a far notare Indro Montanelli, mentre il capitale ha imparato molto dal marxismo, il marxismo ha dimostrato di aver appreso molto poco dal modo di essere del sistema dei padroni. La sfida per una società diversa non la si vince con i proclami, ma solo sul terreno dell’innovazione e dell’egemonia e a questo proposito la sinistra non è affatto messa bene. Ma vediamo nel dettaglio le negligenze e i vuoti che sin qui hanno determinato il suo mancato successo. 14.2 – La natura innovativa del capitale Con il passare del tempo, nelle file della sinistra il precetto marxiano secondo cui il capitalismo è sviluppo continuo delle forze produttive e rivoluzionamento costante delle forme di produzione, sembra essere stato posto nel dimenticatoio. Il fordismo e il postfordismo, stadi di sviluppo del sistema che hanno rappresentato innovazioni epocali, non sono stati indotti né dai sindacati né dai partiti di sinistra, ma dal capitale, in forza dell’esigenza di andare oltre le condizioni materiali e culturali della sua stessa esistenza. Mentre la base tecnica di tutti gli altri modi di produzione che la storia ci ha fatto conoscere è risultata essere sostanzialmente conservatrice, quella del capitalismo si è rivelata innovativa per eccellenza. Si tratta, infatti, di un sistema che non può stare fermo, che deve rompere la routine, deve andare oltre, ingoiare i vecchi modi di produrre, riplasmarsi di continuo, vivere in altri soggetti, assimilare il suo contrario e riprodurlo. Di fatto il capitalismo ha la vocazione alla rivoluzione ininterrotta. Molto di ciò che i più radicali anticapitalisti hanno considerato conservazione è risultato più innovativo delle loro stesse proposizioni. Schumpeter ha visto bene quando ha scritto che il capitalismo rappresenta un processo di continua “distruzione creatrice”. A caratterizzare questo sistema è poi la continuità senza soste e l’accelerazione sempre più rapida del progresso scientifico. A dispetto di tutte le affermazioni circa le sue contraddizioni e la sua cronica incapacità di procedere a un ulteriore sviluppo delle forze produttive, il modo di produzione capitalistico, come abbiamo documentato, dimostra una vitalità tale da dare corso a un’ennesima ondata di innovazioni tecnologico-organizzative la cui rapidità di successione lascia sbalorditi. Parafrasando quanto affermava il navigatore della “Città del sole” di Campanella (“in cento anni la storia ha fatto più progressi che in quattromila”), potremmo dire che nel passato quanto di innovativo avveniva nel corso di un secolo oggi avviene in pochi mesi. Per svilupparsi e rigenerarsi, il capitale si corregge in continuazione. Fa l’analisi dei costi, dei prodotti, esegue indagini di mercato, stende bilanci e deve la sua vivacità proprio al continuo movimento e rinnovamento. Per governare lo sviluppo complessivo e le sue stesse crisi, esso si avvale di strumenti programmatori che qualche decennio fa erano impensabili. Se ieri la proprietà di assorbire il passato lo ha reso vincente contro il feudalesimo, oggi lo rende egemone sull’intero pianeta. La sua capacità di rigenerarsi è sbalorditiva. Un esempio eloquente ci viene dal business ecologico: prima inquina poi trova il modo di far profitto disinquinando. 460
Il filosofo Emanuele Severino ha scritto che “il capitalismo è una grande filosofia che gestisce in modo dominante la disponibilità delle cose a essere manomesse, modificate, prodotte, distrutte”. Così è, infatti. C’è da aggiungere, purtroppo, che non si limita a soggiogare le sole cose materiali, ma domina anche lo spirito degli uomini. Esercita il suo potere nei confronti anche dei consumatori, della collettività nel suo complesso convincendola a comportarsi, a spendere, a pensare in un determinato modo. Sorto in Europa, si è dimostrato estremamente duttile e capace di ambientarsi e fiorire anche in sistemi socio-culturali profondamente diversi, per esempio in Estremo Oriente. Spinto dal bisogno di sbocchi sempre più estesi, per i suoi prodotti ha impiantato il suo modo di produrre in ogni angolo del globo terrestre. A partire dagli anni ’70, ha modificato profondamente non solo il ciclo lavorativo, la struttura delle mansioni e il profilo giuridico di una buona parte di lavoratori, ma anche il rapporto tra economia e società, tra tempo di lavoro e tempo di vita, tra attività produttive e improduttive. E’ pressoché impossibile calcolare qualità, forma, luogo, tempo, velocità dei suoi spostamenti e individuare i limiti della sua azione. Porta dentro di sé come natura uno straordinario senso dell’organizzazione che gli consente di stabilire la giusta divisione dei compiti che nemmeno un’organizzazione statale è in grado di garantire. Si sviluppa allargando il suo dominio nella società tramite complessi e articolati movimenti di ristrutturazione che investono sia la produzione (rivoluzioni nelle tecnologie, nell’organizzazione del lavoro, nascita di nuovi settori produttivi, ecc.) che la circolazione (concentrazione e centralizzazione dei capitali, autonomizzazione della finanza e del credito, ecc.). Trova in ogni caso le opportune soluzioni ai problemi che incontra e pur di dare continuità alla sua attività produttiva, sacrifica anche il sacrosanto diritto alla proprietà privata. Ogni nuova tappa del suo sviluppo, dopo fasi di radicali sconvolgimenti, sfocia in una riarticolazione del suo potere e delle sue relazioni. A differenza del socialismo reale, che di fronte alla sua crisi non ha più dato segni di vita, il capitalismo sa risorgere dalle sue crisi periodiche con sempre maggiore aggressività e questo grazie alla sua capacità di rischiare e di rinnovarsi in continuazione. Rispetto al passato, oggi appare infinitamente più strutturato, complesso e capace di autoregolarsi. Avendo accresciuto il suo potere d’intervento, è nelle condizioni di determinare la vita globale della collettività in modo che essa risulti ottima per i detentori dei mezzi di produzione e di scambio. Ha fatto del mercato uno strumento in grado di massimizzare il “benessere” sociale fondato sul consumismo. Con le nuove tecnologie ha ridotto le distanze e del cellulare e dell’e-mail ha fatto il nostro nuovo indirizzo. L’informatica ha determinato processi analoghi a quelli dell’invenzione della scrittura e della stampa. E’ stato calcolato che un guerriero Masai, con uno smartphone dispone di più informazioni del presidente degli Stati Uniti di qualche decennio fa. Il computer sostituisce molte delle vecchie funzioni del pensiero e questo determina un cambiamento del modo di pensare dell’uomo. L’accesso gratuito a Wikipedia cambia le relazioni sociali contribuendo a formare in modo nuovo il sapere. La logica del capitale è quella della scienza moderna, non quella della tradizione filosofica. Del resto, il più potente strumento di trasformazione del mondo è proprio la scienza. Tutti i valori della civiltà tradizionale, compreso il cristianesimo, si rivelano degli ostacoli allo suo sviluppo. La “ragione” viene impersonata dalla tecnica, non più dalla tradizionale sapienza filosofica. C’è il rischio che fra cent’anni, quando guarderà indietro nel tempo, l’uomo consideri importante non più il pensiero degli economisti o dei filosofi, ma solo ed esclusivamente la scienza e la tecnica, visto che già oggi sono esse a plasmare la società. Fino all’altro ieri l’uomo è stato abituato a gestire la sua esistenza in maniera illuminata dall’alto, da qualche tempo invece è iniziato un processo di tipo biologico che apparentemente alle generazioni più anziane può sembrare il regno del caos. La logica prevalente non è più quella del “progetto”, ma quella dell’opportunità e dell’incentivazione. Il progresso generale dell’umanità viene fatto derivare dallo sviluppo della ricchezza, della produzione, delle invenzioni, delle conquiste scientifiche, non già dal sapere umanistico. Tanto è 461
che le sofisticate conquiste tecnologiche vengono applicate a discipline come la storia, l’archeologia, la letteratura, l’arte, dando luogo a una fusione della cultura umanistica con quella scientifica che è destinata a produrre una nuova morale. Sotto il dominio capitalistico la scienza è diventata una specie di fabbrica delle conoscenze dalle dimensioni universali ed è in grado di assicurare un’innovazione perpetua. La produzione suscita la ricerca tecnica e scientifica e questa a sua volta sollecita nuove produzioni in un continuum senza fine. Quella tecnologica è la vera rivoluzione permanente dei nostri tempi. E si deve dare ancora ragione a Severino quando sostiene che “oggi la tecnica fa quello che faceva dio creando e distruggendo il mondo”. Se ieri le macchine erano il prolungamento della mano dell’uomo e della sua energia, ora sono il prolungamento del suo cervello e della sua logica. Più elevato è lo sviluppo della tecnologia, più dispendiosa diventa la componente umana del processo produttivo in confronto a quella meccanica. La meccanizzazione, l’automazione hanno fatto sì che anche l’operaio meno specializzato costi più della macchina la quale, a differenza dell’uomo, può essere indefinitivamente migliorata dal progresso tecnologico con costi eccezionalmente ridotti. La macchina creata all’interno del rapporto capitalistico non è difatti neutra, ma è funzionale al sistema, è un valore d’uso destinato a produrre valore di scambio, e ha senso solo se il lavoro è salariato. Anche la scienza, in regime capitalistico, non è neutra proprio perché è messa al servizio del capitale e viene programmata in funzione dei suoi obiettivi. Con il succedersi dei vari stadi di sviluppo del sistema cambiano anche i valori di spazio e tempo. L’antica distinzione tra città e campagna tende gradualmente a sparire e il pianeta diventa un villaggio globale. Le trasformazioni spazio-temporali sono determinate dalle tecnologie che annullano le distanze e dalla materialità della divisione sociale del lavoro. Esse investono ogni sfera dell’attività umana condizionando il potere economico e politico e conformando alle leggi del capitale i rapporti sociali e la stessa cultura dei singoli individui. Non solo le attività economiche, ma anche gli uomini e le risorse si spostano nello spazio seguendo le convenienze economiche. Il “globale” irrompe e si manifesta nella personalissima sfera della vita di ogni individuo la quale non risulta più stanziale, ma diventa una vita “in viaggio”, in senso proprio e figurato, quando si è in auto, al telefono, davanti alla tv, quando si naviga in internet. Un rapporto Onu di qualche anno fa ha documentato che nel mondo ogni secondo che passa oltre 2 milioni di persone prendono un aereo o un altro mezzo di trasporto per un viaggio internazionale. La molteplicità delle relazioni modifica gli interessi, le abitudini, gli affetti, il sapere dell’uomo. Tramite i mass-media, il capitalismo non mondializza solo lo spazio, ma anche il tempo il cui scorrere viene cancellato e rimpiazzato da un continuo succedersi di episodi tra loro isolati. L’uomo moderno è messo in condizione di vivere un eterno presente, distaccato dal passato e indifferente nei confronti del futuro. Con la rivoluzione informatica il capitalismo ha trasformato la vita dell’uomo in un qualcosa di universale e istantaneo. Se fino a ieri il potere è scaturito dal possesso e dal controllo dei beni materiali e delle risorse, e lo scontro è avvenuto tra “chi ha” e “chi non ha”, oggi al perdurare di questo conflitto, si aggiunge quello tra “chi sa” e “chi non sa”. Saremo sempre più coinvolti in uno scontro dalla matrice oltre che economica, anche culturale provocato dalla corsa al possesso dei beni immateriali. Anche la storica separazione tra economia e politica, tra pubblico e privato e tra governanti e governati è destinata ad allargarsi. Le leve del potere tendono a concentrarsi sempre più in poche mani e la coercizione economica condizionerà pesantemente sia la sfera individuale che quella comunitaria del cittadino la cui condizione privata risulterà sempre più isolata da quella pubblica. Poiché il linguaggio, la comunicazione, le attività immateriali e la cooperazione divengono le forze produttive principali, la produzione si presenta sempre più indistinguibile dalla riproduzione. Si verifica così una convergenza tale fra struttura e sovrastruttura, fra oggettività e soggettività da mettere in discussione il vecchio impianto culturale. I soggetti sociali diventano a un tempo
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produttori e prodotti, mentre lo sfruttamento non viene eliminato, ma ridefinito ed esteso a nuovi ambiti sociali. Con il nuovo modo di lavorare e di vivere il vecchio ordine sociale si presenta disfatto. Le antiche classi sociali vengono scomposte e non sono più ricomponibili, quelle nuove cambiano in continuazione, l’appartenenza politica perde di senso, i movimenti sociali assumono un carattere multidimensionale, lo stesso antagonismo al sistema subisce una tendenza alla dispersione. Siamo in presenza di una forma di potere che unifica e ingoia ogni elemento della vita civile, che riforma e brucia i modelli di “contratto sociale” per i quali ha pure cercato l’appoggio ideologico, che mette continuamente in crisi la formalità dei suoi stessi valori. E questa volubilità destabilizza i suoi avversari. Un’altra delle caratteristiche del modo di produzione capitalistico è quella di sapersi adeguare a tutte le realtà politiche e sociali. Esso vive in regime democratico, ma sa anche sopravvivere in regime totalitario; si sviluppa in un sistema in cui vengono riconosciute le libertà civili, ma anche laddove esse vengono negate; privilegia insediarsi in uno Stato efficiente ma sa anche rendersi compatibile con regimi il cui apparato amministrativo è inefficiente e iperburocratizzato. Un’altra sua proprietà è quella di integrarsi con estrema facilità con le istituzioni facendosi da esse assorbire senza pregiudicare la sua natura e le sue funzioni. Ciò che non sopporta è che gli vengano posti dei limiti quantitativi all’accumulazione della ricchezza. In conclusione, alla prova della storia il sistema capitalistico si è dimostrato insuperabile nel produrre sviluppo e progresso economico; è l’unico capace di stimolare al massimo le forze produttive per produrre ricchezza e usare di questa per produrne di nuova. Sul fronte del superamento dei limiti dell’uomo esso ha saputo operare decisamente meglio del socialismo reale. Laddove la libera concorrenza è stata incoraggiata, si è avuto uno sviluppo economico crescente, laddove invece è stata soppressa, alla fine, quel tipo di sviluppo non c’è stato. Tutto questo insieme di proprietà e di caratteristiche dovrebbe far seriamente riflettere. La sinistra dovrebbe meditare sul fatto che il capitalismo, proprio in forza delle sue capacità innovative, nei Paesi più avanzati sta godendo di una vita molto più lunga di quanto avevano previsto non solo gli stessi padri del socialismo scientifico, ma intere generazioni di comunisti. Una riflessione andrebbe poi svolta su un aspetto che considero paradossale: il fatto che rispetto alle dinamiche del capitale, sia i partiti della sinistra che il sindacato “di classe” rischiano di apparire agli occhi della loro stessa base sociale delle forze che si muovono a fatica, che risultano impacciate se non addirittura conservatrici di fronte alle novità della situazione. 14.3 – L’irrazionalità del sistema L’azione innovativa del capitale è il rècto della medaglia, se si osserva il suo verso si scoprono i suoi aspetti negativi. Uno di questi è costituito dalla sua natura irrazionale. Più lo si libera dai vincoli che gli vengono imposti dalla collettività, cioè dalle leggi e dai controlli, più il capitale mostra il suo carattere conservatore. I mercati, come si sa, riflettono semplicemente calcoli monetari, non tengono in alcun conto i valori dell’uomo, quelli della libertà, della giustizia sociale, dell’ambiente naturale e questa non curanza dimostra l’inumanità del capitale. Ho già sottolineato come il suo sistema abbia il merito di aver grandemente contribuito al progresso umano. Prima della sua apparizione l’uomo era afflitto da molti mali quali la denutrizione, la mortalità infantile, l’esposizione al flagello delle malattie infettive, la mancanza di analgesici e di anestetici. Era cioè esposto a ogni tipo di imprevisti, dalle carestie alla schiavitù della predestinazione genetica. Parte di questi mali sono stati debellati, parte continuano a costituire una minaccia. Sono gradualmente spariti fino al punto di essere considerati in via di estinzione solo nelle aree ricche del pianeta, mentre continuano ad affliggere le popolazioni che vivono nelle aree arretrate. E un tale risultato lo si è avuto non già per grazia di uno spirito umanitario del sistema, ma per merito anzitutto delle lotte del movimento dei lavoratori. A costituire la molla del suo sistema è la brama di tornaconto e non l’interesse della collettività. 463
Né la forza lavoro né la natura, nelle loro dimensioni di spazio e di tempo, sono prodotte dal sistema capitalistico, eppure nonostante ciò il capitale tratta le condizioni della produzione come se fossero merci. Il capitalista intraprende un’attività, investe il suo denaro, scambia i suoi prodotti solo ed esclusivamente alla condizione che in cambio ottenga profitto; senza di questo la sua funzione non ha alcun senso. I valori etici e religiosi sono qualcosa di estraneo agli affari. La logica del profitto porta inevitabilmente a situazioni aberranti. Non è possibile dimenticare che durante la seconda guerra mondiale, per limitarmi a un esempio, tra la neutrale e bigotta Svizzera e il Terzo Reich si sono instaurati legami economici e finanziari che sono risultati decisivi nello sviluppo della macchina da guerra nazista, e questo è potuto accadere proprio perché le imprese private svizzere hanno dato priorità all’obiettivo del profitto a scapito di quello della pace. Del resto, quando un’impresa produce in perdita e dichiara fallimento non si cura se i propri dipendenti restano senza lavoro e senza mezzi di sussistenza. La logica del capitale è ferrea e non consente sentimentalismi. All’attuale livello di sviluppo la scienza e la tecnica offrono larghissime possibilità di essere utilizzate al servizio dell’interesse collettivo. La ricerca potrebbe essere indirizzata ad alleviare le sofferenze e i condizionamenti esistenziali che sono ancora molti; i lavori faticosi e ripetitivi potrebbero essere sostituiti completamente dalle macchine e la vita collettiva potrebbe essere organizzata al punto di conseguire una più ampia socializzazione imperniata sulla solidarietà. In parte ciò è avvenuto ed avviene, ma si tratta di un processo lento, pesantemente condizionato e frenato dalla legge della convenienza capitalistica. La sola forma di contabilità che il capitale conosce è quella monetaria, la contabilità sociale gli è sconosciuta. Una testimonianza a questo riguardo ci viene dalla produzione di armamenti. E’ risaputo che il 95% delle armi che l’uomo ha costruito sono perfettamente inutili, giacché basta il 5% a distruggere l’intero pianeta. Per raggiungere questo assurdo primato sono state e continuano a essere spese ingenti somme di denaro, quando poi non si trova una soluzione ai tanti problemi che affliggono larga parte dell’umanità proprio – ci si sente ripete – per mancanza di risorse. Altro esempio ancora è costituito dalla produzione di automobili. L’auto è una straordinaria invenzione, però inquina, congestiona la circolazione, comporta enormi sprechi sociali, isola e abbruttisce l’individuo; potrebbe essere convenientemente rimpiazzata dal mezzo collettivo, ma ciò non avviene, proprio perché una conversione del genere significherebbe ledere gli interessi e lo spirito del capitale. L’uso della scienza e della tecnica potrebbe essere messo a disposizione della collettività, invece la logica del capitale lo trasforma in proprietà di chi detiene i mezzi per ricavarne profitto. Un politologo moderato come Giovanni Sartori, nel marzo del 2008, sul quotidiano italiano di maggior tiratura, ha dovuto ammettere che “il mercato non contabilizza tantissime cose, per esempio i ‘beni collettivi’… Il consumo in eccesso produce un danno collettivo che non viene pagato né contabilizzato…Chi inquina l’acqua o avvelena l’aria con ‘gas serra’ produce danni che il danneggiante non paga e che il mercato non registra. Eppure, si tratta di danni colossali”. La storia passata e odierna ci induce a ritenere che finché dominerà il capitalismo, quel compito incombente della società moderna che Dahrendorf chiama “far quadrare il cerchio” fra creazione della ricchezza, coesione sociale e libertà politica, non potrà mai trovare soluzione. E non potrà essere trovata proprio perché la “mano invisibile” non ridistribuisce le ricchezze secondo i bisogni, come supponeva Adam Smith, ma le affida a pochi possessori i quali le investono secondo le proprie convenienze. Il sistema del capitale non ha nemmeno la sensibilità di preoccuparsi dei rischi a cui è esposta l’umanità a causa delle contraddizioni determinate dal suo modo di essere. Nel corso di questo ultimo secolo, mentre la popolazione mondiale è più che quadruplicata, la catena alimentare non è in grado di assicurare la crescente domanda di beni. Tra il primo lustro del scolo e il secondo lustro il consumo di cereali è passato da 21 milioni di tonnellate a 45 milioni, mentre la resa dei raccolti è cresciuta nell’ordine del 1,4% annuo. Gli scienziati prevedono che a causa del riscaldamento
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globale, con l’aumento di 2 gradi di temperatura si determinerebbe una diminuzione del 30% nel raccolto di frumento. Già nel 2012 le riserve alimentari globali hanno registrato un calo del 2,6%. Non va poi trascurato il problema dell’acqua, non solo di quella potabile, ma anche di quella necessaria all’irrigazione, considerato che le falde acquifere di gran parte del pianeta si stanno svuotando. Sono problemi enormi e inquietanti la cui soluzione richiederebbe una profonda svolta nella gestione delle risorse, eppure il grado di sensibilità per porvi urgente rimedio, non solo da parte del potere, ma della stessa opinione pubblica, è decisamente scoraggiante. Oltre che essere disinteressato al conseguimento dell’interesse generale, il modo di produzione e di scambio capitalistico obbedisce alle tendenze di accentramento e di concentrazione del capitale. Secondo l’Institute of Policy di Washington, all’inizio del secolo, il 51% delle cento maggiori economie del mondo risultavano essere controllate dalle multinazionali, mentre gli Stati gestivano solo il rimanente 49%. A indirizzare e controllare le attività della ricerca e della promozione industriale e commerciale sono in effetti le imprese multinazionali il cui potere d’intervento è in continuo aumento. Nel 2009 i piccoli agricoltori costituivano un terzo della popolazione mondiale, ammontavano cioè a due miliardi di persone, eppure i prezzi dei prodotti agricoli erano e continuano a essere determinati da un numero esiguo di scaltri e cinici uomini d’affari per conto dei colossi della trasformazione e del commercio. Secondo un’indagine della Banca d’Italia, alla metà del primo decennio del 2000, nel nostro Paese la quota in mano al primo azionista risultava essere pari in media al 66% del capitale d’impresa, mentre il numero medio degli azionisti accusava una tendenza alla diminuzione. Se si considera che nel futuro ci sarà spazio quasi esclusivamente per le grandi imprese globali, mentre gran parte di quelle intermedie verranno spazzate via e quelle piccole avranno solo ruoli di nicchia, è facile prevedere quanto grande è l’accelerazione del processo di concentrazione e centralizzazione del capitale. La stessa new economy mal sopporta il sistema della concorrenza e trova le condizioni migliori del suo sviluppo proprio in regime monopolistico. Per ora il mondo resta policentrico, ma il capitale lavora nella prospettiva di un’economia mondiale dominata dai monopoli e in un tale regime la libera concorrenza è destinata a divenire un ricordo. E pensare che nel tardo Medioevo vigeva la condanna di ogni forma di monopolio e ogni attentato alla concorrenza veniva perseguito! E’ poi impossibile ignorare che l’economia capitalista è il regno dell’irrazionalità. Se lasciati indisturbati, i mercati non tendono affatto verso un equilibrio virtuoso. L’autoregolazione del mercato è una panzana. Esso non è uno “stato di natura”, ma una complessa struttura istituzionale soggetta a capricciose variazioni che sono impossibili da controllare. Presenta zone opache che pochi esperti riescono a decifrare e attiva comportamenti deviati e illegali che allocano le risorse in modo iniquo disorientando il pubblico. Esempio ne è l’economia sommersa e illegale la quale è una caratteristica non solo dei Paesi arretrati, ma anche di quelli industrializzati. L’Italia vanta da anni un sommerso che oscilla tra il 20 e il 30% del Pil e nonostante il fenomeno sia stato deprecato da tutti i governi, continua a pervadere ogni ambito sociale. E questa impotenza è dovuta al fatto che l’economia illegale è connaturata al sistema. Keynes stesso, nella elaborazione delle sue teorie, parte dalla constatazione che il sistema capitalistico se lasciato a se stesso non porta affatto al pieno impiego dei fattori produttivi, ma fa registrare comportamenti irrazionali. Se osserviamo attentamente le dinamiche del capitalismo moderno ci accorgiamo che esso è incapace di controllare e dirigere le forze che mette in moto, soprattutto constatiamo che non ha un progetto razionale per il proprio divenire e per quello dell’umanità. Il suo modo di gestire l’economia si rivela incapace di affrontare tempi che superano quelli di una generazione e di andare oltre i confini che non siano quelli della domanda espressa in moneta. Come ebbe a rilevare un esimio economista, il mercato é un ottimo tattico, ma è un pessimo stratega. Vede corto e non vanta capacità progettuale, il che lo rende inidoneo a fronteggiare il futuro. Non sa anticipare i tempi, ma prevede e calcola solo a brevissimo raggio. E’ ossessionato dal quotidiano oscillare dei titoli di 465
Borsa. Lo stesso management odierno è impegnato a concentrare la sua azione su obiettivi di breve periodo e di potere piuttosto che sulle prospettive di lungo periodo, e questa miopia non offre garanzie per l’avvenire. Poi, più il capitale si espande, più si rivela inetto a gestire le sue stesse crisi. Le forme di regolazione del ciclo che hanno caratterizzato sin qui la sua storia non riescono più a funzionare. Le crisi degli ultimi tempi sono infatti caratterizzate da contraddizioni inedite. Nessun economista aveva previsto la “stagflazione”, cioè la presenza contemporanea di recessione e di inflazione. Privata dei tradizionali confini, liberata dalle prescrizioni dello Stato nazione, in assenza di un governo mondiale, l’economia di mercato produce situazioni esplosive. Si pensi a come in un breve lasso di tempo, con la globalizzazione, nel continente asiatico una massa di circa un miliardo di uomini è passata di colpo dall’autoconsumo al consumo, cioè dal circuito chiuso dell’economia agricola al circuito aperto dell’economia di mercato. E una tale accelerazione ha destabilizzato i vecchi equilibri di potere a livello mondiale. Ha di che sbracciarsi Jeremy Rifkin nel denunciare il conflitto tra globalità e culture locali e ammonire che la civiltà rischia di essere uccisa dal mercato, questo processo è irrinunciabile per il capitale. Per quanto acuti siano i pericoli economici, sociali e politici impliciti in alcune tendenze dello sviluppo economico, il capitalismo è per principio incapace di trovare un rimedio che dia soddisfazione ai bisogni di larga parte degli esseri viventi. Non si deve mai dimenticare che esso si riproduce solo attraverso conflitti. Il fallimento delle politiche congiunturali classiche, di quelle monetarie e di quelle neokeynesiane è lì a dimostrare questa drammatica verità. La moderna società borghese ha suscitato come per incanto così potenti mezzi di produzione e di scambio da rassomigliare allo stregone che non può più dominare le potenze sotterranee da lui stesso evocate. Con la globalizzazione gli effetti del deterioramento del modello sociale si sono moltiplicati e i rischi e le minacce per l’umanità sono aumentati. Oggi l’economia reale è subordinata al potere finanziario e la ristrutturazione in atto provoca disoccupazione, sottoccupazione, lavoro nero e marginale, intensificazione dello sfruttamento, emarginazione sociale. Nella società dilagano forme alienanti e cresce l’esclusione. I diritti umani continuano a essere calpestati in ampie aree del pianeta e l’umanità è sotto la minaccia di una catastrofe ecologica. Intere regioni sono al degrado a causa dell’uso irrazionale del suolo e della speculazione edilizia. Nelle aree metropolitane nelle quali vive ormai la metà della popolazione mondiale, vige il caos e si allargano le periferie selvagge. La miseria persiste nelle regioni del Sud del mondo e mentre esplode il problema demografico, le povertà vecchie e nuove aggrediscono le casematte del ricco Nord. La droga, il terrorismo, il fondamentalismo religioso sono diventati i nuovi flagelli. La democrazia rappresentativa risulta ormai svuotata e l’incapacità-impossibilità dell’uomo di governare i processi sociali e di controllare ciò che lui stesso ha inventato e prodotto, suscita angoscia e sfiducia in ogni individuo apprensivo. Non solo un nuovo conflitto mondiale con il possibile impiego dell’energia atomica o delle armi chimiche non è stato scongiurato, ma a questa minaccia si aggiunge il timore di moderni regimi autoritari fondati sull’estensione senza limiti del “grande fratello” e sulla manipolazione genetica e cerebrale. Il genoma umano può infatti essere messo sotto chiave e diventare proprietà di investitori privati. Il sociologo e filosofo francese Edgar Morin ha sostenuto che “non c’è più soltanto la lotta contro le vecchie barbarie: il fanatismo, l’intolleranza, il razzismo. La vecchia barbarie si è alleata con la nuova ‘barbarie fredda’, della macchina aninoma, della burocrazia, della tecnocrazia, del pensiero parcellizzato”. Il filosofo della scienza americano Ray Kurzweil ha teorizzato che fra il ritmo dello sviluppo umano e quello dello sviluppo tecnologico potrebbe aprirsi una forbice: mentre il nostro sviluppo è lineare, quello indotto dall’informatica e dalle nanotecnologie è in accelerazione esponenziale. Il politologo statunitense Samuel P.Huntington ha manifestato il timore di uno “scontro tra civiltà” come motore del nuovo ordine, o disordine, mondiale.
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Interpellato sui rimedi alla crisi economica attuale il premio Nobel per l’economia Cristopher Sims ha risposto: “Non ho idea di come si possa uscire da questo macello”. Si tratta di giudizi che possono sembrare un po’ troppo pessimistici, ma hanno tutti un fondo di verità. Del resto, ai tempi nostri gli esempi di irrazionalità sono la norma, i paradossi abbondano e ci si può aspettare di tutto. Si pensi al fatto che mentre i capitali possono muoversi indisturbati su tutto il pianeta, alle persone corre l’obbligo di dar conto della loro identità ad ogni frontiera. E ciò dimostra che le ragioni dell’economia sono più forti di quelle del più elementare bisogno di circolazione. La Borsa di Wall Street diventa euforica quando le prospere industrie di telecomunicazioni ed elettroniche americane falcidiano gli organici al ritmo di decine di migliaia di persone. Identico comportamento hanno tutte le Borse del mondo quando si trovano di fronte alle ristrutturazioni capitalistiche. Durante il periodo in cui la Nato ha aggredito la Jugoslavia, ogni volta che si apriva uno spiraglio di trattativa la moneta europea si apprezzava sul dollaro; quando gli Usa chiudevano quello spiraglio e ricominciavano i bombardamenti, il dollaro recuperava la sua supremazia. All’inizio del secolo, solo 2,34 miliardi di dollari dei 90 miliardi investiti nella banda larga a fibre ottiche negli Stati Uniti ha generato ricavi e la ragione di questo fallimento sta nel fatto che la sovraccapacità delle fibre ha reso superfluo utilizzare la stragrande maggioranza di quelle che erano state posate. Possibile che nessuno al tempo del progetto abbia fatto i giusti calcoli? Il profitto ha prevalso sull’interesse collettivo. Recentemente l’antitrust americano ha deciso di penalizzare la Microsoft non perché accusata di alzare i prezzi, ma proprio per averli abbassati troppo. Sono questi alcuni esempi di irrazionalità che seppure tali da non suscitare scalpore nell’opinione pubblica, fanno riflettere che l’identificare la postmodernità con il progresso è un’ingenua illusione. Lo sviluppo dell’economia globale e tecnologizzata è non solo imprevedibile, ma anche fuori dalla portata di controllo di chiunque. Non tollera condizionamenti e lo Stato e la legge non riescono a stargli dietro. Un illustre opinionista nostrano ha scritto recentemente che “la borghesia sa correggere i propri difetti, rimediare ai propri errori, imporre a se stessa nuove regole”; evidentemente questo signore ha deciso di ignorare l’evidenza. Il sistema sociale in cui siamo inseriti è destinato a rimanere irriformabile e incontrollabile. Nessuno può liberarlo delle sue instabilità e irrazionalità se non fuoriuscendo dalla sua logica. La stessa politica moderata si è dimostrata incapace di correggere le sue più vistose contraddizioni. Schumpeter riteneva che il capitalismo potesse essere domato e svirilizzato dalla socialdemocrazia, di fatto è accaduto il contrario: è toccato alla socialdemocrazia di essere domata dal capitalismo. Lo stesso centro-sinistra, non solo in Italia, ha avuto e continua ad avere l’ambizione di civilizzare il capitalismo, di umanizzare l’impresa, di realizzare un compromesso fra mercato e democrazia, ma fino ad oggi la sua azione ha registrato un clamoroso fallimento. Nell’estate del 2009, l’economista del Pd Sandro Trento, un po’ sconsolato affermava: “Abbiamo riformato la legge bancaria, le norme della finanza, il diritto del lavoro, abbiamo introdotto una legge sull’opa, un nuovo diritto societario e fallimentare; abbiamo riformato il sistema pensionistico, abbiamo anche introdotto un sistema elettorale maggioritario e così via. Ebbene nonostante queste riforme il nostro tasso di crescita medio in questo lungo periodo è stato modestissimo, meno dell’1% annuo”. Lo stesso guru del capitalismo illuminato, Guido Rossi il quale, ispirandosi a Keynes, ha confidato nella possibilità di abbandonare il culto astratto del capitale finanziario e riscoprire il valore del lavoro, commisurando l’interesse alla produttività, ha dovuto ammettere la sua delusione. Più ancora che nel passato, oggi la povertà di comprensione e di previsione di chi ci governa e gestisce il potere è motivo di preoccupazione. Politici e operatori economici, coloro cioè che sono chiamati a compiere le scelte per l’oggi e per l’avvenire, dimostrano di avere memoria e vista corta. Il vizio è antico, considerato che già nel 1852, in un articolo per il “New York Daily Tribune” Marx irrideva gli economisti del tempo con queste parole: “Il giorno in cui la crisi scoppiava, si 467
atteggiavano a innocenti e si sfogavano contro il mondo commerciale e industriale con banalità moralistiche accusandolo di mancanza di previdenza e di prudenza”. Negli anni ’80, l’economista Federico Caffè stigmatizzava i moderni taumaturghi affermando che “la grezza arroganza dei praticoni farà sempre premio sulla finezza dell’analisi, della quale essi sono, del resto, del tutto inconsapevoli”. Ora l’insipienza di questa miopia politica collettiva ha assunto proporzioni allarmanti. Accanto a una sottovalutazione dei drammi e delle angosce sociali si registra una diffusa carenza di analisi e di studi che è decisamente inquietante. Mentre gli imprenditori soffrono di una miopia congenita (l’investimento tende non a precedere, ma a seguire la domanda di mercato), in nome dell’efficienza e del risultato, i politici non vanno oltre i confini del loro mandato elettorale. Ad essere interessati agli studi e alle previsioni economico-sociali, salvo a quelli riguardanti i mercati e gli umori elettorali, sono ormai in pochi. E’ diffusa invece la credenza ingenua che a risolvere tutti i problemi sia la crescita economica, cioè quella ripresa dello sviluppo che tutti invocano ma che nessuno è in grado di determinare. A regolare il destino dei popoli tornano a essere le ideologie. E’ il “pensiero debole” o “pensiero corto” che ha la rivalsa sulla capacità di analizzare e progettare. E purtroppo anche la sinistra è succube di questa mentalità. Dopo aver perso l’abitudine di denunciare e combattere l’irrazionalità del sistema si è messa a fare gli esorcismi. E pensare che a rendere possibile un’alternativa non bastano né le critiche né i progetti di società futura. La rivoluzione, infatti, non è resa possibile dalle idee, ma dal processo reale. 14.4 – Il predominio della speculazione sull’economia reale Il sistema capitalistico ha incominciato ad utilizzare in maniera massiccia la moneta all’indomani del secondo conflitto mondiale. Alla fine degli anni ’70, dopo gli accordi di Bretton Woods, ha avuto luogo la corsa al profitto conseguibile nel breve periodo e successivamente i monopoli e le banche hanno assunto un’importanza decisiva facendo conseguire alla finanza un ruolo sovrano. A partire dagli anni ’80, negli Stati Uniti, cuore del capitalismo mondiale, una parte crescente dei profitti non sono più stati investiti nelle attività produttive, ma deviati verso la sfera finanziaria e si sono trasformati in rendita. Il tasso di profitto del settore industriale ha progredito lentamente, mentre i rendimenti delle banche, delle assicurazioni e dei vari investitori hanno registrato una forte crescita. Nell’87 è stato creato il primo Cdo (Collateralized debit obligation) quale frutto di un complicato studio compiuto da matematici in base al quale sono stati costruiti portafogli immunizzati e la cui esposizione al rischio era minima. Sull’onda di questa innovazione le maggiori banche hanno ridotto i loro impegni tradizionali e si sono imbottite di obbligazioni. E’ stata così alimentata l’attesa di rendimenti più alti sul capitale investito e diffusa la fede nell’illimitata sostenibilità del debito. Ha quindi avuto inizio la vertigine di fare denaro senza la mediazione del processo di produzione. Per la “borghesia compradora” e per i rantier è incominciata l’era dell’ingordigia. Negli anni ’90, nei principali Paesi industrializzati il rapporto tra il volume della ricchezza finanziaria e il volume dell’attività economica ha subito un balzo: mentre all’inizio del decennio era pari al 210%, alla fine risultava essere del 360%. Mentre tra il ’46 e il ’50 del ‘900 gli utili conseguiti dalla finanza costituivano il 9,5% del totale, ai primi del nuovo secolo raggiungevano addirittura il 45%. Per tutto il periodo che va dagli anni sessanta e settanta ai primi del nuovo secolo, negli Usa, in Canada, in Giappone, in Australia, in India e persino in Cina, la quota di reddito destinata ai salari ha subito una rapida discesa, mentre è salita quella destinata ai profitti e alle rendite; rispetto agli anni ’60, negli anni ’70 in Italia è scesa del 15%, in Francia del 12%, in Germania del 10%, nell’area dell’euro dell’11%. In Italia, nell’ultimo decennio del ‘900, le quote degli interessi netti e delle rendite immobiliari si sono raddoppiate, mentre i profitti netti delle imprese sono aumentati di soli 7 punti in percentuale; i salari netti sono scesi di oltre 16 punti. I redditi da lavoro sono così divenuti secondari rispetto ai redditi da patrimonio. 468
Alla fine del 20° secolo si è dunque registrato un grande mutamento: l’economia si è patrimonializzata contagiando la maggior parte della popolazione. E con il nuovo millennio la corsa all’investimento finanziario ha registrato un’esplosione. La quota di reddito destinata ai salari, rispetto a quella che era indirizzata alle rendite, ha incominciato a calare ovunque nel mondo. Dal 2000 al 2013, negli Usa la quota dei redditi da lavoro sul Pil è scesa dal 60 al 54%, mentre i profitti, che per decenni hanno avuto aumenti compresi tra il 4 e l’ 8%, a fine 2013 sono schizzati al 16%. Il lavoro ha incominciato a contare sempre meno e nel mondo la quota di reddito ad esso destinata ha subito un calo: nel 2013 oscillava attorno al 61-62%, mentre vent’anni prima era attestata al 66%. Anche in conseguenza della sostituzione del lavoro umano con gli automi, per gli stessi imprenditori industriali è divenuto conveniente investire sempre più nel capitale fisso piuttosto che in quello circolante. La moneta, in sostanza, oltre a continuare ad assolvere il suo ruolo di scambio, è divenuta uno strumento di fabbricazione della ricchezza. Sono così nati centri monetari e finanziari in grado di condizionare e modificare l’andamento del sistema economico e mentre la speculazione è diventata virtù, ha avuto inizio la decadenza della laboriosità. L’impresa produttiva che da oltre un secolo è l’agente dello sviluppo, a seguito di questa rivoluzione ha subito un rapporto di subordinazione alla speculazione finanziaria. Somme immense di denaro, anziché nell’industria, sono state investite in attività immobiliari lecite e illecite, in operazioni commerciali che non richiedevano immobilizzi d’investimenti, in avventure sospette, in prestiti rapaci. Federico Caffè si è allarmato di fronte all’opacità dei mercati finanziari e alla loro manipolazione da parte di operatori ignoti, di “incappucciati”, mentre il padre della Consob e dell’anti-trust, Guido Rossi, qualche tempo fa, si è sentito in dovere di affermare che il capitalismo italiano è fatto di rendite, di privilegi, di comportamenti provinciali, di collusioni. Aveva dunque visto giusto Marx quando nel terzo volume de “Il capitale” scriveva che “la banca e il credito divengono il mezzo più potente per spingere la produzione capitalistica al di là dei suoi limiti e uno dei suoi veicoli più efficaci delle crisi e della speculazione”. E pure Gramsci non aveva torto nel denunciare nei “Quaderni del carcere” che uno dei vizi fatali del capitalismo avanzato consisteva nello svincolare, attraverso l’azionariato, la funzione imprenditoriale dall’impresa stessa, sicché – scriveva – non esistono più imprese sane. Recentemente, Alain Touraine si è detto convinto che “il dominio del capitalismo finanziario ha ormai rimesso in discussione e reso inservibili tutte le costruzioni sociali del passato… Il trionfo della finanza speculativa disarma la politica e l’economia, disarticolando le società così come le abbiamo conosciute e pensate finora”. In effetti, di fronte ai movimenti di masse gigantesche di capitali capaci di spostarsi all’istante e far precipitare le monete più solide, le stesse imprese appaiono impotenti. L’imprenditore viene invogliato a scegliere il terreno esclusivo dei profitti finanziari, a praticare il “make money by money” che non crea né sviluppo né occupazione. Nascono e si diffondono imprese che danno lavoro a centinaia e migliaia di dipendenti, le quali vengono considerate competitive, ma in realtà vantano uno stato patrimoniale netto di molto inferiore ai debiti che hanno contratto. Non vengono dichiarate fallimentari solo perché la loro situazione debitoria produce parecchio capitale circolante. La tentazione di rifugiarsi nella mera gestione della finanza alla quale sono esposti molti imprenditori, è un fenomeno che è stato deprecato dallo stesso Keynes, poiché un simile cedimento è destinato inevitabilmente a produrre una caduta della domanda di merci e una disoccupazione permanente. Il dramma è che questa corsa al guadagno facile e veloce ha contagiato non solo la classe imprenditoriale, ma il comune cittadino. Il sistema ha indotto le singole persone ad applicare esse stesse il calcolo capitalistico nella gestione dei propri averi, copiosi o stentati che essi siano. In questi ultimi decenni si è in sostanza verificato un corrompimento di massa. Si consideri che negli Stati Uniti oltre il 50% delle famiglie possiedono azioni di società quotate in Borsa (quarant’anni fa erano solo il 17%). Alla fine del primo decennio di questo secolo, sempre 469
negli Usa, erano in circolazione un miliardo e trecento milioni di carte di credito, in media oltre quattro per abitante, neonati inclusi. Come testimonia una ricerca di qualche anno fa, l’americano medio è spesso sull’orlo della bancarotta spendendo fra il 60 e il 110% in più di quanto possiede e questo proprio grazie al fatto che può pagare con la carta di credito anziché in contanti. Anche in Italia nel corso di questi decenni si è verificato un enorme mutamento nei portafogli familiari. Il 70% degli italiani, oltre a possedere la propria abitazione, vanta un piccolo investimento in titoli di Stato e azionari. Le entrate di una famiglia media sono ormai formate non più solo di salari o stipendi o pensioni, ma di rendite da investimenti finanziari nel settore pubblico, ma anche in quelli dell’immobiliare, del commercio, dei servizi e in diverse forme di piccola impresa. Ad avere un ruolo principe nelle attività speculative è la Borsa. Gli alti e bassi delle quotazioni azionarie non hanno alcun rapporto con il valore reale delle aziende, ma corrispondono solamente a convenienze speculative. Nonostante che le imprese industriali abbiano accresciuto le loro capacità produttive, nelle quotazioni registrano una tendenza al ribasso, e questa penalizzazione induce addirittura alcune società a uscire dalla Borsa, mentre le imprese finanziarie e della new economy risultano costantemente in ascesa (la forbice tra l’indice Dow Jones dei titoli industriali e quello del Nasaq dei titoli tecnologici è lì a dimostrarlo). La Borsa non produce ricchezza, ma vive parassitariamente di essa. Meraviglia pertanto l’atteggiamento che nei suoi confronti mantiene la sinistra. Se la memoria non mi tradisce, non ricordo di aver visto un solo documento programmatico di partito che ipotizzasse la soppressione della Borsa, quale condizione, tra le altre, per la costruzione di un’economia socialista. Con il processo di finanziarizzazione dell’economia il capitalismo ha reso evidente che la sua logica non è quella della produzione di beni per mezzo del capitale, ma quella invece della produzione di capitale per mezzo di beni. I possessori di denaro che si arricchiscono investendo senza alcun riferimento alle attività produttive, stanno acquisendo un’importanza sempre maggiore rispetto ai tradizionali imprenditori e alle classi cosiddette attive. La finanziarizzazione significa in altre parole che i rapporti di forza fra capitale e lavoro si sono spostati a favore del capitale nella maggior parte dei paesi. C’è chi ha calcolato che a livello globale il capitale reinvestito in produzione è solo il 10% della massa monetaria in circolazione e questo testimonia che per il sistema non c’è affatto interesse a estendere nel mondo la produzione dei beni, ma suo obiettivo è di estendere il sistema di mercato che esige la circolazione di denaro. La rivoluzione finanziaria strozza l’economia reale e determina una crisi sociale dai caratteri inediti. La produttività del capitale cresce indipendentemente dalla quantità di lavoro impiegato, il cui costo aumenta sempre di più a carico delle imprese, mentre il denaro diviene per le stesse sempre più scarso e più caro. Nelle banche si trova depositata una quantità sempre maggiore di risparmi e depositi, mentre alle aziende, nonché alle famiglie, vengono lesinati prestiti e mutui. La stessa struttura proprietaria delle imprese e dei rapporti di proprietà e di controllo è investita da un profondo cambiamento. Il sistema non è più in grado di distribuire in modo efficiente le risorse, di premiare chi produce reddito e di punire chi lo distrugge. La finanza di carta è in rotta di collisione con il capitalismo industriale, e si è liberata di ogni forma di controllo sociale e politico, anzi, condiziona pesantemente gli Stati. Nel cerchio chiuso di potere e denaro non c’è posto per la politica, ma solo per il dominio. Le agenzie di rating esercitano un’eccezionale influenza, non solo sui mercati, ma anche sui governi e nessun paese appare al riparo dai loro giudizi destabilizzanti. Cresce il timore per il debito sovrano, mentre intere comunità sono prigioniere degli spread. Nonostante che le banche a rischio di fallimento vengano salvate con i fondi pubblici, il mondo finanziario esercita il ricatto nei confronti delle pubbliche istituzioni. Si consideri che i paesi dell’Unione Europea, già nel ’99, hanno destinato agli istituti di credito risorse pari al 31,2% del Pil, mentre per il sostegno dell’economia reale gli interventi sono stati pari al solo 5%. Non meno ha fatto il governo statunitense il quale pur essendo stato costretto a chiudere decine e decine di banche, è stato accusato di aver attuato un “socialismo per i ricchi”. Nel giro di una
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ventina di mesi i subprime (prestiti ad alto rischio) hanno causato la perdita per le famiglie americane di 12.000 miliardi di dollari. Tutti erano a conoscenza dell’entità dell’indebitamento americano, tutti sapevano che i nipotini dello zio Sam non risparmiavano, vivevano al di sopra delle loro possibilità e che il Paese continuava a consumare ricchezza futura, eppure nessuno ha mai protestato. Non lo hanno fatto gli economisti e nemmeno gli altri Stati i quali, peraltro (Cina per prima) hanno investito ingenti somme in buoni del tesoro Usa. In forza della globalizzazione, le crisi finanziarie possono esplodere in un punto qualunque del pianeta ed estendersi con sorprendente rapidità all’intero globo. Masse enormi di denaro, o di pezzi di carta che lo rappresentano, vagano continuamente alla ricerca dell’impiego più remunerativo passando per le diverse borse valori. Operatori di mercato incontrollati e liberi di agire, smontano imprese, guadagnano ampie somme e compromettendo la capacità produttiva dei Paesi, gettano nel caos le loro economie. Negli anni passati siamo stati testimoni del collasso dell’intera economia argentina e, in Italia, migliaia di risparmiatori sono stati coinvolti in crac finanziari (Cirio, Parmalat, Bipop, Crediteuronord) senza che i governi prendessero efficaci provvedimenti punitivi nei confronti degli speculatori e misure riparatrici nei confronti di chi è stato defraudato. La crisi finanziaria di questi ultimi anni ha provocato la chiusura di decine di migliaia di imprese, di esercizi commerciali, una perdita massiccia di posti di lavoro e la messa in discussione del sistema di protezione sociale. L’area della povertà si è allargata e i poveri sono diventati ancor più indigenti. Interpellati sulle cause della crisi economico-finanziaria, gli economisti statunitensi hanno risposto “chi lo sa?”. Atteggiamento analogo hanno assunto i loro colleghi del resto del mondo la cui stragrande maggioranza ricorre allo scaricabarile. Ancora oggi sono tutti in attesa messianica di qualche “locomotiva” che riprenda a marciare per tirarci fuori dalla stagnazione. E’ da ricordare che le speculazioni sui titoli e sul denaro hanno sempre accompagnato le magnifiche sorti del capitalismo. Già 160 anni fa Marx osservava: “La speculazione sorge regolarmente nel periodo in cui la sovrapproduzione è già al massimo. Fornisce alla sovrapproduzione degli sbocchi momentanei. Nello stesso tempo, affretta l’irrompere della crisi e ne aumenta la violenza. La crisi stessa scoppia in primo luogo là dove imperversa la speculazione e solo più tardi raggiunge la produzione. L’osservatore superficiale non vede la causa della crisi nella sovrapproduzione”. E riferendosi agli economisti, commentava: “Il giorno in cui la crisi scoppiava, si atteggiavano a innocenti e si sfogavano contro il mondo commerciale e industriale con banalità moralistiche accusandolo di mancanza di previdenza e di prudenza”. E’ da notare che i costumi cambiano con esasperante lentezza. Ora però siamo in presenza di un rischio di crac finanziario dalle dimensioni mondiali. Tutti i mercati finanziari, da quelli valutari a quelli azionari, sono soggetti a ondate di eccessivo ottimismo seguite da eccessivo pessimismo. E’ in gioco lo stesso modello di capitalismo. Gli ingranaggi delle economie forti sono prigionieri di una rete di interdipendenze così complesse che basterebbe, per esempio, che un paese sospendesse l’acquisto dei titoli del tesoro di un altro paese e vendesse parte di quelli che ha accumulato per fargli rischiare il fallimento. Le grandi aziende denunciano perdite record, quelle di media e piccola dimensione risultano essere fragili e “banca-dipendenti”, i gruppi pubblici sono gravati da un indebitamento stratosferico e da pesanti perdite, quelli privati, di maggiori dimensioni, stentano a fare profitti e sono pieni anch’essi di debiti. Un qualsiasi mercato corre il rischio di subire un crollo rovinoso e dare inizio a una catena di bancarotte. L’Occidente sta del resto scivolando verso una recessione dopo l’altra. La più grande economia del mondo, nel 2008, vantava un debito totale (imprese, famiglie, settore finanziario ed esteri) di 51.849 miliardi di dollari a fronte di un Pil di 14.412 miliardi. Da allora ad oggi la situazione non è cambiata, anzi è peggiorata. Il debito dell’Italia è in continua ascesa, nonostante le ripetute rassicurazioni di un’inversione di tendenza. La verità è che l’ordine economico capitalistico è in profonda contraddizione con le forze produttive e la crisi è veramente grave e preoccupante, essendo imperterrita la sua corsa verso 471
l’incontrollabilità su scala planetaria. Si tratta di una crisi che è destinata a cambiare i connotati della nostra civiltà. Pertanto, suscita meraviglia e preoccupazione l’inadeguatezza di ruolo che la sinistra palesa di fronte a questo rischio. Anziché rendere chiara l’alternativa, essa appare invischiata a tal punto nel sistema, prigioniera delle sue compatibilità e della sua cultura, da non saper offrire alcuna prospettiva di fuoriuscita da esso. 14.5 – La violenza all’ambiente e l’apoteosi del consumismo Con la tecnica moderna tutta la natura è diventata capitale o, quanto meno, è stata assoggettata al capitale. Parafrasando Marx, qualcuno ha sostenuto che saremmo di fronte a una circolazione natura-merci-natura (N-M-N). Sta di fatto che l’impatto dell’attività umana sull’ambiente naturale sta minacciando gli equilibri che rendono possibile la vita sulla Terra. L’uomo è divenuto la minaccia principale per l’ecosistema e il suo deterioramento rappresenta un fattore chiave della storia dell’umanità. Il rischio di un degrado irreversibile delle condizioni di vita sul pianeta è reale. Come ha sostenuto Hobsbawm, l’economia capitalistica si sta trasformando in “una forza geologica capace di alterare fisicamente la Terra”. Una grave crisi si è determinata nel rapporto tra risorse disponibili e bisogni. Negli ultimi decenni sono state consumate risorse naturali non rinnovabili in quantità superiori a quelle occorse al mantenimento di coloro che sono vissuti negli ultimi duemila anni (50 miliardi di persone all’incirca). I bisogni dell’uomo sono sempre più in crescita a causa sia dell’espansione demografica che del miglioramento delle condizioni di vita di molta parte dell’umanità, mentre le risorse per soddisfarli sono appannaggio di gruppi sempre più ristretti di possidenti. Se è pur vero che lo sviluppo tecnologico consente l’individuazione e l’utilizzo di materie prime come mai si era verificato in passato, il loro uso irrazionale e la loro discriminatoria distribuzione impediscono alla maggioranza della popolazione mondiale di goderne ai fini del soddisfacimento delle proprie esigenze primarie. Mentre l’offerta resta limitata, la domanda si allarga e questo squilibrio fa salire il costo della vita con effetti sconvolgenti. Il problema degli squilibri e dell’irrazionalità non è certo una sorpresa, già è stato avvertito decenni fa. Sulla stampa comunista, per esempio, nel ’78, Giorgio Amendola scriveva: “Abbiamo chiamato un tempo crisi generale del capitalismo … l’impossibilità di affrontare e risolvere i problemi generali dell’umanità, mantenendo il vecchio sistema…. Se non si muta il vecchio modo di vita, il mondo non potrà affrontare e risolvere la crisi dell’anno 2000, quando ci saranno sulla terra 7 miliardi di uomini”. Si è trattato di un’acuta intuizione che, però, non ha trovato la giusta corrispondenza nelle politiche portate avanti dalla stessa sinistra. Due anni dopo, negli Stati Uniti, per il presidente Jimmy Carter è stato steso il rapporto “Global 2000”. Facendo il punto sulla situazione delle diverse risorse del pianeta (spazio, terreno coltivabile, bosco, cibo, minerali, acqua, aria, ecc.), questo studio evidenziava gli aspetti critici e proponeva linee politiche per affrontarli. Negli anni successivi sull’argomento sono stati compiuti numerosi approfondimenti e formulate molte proposte, non essendo però stato messo in discussione la natura del capitalismo, il processo di aggravamento della situazione si è rivelato inarrestabile, al punto da divenire un rischio dalle dimensioni catastrofiche. Il degrado a livello mondiale è avvenuto anzitutto a causa della crescita demografica: nel 1950 eravamo 2 miliardi, oggi siamo 7 miliardi e le previsioni per il 2030 sono che saremo 10 miliardi. Il 95% di questo incremento demografico ha interessato i paesi in via di sviluppo e ha avuto profonde implicazioni quali l’alterazione dell’ambiente, l’instabilità politica e sociale di molti paesi, la penuria di risorse idriche, la riduzione di quelle boschive e l’aumento dei flussi migratori. Poi perché lo sviluppo industriale degli ultimi decenni è stato prevalentemente basato sulla produzione di merci le cui materie prime non sono rinnovabili, a partire dai minerali metallici fino ai prodotti petroliferi, e ora tali risorse stanno scarseggiando. 472
Il conflitto prodotto da un uso dissennato delle risorse, unitamente a una gestione irresponsabile dei beni ambientali, si intreccia sempre più con due contraddizioni di fondo: la prima è costituita dal divario crescente fra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo; la seconda riguarda il rapporto fra generazioni presenti e generazioni future. Mentre la prima genera disuguaglianze e miseria, la seconda condanna i posteri a disporre di risorse sempre più scarse e a costi sempre più alti. Se da un lato il riscaldamento globale mette a repentaglio gli approvvigionamenti energetici, e sia la fissione nucleare che i bacini idroelettrici e le piattaforme petrolifere si rivelano sempre più esposti a dei rischi, dall’altro tre miliardi di persone stanno entrando nell’economia globale quadruplicando la domanda di energia e moltiplicando il volume delle emissioni. Non tutte le popolazioni, peraltro, sono state educate al risparmio energetico e lo spreco è parte delle abitudini consolidate nella generalità dei paesi. Considerate, per lungo tempo, non competitive, antieconomiche e non facilmente subordinabili alla logica capitalistica, le fonti alternative di energia (sole, vento, geotermia, biomasse, ecc,) non vantano uno sviluppo tale da sopperire ai crescenti bisogni e compensare quindi l’impiego delle risorse non rinnovabili. La stessa tendenza a sostituire i prodotti artificiali con quelli naturali è destinata a incontrare crescenti difficoltà proprio per l’aumento del costo dell’energia necessaria a far funzionare gli impianti impiegati a produrli. La stessa produzione agricola è minacciata dal processo di desertificazione che sta aggredendo ampie zone del pianeta e dalla carenza di risorse idriche. Oltre all’emergenza delle risorse naturali tradizionali (dall’acqua al petrolio), è da aggiungere anche quella dei metalli poco diffusi in natura come il platino, il tantalio o il palladio i quali costituiscono le componenti essenziali per la produzione di nuovi prodotti e per il cui possesso si sono già scatenate guerre tra gli Stati. Potrebbero essere prodotti beni sostitutivi vantaggiosi per l’uomo e per l’ambiente, ma poiché questi non risultano congeniali al mercato, una tale possibilità non viene nemmeno considerata. Alla carenza di risorse si accompagna poi il rischio di disastro ambientale. La tradizionale gestione capitalistica dell’economia ha considerato per lungo tempo acqua, aria e cicli naturali beni di cui si poteva disporre liberamente e ciò ha provocato guasti all’ambiente come l’inquinamento atmosferico e l’avvelenamento delle acque. L’inquinamento di diversi beni essenziali è destinato a compromettere la condizione di vita delle future generazioni. Se si mantiene il ritmo di sviluppo economico che si è registrato nella seconda metà del ‘900, le conseguenze sull’eco sistema saranno irreversibili e catastrofiche. La produzione capitalistica sta portando in sostanza alla distruzione della vita sulla Terra. Succede così che il progressivo acutizzarsi della crisi rende l’umanità sempre più frammentata e divisa e accresce il rischio di conflitti sociali ingestibili. Se è vero che nel corso dei secoli l’uomo ha subito una continua metamorfosi adattandosi ai cambiamenti della natura, le trasformazioni climatiche che egli stesso ha indotto in questi ultimi due o tre secoli sono state così rapide e profonde da risultare non compatibili con i tempi dell’evoluzione biologica. Qualche scienziato ha ammonito giustamente che, così come la natura molti secoli fa ha estinto i dinosauri, in un prossimo futuro potrebbe riservare sorte identica all’uomo. Gli effetti del degrado sono ormai una realtà inconfutabile: mutamento del clima a causa dell’effetto serra, innalzamento della temperatura e dei livelli dei mari, aumento della frequenza degli uragani, desertificazione, piogge acide, carenze idriche, proliferazione accelerata di micidiali virus e conseguenti pandemie (Ebola, Hiv, Bse, Sars, ecc.). Il tutto aggravato da una crescita demografica fuori controllo. Le chiamano “catastrofi naturali”, in effetti sono opera dell’irresponsabilità dell’uomo. Una delle maggiori minacce per l’ambiente è lo stato di povertà in cui sono lasciate molte popolazioni della cosiddetta periferia del mondo. La miseria provoca disboscamenti, desertificazione, salinizzazione e costringe centinaia di migliaia di persone a vivere prive di alcun sistema sanitario e a bere acqua inquinata.
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Stiamo assistendo al sopravvenire di un disastro annunciato. Mi vengono in mente gli allarmi che il Club di Roma ebbe a fare già negli anni ’50 e anche i rapporti preoccupati che l’Onu e gruppi di scienziati ebbero a pubblicare negli anni ’70 e ’80 (da Barry Commoner a Karl-Henrik Robert). C’è di che vergognarsi per l’inerzia di coloro che hanno occupato posti di comando e hanno soprasseduto a queste ammonizioni. E’ però da deprecare anche la scarsa sensibilità (e intelligenza) di coloro che avrebbero dovuto contrastarla e assicurare percorsi alternativi. Quando penso a Cernobyl, a Fukuscima, all’incendio dei pozzi di petrolio durante la guerra in Iraq, ai bombardamenti degli impianti chimici e alle raffinerie nell’ex Jugoslavia per mano della Nato, avverto io stesso il peso della responsabilità per non aver protestato abbastanza contro i poteri costituiti. Oggi i margini di speranza per un futuro sicuro e sereno sono per davvero pochi, almeno fino a che dalla faccia della Terra non verrà spazzata via per sempre la logica del capitale la quale obbedisce solo alle leggi della convenienza economica. Succubi di questo sistema gli economisti hanno ridotto il progresso umano alla crescita del Pil. Coloro che hanno tenuto le redini del potere non hanno rispettato i pur modesti impegni di salvaguardia dell’ambiente sottoscritti a più riprese a vari livelli internazionali, e hanno soppresso nell’uomo la stessa consapevolezza del suo rapporto con la natura deformandogli la coscienza. Siamo in presenza di un modello di sviluppo che non tollera interferenze, che non intende limitare le emissioni di anidride carbonica, che non può e non vuole rinunciare all’uso delle risorse petrolifere fino al loro esaurimento, che non vuole sentire ragione per dare corso a uno sviluppo compatibile. Eppure, a dare l’allarme da qualche tempo non sono solo gli ambientalisti e i “sovversivi”. Ho in mente il rapporto che il Pentagono ha reso pubblico a metà del primo decennio del secolo e nel quale si sosteneva che se non fossero state prese adeguate misure, le coste americane ed europee dell’Atlantico avrebbero rischiato di essere colpite da frequenti e violente tempeste. Quel rapporto evocava lo spettro di “una catastrofe globale con milioni di morti” e prevedeva il rischio dello scoppio di guerre per la sopravvivenza. Ebbene, guerre di quel genere non sono ancora fortunatamente scoppiate, ma le coste dell’Atlantico, e non solo di quell’oceano, sono ormai flagellate costantemente da uragani che si fanno sempre più disastrosi provocando gravi danni alle cose e mietendo vittime. Sulle misure antinquinamento si continua però a lesinare. Non si vuol ammettere che lo squilibrio ecologico rappresenta una crisi oggettiva del sistema; e ciò dimostra che nessuna autorità è nelle condizioni di volere e di potere disinnescare la bomba ecologica. Un esempio eloquente di questo atteggiamento irresponsabile ci viene dalla questione dei rifiuti. Le discariche sono piene di oggetti che vengono buttati via solo perché il mercato non trova conveniente ripararli. Le componenti di molti prodotti vengono progettate non già per durare, ma per rompersi o logorarsi a tempo. Il criterio dei produttori (e dei distributori) non è affatto quello di garantire al cliente la qualità del bene, bensì di accrescere le ordinazioni e quindi i propri guadagni. E’ la ferrea legge del profitto che sfida il buon senso. E questo ci fa capire quanto sia complesso il problema ambientale e come per risolverlo sia necessario agire non solo sul fronte materiale della produzione, ma anche a livello culturale, intervenendo sul senso comune di massa. Siamo cioè di fronte a un problema la cui soluzione è insieme scientifica, tecnologica, economica, politica, sociale e culturale. Già un secolo e mezzo fa Charles Darwin spiegava che l’ecologia altro non è che l’economia della natura. Stante la miopia di chi ci governa, all’orizzonte non c’è altro che stagnazione, regressione e minaccia di sciagure. Ecco perché non mi riesce di perdonare alla sinistra di aver di fatto delegato la gestione della questione ambientale ai cosiddetti “verdi”! L’amore per la natura è indubbiamente un requisito fondamentale per l’attuazione delle politiche di salvaguardia dell’ambiente, ma esso di per sé non basta. Oltre a un tale spirito occorrono strategie economiche, produttive, urbanistiche; occorrono conoscenze storiche e scientifiche, politiche relazionali e mobilitazioni di massa che solo una 474
formazione politica dalla lunga tradizione, dalla solida memoria storica e dalle grandi adesioni può garantire. La rinuncia da parte della sinistra a svolgere un simile ruolo, o comunque la inadeguatezza da essa dimostrata, si accompagna a un disimpegno su un altro fronte decisivo, quello del rapporto consumi-bisogni. Uno dei grandi cambiamenti che ha contraddistinto il capitalismo è il passaggio dal risparmio al credito e al consumo. Per comprendere come questa transizione ha comportato e continui a determinare modifiche nei rapporti sociali e nei comportamenti umani, basta considerare gli effetti che la moneta elettronica, la vendita robotizzata dei beni di consumo e la tele-distribuzione hanno sul nostro agire quotidiano. Il sistema ricorre alla scienza e alla tecnica per determinare i bisogni e per indurre le persone al consumo. Il capitalismo produce schemi e modelli, veicola ad arte la cultura entro cui gli uomini sono indotti a muoversi. Dà corso a vastissime pianificazioni che non si limitano alla ricognizione dei bisogni, ma determinano la loro stessa formazione. L’asse culturale dello sviluppo di questi ultimi decenni è stato appunto la centralità del consumatore. Il sistema ha cioè sollecitato incessantemente le persone al consumo e al mutamento del loro stile di vita e di comportamento e una tale dinamica le ha inebriate e confuse. Le imprese hanno impiegato parte delle loro risorse per sedurre il consumatore e per distorcere la domanda di beni e servizi. Il consumo di massa, cioè la possibilità degli individui di accrescere continuamente i loro consumi, è uno dei pilastri fondamentali dello sviluppo capitalistico. Noi viviamo in una democrazia dei consumi. Secondo la logica del sistema capitalistico, ciò che è superfluo viene a costare assurdamente meno di quanto risulta essere necessario. Tutto questo viene fatto non certo con l’intenzione di creare il “regno dell’abbondanza”, ma esclusivamente per conseguire il profitto. Il principio del commercio, infatti, è “comprare a buon mercato per vendere a caro prezzo”. D’altra parte, la passione dominante della stragrande maggioranza della popolazione non è per la libertà, per la vera autonomia di giudizio e di comportamento, ma proprio per il consumo, per lo shopping. Lo spendere diventa la principale sorgente di delizia, mentre il sistema lo ha fatto diventare un dovere sociale, la condizione stessa del progresso: se non si consuma non c’è crescita. Nei centri commerciali il consumatore viene in un certo senso ipnotizzato, gli viene fatta perdere la cognizione del tempo (non per caso non ci sono finestre e gli orologi sono rari). In realtà tutti noi agiamo come se vivessimo in una società di consumo e non in una società di produzione. Sinonimo di materialismo è stato considerato da molti per lungo tempo il comunismo. Ora è il caso di chiedersi cosa ci sia mai di più materialista del consumismo capitalistico che vige in questa nostra società la quale viene paradossalmente considerata evoluta. Aveva visto ancora bene Marx quando nei “Grundrisse” annotava che mentre all’epoca in cui cominciavano a formarsi gli Stati, gli uomini erano “costretti a lavorare per la produzione dei mezzi di sussistenza… perché erano schiavi di altri ; ora (invece) sono costretti a lavorare perché sono schiavi dei propri bisogni”, quelli per l’appunto indotti dal capitale. Ciò che la sinistra ha dimostrato di non voler intendere, è che l’alienazione delle persone, la loro riduzione a oggetto, passa proprio attraverso la violenza all’ambiente naturale e la subordinazione dell’uomo al consumismo capitalistico. Su questo fronte avrebbe dovuto ingaggiare col sistema una vera e propria sfida, ma così non è stato. Anche a riguardo del rapporto uomo-natura, dunque, la sinistra non si è dimostrata all’altezza della sua missione.
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Capitolo 15°
L’incapacità della sinistra di far leva sulle contraddizioni del capitalismo 15.1 – Le insolubili antilogie del sistema Quel che la sinistra ha dimostrato di non saper fare è agire sulle incoerenze e brutture del capitalismo. Sarà ben difficile che questo sistema possa essere sostituito da un altro, se non vengono fatte esplodere le sue contraddizioni. Fino ad ora il capitale ha saputo sopravvivere ai suoi mali adattandosi a qualsiasi situazione; e questo è stato possibile proprio anche grazie all’incapacità del suo storico avversario di far leva sulle sue numerose e insanabili tare. Se un marziano venisse sulla Terra noterebbe di certo che l’uomo è prigioniero di assurde convenzioni: c’è gente che vive sulla strada perché non ha abitazione, eppure nelle città esiste un’infinità di case sfitte; ci sono persone che non hanno lavoro eppure la società lamenta ogni giorno la carena di servizi; c’è gente che muore di fame e gente che invece muore di malattie dovute alla ingordigia. Una delle convenzioni più terrificanti resta in ogni modo quella che condiziona l’esistenza umana al potere del dio soldo, cioè all’economia del capitale. A riguardo dell’incapacità della sinistra a sovvertire lo stato di cose, già Adam Smith rilevava come le azioni umane producono non solo esiti intenzionali, ma generano anche esiti inintenzionali che possono essere addirittura opposti a quel che l’uomo si propone. La storia del rapporto sinistracapitalismo è appunto emblematica e se si osserva con spirito critico le vicende della nostra epoca, ci si rende presto conto di quanta ragione, a questo riguardo, avesse il teorico dell’economia politica. Le contraddizioni del sistema capitalistico, quali esiti inintenzionali, s’intensificano con il trascorrere del tempo fino a diventare esplosive. Si è messa in dubbio la validità della famosa teoria marxiana della tendenziale decrescenza del saggio di profitto, tuttavia mai come oggi il capitalismo, appare in difficoltà ad armonizzare lavoro e consumo e si dimostra incapace di controllare e dirigere le forze che mette in atto, di guidare con un progetto razionale il proprio divenire e quello dell’umanità. Il suo modo di socializzare la produzione, che peraltro dà luogo a uno sviluppo straordinario dell’economia e dei bisogni umani, non è affatto razionale e non è gestito secondo un piano cosciente. Al contrario, esso è mosso da forze cieche, dalla “mano invisibile” del mercato appunto, e si sviluppa indipendentemente dai bisogni umani. La produzione si realizza a sbalzi e si rivela carente nei settori dove esistono i bisogni primari più pressanti. La tendenza allo sviluppo illimitato si scontra con gli angusti limiti entro cui resta compreso il consumo. La capacità del capitale di assorbire la sovrappopolazione tende continuamente a essere inferiore alla sua capacità di produrla. Si riscontra la tendenza a realizzare mezzi di produzione in misura superiore alla potenzialità effettiva degli stessi (è il fenomeno della sovrapproduzione) e contemporaneamente la capacità di consumo della società tende ad arrestarsi al di sotto dei livelli della domanda dei beni che vengono immessi sul mercato (è il fenomeno del sottoconsumo). Ci troviamo di fronte al paradosso che il sistema schiaccia l’acceleratore della produzione e tira il freno del consumo. Si tratta di una contraddizione fondamentale che non può essere eliminata se non attraverso un profondo mutamento della dinamica del sistema stesso: diventa necessario eliminare il primato del valore di scambio sul valore d’uso, un processo questo che è destinato a portare alla fine del capitalismo. Ho già accennato alla naturale tendenza del capitale alla concentrazione e alla centralizzazione. La concorrenza economica indotta dal sistema, che risulta essere una creazione artificiale estremamente audace concepita solo nell’epoca moderna, costringe tutti gli individui alla tensione estrema delle loro energie e porta inevitabilmente alla distruzione della proprietà dei più a vantaggio di una minoranza sempre più ristretta. Gli stessi imprenditori che per natura sono liberisti e invocano il mercato quale risolutore di tutti i problemi, quando vengono varate leggi che impongono determinate condizioni alle trattative tra le parti sociali, si ribellano ai loro stessi 476
principi limitando di fatto la libertà d’iniziativa. Con il deperimento della libera concorrenza va automaticamente in rovina la libertà tout court. Per sua essenza la new economy non può adattarsi a quello che gli economisti chiamano un regime di concorrenza perfetta. Difatti, come già aveva osservato Schumpeter, la configurazione più favorevole all’innovazione, è proprio la concorrenza monopolistica. Nel futuro dell’economia ci sarà perciò spazio solo per le grandi imprese globali, quelle piccole avranno un semplice ruolo di nicchia, mentre quelle intermedie subiranno una drastica riduzione. Un’altra delle contraddizioni fondamentali del sistema capitalistico si determina tra la socializzazione effettiva della produzione e la forma privata, capitalistica della proprietà dei mezzi di produzione e anche dell’appropriazione del plusvalore. Questo fa sì che esista una classe sfruttatrice, sempre più ristretta e potente, e una classe sfruttata, variegata nella sua composizione sociale ma sempre più numerosa. E’ la famosa contraddizione tra le forze produttive e i rapporti di produzione la quale, come soleva ricordare l’economista John Eaton, “è alla base del processo di degenerazione e di decadenza del sistema”. Le antilogie del capitale non finiscono però qui. Il sistema genera in continuazione contrasti tra borghesia e proletariato, tra privato e pubblico, tra sfera individuale e sfera collettiva, tra particolare e universale, tra ragione e passione. Esso tende a subordinare a sé ogni aspetto della vita sociale e a ridurre, con il concorso dello Stato, la proprietà, il diritto, la famiglia, la morale, la cultura, l’arte a modi particolari e a funzioni della produzione e dell’accumulazione. Il sistema crea altresì una distanza tra i progressi della scienza e la sfera della politica intesa come governo della società. Nel suo processo di universalizzazione genera, da un lato, un movimento centripeto che omogeneizza e normalizza tutti i comportamenti individuali, sociali e nazionali a un’unica misura (la cosiddetta americanizzazione del mondo), dall’altro, un movimento centrifugo che fa esplodere e frammentare in modo antagonistico i soggetti sulla base di identità di razza, religione, nazione, classe, sesso. Suo tallone d’Achille è la perpetua necessità di espandersi in uno spazio che è finito (almeno per il momento): il pianeta. Un rischio è altresì costituito dal virus prodotto dalla “guerra di velocità” che risulta essere una sua insopprimibile caratteristica e che impone i tempi a qualsiasi attività umana penalizzando chi non li rispetta. C’è chi si chiede se ci sia ancora una relazione tra capitalismo e mercato oppure se il primo non abbia appiattito se non azzerato il secondo. Massimo Salvatori ha sostenuto che “il rapporto tra capitalismo e democrazia continua ad essere complesso e irrisolto, tanto che vi è da domandarsi e da dubitare se sia in effetti risolvibile”. Nel gennaio 2012, il Corriere della sera si è preso la briga di scrivere che il capitalismo “non ha mai avuto una faccia tanto brutta e incattivita come oggi… è così potente da essere insopportabile… (vive) una fase nuova, quella della distruzione, invece che della creazione, della ricchezza”. Anche Carlo Azeglio Ciampi si è sentito in dovere di affermare che “il capitalismo ha assunto un volto disumano…ancora una volta abbiamo assistito alla degenerazione di un pensiero, di una dottrina”. Se così autorevoli e “imparziali” personaggi sono giunti al punto di esprimere giudizi tanto severi, ci sarà ben ragione di essere preoccupati degli effetti perversi che il sistema capitalistico sta producendo sulla società, o no? Quel che appare indiscutibile è che una delle contraddizioni che nei Paesi a sviluppo capitalistico maturo sta ormai esplodendo con effetti devastanti è quella relativa al lavoro e all’occupazione. Nel ’96, la World Bank, ha esaltato lo straordinario aumento delle forze lavoro mondiali che si è verificato a partire dagli anni ’60. Nel ’65, gli occupati erano 1.329 milioni di unità, mentre a metà degli anni ’90 risultavano cresciuti a 2.476 milioni. All’indomani del secondo conflitto mondiale, nei Paesi dell’Occidente capitalistico, ha difatti avuto inizio un incremento dell’occupazione che è durato un quarantennio. Tra il ’70 e la metà degli anni ’90, il numero dei lavoratori universali (chi produce valori di scambio a livello globale) è cresciuto di 50 milioni di unità. Anche nel Sud e
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nell’Est del mondo il numero degli occupati è aumentato gradualmente, malgrado la disoccupazione massiccia di oltre un miliardo di persone. Sulla base di questi risultati storici, la stessa banca ha formulato la previsione di un ulteriore incremento per il 2025. Appare però assai difficile che Un simile pronostico, però, sembra destinato a non trovare conferma nella realtà dei fatti, poiché a partire dalla metà degli anni ’90 il processo d’incremento dei posti di lavoro si è arrestato e, al contrario, è incominciato a ricrescere e a estendersi il fenomeno della disoccupazione di massa. Con la globalizzazione la riduzione dell’occupazione è diventata una tendenza stabile su scala planetaria. Anche laddove la produzione aumenta i posti di lavoro, anziché crescere calano, e la riduzione degli occupati avviene in presenza di un tendenziale abbassamento del costo del lavoro. Nei Paesi dell’Ocse, nel corso degli ultimi cinquant’anni, le forze lavoro hanno subito una riduzione del 20% e le previsioni confermano la prosecuzione di questo trend. Se è vero che con la globalizzazione sul mercato del lavoro mondiale sono spuntati due miliardi e mezzo di nuovi protagonisti, soprattutto asiatici, nei paesi industrializzati il tasso di attività è risultato essere in regresso. Nella stessa Cina, nonostante lo straordinario aumento dei volumi produttivi, dalla fine degli anni ’90 ad oggi, il settore industriale ha perso 20 milioni di posti di lavoro. L’osservatorio dell’Onu sul lavoro ha accertato che nel 2013 la disoccupazione planetaria è tornata a crescere. La vecchia regola secondo la quale nelle economie in cui aumenta la produttività crescono anche i posti di lavoro non vale più. E’ in atto quello che viene definito il “grande sdoppiamento”: il lavoro digitale sostituisce quello umano senza crearne dell’altro. L’impatto delle nuove tecnologie porta alla graduale sostituzione della presenza dell’uomo nei luoghi della produzione e della riproduzione atttraverso l’inserimento delle macchine. L’intelligenza artificiale consente alle aziende di meccanizzare non solo i lavori ripetitivi ma anche molti mestieri complessi. Nelle fabbriche automatiche c’è lavoro solo per la donna delle pulizie. E presto neanche per quella, visto che si stanno diffondendo i robot che puliscono ogni angolo dello stabilimento. E’ stato calcolato che il 70% degli impieghi oggi svolti dall’uomo saranno presto automatizzati nel giro di qualche decennio. L’università di Oxford prevede che il 47% dei lavori saranno presto sostituiti dalle macchine. Il softwere si sta mangiando almeno un pezzo di mondo: centinaia di milioni di posti di lavoro sono a rischio, siamo di fronte a uno tsunami dell’automazione. La dinamica innescata dal postfordismo fa poi sì che in diversi settori l’entità del costo del lavoro vivo rappresenti una frazione insignificante del prezzo di vendita dei prodotti. In quello della produzione dei beni coperti da proprietà intellettuale si registra un vero e proprio primato (basti osservare i bilanci di multinazionali quali la Nike, la Disney o la Microsoft). Se con la globalizzazione non si è verificata l’annunciata fine del lavoro, la massa degli occupati ha subito un dislocamento territoriale che ha comportato la distruzione della compattezza del movimento operaio e il ridimensionato della sua storica capacità contrattuale. Le ragioni dell’inversione di tendenza che si è registrata a partire dagli anni ’90 sono due: anzitutto è aumentata la tentazione nel capitalista di fare denaro senza la mediazione del processo di produzione, poi è successo che l’applicazione della tecnologia alla produzione di beni ha incominciato a emarginare in maniera massiccia il lavoro umano. Mentre lo sviluppo estensivo aveva creato nuovi posti di lavoro, lo sviluppo intensivo li ha distrutti e continua a farlo. Come notava con acutezza Max Horkheimer già decenni fa, le macchine “invece di rendere superfluo il lavoro, hanno reso superfluo i lavoratori”. Attraverso le ristrutturazioni tecnologiche e organizzative la disoccupazione si cristallizza e diventa irreversibile. E va preso atto che a far fronte a questi processi la politica non solo è in gravissimo ritardo, ma si rivela impotente. Sono stati numerosi gli apologeti del sistema che hanno sostenuto che il computer non avrebbe distrutto occupazione, ma ne avrebbe generata di nuova. Si è trattato di una tesi che, almeno in regime capitalistico, non è stata supportata da dati di fatto. Anzi, essa ha incominciato a essere smentita sin dai tempi delle prime introduzioni delle moderne tecnologie sia nei sistemi produttivi che nei servizi. Ricordo che già nel corso del decennio 1970-1980, negli Stati Uniti, mentre le 478
telefonate erano triplicate, il personale addetto aveva subito un calo del 40%, proprio in forza dell’inserimento delle moderne tecnologie. Oggi il capitale crea fabbriche robotizzate che vengono messe in funzione con poco personale specializzato e questa evoluzione tecnologica non crea affatto occupazione. E quando la crea la precarizza. Il “progresso” attuale porta dunque con sé una sovrabbondanza di forza lavoro che è destinata a raggiungere presto livelli insostenibili. Anche a questo riguardo siamo in presenza di una novità epocale. Come ci ricorda Marx nei “Grundrisse”, non si sente “mai parlare di un’eccedenza di schiavi nell’antichità. Il fabbisogno di schiavi era anzi in continuo aumento. C’era invece una popolazione eccedente di non- lavoratori (in senso immediato), che però non erano in soprannumero rispetto ai mezzi di sussistenza esistenti, ma piuttosto avevano perduto le condizioni entro le quali se ne potevano appropriare. L’invenzione di lavoratori eccedenti, ossia di uomini privi di proprietà che lavorano, appartiene all’epoca del capitale”. Il sistema capitalistico crea dunque un’eccedenza di lavoratori salariati, cioè di uomini in carne e ossa che privati dei mezzi di sostentamento subiscono l’emarginazione e l’esclusione sociale. Se si scorrono le cronache giornalistiche ci si accorge che ormai da più di un decennio a questa parte le grandi industrie di tutto il mondo denunciano esuberi di manodopera dell’entità di migliaia quando non di decine di migliaia di unità. E ovunque viene invocata la flessibilità del lavoro che altro non significa che libertà di licenziamento, fine del posto fisso, precarietà, riduzione salariale, intensificazione della produttività, emarginazione sociale. Nel periodo 1995-2002, le industrie dei 20 Paesi più sviluppati economicamente del mondo hanno eliminato oltre 22 milioni di posti di lavoro: si è trattato di un calo pari all’11% del totale degli occupati. Nel corso del 2008 negli Usa oltre 2,5 milioni di lavoratori hanno perso il posto, mentre il Pil ha registrato un incremento. Nei primi tre mesi del 2009, nei 27 Stati dell’Unione Europea sono andati perduti 1.916.000 posti di lavoro, di cui 1.220.000 nei soli Paesi della zona euro. Un rapporto dell’Istituto Internazionale del Lavoro ha denunciato che con l’inizio della crisi finanziaria, dal 2007 al 2012 nel mondo sono stati bruciati 50 milioni di posti di lavoro. E secondo l’Associazione internazionale dei sindacati, i lavoratori in attività che alla fine del primo decennio del nuovo secolo rischiavano di restare senza occupazione ammontavano, nel mondo, ad altri 50 milioni. Alla fine degli anni ’90 nei Paesi sviluppati si contavano 35 milioni di disoccupati, di cui 20 milioni nel continente europeo. Nel 2011 in Europa ne venivano censiti oltre 23 milioni ai quali dovevano essere aggiunti 8 milioni e mezzo di persone disposte a lavorare, ma non iscritte alle liste di collocamento. In questi anni, nelle aree a maggior concentrazione di capitale, il tasso di disoccupazione è continuato ad aumentare raggiungendo livelli allarmanti. Un dato inedito è che la stragrande maggioranza dei disoccupati vantano il possesso di un diploma o di una laurea. E pensare che in base alle previsioni di crescita demografica gli esperti hanno calcolato un fabbisogno mondiale di nuovi posti di lavoro di circa 40-45 milioni ogni anno. Si è gridato alla fine del lavoro come attività coattiva, in effetti, si assiste alla fine del diritto al lavoro e alla diffusione di forme di attività decontrattualizzate e sommerse, persino al ritorno di forme di lavoro schiavile. Il nesso tra capitale e schiavitù difatti non si è mai spezzato e con la globalizzazione è diventato ancor più stretto. Il numero dei minorenni che nel mondo svolgono lavori al di sotto dell’età minima ammessa, secondo statistiche recenti, sono 168 milioni. Metà di loro sono impegnati in lavori pericolosi o rischiosi. Il fenomeno è diffuso nei Paesi poveri, ma anche in Cina, Russia, India e Brasile. La stessa Ocse nel rapporto del 2013 ha sostenuto che “dal 2003 il traffico di esseri umani ha continuato a evolversi fino a diventare una seria minaccia trasnazionale, che implica gravi violazioni dei diritti umani”. Una tendenza questa, che è stata confermata anche dal rapporto Eurostat. Si potrebbero collocare i disoccupati e ricollocare gli “esuberi” riducendo l’orario e ridistribuendo il lavoro. Keynes era convinto che nel mondo automatizzato la settimana lavorativa sarebbe stata ridotta a 15 ore. 479
Questa possibilità, invece, non viene presa nemmeno in considerazione dai poteri costituiti e la stessa sinistra ha ormai da tempo abbandonato la battaglia per la riduzione della giornata lavorativa. Lo stesso passaggio da un’economia industriale a un sistema economico fondato sui servizi o sulle competenze potrebbe generare un numero enorme di occupazioni con precise funzioni, e creare quindi nuovi posti di lavoro, ma anche questa occasione non viene sfruttata. Il capitale non può assolutamente utilizzare tutta la forza lavoro disponibile, ma deve necessariamente mantenere in essere un esercito di manodopera di riserva in modo di ricattare il mondo del lavoro e assicurarsi l’egemonia sulla società. La piena occupazione rappresenta difatti per il capitalismo un pericolo. L’economia di mercato non distrugge, dunque, solamente la natura, ma sopprime anche il lavoro. E questo dimostra che profitto e piena occupazione non possono coesistere e che alle tante contraddizioni del sistema che ho già ricordato ne va aggiunta un’altra: quella tra l’offerta e la domanda dei beni prodotti, cioè tra la potenzialità dei mezzi di produzione e la capacità di consumo. Se diminuisce il monte salari diventa impossibile pretendere una crescita dei consumi e la crisi odierna è lì a testimoniarlo. Di fronte a un tale scenario Hobsbawm ha più volte ammonito: “Il mondo rischia sia l’esplosione che l’implosione. Il mondo deve cambiare”, ma anche lui non è stato ascoltato. La sinistra, anziché riflettere sui rischi di un futuro di conflittualità sociale e mettere in campo strategie nuove, ha fatto sua l’idea che l’impresa capitalistica sia la vera fonte di sviluppo e di progresso sociale. Ha continuato a riproporre stancamente nei suoi programmi l’obiettivo della piena occupazione senza dare segno di rendersi conto che, stante il modo di produzione capitalistico, esso non può assolutamente essere realizzato. E di fronte all’esigenza e all’urgenza di creare nuovi posti di lavoro si dimostra incapace di indicare nuovi percorsi e nuove soluzioni. Mancando di una sua weltanschauung non sa fare altro che rimproverare il capitale di non saper fare il suo mestiere e perciò garantire i livelli di occupazione raggiunti. Per costruire un’alternativa al capitalismo, ripeto, occorre far leva sulle sue contraddizioni. Nei “Grundrisse” Marx sostiene che “l’universalità alla quale (il capitale) tende irresistibilmente trova nella sua stessa natura ostacoli che a un certo livello del suo sviluppo metteranno in luce che esso stesso è l’ostacolo massimo che si oppone a questa tendenza e perciò spingono al suo superamento attraverso esso stesso”. Ne “Il capitale” sostiene poi che un’automazione completa del lavoro socialmente necessario è inconciliabile con la stessa conservazione del capitalismo. Lo stesso Keynes, nel ‘36, ebbe a considerare un’eresia la tesi secondo cui se si lasciava operare il mercato, cioè il gioco delle contrattazioni per far incontrare domanda e offerta, tutto sarebbe funzionato perfettamente. Egli considerava il sistema capitalistico instabile e incapace di garantire sviluppo e progresso, perciò ha sostenuto la necessità dell’intervento pubblico da parte dello Stato. Se non si ritiene che il processo di transizione sia da abbandonare alla spontaneità della storia, così come hanno creduto i teorici della 2a Internazionale, occorre far leva sulle contraddizioni del sistema e assumere quel ruolo di “levatrice” del cambiamento che i padri del socialismo scientifico hanno assegnato alla sinistra. Purtroppo, finora questo ruolo non è stato assolto, anzi, la sinistra invece di far esplodere le contraddizioni del capitale si è dimostrata incapace d’impedire che ne insorgessero in abbondanza in se stessa, compromettendo così la sua azione e la sua credibilità. 15.2 – Le disuguaglianze come condizione del dominio Nella sua corsa alla sottomissione di ogni angolo della Terra alla legge del mercato, il capitale crea enormi squilibri e disuguaglianze sociali. L’apertura di nuovi mercati, se da un lato incrementa la produzione, crea in loco occupazione e riduce gli effetti delle crisi ponendo fine transitoriamente alle depressioni industriali e prolungando la durata dei periodi di prosperità, dall’altro acuisce i rapporti tra i popoli e accentua le contraddizioni sociali. I tempi in cui l’azione colonizzatrice del capitalismo, finalizzata allo sfruttamento e alla rapina, comportava come effetto collaterale l’eliminazione della schiavitù, delle guerre tribali, delle malattie, dell’analfabetismo e della superstizione, sembrano lontani. 480
La globalizzazione cambia radicalmente la vita economica, politica e sociale dei popoli e degli individui senza, però, che i diritti umani abbiano una conseguente evoluzione. Laddove essa porta ricchezza, questa va tendenzialmente a una ristretta élite. C’è chi ha sostenuto che saremmo entrati nell’epoca del capitalismo dal volto umano, che saremmo agli albori di una società senza più conflitti di classe, armonica e solidale. Si è cianciato di “coop capitalism”, cioè di una società fondata sui valori della cooperazione, della collaborazione e del coordinamento, eppure, mai come oggi è stata così grande la massa di popolazione sottomessa alla miseria materiale, morale e intellettuale. Più avanza il “progresso”e più si accentuano le disuguaglianze. La gran massa di dati forniti dalle ricerche mostra che non solo le vecchie disparità sociali si sono aggravate, ma ad esse se ne sono aggiunte e intrecciate di nuove. E mentre le differenze aumentano, peggiora drammaticamente la condizione di chi è situato nella parte bassa della scala sociale. Se le nuove tecnologie portano con sé la promessa di una nuova democrazia e di una nuova uguaglianza sociale, con l’uso che ne fa il capitale, creano nuove esclusioni e nuova miseria. Dalla fine degli anni ’80, con la sparizione dello spauracchio comunista, dopo aver allentato le sue difese, il capitalismo è venuto mostrando il suo volto peggiore. Le conquiste sociali sono state annichilite, i paesi poveri sono diventati più poveri, le culture nazionali sono state mortificate e sulla democrazia hanno avuto ragione le spinte autoritarie. La ricchezza si è venuta concentrando sempre più in poche mani. Il francese Thomas Piketty, con l’aiuto di oltre 30 economisti di tutto il mondo ha ricostruito l’andamento secolare delle disuguaglianze, sia nei redditi che nei patrimoni. Il risultato cui è approdato è che le disuguaglianze continuano a crescere. Egli paragona il mondo odierno alla Francia pre-rivoluzionaria, dove i nobili rappresentavano l’1% della popolazione. Le teorie di Piketty sono state contestate e smentite per errori statistici, però nessuno è ancora riuscito a documentare il contrario. La Banca mondiale ha calcolato che, tra il 1870 e il 2000, la disuguaglianza globale è passata da un indice pari a 65 a un indice pari a 80. Il Credit Suisse Global Wealth Databook, Shorrocks/Davis/Lluberas, agli inizi del 2012 ha così descritto la piramide della ricchezza globale: lo 0,5% delle persone dispone pro-capite di oltre 1 milione di dollari e detiene il 35,6% della ricchezza totale; il 7,5% delle persone che dispone procapite da 100mila a 1 milione di dollari detiene il 43,5% della ricchezza totale; il 23,5% delle persone che dispone pro-capite da 10mila a 100mila dollari detiene il 16,5% della ricchezza totale; il 68,5% delle persone che dispongono pro-capite di meno di 10mila dollari detiene il 4,2% della ricchezza totale. Come documentano altre fonti, il 20% della popolazione mondiale detiene l’83% delle risorse, mentre al restante 80% restano le briciole. Il 73% del Pil mondiale, qualche anno fa, risultava essere in mano a 11 milioni di persone su una popolazione di oltre 6 miliardi, mentre il 16% dei proprietari agricoli controllavano l’88% delle terre coltivate. A metà degli anni ’80, 358 miliardari (in dollari) possedevano più di quanto guadagnava metà dell’umanità, mentre ai primi del secolo i tre uomini più ricchi del mondo detenevano un reddito pari al prodotto interno lordo di tutti i Paesi più poveri nei quali vivono 600 milioni di persone. Lo studio della Banca mondiale ha stabilito che “tra il 1988 e il 2008 è probabilmente avvenuto il più profondo sconvolgimento nelle posizioni economiche delle genti dai tempi della rivoluzione industriale: l’1% più ricco della popolazione mondiale ha accresciuto il reddito del 60%, mentre le classi medie occidentali e il 5% più misero del mondo non hanno affatto migliorato”. La ricchezza finanziaria privata mondiale, nel 2013 è aumentata del 14,6% rispetto al 2012, l’anno precedente era salita dell’8,7%. Secondo le stime della società di consulenza Boston Consulting Group, tra il 2014 e il 2018, dovrebbe registrare un incremento del 5,4% annuo. In conseguenza di questa crescita, le famiglie ricche dovrebbero aumentare i loro patrimoni del 9,1% l’anno. La quota di ricchezza in mano all’1% degli americani ricchi è salita dal 9% degli anni ’70 al 22% del primi del ’14. Tra il 2009 e il 2012, l’1% più ricco della popolazione statunitense ha catturato il 481
90% dell’aumento del reddito e si è diviso una fetta del reddito nazionale doppia rispetto al 1980: dal 10 al 20%; lo 0,01 % più ricco (16.000 famiglie) l’ha addirittura quadruplicata, da poco più dell’1% a quasi il 5%. Nei Paesi anglosassoni l’alterazione nella distribuzione del reddito negli ultimi trent’anni è stata caratterizzata dal contrasto tra le condizioni di vita stazionarie del ceto medio e lo stratosferico incremento nei redditi dell’1% più ricco della popolazione. Mentre il reddito medio è diminuito, le disuguaglianze si sono ampliate anche in Gran Bretagna. Agli inizi del 2014, i redditi, le rendite e i tesori che erano concentrati nel portafoglio di 5 famiglie inglesi, erano pari agli averi di 12,6 milioni di britannici, il 20% più povero dell’intera popolazione. In Italia, le disuguaglianze sono superiori alla media europea, mentre nella graduatoria delle potenze continentali, il nostro Paese è il fanalino di coda. Nei primi anni ’80, i 4 milioni di italiani con reddito al di sopra dei 35 mila euro intascava il 26,7% del reddito nazionale dichiarato, nel ’93 ne intascava il 30%; nel 2003 il 33%, nel 2007 il 34% (più di quasi un terzo rispetto a 25 anni prima). Nel 2012, il 10% delle famiglie più ricche, deteneva il 46,7% della ricchezza totale, mentre nel 2008 disponeva del 44,3%. Il rapporto Censis 2014 ha certificato che le disuguaglianze sociali in questi anni sono aumentate in modo vertiginoso. Rispetto a 12 anni fa, i redditi familiari annui degli operai sono diminuiti in termini reali del 17,9%, quelli degli impiegati del 12%, quelli degli imprenditori del 3,7%, mentre gli averi dei possidenti sono cresciuti. I dieci italiani più ricchi si spartiscono 75 miliardi di euro, immobili esclusi, somma che corrisponde a ciò su cui può contare mezzo milione di famiglie di operai. Secondo stime della Banca d’Italia e del Cnel, il 7% degli italiani possiede il 44% della ricchezza nazionale, immobili esclusi. Mentre il 20% degli italiani possiede il 61,8% della ricchezza totale, al rimanente 80% resta il 38,2%. Il 32% di essa appartiene al 5% della popolazione. Lo 0,003% degli italiani possiede una ricchezza pari al 4,5% del totale. Prendendo in considerazione questi dati è da mettere in conto che da noi il fenomeno evasioneelusione del fisco è tipico dei contribuenti ricchi, e che nelle denunce dei redditi non sono conteggiati gli interessi sui depositi, le cedole dei titoli, i dividendi azionari e le rendite finanziarie in genere, di cui notoriamente non gode la maggioranza dei lavoratrici e dei ceti popolari. Le riforme del fisco che sono state attuate dai governi repubblicani, si sono di fatto rivelate una finta lotta all’evasione. Considerato che il lavoratore italiano denuncia in media al fisco un reddito superiore a quello che, sempre in media, viene denunciato da un imprenditore, non resta che concludere che, in Italia, le disuguaglianze sono incarnate nello stesso sistema istituzionale. E’ da notare che siamo in presenza di un’assurdità che però non fa scandalo. Nell’argomentare di filosofi, storici, economisti, giornalisti è raro rintracciare una riflessione critica sulle ineguaglianze e sull’ingiusta distribuzione della ricchezza. E l’aspirazione a un mondo in cui tutti gli uomini siano per davvero uguali, nei diritti e nelle opportunità, è quasi del tutto assente. Quali uomini d’esperienza e di sapienza, questi signori sono dimentichi che nella Grecia del V secolo a.c., ai tempi di Pericle, vigeva un meccanismo della democrazia che faceva gravare il peso di tante spese per la città (feste, teatro, arsenali, navi) sui ricchi. A quel tempo, non era in uso l’espropriazione, ma la ricchezza veniva piegata ai bisogni sociali. Ai tempi della gens, ogni suo membro aveva l’obbligo di aiutare i più bisognosi. Un tale obbligo vigeva anche tra i Germani e tra i Ditmarsi. Se si pensa che – come ci spiegano gli etologi – persino certi animali come le api, i cervi, i babbuini, di fronte a taluni problemi e attraverso l’elaborazione di un consenso collettivo, prendono decisioni convenienti per l’intera collettività, sacrificando gli interessi di una sua parte o di un singolo membro, c’è di che discutere sul grado di civiltà raggiunto dalla specie umana. In materia di giustizia sociale, i progressi fatti dall’uomo non sono affatto grandiosi come spesso ci vengono descritti. Con la globalizzazione le povertà e il disagio sociale non arretrano, ma avanzano. Se è pur vero che le persone che soffrono la fame sono diminuite rispetto agli anni ’90, quando rappresentavano il 23% della popolazione mondiale, non va dimenticato che gli uomini, le donne, i 482
bambini denutriti rappresentano ancora il 14% dell’umanità, ammontano cioè a 842 milioni: una cifra spaventosa per una civiltà che si considera evoluta. Circa un bambino su quattro sotto i cinque anni, esattamente 165 milioni, soffre di malnutrizione cronica. E questo avviene, mentre ogni anno nel mondo, circa 1,3 miliardi di tonnellate di alimenti ancora commestibili vengono buttate nella spazzatura e mentre 1,5 miliardi di persone residenti nei paesi ricchi sono obese o soprappeso, proprio a causa di cattiva o abbondante alimentazione, e molte di loro muoiono per patologie cardiovascolari. Alcuni ritengono che la perversa dinamica delle ineguaglianze sociali sia da imputare al diritto all’eredità. I premi Nobel dell’economia Paul Krugman e Joseph Stglitz hanno sostenuto che fino a quando il capitalismo sarà patrimoniale e le imprese avranno gli stessi diritti delle persone, l’aumento delle disuguaglianze sarà inevitabile. Evidentemente questi signori non hanno letto Marx il quale ha documentato come non possa esistere rapporto di produzione capitalistico senza diritto ineguale. Il problema è la natura stessa del sistema. In “Se questo è un uomo” Primo Levi scriveva: “Nella storia e nella vita pare talvolta di discernere una legge feroce, che suona ‘a chi ha sarà dato; a chi non ha, a quello sarà tolto’”. Questa è la legge del capitale; più si estende il suo potere, più ogni ganglio della società è sottoposto ad essa. Persino internet, considerato da molti strumento di democrazia e di uguaglianza per eccellenza, non si sottrae alla sua influenza. Le differenze di ceto incominciano a insorgere anche nella navigazione virtuale e nell’uso della banda larga. Negli Stati Uniti il capitale sta tentando di dare l’assalto persino alle esperienze di sharing economy. Purtroppo, nel senso comune della maggioranza delle persone le disuguaglianze vecchie e nuove non suscitano grande interesse, non sollecitano una riflessione approfondita, tanto meno la ribellione; vengono vissute come un “castigo di dio” contro il quale è impossibile opporvisi. Il fatto che continuino a esistere i “signorotti” che spendono e spandono, quando il numero dei nuclei familiari che non riescono a far quadrare i conti fino alla fine del mese è in preoccupante crescita, non fa arrabbiare nemmeno più i rivoluzionari. La sinistra paga lo scotto di aver cessato di educare il proletariato alla non tolleranza degli abusi e alla ribellione. Negli ultimi due decenni del secolo scorso, la produzione mondiale è sestuplicata mentre il numero dei poveri è aumentato del 20%; ebbene, questo è un dato che interessa solo chi ama le statistiche. La partecipazione delle classi povere al guadagno mondiale si è ridotta dal 4 all’1%, eppure la notizia non fa scalpore. Si tratta di contraddizioni sociali destinate a destabilizzare la convivenza umana, ma sia chi governa in nome della democrazia e della giustizia sia chi è governato sembra non rendersene conto. La situazione odierna del mondo è caratterizzata da una compresenza di invenzioni le più portentose e di casi di sofferenza e di miseria i più intollerabili. L’Occidente crea il 60% del valore mondiale e ne gode per il 76%, il Sud e l’Est creano il 40% del valore mondiale, ma dispongono solo del 24%. Secondo l’Undp (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo), la disuguaglianza tra ricchi e poveri nel mondo si aggrava di anno in anno. Se nel 1960 la quinta parte più povera dell’umanità disponeva del 3% della ricchezza mondiale, nel ‘94 godeva appena dell’1,1% e nel 2001 meno dell’1%. Nell’ultimo quarto del secolo scorso la porzione di ricchezza a disposizione dei Paesi evoluti economicamente è passata dal 69 all’86%. Nel cosiddetto “terzo mondo” esistono vastissime aree dove a dominare sono l’emarginazione, la mortalità infantile e la miseria. Ogni giorno muoiono 35.000 bambini a causa di malattie che potrebbero essere tranquillamente curate. 900 milioni di persone soffrono la fame per mancanza di cibo, più di 2 miliardi soffrono la “fame qualitativa”. Mentre 3 miliardi di persone, cioè quasi la metà degli abitanti del mondo, vivono con meno di 2 dollari al giorno, ogni mucca dell’Unione europea beneficia quotidianamente di una quota di finanziamenti pubblici superiore ai 5 dollari. In Africa, a fine secolo, risultava concentrato un nono dei poveri dell’intera popolazione mondiale. Gli africani che disponevano di meno di un dollaro al giorno, rappresentavano addirittura un terzo dei poveri di tutto il mondo. Questo continente è flagellato dall’aids e c’è chi considera questa epidemia un mezzo naturale, un’opportunità per contrastare l’incremento demografico. 483
I Paesi in via di sviluppo rimborsano ogni anno alle istituzioni finanziarie più di quanto viene loro concesso sotto forma di nuovi prestiti. Tra il 1970 e il 2008 l’evoluzione dello stock totale del loro debito pubblico estero è notevolmente aumentato. I 41 Paesi poveri più in difficoltà finanziarie, tra il 1999 e il 2001, hanno visto lo stock del debito passare da 158 a 215 miliardi di dollari (da 183 a 250 miliardi di euro circa). Negli ultimi decenni a causa del ribasso dei prezzi delle materie prime e per gli interessi pagati sul debito estero, la maggioranza della popolazione mondiale ha visto ridotto del 10% il reddito pro capite e ciò ha significato un aggravamento delle condizioni di inedia e un accrescimento delle morti per fame. A dire dell’Onu “la disuguaglianza è il più importante problema ‘ecologico’ del pianeta; al tempo stesso, essa è il più importante problema di sviluppo”. Di fatto la distruzione dell’ambiente è in connessione anche alla povertà oltre che alla modernità, cioè alla ricchezza e allo spreco. Un Paese che vive in uno stato di miseria crescente è portato a sfruttare l’ambiente fino all’ultimo. Le stesse migrazioni da Sud-Est a Nord-Ovest del mondo sono una conseguenza della povertà e portano al formarsi di società essenzialmente non egualitarie nelle quali gli immigrati non hanno pari diritti degli autoctoni e in genere sono mal tollerati. Sia le disuguaglianze di sviluppo che lo stato di semi affamamento di intere popolazioni sono la condizione stessa del modo di produzione capitalistico. Il capitale non è in grado e soprattutto non intende garantire il superamento del divario tra il Nord e il Sud del mondo perché diversamente sarebbe a rischio il suo primato. Nei documenti ufficiali si dichiara guerra alla povertà e si propone solennemente la sua eliminazione, mentre il divario tra Paesi ricchi e Paesi poveri si allarga di giorno in giorno. Un esempio eloquente di questa non volontà di risoluzione del divario è costituito dalle reazioni che, già nei primi anni ’70, ebbe il ricco Nord allorquando alcuni Paesi del “terzo mondo” tentarono di far remunerare i loro prodotti, tra cui il petrolio, a un prezzo necessario al loro sviluppo. Poiché ciò avrebbe messo in discussione il funzionamento economico e sociale del meccanismo di accumulazione capitalistico, quel tentativo venne drasticamente stroncato, anche a costo di conflitti armati e invasioni militari che si sono protratti nel tempo. Altro esempio è rappresentato dagli accordi Gatt i quali, mentre hanno garantito il libero scambio, di fatto hanno tagliato fuori tutto il “terzo mondo” dallo sviluppo tecnologico riservando ai Paesi ricchi il monopolio della ricerca biologica e genetica. Nell’opulento Occidente ci sono animali (che pure devono essere tutelati) i quali vivono come bambini, mentre i bambini dei Paesi arretrati vengono trattati peggio degli animali. Il Nord non rinuncia di certo volontariamente ai suoi privilegi. Si consideri che persino proposte ragionevoli come l’assegnazione dell’1% del suo reddito al disinquinamento e alla difesa delle acque su scala mondiale sono state respinte con toni sprezzanti. Per tenere alti i prezzi dei suoi prodotti, il capitale distrugge beni materiali essenziali sottraendoli alle popolazioni che hanno fame. In nome della stabilità dei mercati l’Unione europea premia addirittura quei produttori che destinano merci alla distruzione. Gli agricoltori europei e americani godono complessivamente di un miliardo di dollari di sussidi quotidiani in nome della concorrenza, mentre in Tanzania, per citare un caso, nel 2001 sono stati buttati via 40 milioni di galloni di latte locale perché nei supermercati era stato imposto a prezzo più conveniente il latte olandese. Gli Usa hanno bocciato il rinnovo di un importante accordo sulla vendita dei farmaci a modico prezzo ai Paesi poveri che era stato sottoscritto nel 2001. Si trattava di farmaci contro le malattie infettive quali l’aids, la malaria, la tubercolosi che uccidono milioni di persone all’anno e di cui le multinazionali, soprattutto americane, possiedono brevetti ventennali. Il rappresentante americano ha giustificato la revoca di quell’accordo con il fatto che avrebbe consentito la vendita a basso prezzo di farmaci contro malattie non infettive quali il cancro, il diabete e l’asma e ciò avrebbe causato danni ai produttori. Le compagnie farmaceutiche del Nord del mondo, per dar vita a prodotti che permettono loro di guadagnare centinaia di miliardi di dollari di profitti all’anno, sfruttano conoscenze che sono state 484
accumulate dalle culture indigene senza che a queste popolazioni venga dato praticamente nulla in cambio. Il governo statunitense ha finanziato il progetto di ricerca sul genoma umano in misura tre volte superiore a quello sull’aids, nonostante che negli stessi Usa e nel mondo la sindrome di immunodeficienza continui a rappresentare un flagello. Anche in questo caso la discriminante è il profitto. Lungi dall’essere un problema di ritardi, le disuguaglianze di sviluppo e lo stato di povertà di molte aree del Sud del mondo costituiscono nei fatti una garanzia per lo stesso livello di vita dei Paesi ricchi. Il capitalismo è modulato sul principio secondo cui non è augurabile che tutti gli uomini abbiano uguali diritti, perché se così fosse non esisterebbe l’incentivo individuale per far marciare la macchina economica fondata sul profitto. Anzi, la rivendicazione di parità nelle condizioni di vita è considerata una minaccia all’equilibrio planetario e pertanto viene decisamente contrastata. La disuguaglianza viene addirittura fatta apparire come garanzia di conservazione dell’ecosistema, cioè come una necessitata condizione per impedirne la distruzione. L’ipocrisia del senso comune diffuso dai chierici del sistema non ha limite. Da questi, la società civile viene dipinta come un insieme di cittadini operosi impegnati nel conseguimento di un’armonica convivenza e di politiche limpide e solidali, quando in realtà essa è una congerie di interessi l’uno contro l’altro armati suscitata proprio dal sistema. Con l’avvento della globalizzazione, non solo si fanno critiche le disparità tra il Nord ricco e il Sud povero, ma nelle stesse cittadelle del capitalismo si accentuano le disuguaglianze sociali. Mentre nel corso degli anni ’60 e ’70 negli Stati Uniti e nell’Unione europea (dei 15) il tasso di profitto aveva fatto registrare una tendenza al ribasso, a partire dall’inizio degli anni ’80 ha ricominciato a crescere in maniera continuativa fino alla fine del primo decennio del nuovo secolo. Di riscontro, la massa dei salari in rapporto al Pil ha subito una brusca caduta. Tra il 1980 e il 2004 l’1% più ricco dei cittadini statunitensi ha raddoppiato la propria quota dei guadagni (dall’8 al 16%). Nell’80 il compenso medio degli amministratori delegati delle maggiori imprese americane era superiore di 42 volte alla paga dei lavoratori dipendenti, nel ’90 lo era di 107 volte, nel 2000 di 525 volte e nel 2006 di 364 volte. Sotto il profilo della distribuzione del reddito e della ricchezza gli Usa detengono il record dell’iniquità. Nel ’92 lo studioso di scienze politiche Adam Przeworski così ebbe a scrivere sullo stato della nazione: “Gli Usa sono un’economia stagnante in cui i salari reali sono fermi da più di un decennio e il reddito reale del 40% della popolazione più sfavorita è diminuito. E’ una società inumana in cui l’11,5% della popolazione (qualcosa come 32 milioni di persone) compreso il 20% di tutti i bambini, vive in assoluta povertà”. Tra l’88 e il ‘93, a New York, il 3% della popolazione si è ritrovato senza casa per un periodo più o meno lungo e 23 mila persone ogni notte hanno dormito per la strada o nei dormitori pubblici. Attualmente, mentre il 20% della popolazione vive una condizione di grande benessere, un 30% ha subito il processo di proletarizzazione e vive in condizioni assai modeste, anche a causa dell’accrescimento della disoccupazione. I poveri rappresentano il 17% circa della popolazione americana e le stime parlano di 20 milioni di bambini malnutriti. Appena si presenta un evento traumatico (perdita del posto di lavoro o contrazione di una malattia), una parte consistente della classe lavoratrice sprofonda in una condizione di vita che viene considerata alle soglie della povertà. Anche in Europa la struttura sociale è minacciata oltre che dalla disoccupazione anche dalla povertà. Nel corso dell’ultimo ventennio del ‘900 i Paesi dell’Unione sono divenuti più ricchi del 50-60% e nonostante ciò nel 2000 si contavano 20 milioni di disoccupati, 5 milioni di poveri, altri 5 milioni di senzatetto. Nel vecchio continente le persone che vivono al di sotto della soglia di povertà ammontano a 80-100 milioni. Dal 2010 al 2013, l’area del disagio è salita da 114 a 123 milioni di cittadini.
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Nella ricca Germania la povertà investe il 5% della popolazione, le persone che attualmente vivono all’ombra del benessere, nella patria della Bundesbank, sono più di 7 milioni. Dal ’79 all’inizio del nuovo secolo i profitti delle imprese tedesche sono cresciuti del 90% mentre i salari solamente del 6%. Mentre le imposte sul reddito sono state dimezzate, quelle sui salari sono raddoppiate. In Svizzera la povertà riguarda l’8% della popolazione, in Gran Bretagna il 12%. In Italia, tra la metà degli anni ’90 e la fine del primo decennio del nuovo secolo, la distribuzione di reddito ha premiato i lavoratori autonomi, mentre ha penalizzato gli operai e gli impiegati. La quota di famiglie operaie con reddito disponibile al di sotto della soglia di povertà è salita dal 27 al 31%; quella degli impiegati dal 7 all’8%; quella degli autonomi è invece diminuita dal 24 al 14%. Secondo dati pubblicati dalla Caritas, nel 2008, l’emergenza sociale avrebbe riguardato 15 milioni di italiani, meta dei quali avevano un reddito inferiore alla soglia di povertà. Nel 2011 un milione di anziani italiani sono risultati ammalati a causa della malnutrizione. Dal 2008 al 2012 le famiglie italiane con ricchezza definita dalla Banca d’Italia “negativa”, sono passate dal 2,8% al 4,1% del totale; le persone disagiate dal 14,1 al 16,1%. Per l’Istat il numero dei cittadini in condizioni di povertà assoluta è raddoppiato nel giro di 5 anni: nel 2007 erano 2,4 milioni, nel 2012 4,8 milioni. A metà del 2014, i poveri assoluti in Italia sono stati stimati in circa 5 milioni. Si tratta di persone che non riescono ad acquistare un paniere minimo di beni e servizi. E anche da noi, le differenza di reddito tra i lavoratori dipendenti e le classi dirigenti assumono proporzioni abissali. Una recente indagine di Mediobanca ha accertato che nei primi cinquanta gruppi quotati in Borsa, il divario tra i compensi cash alle figure apicali e il costo medio per dipendente raggiunge quota 278. E’ uno scandalo, ma nessuno pare avvertirlo. Un aspetto inquietante che riguarda non solo l’Italia, ma che da noi assume ampie dimensioni, è il disagio delle nuove generazioni. Assieme al venire meno delle prospettive occupazionali, i nostri giovani pagano anche lo scotto di una condizione sociale peggiore di quella dei loro padri. Secondo i dati della Banca d’Italia, nel 2010, il reddito medio delle persone tra i 55 e i 64 anni è cresciuto sensibilmente di più rispetto a quello delle altre generazioni, in particolare rispetto a quella dei loro figli. Nel corso di un lustro gli under 35 hanno subito una riduzione della ricchezza di 15 punti percentuali, mentre quella degli individui tra 55 e 64 anni è aumentata del 10%. Più di un terzo della ricchezza italiana è in mano a individui in età avanzata: la classe tra i 55 e i 64 anni ne possiede il 65%. In assenza di una crescita sostenuta del reddito, la distribuzione delle risorse è destinata a essere sempre più squilibrata a svantaggio dei giovani e questo rende più difficoltosa la mobilità sociale verso l’alto mortificando la speranza di migliorare. Quelli che, seppur in modo disordinato, ho qui esposto sono dati che smentiscono la tesi dei guru secondo cui le disuguaglianze, più o meno profonde che siano, oltre che essere legittime, perché esistono da sempre, entro certi limiti produrrebbero stimoli sani all’economia. E pure, sbugiardano chi sostiene che la differenza di stato tra ricchi e poveri, non andrebbe interpretata come una questione di classe sociale. Il peggioramento della condizione di vita dei ceti lavoratori e popolari dello stesso Nord ricco non è il prodotto di una cattiveria ideologica, ma è un dato di fatto. A differenza delle classi oppresse del passato, alle quali venivano assicurate le condizioni entro cui potevano almeno avere sicura la loro esistenza servile, quelle odierne, anziché elevarsi con il progresso economico, precipitano in una condizione che non garantisce loro nemmeno la sopravvivenza. Chi non riconosce questo dimentica che la vita sociale dell’uomo (la sua alimentazione, le sue abitudini e convenzioni sociali, i suoi pregiudizi, il suo senso dei valori, le sue possibilità e le sue vocazioni culturali, le sue relazioni con gli altri membri della società), in regime capitalistico, dipende dalla fonte e dalla natura del suo reddito. Chi si è prodigato a prendere la distanza dalla tesi del graduale immiserimento delle classi subalterne, trascura che prima ancora di Marx è stato lo stesso Adam Smith a pronosticare la tendenza all’impoverimento umano come conseguenza del processo di razionalizzazione capitalistica. Che la cieca concorrenza provochi una disumanizzazione sociale è un altro dato inconfutabile, e i risultati a cui è giunto il processo di globalizzazione sono lì a dimostrarlo. 486
E’ imperdonabile che molti degli stessi uomini di sinistra abbiano preso le distanze dalla tesi marxiana dell’immiserimento crescente (che peraltro era riferita non solo alla sfera socioeconomica, ma anche a quella culturale), sostenendo che le lotte operaie hanno portato al tendenziale aumento del salario reale. La pauperizzazione, che certamente non è assoluta ma relativa, come abbiamo visto, investe oltre che un gruppo di Paesi “non sviluppati”, le stesse classi sociali subalterne del ricco Occidente. Forse che all’origine di tutte queste disuguaglianze e del moltiplicarsi delle sacche di povertà sul pianeta non ci sono le leggi della proprietà privata e della libera concorrenza? Forse che esse non costituiscono il nucleo del liberismo economico attorno al quale ruota l’intero sistema capitalistico? Eric Hobsbawm, nel ’99, ci ha ricordato che “il problema della divisione delle classi continua ad esistere. E’ il problema della disuguaglianza all’interno degli Stati, e tra i Paesi ricchi e i Paesi poveri… La disuguaglianza continua a crescere in misura straordinaria”. Si vuol far credere che viviamo in un regime in cui vige la comunanza di beni, in realtà ad essere in atto in termini inesorabili sono la comunanza di debiti e l’ipoteca continua delle risorse destinate alle future generazioni. E’ questo uno dei drammi di cui la sinistra non sembra rendersi conto appieno e questa amnesia ha fatto sì che nelle sue stesse file venisse smarrito il senso della giustizia sociale che fu tanto caro ai suoi padri fondatori. Come ha sottolineato Habermas, la miscela di darwinismo sociale e liberismo economico ha un solo denominatore comune: la rinuncia alla giustizia sociale. Deporre le armi di fronte allo scempio materiale e culturale che il capitalismo sta provocando è un imperdonabile errore. Il fatto che oggi lo stesso “rivoluzionario” non si indigni e non si ribelli di fronte al calciatore o al divo smargiasso e superpagato, all’evasore incallito del fisco, al politico corrotto, all’intrallazzatore sociale, ma anzi ne subisca il fascino, è un segnale allarmante che induce a ritenere che la filosofia leghista-berlusconiana del “vinca il più furbo” ha trionfato prima ancora che sul piano politico, su quello culturale e morale contagiando la stessa sinistra. E’ il segnale che una vera cultura dell’alternativa non si è affermata. 15.3 – Mortificazione e alienazione dell’individuo Il processo di ristrutturazione dei sistemi di produzione imposto dalla globalizzazione modifica profondamente non solo i cicli lavorativi e la struttura delle mansioni, ma anche il rapporto tra attività produttive e improduttive, tra tempo di lavoro e tempo di vita. Alla gradualità e al sincronismo, nati con la rivoluzione industriale, subentrano la flessibilità e l’adattabilità. L’elettronica e l’automazione danno luogo a nuove forme di organizzazione sociale, mentre l’informazione e la biologia s’intrecciano strettamente e si influenzano a tal punto da determinare nuovi concetti di esistenza, di salute, di età. Le relazioni si attuano in forme indipendenti, ma sono sempre più ispirate alla logica dello scambio. Quelle costituite si dissolvono rapidamente, quelle nuove invecchiano prima ancora di potersi fare le ossa. Anche i rapporti interpersonali, l’immaginario e la coscienza sociale e pure quella individuale, subiscono pesanti condizionamenti. Lo stesso linguaggio, quale essenza del legame tra le persone, muta e si ridefinisce in forme nuove. In questo turbinio di cambiamenti a restare invariato è solamente il meccanismo dello sfruttamento, quasi a confermare, come ricorda Marx nei “Grundrisse”, quella “maledizione che Geova fece passare sulla spalle di Adamo: lavorerai con il sudore della tua fronte!”. La legge dello scambio su cui fonda il dominio del sistema capitalistico, dà agli uomini l’impressione di essere liberi e uguali offrendo loro molte chances di vita. Rendendo l’uomo libero e autonomo di agire sul mercato delle merci, il regime capitalistico induce a credere che l’individuo sia un essere libero. In realtà, le forme della produzione e dello scambio condizionano pesantemente le convenzioni sociali, impongono i ritmi di lavoro, i rapporti salariati, i tempi di vita, i modelli di comportamento, gli stessi modi di pensare. La società del capitale non favorisce le reali potenzialità della persona, ma anzi le mortifica costringendola a ingaggiare con i suoi simili una lotta continua per assicurarsi il miglior ruolo 487
sociale e migliori condizioni di vita. Il sistema fondato sulla legge del profitto non produce individualità, bensì posizioni sociali che sono funzionali solo alla logica del capitale. Spinto a considerarsi libero e onnipotente, esasperato dal soggettivismo che lo porta a insistere sulla propria personalità irriducibile agli altri, l’uomo è di fatto solo e si ritrova incastonato in un contesto di competizione spinta e di indifferenza sociale. Ne “L’ideologia tedesca”, Marx ed Engels, già più di un secolo e mezzo fa, facevano notare che “la creazione di individui empiricamente universali è un portato della società borghese, in quanto spinge nella direzione del mercato mondiale ed in quanto obiettivamente fa degli individui gli attori della storia universale. Tuttavia questa universalità è solo il soffocamento universale dell’individualità da parte della casualità”. Persino il liberal-democratico Norberto Bobbio, alla fine degli anni ’80, ha dovuto ammettere che “il capitalismo aggressivo di oggi mette in crisi la stessa idea di uomo”. La globalizzazione accentua ancora di più un tale insieme di contrasti, esaspera il conflitto tra liberalismo economico e libertà degli individui, tra potere del mercato e interesse collettivo o generale. Genera un individualismo che polverizza nel singolo la socialità che gli è innata e ogni struttura di aggregazione; isolato nelle cellule separate del moderno mondo lavorativo, nell’automobile e davanti alla tv, viene sottratto al processo di formazione di una volontà collettiva e indotto a vedere nei suoi simili dei competitori e non degli alleati. Un recente sondaggio ha svelato che solo un italiano su tre, tra chi ha più di sessant’anni, considera “amici” i vicini di casa. La percentuale precipita al 14% tra gli adulti (36-60 anni) e addirittura al 13% tra i giovani. Mentre molto spesso il rapporto con gli altri si traduce in fonte di incomunicabilità e di infelicità, si fa avanti una nuova socialità di massa che produce sempre più uniformità di comportamento e di pensiero. La rivoluzione tecnico-scientifica, dominata dall’informatica, anziché favorire un rapporto dialettico e sereno tra gli individui, acuisce la contraddizione tra la spinta al soggettivismo e la condizione di subalternità che è propria del sistema del capitale. Pietro Barcellona ha acutamente notato che la rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo, mentre “da un lato alimenta in maniera incessante il pluralismo sociale, il microdecisionismo, dall’altro spinge verso un modernismo autoritario”. Ad avere un ruolo primario nel determinare una condizione di degrado sono, in effetti, proprio le nuove tecnologie la cui influenza sul pensiero è tale da provocare una vera e propria rivoluzione culturale. Il loro impiego non solo modifica i rapporti tra la produzione e lo stato sociale, tra il consumo delle merci e le relazioni tra gli individui, ma determina anche nuove conoscenze dell’universo, nuovi confini tra materia e vita, per cui esse plasmano la coscienza degli uomini e l’idea che essi hanno di se stessi. La loro penetrazione massiccia nella vita e nel lavoro porta al cambiamento dei paradigmi culturali, introduce nuove visioni del mondo, nuovi concetti di efficacia, di equilibrio, di convivenza. Con lo sviluppo della comunicazione, dei trasporti e della delocalizzazione, viene rivoluzionato lo spazio privato, vengono sconvolti gli stessi rapporti umani e si determina un vero e proprio cambiamento di fase. A formare il senso comune non sono più le istituzioni tradizionali (scuola, famiglia, Chiesa, partiti, sindacati, ecc.), ma lo stesso capitale attraverso i nuovi strumenti della comunicazione. Sono le stesse multinazionali a creare la cultura più confacente al sistema. I grandi poteri finanziari e industriali non producono solo merci, bensì soggettività, bisogni, relazioni sociali e pensiero. Formano l’uomo come essere sociale diffondendo l’ideologia del mercato che diventa lo spirito del tempo. Che il 23% della popolazione mondiale sia analfabeta e che anche nei paesi ricchi si registri un dilagare di forme di neo-alfabetismo, ai detentori del capitale poco importa, ciò che a loro sta a cuore è che alle persone sia assicurato quel livello di istruzione che è indispensabile per far funzionare i meccanismi di produzione e di riproduzione. 488
La televisione, ad esempio, rappresenta uno straordinario strumento ideologico che concorre a formare la morale e la struttura intellettuale delle persone. Nel giro di qualche ora essa fornisce un’enorme quantità di informazioni e di immagini che è di gran lunga superiore a quanto le generazioni che ci hanno preceduto potevano apprendere durante l’intera loro esistenza. Essa scarica nelle nostre case valanghe di notizie che rappresentano una violenza lesiva della nostra intimità e mettono in discussione i nostri valori e sentimenti. Milioni di persone premono gli stessi pulsanti per vedere il medesimo spettacolo. Attraverso i talk show, Beautiful, il Grande fratello, il calcio, ecc. ci viene propinata una cultura che reprime il nostro spirito critico e ci abitua alla passività intellettuale. Come ha notato il sociologo francese Jacques Ellul, “i divertimenti (e gli intrattenimenti e lo sport, precisiamo noi) sono la funzione respiratoria del sistema”. Stiamo, in sostanza, assistendo a una vera e propria mutazione antropologica, al passaggio – come qualcuno ama dire – dall’homo sapiens all’homo zappiens. Il sistema del capitale sta ridisegnando a sua immagine il mondo delle relazioni umane, della conoscenza e del linguaggio, plasma la nostra stessa vita a sua immagine e somiglianza. Si tratta di un processo al cui influsso diventa estremamente difficile sottrarsi. Una delle conquiste più preziose della civiltà borghese è indubbiamente la libertà della vita privata. Ebbene, con la globalizzazione essa è in via di distruzione e l’esistenza quotidiana del cittadino è molto simile a quella di Wiston Smith, il protagonista del romanzo di Orwel. Attraverso le carte di credito, i telepass, le tessere dei supermercati, le telecamere, i microchip, il “grande fratello” è a conoscenza di ciò che chiunque di noi sta facendo, chi frequenta, quali itinerari percorre, quali abitudini alimentari ha. Mentre sono in auge i net work e l’informatica, la scrittura si rivela in declino. Nel giovane d’oggi, sulla scrittura prevale l’immagine. I “nativi digitali”, cioè i ragazzi che fanno uso del computer, dello smartphone, dell’iPod, alle risonanze magnetiche evidenziano lievi modificazioni della corteccia cerebrale nei lobi frontali. Ci sono scienziati che ritengono si tratti di modificazioni destinate a incidere sul loro meccanismo di apprendimento: essi leggeranno molti meno libri e giornali e saranno meno capaci di andare in profondità sugli argomenti. E pensare che i “nativi digitali” rappresentano le avanguardie di una nuova tappa dell’evoluzione umana! Stiamo insomma vivendo una fase di transizione epocale la cui portata è paragonabile a quella di oltre due millenni fa, allorquando il mezzo di comunicazione era solo l’oralità, il dialogo. Il mutamento culturale generato da internet ci offre in questo senso un’eloquente testimonianza. Questa tecnologia ci consente di raggiungere un numero sterminato di fonti e sulla rete ogni opinione vale l’altra, poiché è posta sullo stesso piano (almeno fino ad oggi). Internet condiziona i nostri meccanismi mentali, incide sul modo di leggere, di selezionare, di memorizzare e quindi di ragionare. I flussi di informazione che ci offre risultano essere di gran lunga superiori alla nostra capacità di assimilazione. Le nostre conoscenze, i nostri interessi, le nostre coscienze subiscono perciò profondi cambiamenti. Mentre però tutte queste innovazioni aprono straordinarie prospettive di protagonismo individuale e collettivo e di emancipazione, ogni azione dell’uomo è condannata dal capitale a essere ridotta a valore di scambio. Siamo cioè in presenza di un processo di totale mercificazione che porta alla liquidazione di ogni valore etico tradizionale senza alcuna possibilità di mediazione. Oltre al lavoro e alla sua etica, sono in crisi l’istituto della famiglia tradizionale e il concetto di autorità; la morale è sempre più considerata una virtù dei tempi andati; la religione viene scalzata dalla tecnologia e dalla scienza e seppure formalmente e stancamente si continuino a celebrare i tradizionali riti canonici, il “credo” è vissuto senza convinzione e in modo opportunistico. Ernst Nolte ha sostenuto che “il dominio unico del mercato mondiale si sostituisce all’etica dei Vangeli” e che “il capitalismo, ormai senza freni e dominante ogni fibra del mondo intero... si tira dietro il vuoto spirituale”. Poiché ogni rivolgimento economico, sociale e politico è necessariamente accompagnato da un mutamento culturale, tutto questo non può e non deve meravigliare, perché fa appunto parte del processo storico. A preoccupare è la cesura tra il progresso scientifico e il progresso sociale e 489
morale che i cambiamenti in atto determinano. Con l’avvento del postfordismo e della globalizzazione sono state messe in discussione talune categorie fondamentali su cui per secoli si è orientato il comportamento umano. Per esempio, fino a ieri il capitalismo ha fatto affidamento sull’abitudine dell’uomo a lavorare, considerata uno dei moventi fondamentali del comportamento umano e anche sulla sua disponibilità a rinviare nel tempo la gratificazione immediata, risparmiando e investendo in previsione di future ricompense. Ha poi approfittato dell’orgoglio umano di ottenere buoni risultati e del diffuso costume di fiducia fra i produttori. Ora non è più così. Non solo l’abitudine al lavoro sta venendo meno, almeno nelle forme tradizionali, ma sta sparendo la disponibilità all’obbedienza e alla lealtà. Il capitalismo ha decretato fuori moda la sincerità, ha fatto perdere il senso civico e della giustizia sociale, il rispetto per il prossimo, per la natura, per l’ambiente in cui viviamo. Ha imposto l’ideologia secondo cui si è felici solo se si è ricchi e ha posto come condizione per diventarlo quella di non avere alcun riguardo per gli altri. Si ciancia tanto di meritocrazia, eppure per farsi strada nella vita più che la preparazione culturale, la rettitudine e la serietà professionale, vale la capacità di promuovere se stessi, che molto spesso equivale a un alto grado di arroganza e di narcisismo. Nelle stesse scuole e università il conseguimento della maturità e della laurea viene sempre più spesso inteso utilitaristicamente, come mezzo per assicurarsi una collocazione professionale e sempre meno come acquisizione di sapere. Il modo di produzione capitalistico esprime poi una efflorescenza di modelli di consumo e una capacità di persuasione che alterano la scala di valori determinata nel corso di secoli. Si viene sollecitati a soddisfare più che i bisogni primari, il desiderio immediato di godere dei beni consumistici e delle passioni istintive. Laddove esso soddisfa i bisogni materiali fa insorgere povertà immateriali. Gli individui vengono assuefatti a sopportare passivi le ingiustizie più plateali e odiose e a essere indifferenti al parassitismo e alla corruzione che erode da cima a fondo l’intera società; vengono persino resi indifferenti alle stragi di guerra. Viviamo nell’era della comunicazione on line, eppure le statistiche ci dicono che sempre più numerose sono le persone che soffrono la solitudine e si rivelano incapaci di comunicare i propri sentimenti più intimi. La percentuale della popolazione che ricorre alle droghe e all’alcol è in preoccupante aumento in ogni dove e non c’è classe sociale, categoria professionale, fascia di età, livello di istruzione che possa vantare un’immunità al fenomeno. Le statistiche ci dicono che più avanza la povertà, più la gente spende quattrini per il gioco, e questo succede non solo nell’Italia del lotto statalizzato, ma nel mondo intero. A dominare i rapporti sociali è il denaro che è divenuto ormai un feticcio. Se lo possiedi sei qualcuno, vieni considerato e rispettato, se ne sei privo attorno a te si crea il deserto. Non solo con gli altri, ma perfino con i propri congiunti, a prevalere è sempre più spesso il rapporto mercantile, quello della convenienza e del guadagno. Per il denaro si tradisce e si uccide con una facilità sorprendente. Venticinque secoli fa Sofocle sosteneva che “nella società umana non c’è nulla di peggio del denaro”; Shakespeare lo ha definito “prostituta comune dell’umanità” che reca la discordia tra i popoli; Marx “il dio tra le merci”, e ha fatto notare che in esso “gli uomini ripongono la fiducia che non ripongono l’uno nell’altro in quanto persone”, eppure, nonostante questi autorevoli ammonimenti, con l’evoluzione del capitalismo il denaro ha finito per condizionare l’uomo fin nel suo intimo riducendolo a puro animale di combattimento. Al dominio del denaro oggi sono assoggettati gli Stati, la tecnologia, il costume, il pensiero, i sentimenti, gli affetti, e persino il credo religioso non può sottrarsi alla sua influenza. A causa della pazza corsa all’arricchimento economico, nella collettività avanza un processo di disgregazione e di dissociazione e si afferma l’anomia, la tendenza cioè a rifiutare ogni regola. Il modo di produzione capitalistico mette la generalità delle persone in una condizione di precarietà che genera crisi d’identità. Più sono rapidi i cambiamenti, più è intensa l’applicazione della 490
tecnologia, più diventa frenetica la vita, meno sono le certezze per il futuro. Se oggi l’interesse in favore delle generazioni a venire è venuto scemando è anche perché si tende a dimenticare il passato, non ci si cura del futuro e si esalta in modo dissennato il presente. Nel valore di scambio la relazione sociale tra persone viene trasformata in un rapporto sociale tra cose, le stesse capacità personali vengono monetizzate e oggettivate. Gli individui s’identificano sempre meno nel lavoro che svolgono, anche quando si tratta di attività interessanti e qualificate, poiché il sistema produce un senso di inutilità delle prestazioni professionali dei singoli. L’introduzione delle tecniche produttive moderne crea masse di lavoratori robotizzati e nevrotici i quali vivono un profondo disagio fisico e morale. I ritmi e le aspettative della produzione capitalistica devastano l’equilibrio della psiche. Il capitale ha trasformato il tempo biologico in un flusso produttivo ininterrotto. Se si assiste a un abuso di antidepressivi e di sonniferi, è anche a causa dello stress cui è ormai sottoposta la stragrande maggioranza dei lavoratori. In conclusione, la penetrazione capillare della legge del profitto in ogni ambito della vita sociale ha provocato e continua a provocare alienazione. La premonizione di Marx secondo cui “tanto più praticamente la scienza della natura è penetrata, mediante l’industria, nella vita umana e l’ha trasformata e ha preparato l’emancipazione umana dell’uomo, quanto più essa immediatamente ha dovuto completarne la disumanizzazione”, si è dimostrata giusta. Nel 2006 la General Social Suvey ha condotto un’indagine sul grado di felicità del popolo statunitense e ha accertato che rispetto all’inizio degli anni ’70, mentre il Pil pro capite era raddoppiato, gli americani che si sentivano molto felici erano scesi dal 38 al 34%. Questi dati stanno a dimostrare che il denaro migliora di certo la condizione di vita, ma non basta a rendere felici le persone. Anzi, altre indagini documentano che nelle società più ricche economicamente si registra una caduta delle relazioni umane, viene meno la fiducia nelle istituzioni, c’è meno speranza nelle persone di poter cambiare la situazione, cresce l’invidia sociale e sono in aumento le violenze verso l’ambiente e verso i propri simili. Nietzsche, oltre ad annunciare la morte di dio, ha annunciato quella dell’uomo. Secondo alcuni filosofi egli avrebbe colto l’andamento del nostro tempo. Oggi, a dire di questi, la morte dell’uomo si manifesterebbe soprattutto in un suo generale malessere spirituale che non avrebbe precedenti nella storia, in quanto si tratta di crisi individuali all’interno di una crisi sociale generale. Fatto è che fra i valori che hanno animato la borghesia delle origini e la pratica del mercato mondiale si è aperto un abisso. Le aspirazioni dei rivoluzionari ottocenteschi sintetizzate nel famoso slogan “égalité, liberté, fraternité” sembrano essere svanite nel vuoto. Verso la metà degli anni ’90, Emanuele Severino scriveva su un quotidiano che “la gente ormai pratica quello che un’élite intellettuale sostiene da tempo, cioè che non esistono più né valori né morale assoluta. L’unico valore assoluto è riuscire a organizzare la propria esistenza in modo efficiente e sopravvivere in un mondo che sta diventando sempre più pericoloso”. In effetti, a dominare è la rassegnazione e il ripiegamento sulla propria specificità e sul proprio meschino interesse. Chi sta alla base della scala sociale avverte sempre meno il richiamo a un impegno di cambiamento e si accontenta di vivere di stereotipi. Non a caso il “pensiero unico” ha fatto largo nell’animo della maggioranza della gente la quale ha fatto proprio acriticamente il dogma del primato dell’economia nel governo degli uomini. Rispetto ai tempi andati, oggi si è più istruiti ma meno educati, si è più informati ma meno formati. Molti disquisiscono ancora di democrazia, ma lo fanno in maniera del tutto formale ignorando che quel termine significa parità di diritti e di doveri, impegno solidale, responsabilità civile e sociale. Di fronte alle ingiustizie, alla sopraffazione, allo sfruttamento ci si atteggia come se si trattasse di eventi naturali immodificabili e non si ha il coraggio di esprimere condanne perché torna socialmente sconveniente farlo. Pochi si sentono in dovere di pensare al prossimo che vive o cade in povertà e di impedire che ciò avvenga.
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Il senso comune attribuisce questo atteggiamento all’innato egoismo dell’uomo, quando invece studi recenti confermano che non è vero che noi nasciamo egoisti e crudeli. La nostra morale emerge nel corso della storia e del suo sviluppo individuale e decisiva è l’educazione che riceviamo. L’egoismo che il sistema trasmette induce l’uomo a non pensare alla malattia quando si è sani e a non pensare alla vecchiaia quando si è giovani. Tanto meno vale la pena di pensare a chi soffre. C’è il rischio che venga modificandosi la natura stessa della specie umana. Oggi è in pericolo non solo la dimensione morale, ma la stessa animalità dell’uomo. E’ da quando è apparso sulla Terra che egli determina un cambiamento del suo essere e del suo ambiente mentre muta la stessa natura, oggi però i tempi dei cambiamenti che egli stesso induce risultano non più in sincronia con quelli naturali e biologici. E’ un aspetto questo che dovrebbe inquietare, invece sembra non sia per nulla avvertito. Almeno in Italia, a partire dagli anni ’90 la società è regredita moralmente e, anche in conseguenza del processo involutivo che ha investito il mondo della politica, ha subito un processo di deresponsabilizzazione. Sembra ritorni a imperare la teoria spenceriana della “sopravvivenza del più adatto” e anche questa regressione induce preoccupazione. Il capitalismo abbruttisce l’uomo, induce in esso solo egoismo, voglia di protagonismo, boria di sé e sopraffazione degli altri. Educa le persone a un falso progresso e le spoglia della capacità di riflessione su ciò che fanno privandole del cosiddetto “buon senso”. Se non si vuole finire nel baratro occorre voltare pagina. E una tale svolta la dovrebbe determinare la sinistra la quale, invece, pur giurando di volere il cambiamento, non pare aver percepito che a “fare la rivoluzione” è stato e continua a essere il capitale. Una “rivoluzione passiva”, come diceva Gramsci, la quale non solo subordina il movimento operaio alle leggi del profitto, ma lo rende rassegnato di fronte alle ingiustizie sociali e lo aliena. L’egemonia del capitale è tale da aver persino trasformato in gadget i miti della rivoluzione (si consideri la sorte toccata al “Che”) senza che dalla sinistra venisse sollevata alcuna riserva o protesta. Siamo in presenza di un’ennesima dimostrazione di come i rapporti capitalistici riproducono continuamente non solo se stessi, ma anche la mistificazione della coscienza di chi è da essi soggiogato e avrebbe tutto l’interesse a liberarsene; e pure della capacità del capitale di far accettare alle classi subalterne il punto vista che fa apparire il mondo capovolto. La sinistra, in primo luogo la sua componente intellettuale, avrebbe dovuto e dovrebbe contrastare il conformismo dilagante, ma a una tale operazione non pare essere granché interessata. Sin qui ha emesso soprattutto grida contro il sistema credendo così di aver assolto ai suoi compiti. Come ha disatteso in economia, così ha fatto sul fronte della formazione della coscienza sociale. A me è rimasto impresso nella mente ciò che Jean Paul Sartre ebbe a scrivere nei primi anni ’60: “L’ideologia borghese nel momento attuale è in piena dissoluzione”. Nemmeno un filosofo del suo calibro si era accorto che proprio in quegli anni il capitalismo stava inserendo una marcia in più anche nel modo di produrre cultura. Con i profondi cambiamenti che stiamo vivendo, appare dunque necessario e urgente contrapporre alla concezione che il capitale ha dell’uomo e del mondo, un’etica e una morale nuove, e alla sinistra non è più consentito tergiversare. 15.4 – L’appropriazione del “general intellect” da parte del capitale Di fronte agli sconvolgimenti provocati dalla globalizzazione c’è chi sostiene che nella nostra epoca “il fine del capitalismo è, purché si consumi, l’ozio per il maggior numero di persone, non lo sfruttamento”. A dire di tali commentatori, si lavorerebbe ormai per produrre il superfluo e lo svago, senza dei quali non ci sarebbe lavoro, e l’uomo sarebbe sempre più padrone di se stesso. Che il capitalismo abbia esasperato la sua vocazione consumistica fino al paradosso è un dato reale, e credo di averlo evidenziato; che tale cambiamento abbia significato anche l’abbandono della sua vocazione allo sfruttamento è semplicemente una cattiva e fuorviante interpretazione. Il movimento operaio, sin dalle sue origini, ha giustamente fondato la lotta contro il sistema del capitale sulla contesa delle quote di plusvalore proprio perché l’appropriazione del pluslavoro ha 492
costituito e continua a costituire una delle molle decisive dello sviluppo del capitale. Anche oggi, con l’avvento della globalizzazione, il capitalismo rimane profondamente conservatore a riguardo della rapina del plusvalore, anzi, la sua capacità di appropriarsene si è di molto dilatata e affinata. La sua fame di plusvalore non conosce sazietà e a differenza della produzione dei valori d’uso, la quale è destinata a esaurirsi con la soddisfazione dei bisogni, la produzione dei valori di scambio sembra proprio non avere limiti. E’ bene non dimenticare che né la forza lavoro né la natura, nelle loro dimensioni di spazio e di tempo, sono prodotte dal capitale, eppure, nonostante ciò, esso tratta le condizioni di produzione come se fossero merci, o beni di sua esclusiva proprietà. I teorici della fine dello sfruttamento dimenticano che lo stesso Adam Smith era consapevole del fatto che ad alimentare il motore del capitale è il perseguimento dell’utile attraverso l’impiego della forza lavoro. E trascurano il piccolo particolare che, con il trascorrere del tempo, la sua capacità di appropriarsi del plusvalore è venuta perfezionandosi al punto di massimizzare la produzione di ricchezza attraverso un globale condizionamento dell’esistenza umana. Il sistema, infatti, consegue il massimo possibile di disciplina dei lavoratori, e quindi di sfruttamento, non solo attraverso l’attacco ai livelli salariali, alla riduzione del costo del lavoro, alla mobilità e anche attraverso la minaccia di disoccupazione, ma anche aggredendo sempre più l’insieme dell’esistenza umana. La ragione per cui esistono persone “in ozio” e la classe operaia non fa a meno dei consumi superflui, è da ricercarsi proprio nell’evoluzione del meccanismo di sfruttamento attuato dal capitalismo il quale non può assolutamente essere scambiato per progresso sociale. Come ancora ci ricorda Marx nei “Grundrisse”, “nel sistema capitalistico, tutti i progressi della civiltà, ogni accrescimento delle forze produttive quale risultato della scienza, della divisione del lavoro, del miglioramento dell’organizzazione del lavoro e delle macchine, non arricchiscono l’operaio, ma il capitale”. E mai nessuno è riuscito a dimostrare che questa non sia la logica del capitalismo. Come produttore di laboriosità altrui e come sfruttatore di forza lavoro e usufruttuario di pluslavoro, il capitale, per energia e vigore, sopravanza tutti i precedenti processi di produzione fondati sul lavoro forzato. Trasforma la vita sociale in momento di produzione di valore dettando legge non solo al mondo industriale e finanziario, ma anche allo Stato e alla società nel suo complesso. Se dunque qualcosa è mutato nel corso della sua evoluzione, questo non ha certo comportato la soppressione dello sfruttamento del lavoro umano che anzi, ripeto, si è fatto più acuto e insidioso. Precisato che lo sfruttamento non è affatto finito, è da evidenziare che esiste un aspetto il quale è stato e continua a essere trascurato da molti osservatori e da gran parte della stessa sinistra. Esso riguarda il fatto che il capitale, con il trascorrere del tempo, ha acquisito forza non solo attraverso l’espropriazione del plusvalore, ma anche tramite la rapina e l’accumulazione del sapere sociale. Trattando l’argomento del “macchinismo”, nei “Grundrisse”, Marx ci spiega che il ‘lavoro morto’, cioè la macchina (la quale concorre a formare il capitale fisso), espropria il ‘lavoro vivo’, cioè l’attività dell’uomo, la soggettività che sta dietro e dentro la forza lavoro, (la quale concorre a formare il capitale variabile) e se ne impadronisce incorporandolo in se stessa. Attraverso questo processo di espropriazione si realizza l’autonomizzazione del capitale dal rapporto sociale di sfruttamento il cui effetto è quello di spogliare la forza lavoro della sua caratteristica di essere fonte del valore. Il capitale, dunque, costruisce la sua ricchezza e il suo potere appropriandosi non solo del plusvalore, ma anche dell’intelligenza dei lavoratori, delle loro capacità professionali, e quindi delle invenzioni tecniche e delle scoperte scientifiche. In sostanza, fa suo l’accumularsi delle conoscenze e del sapere sociale, cioè si appropria del “general intellect” che è patrimonio di tutto il genere umano, sequestrandolo ai suoi produttori e trasformandolo in strumento di dominio. Mentre nella fase storica dell’accumulazione capitalistica, quella della manifattura (dalla metà del secolo XVI fino ai primi 60 anni del secolo XVIII), la riproduzione del capitale era ottenuta mediante l’estorsione e l’intensificazione della giornata lavorativa complessiva (estrazione di plusvalore assoluto), con l’avvento della grande industria questo processo ha subito una rilevante modificazione. L’accumulazione ha incominciato a realizzarsi attraverso l’introduzione dei sistemi 493
centralizzati di macchine automatiche sempre più complessi i quali hanno assicurato una graduale e crescente subordinazione al macchinario delle forze produttive generali della società e con esse la scienza, la combinazione produttiva dei saperi, la socializzazione del lavoro. Il capitale fisso è diventato il depositario dell’intelligenza generale. Riducendo il lavoro necessario, questo processo ha diffuso l’impressione di aver ridotto lo sfruttamento della forza-lavoro, mentre di fatto ha iniziato a incorporare nelle macchine l’abilità professionale e i saperi rendendoli sempre più indipendenti dalla forza lavoro. Si è così realizzato il passaggio dall’estrazione di plusvalore assoluto all’estrazione di plusvalore relativo. La grande forza egemonica che il capitale vanta oggi sull’intera società ha le sue radici proprio in questo passaggio. Marx ci ricorda che nell’epoca moderna “non è il lavoro immediato eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora” il grande pilastro di sostegno della produzione e della ricchezza. Il lavoro parcellizzato e ripetitivo viene relegato a una posizione residuale, mentre decisivi per il rafforzamento e l’espansione dell’egemonia del capitale diventano “l’appropriazione della produttività generale, la comprensione della natura e il dominio su di esse”. Il capitale ha incorporato la scienza esprimendo in tal modo l’intelligenza generale della società. Sempre nei “Grundrisse” Marx descrive così la portata di questo processo di appropriazione del “general intellect”: “Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa”; “Nella grande industria il dominio del capitale sulla forza lavoro si esprime sempre più come espropriazione lavorativa della classe operaia, come dominio del valore d’uso del capitale fisso (macchinario automatico) sul valore d’uso della forza lavoro (appendice viva della macchina). Il processo produttivo cattura sapere e socialità dentro il capitale, fa del capitale fisso, come macchina, il valore d’uso che regola l’accumulazione”; “Nel suo vero sviluppo il capitale combina il lavoro di massa con l’abilità, ma in modo tale che il primo perde la sua potenza fisica, e l’abilità esiste non nell’operaio ma nella macchina e nella fabbrica che attraverso la combinazione scientifica con la macchina agisce come una totalità. Lo spirito sociale del lavoro assume un’essenza oggettiva al di fuori dei singoli operai”; “L’accumulazione del sapere e dell’abilità delle forze produttive generali del cervello sociale è assorbita nel capitale in contrapposizione al lavoro e si presenta quindi come qualità del capitale, e più precisamente del capitale fisso (macchinari)”. E’ infatti proprio grazie all’appropriazione del “general intellect” che il capitale ha raggiunto vette inimmaginabili. Nell’epoca della globalizzazione esso è in grado di trasformare la vita sociale in produzione di valore, di subordinare i “saperi”, di determinare i rapporti sociali e i linguaggi e di trasformarli in capitale fisso al di fuori del rapporto salariale. Nel sistema produttivo moderno sono incorporate la scienza, la tecnica e l’organizzazione, le quali risultano separate dal lavoratore, nel senso che sono pensate, elaborate e applicate in luoghi sociali ai quali la massa dei lavoratori non ha accesso e può difficilmente interferire. Il “lavoro vivo” diviene semplice accessorio vivente delle macchine frutto della scienza la quale non esiste nella coscienza dell’operaio e, questa scienza, agisce attraverso le macchine come un potere estraneo su di lui, come potere della macchina stessa. Si verifica cioè una netta divaricazione tra le potenze mentali della produzione e il lavoro parcellizzato e ripetitivo. I produttori vengono espropriati di qualsiasi possibilità di esercitare un controllo sull’intero ciclo produttivo la cui direzione è appannaggio del capitale e rappresenta la somma delle diverse attività assicurate dai lavoratori separati ed espropriati delle loro capacità professionali e della loro intelligenza. Ecco perché le “macchine” non possono considerarsi neutrali! Non solo il loro uso corrisponde a fini capitalistici, ma la loro stessa forma è pensata e realizzata allo scopo di trasformare il “lavoro vivo” in “lavoro morto”. Gli impianti impiegati nella produzione capitalistica hanno senso solo se il lavoro è lavoro salariato; il loro esistere si identifica con quello del capitale; essi sono quei valori d’uso che portano l’impronta del valore di scambio. Sono protetti dal diritto di proprietà intellettuale che è costituito dai brevetti e dal software e che permette al capitale di monopolizzare le nuove tecnologie. 494
In questa operazione di appropriazione del “general intellect” un ruolo fondamentale è giocato dalla divisione sociale del lavoro. Per quanto riguarda la produzione, la gran parte della società è esclusa da un’attività razionale. Essa è divisa in due parti, di cui una lavora come semplice appendice di una macchina, mentre l’altra concentra in sé il sapere. L’attività mentale, creativa e progettuale rimane prerogativa delle classi dominanti. Ecco perché nella società capitalistica non è possibile conseguire il libero sviluppo delle individualità! La filosofia che la domina è difatti la conservazione come valore del valore già creato e la sua concentrazione nelle mani del capitale. Va preso atto a riguardo di questo processo di appropriazione del “general intellect” da parte del capitale, che la sinistra si è dimostrata distratta e incapace di mettere in campo una sua strategia alternativa. Essa ha decisamente sottovalutato l’evoluzione delle forme di sfruttamento che il sistema è venuto praticando nel corso del tempo, al punto da trascurare le considerazioni e le sollecitazioni che i padri del socialismo scientifico hanno formulato anzitempo. Sul concetto stesso di “general intellect” si è poco discusso, tanto è vero che diventa difficile ritrovare un qualche riferimento negli stessi studi e trattati dei più eminenti economisti marxisti che hanno contribuito a formare intere generazioni di comunisti (da John Eaton a Maurice Dobb, da Antonio Pesenti a Luciano Barca). Per non dire degli economisti dei regimi del socialismo reale del calibro del sovietico Aleksej Leontiev o del cinese Xu He, autori di manuali di economia politica diffusi in tutto il mondo. L’argomento è poi ignorato dalla stragrande maggioranza dei dirigenti politici e sindacali del movimento operaio ai quali sarebbe spettato e spetterebbe l’onere di elaborare le strategie di contrasto. La sinistra ha fino ad oggi privilegiato l’aspetto riguardante l’appropriazione del plusvalore, quello cioè del salario, e insieme la subordinazione fisica e le condizioni ambientali dei lavoratori, aspetti che giustamente non potevano e non possono essere assolutamente trascurati. Ha contrattato la professionalità dei singoli monetizzandola e non si è posta il problema della riappropriazione del “sapere sociale” quale condizione della liberazione dell’uomo dallo sfruttamento e dal condizionamento capitalistico. Se finora ha subito le “rivoluzioni passive” attuate dal capitale è, a mio modesto avviso, proprio a causa di questa trascuratezza. Non ha cioè dato retta a Marx quando nel VII quaderno dei “Grundrisse” ha ammonito che “la massa operaia stessa deve appropriarsi del suo lavoro eccedente” perché “la ricchezza reale è la forza produttiva sviluppata di tutti gli individui”. Fino a che il movimento dei lavoratori non sarà in grado di riappropriarsi del “sapere sociale” strappandolo al dominio capitalistico, questi continuerà a inglobare la creatività del lavoro subordinato e a usarla ai fini della integrazione dello stesso movimento operaio nel sistema. Dovrebbe far riflettere il fatto che nonostante l’intensificazione delle lotte politiche e sindacali la sinistra non è mai riuscita a dare scacco matto al capitalismo. Benché essa abbia avuto accesso al potere in più circostanze (dalle esperienze del socialismo reale a quelle della socialdemocrazia), non è mai riuscita a realizzare quel progetto di socializzazione che è alla base della teoria del socialismo scientifico. Sulla capacità d’integrazione del capitale si è discusso a lungo senza rendersi conto che la chiave di volta è proprio l’appropriazione del “general intellect”. Scriveva Marx a metà ‘800: “Man mano che la produzione procede si sviluppa una classe operaia che per educazione tradizione abitudine riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione”. Nell’epoca dell’imperialismo i sovra-profitti ottenuti a spese dei popoli coloniali sono stati goduti, almeno in parte, non solo dalle classi borghesi, ma anche da alcuni strati della classe lavoratrice dei paesi colonialisti. L’alto tenore di vita dei Paesi progrediti è, in buona parte, il prodotto della miseria e dell’asservimento dei Paesi sottosviluppati. Questa realtà non ha costituito motivo di riflessione per la maggioranza della sinistra dei Paesi ricchi la quale, anzi, ha buttato a mare lo spirito internazionalista. Il passaggio al capitalismo maturo ha significato la messa in atto di una possente rete di meccanismi di integrazione sociale e ideale a tutti i livelli, sia nella produzione che nel consumo, sia nella vita politica che in quella culturale. La classe operaia del novecento ha pienamente introiettato il 495
taylorismo, il fordismo, il keynesismo, la statalizzazione autoritaria e talvolta nazionalistica e razzistica, la sindacalizzazione corporativa. Come abbiamo visto il processo di integrazione economica ha operato direttamente a livello delle coscienze, a livello stesso del processo di formazione dei bisogni, assicurando ad ampi strati di lavoratori condizioni di relativo benessere e anticipando il capovolgimento di valori e schemi. Con l’ausilio dei mezzi di comunicazione di massa il capitalismo ha conquistato capacità di persuasione, di influenza ideologica sulle masse e sulla stessa classe operaia con pesanti conseguenze sugli schieramenti ideali e politici, sul loro grado di autonomia effettiva rispetto al sistema. La società dei consumi possiede una grande capacità di integrazione e allontana il bisogno di cambiamento della società. La legge del mercato purtroppo piace, anzi affascina la più parte delle persone, compresa la mitica classe operaia. Larghi strati di lavoratori hanno saputo assicurarsi un’esistenza che viene da loro stessi considerata dignitosa e soddisfacente, perciò l’obiettivo del cambiamento perde di valore e questa metamorfosi investe gli stessi partiti nati per essere i seppellitori del sistema capitalistico. Se nel ’45 il numero due del Pci Luigi Longo si chiedeva preoccupato cosa mai sarebbe successo quando i gruppi reazionari “imboccheranno la strada della corruzione del movimento operaio in tutti i modi e con tutti i mezzi”, dopo di lui la maggior parte dei dirigenti della sinistra ha cessato di porsi domande del genere. A metà degli anni ’70, Adalberto Minucci si è detto convinto che “l’Italia è l’esempio più unico che raro di un paese capitalistico nel quale una rapida e spesso tumultuosa espansione monopolistica non solo non ha portato alla ‘integrazione nel sistema’ o a una sconfitta storica della classe operaia, ma al contrario a una crescita seppur contrastata del suo peso politico e della sua egemonia”. E Massimo D’Alema scriveva su “Rinascita” che “la presenza antagonistica di un forte movimento operaio radicato sul terreno della democrazia, ha reso impossibile lo sviluppo nella società di quelle forme di consenso e di coercizione necessarie ad un’opera di pura razionalizzazione capitalistica della società”. Mi torna difficile stabilire se fossero consapevoli di quanto affermavano o se invece mentissero a se stessi. Di certo non si sono accorti che con l’imposizione del modello neocorporativo il capitalismo si stava rigenerando su scala mondiale mentre la classe operaia, con alla testa le stesse organizzazioni politiche e sindacali che avevano resistito al riformismo, dava inizio al cammino dell’integrazione nel sistema. A consentire al capitale di estendere la sua egemonia anche sul movimento operaio è stata appunto quell’appropriazione del “general intellect” che con l’avvento del postfordismo e della globalizzazione ha avuto uno sviluppo sia estensivo che intensivo. Anche quel che è rimasto della sinistra sembra però fare a meno di prendere lezione dalla storia per rimediare agli errori compiuti e invertire la rotta. 15.5 – L’urgenza di un nuovo antagonismo La stragrande maggioranza dei sostenitori del capitalismo ha interpretato la globalizzazione come l’avvento dell’abbondanza per tutti e il trionfo della libertà. Fukuyama in “La fine della storia” ha sostenuto che, vincendo la guerra fredda, la democrazia liberale avrebbe messo fine ai conflitti ideologici e si sarebbe imposta come l’unico legittimo sistema politico. Solo una ristretta cerchia, preoccupata dalla crisi economica e dal rischio di un divorzio tra capitalismo e democrazia, ha invocato una “rifondazione” del sistema. A giudizio di alcuni, con la rivoluzione informatica, grazie all’intelligenza collettiva incorporata nelle nuove macchine, il capitale avrebbe soppresso la necessità del lavoro umano e sarebbe stato in grado di riprodursi facendo a meno di ricorrere al suo sfruttamento. Con il processo tecnologico, nei paesi a sviluppo capitalistico avanzato, la classe operaia sarebbe decresciuta numericamente a tal punto da finire per essere annientata. In questo processo di cambiamento lo storico avversario del capitale sarebbe svanito e la società, frammentandosi in cento, mille stratificazioni sociali, avrebbe perso i suoi connotati tradizionali.
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Tramite la produzione di beni resi artificialmente necessari, e soprattutto immateriali, i mezzi di produzione avrebbero assunto un ruolo determinante nell’organizzazione sociale. La natura e il significato dello sviluppo e dello Stato avrebbero subito una modificazione tale da svuotare di senso i concetti di uguaglianza, solidarietà e giustizia sociale. Lo spirito del capitale, insomma, avrebbe dominato incontrastato gli uomini e la rivoluzione di ispirazione socialista sarebbe divenuta un non senso. All’unanimità, infatti, hanno decretato impraticabile un’alternativa di sinistra e si sono detti convinti che le grandi trasformazioni di questi ultimi anni e quelle che si annunciano prossime avrebbero messo in crisi tutti i concetti che il socialismo tradizionale ha applicato all’analisi della realtà sociale e reso nulla la possibilità di aggregare i soggetti sociali attorno a una strategia di cambiamento. Che il capitale abbia esteso le sue ipoteche sull’intera realtà sociale e abbia scompaginato qualsiasi progetto di cambiamento, è un dato incontestabile! Che, stante lo stato confusionale della sinistra, il potere capitalistico abbia maggior agio nel dominare il genere umano e violentare la natura, è pure una evidente realtà! Difatti, va tenuto presente che oltre alla sua straordinaria capacità di riprodursi e alla sua potente egemonia sui rapporti sociali e sulla formazione delle coscienze, il capitale ha avuto la capacità di impedire l’unificazione del proletariato mondiale, riuscendo a dividere il movimento in entità nazionali spesso in antagonismo fra di loro, comunque incapaci di raccordarsi strategicamente. Ha neutralizzato la loro azione e ha reso velleitario l’appello marxiano “proletari di tutto il mondo unitevi!” quale condizione per realizzare un’alternativa di sinistra. E con la globalizzazione queste sue proprietà si sono indubbiamente potenziate. I predicatori della fine del socialismo, dunque, hanno qualche ragione da vendere e non incontrano molti ostacoli nel sostenere certe loro tesi. A differenza della sinistra, essi danno segno di essere consapevoli della profondità delle modificazioni che la globalizzazione ha determinato e godono oltretutto del privilegio di stare dalla parte vincente. Essi hanno però dimenticato di evidenziare un aspetto tutt’altro che marginale di queste trasformazioni, il fatto cioè che se è vero che la classe operaia è profondamente mutata e nei paesi dell’Occidente è stata ridimensionata, al tempo stesso anche le altre figure sociali hanno subito un cambiamento e in questo processo di metamorfosi generale la media borghesia è venuta sempre più assottigliandosi diventando un nuovo moderno proletariato. Non è un caso che sia nel vecchio continente che oltreoceano grande è la preoccupazione per la fine della middle class. Essi hanno poi trascurato il particolare che, se è vero che lo stesso capitalismo non è più quello descritto da Marx e da Engels, un tale cambiamento è potuto avvenire anche grazie alla lotta per i diritti umani e per le conquiste sociali portata avanti dalla classe operaia la quale ha assicurato in questo modo il progresso dell’intera società. E nonostante l’espansione del potere del capitale e la sua prepotenza, la sua presenza non è stata ancora soppressa e la sua influenza non si è esaurita. Questi profeti non sono peraltro riusciti a spiegarci come sia possibile che il capitale possa essere in grado di far funzionare le sue macchine senza che l’uomo le metta in moto e le controlli; come faccia a costruirne di nuove senza l’apporto dei tecnici e dei manovali; come possa alimentare il processo di accumulazione quando il plusvalore tende ad azzerarsi; come possa poi vendere i suoi prodotti se viene eliminata o ridotta la massa dei consumatori salariati e stipendiati. Il racconto di questi signori si rivela dunque una semplice congettura, mentre il dato vero e drammatico è senz’altro rappresentato dalla mancanza di un adeguato protagonismo della sinistra. I passaggi violenti nell’evoluzione del sistema, quei salti che spostano le prospettive, che cambiano la pratica e la teoria, avrebbero dovuto vederla impegnata nel ricercare percorsi e soluzioni nuovi, ma così non è stato. La sinistra non si è pienamente resa conto che il patto economico e politico che stato alla base della nostra società sin dai temi del dopoguerra è ormai in pieno disfacimento, che quanto le generazioni odierne hanno ricevuto in eredità dai loro padri viene messo a dura prova e che si sta chiudendo un’epoca. C’era e continua a esserci la necessità di una moderna analisi del capitalismo, ma la sinistra ha cessato di studiarne l’evoluzione. Ha preferito accontentarsi di gestire il patrimonio analitico
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ereditato dai padri del socialismo, anziché sforzarsi di rinnovarlo; è spesso ricorsa alla semplificazione rinunciando alla spiegazione della complessità. E l’aver creduto di poter contrastare le nuove forme del lavoro che il capitale ha messo in atto con l’avvento del postfordismo riproponendo il vecchio armamentario di lotte e di rivendicazioni, si è rivelato un grave errore. E come ho cercato di dimostrare, appare impossibile contrastare il capitale limitandosi a contendergli la sola ridistribuzione del plusvalore, quando questi intensifica ed estende il suo potere appropriandosi dell’intelligenza collettiva. L’idea di socialismo inteso come sbocco naturale delle contraddizioni di universi sociali interamente dominati dalla produzione meccanizzata è decisamente illusoria e sbagliata. La speranza, coltivata da molti rivoluzionari, che la crisi finanziaria nella quale il mondo è precipitato a partire dal 2008 avrebbe segnato l’inizio di una riflessione critica sulla fede cieca nei mercati si è risultata vacua. Continuare a fare assegnamento sulla certezza che anche il capitalismo è destinato a morire, può consolare, ma non può costituire una risposta ai problemi: i tempi della sua dipartita, come ho già detto, sembrano ancora lontani. Così come continuare a credere che l’idea di progresso, ereditata dalla rivoluzione francese, al momento dello sviluppo delle scienze e dell’affermazione della modernità, secondo la quale gli uomini avanzano lentamente in una direzione definita e desiderabile fino a raggiungere uno stato di felicità, è illusorio. Il processo storico non è lineare; essendo suscettibile di un’infinità di variabili è estremamente complesso e non esiste alcuna assicurazione circa una continuità di miglioramento. Gli stessi Marx ed Engels hanno vissuto in modo drammatico la nozione di progresso, l’hanno assunta in termini problematici e hanno sostenuto che non c’è garanzia alcuna contro il decadimento della società. La storia poi ci insegna che in regime capitalistico ogni salto di qualità nelle condizioni di vita è necessariamente il prodotto di immensi sacrifici imposti alle classi subalterne. I grandi processi di industrializzazione, l’uso del vapore, del motore a combustione interna, dell’elettricità, hanno avuto bisogno di parecchi decenni per essere adattati ai processi produttivi e per avere effetti benefici su complesso della società. L’innovazione tecnologica ha portato indiscussi benefici, ma sempre dopo una fase di sconquassi. La cosiddetta “età dell’oro” è il frutto di due guerre mondiali. Ora stiamo vivendo un periodo di grandi trasformazioni la cui qualità e rapidità può certo restringere i temi e attenuare i disagi, di certo non li può eliminare. Con il postfordismo e la globalizzazione il capitale ha messo in campo innovazioni tali da costringere la sinistra a ripensare il concetto di socialismo e il modo di conseguirlo. La concezione del cambiamento elaborata dal marxismo otto-novecentesco è declinata e deve essere rielaborata. Nelle sue riflessioni sulla situazione in Germania, Engels denunciava come la borghesia di quel tempo “si era adagiata” nel vecchio sistema, cioè “stava al calduccio nel letame che la circondava”, sfruttando gli spazi per quel tanto che le circostanze permettevano. Si era in presenza di una classe nuova la quale mentre si lamentava della insostenibilità della situazione non mostrava l’avvertenza e la volontà di prendersi la responsabilità di cambiarla, anzi manifestava paura di farlo. Oggi, ad avere un comportamento analogo a quello della borghesia tedesca di quel tempo, è la sinistra la quale appunto rischia di essere essa stessa trascinata nel baratro. Nonostante ci si trovi in presenza del pericolo che l’intera società diventi amorfa, indifferente, che venga dominata dall’alienazione indotta dal capitale, essa non dà segni di avvedersene. Di fronte ai rischi e alle incerte prospettive che ci riserva il futuro e in contrapposizione alle suggestioni dei cultori del capitale, la sinistra deve avere il coraggio e la lucidità di mettere in campo le sue idee e dispiegare la sua forza. I tempi sono tutt’altro che esaltanti non solo per i ceti subalterni, ma per le stesse classi dominanti e questo è un motivo di maggior responsabilità e di maggior forza. Ai primi degli anni ’90, Bobbio ammoniva che “i tre grandi problemi sono: la diffusione delle armi atomiche, il progressivo inquinamento dell’ambiente, l’aumento vertiginoso della popolazione”. Da allora ad oggi i rischi non sono diminuiti, ma sono aumentati.
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Severino ci ha avvisati che rischiamo di trovarci di fronte all’apoteosi della tecnica quale soggetto in grado di dominare il pianeta. Addirittura ha premonito che a sconfiggere il capitalismo saranno proprio le nuove tecnologie. Gli si può anche non credere, ma non si può negare la linearità del suo ragionamento e la fondatezza del dubbio che manifesta. Oltre al crescere progressivo della potenza e dell’uso della tecnica, oggi siamo in presenza di una speculazione finanziaria che destabilizza l’economia e la società e i cui effetti perversi risultano ingestibili anche alle potenze mondiali. La politica e il diritto che fino a ieri hanno funzionato come riduttori dell’incertezza, ora hanno cessato di assicurare ordine e stabilità. Soprattutto, la differenza rispetto al passato è che le minacce all’umanità sono sempre più determinate dal comportamento degli uomini stessi i quali utilizzano le creazioni della loro mente collettiva per autodistruggersi. Povertà, disuguaglianze, egoismi, anomia, alienazione, droga, corruzione, catastrofi ecologiche, guerre: non sono le “dieci piaghe d’Egitto” volute da dio, ma opera dell’uomo. E non sempre abbiamo coscienza delle responsabilità umane. Ci stiamo, ad esempio, illudendo che una guerra nucleare è ormai da escludere, perché non risulterebbe conveniente alle superpotenze mondiali, mentre trascuriamo il fatto che non solo mai come oggi si è verificata una proliferazione e una varietà di armi micidiali da rendere incontrollabile la situazione e che le spese militari nel mondo sono in continuo aumento, ma che gli arsenali e i focolai di guerra non sono affatto diminuiti e quando si accendono diventa sempre più difficile domarli. Non dobbiamo dimenticare che gli illuministi hanno provato a sconfiggere il male con la ragione, ma non ci sono riusciti. La storia ci insegna che il male si alimenta della razionalità e con essa potenzia la sua azione. Basti ricordare che il culmine della modernità ha coinciso con l’Olocausto o che le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki sono state sganciate quando il Giappone era giù sconfitto, pertanto solo per ostentare potenza; e che sulle città tedesche, allorquando i nazisti erano già in rotta, sono state scaricate bombe solo perché “non andassero sprecate”, come autorevoli fonti americane hanno giustificato. La storia umana non si è mostrata sempre ragionevole e di questo occorre tenerne conto. Zygmunt Bauman recentemente ha confessato: “Penso che o ci sarà una guerra globale per la ridistribuzione oppure dobbiamo ribilanciare il rapporto tra potere e politica”. Non credo sia diventato pazzo, penso anzi che egli abbia colto uno dei dilemmi della nostra epoca. Un atteggiamento sconsiderato lo abbiamo anche a riguardo della crisi ambientale. Le Terra è ormai allo stremo, a testimoniarlo è l’intensificarsi su tutto il globo dell’alterazione climatica e dei danni provocati da questa. Gli scienziati ci avvertono da tempo dei rischi a cui andiamo incontro, ma sono sistematicamente inascoltati. L’agenzia Internazionale dell’Energia (Iea) nel novembre 2013 ha reso noto che sulla base degli attuali andamenti, la concentrazione di gas serra nell’atmosfera è destinata a salire da 444 parti per milione del 2010 a oltre 700 del 2100. Questa alterazione avrebbe come conseguenza l’innalzamento delle temperature medie del pianeta di 3,6 gradi. Oltre alle emissioni di gas da parte dei paesi dell’Occidente, che non diminuiscono, la Cina e l’India, nel 2035, avranno emissioni di Co2 doppie di quelle americane, mentre a metà degli anni ’20 l’India supererà l’Europa. Un rapporto dell’Onu ha stimato che tra il 2000 e il 2010 la media delle emissioni globali è aumentata di un miliardo di tonnellate all’anno. Il disastro è vicino, ma la dissennata sfida dell’uomo alla natura continua imperterrita. Come se non bastasse, c’è anche il pericolo che scoppi la bomba demografica. Le Nazioni Unite hanno stimato che nel 2100 sulla Terra ci saranno 11 miliardi di persone. La Fao ha calcolato che per dar da mangiare a 9 miliardi di persone nel 2050 ci sarà bisogno del 60% di cibo in più di quello di cui disponiamo oggi. Attualmente, la superficie della Terra destinata alla coltivazione è pari al 13% del totale. A fronte di una superficie coltivata cresciuta del 30% nel secolo scorso, la produzione agricola complessiva è aumentata del 600%, ma per raggiungere un tale risultato è stato necessario l’impiego di un’immensa quantità di energia: globalmente oggi se ne brucia una quantità 8 mila volte superiore a quella che occorreva cento anni fa. Come si possa estendere l’area 499
coltivabile in presenza dell’intensificarsi dei fenomeni di desertificazione e di inondazione e come possa essere accresciuto in quantità necessaria lo stock energetico, sono problemi al momento irrisolvibili. A tutto questo è da aggiungere l’instabilità politica e lo scollamento tra governanti e governati. Ovunque cresce il disimpegno e la rabbia popolare si fa più veemente rischiando di tradursi in rivolte ingovernabili. Per avere un’idea del rischio che si sta correndo si pensi alla situazione europea. A fronte della necessità di conseguire un’unità effettiva e di poter contare su di un governo politico rappresentativo dei popoli, il vecchio continente è investito da un’ondata di populismo e di egoismi che fa spavento. La recente tornata elettorale ce ne ha dato un’eloquente testimonianza. A contrastare le storiche formazioni politiche oggi ci provano l’United Kingdom Indipendence Party, il Fronte Nazionale francese, il Partito della libertà austriaco, lo Jobbik ungherese, i Veri finlandesi, i Demokraten svedesi, il Partito della libertà olandese, il Vlaams belga, il Partito del popolo danese, il Movimento 5 stelle e la Lega Nord italiani. Il rischio di disgregazione è altissimo. La tendenza che è in atto non solo in Europa, ma in molte parti del mondo, è quella che porta a un totalitarismo di tipo nuovo il quale aggredisce la democrazia a tutti i livelli, massifica le coscienze, disgrega la vita associata, deforma bisogni e comportamenti, subordina la stessa cultura alla logica monetaria. Gli individui sono sempre più sotto gli occhi del potere non per essere protetti e garantiti, ma per essere uniformati e irreggimentati nel sistema. Ieri a essere paragonata al “1984” di Orwel era l’Unione sovietica, oggi, oggetto del “grande fratello” siamo noi figli del capitalismo. E questo genera rabbia e rivolte. I sentimenti di sfiducia e d’insicurezza stanno ormai assumendo un carattere strutturale e danno luogo a istanze autoritarie. Più che dalle velleità di un singolo, il vero pericolo viene dallo stesso modello sociale, attraverso l’impiego delle tecniche più sofisticate per plagiare e assoggettare gli individui. L’ostilità verso l’intervento statale e la voglia matta di privatizzazioni riportano in auge un liberismo economico che, da oltre un secolo e mezzo, il movimento operaio e lo Stato sociale hanno teso ad arginare. Siamo giunti al punto che a invocare un nuovo modello sociale sono gli stessi capitalisti i quali, di fronte all’alterazione del meccanismo che li ha sin qui alimentati, si rendono conto che il loro sistema non è affatto una legge naturale eterna. E’ la storia a insegnarci che quando viene meno la fiducia in se stessi, quando le istituzioni rappresentative subiscono il dileggio generale, si è giunti alla vigilia della guerra di tutti contro tutti; e che le epoche di disordine, di sfacelo sociale portano inevitabilmente alla comparsa di mostri. L’umanità lo ha sperimentato con la caduta dell’impero romano e poi nel periodo compreso tra le due guerre mondiali; ha conosciuto i disastri provocati dall’offuscamento della democrazia e dagli egoismi nazionali. Questi pericoli che ci spingono sull’orlo del baratro, sono il prodotto anzitutto di una crisi acuta di cultura. L’aspetto più grave è che nella classe dirigente mancano visioni di lungo respiro. Ecco perché c’è bisogno urgente di un’alternativa! Eppure, anche a sinistra, c’è chi considera l’alternativa al capitalismo un obiettivo non perentorio, non fattibile. Sono in molti a pensarla come Severino il quale la giudica un falso problema, poiché “il ‘sistema della potenza’”, cioè “l’apparato tecnologico guidato dalla scienza moderna… diventa più potente della propria forma capitalistica…(e) spinge al tramonto entrambi i protagonisti dell’alternativa”. O come Massimo Cacciari che giudica una presunzione il proposito dei comunisti di abolire lo stato di cose presente e pensa che il comunismo non sia affatto l’unico modo di essere alternativi al capitalismo. Si tratta di posizioni che appartengono a visioni del mondo e dei rapporti umani differenti da chi ha a cuore anzitutto la solidarietà e la giustizia sociale. Non condividendo simili giudizi, resto convinto che all’inevitabile crisi del capitalismo debba essere contrapposto un progetto di cambiamento la cui ideazione e gestione coinvolga non solo le forze politiche e sociali anticapitalistiche, ma la stragrande maggioranza della società civile la 500
quale, prima che la crisi esploda gettando l’intera società nel caos, deve essere aiutata a comprendere che qualsiasi soluzione passa necessariamente attraverso il protagonismo sociale e non tramite la delega. Sono altresì convinto che una tale operazione, da molti giudicata utopica, sia oggi più praticabile che nel passato, giacché solo il capitalismo completamente globalizzato genera le condizioni oggettive per un radicale cambiamento. E a chi insiste nel sostenere che le idee e i propositi socialisti e comunisti sono ormai morti e sepolti, rispondo che se tali progetti vogliono dire – come pensava Marx – uso dell’intelligenza umana per soddisfare i bisogni umani, essi rappresentano l’unica possibilità di salvezza dal baratro e non tramonteranno mai finché sulla Terra ci sarà vita umana. A mio giudizio ha poca importanza se la società del futuro verrà o meno identificata con il socialismo o con il comunismo. Ciò che conta è la sostanza del cambiamento, è cioè la riappropriazione da parte di tutti gli uomini delle loro capacità insieme alla consapevolezza e alla volontà di cessare di essere degli oggetti e diventare invece padroni indiscussi del proprio presente e del proprio futuro. Più che dei termini da attribuire a una simile operazione mi interessa ragionare e confrontarmi con il “quando” e il “come” ci si propone di realizzare una tale alternativa. Come Marx e la storia ci insegnano, il capitalismo non è eterno e da quel che si può desumere dai più recenti eventi, le sue crisi si susseguono sempre più frequentemente e sono sempre più violente. Alla sinistra conviene perciò far presto nel mettere in campo nuove idee di sviluppo e di progresso. Sono le condizioni oggettive a indurla a rompere con la cultura del capitale e dare vita a un protagonismo di massa tale da sostituire gradualmente la delega rappresentativa e dare corso a uno sviluppo dell’autogoverno. Per far questo occorre, però, definire preventivamente una teoria critica del capitalismo maturo, vale a dire rifare oggi quello che gli economisti classici e Marx hanno fatto ai loro tempi. Occorre aver coraggio e tener presente che l’umanità ha pagato caro ogni volta che ha reagito non preventivamente, ma solo dopo aver subito i danni, pagati peraltro sempre dagli strati sociali più deboli e indifesi. E occorre altresì non perdere mai la memoria storica, giacché ogni innovazione è anche frutto degli errori commessi. Alla fine degli anni ’70, Hobsbawm ebbe ad ammonire: “Se i comunisti non si assumeranno la difesa del popolo, nessun altro lo farà, benché altri possano vincere promettendo di farlo”. La sua profezia ha trovato riscontro nella storia e il suo ammonimento deve farci meditare.
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Capitolo 16°
Le condizioni per l’alternativa al capitalismo 16.1 – Bazar delle strategie e problema dell’unità della sinistra A riguardo delle strategie di un’alternativa al sistema capitalistico, oggi si percepisce una grande confusione sotto il cielo. In questi anni, nello schieramento politico che va dalla socialdemocrazia alla sinistra radicale l’interesse a dibattere sulla prospettiva socialista è di molto scemato e si sono venute formando posizioni e proposizioni che non solo sono profondamente disomogenee, ma addirittura contraddittorie e inconciliabili. Si va da chi ha rinunciato alla prospettiva stessa di un cambiamento in senso socialista della società, e s’accontenta di perseguire l’obiettivo di una generica società democratica, a chi ha teorizzato una “terza via” imprecisata nei contenuti, a chi ancora è rimasto testardamente legato alla tradizione rifiutando di compiere una riflessione critica, e a chi, infine, ha ridotto il socialismo a un concetto metafisico. Poiché il descrivere il panorama delle opzioni della sinistra odierna (comprese quelle forze politiche che continuano a dichiararsi appartenenti all’area solo per opportunità elettorale) è impresa immane e necessiterebbe di un’ampia trattazione, nell’esclusivo intento di evidenziare la varietà e complessità delle posizioni in campo, mi limito a qualche cenno schematizzando al massimo. All’indomani della soppressione dell’Urss gli ambienti progressisti e di sinistra sono stati investiti da un disarmante senso di sfiducia nella possibilità di superare la dèbacle. “Il socialismo è morto”, ha scritto Alain Touraine. “Non sono sicuro che la sinistra sia stata assassinata. Meglio dire che si è suicidata… La discussione su socialismo e capitalismo non corrisponde più veramente al mondo di oggi, non è più pertinente. Le due parole spariscono insieme perché fanno copia”. A mettere fuori gioco la sinistra, a suo dire, sarebbe il fatto che “il mondo degli oggetti e il mondo dei soggetti si sono separati. .. Non esiste più la storia economico-sociale. La storia sociale non è più economica, la storia economica non è più sociale. La storia economica è diventata internazionale… Il mondo della produzione, quello del consumo e quello della cultura sono completamente estranei l’uno all’altro… Si tratta di centrare il dibattito politico sull’unica cosa che lega soggettività e oggettività: le nuove industrie, quelle della cultura, cioè la scuola, l’ospedale, la televisione… La sinistra si deve riformare parlando non più di ‘giustizia sociale’, come nel XIX secolo, ma di etica, rispetto della persona umana, cura dello sviluppo personale e collettivo, i diritti delle minoranze”. “Occorre ripartire dai diritti e dalla loro difesa: libertà, uguaglianza e diritto alla dignità”. Nei primi anni ’90, Giuseppe Tamburano ha sostenuto che “ad un secolo dalla sua nascita nel programma massimo del socialismo italiano non si riconosce più nessuno, non appartiene più a nessuno o a pochi sognatori. Ora c’è l’ecologismo, il solidarismo, il terzomondismo, che appartengono ad altre culture. Il socialismo non ha tratto alcun vantaggio dalla fine del comunismo né in Oriente né in Occidente. Il socialismo agonizza non per un crollo, ma per consunzione”. Il filosofo Remo Bodei ha concluso una sua riflessione sullo stato dello schieramento dicendo: “Noi di sinistra siamo stati dentro una cultura politica e una visione del mondo che, teoricamente, fa acqua da tutte le parti”. Persino un comunista doc come Aldo Schiavone, che già qualche anno prima aveva messo in discussione la teoria del valore-lavoro e dello sfruttamento di Marx, ha esternato il suo smarrimento con il seguente epitaffio: “L’eguaglianza come meta finale del ‘comunismo’, come azzeramento forzato, volontaristico, delle differenze sociali, e come costruzione di un meccanismo economico che avrebbe dovuto essere in grado di produrre ricchezza immediatamente ripartibile in modo uniforme fra i cittadini, si è rivelata un’ipotesi assolutamente impraticabile, che non può essere oggetto di alcuna ripresa”. In questi anni il convincimento che il vecchio modello socialista abbia dato tutto quello che poteva dare e che sia il caso di abbandonarlo definitivamente, non solo è dilagato ovunque, ma ha indotto gli stessi pensatori progressisti ad affermare che “l’idea di una teoria che va messa in pratica è 502
assurda, infantile. Spesso pericolosa. La pratica è sempre una cosa diversa dalla teoria: volerla dominare con la teoria è come strangolarla” (Alfonso Berardinelli). Il crollo del socialismo reale ha indotto molti a credere che “nessuna nuova etica, nessuna nuova immagine dell’uomo è all’orizzonte” (Tzvetan Todorov, filologo bulgaro). Sfiduciati e delusi parecchi di questi personaggi si sono liberati del vincolo della sinistra e quelli che hanno continuato a militarvi hanno assunto posizioni socialdemocratiche o liberal-democratiche. A fare da contrappeso a questi sperduti compagni sono rimasti i nostalgici, coloro cioè che hanno preferito rimanere in trincea e che forse anche per reazione si sono rifiutati di prendere atto fino in fondo dei mutamenti intervenuti e delle responsabilità che per quel che è accaduto ricadono sulla stessa sinistra. Alcuni di questi non intendono, infatti, riconoscere gli errori commessi, rimangono intimamente “stalinisti”, si consolano rendendo grazie ai bolscevichi per aver tentato di costruire il socialismo, minimizzando la realtà dei gulag e ignorando le scelte sbagliate. Altri considerano positiva l’esperienza sovietica e la esaltano come via capace di conseguire una rapida accumulazione alternativa a quella capitalista. Altri ancora ripongono le loro aspettative nell’esperienza in corso in Cina o nel rinnovamento della repubblica socialista di Cuba. Ad accomunare gli esponenti di questa area è il convincimento che una continuità tra capitalismo e socialismo è impossibile e che gli unici mezzi per conseguire il cambiamento sono o l’implosione stessa del sistema, in forza delle sue insanabili contraddizioni, oppure una rottura drastica, violenta del genere di quelle che hanno consentito l’affermazione del socialismo reale nell’Est europeo e in ogni dove esso si è affermato. Considerano cioè errata la concezione di una rivoluzione per tappe. Alla schiera degli apostati e dei nostalgici si contrappone quella molto più numerosa e variegata di coloro che hanno preso atto della sconfitta, anche se la più parte non si è curata di indagare a fondo le cause che l’hanno determinata, e sono impegnati a fare i conti con le novità della situazione. Tra questi ci sono i neo-riformatori e gli alternativisti. Con la crisi del socialismo reale si è infoltita la schiera di coloro che, in sintonia con le tesi di Schumpeter, sono convinti che una struttura istituzionale in grado di controllare i mezzi di produzione e la produzione stessa non può che essere il prodotto dello sviluppo stesso del capitalismo. E che un tale processo si manifesta attraverso una graduale spersonalizzazione della proprietà e della sua gestione la quale è destinata a spianare il terreno alla trasformazione della proprietà privata dei mezzi di produzione in proprietà pubblica. Secondo questa parte dei nuovi riformatori il socialismo continua ad avere ancora senso, poiché corrisponde alle esigenze del nostro tempo, ed è da interpretarsi come spontanea maturazione del regime capitalistico. Le lotte da condurre devono pertanto essere parziali, non destabilizzanti i poteri costituiti, e la sinistra deve essere disponibile ai compromessi qualunque sia il prezzo da pagare. Uno dei rappresentanti di questa compagine, il sociologo laburista inglese, autore di “Terza via”, Anthony Giddens, ha così sintetizzato l’idea di strategia alternativa che trova largo consenso a livello internazionale: “Il solo modo per arrivare a una società che sia competitiva in un mercato globale in cui ci sia solidarietà e un grado ragionevole di apertura e uguaglianza, sono le riforme”. A giudizio di Jacques Bidet, “occorre abbandonare l’idea del ‘piano comune’ come forma di cooperazione in ogni caso superiore” e sperimentare invece “forme alte di equilibrio tra piano e mercato”. Michele Salvati ritiene che “forse una soluzione politica (…democratica?) non è impossibile per l’addomesticamento del capitalismo. Per trent’anni, dopo la guerra, ci si è riusciti. Perché non ora?”: Ad altri appare più opportuno perseguire l’obiettivo del “non più Stato o più mercato, ma (del) meno Stato e meno mercato”. Nell’ottica di chi abbraccia questa dottrina, il compito dei progressisti sarebbe soprattutto quello di difendere gli istituti dello Stato sociale cercando una nuova combinazione tra pubblico e privato al fine di riformare l’economia e puntare su una distribuzione più equa del reddito. Sembra che questi riformisti non intendano prendere atto che il capitalismo si serve non solo della scienza e della tecnica, ma anche della politica per realizzare il suo processo di accumulazione.
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C’è poi chi s’illude di poter cambiare il sistema eliminando i capitalisti mantenendo però in essere il capitale. E non mancano neppure coloro che pensano debba essere eliminato il primato dell’uguaglianza e rivalutato l’individualismo, e per questo sostengono che “una politica di sinistra, nelle condizioni attuali, è una politica che assume direttamente dentro di sé, come criterio di orientamento e di guida – pur nella parzialità dei suoi obiettivi programmatici – i fini di un’etica della valorizzazione ‘comunitaria’ e diseguale delle individualità, e si pone responsabilmente il problema delle relazioni ottimali fra sviluppo dell’emancipazione e incremento della crescita tecnologica e produttiva, e della sua diffusione attraverso le merci e il mercato… Emancipati e diseguali è una parola d’ordine ragionevole, con cui sostituire il vecchio e prezioso, ma ormai tramontato, senso critico di massa indotto dalla diffusione del marxismo” (Aldo Schiavone). In sostanza, per la gran parte dei moderni riformisti l’uscire dai vecchi schemi comporta necessariamente rinunciare ai capisaldi del patrimonio teorico del movimento operaio d’ispirazione socialista e comunista e percorrere nuove varianti della tradizione socialdemocratica. Tra coloro invece che si propongono di andare oltre le esperienze storiche della sinistra, sia del sovietismo che della socialdemocrazia, sono da annoverare i fautori delle alternative cosiddette postmoderne le quali fondano su una pluralità di soggetti e su nuove discriminanti strategiche. C’è chi sostiene che l’emancipazione dell’umanità non può essere opera di un’unica classe, chi ritiene che l’abolizione della proprietà privata non debba più essere considerata una condizione del cambiamento, chi propone una “rivoluzione verde” fondata sui fattori ambientali. C’è poi chi punta sulla rivolta fiscale o su quella dei consumatori (Ulrich Beck), chi teorizza la rinuncia alle lotte collettive a favore di un nuovo individualismo sociale, chi punta sull’introduzione di un reddito minimo garantito sufficiente per vivere, chi intravede la soluzione dei problemi nella democrazia telematica e predica il “socialismo digitale” (Yochai Benkler), chi invoca un’imposta mondiale sul capitale per risolvere i problemi delle disuguaglianze e della crisi del welfare, chi prospetta un neocolletivismo dell’“economia della condivisione” (la rivista americana Wired). chi propone una controglobalizzazione. Il sociologo irlandese John Holloway prospetta la rivoluzione come “un processo interstiziale”, cioè “il frutto della trasformazione quasi invisibile delle attività quotidiane di milioni di persone”, che con i loro “rifiuti nei confronti del sistema” aprono crepe man mano sempre più profonde nella “coltre di ghiaccio” del capitalismo, fino a determinarne il collasso. Non si tratta di distruggere l’ordine borghese, quanto di rifiutare ogni cooperazione al suo funzionamento. Di recente, un gruppo di intellettuali francesi progressisti-moderati, tra cui Caillé, Morin, Latouche, ha lanciato il Manifesto convivialista che si propone l’alternativa all’utilitarismo privilegiando le economie solidali e la difesa dei diritti dell’uomo, della donna e dei lavoratori. Facebook ha addirittura riproposto in chiave moderna e non certo sovversiva, le esperienze utopistiche ottocentesche mettendo in capo un progetto di “città ideale”, garantendo ai suoi dipendenti case, bus, servizi, e altri privilegi. Insomma, nel panorama mondiale progressista e di sinistra ce n’è per tutti i gusti. Sono poi da mettere in conto anche le strategie suggerite da quei compagni e gruppi che si sono proposti la rifondazione del comunismo. Sulla scorta di una lettura critica della recente storia della sinistra italiana, alcuni di loro, tra cui Lucio Magri (nel suo “Il sarto di Ulm”), ritengono che occorre ritornare a navigare in mare aperto inclinando a sinistra l’asse della politica, delle alleanze sociali, della cultura, delle relazioni internazionali. Altri, come Marco Rizzo, segretario del nuovo Partito comunista, propongono la nazionalizzazione e l’esproprio delle banche e delle grandi aziende per affidarle alla gestione dei lavoratori. Alberto Bugio ritiene indispensabile “andare oltre” Marx e Lenin. “Il capitalismo – scrive – è una forma della modernità, che non appartiene al capitale, che racchiude in sé generali potenzialità emancipatorie, che va conquistata, liberata dal dominio particolaristico delle classi dominanti e restituita all’intera collettività che la costruita nel corso del tempo con il proprio lavoro. A partire da qui soltanto si può rilanciare una cultura e, forse, una pratica di conflitto”. Ho voluto fare questa rapida e sommaria panoramica per evidenziare le difficoltà oggettive che un qualsiasi progetto di unificazione dello schieramento delle forze di sinistra e progressiste è destinato 504
a incontrare e come la determinazione di una linea comune d’azione rappresenti un’operazione estremamente complessa. Una delle ragioni per cui il capitalismo ha potuto riprodursi in continuazione e gestire al meglio le sue contraddizioni è rappresentata proprio dalla mancanza di unità tra le forze dell’alternativa. La divisione dei partiti della sinistra è, infatti, la croce e delizia non solo della storia del nostro Paese, ma del proletariato di tutto il mondo. Se si vuole costruire un’alternativa al capitalismo, una delle condizioni è senz’altro quella di porre fine ai conflitti politici intestini al movimento, facendo assumere alle differenze di indirizzo una valenza positiva. Si tratta di un compito estremamente difficile e complesso, ma che a me appare imprescindibile. 16.2 – Necessità di un nuovo progetto rivoluzionario La sinistra del mondo occidentale ha vissuto le fasi dello sviluppo capitalistico quali il taylorismofordismo, il keynesismo, l’età dell’oro, il postfordismo come “rivoluzioni passive” e oggi sta vivendo la globalizzazione in un identico stato di subalternità. Credo sia venuto il tempo di prendere atto di tali negative esperienze storiche e di abbandonare definitivamente sia l’idea che il capitalismo può riformare se stesso al punto di eliminare le sue contraddizioni, sia il convincimento secondo cui esso si troverebbe in un vicolo cieco e prossimo alla fine. I disastri sociali dovuti all’evoluzione del suo sistema, da un lato, e la capacità di rigenerarsi continuamente, dall’altro, sono lì a dimostrare che non ci si deve più affidare alla spontaneità dei processi, ma occorre adoperarsi per scongiurare i rischi di una barbarie. Essere convinti di questo significa mettere in campo strategie nuove, all’altezza dei tempi, e dare vita a un protagonismo di massa diverso da quello del passato. La politica è chiamata ad affrontare un quadro profondamente diverso da quello passato. La natura imperialistica del capitale non è di certo mutata, sono però mutati i meccanismi di accumulazione, quegli aspetti caratteristici che Lenin aveva individuato hanno subito profonde modificazioni: i monopoli, i cartelli, i trust sono diventati delle megastrutture. Oggi l’imperialismo non è più organizzato sulla base dello Stato nazionale, ma su assetti economici, finanziari e valutari su cui si coordinano vari Stati. Guai a non prendere atto di queste trasformazioni e a non tener conto che il processo di globalizzazione è irreversibile! E non aggiornare le strategie di lotta, non avvertire che i modi del cambiamento devono essere ripensati, significa essere perdenti. Lo schema marxiano non basta più a interpretare la società odierna, da esso si possono e si devono ricavare suggerimenti per proposizioni che devono essere elaborate alla luce delle novità storiche. Deve chiedersi a che punto è oggi la contraddizione esistente tra le forze produttive e i rapporti di produzione; deve saper individuare qual è il punto e il momento probabili in cui la concentrazione della ricchezza e dei mezzi di produzione è destinata a diventare incompatibile con le esigenze di vita primarie dell’umanità e con la socializzazione del lavoro. La sinistra non ha mai affrontato sul serio la conversione dell’ideale nel reale e non sempre ha fatto bene il calcolo dei mezzi necessari per dare corpo all’alternativa. La sua crisi, del resto, riguarda prima ancora che l’operatività politica, il modello di società che si propone di costruire. Non ha sempre tenuto in debito conto il principio marxiano secondo cui combattere il capitalismo non significa negare tutto quanto esiste nel suo sistema sociale: vanno negati i suoi rapporti di produzione, mentre vanno messi a frutto gli aspetti positivi della sua tecnica produttiva. Alla luce dell’eserienza storica devono essere evitati due rischi, precisamente quello di abbandonare le grandi idee, perché ogni qualvolta che ciò è stato fatto la sinistra è precipitata in una crisi di identità e ha perduto forza e consensi; e quello di non sopravanzare di molto il presente con i progetti, perché si corre il pericolo di essere condannati a rimanere impotenti e a interpretare la parte dei parolai. Dobbiamo invece saper trarre insegnamento dalle esperienze passate e farne tesoro non ripetendo gli errori compiuti dai nostri padri. 505
Le strategie dei socialdemocratici, ad esempio, attraverso le lotte per un più alto salario e per lo Stato sociale, hanno indubbiamente migliorato la condizione di vita delle classi subalterne, ma non hanno scalfito il potere del capitale; hanno certamente conteso al sistema una quota di valore d’uso, ma non hanno affatto intaccato i meccanismi del valore di scambio. Essendo un modo particolare di gestione del pluralismo liberale, le socialdemocrazie hanno consentito invece che la classe operaia venisse frantumata in segmenti egoistici, ciascuno teso a perseguire i propri interessi, consentendo al capitale di rendere più pesante ed esteso il ricatto nei confronti del movimento dei lavoratori. Se oggi, di fronte alla crisi finanziaria mondiale, l’intero mondo della socialdemocrazia si presenta privo di linee di movimento e vive un grave stato di smarrimento e d’impotenza, è proprio anche perché non ha saputo guardare e andare oltre gli orizzonti del capitalismo. Anche laddove però ci si proponeva di andare oltre quel sistema, la società socialista è rimasta un’utopia. Il sovvertimento violento della dittatura del capitale si è tradotto nella dittatura di una nomenclatura politica che anziché favorire il protagonismo sociale ha soffocato con la forza la democrazia e la libertà. Se la sinistra intende rispettare le sue originarie ambizioni di cambiamento, deve necessariamente interrogarsi su questi fallimenti e, alla luce dell’evoluzione dei tempi, deve riproporsi come soggetto trasformatore e dare risposte chiare ad antichi quesiti del tipo: è possibile oggi conseguire il potere senza essere costretti a ricorrere alla violenza? E quali devono essere i modi e i tempi di una transizione? La storia insegna che i profondi rivolgimenti progressivi, per affermarsi, hanno quasi sempre conosciuto violenze e quindi una fase di tipo dittatoriale, in cui la classe che si affacciava al potere, per affermare la propria funzione liberatrice, doveva ricorrere alla limitazione delle libertà delle forze sociali e politiche antagoniste e, in certi casi, anche al terrore aperto. Le rivoluzioni contro ogni tirannia e ogni potere conservatore hanno sempre comportato non solo conflitti armati, ma anche dottrine e norme destinate a sopprimere o subordinare in modo autoritario le classi sociali sconfitte. Questo è valso prima ancora che per la Francia di Robespierre e la Russia di Lenin, per l’Inghilterra di Cromwel e per la stessa rivoluzione americana. Questa realtà storica ci permette di chiarire che la dittatura rivoluzionaria non è affatto un’invenzione della classe operaia o del marxismo come qualcuno vuol far credere. Ora si tratta di stabilire se nell’epoca della globalizzazione è possibile percorrere una strada che assicuri il progresso dell’umanità senza che alla resistenza delle classi conservatrici venga contrapposta la violenza di quelle progressiste. Gran parte dei pensatori marxisti hanno dato per scontato l’inevitabilità di uno scontro violento per il potere, una minoranza ha invece prospettato una sua conquista graduale e democratica. Per citare due casi emblematici, Rosa Luxemburg ha sostenuto che “La conquista del potere non dovrebbe avvenire in una sola volta, ma progressivamente, quando ci introdurremo nello Stato borghese, fino ad impossessarci di tutte le posizioni per difenderle con le unghie e con i denti”; mentre Antonio Gramsci ha teorizzato l’occupazione delle “casematte” del sistema e la conquista delle coscienze attraverso una riforma morale e intellettuale. Ambedue all’uso della violenza hanno preferito il ricorso all’intelligenza, anche se entrambi sono periti sotto la scure del carnefice. Nessuno oggi è in grado di prevedere se i possidenti si lasceranno spogliare dei loro averi e privilegi senza ricorrere all’uso della forza. Ciò che è avvenuto oltre vent’anni fa in Russia e alcune delle recenti rivolte nei Paesi del nord Africa ci dicono che in certe situazioni le rivoluzioni possono assumere carattere non violento e fanno sperare in una svolta della storia. Quel che è certo è che nell’era nucleare uno scontro armato tra le classi rischierebbe di porre fine all’esistenza umana. La stessa esclusione di un ricorso alla violenza di entrambi gli schieramenti d’altra parte non può far dimenticare quel che Marx ha sottolineato in proposito, e che la storia ha confermato, cioè l’insuperabilità dei contrasti e dei conflitti sociali i quali – a dire dell’autore de “Il capitale” – sono destinati a sopravvivere persino in regime comunista. La sinistra odierna, nella sua quasi totalità, ha proclamato di prediligere la pace alla guerra, il dialogo allo scontro, ma questo suo lodevole proposito non può considerarsi altro che una speranza, 506
giacché un simile obiettivo esige uno stato di equilibrio che non dipende da una sola componente sociale e, soprattutto, non è conseguibile una volta per tutte, ma deve essere consolidato giorno per giorno. Ecco dunque un primo motivo per uscire dai vecchi schemi e ricercare con coraggio nuovi percorsi! A dubitare o ritenere difficile l’impresa di costruire il socialismo nell’epoca della globalizzazione sono in molti. Ebbene, a costoro si deve necessariamente rendere chiaro il modello di società che ci si propone, e anche questo aspetto comporta per la sinistra lo scioglimento di molti nodi. Tanto per ricordarne alcuni, un nuovo ordine sociale non può che essere il frutto di una frammentazionericomposizione dell’eredità del capitalismo, ovviamente in una logica diversa e con protagonisti impegnati a modificare se stessi, cioè i propri ruoli, le proprie abitudini, i propri interessi, la propria cultura. E questo significa tolleranza e insieme grande determinazione nella propria azione. E’ poi indispensabile porre fine alla demonizzazione del revisionismo, quale residua viziosa abitudine di una parte non marginale della sinistra. Non va dimenticato che uno dei grandi revisionisti della teoria marxiana è stato proprio Lenin il quale ha maturato una visione differente del processo rivoluzionario. Come ho già argomentato, se si vuole perseguire il cambiamento, oggi è indispensabile riconsiderare e reinterpretare il patrimonio teorico che abbiamo ereditato dai padri del socialismo scientifico. La teoria politica deve essere riformulata secondo nuove linee e deve anche assumere un nuovo linguaggio. Ci si deve convincere che la costruzione di un nuovo sistema sociale non può che comportare continue sperimentazioni e che il suo successo è necessariamente il prodotto di errori, di sconfitte, di arretramenti, di ripensamenti e di aggiustamenti. Considero pertanto imperdonabili lo scarso interesse della sinistra per la ricerca, per la critica e l’autocritica, e la mancanza di coraggio nel cimentarsi con il “nuovo” facendo proprie le sfide del tempo. Siamo in presenza di cambiamenti epocali che vanno interpretati con categorie nuove. Se fino a ieri il capitalismo era impegnato a produrre soprattutto “cose”, oggi produce anche immagini e pensiero. Beni immateriali come l’educazione, la salute, il tempo libero, le attività culturali sono sempre più sottoposte alla sua ferrea logica. Se ieri il capitalista singolo tratteneva per sé l’intero plusvalore, oggi una quota sempre maggiore di quanto prelevato dal lavoro, è destinata allo Stato il cui ruolo è quello di capitalista collettivo. Tutto questo complica le cose ed esige capacità di lettura dei processi in atto e intelligenza nell’azione. La conflittualità sociale non è più frontale tra due classi e non è più modellata sulla produzione delle merci materiali. L’antagonismo non è più unico, ma attraversa disgregandola l’intera società la quale è sempre meno portatrice di valori universali e sempre più espressione di interessi particolari e locali. A ricorrere allo sciopero ieri era esclusivamente la classe operaia, oggi vi ricorrono anche i ceti parassitari. La classe operaia ha cessato di essere l’unico pilastro della produzione di ricchezza e quindi non svolge più il ruolo di soggetto centrale di un progetto antagonista. Il proletariato odierno è identificabile non più solo in una categoria specifica di lavoratori, ma in tutti coloro che sono sfruttati e soggetti al dominio capitalistico. Perciò, il soggetto referente del cambiamento non può che essere costituito da una varietà di soggetti e questo comporta una visione politica e strategica diversa e superiore a quella tradizionale. Per tutte queste ragioni e per altre ancora il modello della rivoluzione giacobina non può più essere riproposto, occorre appunto elaborarne uno nuovo. Questo mutamento di prospettiva l’aveva già colto Gramsci, ma in pochi hanno tratto insegnamento dalle sue riflessioni. Purtroppo, di fronte a queste novità epocali, la sinistra ha dimostrato una difficoltà di comprensione causata anche da un’inadeguatezza analitica e culturale. Non ha colto cioè prontamente lo sviluppo delle scienze e la loro applicazione e ha vissuto passivamente l’esplosione mass-mediale. C’è chi attribuisce questo ritardo alla tradizione del marxismo della 3a Internazionale che ha fatto leva sul cambiamento della struttura economica trascurando gli aspetti cultuali; chi lo imputa a una sottovalutazione del ruolo della tecnologia moderna e chi ancora al fatto che la nostra cultura continua a essere “capitalisticocentrica”. 507
E’ mia opinione che uno dei motivi principali delle difficoltà di comprensione e di azione della sinistra sia da ricercarsi nell’abbandono o quanto meno nella carenza dell’interesse verso l’analisi e la ricerca socio-economica e di conseguenza in un difetto di teoria politica e in un deficit di grandi idee. Più che alle strategie di cambiamento e di sviluppo, l’attenzione sia delle dirigenze che della base è rivolta alle dinamiche elettorali e allo studio dei problemi sociali vengono preferiti il sondaggio di opinioni e le tattiche competitive. Con il rifiuto delle “vecchie ideologie” negli stessi partiti della sinistra è venuta emergendo un’allergia alla teoria che fa poco ben sperare in una visione lungimirante dell’agire politico. A prevalere non è la progettualità, ma il pragmatismo, la filosofia del “fare” a ui il sistema ci ha abituati, e la lotta politica più che sulle grandi opzioni si sviluppa sul terreno dell’occupazione dei posti di comando e dell’intrigo a corte. Questa “visione corta” del mondo fa lega con l’esasperante lentezza della politica rispetto all’operare svelto delle dirigenze industriali e finanziarie per le quali un fattore decisivo per il conseguimento del profitto è il tempo. E sì che l’esperienza ci insegna che la sinistra è destinata sempre a fallire allorquando non si dimostra in grado di cogliere i processi in atto e di offrire soluzioni strategiche adeguate ai problemi che la situazione pone! Per uscire dalla condizione di stallo in cui ci si ritrova oggi occorre dunque che la sinistra vada oltre le esperienze passate che hanno storicamente strutturato sia la sua azione che il suo pensiero e abbia il coraggio di affrontare percorsi inesplorati. Ne “L’ideologia tedesca” Marx ed Engels hanno sostenuto che il comunismo è moderno oppure non è. Alla medesima conclusione è giunto anche Antonio Gramsci. Chi continua a credere nel cambiamento non dovrebbe mai scordare simili autorevoli asserzioni. 16.3 – La natura complessa della transizione Buona parte dei militanti di sinistra della mia generazione e di quelle che l’hanno preceduta sono cresciuti con il convincimento che la rivoluzione è un processo soprattutto politico diretto da un’avanguardia. Eppure Marx ce l’ha prospettata come processo soprattutto sociale e Gramsci, più di altri, ha insistito sulla necessità di far ricorso al protagonismo sociale e all’intelligenza collettiva se si vuole dare corpo a una nuova società. La tragica esperienza del socialismo reale, d’altra parte, testimonia in maniera eloquente che per assicurare l’emancipazione dell’umanità, la delega a un’avanguardia non è affatto la ricetta giusta. La rivoluzione socialista deve necessariamente tornare a essere concepita come processo sociale e un moderno progetto di cambiamento non può che fondare sul protagonismo a tutto campo della società civile. Per mantenere fede ai propositi e per reggere ai contraccolpi dei cultori della conservazione, la rivoluzione deve essere un atto cosciente di larga parte della società e deve poter contare sull’apporto creativo e critico dei suoi artefici. Se, come è stato per il passato, è il prodotto di una irreggimentazione attuata sul semplice moto di protesta e sulla cieca fedeltà a un’idea o a un leader, essa è inevitabilmente destinata a fallire. Le rivoluzioni delegate alle avanguardie si sono rivelate effimere e quasi tutte sono retrocesse. Altresì, la rivoluzione socialista non può essere frutto di una semplice rivolta sociale o della disperazione delle classi subalterne, giacché senza progetto e senza strategia la società che ne scaturisce sarebbe presto destinata alla paralisi e al disfacimento sociale. Non è nemmeno possibile che in presenza di una crisi spontanea della società, ci si possa affidare a uno schieramento politico costruito su obiettivi limitati e piattaforme eclettiche, perché questo non sarebbe in grado di assicurare la prospettiva di un nuovo ordine sociale. Una rivoluzione vera, capace di cambiare alle radici la società deve essere preventivamente concepita sia sul piano teorico che su quello politico e deve essere gestita con grande abilità dialettica e determinazione. Nei “Grundrisse” Marx ci ricorda che “come il sistema dell’economia borghese si è venuto sviluppando 508
a passo a passo, così avviene anche per la sua negazione che ne è il risultato ultimo”. Del resto, la storia insegna che le trasformazioni conseguite in tempi brevi sono superficiali, non sono profonde, sono traumatiche e devono essere necessariamente difese con la forza. Questa regola è valsa nel passato, ma vale tanto più oggi considerato che viviamo nell’epoca del pluralismo e della complessità in cui diviene indispensabile affrontare i problemi in modo approfondito, sistematico e sulla base del consenso. Il socialismo è ancora da molti considerato una formazione economico-sociale consolidata, quando invece dai suoi fondatori è stato concepito come una società di transizione. Una fase cioè non breve durante la quale nell’ordinamento sociale e nella coscienza degli uomini si estinguono gli elementi del capitalismo, cioè l’economia, la politica, l’ideologia, e nascono e si consolidano gli elementi del comunismo. Questo principio deve essere rispettato non tanto perché a sancirlo sono i padri del socialismo, ma perché è l’esperienza storica a dimostrarne la validità. Occorre poi tenere a mente che ogni teoria per essere acquisita abbisogna di un lungo lavoro e per essere messa in pratica ha bisogno di un’ampia disponibilità alla sperimentazione. La costruzione del socialismo non può pertanto essere vissuta unicamente o principalmente in termini ideali, di sogni e di speranze, come un’utopia, sebbene sia necessario anche questa, ma deve fare i conti con la realtà, deve tradursi nella materialità dei processi. Una parte della sinistra odierna, invece, continua purtroppo a privilegiare il mito e fa fatica ad adeguarsi a questa regola. Tende a privilegiare l’appariscenza rispetto alla sostanza, a prediligere la tradizionale manifestazione contro, la protesta eclatante, lo sciopero, piuttosto che sperimentare nuove forme di lotta le quali consentano di mettere a frutto la creatività collettiva e dei singoli e determinino rotture con il sistema a più alti livelli. Occorre rifuggire dalle semplificazioni e abituare gli individui alla complessità, abituarli all’autonomia di pensiero e alla responsabilizzazione; bisogna ripensare la funzione pubblica in chiave non statalista e far assumere all’azione privata una valenza collettiva. Una transizione poi è fatta di successi e di sconfitte, di contraddizioni e di compromessi, di continui aggiustamenti. Nell’era della globalizzazione crescono i conflitti sociali e aumenta la necessità di compiere scelte anche impopolari da parte di chi ha un ruolo di governo. Mentre la destra, di fronte a tali difficoltà, trova rifugio nel populismo, la sinistra è destinata a scontrarsi con le resistenze e deve perciò essere preparata a superarle. La società civile, prima ancora che sulle ideologie e sulle teorie scientifiche, si scontra e si divide sugli interessi concreti, e per questa ragione si deve essere realisti e insieme avere la consapevolezza che un’idea non è destinata a vincere solo perché è giusta, tra l’altro non tutte le idee giuste nel passato hanno vinto, ma perché sa offrire una soluzione ai problemi aperti. La dimostrazione della non facilità di una gestione della transizione ci viene dalle difficoltà che la sinistra ha incontrato laddove, conquistato il palazzo, si è fatta Stato. Quasi ovunque essa non è riuscita a imporre le politiche che si era proposta, ma ha subito il condizionamento e i retaggi del vecchio ordine e delle vecchie ideologie. E questo è potuto avvenire proprio perché nel suo bagaglio teorico e pratico c’era un deficit di analisi, di previsione e di progettazione. Torna a questo proposito assai eloquente quanto nel ’33 ebbe a scrivere il moderato Maynard Keynes: “Il capitalismo decadente, internazionale ma individualistico, nelle cui mani ci siamo trovati dopo la guerra, non è un successo. Non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non mantiene quel che ha promesso. In breve, non ci piace, e stiamo anzi cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci domandiamo che cosa dobbiamo mettere al suo posto, siamo estremamente perplessi”. Simili incertezze non si addicono ai rivoluzionari. La storia c’insegna che un qualsiasi ricambio di potere è un atto che esige lucidità e accortezza da parte di chi tiene il timone fra le mani, ma se la gestione di questo potere la s’intende affidare alla società civile, allora una tale operazione diventa la più complessa che si possa immaginare. Un anziano dirigente comunista soleva ricordare che “al chirurgo rivoluzionario è richiesta la capacità, quando si avvicina al tavolo operatorio, di avvertire il dovere di prefigurarsi in dettaglio l’andamento dell’operazione e della successiva terapia, di prevedere le eventuali complicazioni, difficoltà e inconvenienti, di valutare le probabilità di una diagnosi errata”. La prefigurazione del 509
processo di costruzione della nuova società si rivela difatti un elemento indispensabile, sia per ridurre al minimo il rischio di fallimento sia per rendere universalmente chiaro ciò che si intende conseguire. Altro requisito della sinistra deve essere la consapevolezza che la società socialista per certi aspetti è l’erede della stessa società che intende cambiare, cioè del capitalismo. Vale la pena ricordare a questo riguardo che Marx ha inteso il rapporto tra la sua riflessione e quella di Hegel come un rapporto di ribaltamento e insieme di continuità. Il superamento del capitalismo non significa affatto un suo ripudio totale. In “Critica del programma di Gotha” egli ha scritto: “Quella con cui abbiamo da far qui, è una società comunista, non come si è sviluppata sulla propria base, ma viceversa, come emerge dalla società capitalistica; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le ‘macchie’ della vecchia società dal cui seno essa è uscita”. Non solo nelle stesse rivoluzioni parte del passato si conserva, ma è nel passato stesso che si nascondono nuclei del nuovo. A riguardo dell’emancipazione dell’uomo, come già ho ricordato, va anche riconosciuto al sistema un qualche merito, come del resto ha fatto Marx. A noi spetta di individuare i punti di congiunzione tra i suoi aspetti positivi e la concezione che abbiamo della nuova società. Si deve cioè essere capaci di una sintesi superiore. Quando militavo nelle file della “nuova sinistra” ero anch’io convinto della tesi sostenuta da Lucio Magri secondo la quale “il socialismo non è la società nuova che cresce (come avvenne a quella borghese) all’interno della vecchia: è un’alternativa possibile che può diventare reale solo con un salto dialettico, con il rovesciamento e la contestazione di tutto l’universo sociale”, eppure sbagliavo. Assieme a tutte le brutture che ci ha fatto conoscere (sfruttamento, rapine, guerre, egoismi, ecc.), dietro la spinta del movimento operaio e dei movimenti progressisti, il capitalismo ha concesso all’uomo talune libertà (di opinione, di parola, di associazione, d’intrapresa) che il socialismo reale non è stato in grado di garantire. Seppure ai fini del profitto, e dietro la spinta del movimento operaio, esso ha assicurato alle masse standard di vita accettabili e ha messo nelle condizioni la scienza di fare passi da gigante nel campo della conoscenza e delle invenzioni anche a pro della società civile. Alle popolazioni dei Paesi più evoluti ha garantito forme di welfare che non hanno avuto riscontri in altri regimi. Va messo in conto che se il capitalismo ha mutato i rapporti sociali e la cultura, a sua volta ha subito l’influenza del movimento operaio. Certi cambiamenti che esso ha determinato non sempre si sono conciliati con le sue esigenze di ulteriore sviluppo ed è perciò possibile tradurre le innovazioni che esso introduce nel suo sistema a vantaggio della comunità. Per esempio, l’informatica consente di risparmiare tempo, di farne uso razionale come mai è stato possibile prima d’ora, e questa risorsa è da considerarsi un’eredità da mettere al servizio della costruzione di una nuova società. Dobbiamo avere coscienza che il patrimonio che ereditiamo, poiché è frutto non del capitale ma dei lavoratori, non deve essere disperso, bensì acquisito, rivalutato e riconvertito. Occorre far leva sull’accumulo di saperi e far emergere dalla società civile tutto il potenziale di creatività e di intelligenza che abilmente il capitale le ha sottratto, se si vuol dare corpo a un nuovo ordine esistenziale. Uno degli aspetti decisivi per poter compiere questa operazione consiste nell’avere una visione universale dei problemi. Viviamo nell’era in cui, contrariamente a chi auspicava l’imporsi di un’egemonia monopolare, al bipolarismo e alla “guerra fredda” è succeduta una fase multipolare le cui caratteristiche sono l’integrazione e l’interdipendenza. Quando una fabbrica di una regione dell’Estremo Oriente produce beni che vengono immessi sul mercato mondiale a costi competitivi, grazie al basso costo della manodopera, immediatamente gli operai di un’azienda europea si vedono mettere in discussione il posto di lavoro. Identiche ripercussioni hanno le lotte in difesa delle foreste condotte dai contadini e dagli indigeni dell’Amazzonia o della Nuova Zelanda, le quali sono giustamente vissute dagli ambientalisti di tutto il mondo non solo in termini di solidarietà militante, ma come lotte proprie. Le stesse migrazioni forzate dai Paesi poveri verso le regioni del Nord ricco fanno vacillare le frontiere e, mettendo in contatto popoli di varie etnie, contribuiscono a superare le 510
differenze di stili di vita e di pensiero. La dialettica dello sviluppo del mondo moderno, quella indotta dalla globalizzazione, costringe la sinistra ad affrontare in modo nuovo e su scala internazionale le sue relazioni e i suoi disegni. E un tale compito è reso urgente dal pericolo di un futuro di barbarie cui ho già fatto cenno. Non si deve mai dimenticare che sull’umanità incombono molti rischi e finché non si giungerà alla costituzione di un governo mondiale capace di imporre un nuovo ordine economico-sociale che coniughi scienza, giustizia sociale e pace, una prospettiva di serenità e di progresso non è affatto assicurata. Di fronte a questi rischi la sinistra mostra di avere una visione angusta e un atteggiamento che induce a sottovalutazione. Mentre tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento i settori più coscienti del movimento operaio, organizzati nelle Internazionali, si sforzavano di essere in anticipo sulla borghesia, così si sono comportate anche le generazioni del secondo dopoguerra quando obiettivo dello schieramento progressivo era quello di dare corso a un “nuovo ordine economico internazionale”, oggi la sinistra dimostra di essere drammaticamente in ritardo. Con l’avvento del postfordismo nelle sue file è prevalsa una cultura provincialista e rispetto alle problematiche internazionali è paradossalmente intervenuta una chiusura mentale. Ora, in piena globalizzazione dell’economia e dei rapporti sociali, si assiste all’incapacità di raccordare non solo le politiche internazionali, ma neppure l’azione dei partiti e dei sindacati di sinistra sulle politiche del lavoro. La classe operaia dei gruppi multinazionali continua ad agire in base ai vecchi schemi territoriali e raramente si assiste all’apertura di vertenze sindacali a livello mondiale o continentale. E’ anche a causa di questo provincialismo che il capitale è vincente! Si è poi venuta stemperando la coscienza circa il saccheggio al quale continua a essere sottoposto il “terzo mondo” e non sembrano turbare le nefaste conseguenze che esso è destinato a riversare sulle generazioni future. Manca altresì uno sforzo adeguato, salvo le formali manifestazioni di pietosa solidarietà, per trasformare i lavoratori migranti in un avamposto di nuovo internazionalismo. A volte si ha la sensazione che persino di fronte ai tragici sbarchi sulle nostre coste il popolo di sinistra abbia perso le sue tradizionali sensibilità e lo storico spirito di solidarietà umana. Il reprobo slogan leghista “ci portano via il lavoro” ha purtroppo finito per influenzare anche una parte della mitica classe operaia senza che le sue dirigenze politiche e sindacali se ne rendessero conto. Su scala europea la sinistra si dimostra incapace di rivendicare, come sarebbe invece necessario, una politica fiscale comune e di proporre riforme strutturali coerenti. Di fronte alla concorrenza internazionale e alle difficoltà della recessione, dalle sue file emergono, seppure timidamente e in modo mascherato, istanze protezionistiche la cui efficacia, come la storia insegna, è l’opposto di qualsiasi politica innovatrice e di progresso. E pensare che mai come oggi, la necessità di un coordinamento delle strategie e di un’azione politica unitaria delle forze di sinistra dell’Europa e del mondo è apparsa tanto urgente! In assenza di un processo di internazionalizzazione delle istanze progressiste e di sinistra, l’alternativa alla globalizzazione è improponibile e rischia di ridursi a semplice propaganda. Marx ed Engels avevano chiarito che “il proletariato può esistere soltanto sul piano della storia universale, così come il comunismo, che è la sua azione, non può affatto esistere se non come esistenza ‘storica universale’”. Lo spirito e l’azione internazionalisti erano e restano un requisito irrinunciabile per la sinistra, evidentemente, però, la sagacia dei padri del socialismo scientifico non è più materia di riflessione. Per superare i condizionamenti neoimperialisti del capitale globalizzato, occorre sconfiggere ogni residuo di patriottismo e ogni egoismo territoriale e dare vita a un complesso di lotte che, rispettando le specificità delle singole comunità, unifichino gli obiettivi e trovino sbocco in un unico disegno di cambiamento mondiale. La divisione internazionale del lavoro determinata dalla logica del profitto e le differenze di sviluppo che essa ha determinato e continua a determinare, non consentono altra strategia. A far fronte a un’economia mondializzata il movimento della sinistra sindacale e politica non può che avere una dimensione internazionale.
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Compiere oggi una simile impresa non è cosa semplice, però risulta sicuramente più facile che nel passato. I moderni mezzi di comunicazione e il grande salto culturale che lo stesso movimento dei lavoratori ha compiuto favoriscono i contatti, l’interscambio, la formazione di una nuova soggettività e la stessa azione politica e sociale dei soggetti impegnati a costruire l’alternativa. La stessa solidarietà tra i lavoratori dei diversi Paesi e continenti può essere più facilmente stimolata e le politiche del lavoro coordinate a livello globale. A meno che qualcuno non pensi di affidare al movimento dei “no global” o alle milizie dei “Blach Bloc” l’eredità del vecchio internazionalismo proletario, l’unica strada che alla sinistra spetta di percorrere è quella di rilanciare l’iniziativa su scala globale. 16.4 – Concetti di libertà e di uguaglianza da rielaborare Le difficoltà che la sinistra incontra nel delineare e gestire una fase di transizione è dovuta anche al fatto che non ha tenuto e non tiene in debito conto i concetti marxiani di libertà e di uguaglianza i quali costituiscono i capisaldi del socialismo. Non solo ha perso memoria della libertà egualitaria di Rousseau, ma nel momento in cui la stessa borghesia mette in discussione le libertà civili, quelle su cui ha fondato il suo sistema di potere, essa dimostra imbarazzo e si rivela inerte. Se si considera che più di venticinque secoli fa, con l’istituzione della polis, i greci attribuivano al concetto di libertà l’aspirazione, almeno per i “liberi” visto che gli schiavi non erano degni di considerazione, di non essere sottoposti ad alcun governo, cioè di autogovernarsi o, alla peggio, di essere governati a turno, occorre onestamente prendere atto che di strada verso l’emancipazione l’umanità ne ha fatta ben poca. Alla vecchia schiavitù è venuta, infatti, sostituendosi quella moderna del capitale la quale non è meno spietata, giacché discrimina in base al possesso. E’ vero che il liberalismo con la concessione della libertà personale, quella cioè che consente di non essere arrestati arbitrariamente e di essere giudicati secondo le leggi, quella delle libertà di stampa, di opinione, di riunione e di associazione, da cui sono nati i partiti e i sindacati, ha messo al riparo gli individui dai soprusi migliorando di molto la condizione umana. Ma se si spogliano queste libertà dell’involucro formale in cui sono avvolte e si va alla ricerca della sostanza, ci si rende presto conto che anche nell’era della globalizzazione vale la constatazione fatta da Jean Jacques Rousseau secondo cui “l’uomo è nato libero ma è ovunque in catene”. La libertà civile costitutiva del liberalismo, quella teorizzata dai vari Locke, Montesquieu, Kant, Constant, la quale garantisce la separazione dei poteri ed è alla base del parlamentarismo, si presenta oggi decisamente in crisi. Prova ne è la sistematica violazione di uno dei principi sanciti dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, stesa dai rivoluzionari francesi nel 1789, quello secondo cui “la libertà consiste nel poter fare ciò che non nuoce agli altri”. Kant stesso soleva dire che la sua libertà si estendeva sino a che risultava compatibile con la libertà degli altri. In base a questo postulato la libertà di ognuno dovrebbe arrestarsi laddove comincia la libertà degli altri, ma così non è. Chi ha soldi e chi ha potere è di fatto legittimato a sopraffare chi è povero e chi è escluso dal palazzo, e nel fare questo è protetto dalla legge. Chi possiede soltanto il proprio lavoro e non le condizioni materiali per esercitarlo, è necessariamente schiavo di chi ha la disponibilità di queste condizioni, quelle cioè di poter sfruttare gli altri. Sul terreno della democrazia sostanziale la borghesia ha insomma dato prova di un vero e proprio fallimento. A deludere, ahimé, è però anche l’esperienza del socialismo reale il cui sistema, alle libertà civili avrebbe dovuto sommare la libertà egualitaria facendo valere il diritto di ciascun essere umano ad avere il riconoscimento delle sue proprie particolari qualità e capacità nella pienezza dei diritti. Un tale principio presuppone una società in cui vige la regola delle pari opportunità esistenziali e impera la giustizia sociale, mentre in quei regimi questo modello non è stato realizzato. La sinistra dell’Occidente, di fronte alla mancata coniugazione in quei regimi di uguaglianza e libertà, anziché ribellarsi ha assunto un atteggiamento sornione.
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Eppure, contrariamente a quanto credono i conservatori e i moderati, la teoria marxiana era e resta una teoria della libertà per eccellenza. “Anziché ‘per l’uguale diritto di tutti’ – ha scritto Marx – propongo: ‘per gli uguali diritti e gli uguali doveri di tutti’”. Ed Engels, nelle note stese in occasione del congresso del Partito socialdemocratico tedesco di Erfurt del 1891, ha ribadito: “A mio giudizio, il programma deve essere quanto più possibile breve e preciso… Anziché ‘per l’uguale diritto di tutti’ propongo ‘per gli uguali diritti e gli uguali doveri di tutti’. Gli uguali doveri sono, per noi, un completamento particolarmente importante degli uguali diritti democratico-borghesi e tolgono a questi il loro specifico significato borghese”. Anziché marciare imperterrita su questa strada la sinistra, sia da posizioni di potere che dagli scanni dell’opposizione, ha compiuto opportunistiche e decadenti deviazioni di percorso. Mentre il sistema capitalistico poggia le fondamenta sulla libertà intesa come libera intrapresa economica, esaltando l’individualismo, il comunismo rappresenta il tentativo di produrre sulla base delle pari opportunità il più ampio sviluppo dell’emancipazione del genere umano in un contesto di solidarietà. Dunque, per chi vuole l’alternativa socialista l’autonomia del privato esaltata dal liberalismo non è solo da rifiutare, ma è da contrastare poiché nociva alla collettività. Difatti, è forse da considerarsi espressione di libertà individuale la possibilità di chi detiene il potere di controllare attraverso tutti gli strumenti che ho già ricordato (dalle carte di credito, ai telepass, ai microchip), cosa una persona fa, dove va, chi frequenta? Oltre che essere una pura illusione di libertà individuale, quella borghese è solo funzionale a una determinata forma di potere che subordina gli individui alla legge del più forte. Per l’emancipazione dell’uomo non basta la semplice libertà politica, assieme ad essa deve essere realizzata la libertà sociale senza la quale ogni singolo individuo continua a essere in balia delle circostanze e delle pretese di chi è dominante politicamente ed economicamente. Ecco perché il perdere il comando per la borghesia significa perdere una quota considerevole di libertà! Viceversa, per il comunismo condizione della libertà è proprio la fine del potere di qualcuno sugli altri. Evocando Kant, l’idealista Benedetto Croce ha asserito che la libertà richiede la legge. Marx, al contrario, ha sostenuto che presupposto di una convivenza sociale armoniosa è la soppressione del diritto stesso che disciplina la nostra società, poiché gli uomini non nascono liberi e soprattutto non sono affatto uguali. Del resto, la storia non ci ha fatto conoscere un solo regime retto dal diritto che abbia reso compatibili i principi di libertà e di uguaglianza. La tesi secondo cui gli individui sono uguali di fronte alla legge è dunque un sofisma. Coniugare le libertà civili con la libertà egualitaria è indubbiamente un obiettivo molto ambizioso che può essere conseguito solo in tempi lunghi. Però, perché lo si possa realizzare, è necessario che qualcuno incominci a sperimentare sul campo nuove forme di convivenza, dando così il via a un nuovo corso storico. Questo era e resta il compito della sinistra. Punto di partenza di un siffatto itinerario è l’acquisizione del concetto di libertà non in termini metafisici, bensì come prodotto dei diversi gradi di sviluppo della società. Tutta la storia del pensiero politico progressista altro non è che l’insieme dei tentativi di individuare e definire il miglior rapporto possibile tra la necessità di un governo della società e le aspirazioni alla libertà degli individui. E’ per questo che la libertà assume di volta in volta e a seconda dei punti di vista e dei momenti storici significati differenti. Per fare un esempio, si pensi alla diversa interpretazione che del concetto di libertà dimostra di avere la Chiesa, quando affronta il tema dell’eutanasia e dei biodiritti, rispetto alle posizioni di chi ha una visione laica della vita. Questi diversi e contrastanti atteggiamenti ci svelano il peso che nella loro formazione assume la dimensione filosoficoculturale. O ancora, si rifletta sulle modificazioni che lo stesso concetto di libertà ha subito nelle varie epoche storiche in rapporto alle modifiche strutturali della società e all’evoluzione del pensiero. Ci si renderà conto di come ogni principio non sia affatto caduto dal cielo, ma sia il prodotto del pensiero degli esseri umani.
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Altro postulato di un nuovo corso è l’acquisizione del principio secondo cui la libertà assoluta, cioè quella che rende possibile fare impunemente ciò che si vuole, non può essere ammessa. L’assenza della coercizione non implica solo diritti, ma anche doveri verso i propri simili e ciò richiede a chiunque rinunce e compromessi, perciò è indispensabile stabilire dei limiti al proprio agire. La libertà egualitaria esige poi la presenza di spazi entro cui ogni soggetto viene messo nelle condizioni di perseguire un’esistenza di qualità superiore nell’ambito di un contesto sociale più evoluto e giusto rispetto a quello in cui si ritrova inserito. E poiché ogni progresso della scienza e della conoscenza può avvenire solo in condizioni di libertà, dato che in questi campi qualsiasi passo in avanti è il risultato di una violazione delle regole date e dei principi dominanti, a ciascuno deve essere garantito il dovuto spazio di autonomia e di ricerca. Libertà, infine, è anche sinonimo di incertezza, di consapevole limitatezza, giacché a determinare il progresso dell’umanità è il conflitto delle opinioni e delle forme di vita. L’autocompiacimento e la pretesa di ritenersi nel giusto non sono altro che espressioni della conservazione. La sinistra avrebbe dovuto e dovrebbe far leva sui limiti e sulle contraddizioni delle teorie borghesi sulla libertà, ma così non è stato e non è. Alessandro Galante Garrone, a metà degli anni ’90, ha scritto: “La storia della libertà va concepita come una continua lotta per dare la libertà agli altri… dall’incultura, dalla miseria, dall’isolamento, dal pregiudizio, dalle credenze fallaci, dalle madonne che piangono”. E’ invece successo che persino qualche dirigente comunista, impegnato a ottenere un più ampio consenso elettorale, si è lasciato ammaliare dal sangue che usciva dagli occhi delle statuine di gesso della “Santa Vergine” o da quello di S.Gennaro che si scioglie nella teca. In nome del “collettivo” la sinistra ha poi lasciato che fossero i borghesi a difendere l’individualità e ciò ha fatto sì che nel suo disegno strategico il raccordo tra identità individuale e identità collettiva diventasse problematico, talvolta addirittura tragico, e che sinonimo del collettivismo fosse l’illibertà e la coercizione. Anche a questo riguardo si è equivocato su quanto Marx ed Engels hanno asserito nella “Ideologia tedesca” e cioè che “solo nella comunità diventa possibile la libertà personale... La comunità apparente nella quale finora si sono uniti gli individui si è sempre resa autonoma di contro a loro... Nella comunità reale gli individui acquistano la loro libertà nella loro associazione e per mezzo di essa”. Il termine “collettivo” non è dunque da intendersi come annullamento dell’individualità, ma invece come mezzo per la sua esaltazione in un contesto di armonia sociale. Marx soleva ricordare che obiettivo del comunismo non è quello di far diventare tutti dei Leonardo o dei Raffaello, ma invece quello di mettere in condizione chi ne ha la stoffa di esserlo. A riguardo dell’uguaglianza, dunque, il compito della sinistra era e resta quello di garantire pari opportunità di partenza e non invece quello di puntare all’“eguaglianza di risultati” come spesso ha fatto. Non è per altro da trascurare che la libertà è una delle condizioni della riappropriazione del “general intellect”. Essa, difatti, non è solamente un bene di per sé, un bene “di consumo”, è anche un “fattore produttivo”, poiché esiste una correlazione tra il livello di democraticità dell’organizzazione sociale e la sua efficienza economica. Ed è anche in dipendenza di una sua interpretazione a senso unico che nella società del capitalismo chi non possiede non può essere libero. L’unico modo per costruire un’alternativa al sistema è dunque la coniugazione della libertà con l’uguaglianza che è un altro caposaldo del socialismo. Ma anche a riguardo di questo ultimo concetto la sinistra ha dimostrato e dimostra tutt’ora scarsa coerenza con l’elaborazione dei padri del socialismo. E’ ancora Rousseau a ricordarci che la libertà non può esistere senza l’uguaglianza. La sinistra anziché cercare di coniugare questi due precetti, in nome di presunte opportunità politiche ha rinunciato a combattere apertamente la pretesa di coloro che stanno bene e che ritengono non debbano esserci limiti alla proprietà e all’accumulo di denaro. E si è dimostrata tollerante verso chi considera un valore la disuguaglianza di regole e di diritti. Soprattutto, a partire dalla fine del secolo 514
scorso, quando a causa del montare della globalizzazione dell’economia, sia al Sud che al Nord del pianeta, hanno incominciato ad aumentare gli squilibri e le povertà, la sinistra ha fatto registrare un’insensibilità persino nel dibattito pubblico su questi argomenti. Da noi, negli anni recenti, mentre lo Stato smontava il welfare e a “pantalone” in nome della crisi veniva chiesto di tirare la cinghia, abbiamo assistito ad atteggiamenti di una parte della sinistra indegni di chi pretende di essere considerato progressista. Alcuni suoi esponenti hanno dimostrato tolleranza, anziché avversione, verso le inaudite diversità di trattamento economico tra lavoratori dipendenti e dirigenti del pubblico impiego e manager aziendali; e hanno anche manifestato indifferenza nei confronti del persistere e del moltiplicarsi dei lussi, degli sprechi di risorse e degli assurdi privilegi assicurati a calciatori e star dello spettacolo. In alcuni casi, allorquando a prendere misure contro simili ingiustizie sono stati i rappresentanti della destra governativa, mossi ovviamente da chiari intenti populistici, si è addirittura registrata una latitanza della sinistra (si ricordino la disciplina sugli stipendi delle aziende pubbliche, la vertenza Rai-Lega calcio o i provvedimenti governativi tesi a ridurre verso il basso e restringere il ventaglio delle aliquote fiscali). Se per davvero intende cambiare la società, la sinistra deve riscoprire le sue origini e la sua stessa ragion d’essere. Se per un verso deve abbandonare l’idea ingenua di un’idilliaca ed omogenea proprietà comune originaria, dall’altro non deve smarrire mai la differenza tra uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale. Deve aver presente che le disuguaglianze incidono anche sullo stato di salute delle persone e sulle stesse aspettative di vita. Come dimostrano studi e ricerche effettuate sia in Italia che in Europa, le condizioni economiche pesano per il 60% sull’incidenza di morte (Asl di Milano, 2009), mentre riducendo le disuguaglianze è possibile accrescere la qualità della vita di tutti. Non deve poi trascurare il fatto che a dominare lo scontro politico del futuro più che la crescita della ricchezza sarà la sua distribuzione sociale. Oltre a dover promuovere una vasta azione culturale su questo tema, la sinistra deve avere il coraggio e la determinazione di tradurre nel concreto i suoi propositi di giustizia e di uguaglianza sociale. Data la situazione di crisi, oggi le torna sicuramente più agevole che nel passato impegnarsi su due terreni che possono rappresentare l’inizio di una svolta politica. Essi sono il fisco e il reddito di cittadinanza. Per contenere il deficit fiscale dello Stato e per impedire lo smantellamento dello “stato sociale“, ci si deve battere a fondo sia contro l’evasione e l’elusione fiscale sia per un maggiore aggravio delle aliquote per i redditi più elevati, in particolare per quelli connessi alle rendite. Simili misure oggi vengono avvertire come una necessità anche da governi di tendenza liberal-democratica e se non sono certo risolutive degli squilibri esistenti, possono sicuramente rendere un po’ più uguali i cittadini di fronte allo Stato e contribuire a creare oltre che una prospettiva di cambiamento anche un nuovo senso comune. La stessa questione del reddito minimo garantito non è ormai più un tabù. I tempi in cui in Occidente non solo i politici, ma la gente stessa si scandalizzava sentendo dire da Beltrand Russel che a tutti, sia che lavorino o no, doveva essere “assicurato un certo piccolo reddito sufficiente per i bisogni essenziali”, sono lontani. Persino molti pensatori liberisti, tra cui Hayek e Friedman hanno asserito che un tale provvedimento è auspicabile. Da alcuni osservatori internazionali viene addirittura considerato una misura idonea per ridisegnare il sistema dei servizi sociali in crisi. Il liberal-democratico Ralf Dahrendorf ha sostenuto che senza un reddito decoroso l’idea di cittadinanza rimane priva di sostanza e si riduce a una quantità formale di diritti. Il reddito di cittadinanza o di base, attualmente non risulta essere applicato in nessuna parte del mondo. Solo in Alaska è stato introdotto un modello finanziato dalle entrate petrolifere. Nei Paesi anglosassoni e in quelli dell’Occidente europeo, escluse Italia e Grecia, esistono forme più o meno articolate e generose di reddito minimo garantito. Rispetto al reddito di cittadinanza, il reddito minimo garantito presenta due differenze: è erogato solo a persone povere ed è accompagnato da un programma di ‘attivazione’. Si tratta ovviamente di soluzioni che non rivoluzionano i criteri di distribuzione della ricchezza, ma che almeno hanno il pregio di impedire la ‘caduta libera’ nella povertà e nell’esclusione sociale. La sinistra potrebbe rivendicare l’introduzione del reddito minimo 515
garantito insieme al reddito massimo consentito, in modo di dare avvio a una lotta ai privilegi. Non va dimenticato che l’Italia è il Paese europeo con la più alta percentuale di trattamenti pensionistici che superano i 3.000 euro mensili, mentre l’8% della popolazione vive in condizioni di povertà assoluta; e che le retribuzioni dei nostri burocrati sono fra le più alte del mondo. E’ alla sinistra, e non ad altri, che spetta di battere il conservatorismo delle classi dominanti e privilegiate, e il dare il via a una simile sperimentazione rappresenterebbe di sicuro l’apertura di nuovi scenari. E lo dovrebbe fare con la consapevolezza che anche il valore dell’uguaglianza ha un limite: esso opera su quello che c’è e non anticipa il nuovo che è da costruire. In un sistema come il nostro, che è dominato dal valore di scambio e dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, l’uguaglianza rischia di appiattire ciò che uguale non è e non deve essere. 16.5 – Oltre la coscienza di classe per una coscienza di specie Uno dei problemi che si pone con risvolti drammatici è quello del rapporto tra uomo e natura. Un collasso ecologico è ormai nell’ordine delle possibilità concrete, così come esiste il rischio di un’economia della penuria. L’impoverimento dello strato di ozono, l’alterazione degli eco sistemi marini, le piogge acide, l’inquinamento delle acque, l’avvelenamento dell’aria, la deforestazione, l’eccessivo e scriteriato sfruttamento del suolo e delle risorse naturali, sono tutti pericoli che mettono a repentaglio il futuro della vita dell’uomo, e non solo. L’esistenza animale e vegetale sul nostro pianeta è assicurata da un equilibrio tra il troppo freddo e il troppo caldo e l’uomo per vivere ha bisogno dei composti organici del carbonio forniti dalla fotosintesi. Queste condizioni stanno per essere alterate dalle scriteriate attività umane. Con l’accelerato sviluppo industriale e l’incremento incontrollato della popolazione mondiale, negli ultimi decenni i rischi ambientali sono aumentati in modo esponenziale. L’effetto serra modifica gli equilibri climatici ed ecologici dell’intero pianeta e lascia alle generazioni future una natura compromessa. Mentre nel mondo le falde fossili non rinnovabili stanno pressoché esaurendosi, negli ultimi cinquant’anni i consumi di acqua sono triplicati. Per le nostre attività usiamo più della metà delle acque di superficie che poi restituiamo inquinate. L’88% dell’acqua disponibile è appannaggio del 20% della popolazione mondiale, mentre un miliardo e 400 milioni di persone non ne dispongono affatto e si prevede che nel 2020 diventeranno tre miliardi. Non si può dare torto al filosofo austriaco Paul K. Feyerabend quando, nel 1990, ebbe a sentenziare:“Gli uomini, che esisteranno solo per un breve periodo, stanno impestando l’atmosfera e mandano in rovina il pianeta. E qualcuno vorrebbe farci credere che hanno principi da estendere per l’eternità e per tutti gli esseri… E’ assurdo”. Per molte migliaia di anni l’umanità ha modificato l’ambiente senza alterarlo, per soddisfare i suoi bisogni ha fatto ricorso all’energia termica e meccanica. Da un secolo a questa parte il suo rapporto con la natura è profondamente cambiato e a renderlo complesso ha pesantemente contribuito il modo di produrre capitalistico. Annotava Marx nei “Grundrisse”: Soltanto col capitale “la natura diviene puro oggetto per l’uomo, puro oggetto dell’utilità; cessa di essere riconosciuta come potenza per sé; e la stessa conoscenza teoretica delle sue leggi autonome appare soltanto come un’astuzia per assoggettarla ai bisogni umani sia come oggetto del consumo sia come mezzo della produzione”. In effetti, la “razionalità” del capitalismo ha avuto il predominio sul buon senso e ha azzerato la consapevolezza del rapporto che l’uomo deve avere con la natura. Il sistema ci ha abituati a sviluppare un’intelligenza che ha interessi prevalentemente tecnico-pratici, ci induce a porre l’accento sui risultati della nostra azione trascurando le loro conseguenze e a limitarci al soddisfacimento dei nostri bisogni. Costruttori e governanti fanno uso sconsiderato del suolo rendendolo impermeabile e degradandolo e la maggioranza della popolazione è compiacente; mentre il fenomeno della desertificazione avanza distruggendo vaste aree del pianeta, l’espansione urbana sottrae quote importanti all’agricoltura eppure, salvo qualche coltivatore, nessun altro dà 516
segno di preoccupazione; l’inquinamento provocato dal traffico caotico delle aree urbane ha ormai raggiunto i limiti della sopportabilità, l’uso del mezzo privato comporta costi sociali enormi, però né i costruttori di automobili né le persone che ne fanno uso sembrano avere coscienza della tragedia che si sta per compiersi. Mi è rimasta impressa nella mente l’indifferenza con cui governi e opinione pubblica, nel ’90-91, hanno assistito al disastro ecologico causato dalla “guerra del Golfo”. Nessuno dei politici e degli economisti si è mai sentito in dovere di fare un bilancio costi-benefici dello sversamento di petrolio e dell’incendio dei pozzi che quel conflitto ha comportato. E questa è solo una delle tante dimostrazioni che l’uomo resta sordo a simili problemi, o quanto meno li affronta con un’esasperante superficialità. E un tale modo di essere e di fare è decisamente inquietante. Non è da oggi che una minoranza di uomini di scienza e di cultura lanciano proclami d’allarme per l’intera umanità. Si pensi agli studi di fine anni ’60-inizio anni ’70 del Club di Roma sui limiti dello sviluppo o al “rapporto Brundtland” del 1987, o ancora alle successive denuncie e agli appelli della stessa Onu. Tutti moniti che sono caduti nel vuoto. Così come, del rsto, è avvenuto per i disastri ambientali dell’Icmesa di Seveso, dell’Union Carbait di Bhopal e di Cernobyl, per citare i più noti. Agli appuntamenti internazionali, da Seattle a Porto Alegre, a Kyoto, i governanti discutono, si confrontano, ma poi o non decidono o smentiscono i loro stessi deliberati. Fino alla scorsa generazione era senso comune che il progresso equivalesse al maggior sfruttamento delle risorse naturali le quali venivano considerate inesauribili. Con l’impatto ecologico dell’attuale sviluppo selvaggio indotto dal capitale, le risorse materiali e naturali si sono invece rivelate relative e finite, e lo stesso uomo è messo in condizioni di non poter trascendere la sua finitudine. Questa amara verità, però, non costituisce motivo di riflessione, non solo perché non è facile da accettare, ma anche perché non esiste un’adeguata e responsabile azione delle classi dominanti nel creare una nuova coscienza sociale oltre che nel convertire lo sviluppo. Occorre interrogarsi fino a che punto possiamo abusare nello sfruttamento delle risorse del pianeta senza correre il rischio di un collasso dell’eco sistema, ma a un tale quesito si preferisce non rispondere. La storia della Terra è ormai tutt’uno con la storia dell’intelligenza del genere umano. Come diceva Marx, “l’uomo vive della natura… la natura è il suo corpo” e con essa “egli deve rimanere in un processo continuo per non morire”. L’esistenza umana è inconcepibile senza le trasformazioni della natura realizzate dall’attività produttiva e mentre l’azione materiale dell’uomo trasforma l’ambiente, la natura trasforma se stessa condizionando a sua volta il modo di vivere dell’uomo. Emulando l’abate Galiani, vissuto alla fine del Settecento, i liberisti contemporanei considerano invece la natura un arsenale per lo sviluppo dell’attività economica e non si rassegnano all’idea che essa non può essere totalmente dominata se non con l’ideologia e la fantasia. I rischi che l’umanità ha di fronte a sé sono costituiti soprattutto dallo scarso interesse a comprendere le conseguenze del progresso sull’evoluzione umana e ambientale. I ritmi dell’attività dell’uomo sono differenti dai ritmi dei processi naturali e non sempre risultano determinati da ragioni compatibili con l’interesse generale. Se si vuole conservare la specie umana e con essa le altre forme viventi si deve necessariamente superare la logica della produzione capitalistica. Purtroppo però, alla sinistra manca non solo la volontà di fare questo, ma anche un’adeguata cultura. Come ci ha ricordato Claudio Napoleoni, il suo errore è lo stesso che ha causato il fallimento del socialismo reale e consiste nell’aver affidato al lavoro produttivo capitalistico una funzione primaria nel processo di evoluzione sociale. Essa ha, in sostanza, reso conforme la sua cultura a quella borghese. Paradossalmente, accade di trovare maggiore attenzione ai limiti che la natura e l’ambiente pongono ai progetti umani nel pensiero romantico e anti-illuministico piuttosto che nei programmi e nell’agire quotidiano della sinistra odierna. Mentre fino agli anni ’60, nella lotta contro lo sfruttamento e la speculazione urbanistico-edilizia, in Italia, la sinistra si è battuta per la nazionalizzazione del suolo, di quell’obiettivo i suoi attuali 517
dirigenti non hanno neppure memoria. Addirittura si è giunti al punto che il suo scarso interesse per i temi ambientali ha consentito ai movimenti ecologisti di fregiarsi unici difensori della natura. Proporsi di condurre un’efficace lotta ai rischi di una catastrofe significa a questo punto per la sinistra imprimere una vera e propria conversione di pensiero e di azione. Anzitutto essa deve rendere chiaro che la transizione dall’attuale sistema a una società più razionale fondata sulle risorse rinnovabili, non implica affatto un ritorno alla “sana vita dei campi”, come molti ancora credono, ma presuppone una forte capacità di innovazione. Ai fini della salvaguardia dell’ambiente occorre infatti produrre più scienza e più tecnologia e lo si deve fare attraverso una rigorosa pianificazione il cui criterio deve essere quello di rendere possibile un graduale passaggio dalla produzione di beni fondata sul valore di scambio, a una produzione fondata sul valore d’uso. Non si deve dimenticare che, per dirla ancora con Marx, “la natura è la fonte dei valori d’uso e di tali valori consta la ricchezza reale”. Ciò comporta ripensare l’assetto del territorio e riorganizzare il sistema industriale in modo che non produca più merci inquinanti. Occorre poi tener conto del rapporto squilibrato fra le risorse del pianeta che sono decrescenti e i bisogni di chi lo abita che invece sono crescenti. Considerato che è lo stesso uomo a creare buona parte dei suoi bisogni, compito della sinistra è quello di stabilire rigorosi criteri morali in base ai quali distinguere i bisogni che devono essere prioritariamente soddisfatti e riconosciuti pubblicamente come diritti, da quelli che invece sono da considerarsi superflui. Si tratta di una delicata operazione culturale attraverso la quale diventa possibile stabilire qual è la vera soglia di un dignitoso livello di vita sul quale gli estimatori del sistema capitalistico hanno sempre equivocato. Ai fini del conseguimento di una nuova scala di valori e di una rigorosa selezione dei bisogni, nella fase di transizione si può anche ricorrere al boicottaggio da parte dei consumatori di determinati beni considerati non indispensabili. La sinistra deve avere il coraggio di considerare l’ambiente una priorità produttiva a livello planetario e deve dare corpo a quel progetto di riconversione ecologica dell’economia che, seppure timidamente, aveva dichiarato di attuare all’indomani della crisi energetica della metà degli anni ’70 e della crisi economica degli anni ’80,. Ciò significa assumere per tutti i programmi di produzione, dall’ideazione del prodotto al suo design, dal processo produttivo al consumo, fino al disinquinamento, il criterio della prevenzione finalizzata al risparmio. In condizioni di risorse naturali scarse si deve puntare sulla produzione di beni che, per unità di peso o di servizio svolto, richiedono meno risorse naturali, meno energia e generano meno scorie. Anziché sulla costruzione espansiva di nuovi edifici, si deve puntare sull’uso e sulla ristrutturazione del patrimonio edilizio esistente. Si deve poi ricorrere più spesso all’uso di prodotti e sottoprodotti agricoli e dei materiali riciclati come materie prime. Taluni beni privati come l’automobile, gli elettrodomestici e molti servizi personali e semi-personali devono essere disincentivati e possono gradualmente essere trasformati in beni da condividere collettivamente. Strumenti dell’azione politica sono i contribuiti, le imposte, le norme e i divieti, gli esami relativi alla tollerabilità dell’ambiente, i progetti di controllo dell’acqua, dell’aria e del suolo, gli indicatori ecologici, ecc. e nuove forme di finanziamento. Interventi e attività questi la cui gestione deve essere allargata alla società civile, mentre occorre puntare sul coinvolgimento dei lavoratori, non solo nel processo produttivo e sociale, ma anche in quello decisionale in modo di favorire le riconversioni necessarie e un loro severo controllo. Fare tutto questo comporta ridisegnare scale di utilità, definire priorità, modificare la dimensione politica della scienza economica. Si tratta ovviamente di una programmazione di non facile gestione, di lungo periodo e di carattere globale. E come recita un rapporto sullo sviluppo umano redatto dalla Oxford University per conto delle Nazioni Unite, si deve perseguire “uno sviluppo sostenibile” che comprenda “anche la protezione della crescita economica dello sviluppo umano futuro… (perciò) occorre limitare tutte le forme di debito.. (essendo) un prestito dalle nuove generazioni”. E’ questa una rivoluzione non solo possibile, ma necessaria se si considera che un processo di riconversione di ciò che si produce e di ciò che si consuma, è destinato a creare nuova occupazione 518
a fronte di un modo di produrre capitalistico che per sua intima natura ha sempre meno bisogno di forza lavoro per fornire un mercato di beni che in larga quantità risultano superflui. Esiste però un’altra condizione per realizzare un simile progetto ed è la necessità di contrastare il capitale sul piano della formazione della coscienza sociale. La sinistra è chiamata prioritariamente a mandare in frantumi gli schemi di consumo entro cui il sistema ha imprigionato il pensare e l’agire dell’uomo. La riappropriazione della coscienza collettiva rappresenta un passaggio obbligato per scrollarsi di dosso i condizionamenti che il capitale esercita sulla società. Fuoriuscire dall’egoismo possessivo su cui è imperniato il modo di produrre e di consumare capitalistico, non è una semplice ambizione ideologica, ma la condizione stessa per procedere a un cambiamento. E data sia la situazione di difficoltà economico-occupazionale che stiamo attraversando, sia la crisi di rappresentanza politica che affligge il sistema dei partiti, c’è motivo di credere che nella società civile esiste una soggettività sociale disposta a far propria la sfida per un cambiamento di tale portata. Decisive però, nel rendere protagonista questa massa critica, sono la volontà e la capacità di chi si assume la responsabilità di avviare questo processo di cambiamento . In “Discorso sull’economia politica”, Claudio Napoleoni ha sostenuto che per cambiare occorre una visione più estesa dello sfruttamento che disumanizza tutti gli uomini e che la sinistra, per vincere la sua guerra, deve battersi in nome di valori che sono ancora più fondamentali della stessa lotta di classe. Non aveva tutti i torti, la crisi ambientale pregiudica il futuro dell’intera umanità, perciò alla sinistra s’impone il dovere di costruire una coscienza di specie. 16.6 – Una nuova cultura per una nuova civiltà Nell’epoca moderna, basta il corso di una o due generazioni perché l’esistenza di un uomo abbia a subire cambiamenti più radicali di quanto è avvenuto durante interi secoli passati. Questo rapido succedersi degli eventi crea un abisso tra evoluzione tecnico-scientifica ed evoluzione intellettuale e morale della persona, e tra progresso e coscienza collettiva si registra uno sfasamento che può essere paragonato a quello che ha contraddistinto la transizione dal Medioevo al Rinascimento. Siamo giunti al punto che il progresso delle scienze consente all’uomo di modificare le più antiche funzioni naturali quali la procreazione, la gravidanza, la nascita e la morte, mentre per certi aspetti il nostro pensiero e la nostra morale sono ancorati a schemi che risalgono a migliaia di anni fa. Alcuni scienziati hanno sostenuto che ragioniamo ancora alla maniera di Aristotele, altri che siamo ancora inseriti nella preistoria della mente umana. L’uomo si accinge ad andare su Marte, eppure non riesce a scrollarsi di dosso le subculture e le superstizioni che hanno padroneggiato la vita dei nostri antenati. Moltissime persone hanno ancora bisogno di deificare qualcuno, di crearsi un mito, di consultare gli astri prima di agire, e per sentirsi rassicurate nell’affrontare la vita riversano le loro speranze sul “santo patrono”. In alcune località del Mezzogiorno d’Italia si svolgono tutt’oggi processioni per implorare i santi del paradiso affinché le popolazioni vengano preservate dai terremoti, mentre poi queste pie persone si dimostrano incapaci di imporre a chi governa la messa in atto di adeguate misure di prevenzione e di protezione. La nostra società si proclama cristiana, eppure nei rapporti interpersonali abbondano il fariseismo e l’opportunismo più gretto. Si vota la propria anima a dio, ma poi si uccide il proprio simile per denaro, si predica il bene morale e si vive d’espedienti e di furbizie. Il dio dei cieli è quotidianamente sconfitto dagli dei della terra: a disciplinare gli uomini più dei comandamenti sono le forze del potere, del denaro e del sesso. Viviamo nell’epoca dell’interdipendenza e della libera circolazione e il pluralismo dei costumi e delle fedi determinato dalle migrazioni, scombussola la condotta delle persone. Un tale nuovo stato esistenziale richiederebbe un’identità aperta, il rispetto e la valorizzazione delle diversità, la consapevolezza che l’innovazione democratica nasce nelle zone di contatto interculturale in cui persone diverse sono sollecitate a inventarsi nuovi modi di rapportarsi agli altri, ma così non è. Non 519
si tratta di un caso se molte pratiche democratiche trovano sviluppo proprio in quei movimenti sociali che uniscono, in un amalgama apparentemente caotico, attivisti di popoli indigeni, migranti, sans papiers, credenti antioscurantisti, difensori dei diritti delle femministe e degli omosessuali, i quali sono detestati da larga parte dell’opinione pubblica. Nei comportamenti di molti autoctoni, infatti, la mescolanza di culture e di etnie suscita pregiudizi e intolleranze, quando non addirittura vere e proprie forme di razzismo verso il “diverso”, mettendo così a rischio la convivenza civile. Le prospettive inedite della scienza in campo bioetico, la liberazione dai tabù, l’intensificarsi delle relazioni sociali, la diffusione del sesso virtuale, hanno messo in discussione valori un tempo ritenuti indiscutibili. Istituzioni e consuetudini come il matrimonio, la famiglia, la monogamia, l’eterosessualità sono in crisi e le nuove forme di convivenza esigono non solo nuove regolamentazioni legislative, ma prima ancora una riforma morale. Eppure, la politica, non solo è in ritardo, ma verso queste novità comportamentali mostra un atteggiamento ipocrita e affida il compito di orientare l’opinione pubblica al gossip. D’altro canto, fa pena l’affanno con cui la Chiesa tenta di ostacolare il “nuovo” e arginare gli effetti che i nuovi comportamenti hanno sui suoi stessi fedeli (dal rapporto con i divorziati, ai problemi dell’omosessualità e della pedofilia). Lo sforzo che sta producendo Francesco è una vera e propria fatica di Sisifo la quale mostra in maniera palese la natura temporale della stessa Chiesa. Non bisogna mai dimenticare che uno dei fondamenti del potere è proprio la cultura, giacché è da essa che scaturiscono le volontà di ciascun individuo, e oggi purtroppo a dominare il sapere è il capitale. Nell’era in cui internet, wikipedia, google si rivelano preziosi strumenti di diffusione delle conoscenze e di democrazia (si pensi alle prospettive del frictionless sharing), si assiste al maldestro tentativo del capitale di privatizzare anche il sapere attraverso l’applicazione del pedaggio all’accesso all’informazione. E’ sempre più avvertita la necessità di allargare gli orizzonti culturali delle persone, eppure il sistema disabitua alla lettura e alla riflessione. Nel nostro Paese la spesa per la cultura è inferiore all’1% del Pil, il bilancio del ministero dei beni culturali è pari a un 26° delle spese militari e come espressione dell’erudizione italiana nel mondo viene esibito il festival di Sanremo. A contribuire a questa funzione diseducativa sono i mass-media che anziché essere contestati e deprecati dalla classe politica, vengono da essa vezzeggiati per ragioni d’immagine. Da parte sua il ceto intellettuale ha abdicato al suo ruolo censorio per far proprio il “servilismo strumentale”, come scriveva Gramsci ai tempi in cui gli uomini di sapere si piegavano al fascismo. Non va trascurato il fatto che la sottocultura e la mancanza di consapevolezza e di autonomia dei singoli individui, oltre che ostacolare l’allargamento e la crescita della conoscenza, impediscono quella completa fioritura umana che è fattore indispensabile per la costruzione di una nuova società fondata sui principi della giustizia sociale e della solidarietà. Purtroppo, anche a questo riguardo, i limiti e le “sviste” della sinistra appaiono imperdonabili. Qualche tempo fa lo ammetteva Giuseppe Chiarante denunciando che nello stesso Pci-Pds-Ds, “nel modo concreto di intendere riforme e alleanze, è generalmente prevalso un punto di vista economico, sociale, politico, mentre minore è stata l’attenzione per i problemi di trasformazione del costume, della cultura, delle ideologie correnti, dei rapporti non materiali tra le persone”. In effetti, la sinistra, anziché contrastare, s’è lasciata influenzare dal “pensiero unico”. Ha dimenticato che la borghesia è una classe che deve necessariamente produrre una falsa coscienza apologetica dello sfruttamento capitalistico, e quindi una cultura stereotipata, per poter dominare. Per un lungo periodo, nell’intento di uniformare il movimento operaio di fronte agli attacchi concentrici dell’avversario, è ricorsa all’indottrinamento ideologico, dopo la caduta del socialismo reale non si è nemmeno curata di fare chiarezza sull’accaduto al fine di favorire una crescita delle capacità critiche collettive e individuali. Se il suo ceto intellettuale, nel passato, è stato in larga parte conformista, guardiano dell’ortodossia e intollerante a ogni dubbio, caduta la vecchia idea mitologica del socialismo si è dimostrato capace solo di un esasperante conformismo pragmatista. Solo le sue espressioni più radicali si sono 520
proposte di rifondare il comunismo, ma non hanno saputo dare altro segno che quello di una pur meritevole, ma anacronistica continuità con la tradizione. Non si sono rese conto che un tale comportamento si sarebbe inevitabilmente rivelato inefficace nel far fronte alla complessità della nuova situazione. Il rivoluzionario dell’inizio degli anni 2000 sembra essere un ibrido di istanze del vecchio utopismo socialista e di pesanti ipoteche del capitalismo globalizzato. Figlio del bolscevismo nello spirito e nella memoria, nella prassi quotidiana risulta essere un ostaggio del consumismo e della competitività capitalistica. Essendo privo di una visione dialettica del mondo e di un’efficace strategia progettuale, viene oggettivamente sospinto su posizioni massimaliste e non gli rimane altro da fare che demonizzare l’avversario. La situazione di difficoltà in cui si ritrova oggi la sinistra, anche dal punto di vista culturale, suggerisce che la lotta per un rinnovamento di prospettiva deve essere prioritariamente condotta entro le sue stesse file allo scopo di svincolarla dai vecchi schemi politico-culturali e dagli effetti distruttivi e degradanti che il sistema inevitabilmente provoca anche su di essa. Senza porre fine alla diffusa manipolazione del senso comune, appare impossibile procedere alla costruzione di una società di emancipati e di eguali. Non è certo facile andare oltre le fasi culturali precedenti, rendere omogenea la cultura a livelli superiori, elevare intellettualmente sempre più vasti strati popolari. Le stesse persone che si schierano a sinistra non sempre lo fanno con la dovuta consapevolezza, con coerenza intellettuale e comportamentale, ma molto spesso solo per indignazione verso il presente. E ancor più difficile diventa il compito di sfatare il senso comune diffuso in una società resa culturalmente opaca; demistificare le coscienze e conquistare le masse a un progetto di cambiamento appare un’impresa ardua. Si tratta, infatti, di uno sforzo immane che esige una vera e propria rivoluzione culturale, poiché comporta dover mettere in discussione i processi di alienazione e di reificazione che hanno dominato gli individui per lungo tempo. Come notava il moderato Keynes, “la difficoltà non sta nelle idee nuove, ma nel liberarsi dalle idee vecchie, che, per coloro che sono stati educati come la maggioranza di noi, si ramificano in tutti gli angoli della mente”. Aleksandr Bogdanov aveva avvertito che “la liberazione culturale del proletariato non significa affatto una rottura pura e semplice con tutta la ricca cultura del vecchio mondo. No! – ebbe a commentare – Il proletariato è il legittimo erede di tutte le sue preziose conquiste, sia spirituali che materiali; a questo retaggio egli non può e non deve rinunciare”. Si tratta di una giusta considerazione, anche se appare chiaro che le conoscenze da noi ereditate e acquisite devono essere vagliate e rese compatibili e funzionali alla costruzione di un modo di produrre e di consumare nuovo; e pertanto i comportamenti umani devono necessariamente subire profondi cambiamenti. Tra gli stessi uomini di pensiero progressisti c’è chi ha mostrato scetticismo verso un’operazione del genere. Norberto Bobbio ha sostenuto che “per costruire una società dove tutti cooperano al bene comune bisogna cambiare la coscienza e la natura dell’uomo. E questo – a suo giudizio – è impossibile”. Eppure questa è stata storicamente e resta la condizione di un qualsiasi passaggio da una civiltà all’altra. Se la modernizzazione ha trasformato il divenire e la natura stessa dell’uomo, la postmodernizzazione, in particolare il processo di informatizzazione, determina un nuovo divenire dell’umanità. L’antropologia del cyberspazio segna difatti una nuova condizione umana. E nella gestione di una fase di cambiamento di tal genere, l’educazione degli uomini appare come la priorità delle priorità. Senza una nuova cultura non si può essere alternativi. Non si dimentichi che per abolire la guerra si deve cambiare non solo la condizione sociale degli uomini, ma prima ancora la loro mentalità; e che è più facile modificare una cosa materiale piuttosto che le convinzioni e le abitudini delle persone. Si pensi a quel che comporta conquistare gli individui a un graduale superamento della proprietà privata e il dare priorità e spazio al bene pubblico. Oppure al fatto che, paradossalmente, risulta più praticabile imporre limiti di emissione di gas di scarico ai produttori di automobili piuttosto che persuadere milioni di automobilisti a ridurre il consumo di carburante. Questi esempi ci dimostrano 521
quanto sia complicata un’operazione di cambiamento di mentalità e di abitudini. Ma ci inducono anche a considerare quanta forza di rottura col passato e di spinta al rinnovamento può esserci nella prospettiva di un mondo liberato dai vincoli della proprietà privata e dall’incubo del disastro ecologico. Una delle condizioni fondamentali per affrontare la questione è il guardare al rapporto tra l’uomo e il mondo in modo diverso da quello stabilito dalla prospettiva della produzione-appropriazionedominazione imposta dal capitalismo. E poiché il conquistare le masse a una tale nuova prospettiva significa incontrare non pochi ostacoli, occorre che il processo d’innovazione culturale non venga rinviato all’indomani della conquista del potere, ma rappresenti la condizione stessa della lotta contro il sistema in condizione di subalternità ad esso. Una tale esigenza è imposta non solo dal fatto che la coscienza che le persone si sono formate in decenni di vita non può essere trasformata dietro la minaccia della forza, ma anche dai tempi necessariamente lunghi che una rivoluzione culturale richiede per avere successo. Nello stesso mondo della sinistra il tema di una riforma intellettuale e morale, considerato da Gramsci essenziale per la costruzione di una nuova egemonia, è stato molte volte oggetto di riflessione e di perorazione, ma non è mai diventato un terreno di effettiva iniziativa politica. Durante la contestazione del ’68-’69 si erano create le condizioni perché una riforma del genere potesse avere inizio, giacché non solo larga parte della classe operaia, ma gli stessi studenti, in buona misura figli di una borghesia benestante, avevano decretato l’insopportabilità della morale corrente e il rifiuto della stupidità e dell’ipocrisia del sistema capitalistico. Ma di fronte a quella occasione la sinistra si è dimostrata impreparata e sorda ai richiami di un cambiamento radicale. Il suo continuo riferimento alla riforma intellettuale e morale di gramsciana memoria è risultato essere un fatto puramente esortativo e pedagogico, tale da servire esclusivamente a rendere più persuasivi i deliberati ufficiali dei gruppi dirigenti. Le ambizioni di natura politica hanno prevalso su quelle di egemonia culturale e di sviluppo dell’autonomia dei singoli. Non c’è dubbio che compito prioritario di un partito è quello di occuparsi dei problemi materiali delle persone, di difendere il loro stato sociale, di garantire i servizi indispensabili alla loro esistenza, e spesso tutto questo deve essere fatto sacrificando gli aspetti culturali e pedagogici. Se però l’ambizione è quella di cambiare in meglio la società, non ci si può astenere dal costruire una nuova coscienza sociale. Del resto, il fatto stesso di migliorare le condizioni materiali di vita di larghe masse popolari esige, accanto alle inevitabili scelte politiche, l’avvio di un’azione culturale tesa a rendere consapevoli e protagonisti di quel che si sta facendo gli stessi cittadini. Occorre cioè cambiare contemporaneamente sia i rapporti sociali e politici sia il senso comune delle persone. La trasformazione deve essere preparata anche psicologicamente, l’uomo della strada deve diventare artefice convinto del cambiamento, protagonista in prima persona e non semplice gregario che opera su comando e per fideismo. C’è dunque la necessità di una riforma del pensiero che concepisca la complessità della realtà e faccia apprezzare le differenze che appartengono alla natura stessa della vita. Occorre superare una visione essenzialmente quantitativa e produttivistica dello sviluppo e far diventare la questione morale una condizione dell’agire politico e sociale. La sinistra, purtroppo, non ha tenuto sempre conto di queste condizioni e non ha saputo far crescere uno spirito critico adeguato nei suoi stessi militanti. Il progressivo distacco dalle tradizioni socialiste e l’acuirsi delle contraddizioni sociali hanno fatto venir meno gli anticorpi nei confronti del sistema in cui siamo inseriti e lo stesso movimento operaio è rimasto contagiato di questo arretramento sul piano ideale e morale. Si è cioè rivelato giusto l’ammonimento di Gyorgy Lukacs secondo cui “il proletariato non deve retrocedere di fronte ad alcuna autocritica: essa deve essere un suo elemento di vita, poiché solo la verità può essere portatrice della sua vittoria”. Se l’esperimento socialista è fallito è proprio anche perché non si è stati capaci di costruire una nuova coscienza sociale. Il militante di sinistra per poter pensare autonomamente non può fare a meno di mettersi in discussione costantemente e prima ancora che con i suoi avversari, deve saper entrare in 522
competizione con se stesso, al fine di far emergere il meglio delle proprie qualità da mettere al servizio della collettività. Deve sapersi mediare invece di essere mediato dalle istituzioni reificate. Nel suo modo di essere la sinistra ha dimostrato poi di non saper trasformare le contraddizioni in fattore di sviluppo. Per decenni sull’altare della “linea politica” ha sacrificato l’intelligenza, la creatività, il confronto e l’inevitabile scontro delle idee, non tenendo conto di quel che Eraclito aveva già compreso venticinque secoli fa e cioè che è il conflitto il “padre di tutte le cose”. L’uomo ha bisogno del confronto-scontro per progredire, così come il suo corpo ha bisogno del pane per poter vivere. Solo il confronto e la disputa con i suoi simili gli consentono di soddisfare il suo desiderio di sapere, di capire e di contare, perciò la sua libertà intellettuale non deve essere sottoposta ad alcun limite. Nel dibattito politico non ci devono essere né condizionamenti né censure. La necessità di fare sintesi e di agire non deve precludere lo sviluppo del pensiero essendo questo il motore del progresso umano. Nella sinistra invece si continua a registrare molto conformismo. Di più ancora, anziché lo spirito critico e la dialettica, nel suo modo d’essere è venuto prevalendo il realismo borghese. Nella vita quotidiana il sapere, l’apprendere diventa uno strumento per adeguarsi alle convenzioni sociali dominate dalle logiche di mercato, si studia non per comprendere se stessi e il mondo e per pensare criticamente, ma quasi esclusivamente per assicurarsi una posizione sociale e per accumulare ricchezza. A questa sciagurata logica del capitale la sinistra sembra essersi piegata ed assuefatta; a un tale processo di degenerazione i suoi stessi quadri sembrano adeguarsi senza mostrare alcun disagio. Eloquente a questo riguardo è l’atteggiamento assunto verso la complessa questione dell’ideologia. Già a metà degli anni ’80 Mario Tronti denunciava come “nel pensiero politico contemporaneo” fosse scomparsa “l’abitudine a praticare la critica dell’ideologia, cioè lo sforzo di andare oltre l’apparenza con cui i fenomeni si manifestano per coglierne il significato reale”. Con il crollo del socialismo dell’Est, sull’onda della canea anticomunista, gli apologeti del capitalismo hanno montato una feroce campagna contro le ideologie con l’obiettivo esclusivo di demonizzare il marxismo. Di fronte a una tale offensiva, il cui tentativo era quello di contrapporre nuove ideologie a quelle vecchie, la sinistra si è lasciata disarmare non solo politicamente, ma anche culturalmente. Rinunciando alla sua weltanschauung, ha subito il contagio del postmoderno e dell’onnipotenza del sistema. Per le sue nuove leve dirigenziali il pensiero di Marx, la critica strutturalistica, l’indagine socio-analitica sono divenuti simulacri da buttare. Poiché l’avere una visione ideologica significa avere una data visione del mondo, vale la pena su questo aspetto svolgere una fugace riflessione. Il termine “ideologia” vanta molte interpretazioni. Coniato da Destrutt de Tracy, sul finire dell’illuminismo verso la fine del ‘700 per indicare la “scienza delle idee”, con il passare del tempo ha assunto significati diversi. All’indomani della caduta del muro di Berlino è stato usato da molti strumentalmente e identificato tout court con il marxismo. Si è cercato in questo modo di far dimenticare che, nel corso dei secoli, le ideologie si sono presentate sotto varie forme come strumenti utili ai gruppi dominanti per sottomettere le masse popolari. E pure che esse non sono affatto morte, ma sopravvivono e sono destinate ad avere una funzione anche nel tempo della globalizzazione. Avere una visione ideologica significa osservare la realtà attraverso un insieme precostituito di valori e di giudizi, rinunciare all’analisi obiettiva dei fatti e pretendere di essere portatori della verità. Marx e Gramsci hanno considerato le ideologie delle superstrutture che si contrappongono alla concezione materialistico-dialettica della storia e hanno una potente validità psicologica in quanto organizzano le masse umane formando il terreno su cui esse si muovono. Precisa il teorico della filosofia della prassi: “Sono fatti storici reali che occorre combattere e svelare nella loro natura di strumenti di dominio, non per ragioni di moralità ecc., ma proprio per ragioni di lotta politica”. Ogni ideologia ha, infatti, una sua storicità, fonda le sue radici nelle tradizioni di un popolo, porta in sé un mito. E tale è da considerarsi ogni dottrina che a una visione obiettiva e dialettica della realtà 523
predilige un’interpretazione alla luce di un credo o di uno schema astratto di valori. Ideologia per eccellenza, ad esempio, è la religione. Così come lo sono le credenze nell’astrologia, nella chiromanzia, nelle arti magiche, nello spiritismo, ecc., pratiche tutt’ora assai diffuse le quali sostituiscono di fatto le funzioni attribuite al “regno dei cieli” o che con questo si confondono. Prodotti ideologici sono pure la cupidigia di denaro, l’ambizione di potere, la smania di protagonismo, attitudini mondane queste ispirate alla logica di dominio. L’errore compiuto dalla sinistra è stato quello di aver sovrapposto al movimento di lotta uno schema ideologico che è poi diventato una dottrina. E nel momento in cui una teoria si trasforma in dottrina a prevalere non è l’obiettiva analisi degli eventi, ma il verbo dei padri fondatori o di chi la presiede. Sua caratteristica è la tendenza maniacale a considerare la propria visione delle cose e del mondo come verità assoluta. Se è pur vero che le ideologie di sinistra si sono dimostrate di una qualche efficacia nel frapporre resistenza alle classi dominanti, nel perseguire un modello di società superiore esse si sono rivelate non solo infeconde, ma addirittura dannose. Anziché favorire l’autonomia degli individui, hanno mortificato la loro stessa esistenza. Se il socialismo ha finito per apparire un’idea vecchia e consunta è proprio dovuto al processo di ideologizzazione che ha subito. Come soleva ricordare Cesare Luporini, “la classe operaia, come classe rivoluzionaria, ha bisogno non di ideologia, né di una scienza tutta per sé, ma di scienza, senza aggettivi”. Ha bisogno non di dottrine, ma di teorie, cioè di un sistema di idee aperto capace di modificarsi, di avere come riferimento i dati del mondo esterno, fondato sul principio della sua biodegradabilità, cioè della sua morte possibile. Marx ci ha insegnato che il nostro sapere è relativo, perché destinato a essere superato con il procedere del tempo e delle conoscenze; e che nemmeno il comunismo sarà una società perfetta poiché “l’età dell’oro” vive solo nell’immaginario collettivo. L’interpretazione che correntemente viene data al termine “ideologia” deve dunque essere contrastata a fondo e deve essere ristabilito il primato dell’elemento cosciente. Non si diventa marxisti solo perché si è letto Marx, o almeno non soltanto per averlo letto, ma rifiutando di pensare e di agire in base a preconcetti e facendo i conti quotidianamente con la realtà che ci circonda e con il nostro stesso mondo intimo. Ogni atto e ogni proposizione devono essere il frutto di un’attenta e critica valutazione dei condizionamenti e delle compatibilità di ogni ordine. Nel modo di essere della sinistra, a questo riguardo, ho avuto modo di notare e continuo a notare una grande confusione. Più volte mi è capitato di sentire prestigiosi dirigenti del movimento operaio esaltare “l’ideologia comunista” così come il prete in chiesa esalta le “sacre scritture”; per non dire del disordine mentale che si riscontra spesso nel popolo comunista a riguardo della concezione della vita, del mondo e dell’operare dell’uomo nella quotidianità. Nel corso di una mia indagine sul precariato svolta nei primi anni del secolo, mi è capitato di scoprire che alla Cgil di una delle più importanti province lombarde risultavano iscritti come categoria sindacale dei lavoratori precari un’ottantina di personaggi la cui professione ufficiale era quella di chiromante, cartomante, sensitivo, veggente, ecc.. E ricordo che per i dirigenti di quella Camera del Lavoro, per lo più aderenti all’ex Pci, tali adesioni costituivano addirittura motivo di vanto. Come spiegare una simile incoerenza se non con l’esistenza di una notevole confusione mentale? Si tratta di incoerenze che sono certamente dovute a immaturità o superficialità culturale, ma anche al fatto che la teoria marxista è stata diffusa non come uno strumento critico di ricerca e di verifica con la realtà, ma come un sistema di idee giuste, da far proprie acriticamente. Ebbene, a mio modo di vedere, con simili tare la sinistra non può avere la pretesa di cambiare il mondo, proprio perché si dimostra inadeguata a dare vita all’“uomo nuovo” in contrapposizione all’homo oeconomicus. Perché possa farlo, deve vantare una sua autonomia di pensiero, deve avere una sua weltanshauung. Come gli uomini del Rinascimento hanno dovuto affrontare situazioni e problemi che la vecchia cultura non era in grado di risolvere, così la sinistra deve saper trasformare l’etica dell’uomo se vuol 524
costruire una civiltà che sia nuova, consapevole e comunitaria. Deve avere l’avvertenza che la stessa società globale esige la formazione di un uomo diverso da quello che è stato sin qui plasmato dallo stesso sistema capitalistico, e che quindi deve misurarsi con spinte a un cambiamento che non corrispondono affatto al bisogno di giustizia sociale e di solidarietà. Il capitalismo non privilegia lo spirito critico, suo punto di forza è il mantenimento dell’uomo in stato di incoscienza e di disimpegno sociale, salvo costringerlo ad alimentare il suo processo di accumulazione. Per essere soggetto alternativo, la sinistra deve mettere in campo un nuovo umanesimo, costruire una sua antropologia culturale, politica e morale capace di eliminare e superare gradualmente tutte le forme di alienazione della coscienza e della natura umana che il sistema capitalistico produce. Per poterlo fare deve valorizzare la ricerca partecipativa in ogni ambito e dare spazio alla creatività degli individui mettendo in rapporto di comunicazione solidale persone esperte e persone semplici. La socializzazione è insieme educazione, formazione dell’individuo sociale e protagonismo di massa. E per favorire una tale integrazione si deve agire con l’entusiasmo per il “nuovo” e con la consapevolezza che questo “nuovo” porterà con sé nuovi valori, nuove libertà, nuove opportunità, nuovi traguardi da raggiungere. Occorre dunque ripensare i sistemi educativi e formativi, potenziare il pensiero critico e creativo, confutare la coscienza mistica, educare gli individui ad agire consapevolmente (chiedersi il come, quando, perché di ogni azione assicurandosi di ledere i diritti altrui), far prevalere in essi l’istinto altruistico su quello egoistico, abituarli all’idea che tutto scorre e non esiste stabilità e che oltre ai diritti esistono i doveri. Cambiare la mentalità degli individui, modificare il loro senso comune, renderli capaci di opporsi a qualsiasi potere, non è certo cosa facile, il processo di emancipazione è una conquista graduale che esige tempo, pazienza, costanza e intelligenza. Questa però è la condizione dell’alternativa. Come diceva Rosa Luxemburg, il socialismo è il primo movimento popolare nella storia del mondo che si proponga, e sia chiamato dalla storia, di portare nell’agire sociale degli uomini un senso cosciente, un pensiero pianificato e con ciò il libero volere. Oltre a cambiare i modi di pensare, è però necessario cambiare anche il modo di produrre e anche a questo riguardo c’è un immenso lavoro teorico e pratico da svolgere. 16.7 – Superare l’economia politica Come ho già ricordato, Marx ha compiuto un’analisi dell’economia capitalistica e non si è curato di fornire indicazioni sull’economia socialista e sulle caratteristiche del sistema sociale che avrebbe dovuto sostituirla; a questo riguardo si è limitato a suggerire alcuni indirizzi generali. A riempire il vuoto da lui lasciato ci hanno provato alcuni suoi discepoli tra i quali Enrico Barone che merita di essere ricordato per aver abbozzato la teoria di una repubblica socialista che fa propria la libertà di scelta sia per il consumo, che per il risparmio e l’occupazione. Una tesi, la sua, che in materia di concorrenza pare molto simile all’ordinamento capitalistico. L’assenza d’indicazioni e l’improrogabilità delle scelte hanno fatto sì che, nel dare vita alla società socialista, i bolscevichi, con la Nep, adottassero alcune regole dell’economia politica. Questa, come abbiamo visto, è la scienza che si è imposta al tempo in cui ha avuto termine l’ancien régime e concepisce l’ordinamento capitalistico come una forma naturale, assoluta e definitiva della produzione sociale. Ovviamente, l’espressione “economia politica” ha assunto nel tempo significati differenti e ha anche rappresentato situazioni diverse. Come ci ricorda Engels, “l’economia politica non può essere la stessa per tutti i paesi e per tutte le epoche storiche”. Nel passaggio dalla modernità alla postmodernità, ad esempio, il modello dell’accumulazione capitalistica originaria ha subito un mutamento che ha fatto diventare la ricchezza e il lavoro sempre più immateriali. Un solo suo aspetto non è mai cambiato nel tempo: la capacità del sistema di rendere infelice larga parte della società. Gli estimatori di Adam Smith non lo ricordano volentieri, ma lo stesso fondatore dell’economia politica ha dato segno di avere piena consapevolezza di questa caratteristica, quando 525
ha ammesso che laddove c’è proprietà privata la maggioranza della popolazione è destinata a soffrire. A far propria una rinnovata critica all’economia politica ci hanno provato i padri del marxismo occidentale, in primis Rosa Luxemburg, Gramsci, Lukàcs e Korsch, i quali erano convinti che con lo sviluppo del socialismo avrebbe avuto inizio una nuova epoca nella quale le leggi anarchiche del mercato sarebbero scomparse. La storia purtroppo li ha smentiti: ambedue gli esperimenti che sono stati compiuti, il riformismo socialdemocratico e il socialismo reale, si sono rivelati incapaci di dare corpo a un sistema economico alternativo al capitalismo. La prima esperienza è risultata subalterna ai bisogni funzionali dell’accumulazione capitalistica, la seconda, ritenendo il modo di produzione capitalistico valido come fondamento della produzione anche in una società socialista, ha tentato una sua impossibile razionalizzazione. In larga parte dei gruppi dirigenti è invalsa la convinzione che l’economia di mercato fosse uno strumento insostituibile per la costruzione del bene comune. Ambedue le esperienze hanno trascurato aspetti cruciali della teoria marxiana: ad esempio, che il modello capitalistico non può funzionare senza sfruttare la forza lavoro e senza alienare l’uomo; e poi che il suo modo di produrre non può rendere gli uomini “attori e soggetti coscienti della prassi sociale e della conflittualità“. In entrambi i casi si è esasperata l’interpretazione meccanicistica della transizione e si è attribuita una valenza risolutiva alla conquista del potere politico; in particolare, la sinistra rivoluzionaria ha posto l’attenzione più che sul modo di produrre, sulla forma di proprietà dei mezzi di produzione e non per caso l’esperienza sovietica ha dato vita a un sistema di capitalismo di Stato. Il cedimento alle leggi dell’economia del capitale e l’assimilazione delle teorie neoliberiste è stato progressivo e parallelo al venir meno dello sforzo di comprensione del succedersi dei vari stadi dello sviluppo del capitalismo. Mentre sotto la pressione della lotta di classe il sistema ha introiettato elementi di socialismo (il welfare ne è un esempio), la classe operaia ha fatto sua la cultura fordista e ha dimostrato di avere una visione statalista nella gestione della società e di concepire anch’essa, come fattore di crescita, l’esclusivo sviluppo delle forze produttive. Se il movimento operaio ha subito il fascino della cultura del capitalismo, ciò è dovuto proprio ai limiti teorici della sinistra la quale, pur proponendosi di imperniare la sua politica su produzione e lavoro, non ha compreso che la semplice crescita non può assicurare il benessere sociale e che nella società di mercato tutto è destinato a diventare negoziabile. Si è in sostanza dimostrata incapace di smentire tutti coloro che credono che senza libertà di produrre non possa esistere produttività dell’economia, e non è stato in grado di mettere in campo contenuti alternativi a quelli offerti dal capitalismo. Nei primi anni ’90, lo storico Lucio Villari così commentava questo deficit di teoria: “Non mi pare ci sia nel panorama della cultura italiana del Novecento una critica al capitalismo serrata e fondata dal punto di vista teorico, come invece c’è stata in altri paesi e in altri momenti della storia”. A testimonianza dello scontro tra capitale e lavoro è così rimasta solo la lotta in fabbrica la quale, anche se priva di sbocco politico, ha continuato a essere l’espressione di un’insopprimibile contraddizione del sistema. Sta di fatto che i partiti comunisti, e non solo quello italiano, si sono dimostrati incapaci di superare l’economia politica e oggi, di conseguenza, gran parte della sinistra sembra aver rinunciato all’idea stessa di socialismo. Nonostante la vastità e l’acutezza della crisi che stiamo vivendo, diventa sempre più raro trovare nella letteratura politica della sinistra una condanna esplicita del sistema capitalistico, quale responsabile del disastro socio-economico che abbiamo di fronte. Lo stesso termine “capitalismo” ricorre sempre meno nel suo linguaggio e nei suoi documenti, quasi fosse atto compromissorio il solo nominarlo. Se dunque non è corretto ritenere che la maggioranza della sinistra si sia ridotta a “servire il sistema”, di certo si può parlare di una resa ai suoi meccanismi. E ciò è potuto accadere perché essa 526
ha scisso gli obiettivi quantitativi dai contenuti qualitativi; ha cessato di esprimere una critica dello sviluppo capitalistico; si è lasciata irretire dalle compatibilità del sistema fino al punto di non riuscire a dare soluzione al rapporto produzione-natura-salvaguardia dell’ambiente (eloquente è il caso del settore automobilistico); non è riuscita a dare una spiegazione in termini di accumulazione della crescita della produzione dei settori terziario (servizi) e quaternario (istruzione e ricerca); ha smarrito gli obiettivi della piena occupazione e della protezione sociale per tutti; non ha saputo impedire che il capitale trasformasse gli stessi lavoratori in “investitori” (possessori di quote azionarie), mettendoli così in uno stato di contraddizione oggettiva; ha cessato di interpretare il conflitto sociale fino al punto di temerlo e moderarlo; alle pratiche politiche ha fatto venir meno il prezioso e insostituibile supporto della ricerca; non è stata in grado di dare una risposta ai presupposti dello Stato del benessere e oggi sembra non possedere nemmeno gli strumenti culturali per delineare e mettere in campo un nuovo welfare state. Non avendo individuato i modi, le forme, i tempi, i soggetti del processo di trasformazione, oggi si ripara dietro il pretesto delle oggettività storiche e non sembra disposta a compiere un serio esame autocritico della sua esperienza. Eppure di motivi per riflettere ce ne sono a iosa. E’ il caso di riprendere la riflessione critica che Maurice Dobb e pochi altri economisti hanno svolto sull’economia sovietica, precisamente, sul fatto che la “teoria sociale della gestione economica”, nel socialismo reale, è rimastra un postulato; poi sulla differenza tra statalizzazione e socializzazione, e ancora sull’esperienza jugoslava dell’autogestione. Da una simile riflessione è possibile ricavare un prezioso insegnamento e apprendere quali errori non si devono compiere nel processo di trasformazione. La stessa storia della sinistra italiana offre un’infinità di spunti per un proficuo esame critico delle politiche economiche sperimentate: dalla ricostruzione postbellica al piano del lavoro della Cgil, dal nuovo modello di sviluppo all’“economia mista” proposti dalla corrente ingraiana, dalla politica di austerità di Berlinguer alla proposta estemporanea di Occhetto di adottare il “capitalismo nella gestione e il socialismo nella proprietà”. Solo una riflessione del genere consentirebbe di individuare errori e illusioni e mettere a punto, per deduzione, una piattaforma per l’alternativa. Ma per fare questo a me pare manchino sia la volontà che il coraggio. Non ci provano i politici, non si dimostrano interessati gli economisti i quali portano sulle spalle pesanti responsabilità nel non aver denunciato a tempo deviazioni ed errori. Eppure, spettava, e spetterebbe ancora, a loro indicare il percorso per la sperimentazione di un modello economico ispirato ai principi del socialismo. Invece, come ha denunciato Giorgio Lunghini, “oltre ai diversi approcci alla materia, permangono profonde differenze sia sul metodo sia sui modi di intendere la scienza economica”. Ci sono economisti che “procedono su binari rigidamente vincolati al progresso di altre discipline quali la statistica e la matematica ed escludono ‘interferenze’ di stampo politico-ideologico”. E altri che si accontentano di commentare e rielaborare in maniera elegante, ma inefficace, il pensiero dei classici astraendo dalla realtà contemporanea. Non è un caso che le varie scuole italiane di economia, quelle dei Portici, di Ancona, di Modena, sono sparite e che ad essere premiati sono i ragionieri della finanza. Si ha l’impressione che di economisti di sinistra non ne esistano più e che chi opera sul campo sia incapace di utilizzare gli schemi tradizionali, quelli di Marx, di Keynes, di Schumpeter, adeguandoli alla realtà dell’oggi per fronteggiare i problemi emergenti. Per superare la crisi del welfare, per sconfiggere la dilagante disoccupazione, per arrestare il diffondersi delle povertà, per preservare e risanare l’ambiente, per impedire lo sperpero delle risorse, si rende necessario andare oltre il calcolo economico capitalistico, ma nessuno sembra avere la determinazione e possedere i requisiti per compiere questo salto. Negli ambienti intellettuali della sinistra si avverte una carenza di teoria che fa spavento. Il sapere è sempre meno apprezzato e a prevalere è lo specialismo; eppure è sempre più evidente che per uscire dalla situazione di crisi in cui versiamo c’è bisogno di un maggior livello di poliedricità. Come lo storico ha bisogno dell’economia, così l’economista non può accontentarsi di far uso solamente della matematica e della statistica, ma deve saper fare i conti con la storia e con la realtà sociale. C’è bisogno di analisi 527
che facciano perno sulla teoria del valore lavoro, della produzione e distribuzione della ricchezza prodotta e invece si registra una carenza di studi sull’evoluzione stessa del capitale e sull’estensione del suo potere in tutti i gangli della società. Per esemplificare, nel VII quaderno dei “Grundrisse” Marx scrive: “Lo sviluppo del capitale fisso mostra in quale misura il sapere sociale generale, la conoscenza, si è trasformato in forza produttiva immediata, e quindi fino a che punto le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo dell’intelligenza generale e rimodellate in accordo con essa”. Rilevamenti del genere, in tempi recenti, non mi pare siano stati fatti e se esistono, non sono mai stati resi pubblici. E questa assenza di conoscenza mi induce a ritenere che avesse ragione Dobb a dire che “la sostanza della lunga discussione degli economisti, spesso sottilmente condotta, è quella di dar vita a un certo numero di fantasmi, più che di fornire indicazioni concrete ai pianificatori di una economia socialista”. E pure Schumpeter, che comunista non era, diceva bene allorquando sosteneva che “gli economisti hanno ceduto alla loro forte inclinazione di occuparsi dilettantescamente di politica, di vendere al minuto ricette politiche, di presentarsi come filosofi della vita economica”. E’ proprio questo vuoto analitico, di elaborazione teorica e di disponibilità alla sperimentazione che rende impossibile l’abbozzo di un’alternativa e di una teoria sociale complessiva della transizione. Originariamente dogmatica e chiusa al nuovo, col tempo la stragrande maggioranza della sinistra comunista si è convertita al keynesismo e ha creduto di poter addomesticare politicamente il capitalismo. Oggi le risulta impossibile pensare al di fuori degli schemi del lavoro salariato e della mediazione statuale dei bisogni. Come fanno i liberisti, misura lo sviluppo della società con gli indici del Pil e della produzione industriale. Inventato negli anni ’30 dagli americani come misura dell’efficacia delle politiche economiche, è ormai divenuto un indice inefficace, obsoleto, tant’è che oggi oltreoceano viene sostituito dal Go (gross autput), ma la sinistra non sembra avvertire il bisogno di un salto innovativo. Essa ha scordato completamente il monito di Marx che limitandosi alla lotta salariale i lavoratori “combattono con gli effetti ma non con le cause di quegli effetti”. Non si rende conto che l’azione rivendicativa sindacale non può di per sé sanare le ingiustizie sociali ed erodere il potere del capitale. Di fronte alla recessione invoca la crescita, ma quando si tratta di indicare contenuti e mezzi per conseguirla, manifesta incertezza e confusione. Sembra non accorgersi che a differenza dell’economia capitalistica, quella sociale e solidale continua a crescere anche in fase di recessione e che pertanto andrebbe sostenuta e incoraggiata. Della necessità di una riappropriazione del “general intellect” da parte degli individui, nella prospettiva di far diventare la classe lavoratrice e il popolo soggetti della propria esistenza, nei suoi programmi non si vede traccia. Il patrimonio d’intelligenza delle masse lavoratrici di cui il capitale si appropria per consolidare ed estendere la sua egemonia non appare meritevole di attenzione. Un “buco nero” della sinistra è proprio rappresentato dall’assenza nei suoi programmi di un nesso stringente tra bisogni immediati e strategia della trasformazione. Già alla fine degli anni ’70, Rossana Rossanda metteva il dito su questa piaga interrogandosi: “non sarà che – per rivoluzionarie che siano le nostre intenzioni – quando parliamo di ‘economia’ restiamo nella convinzione che uno è lo sviluppo e molte sono le forme di proprietà?… Non sarà che a noi, rivoluzionari dei paesi ricchi, fa tutto sommato ancora comodo ‘questo’ sviluppo? E’, io credo, l’ambiguità persistente del nostro marxismo, il nostro revisionismo… Non è la inconfessata complicità d’una ideologia ancora e malgrado tutto comune, che lascia gli operai operai, l’accumulazione accumulazione, lo stato stato – e tacitamente cede al cinismo dei partiti comunisti, che ha relegato il comunismo nell’utopia?”. Questi dilemmi sono di un’attualità sconcertante. Quel che appare chiaro è che condividere il punto di vista dell’economia politica significa in sostanza essere incapaci di elaborare in termini concreti le condizioni di un suo reale superamento.
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Una delle condizioni per realizzare uno sviluppo alternativo a quello capitalistico è il rifiuto della separazione fra politica ed economia. Deve poi essere abbandonato il modo di pensare e di agire secondo il quale per produrre è necessario il denaro e far proprio invece il principio che fonte della ricchezza è esclusivamente l’attività umana. Bisogna puntare sullo sviluppo qualitativo anziché su quello quantitativo e passare da un’economia fondata sul profitto individuale a un’economia ispirata al benessere collettivo. R’ poi indispensabile togliere gradualmente il potere decisionale alle élite per trasferirlo agli organismi di democrazia diretta che il mondo della produzione e della riproduzione sociale è chiamato ad esprimere in raccordo con le istituzioni rappresentative centrali e locali. La democrazia deve espandersi oltre i limiti storici del sistema politico che conosciamo e investire l’intera struttura economica la quale deve diventare patrimonio di massa. E per fare questo la scienza e le nuove tecnologie offrono tutti i mezzi necessari. Mancano solo la volontà politica e il progetto.
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Capitolo 17°
Il nodo cruciale del “genera intellect” 17.1 – La statalizzazione non è socializzazione E’ convinzione diffusa, anche tra il popolo della sinistra, che padre dell’economicismo e dello statalismo sia Carlo Marx, eppure nella sua opera non vi è traccia alcuna di simili concezioni. Tutto il suo ragionamento è imperniato sul principio della socializzazione e del pieno coinvolgimento nel processo di cambiamento delle masse popolari; il che è l’opposto di qualsiasi progetto di conquista del potere politico, e quindi dello Stato, da parte di un’avanguardia. Sia l’economicismo che lo statalismo, sono concezioni che non appartengono alla teoria marxiana, bensì sono il prodotto di quella parte del pensiero marxista che ha fatto sue acriticamente le teorie liberaliste dell’intervento dello Stato in economia. A confondere la paternità di questi concetti, purtroppo, ha contribuito lo stesso Engels che pure condivideva in pieno le posizioni di Marx. Nell’“Anti-Duhring”, infatti, egli ha sostenuto che : “quanto più (lo Stato) si appropria le forze produttive tanto più diventa il vero capitalista collettivo, tanto più sfrutta i cittadini. Gli operai restano dei salariati, dei proletari. Il rapporto capitalistico non è abolito bensì portato al limite estremo”. All’indomani della morte dell’autore de “Il capitale”, però, ebbe a sostenere che “spingendo in misura sempre maggiore alla trasformazione dei grandi mezzi di produzione socializzati in proprietà statale… il proletariato s’impadronisce del potere dello Stato e anzitutto trasforma i mezzi di produzione in proprietà dello Stato”. Erano i tempi in cui nel movimento operaio dilagava il revisionismo di destra e l’ambizione di larga parte degli esponenti della 2a Internazionale era di andare al potere senza grandi traumi, anche a costo di pesanti compromessi, e quest’ultima sua asserzione divenne un alibi. Il genero di Marx, Paul Lafargue, si è opposto a una simile interpretazione e polemicamente ebbe a dire che “invece di far sì che lo Stato diventi il padrone delle poste e dei telegrafi, batta moneta, diriga le ferrovie, come fa in quasi tutti i paesi capitalistici, invece di far sì che lo Stato diventi il padrone delle filande e delle tessitorie, il direttore delle fabbriche, ecc., come voleva Lassalle, il potere rivoluzionario dovrà fare in modo che gli operai stessi diventino padroni e imprenditori, che essi diventino direttori di sé stessi”. La sua tesi, che appunto rispecchiava la visione marxiana del processo di cambiamento, è risultata però minoritaria e il grosso del movimento si è mosso in tutt’altra direzione. A dare il colpo mortale al progetto di socializzazione sono stati però anche i bolscevichi i quali nei fatti hanno trasferito la concezione leniniana del partito di avanguardia dal piano della lotta politica a quello dei processi economici. Nel quarto capitolo ho cercato di spiegare come Lenin, pur determinato a decentrare il potere e a realizzare un sistema economico alternativo, abbia subito (anche a causa dello stato di arretratezza della Russia) il fascino del modo di lavorare e di produrre capitalistico e abbia adottato i metodi tayloristici per far uscire il Paese dalla condizione di sottosviluppo e di miseria. Se nella storia è rintracciabile un esempio di come la statalizzazione non corrisponda affatto ai principi della socializzazione teorizzata da Marx, ma costituisca anzi uno dei modi di essere dello stesso sistema capitalistico, è rappresentato proprio dall’esperienza e dalla fine del socialismo reale. Fatto è che dopo la rivoluzione d’ottobre, quasi tutti i teorici del marxismo e anche larga parte della base militante della sinistra, hanno sposato la tesi della statalizzazione quale passaggio obbligato della transizione dal capitalismo al socialismo. Gli studi di approfondimento su quanto teorizzato da Marx e da Engels a riguardo del processo rivoluzionario, sono stati numerosi, alcuni tra l’altro molto sofisticati, eppure solo pochi dei loro autori, poi considerati eterodossi, hanno insistito sul ruolo del protagonismo di massa, cioè sul “general intellect”. E’ questa una delle più gravi responsabilità che la sinistra, in particolare i suoi “chierici” intellettuali, si è assunta di fronte alla storia. 530
Sia laddove essa è assurta al potere sia nei Paesi in cui essa ha svolto un ruolo di opposizione, la strategia perseguita è stata quella della nazionalizzazione dei mezzi di produzione e della pianificazione centralizzata diretta dallo Stato. La conquista del potere politico da parte del partito è così divenuta la prospettiva prioritaria del movimento. Nei Paesi del socialismo reale una simile cultura è risultata essere a tal punto radicata da contagiare persino gli stessi oppositori di sinistra del regime. Ricordo che nei primi anni ’70, l’economista polacco comunista Wlodzimierz Brus così prefigurava una possibile riforma del sistema: “Se saranno costruite in modo giusto le forme istituzionali e se sarà correttamente impostato l’accoppiamento del sistema parlamentare con l’autogestione a livello delle aziende, degli enti locali, delle cooperative, dei sindacati, ecc., non mancherà la correlazione positiva tra la democraticità e l’efficienza della gestione economica”. Nei Paesi a regime capitalistico, nella quasi totalità la sinistra ha posto quale condizione per realizzare il socialismo la nazionalizzazione dei settori chiave dell’economia. Se si escludono le realtà del Belgio, della Germania, dell’Olanda e degli Stati Uniti, nel resto dell’Occidente la strategia della statalizzazione è risultata essere una delle componenti fondamentali dell’azione di tutti i partiti che facevano riferimento al movimento dei lavoratori. Nel Regno Unito i laburisti, pur in una visione di ripulsa del marxismo, si sono battuti per la proprietà collettiva dei mezzi di produzione e per le nazionalizzazioni delle miniere di carbone, del settore siderurgico, dei grandi mezzi di comunicazione e di trasporto, del gas e dell’elettricità e anche della Banca d’Inghilterra. In Francia, comunisti e socialisti (si veda il programma dell’Union de la Gauche) si sono pure battuti per la nazionalizzazione delle miniere di carbone, della Renault, dell’Air France, dell’elettricità e del gas, della Banca di Francia e delle principali banche commerciali, fino alle società di assicurazione. Analoghe iniziative sono state prese dai partiti socialdemocratici anche in Norvegia e in Svezia. In Italia il processo di nazionalizzazione è stato talmente vasto da comprendere oltre la metà del potenziale industriale e creditizio. Sessant’anni fa il settore pubblico valeva il 20% del Pil, oggi vale il 50%, eppure la ricchezza rimane abbondantemente nelle mani di pochi e il potere economico e politico continua a essere concentrato in poche mani. L’artefice più solerte di questa strategia statalista è stato senza dubbio il Pci il quale, sin dai tempi della Liberazione, ha fatto sua la linea del “governo democratico dell’economia”. L’obiettivo della “programmazione democratica” che esso ha perseguito dal dopoguerra fino al suo autoscioglimento, presupponeva una lotta serrata ai monopoli e il riconoscimento di un ampio ruolo dell’iniziativa economica privata . Convincimento del suo gruppo dirigente era che questo modo di agire avrebbe rappresentato un primo passo verso la rottura della logica capitalistica. Come ebbe a precisare alla fine degli anni ’60 uno dei più eminenti economisti e dirigenti del partito, Antonio Pesenti, “il controllo dell’economia deve essere esercitato democraticamente dall’alto… L’orientamento politico e il controllo politico dell’attività imprenditoriale dello Stato deve spettare al Parlamento”, mentre “la democratizzazione dell’impresa dal basso deve comportare una più diretta partecipazione dei lavoratori alla direzione aziendale”. Come si evince, l’azione delle istituzioni rappresentative centrali era considerata prioritaria rispetto a quella degli istituti di democrazia dal basso. Quest’ultima avrebbe dovuto avere un semplice ruolo di complementarietà. Il “farsi Stato” del Pci comportava necessariamente l’accesso alle stanze del governo e la rivoluzione che esso proponeva aveva carattere politico prima ancora che sociale. Alla fine degli anni ’70 Luciano Gruppi, uno dei teorici del partito, in “La dialettica materialistica della storia” sosteneva: “Mentre la rivoluzione politica della borghesia è preparata dal formarsi, in seno della società feudale, di rapporti di produzione borghesi, nella rivoluzione proletaria, invece, la costruzione graduale di nuovi rapporti di produzione, resa possibile dallo sviluppo delle forze produttive, comincia dopo la conquista del potere statale da parte della classe operaia…L’organizzazione della classe operaia, la sua lotta politica e ideale, non modifica nella sostanza il quadro dei rapporti economici, ma prepara lo scontro fra la classe operaia e lo Stato 531
borghese. Solo dopo la conquista del potere da parte della classe operaia e dei suoi alleati comincia la trasformazione dei rapporti di produzione, l’adeguarsi della proprietà dei mezzi di produzione, che diventa sociale, al carattere sociale della produzione. La superstruttura statale agisce sulla struttura da questo momento. Questo è il quadro, ci sembra, che può essere ricavato da Marx”. Eppure, Marx ed Engels non ebbero mai dubbi sulla collettivizzazione su larga scala dell’agricoltura e sulla socializzazione dei mezzi di produzione quale condizione indispensabile per la costruzione del socialismo. Fin dal 1850 Marx, sostenendo la nazionalizzazione della terra come un punto dello stesso programma rivoluzionario borghese, aveva proposto che “le proprietà confiscate dovessero rimanere di proprietà dello Stato ed essere trasformate in colonie dei lavoratori, coltivate da associazioni del proletariato agricolo, che avrebbe così beneficiato di tutti i vantaggi dell’agricoltura su larga scala”. E ne “Il capitale” ha ribadito con forza che “i produttori associati regolano razionalmente il loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca”, sia essa incarnata dal capitalista o dallo Stato. Negli anni ’60, quando ho frequentato la scuola di partito delle Frattocchie, ero anch’io convinto che la giusta interpretazione delle tesi marxiane sulla transizione e sulla socializzazione fosse quella di Gruppi, mentre con il procedere dell’esperienza politica mi sono ricreduto e nelle sue argomentazioni ho intravisto una contraddizione. Credo che uno degli errori in cui la sinistra (non solo il Pci) ha compiuto sia da individuarsi proprio nella sottovalutazione del ruolo della società civile nell’aggressione dell’economia capitalistica, e nell’aver affidato un tale compito allo Stato. Così come considero sbagliato il rinvio della costruzione dei rapporti socialisti a dopo la presa del potere politico. L’esperienza sovietica è lì a dimostrare come un tale progetto abbia fallito proprio per aver tenuto separati i due momenti. Non è da dimenticare che la borghesia, prima di conquistare il potere politico-istituzionale, ha dato scacco matto al regime feudale introducendo nel vecchio modo di produrre la “manifattura”, cioè cambiando l’economia, la struttura. In forza di questa constatazione la sinistra, anziché rinviare al dopo la trasformazione dei rapporti di produzione, avrebbe dovuto (e dovrebbe) introdurre nella società, prima ancora di entrare nelle stanze del governo e nel corso stesso della trasformazione della struttura, gli elementi di socialismo indispensabili a destabilizzare il sistema e preparare culturalmente e praticamente la classe lavoratrice, rendendola così protagonista della costruzione dell’alternativa. Considero a questo proposito un monito sia la riflessione compiuta da Gramsci sulla conquista delle “casematte”, sia l’intuizione che ebbe Enrico Berlinguer nel coniugare la “terza via” con la strategia dell’austerità. A metà degli anni ’80 nella dirigenza del partito c’è pur stata una presa d’atto dell’inefficacia e dell’incoerenza della linea della statalizzazione. Giuseppe Chiarante nell’87 ha, infatti, scritto: “Anche noi per lungo tempo abbiamo in pratica identificato socialismo e programmazione centralizzata, e solo negli anni più recenti abbiamo sottoposto a un critica radicale questa identificazione”. All’ammissione dell’errore però non hanno fatto seguito i dovuti aggiustamenti di strategia e la riflessione critica non ha prodotto alcun cambiamento di indirizzo. Il fatto stesso che il processo di statalizzazione abbia generato burocrazia, clientelismo, lottizzazioni e consociativismo non ha indotto i comunisti italiani a un ripensamento. Certo, non era cosa da poco dirimere la cultura della centralità del potere politico che si era sedimentata nel corso dei decenni! E poi non è da trascurare il fatto che sotto l’apparente monolitismo del Pci si agitavano, sia a livello del gruppo dirigente che alla base, posizioni politiche decisamente contrastanti e inconciliabili al punto di impedire, negli ultimi decenni di vita del partito, la messa a punto di una linea unitaria di politica economica, nonostante che all’“Ufficio programma” si fossero succeduti i più prestigiosi dirigenti (da Reichlin a Lama, da Napolitano a Trentin). La “cosa” nuova messa in campo da Occhetto ha infine rotto definitivamente gli indugi e ha sospinto alla deriva l’intera sinistra. Ci si poteva attendere una riflessione critica dagli emuli di quella che è stata la “nuova” sinistra i quali, di fronte alla sparizione del Pci, hanno impugnato la bandiera della “rifondazione”. Ma 532
anche questi non hanno saputo andare oltre i vecchi schemi. Tanto è che ancora ai primi del nuovo secolo, a fronte della crisi della Fiat, Fausto Bertinotti, segretario di Rifondazione comunista, proponeva la nazionalizzazione dell’azienda argomentando che avrebbe consentito “la difesa di tutti i posti di lavoro” e la costruzione di “una politica industriale di sviluppo con un nuovo protagonista, la Fiat a partecipazione statale”. Sulla strategia della statalizzazione è dunque mancata una seria e approfondita riflessione, seppure la storia abbia dimostrato in modo palese la sua inefficacia ai fini del superamento del capitalismo sia in Oriente che in Occidente. Infatti, l’esperienza del socialismo reale, se pure è servita a garantire l’emancipazione economico-sociale dei Paesi arretrati e sottosviluppati, non ha portato alla socializzazione, ma si è esaurita nel caos proprio per l’incapacità di superare i canoni dell’economia politica. L’esperienza, storica, del resto, ha ampiamente dimostrato che le insurrezioni politiche hanno carattere rivoluzionario solo allorquando modificano le fondamenta economiche di un sistema e non semplicemente la sovrastruttura; mentre le nazionalizzazioni che sono state realizzate in Europa sono naufragate proprio sul terreno della politica economica (dalla Repubblica di Weimar ai Fronti popolari). La stessa esperienza jugoslava di autogestione è fallita per la stessa ragione. E ancora oggi, da noi in Italia, i quattro quinti delle aziende pubbliche (dalle aziende di Stato fino alle Regioni, alle Province e ai Comuni) vantano bilanci in perdita e questo è potuto avvenire in forza del fatto che le aziende nazionalizzate sono state gestite (per di più malamente) con gli stessi criteri delle imprese private. Anche queste stesse esperienze avrebbero dovuto indurre a riflessione, ma così non è stato. Solo ai margini degli ambienti politici dirigenziali, sottoforma quasi sempre di dibattito culturale, si è avuto modo di registrare un interesse attorno a questa spinosa, ma centrale questione della statalizzazione. Per citare un esempio, un’interessante riflessione l’ha svolta l’economista Gianfranco La Grassa il quale, alla fine degli anni ’90, su “Alternative Europa”, ha criticato la concezione stadiale dello sviluppo del capitalismo e ha invitato la sinistra a una riscrittura della storia della sua formazione sociale sulla cui base, e non altrimenti, egli ritiene possibile individuare un nuovo percorso di lotta anticapitalista. Di fronte all’attuale crisi del sistema, alla sinistra s’impone dunque un esame critico del suo operato e del suo bagaglio teorico. Credo anzitutto essa debba aver chiaro che l’economia politica concepisce il sistema capitalistico come la forma universale e più evoluta in assoluto dell’attività dell’uomo. Considera motore dello sviluppo la produzione di merci per lo scambio le cui condizioni sono la divisione del lavoro e un modo di organizzazione sociale fondato sul sequestro dell’intelligenza dei singoli individui. Lo scambio delle merci presuppone il mercato il quale, per stimolare la produzione, deve essere lasciato a se stesso, le sue regole non devono subire alcun condizionamento. L’esperienza storica ci insegna che un tale meccanismo non ridistribuire in modo equo la ricchezza prodotta, emargina i deboli e non risolve i problemi dell’ambiente e nemmeno quelli della crescita demografica, della fame e della povertà. Chi sostiene che la sua caratteristica è di essere neutrale, racconta una stupidaggine, poiché esso non offre alcun spazio a chi non possiede denaro. Lo Stato moderno, come vedremo più avanti, nasce con il capitalismo e la sua funzione è di esercitare sull’intera società il diritto formale, che è disuguale. Il suo ordinamento giuridico non è in condizioni di sovvertire i rapporti sociali esistenti e anche quando esso, dietro la spinta delle forze di sinistra, gestisce direttamente i settori dell’economia, agisce necessariamente entro i canoni dell’economia politica, cioè come imprenditore tra imprenditori capitalisti. E come Marx ci ha insegnato, entro i rapporti di produzione capitalistici non possono affatto formarsi rapporti di produzione socialisti. La diversità del regime del socialismo reale rispetto a quello capitalista è consistita semplicemente nel fatto che in esso il mercato era centralizzato e regolato dal processo pianificatorio in funzione di finalità sociali. Il modo di produzione e i rapporti sociali sono rimasti pressoché identici a quelli dei regimi capitalisti, salvo essere improntati a una gestione centralizzata e autoritaria. 533
Credere dunque nella natura neutrale dell’economia politica, nella possibilità di controllare il capitale nell’interesse della classe lavoratrice e di sostituire il suo sistema servendosi dello Stato, non è altro che un’illusione. La statalizzazione dell’economia, per quanto estesa possa essere, non rompe i rapporti di produzione capitalistici e non elimina il condizionamento che il valore di scambio esercita sul valore d’uso, ma produce solo capitalismo di Stato. L’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione non è e non può essere dunque di per sé la condizione della costruzione del socialismo. Perché intervenga un vero cambiamento occorre che i rapporti di produzione incomincino a poggiare sulla proprietà sociale. Un processo questo che porta ad esaurimento la funzione dello Stato e dà necessariamente vita a nuove forme di democrazia. In regime di economia politica non è poi possibile superare la condizione di alienazione che il capitale riserva all’uomo. Il processo di liberazione passa necessariamente attraverso la realizzazione di un nuovo modo di produrre. In questo nuovo sistema non può esistere alcuna subordinazione dei valori sociali e dei sentimenti al calcolo monetario e al rapporto mercantile. La socializzazione non si limita a sottrarre i mezzi di produzione alla proprietà del capitale, essa li pone sotto il controllo reale della società civile attraverso una diversa distribuzione dei poteri, mentre contemporaneamente apporta sostanziali modifiche ai rapporti di produzione e alle relazioni sociali. Non va poi dimenticato che – come ancora l’esperienza insegna – la sola abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione attraverso la statalizzazione non riduce e non annulla le spinte egoistiche che sono nella natura dell’uomo. Anzi, essa rischia di favorire altre debolezze umane quali la non curanza del bene collettivo, l’opportunismo, l’infingardaggine, il parassitismo. Fenomeni questi che nell’esperienza sovietica hanno avuto larga diffusione. Godere di maggiore autonomia e libertà, come ho già sottolineato, comporta essere maggiormente responsabili, avere ancor più rispetto degli altri, vantare un grande senso civico e avere il culto dell’interesse collettivo. Ecco perché il socialismo non è da intendersi solo come cambiamento della struttura o come questione squisitamente politica! Esso è una rivoluzione di civiltà e come tale comporta la trasformazione dell’uomo stesso, dei suoi interessi, dei suoi sentimenti, della sua cultura. Nei “Principi del comunismo” Engels ha precisato che la rivoluzione proletaria “dovrà togliere di mano ai singoli individui in concorrenza fra di loro l’esercizio dell’industria e di tutti i rami della produzione in generale e dovrà far gestire tutti quei rami della produzione dall’intera società, cioè in conto comune, secondo un piano comune, e con la partecipazione di tutti i membri della società. Dunque abolirà la concorrenza e la sostituirà con l’associazione”. Condividere un tale principio significa avere chiaro che il socialismo non può essere “instaurato” da nessun Stato e da nessuna avanguardia, e non può essere il prodotto né della statalizzazione né di una semplice politicizzazione della società civile, ma è un processo di autodeterminazione e di autogestione degli individui. Nella fase di transizione il partito e le istituzioni hanno il precipuo compito di favorire la maturazione di un tale processo emancipatorio e liberatore, giammai quello di operare per procura. La socializzazione è dunque un processo complesso e lungo. La stessa transizione dal sistema feudale al sistema capitalistico è durata secoli e non è certo stata un percorso lineare. Superare l’economia politica significa perciò rompere l’egemonia del capitale sul modo di produzione, sul sistema della riproduzione sociale, sull’organizzazione e sulle regole della convivenza, sulla formazione delle coscienze. E’ un’impresa che può essere condotta a buon fine solo da chi vanta una propria weltanschauung e, sentendosi erede del passato, mentre sa ricusare gli aspetti negativi del capitalismo, si dimostra capace di coniugare al modello sociale in formazione i suoi aspetti positivi. Superare le regole dell’economia politica è di certo un’impresa non facile, ma non impossibile. Alla luce delle contraddizioni sociali che stiamo vivendo e alle incertezze per il futuro è decisamente una necessità. Già due secoli e mezzo fa, nella Grecia della polis, l’economia era subordinata alla 534
politica. C’è perciò motivo di credere che se sono riusciti a far prevalere la ragione sull’irrazionalità i pionieri della democrazia, anche gli artefici dell’era telematica dovrebbero riuscire nell’impresa di far compiere all’umanità un ulteriore passo in avanti nel processo di emancipazione. 17.2 – Democrazia economica: teorie ed esperienze Non sono pochi i politici e gli economisti che considerano la democrazia economica, cioè quelle forme di partecipazione al capitale che da decenni vengono praticate nei Paesi capitalistici dell’Occidente, come una forma compiuta di autogoverno. Si tratta di una tesi sostenuta non solo dai rappresentanti del liberalismo, ma anche da diversi dirigenti e militanti della sinistra e persino da dichiarati marxisti. Ricordo che, nel corso di un confronto sulla natura del socialismo reale, negli anni ’70, un economista polacco ebbe ad affermare che “ogni partecipazione alle decisioni è già uno stadio dell’autogoverno”. E pure l’economista sovietico Stanislay Mensikov, nell’89, convinto di interpretare Marx, ebbe a sostenere che l’operaio, quando è messo nella possibilità di eleggere i suoi rappresentanti del consiglio di fabbrica, i quali in regime di democrazia economica controllano quotidianamente l’operato dei propri dirigenti, può sconfiggere l’alienazione. Se così fosse non si comprenderebbe perché mai il socialismo reale è crollato, per di più nell’apatia generale. Vale dunque la pena di soffermarsi sul valore di simili interpretazioni ripercorrendo per punti sommari la storia delle pratiche di democrazia economica. Il termine “wirtschaftsdemokratie” è stato usato in maniera compiuta per la prima volta nel 1928 dal curatore del manifesto della Repubblica di Weimar, Fritz Naphtali. In quegli anni nel movimento operaio vi erano due posizioni contrastanti a riguardo del rapporto capitale-lavoro: da una parte c’erano i seguaci di Bernstein che consideravano come una delle condizioni della transizione al socialismo la diffusione del diritto di proprietà, e quindi la partecipazione al capitale; dall’altra i leninisti i quali invece ritenevano la sottoscrizione di azioni un’omologazione al sistema, perciò un cedimento al capitalismo. Anche gli austromarxisti Hilferding e Renner, nel mettere a punto la teoria del “capitalismo organizzato”, erano convinti della bontà di una politica che favorisse la partecipazione dei lavoratori al capitale. E’ così che a partire da quegli anni il termine “democrazia economica” è incominciato a comparire nelle diverse versioni dei programmi socialdemocratici e socialisti in forme e contenuti diversi. Nel ’30, Oskar Lange ha introdotto le prime teorie sul socialismo di mercato: un sistema fondato sull’azionariato popolare il cui obiettivo era quello di conseguire l’uguaglianza sociale. Trenta e passa anni dopo, questa teoria è stata rilanciata da alcuni economisti socialisti riformatori quali il polacco W.Brus, l'ungherese P.Erdös, il russo E.D.Kaganov, il cecoslovacco O. Šik e lo jugoslavo J.Sirotkovich. Il socialismo di mercato non si proponeva il cambiamento della natura privata delle imprese, ma si limitava a rivendicare la modificazione del loro funzionamento attraverso una ristrutturazione finanziaria del sistema capitalistico. Convincimento dei suoi assertori era che solo un sistema convenzionale di proprietà privata capitalistica fosse in grado di offrire allo sviluppo sociale dinamica, efficienza, equità e libertà. Un’altra teoria di quei tempi era quella relativa al partenariato sociale la quale ha trovato sviluppo in Austria negli anni ’30 e ’40. Essa fondava sul rapporto di collaborazione tra datori di lavoro e organizzazioni dei lavoratori con l’obiettivo di risolvere i conflitti d’interesse attraverso il consenso, evitando così il conflitto di classe. Negli anni ’60 e ’70 il partenariato sociale ha incominciato ad emergere come mezzo di dialogo che oltrepassava i rapporti e i problemi immediati di imprenditori e dipendenti e si è esteso a tutti i settori economici e sociali. E’ appunto nel secondo dopoguerra che si è assistito a una larga diffusione della teoria della partecipazione al capitale dei lavoratori quale modo di conseguire il solidarismo sociale. Lo sviluppo della democrazia economica è avvenuto sia in forza dell’evoluzione delle esperienze del periodo tra le due guerre mondiali, sia grazie ad alcuni economisti e politici che hanno rielaborato i termini della sua applicazione. Tra questi è da segnalare l’inglese James E. Meade il quale ha proposto la costruzione di una partnership tra capitale e lavoro a misura dell’intera comunità 535
nazionale (“Agathopia”) e ha insistito sull’introduzione di elementi di autogoverno delle imprese nell’ordinamento economico-sociale. A suo giudizio, lo Stato deve assicurare un’equa distribuzione della proprietà e l’erogazione di un reddito di base, il dividendo sociale, come garanzia minima per tutti i cittadini. Ai lavoratori dipendenti egli riconosce il diritto di partecipare alla gestione aziendale, ma non alla proprietà del capitale. E’ da menzionare poi lo svedese Rudolf A. Meidner che ha teorizzato un graduale trasferimento della proprietà del capitale dalla classe borghese a quella lavoratrice. Il suo progetto prevede una strutturazione policentrica del potere economico senza che le leggi del mercato capitalistico subiscano una qualche modificazione, mentre garantisce ai lavoratori la partecipazione agli utili delle aziende. L’americano Robert A. Dahl ha invece argomentato le ragioni e la fattibilità di una democrazia economica basata su imprese autogovernate e ha invitato ad “esplorare la possibilità di una struttura economica alternativa che contribuirebbe a rafforzare l’uguaglianza politica e la democrazia, riducendo le diseguaglianze originate dalla proprietà”. La sua impresa autogovernata non ha nulla da spartire con i programmi pseudodemocratici di consultazione dei dipendenti da parte del management, o con i piani di partecipazione limitata dei dipendenti che lasciano tutte le decisioni cruciali a un management eletto dagli azionisti. Il francese Marcel Loichot, teorizzando il “pancapitalismo”, ha proposto una trasformazione dell’autofinanziamento delle imprese in incrementi di capitale da attribuire ad azioni di nuova emissione le quali andrebbero distribuite per metà agli azionisti, in proporzione alle loro quote di proprietà, e per metà ai dipendenti, in proporzione ai loro salari. Si tratta di un sistema che, a suo giudizio, consentirebbe ai lavoratori di controllare il capitale. Secondo il teorico della socialdemocrazia svedese Wingforss, la democrazia economica deve essere vista come una terza tappa dello sviluppo della democrazia comportando un’evoluzione della democrazia politica e della democrazia sociale; ed è da intendersi come un diritto di tutti i cittadini. Lo studioso americano Weitzman ha suggerito di dividere il salario in una parte fissa e in una variabile che andrebbe associata al risultato economico dell’azienda in cui il lavoratore è impiegato; il potere decisionale dovrebbe però restare interamente nelle mani della direzione dell’azienda. Si potrebbe continuare ancora a lungo nel citare i teorici della democrazia economica, credo però che ai fini di questa trattazione sia più utile passare in rassegna, seppur rapidamente, le esperienze più significative che a partire dal secondo dopoguerra si sono registrate in alcuni Paesi dell’Europa occidentale e negli Stati Uniti d’America. Dopo l’esperienza compiuta negli anni ’20, nella Repubblica Federale Tedesca la sperimentazione della partecipazione è ripresa all’indomani della seconda guerra mondiale. Dapprima con il regime di cogestione Mitbestimmung, successivamente con la comproprietà (Miteigentum), esperienza questa sfociata poi nella partecipazione dei lavoratori al patrimonio aziendale (Vermogensbildung). Nei primi anni ’50, il Bundestag ha approvato una legge sulla co-determinazione e sulla codecisione limitata alle imprese dei settori del carbone, dell’acciaio e delle miniere. La proposta avanzata dal sindacato unitario Dgb di estendere l’applicazione della normativa anche ad altri settori industriali non è stata accolta. La gestione delle imprese con oltre mille dipendenti è stata affidata a due organi: un consiglio esecutivo e un consiglio di sorveglianza. I lavoratori hanno acquisito il diritto di eleggere metà dei rappresentanti del consiglio di sorveglianza, mentre l’elezione della restante metà e del presidente è stata attribuita all'assemblea degli azionisti. Per le delibere del consiglio di sorveglianza, in caso di parità degli esiti elettorali, al presidente è stato assegnato un voto dal doppio valore. Poco tempo dopo, la stessa normativa è stata estesa ad altri settori, con la riduzione però della rappresentanza dei lavoratori nel consiglio di sorveglianza a un terzo dei membri. Ad estendere la cogestione a tutte le imprese del Paese con più di duemila dipendenti è stata invece una legge varata dal governo del socialdemocratico Helmut Schmidt, nel ’76. Questo provvedimento è stato preso a seguito di una mobilitazione del movimento sindacale e dopo un annoso braccio di ferro fra il partito socialdemocratico tedesco e quello cristiano-democratico. La 536
legge è stata approvata con un largo consenso politico, nonostante l’opposizione delle rappresentanze imprenditoriali le quali ritenevano che la legge violasse il diritto di proprietà e perciò hanno fatto ricorso alla Corte costituzionale federale. Da quel tempo in poi, in Germania, la cogestione ha regolato i rapporti tra capitale e lavoro senza però avere un effetto coercitivo. In caso di richiesta da parte dei lavoratori, laddove sussistano i requisiti dimensionali previsti dalla legge, la sua applicazione non può essere negata dal datore di lavoro. Gli accordi fra le parti sociali ancora oggi sono vincolanti ed esigibili per via giudiziale. Dato curioso è che, stante quel regime, le forze politiche generalmente non entrano nel merito delle condizioni della forza-lavoro e la soluzione dei problemi è affidata alle parti sociali. La legge prevede il diritto di informazione, di consultazione diretta e di rappresentanza dei lavoratori nei processi decisionali. Al tempo stesso vieta la proclamazione di scioperi a livello di singoli impianti. La direzione è obbligata a informare regolarmente i lavoratori sulla situazione economica e finanziaria dell’impresa, sullo stato della produzione e delle vendite, sui programmi di investimento, sui progetti di razionalizzazione, sugli obiettivi e sui metodi di fabbricazione, sulla limitazione o la cessazione di attività, sulle eventuali fusioni e trasferimenti d’impresa o di parti di essa. Il consiglio di sorveglianza ha funzioni di controllo della conduzione economica dell’azienda e delle decisioni sugli investimenti. I lavoratori dipendenti che fanno parte di questo consiglio non vengono eletti o nominati dai sindacati, ma dai lavoratori medesimi in elezioni dirette. Gli stessi consigli di fabbrica sono organi indipendenti dal sindacato e hanno competenze dirette nella gestione del personale, si occupano cioè di assunzioni, licenziamenti, contratti temporanei, flessibilità di orario, ecc.. Il modello di cogestione tedesco è senza dubbio quello che in Europa ha fatto registrare il maggior numero di imitazioni. Ad essere però generalmente considerato più compiuto e articolato è il sistema di democrazia economica svedese. Già a partire dal ’46, nel Paese scandinavo, sono stati siglati tra le parti sociali degli accordi interconfederali che prevedono l’istituzione di Comitati d’impresa i quali devono essere informati e consultati dall’azienda su tutte le questioni che riguardano l’organizzazione della produzione, le scelte economiche e la gestione del personale. Negli anni ’70 è stato varato il “piano Meidner” Il quale prevede un meccanismo legislativo che impone alle imprese di accantonare una percentuale dei loro profitti e di trasferirli in speciali fondi settoriali di proprietà comune dei lavoratori (“fondi collettivi dei salariati”). Questi fondi vengono gestiti autonomamente dai lavoratori e devono servire per investimenti di carattere sociale. Tra il partito socialdemocratico svedese e il sindacato sono sorte però delle divergenze e per qualche tempo il piano non è entrato a regime. Nel ’77 è stato varato l’Employee participation Act (legge sulla codeterminazione) grazie al quale tutte le principali decisioni manageriali, compresi gli investimenti, vengono sottoposte alla contrattazione collettiva. I lavoratori eleggono due o tre rappresentanti nel comitato esecutivo mentre i manager che compongono i comitati esecutivi e gestiscono direttamente l'azienda, vengono eletti dagli azionistisoci. Nei primi anni ’80 la legislazione sui fondi d’investimento ha subito dei miglioramenti ed è stata definitivamente sancita sul piano legislativo, nonostante la forte opposizione delle forze di destra. I fondi istituiti sono finanziati con il 20% dei profitti delle imprese e con lo 0,2% dei salari. In sede parlamentare il progetto ha incontrato l’astensione del Partito comunista. Alla fine degli anni ’80 a manifestare insoddisfazione per il ridimensionamento del piano originario è stato lo stesso Meidner il quale ha lamentato che “il sistema dei fondi non ha mai avuto una vera chance”. Nella lunga gestazione della legge, infatti, si è passati dall’idea di una socializzazione delle scelte di investimento a un’idea più modesta di semplice partecipazione dei lavoratori alle scelte di investimento. Accanto a questo sistema partecipativo, in Svezia, si è sviluppato un sistema cooperativo con l’obiettivo di ridurre fortemente la parte privata di proprietà e aumentare gradualmente quella sociale. 537
Nel modello svedese la via legislativa si è dunque intrecciata al rafforzamento degli strumenti contrattuali e la democrazia sul posto di lavoro ha trovato un prolungamento nei progetti di partecipazione al capitale. Rispetto alla realtà tedesca e a quella svedese, nel resto d’Europa, le esperienze di democrazia economica sono risultate essere di minore spessore politico. In Gran Bretagna, nonostante esista una legislazione fiscale che incoraggia la partecipazione al capitale dei lavoratori dipendenti, all’inizio del nuovo secolo, solo un quinto delle imprese e metà di quelle con oltre diecimila occupati vantavano una qualche forma di distribuzione di azioni ai dipendenti. A metà degli anni ’80, la Co-operative Bank e alcuni dei maggiori sindacati inglesi hanno dato vita all’Unity Trust, una vera e propria banca del sindacato con l’obiettivo di raccogliere i risparmi e fare investimenti, sperimentando così l’acquisizione di imprese da parte dei lavoratori sul modello americano degli Esop. Solo recentemente è stata approvata una normativa che incoraggia la partecipazione dei dipendenti alla proprietà aziendale attraverso vouchers e altre forme di welfare market. Il governo francese ha legiferato sulla partecipazione già nel ’45 e successivamente lo ha fatto negli anni ’70. La presenza dei rappresentanti dei lavoratori nei comitati d’impresa in Francia ha però carattere consultivo. Verso la metà degli anni ’70 si contavano circa 9.000 accordi aziendali sulla partecipazione agli utili. Qualche anno fa in tutto il Paese gli azionisti ammontavano a sei milioni. Anche in Olanda una legge del ’71 ha istituito un consiglio d’azienda con funzioni consultive su materie quali la fusione con altre aziende, la cessazione dell’attività, i trasferimenti, le assunzioni, le forme di retribuzione, le promozioni, ecc.. In Belgio i lavoratori siedono regolarmente nei consigli di amministrazione, anche se hanno diritto a un voto soltanto consultivo, mentre dal 2001 è in vigore una legge che favorisce l’azionariato dei dipendenti. In Danimarca sono previste commissioni di cooperazione le quali intervengono sulle politiche di produzione e i lavoratori eleggono una loro rappresentanza minoritaria nei Consigli di amministrazione delle imprese. In Spagna trovano diffusione le società per azioni dei lavoratori, sorte anche a seguito di crisi aziendali e di conseguenti acquisizioni delle imprese da parte delle maestranze. Nel 1984 sono state censite in tutto il Paese 1.225 Sociedades anominas laborales, con 46 mila soci. Le imprese cooperative nello stesso anno erano 9.573 con 106 mila soci complessivi. La più celebre di queste imprese è la Mondragon Cooperative Corporation che è una multinazionale. Forme di partecipazione esistono anche in Austria, nella Repubblica Ceca e pure in Italia, alle cui esperienze faremo cenno nel capitolo successivo. A partire dagli anni ’80 si è assistito al moltiplicarsi della partecipazione dei lavoratori al capitale nella quasi totalità dei Paesi europei, al punto che la stessa Unione europea si è sentita in dovere di intervenire per dare ordine alla materia. E’ da ricordare che già nel ’68 la Cee aveva emesso delle direttive per armonizzare la legislazione sulle società europee nel territorio della comunità e a metà degli anni ’70, nell’adottare lo Statuto, aveva fissato i criteri della rappresentanza dei lavoratori in quel tipo di aziende. Con il “Libro verde” ha successivamente proposto l’istituzione di un consiglio di sorveglianza con la presenza dei lavoratori e con compiti di nomina e revoca della direzione dell’impresa e di controllo limitato alle grandi scelte dello sviluppo dell’impresa stessa. Nei Paesi in cui non sono previsti i consigli di sorveglianza, la Cee ha proposto la presenza nei consigli di amministrazione di membri esterni in rappresentanza dei lavoratori. Nell’80 con la “Terza direttiva” sono stati riconosciuti ai lavoratori nuovi diritti all’informazione sulla gestione delle imprese, in particolare per le imprese multinazionali. Nell’83, con la proposta modificata dalla “Quinta direttiva”, tenuto conto delle varie forme di partecipazione, è stata prospettata un’applicazione flessibile delle normative. Nel giugno ‘88 è stata rilanciata con un memorandum la questione della partecipazione, configurata come un’esigenza funzionale all’interesse delle stesse imprese. 538
A fine anni ’80-primi ’90 la Cee ha promosso uno studio sui temi della democrazia industriale e ha svolto un censimento (Rapporto Pepper) al fine di avere una precisa conoscenza delle esperienze compiute e in corso d’opera. Alla fine degli anni ’90 è stata fondata la Federazione europea dei dipendenti azionisti (Federation of employed shareholders) il cui obiettivo è quello di promuovere l’ingresso dei lavoratori nel capitale delle società. Nell'estate del 2002, sia la Commissione dell'Unione europea che l'Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) hanno intrapreso nuove iniziative politiche a favore dello sviluppo dell'azionariato dei dipendenti. Secondo un Rapporto dell’UE, nel vecchio continente i lavoratori che nel 2008 possedevano azioni di un'impresa ammontavano a 30 milioni, mentre il valore delle azioni da loro possedute corrispondevano al 2,63% del capitale azionario complessivo. Ad adottare sistemi di profit sharing era il 25% delle imprese europee, con punte superiori al 40% in Gran Bretagna, Francia, Germania e Olanda. A causa della crisi economica di questi ultimi anni l’azionariato dei lavoratori dipendenti europei ha subito un leggero calo. Non manca però chi è convinto che nei prossimi anni ci sarà una tendenziale crescita poiché la democrazia economica viene considerata la nuova frontiera per superare la recessione. Le prospettive restano comunque confuse, non solo perchè il tema della partecipazione è di per sé un problema di non facile attuazione, ma soprattutto perché in Europa esso è reso ancor più complesso dalle divergenze che esistono sia tra le parti sociali che tra gli Stati membri dell’Unione. Ogni Paese, infatti, parte da presupposti e interessi propri e una sintesi a breve appare difficilmente conseguibile. Una prospettiva più lusinghiera sembra invece contraddistinguere gli Stati Uniti d’America dove si è imposto un sistema di partecipazione monistico. A metà degli anni ’50, Louis Kelso, autore di “The Capitalist Manifesto”, ha lanciato l’idea dell’Esop (Employee Stock Ownership Plan) che è una sorta di piano previdenziale per lavoratori dipendenti realizzato attraverso la destinazione di una parte del loro salario o stipendio in un fondo pensioni che viene utilizzato per acquistare azioni dell’impresa a prezzi di favore. Kelso era convinto che l’unico modo per salvare gli Usa dalla “strisciante rivoluzione socialista” fosse quello di diffondere la proprietà azionaria. Fino a metà degli anni ‘70 la pratica degli Esop negli Stati Uniti era ristretta a un gruppo di neanche una ventina di imprese del legno compensato situate negli Stati del nord-ovest e a una mezza dozzina di cooperative agricole della California, oltre ad alcuni casi sparsi di esperienze diverse. Dopo il riconoscimento del governo federale, avvenuto nel ’74, gli Esop hanno avuto una sorprendente diffusione. A dare impulso a questo processo di azionariato popolare sono stati in particolare i lavoratori dell’acciaio. Nell’83 si è assistito alla presenza di 280 mila piani Esop in tutti gli Stati Uniti i quali hanno coinvolto 10 milioni di lavoratori. Uno studio effettuato dalla Borsa di New York, nei primi anni ’80, su 49 mila società con almeno 100 dipendenti, ha accertato che le imprese con piani azionari, profit-sharing e altre forme di Human resources activities garantivano migliori risultati in termini di produttività rispetto a quelle che ne erano prive. A fine decennio le imprese con piani Esop raggiungevano le 8.000 unità e in 1.500 circa di esse a possedere la maggioranza delle azioni erano i lavoratori dipendenti. In molti casi l’acquisizione di aziende da parte dei dipendenti rappresentava una alternativa al fallimento e alla chiusura degli stabilimenti. Esempio clamoroso è quello della United Arlines. Recentemente dal Centro Nazionale per Employee Ownership è stato stimato che i piani di azionariato esistenti negli Usa sono circa 11.300 e riguardano oltre 13 milioni di dipendenti. Come abbiamo visto, in Europa le esperienze sono multiformi e differenziate e vanno dagli incentivi sulla produzione al controllo dell’attività dei manager, dalle normative per la tutela della concorrenza e della trasparenza dei rapporti tra le imprese al sostegno legislativo a procedure di consultazione sulle strategie aziendale, fino allo sviluppo del settore cooperativo, mentre la gestione 539
delle quote azionarie da parte di fondi dei lavoratori è una forma residuale; oltre oceano, invece, la partecipazione è concentrata sull’acquisizione di quote azionarie a fini previdenziali. Se la cogestione rappresenta un tentativo di realizzare una democrazia nel vivo dei rapporti di produzione e consente al lavoratore di intervenire sul sistema produttivo e sull’organizzazione del lavoro, il modello statunitense dell’azionariato diffuso si limita a trasformare il lavoratore dipendente in un piccolo risparmiatore. Mentre nel vecchio continente ha avuto sviluppo soprattutto il sistema dualistico che è modellato sulla disciplina delle società per azioni ed è caratterizzato dalla presenza di due distinti organi collegiali (consiglio di sorveglianza e consiglio di gestione), negli Usa si è imposto il sistema monistico che conta su un solo organo collegiale (il consiglio di amministrazione). Le differenze, come si può notare, sono rilevanti e di sostanza. Sino alla fine del secolo scorso ognuno di questi due sistemi ha marciato per conto proprio e, per quel che è dato sapere, non ci sono mai state occasioni per sviluppare una riflessione comune, un confronto fra le differenti esperienze. All’inizio del nuovo secolo, invece, i protagonisti delle due esperienze compiute sulle sponde opposte dell’Atlantico si sono incontrati. In Washington D.C. si è infatti svolta una prima riunione del gruppo di lavoro americano-europeo sull’azionariato dei dipendenti e ciò sta a dimostrare che nonostante i tempi di recessione economica l’interesse e le prospettive della partecipazione sono ovunque in crescita. 17.3 – La partecipazione in Italia Anche a riguardo delle esperienze partecipative, nel panorama europeo, l’Italia risulta essere il fanalino di coda. Eppure è da ottanta anni che da noi si discute di fondi dei salariati e del coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle imprese. Ad aprire il dibattito su questa materia, nel 1932, è stata la cosiddetta “sinistra fascista” di Giuseppe Bottai e Ugo Spirito che in un convegno ha affrontato il tema della corporazione proprietaria. Nel ’44, la Repubblica sociale italiana ha istituito i consigli di gestione i quali, subito dopo la liberazione, dietro pressione dei comitati di liberazione nazionale d’azienda, sono stati ratificati dal Cln dell’Alta Italia. Fra il ’44 e il ’45, infatti, si sono avute esperienze di autogoverno democratico laddove si sono instaurate le repubbliche partigiane. Si è trattato di lineamenti di un nuovo Stato democratico. Dopo la Liberazione la legge che li istituiva è stata abrogata, ma i consigli, depurati dei dirigenti e del personale fascista, sono stati lasciati in essere come nuovi organi di democrazia e di controllo. A dare impulso alla loro attività ha contribuito in modo particolare Luigi Longo. Sull’esperienza dei consigli di gestione la sinistra ha storicamente riflettuto poco, eppure si è trattato del maggiore tentativo compiuto nel nostro Paese di avviare forme concrete di democrazia economica. Loro caratteristiche erano la pariteticità e la collegialità, mentre i compiti loro affidati consistevano nel controllo democratico della produzione. Metà dei loro membri erano eletti dai lavoratori, l’altra metà era formata da delegati nominati dal direttore di fabbrica. Questi organismi hanno dato un importante contributo al miglioramento e al potenziamento della produzione favorendo i processi di riconversione e assicurando il posto di lavoro quando sopravveniva il rischio di licenziamenti in massa. Da strumenti tecnico-produttivistici essi si sono trasformati presto in soggetti di proposizione sul piano delle politiche industriali e si sono rivelati provocatori di importanti riforme quali la nazionalizzazione di grandi complessi industriali e la riforma agraria. Un’esperienza memorabile è stata quella dei Consigli di gestione del Gruppo Montecatini istituiti presso ogni unità produttiva, con consigli di settore e un consiglio di gestione centrale paritetico presso la Direzione della società. Quest’ultimo controllava e deliberava su molti aspetti, tra cui: la nomina di tutti i dirigenti tecnici e amministrativi della società; la riorganizzazione generale di tutto il gruppo; il trattamento economico e morale del personale, assunzioni, licenziamenti e trasferimenti; i prezzi di vendita dei prodotti e loro distribuzione; i prezzi di acquisto delle materie prime e il loro impiego; i costi di produzione e le spese in generale; inoltre era legittimato a 540
conoscere gli utili realizzati dalla società, a fare proposte sul loro impiego e persino a controllare i dati di bilancio e il conto profitti e perdite. Nella storia del movimento operaio del nostro Paese l’esperienza dei consigli di gestione della Montecatini, che durò un lustro, rappresenta una delle mete più alte raggiunte sul fronte della partecipazione. Un’altra esperienza significativa è stata quella del Consiglio di gestione dello stabilimento Caproni di Ponte S. Pietro (Bergamo) del quale facevano parte compagni che ho personalmente conosciuto. Di fronte alla decisione dei comandi militari tedeschi di smantellare la produzione di aeroplani, il consiglio di gestione ha proceduto a una sorprendente riconversione produttiva garantendo il posto di lavoro alle migliaia di dipendenti che erano in forza nello stabilimento. A sostenere queste esperienze ha concorso anche il progetto di Rodolfo Moranti, esponente della sinistra socialista e ministro dell’industria nel governo De Gasperi. Egli intendeva la partecipazione della classe lavoratrice alla gestione dell’industria un modo per “legare in innaturale connubio gli interessi delle maestranze a quelli padronali”. Nel dicembre del ’48, a Torino, si è svolto il terzo congresso dei Consigli di gestione ed è stato l’ultimo, perché dopo l’estromissione dal governo del Paese di socialisti e comunisti, De Gasperi ha costretto la sinistra politica e sociale a misurarsi sul terreno dello scontro e i consigli di gestione sono stati violentemente liquidati. La rottura politica a livello istituzionale non ha però impedito che nella Carta costituzionale la democrazia economica fosse assunta come uno dei principi fondanti della Repubblica. L’articolo 3 della Costituzione, infatti, recita che è “diritto di tutti i lavoratori di partecipare alla organizzazione politica, economica e sociale del paese”; l’articolo 39 prevede forme di contrattazione che vanno nella direzione della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende; l’articolo 41 parla di “controlli sulle attività economiche pubbliche e private”; gli articoli 43 e 46 fanno riferimento all’autogestione delle imprese ad opera di comunità di lavoratori o di utenti, mentre l’articolo 47, voluto dai cattolici, promuove la partecipazione dei dipendenti alle imprese. Questi articoli sono stati oggetto di duro scontro nell’Assemblea costituente a causa della decisa avversione delle forze liberali e imprenditoriali. Amintore Fanfani, allora esponente della sinistra Dc, ebbe addirittura a proporre un’economia governata da una pluralità di consigli – nazionali, regionali, locali – formati da rappresentanze degli imprenditori e dei lavoratori. A suo giudizio la legge avrebbe dovuto limitarsi a regolare le modalità di funzionamento di queste strutture di democrazia diretta le quali avrebbero dovuto avere ampia autonomia di decisione. La sinistra marxista, invece, si è battuta per il superamento della separazione tra società civile e società politica e per il “controllo democratico della produzione”. Fatto è che l’attuazione degli articoli della Costituzione che riguardano le forme di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, è stata continuamente rinviata a tempi migliori. Nella fase immediatamente successiva all’entrata in vigore della Costituzione, proprio nell’intento di impedire l’attuazione dei principi di democrazia sociale, i governi centristi e le forze padronali hanno condotto una vasta operazione ideologica imperniata sulla scomposizione tra politica ed economia. Gli effetti di questa separazione continuano ad avere efficacia ancora oggi. Si è così impedito che le assemblee elettive e la contrattazione sindacale facessero breccia nel sistema finanziario e industriale introducendo finalità sociali e rendessero materiale il principio che vuole la nostra repubblica fondata sul lavoro. A riaprire la partita sono state le lotte operaie degli anni ’60 che hanno costretto sia il mondo imprenditoriale che i governi del Paese a fare i conti con la contrattazione non solo sul salario di base e le qualifiche, ma sull’organizzazione del lavoro, sui ritmi e gli organici, sulla formazione professionale e poi sulle riforme strutturali. Nel ’70 è stato varato lo Statuto dei diritti dei lavoratori il quale prevede un modello di partecipazione a due livelli: quello delle assemblee elettive con controllo affidato alle stesse e quello della dialettica intra-aziendale attraverso la rappresentanza sindacale. Prima di allora l’obiettivo delle forze politiche e sociali più avanzate è stato limitato al controllo 541
pubblico dell’impresa da parte degli enti pubblici esterni ad essa, mentre del controllo da affidare alle forze sociali interne all’azienda si è preferito non parlarne. Dopo le lotte operaie dell’autunno caldo e dei primi anni ’70, le forze padronali sono state costrette a recedere dalle posizioni di intransigenza su cui si erano attestate e a rendersi disponibili al dialogo. Tanto è che, alla fine del ’75, Umberto Agnelli è stato messo nelle condizioni di fare la seguente affermazione: “A questo punto il sindacato deve scegliere se intende esercitare questi poteri ponendosi in un ruolo di contropotere, o se invece accetta una logica di partecipazione... (la quale) per essere tale deve comportare un’assunzione contestuale di poteri e di responsabilità e un superamento, sia pure temporaneo e interlocutorio, del momento conflittuale”. Negli anni successivi, i contratti hanno sancito il diritto dei sindacati all’informazione e al confronto sui programmi. Si sono inaugurate le conferenze di produzione le quali hanno consentito a sindacati, forze politiche e dirigenti d’impresa di confrontarsi al fine di esaminare la dinamica dell’attività delle aziende e dei loro settori d’appartenenza e hanno posto le premesse per giungere a delle intese di programma. Alla fine degli anni ’70 la Cgil ha elaborato un “piano d’impresa” nel quale democrazia e iniziativa sindacale (quella dei produttori) e democrazia e iniziativa politica (quella del governo democratico dell’economia) apparivano organicamente fuse in un percorso lineare ed obbligato di controllo. In quegli anni sono anche state lanciate le proposte di istituzione dei fondi di solidarietà. Mente la Cisl ha proposto la destinazione dello 0,50% dei salari agli investimenti, Enrico Berlinguer ha sollevato il problema dei fondi dei salariati. Nonostante abbiano suscitato grande interesse, nonché intensi dibattiti, queste proposte sono state presto accantonate a causa dei profondi disaccordi tra le parti. La destra politica e il mondo imprenditoriale hanno così riassunto di nuovo posizioni radicali avverse e il dialogo si è arrestato. Un po’ di anni dopo, la Cisl ha rilanciato il tema della partecipazione dei lavoratori in azienda e ha messo a punto una proposta di legge sull’azionariato dei dipendenti. La regolamentazione della democrazia economica non ha però avuto luogo e l’iniziativa di allargare e perfezionare le esperienze compiute è stata fatta dipendere dalla spontaneità delle parti sociali. Nei primi sei anni dell’80, oltre 35 società hanno offerto azioni ai dipendenti: la stessa Fiat ha raccolto 112 miliardi di lire di capitali freschi e ha distribuito azioni a quadri e dirigenti, lasciando però fuori il resto dei lavoratori dipendenti. Nell’86, dopo che due anni prima era stato sottoscritto il primo accordo, la direzione del gruppo industriale a partecipazione statale Iri e la Triplice sindacale Cgil-Cisl-Uil hanno varato un “Protocollo” che prevedeva l’informazione e la consultazione sistematica, settoriale e aziendale, tra le parti sulle politiche delle imprese. Con questa intesa l’informazione è diventata contrattazione preventiva delle strategie d’azienda. Il “Protocollo Iri” però non ha funzionato. Qualcuno ha attribuito la causa di questo insuccesso alla pletoricità dei comitati paritetici, di fatto la ragione vera è consistita nell’assenza in quel progetto di un rapporto di interdipendenza tra democrazia industriale e democrazia economica, pratiche queste che non possono trovare realizzazione se nella loro gestione risultano separate l’una dall’altra. Sta di fatto che a metà degli anni ’80, tra i maggiori Paesi europei, l’Italia assieme alla Gran Bretagna risultava essere ancora priva di una regolamentazione sulla partecipazione dei lavoratori alle decisioni delle imprese. Non sono certo mancati tentativi e pratiche di coinvolgimento dei lavoratori nell’iniziativa imprenditoriale (la legge Marcora è stato uno di questi), ma il tema della partecipazione, almeno sul piano politico, è scemato. Eppure, negli anni ‘80, nel 50% degli organi collegiali amministrativi della pubblica amministrazione, degli enti locali, del parastato, in taluni servizi e imprese pubbliche, vi erano rappresentanti dei lavoratori. Forse non meno di 80-100 mila persone. Nella generalità però queste rappresentanze riflettevano interessi estranei al sindacato e, talvolta, collusivi con quelli delle dirigenze aziendali. Anche i fondi pensione in quegli anni hanno assunto un carattere più popolare essendo stati aperti alla partecipazione degli operai e non sono stati più solamente strumenti di privilegio dei soli dirigenti e quadri, categorie emblematicamente più fedeli all’azienda. 542
Nonostante la latitanza dei legislatori, da allora in molte aziende e gruppi imprenditoriali sono stati sottoscritti accordi intesi a sancire nuove relazioni industriali. Alla Zanussi di Porcia (Pordenone), si è registrato il primo tentativo di confronto operativo fra gli interessi di “qualità totale” dell’azienda e la condizione di lavoro e sindacale degli operai: il tutto, ovviamente, in funzione di un aumento della produttività. Alla Ponte Nossa Spa (Bergamo) è stata costituita una finanziaria, formata da 95 dei 126 lavoratori dipendenti, tramite l’anticipo del Tfr, la quale ha acquisito il 10% del capitale aziendale (pari a un miliardo di lire). Anche i mille lavoratori della Brembo di Curno (Bergamo) hanno concordato l’anticipo di una parte del Tfr per l’acquisto di 500 mila azioni ordinarie riservate ai dipendenti in occasione dell’ingresso in Borsa della società. Molti dei 153 dipendenti della Dante Prini di Como si sono indebitati per comprarsi una quota azionaria della propria azienda di 7-8 milioni di lire a testa. Essi hanno ottenuto la presenza di un loro rappresentate nel consiglio di amministrazione. Ad ognuno degli 800 dipendenti della casa di moda Gucci di Milano sono state assegnate 38 azioni per un valore di circa 7 milioni di lire ed è stato loro concesso di avere un loro rappresentante nell’assemblea dei soci. Alla Dalmine è stato messo a punto un piano azionario dei dipendenti che però inizialmente è fallito, poiché appena 215 lavoratori su 3.250 si sono dichiarati interessati a partecipare al capitale. Esperienze analoghe, in maggioranza riguardanti l’azionariato ai dipendenti, sono state compiute in aziende come l’Asm di Brescia, l’Alitalia, la Telecom, l’Enel, l’Autostrade, la Finmeccanica, l’Italtel, la Bassetti, l’Olivetti, la Faema, la Lloyd Adriatico, la Magrini Gallileo, la Cesab italiana, la Gildemeister, la Fioravanti, l’Elettrovideo, la Balzaretti, la Fargas. Alla Boehringer Ingelheim Italia, filiale del colosso farmaceutico tedesco, è stata addirittura varata la carta dell’etica industriale che rappresenta il tentativo di far incidere i principi etici sul modello organizzativo aziendale, sui processi decisionali, sulla leadership e sulla gestione delle risorse umane. Nel ’94, da parte dell’Ires, è stata eseguita una ricerca sulle esperienze in Italia di accordi aziendali riguardanti la partecipazione e sono stati accertati oltre un centinaio di casi, 60 dei quali giudicati significativi e in prevalenza appartenenti ai settori metalmeccanico e chimico. Un’indagine FimCisl condotta nel 2000 in regione Lombardia ha accertato l’esistenza di oltre 20 mila occupati che risultavano essere al tempo stesso lavoratori dipendenti e azionisti possessori di quote di capitale sociale oscillanti tra l’1 e il 3% del rispettivo capitale aziendale. Solo nei primi anni del nuovo secolo, in occasione della riforma del diritto societario, lo Stato italiano ha adottato un modello di gestione simile a quelli francese e tedesco che definisce la forma contrattuale dell’associazione in partecipazione. La democrazia economica è rimasta però ancora tutta da regolamentare nonostante che a metà del primo decennio l’Unione Europea abbia sollecitato un adeguamento alla legislazione comunitaria. A sottostare alla normativa europea sono solamente le imprese multinazionali presenti sul nostro territorio; per le quali è obbligatoria la presenza di consigli aziendali con compiti di controllo sulle ristrutturazioni di gruppo e sulle delocalizzazioni produttive. In tutto il continente se ne contano 900. Verso la fine del decennio, a colmare il vuoto legislativo ci ha provato il ministro di centro-destra Sacconi, ex socialista, il cui intento dichiarato, però, era quello di realizzare una partecipazione senza potere, cioè “far partecipare i lavoratori agli utili, (ma) non alla gestione”. E’ stato così emanato un decreto limitato alla regolamentazione del solo azionariato dei dipendenti, mentre la gestione della democrazia economica è stata ancora una volta affidata alla spontaneità e alla fantasia delle parti sociali. La cosiddetta “democrazia industriale” è dunque risultata essere scomoda per chi gestisce il potere e ad essere favorito da questo atteggiamento pilatesco di chi ci governa è ancora e sempre il capitale. Ad aggravare la situazione concorre poi il fatto che, pur esistendo in Italia innumerevoli strumenti di intervento in economia, al punto da essere stata considerata simile a un paese con ordinamento di pianificazione centralizzata, da noi manca una direzione pubblica del sistema economico complessivo e quindi la capacità d’imprimergli efficacia pur nel contesto di una logica capitalistica. Non solo sono poche le imprese disposte a sperimentare la partecipazione dei lavoratori alla loro gestione, ma la generalità di esse non è nemmeno preparata tecnicamente e culturalmente ad 543
affrontare una simile pratica. I nostri imprenditori conoscono invece assai bene le forme di partecipazione autoritaria, quelle cioè determinate dalle ristrutturazioni e dalle esternalizzazioni della produzione le quali danno luogo ai fenomeni del decentramento produttivo, del subappalto, del lavoro a domicilio, del franchising, pratiche queste che trasformano il dipendente in partner fittizio e lo espongono al precariato e alle forme più odiose di subordinazione e di sfruttamento. Se è pur vero che le lotte sindacali hanno ridotto drasticamente il potere repressivo del padronato nei luoghi di lavoro, va preso atto che esse hanno intaccato solo marginalmente il suo potere coercitivo, il quale è anzi cresciuto anche grazie all’introduzione delle nuove tecnologie. 17.4 – Cogestione e subalternità del lavoratore Le esperienze di partecipazione dei dipendenti al capitale sin qui compiute ci dicono che l’uso che di esse hanno fatto i datori di lavoro e i loro manager si è rivelato ovunque contrastante con le originarie aspettative del movimento dei lavoratori. Le dirigenze sindacali avevano puntato su una ridistribuzione del potere nel sistema delle imprese a vantaggio del lavoro dipendente e si erano date come obiettivo il conseguimento di finalità collettive. Su questo terreno i risultati conseguiti sono stati decisamente negativi. Il mondo imprenditoriale si è prodigato soprattutto a impedire e contenere il conflitto sociale e a rendere più esteso e produttivo l’impiego del capitale. Poiché questa è la realtà dei fatti, va preso atto che il termine “democrazia economica” non ha avuto e non ha il medesimo significato per le parti in causa, poiché ognuna di esse lo interpreta a modo proprio e secondo i propri interessi. Differenti sono, infatti, le aspirazioni e i propositi di chi vive del proprio lavoro rispetto a chi invece si arricchisce sfruttando il lavoro altrui. Ed appare ovvio che la gestione di un’impresa capitalistica non può venire meno ai canoni che la regolano, pena la messa in discussione della sua stessa esistenza quale produttrice di profitto. Per il capitalista, la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’azienda e alla distribuzione del capitale non può assolutamente corrispondere al riconoscimento di un’uguaglianza di diritti, tanto meno può rappresentare la premessa per il conseguimento di un interesse sociale collettivo. L’interpretazione secondo cui la democrazia economica comporterebbe di per sé una ridefinizione dei rapporti tra capitale e lavoro a tutti i livelli, sia nella proprietà e nella forma istituzionale delle imprese, sia nella distribuzione dei risultati economici e nel controllo della gestione, alla base e ai vertici, è dunque solo parzialmente veritiera. E’ d’altronde assurdo pensare che un capitalista possa rendersi disponibile a rinnegare il potere economico che ha acquisito e il ruolo sociale privilegiato che si è guadagnato per amore della democrazia. Per un’impresa capitalistica lo stesso passaggio da un management autoritario a un management partecipativo rappresenta un’operazione oggettivamente difficile e complessa. Essa può consentire di rendere più flessibili i rapporti tra direzione e maestranze, può praticare forme meno gerarchiche nell’organizzazione del lavoro, di certo non può azzerare il primato decisionale del possessore di capitale e sovvertire le regole dell’economia politica. Non è per caso, come abbiamo visto, che tutti invocano la democrazia economica, ma poi, nella pratica, le forme di partecipazione risultano essere più di una e tra loro differenti. Quella azionaria, ad esempio, è diversa dalla cogestione: mentre la prima rende partecipe in forma simbolica il lavoratore dipendente alla ripartizione del capitale senza interferire nei rapporti di lavoro, la seconda fonda sulla collaborazione nelle relazioni industriali tra datori di lavoro e dipendenti in un clima di non conflittualità. In ogni caso la posizione del lavoratore è subalterna a quella dell’imprenditore. Esistono poi la partecipazione fittizia e quella autoritaria, le quali possono essere spacciate per democrazia economica grazie al fatto che le forze sindacali organizzate hanno garantita una presenza in un qualche organo aziendale. Nessuna delle forme di partecipazione che sono state realizzate può però essere confusa con la vera autogestione dei produttori, poiché questa presuppone che le maestranze siano il soggetto che decide su tutto, mentre la partecipazione consente al massimo ai lavoratori di essere solo una delle componenti degli organi di gestione.
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Esperti giuristi hanno individuato tre forme di partecipazione: quella del diritto di veto, quella del diritto di codecisione e quella del diritto di decisione. Sta di fatto che in tutte queste forme, e le esperienze che sono state compiute lo testimoniano, qualsiasi diritto di decisione riconosciuto ai lavoratori e ai loro sindacati è sempre e ovunque risultato essere minoritario e subordinato alla volontà di chi rappresenta gli interessi del capitale. Si deve pertanto prendere atto che ogni forma di partecipazione trova la sua giustificazione nello stato dei rapporti di forza che esiste tra capitale e lavoro. La partecipazione ha certamente allargato l’area dei diritti per il lavoro dipendente, non ha però mai parificato i ruoli di chi vende la propria forza lavoro a chi possiede la maggioranza del capitale, ruoli questi che sono sempre stati mantenuti rigorosamente ben distinti. Come ebbe ad ammettere uno dei più noti sostenitori della cogestione, il socialdemocratico tedesco Peter Glotz, “il capitale è ontologicamente inaccessibile a qualsiasi forma di controllo sociale”. Non può perciò suscitare meraviglia il fatto che le imprese abbiano perseguito una sistematica politica di svuotamento delle leggi sulla partecipazione e abbiano applicato i soli dettami che risultavano compatibili con i loro interessi. Una simile operazione è avvenuta sia laddove è prevalso il sistema della cogestione sia laddove ha avuto sviluppo la sola partecipazione azionaria. A metà degli anni ’90 Veronica Manson, direttrice del Nceo di Oakland, in California, ente che rappresentava 2.700 imprese in cui erano operativi gli Esop, ha documentato come esistesse una “chiara e irrefutabile correlazione tra il coinvolgimento diretto dei dipendenti nella gestione e organizzazione del proprio lavoro e il successo economico delle aziende”. Mentre la partecipazione dei lavoratori ai profitti dell’impresa facilita l’identificazione con essa e favorisce l’aumento del reddito, la cogestione accresce la cooperazione e stimola soluzioni innovative nei processi produttivi eliminando sprechi e tempi morti, aumentando il senso di responsabilità dei lavoratori e rendendo superflua la loro sorveglianza con un risparmio di costi per l’azienda. Sul fronte dell’individuazione dei procedimenti di applicazione dei sistemi partecipativi, la spregiudicatezza imprenditoriale ha dato prova di non avere limiti. Dall’uso degli Esop, che travalica la garanzia di sicurezza previdenziale, all’introduzione del lavoro a squadre per limitare i costi e accrescere gli indici di produttività, gli esempi sono infiniti. Alla Cartiere Pigna di Alzano Lombardo, di cui è amministratore delegato un noto esponente del Pdl bergamasco, oltre all’inganno si è consumata la beffa: nell’intento di “far partecipare i lavoratori alla gestione dell’impresa” la direzione aziendale è giunta al punto di distribuire ai 430 dipendenti delle schedine di Superenalotto con l’impegno, in caso di vincita, di ripartire la fortuna a metà con l’azienda. E pensare che c’è chi esalta la capacità imprenditoriale dei “padani”! In molti casi, nei Consigli di sorveglianza è stata compiuta una ripartizione di compiti: ai rappresentanti dei lavoratori è stato affidato quello di occuparsi dei problemi delle maestranze, mentre ai rappresentanti degli azionisti quello di decidere su tutto il resto. In Germania la cogestione non solo ha contribuito a ridurre i costi sociali, ma ha favorito la ristrutturazione dei settori del carbone e dell’acciaio che dal ’57 al ’73 hanno perso 400 mila posti di lavoro. Nei fatti la Mitbestimmung, mediante una dispiegata produttività del lavoro, ha garantito una più accelerata accumulazione del capitale. Nelle imprese Esop americane i salari sono risultati essere anche più alti della media, ma il diritto di voto dei lavoratori sulle loro azioni è stato concesso solo nei casi di un’eventuale liquidazione o vendita dell’impresa. A loro non è stata riservata alcuna rappresentanza negli organi decisionali essendo la loro gestione riservata ai manager il cui compito è quello di massimizzare il profitto per gli azionisti soci. Il sindacato dei lavoratori automobilistici Uaw (United Auto Workers), nonostante sia il principale azionista di alcune aziende di Detroit, tra cui la Chrysler, ha solo un posto nel Consiglio di amministrazione, mentre la Fiat con il possesso del 20% delle azioni di questo gruppo conta ben tre membri. Il sindacato americano che si è opposto all’introduzione degli Esop è stato praticamente estromesso dalle fabbriche. Sono gli stessi esperti favorevoli all’azionariato ad ammettere candidamente che gli Esop hanno 545
costituito soprattutto una leva finanziaria per le imprese. A dire di Robert Dahl gli Esop sono stati creati “solo o soprattutto per fornire alle imprese crediti a bassi tassi d’interesse, ridotte imposte sul reddito d’impresa, maggior flussi di cassa, piani pensionistici per i dipendenti o un mercato per le proprie azioni senza tuttavia alcun significativo cambiamento nel controllo”. Se si considera che l’istituzione degli Esop negli Stati Uniti è decisa autonomamente dalla direzione delle imprese sulla base delle loro strategie finanziarie; che l’acquisto di azioni da parte dei lavoratori è diventato sempre più un mero investimento finanziario, perdendo così la sua peculiarità di strumento della democrazia economica; che non pochi lavoratori americani hanno perso gran parte dei loro risparmi per la pensione a causa dell’intervenuta bancarotta aziendale, com’è il caso delle società Enron, Polaroid e United Airlines, ogni dubbio sul fatto che larga parte degli Esop si siano rivelati strumenti di puro rastrellamento di risorse da parte del capitale finanziario si traduce in certezza. Qualcuno ha teorizzato che il processo partecipativo conduce a una ridefinizione dei confini del lavoro salariato e che il salario come sintesi del rapporto sociale di lavoro e unica fonte di reddito dei lavoratori starebbe tramontando. In effetti il profit-sharing, adottato da circa il 25% delle aziende europee, è una forma di democrazia proprietaria e costituisce un’indennità aggiuntiva al salario-base che nel corso del tempo per non pochi lavoratori ha assunto sempre più importanza. All’orizzonte del sistema capitalistico, però, non pare affatto prospettarsi una società composta di soli azionisti senza la presenza di lavoratori dipendenti salariati. Già oggi abbiamo la prova che il sistema è addirittura incapace di assicurare il superamento delle sue crisi recessive e garantire a tutti occupazione e reddito. L’idea che l’azionariato possa costituire un rimedio alle contraddizioni del capitalismo è dunque un’illusione. Così come è un miraggio la speranza che la classe operaia possa contrastare la logica del capitale praticando la cogestione. La storia insegna che il sistema capitalistico è in grado – non senza profonde mutazioni interne – di assimilare in sé forme anche spinte di socializzazione del potere economico, intesa come compartecipazione ai benefici prodotti dal capitale. A partire dalla politica di alti salari adottata da Henry Ford, esso si è dimostrato capace di far partecipare i lavoratori ai profitti della produzione industriale trasformandoli, anche politicamente, in consumatori. Le varie forme di Joint Committees (comitati misti), le nazionalizzazioni e il capitalismo di Stato sono del resto lì a dimostrare la sua grande capacità di conseguire consensi e plasmare la società. In occasione della recente privatizzazione delle Poste italiane i cultori della partecipazione hanno addirittura profetizzato la democratizzazione della Borsa. Il movimento dei lavoratori non deve dar retta a queste sirene. Deve avere ben chiaro che il capitalismo non può assolutamente tollerare che la classe lavoratrice assuma un ruolo dirigente della società; se questo avvenisse significherebbe la sua fine. La partecipazione dei dipendenti e del sindacato ai processi decisionali e al risultato economico mediante bonus e premi di produzione, non ha per nulla comportato una modifica dell'assetto proprietario dell'impresa. La stessa diffusione dell’azionariato non ha contenuto il processo di concentrazione della ricchezza che continua a essere uno dei modi attraverso cui il capitale procede nella sua evoluzione. L’esperienza tedesca è eloquente: nel ’51 le società minerarie e siderurgiche interessate alla cogestione erano 108, nel ’75, dopo una catena di riconversioni, fusioni e smembramenti, si sono ridotte a 28. Al contrario, la partecipazione al capitale e la cogestione hanno abituato i lavoratori al compromesso perdente, hanno minato la loro coscienza di classe, hanno diviso il movimento e hanno contribuito ad attutire nei partiti della sinistra e nel sindacato la funzione di soggetti della trasformazione. La sinistra, sia quella politica che quella sociale, ha dimostrato di non sapere o non volere discernere ciò che corrisponde a una strategia dell’alternativa da ciò che invece contribuisce all’omologazione del movimento dei lavoratori al sistema capitalistico. I sindacati, in genere, hanno dapprima resistito a certe forme di partecipazione opponendosi per un certo periodo all’azionariato dei dipendenti, ma alla fine hanno riconsiderato le loro posizioni e 546
nella prospettiva della possibilità di essere informati sull’andamento delle aziende hanno accettato il compromesso. Le varie forme di cogestione e di codecisione praticate non hanno, però, reso partecipi i lavoratori di talune informazioni di importanza fondamentale ai fini di una valutazione del vero stato delle imprese. Lo stesso sindacato europeo, la Ces (Confederazione europea dei sindacati, nata nel ’73), mentre si è dimostrato solerte nel tentare di orientare le politiche economiche dei governi nazionali sui problemi occupazionali, sull’abbassamento dei limiti di età per il pensionamento, sulla riduzione dell’orario di lavoro, sull’estensione del periodo feriale, sulla non monetizzazione degli straordinari e sul prolungamento dell’obbligo scolastico, non si è battuto abbastanza per rendere effettiva la partecipazione dei dipendenti alla gestione delle imprese. Nel fare proprie, in maniera schematica, le esperienze tedesca e svedese, ha pure trascurato l’impegno per affermare un sistema di relazioni tra imprese e istituzioni rappresentative quale condizione per un reale controllo delle strategie aziendali ai fini del conseguimento dell’interesse collettivo. I sindacati nazionali di sinistra, dal canto loro, hanno seguito strategie differenziate, frutto più delle rispettive tradizioni e del loro grado di incisività politica che delle esigenze di miglioramento del sistema partecipativo. Se tedeschi, inglesi, olandesi, scandinavi, lussemburghesi, austriaci, svizzeri e irlandesi si sono battuti per l’istituzionalizzazione della partecipazione, italiani, francesi, belgi e finlandesi hanno dimostrato scarso convincimento sulla bontà delle esperienze acquisite, mentre spagnoli, greci e portoghesi hanno avuto addirittura un atteggiamento di indifferenza verso qualsiasi forma di democrazia economica. In Italia, la Cgil ha privilegiato la presenza dei lavoratori nei comitati di sorveglianza e ha cercato di contrastare gli scambi azionari. La Fiom ha accettato di sperimentare la codeterminazione con l’obiettivo di rendere la partecipazione un reale strumento di democrazia senza peraltro conseguire risultati soddisfacenti. Cisl e Uil, invece, si sono mosse sulla linea dell’estensione dell’azionariato collettivo come mezzo ritenuto idoneo a controllare e indirizzare le scelte strategiche delle imprese. La Cisl, che sull’argomento ha promosso convegni e ricerche, ha avanzato anche la proposta dello 0,50% e si è detta favorevole all’applicazione in Italia del modello Chrysler. Alla luce sia delle lotte torinesi del periodo dell’“Ordine Nuovo” che dell’esperienza del Consigli di gestione degli anni ’40, si è indotti a ritenere che i sindacati abbiano decisamente perduto la memoria storica e non siano più interessati a coniugare la lotta per una migliore condizione di lavoro con quella di una trasformazione in senso socialista della società. Identica considerazione vale per il movimento cooperativistico la cui finalità originaria era proprio quella di sfidare il sistema capitalistico mettendo in campo esperienze imprenditoriali alternative, fondate sui principi della solidarietà, dell’uguaglianza e della valorizzazione del lavoro umano. Se la sinistra ha avuto a propria disposizione strutture economico-sociali di democrazia diretta in grado di organizzare il “general intellect” e dare avvio a un modo nuovo di produrre e di consumare, queste erano proprio le cooperative “rosse”. Negli ultimi decenni però obiettivi del movimento cooperativistico sono divenuti il mercato e l’integrazione nel regime capitalistico. Un tale degradante processo che ha investito la generalità della cooperazione di sinistra dei paesi dell’Occidente, ha caratterizzato in particolare l’esperienza del nostro Paese dove la cooperazione “rossa” ha raggiunto sviluppi notevoli. Agli inizi del nuovo secolo, da noi, si contavano oltre 11 mila unità cooperative di sinistra con quasi 5 milioni e mezzo di soci e con oltre 220 mila addetti. Il giro d’affari di questo complesso di imprese era superiore ai 35 miliardi di euro e costituiva più del 4% della ricchezza nazionale prodotta in un anno. Oltre alle grandi cooperative di consumo, la Lega Coop vanta tutt’oggi colossi industriali e società quotati in Borsa la cui operatività si svolge non solo su scala nazionale, ma anche in Paesi extracontinentali. Da quando i suoi gruppi dirigenti si sono posti l’obiettivo di moltiplicare la redditività delle imprese non facendo leva sul core business, ma sugli investimenti finanziari, creando a tal fine una propria banca, la missione sociale originaria è diventata un ricordo. Le coop sono state coinvolte in “tangentopoli” e la loro immagine è stata compromessa da infinite inchieste giudiziarie. Per alcune cooperative la sorte è stata quella del fallimento con l’odiosa conseguenza di aver dissipato i 547
risparmi di numerosi nuclei familiari. Lo stesso rapporto con i dipendenti-soci si è alterato al punto di provocare la proclamazione di scioperi da parte dei soci-dipendenti. Prima di fondare con la cattolica Confcooperative l’Alleanza delle cooperative italiane, la Lega Coop ha stretto rapporti con la Compagnia delle Opere, istituita da Comunione e Liberazione, e con essa ha dato vita all’agenzia di lavoro interinale Obiettivo Lavoro. “Stiamo separando i nostri destini imprenditoriali da qualsiasi riferimento ideologico” (sic!), ha dichiarato con una punta d’orgoglio un dirigente della Lega, e ha argomentato che si trattava di un’occasione per riscrivere l’alfabeto della cooperazione e ricollocare in chiave moderna parole come impresa, mercato, capitalismo. Accanto a chi ancora si illude che le coop possano “rappresentare una terza via”, iniettando “le virtù sociali dell’impresa cooperativa nell’area del profitto”, c’è chi con estrema freddezza ritiene che “il mercato è diventato in tutto e per tutto il nostro terreno d’azione... noi ci siamo mossi nella logica dell’economia privata. Ne accettiamo tutti i passaggi, dalla ricerca della produttività al rispetto della concorrenza. L’unica differenza sta nell’uso del profitto, quello delle nostre aziende finisce per lo più nella cosiddetta riserva indivisibile, quello delle aziende private è distribuito agli azionisti”. Ad essere vincente dunque è “una visione omogenea della modernità”, è “l’aziendalismo apolitico”, cioè quello spirito riformatore che ha indotto parecchi ex comunisti delle coop a votare Lega Nord e che ha spinto il loro presidente Giuliano Poletti (ora ministro del lavoro del governo Renzi), nel 2011, a dichiarare: “Ci sentiamo cugini della Confindustria e controparti della Cgil”. A fronte di un simile capovolgimento di strategia politica e di valori morali, mi sovviene alla mente che alcuni economisti classici hanno considerato il cooperativismo un’utopia, perché fondato su motivazioni altruistiche e, in quanto contrario alla natura umana, destinato a generare sistemi sociali autoritari. La storia ci mette ora di fronte a un fenomeno differente: a dare il colpo di grazia al cooperativismo non è affatto l’altruismo, ma proprio lo spirito del capitale. La maggiore responsabilità di questi fallimenti cade indubbiamente sulle spalle delle forze politiche della sinistra, le quali non si sono mai sentite in dovere di compiere una seria riflessione sulle esperienze della democrazia economica e quindi di procedere a una correzione strategica. Salvo rare eccezioni, la sinistra europea ha vissuto con distrazione le esperienze della cogestione e dell’azionariato, e quando si è impegnata ad approfondire l’argomento, lo ha fatto aggiustando semplicemente le tattiche e tralasciando di coniugarlo a un progetto di cambiamento fondato sul superamento dell’economia politica. Quando sono caduti i regimi del socialismo reale, come già ho ricordato, la sinistra avrebbe dovuto finalmente interrogarsi sul ruolo che i soviet hanno avuto nel contesto della pianificazione centralizzata; e pure riflettere sui limiti che l’autogestione jugoslava ha messo in evidenza, ma di una tale analisi critica non ha avvertito il bisogno, nonostante essa rappresentasse un imperativo per comprendere quanto era successo. Nelle dirigenze del Pci hanno per lungo tempo convissuto orientamenti e posizioni differenti sulla democrazia economica. Alla metà degli anni ’60 l’allora segretario della Fgci, Achille Occhetto, invocava il superamento della “polarità dialettica che si manifesta tra direzione centralizzata del piano e articolazione democratica, tra centralismo e autogestione” e sosteneva che “la democrazia nella fabbrica è una condizione necessaria, ma non sufficiente”. Quando però egli divenne segretario del partito non ebbe più cura di dare soluzione al quel problema e si adeguò all’ambiguità della linea della maggioranza. Sull’onda delle lotte studentesche e operaie del ’68-’69, l’esponente della sinistra del partito, Pietro Ingrao, si è posto un quesito a riguardo della democrazia economica. Egli si è chiesto: “Con quali strumenti sociali e politici garantire ai singoli ed ai gruppi sociali una partecipazione consapevole ed effettiva alle scelte complesse della pianificazione, in modo che la statalizzazione dei grandi mezzi della pianificazione divenga socializzazione effettiva?”. A tale problematica così ha risposto: “In certe proposte di cogestione ci può essere un forte pericolo di aziendalismo… Queste forme di controllo e di presenza operaia già nella fabbrica dovranno e potranno essere costruite solo e 548
strettamente congiunte con il crescere del potere contrattuale del sindacato, con una ritrovata presenza di forze politiche operaie sul luogo di lavoro”. Negli anni successivi egli è divenuto presidente della Camera dei deputati, ma le forme di partecipazione operaia alla gestione delle imprese non ha fatto alcun progresso. La linea del partito ha continuato a oscillare tra petizioni di principio e prassi politica moderata. Gianfranco Borghini, membro della direzione e corresponsabile del dipartimento economia, alla fine degli anni ’70, così sintetizzava la posizione del partito: “La cogestione è per noi inaccettabile in primo luogo perché genera all’interno dell’impresa una pericolosa confusione dei ruoli e, in secondo luogo, perché limita il diritto di sciopero e mortifica l’autonoma iniziativa del sindacato sia a livello dell’impresa che al livello della società... (Essa) presuppone e in qualche modo fissa un ruolo subordinato della classe operaia. L’autogestione da un lato non impedisce la frantumazione corporativa (per categorie e per aree geografiche) della classe operaia e, dall’altro, al pari della cogestione, le impedisce di misurarsi con i problemi generali dello sviluppo e, in particolare, con quelli della riproduzione allargata. Anche l’autogestione nega cioè alla classe operaia un ruolo di classe generale, di classe dirigente nazionale. Né la cogestione né l’autogestione corrispondono alla esigenza di realizzare una forma di partecipazione in grado di concorrere alla programmazione democratica dello sviluppo. Le esperienze socialdemocratiche si sono arrestate alla soglia del governo effettivo dell’economia. Noi lavoriamo perché si realizzi non una semplice democrazia dei cittadini, ma una democrazia dei produttori che individua nella conferenza di produzione lo strumento di base della programmazione. E’ così che può svilupparsi in Italia la democrazia economica”. Un altro dirigente, Carlo Smuraglia, giurista del lavoro e autore di proposte di legge, si è però presto premurato di precisare che “non vi è contraddizione alcuna tra la problematica attuale dell’impresa e quella della partecipazione; si tratta, se mai, di reperire il punto di confluenza tra due esigenze diverse (dell’impresa e dei lavoratori), ma non necessariamente conflittuali tra di loro”. E così, fino al suo autoscioglimento, il Pci ha continuato a coltivare al suo interno questa contraddizione di pensiero la quale ha pesantemente condizionato la sua azione politica e l’agire dell’intero movimento di sinistra. Le forze della “nuova sinistra”, dal canto loro, hanno sempre considerato la tematica della partecipazione come una contaminazione dell’identità e dell’autonomia di classe. Lo stesso modello dell’autogestione è stato interpretato come un’uscita da destra dallo stalinismo. Dirigenti e militanti si sono ben guardati dall’essere coinvolti nella gestione dell’azienda capitalistica e si sono dimostrati impotenti nell’evitare o almeno contenere il condizionamento che il ciclo economico capitalistico esercita sul complesso della società. Persino coloro che si sono proposti l’obiettivo della rifondazione della sinistra, anziché avanzare nella ricerca e nella sperimentazione di strade nuove, hanno preferito nostalgicamente ritornare all’antico. Dopo il crollo dell’Urss Gian Mario Cazzaniga così ha voluto prefigurare l’itinerario da percorrere: “La transizione possibile non può che essere intravista sul terreno dell’economia mista e del pluralismo politico, dove l’intervento pubblico deve condizionare le gerarchie degli investimenti, sostituire l’investimento privato dove la redditività, diretta o indiretta, opera solo sul lungo periodo, garantire la soddisfazione dei bisogni primari, operare per un nuovo sistema di relazioni internazionali fondato sulla pace e sull’innesto di autonomi meccanismi di sviluppo nelle aree arretrate, ma è fuori discussione che l’economia di mercato a crescente controllo-indirizzo pubblico è l’unico orizzonte della transizione al socialismo oggi visibile”. E Fausto Bertinotti, a metà degli anni ’90, ha asserito che “la codeterminazione, la cogestione, ecc, sono elementi accessori che hanno a che fare con l’organizzazione del consenso, non con il funzionamento della macchina”, dimostrando così lo scarso livello di considerazione che verso un tema chiave della fuoriuscita dal sistema ha avuto un neofito del comunismo.
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17.5 – Necessario un nuovo modo di produzione Interpellato sulla democrazia economica, anni fa, Norberto Bobbio ha detto di considerarla uno degli elementi costitutivi di un regime sociale progressista. E ha sostenuto che per realizzarla sarebbe necessaria un’estensione della democrazia politica, quella in cui l’uomo acquisisce la qualifica di cittadino, “nella sfera sociale, dove l’individuo viene preso in considerazione nella molteplicità dei suoi status, per esempio di padre e di figlio, di coniuge, di impresario e di lavoratore”. A differenza del pensiero liberal-democratico, la cultura marxista considera, almeno in linea teorica, la partecipazione del cittadino-lavoratore alla direzione dell’economia non fine a se stessa, ma una questione chiave della democrazia socialista. I padri del socialismo scientifico hanno dimostrato che le forze produttive esistono sempre in unità con determinati rapporti di produzione e sottostanno al primato di questi. Recita Marx: “Il processo di produzione capitalistico, considerato nel suo nesso complessivo, cioè considerato come processo di produzione, non produce dunque solo merce, non produce dunque solo plusvalore, ma produce e riproduce il rapporto capitalistico stesso: da una parte il capitalista, dall’altra l’operaio salariato”. Nel sistema capitalistico è la classe imprenditrice e finanziaria a detenere la proprietà economica dei mezzi di produzione e di essi dispone in base alle sue proprie convenienze, li mette cioè all’opera in modo da conseguire il massimo profitto, e in questo modo acquisisce il dominio esclusivo sul processo lavorativo. Con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico nelle sue forme compiute del macchinismo industriale e dell’informatizzazione, il lavoro è stato completamente sottomesso al capitale e il lavoratore-produttore ha perso la sua autonomia divenendo una semplice appendice del sistema produttivo. Il cuore del dominio capitalistico è perciò il rapporto di produzione che conforma al capitale la forza lavoro e l’organizzazione del processo produttivo. Questo rapporto si estrinseca concretamente nella divisione tecnica del lavoro determinando la divisione sociale. Gli stessi prodotti della scienza e l’applicazione della tecnologia sono sottoposti al dominio del capitale il quale grazie a loro fa suo il progresso sociale. La classe operaia viene così espropriata non soltanto dei mezzi di produzione, ma anche della sua intelligenza. Stando così le cose, il considerare la presa del potere politico la condizione e il mezzo risolutore per instaurare una società socialista si rivela un errore. Sin dai tempi di Lenin, e per un lungo periodo successivo, nel pensiero marxista si è affermato il convincimento che esiste una differenza essenziale tra la rivoluzione borghese e la rivoluzione socialista. Acquisito che la prima è stata preparata da uno sconvolgimento della vecchia società feudale determinato dallo sviluppo dell’industria, dall’intensificazione del commercio e dalla nascita del capitale bancario, e per portare a compimento tale processo c’è voluta la conquista del potere politico, si è creduto che la costruzione del socialismo, data la sua alterità al capitalismo, potesse invece avere inizio solo dopo la conquista del potere politico da parte della classe operaia. Tutte le rivoluzioni socialiste sono state compiute seguendo questa logica e il risultato è stato che, mentre gli apparati istituzionali e politici hanno subito una trasformazione in radice, in campo economico l’unica modifica è consistita nell’abolizione della proprietà privata; i rapporti di produzione sono rimasti quelli di prima. L’economia socialista, dunque, anziché dare corpo a un modo nuovo di produrre e di consumare, ha rappresentato un ibrido di elementi di capitalismo (taylorismo-fordismo, mercato, sistema del credito, ecc.) e innovazioni di mera natura gestionale dal carattere autoritario (capitalismo di Stato). Non a caso, salvo il breve e fallimentare periodo di comunismo di guerra bolscevico, tutte le rivoluzioni socialiste hanno finito per incoraggiare la piccola produzione mercantile e imitare l’impresa capitalistica. Dove è rimasta forza di opposizione, la sinistra si è battuta per la conquista del “palazzo” quale premessa per l’instaurazione di un modello di economia più o meno analogo a quello adottato dai regimi del socialismo reale.
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E’ così accaduto che sia nella costruzione della società socialista sia nella strategia dei partiti comunisti impegnati a spodestare il capitalismo, la scissione tra economia e politica non è mai stata superata e ciò ha reso impossibile il processo di socializzazione. Eppure, il superamento del feudalesimo da parte della borghesia non lascia scampo a equivoci. Esso ha sancito la contemporaneità della modificazione delle forze produttive e dei rapporti di produzione. Il cambiamento della sovrastruttura è potuto realizzarsi grazie al cambiamento della base economica della società. La transizione dal modo di produzione feudale a quello capitalistico è, infatti, avvenuta attraverso l’insediamento nel tessuto economico-sociale della manifattura e di nuovi rapporti di produzione. La borghesia ha potuto conquistare il potere politico avendo acquisito il comando del processo produttivo e stabilito il dominio sul lavoro salariato. A ricordarci che i due processi sono correlati non è solo Marx, quando ci spiega che “il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita”, ma anche lo stesso Adam Smith. Questi, infatti, ci ha spiegato che se la terra, sacro pilastro dell’antico ordine, non fosse stata sottratta all’arbitrio del vassallo, se la manifattura non avesse soppiantato il vecchio modo di produrre, se gli ostacoli alla circolazione delle merci non fossero stati abbattuti, lo spirito e l’autorità del capitalismo non avrebbero potuto affermarsi. Altro che dare priorità alle riforme istituzionali trascurando la conversione dell’apparato produttivo e dell’economia! Il cambiamento passa necessariamente attraverso la rimozione alla radice dello status dell’homo oeconomicus. Attardarsi in dispute di modellistica istituzionale e mettere in secondo piano i rapporti di produzione, significa dimenticare che il fondamento materiale dello Stato è il blocco sociale che lo costituisce. Basterebbe riflettere sulla tragica esperienza della Repubblica di Weimar per rendersi conto delle drammatiche conseguenze che una simile dimenticanza comporta. Altra lezione della storia ci dice che la democrazia politica può funzionare pienamente e dispiegare tutte le sue potenzialità solo se sostenuta e integrata da un’ampia e diffusa democrazia economica, così come questa, a sua volta, non può fare a meno dello sviluppo massimo della democrazia politica. La partecipazione dei lavoratori alle scelte strategiche dell’impresa è effettiva e non puramente formale solo quando ad essi vengono assicurati gli strumenti indispensabili alla conoscenza tramite l’accesso a tutti i processi decisionali in modo simultaneo e coordinato a tutti i livelli. L’azione di controllo e di intervento dei lavoratori non può assolutamente arrestarsi ai cancelli della fabbrica, ma deve essere democrazia in senso lato, deve cioè estendersi alle politiche creditizie, a quelle monetarie, alle istituzioni elettive, fino alla politica economica internazionale. Partecipazione, per la classe operaia, non può dunque significare l’avere voce in capitolo solo nelle scelte aziendali, ma deve comportare una negoziazione sul piano degli interessi generali. Il legame con la programmazione dello sviluppo economico e sociale diventa pertanto una condizione della partecipazione. E ciò comporta la ridefinizione dei rapporti tra le imprese e il mercato, degli stessi meccanismi che determinano le scelte, i condizionamenti, le mediazioni nei rapporti impresacapitale, impresa-lavoro, impresa-distribuzione e consumo; ed esige un raccordo tra le istanze della partecipazione e le istituzioni rappresentative che programmano l’intervento pubblico. La democrazia economica comporta altresì il conseguimento di una distribuzione equa della ricchezza, del reddito e della fiscalità. Essendo portatrice di una concezione del lavoro non solo come fonte di reddito, ma anche come forma di inserimento e protagonismo sociale, la sinistra, nel partecipare alla gestione del capitale, non può che tendere al conseguimento della piena occupazione e alla costituzione di un forte welfare state. Obiettivi questi che il sistema capitalistico non può tollerare. Considerato che oggi l’economia è globale, la democrazia economica non può poi essere realizzata in un solo paese, ma deve avere referenti internazionali e perché questo avvenga si rende necessaria l’integrazione a livello mondiale dei sindacati stessi mediante la centralizzazione delle loro forze.
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Le esperienze di partecipazione sin qui compiute non hanno certo vantato tali caratteristiche, e questo perché sia il capitale che i governi nazionali si sono dimostrati intolleranti verso qualsiasi forma di estensione del potere dei lavoratori che comportasse un’interferenza nelle loro strategie. Sono così state prodotte solo gestioni conservatrici, e non poteva essere altrimenti. In un dibattito sulla transizione, alla fine degli anni ’70, Lucio Magri faceva giustamente notare che “non è possibile una gestione democratica della pianificazione in una economia in cui non tenda realmente a scomparire il carattere mercantile; non è possibile superare il lavoro salariato se non vengono scomparendo le mansioni ripetitive o almeno se non se ne riduce il tempo e non le si ridistribuisce su tutto il corpo sociale; non è possibile una eguaglianza politica o il deperimento dello Stato se non si rinnovano le sue basi sociali”. Praticare la democrazia economica, intesa non come semplice cogestione, ma come strumento di emancipazione delle classi subalterne, significa necessariamente lavorare alla costruzione di un nuovo modo di produzione. Occorre anche a questo riguardo ritornare a Marx per avere le idee chiare sulle strategie da seguire. Egli usa il termine “modo di produrre” o “modo di produzione” in modi diversi, ma il loro significato è sostanzialmente identico. La sua idea fondamentale è che il superamento del capitalismo comporta il mutamento del suo modo di produzione e per far questo è necessario organizzare il mondo del lavoro, costruire strutture di gestione diretta dell’economia realizzando la socializzazione dei mezzi di produzione, far crescere la coscienza e la soggettività collettiva ed esaltare l’autonomia dei produttori. A questo imperativo il teorico del socialismo scientifico fa seguire un monito: “Se produrrete consapevolmente, da uomini, e non come atomi dispersi e privi della coscienza del genere, avrete superato tutte le opposizioni artificiose e insostenibili. Ma finché continuerete a produrre nella maniera attuale, inconsapevole, dissennata, dominata dal caso, le crisi commerciali non cesseranno”. E’ dunque possibile fuoriuscire dalle secche del capitalismo solo se si è capaci di contrapporre ad esso un modo di produzione consapevole e alternativo. La sinistra deve avere il coraggio della sperimentazione e non deve limitarsi ad impossessarsi della direzione della vecchia struttura, bensì deve metterne in campo una nuova e con inediti rapporti sociali. Così come la borghesia ha soppiantato il feudalesimo, conseguendo gradualmente l’egemonia in campo economico, anche la sinistra deve saper mettere in campo la sua “manifattura”. Non dimenticando che “gli uomini fanno la propria storia, ma non lo fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé” e “anche quando una società è riuscita ad intravedere la legge del proprio movimento, non può né saltare né eliminare per decreto le fasi naturali dello svolgimento. Ma può abbreviare ed attenuare le doglie del parto”. Deve tenere poi conto di ciò che notava Saint-Simon e cioè: un sistema di organizzazione sociale non si crea dal nulla e ai rivoluzionari corre l’obbligo di essere pronti a percepire la catena di idee e di interessi che nella società si vengono formando, e su questi devono saper far leva. Difatti, quando il disagio sociale si rivela insopportabile, gli individui diventano soggetti attivi nella creazione di nuovi spazi e nuove forme di convivenza e di libertà. Questo avviene perché i comportamenti dell’uomo non possono essere completamente sottomessi alle leggi dell’accumulazione capitalistica: il bisogno estremo li induce alla liberazione di qualsiasi condizionamento. Ed è proprio in simili circostanze che nascono e si sviluppano i nuovi sistemi sociali. Ho già evidenziato le contraddizioni che oggi il sistema capitalistico manifesta e non è il caso che mi ripeta. Mi preme solo ribadire che per sciogliere alcuni nodi sociali (dall’occupazione alla distribuzione del reddito, dal crescere delle disuguaglianze all’alienazione) occorre mettere in campo nuove strategie di sviluppo, perché quelle sperimentate dalle classi al potere si sono dimostrate e continueranno a dimostrarsi fallimentari. Alcuni degli stessi economisti di scuola liberale convengono, ad esempio, sulla necessità di incrementare l’occupazione attraverso l’estensione della sfera dei bisogni sociali insoddisfatti e di istituire un reddito garantito di cittadinanza come rimedio al restringimento del lavoro salariato e all’espansione delle povertà. Si tratta di segnali eloquenti che dimostrano la gravità della situazione e la presa di coscienza dei limiti 552
del sistema da parte di categorie sociali che hanno nulla di che spartire con il movimento dei lavoratori. E’ il segnale che il bisogno di cambiamento sta assumendo proporzioni sempre più ampie. Qualche decennio fa, chi osava ricordare che Marx considerava inconciliabile l’automazione completa del lavoro socialmente necessario con la conservazione del capitalismo, era oggetto di scherno. Oggi ad ammettere la fondatezza di questa tesi sono alcuni stessi sostenitori del capitalismo. E questo cambiamento di clima e di orientamenti è senza dubbio la dimostrazione che siamo entrati in una fase di transizione oggettiva e che le controtendenze alla logica del capitale sono in crescita. E questo paradossalmente succede mentre la sinistra tende a perdere la sua memoria e la sua fisionomia. Pure sul piano dei comportamenti pratici da qualche tempo stiamo assistendo a un restringimento dell’ambito in cui il valore di scambio domina in modo incontrastato il valore d’uso. Grazie anche alle nuove tecnologie, negli ultimi anni si è registrata a livello mondiale una straordinaria diffusione di pratiche sociali che tendono a sottrarsi al dominio del capitale. Si tratta della sharing economy che è costituita dal baratto online, dall’economia del dono, dai consumi collaborativi, dall’artigianato digitale, dal crowding (finanziamento e progettazione collettivi), dal cosiddetto “comunismo delle idee”. Tutte queste forme di aggregazione fondate sullo scambio di beni e servizi rifiutano il ricorso al denaro come strumento di intermediazione, detestano il condizionamento del possesso ed esaltano il valore d’uso. Tra il 2009 e il 2011 (fonte Botsman, 2013) l’investimento del venture capital nel settore della sharing economy è passato da 50 a 400 milioni di dollari (da circa 36 a 293 milioni di euro). A partire dagli anni ’80, in molte parti del mondo hanno avuto sviluppo i Lets (Local Exchange Trading System), i Sel (Systemes d’échange locaux) e le Banche del tempo. In alcuni paesi europei, anche sull’onda della contestazione dell’euro, sono sorti negozi che scambiano oggetti e abbigliamento di seconda mano. In Svezia, la Federazione giovanile degli anarco-sindacalisti ha lanciato una campagna che propugna il diritto a viaggiare gratis sui mezzi pubblici: una rivendicazione che viene portata avanti anche in altri paesi come la Norvegia e il Brasile. Nel 2003, l’Università del Sacro Cuore di Milano, attraverso un censimento, ha rilevato che in Italia erano in atto 270 esperienze di sharing economy. Stime successive ci dicono che da allora ad oggi c’è stato un incremento esponenziale. Anche da noi queste pratiche sono molteplici: si va dal baratto al freecycle, dal car sharing, al bike sharing, dall’affitto della casa, anziché all’acquisto, alla condivisione dell’appartamento, dal noleggio di borse e vestiti al making (artigianato digitale), fino alle banche del tempo che sono diffuse in molte città e paesi. Gruppi di professionisti portatori di competenze diverse praticano il crowdsourcing, unificano cioè gli sforzi in cerca di mercati, di investimenti e di clienti. Nel campo musicale sta emergendo l’idea che il possesso dei mezzi d’ascolto non abbia più il valore che gli ha assegnato il mercato e privilegiano il loro uso sperimentando nuove forme di socializzazione. La banca del tempo è un esempio di produttività sociale “fuori mercato” che sfugge del tutto al controllo e all’influenza della logica capitalistica. Insomma, tutte queste pratiche che non vantano alcuna connotazione politica, favoriscono l’economia della condivisione e rifiutano quella della proprietà. Indagini demoscopiche ci dicono tra l’altro che una tendenza dei nostri tempi è che l’uomo tende a possedere sempre meno, paradossalmente, proprio a causa delle restrizioni del sistema fondato sulla proprietà privata in cui siamo inseriti. La crescente avversione alla tirannia del mercato e al processo di alienazione induce gli individui a ricorrere a comportamenti che consentono di esprimere la loro iniziativa, il loro spirito di solidarietà e di mutuo soccorso; che favoriscono l’incontro e lo scambio disinteressato, anche se limitato alla piccola comunità di appartenenza. E’ un segnale di disagio che non trova alcuno sbocco politico. La sinistra mostra scarsa attenzione verso queste pratiche, eppure esse sono da interpretarsi come l’avvisaglia di un bisogno diffuso di protagonismo e di rapporti sociali alternativi, anche se vissuto 553
inconsapevolmente. L’aspetto inquietante di questo atteggiamento di indifferenza è che non sempre la sinistra, come ho già sottolineato, ha saputo coniugare la lotta per migliori condizioni esistenziali delle classi subalterne con la lotta per la conquista del potere. Essa ha vissuto e continua a vivere in modo contraddittorio il rapporto tra la proclamazione dei suoi obiettivi generali (solidarietà internazionale, pace, rispetto della natura, ecc.) e la pratica politica quotidiana. Sul fronte del lavoro, per esempio, nell’opporsi al “nuovo” imposto dal capitale, rischia di svolgere oggettivamente un ruolo di conservazione, poiché, non avendo chiare le idee sul proprio itinerario, finisce per essere il custode del “vecchio”, cioè degli antichi rapporti. Di fronte all’avvento del postfordismo, infatti, ha continuato a difendere le rigidità del tradizionale sistema di lavoro dimostrandosi incapace di aprire la conflittualità sull’uso che il capitale fa delle nuove tecnologie e delle potenzialità intellettuali. Sono contrasti e insufficienze questi che non possono essere tollerati oltre se ci si propone l’alternativa. E’ mio convincimento che la sinistra, avendo perso, in parte consapevolmente in parte senza rendersene conto, la memoria storica e avendo rigettato il patrimonio di teorie che il movimento operaio ha accumulato in oltre due secoli, ha smarrito la capacità di far tesoro delle spinte e delle esperienze che emergono dalla società civile e ha perduto l’autorità politica e l’autonomia culturale che originariamente aveva. Ha dimenticato che premessa essenziale dell’emancipazione dell’uomo è la realizzazione della libertà economica e che la vera libertà incomincia proprio dove finisce il lavoro comandato e dove la creatività delle masse sprigiona nuove forme di convivenza. Conseguire l’obiettivo dell’alternativa, comporta valorizzare ogni espressione di spontaneità progressiva della società civile e combattere ogni forma di conservatorismo e di economicismo che purtroppo contraddistingue le stesse formazioni del movimento operaio. A questo riguardo, la sinistra non dovrebbe mai dimenticare la riflessione critica svolta da Marx a proposito del tradeunionismo inglese che racchiude in sé un principio della lotta rivoluzionaria. “Questa attività dei sindacati – ebbe a sostenere - non è soltanto legittima, è necessaria. Non se ne può fare a meno, finché sussiste l’attuale sistema di produzione… essa dev’essere generalizzata mediante la fondazione e l’unione dei sindacati in tutti i paesi”. Ma ha poi aggiunto: “I sindacati, se sono necessari per la guerriglia tra il capitale e il lavoro, sono ben più necessari quale forza organizzata per la eliminazione del sistema del lavoro salariato e persino del dominio capitalistico… debbono convincere il mondo intero che i loro sforzi, ben lungi dall’essere limitati ed egoistici, sono rivolti alla emancipazione delle masse degli oppressi”. Non può certo dirsi che la moderna politica sindacale assolva a una tale funzione. Essa si limita a contrattare al miglior prezzo possibile la forza lavoro, operando entro i confini dell’economia politica, risultando oggettivamente prigioniera delle leggi del sistema. Combatte gli effetti, non le cause dello sfruttamento. Se questo modo di essere può risultare congeniale ai sindacati di ispirazione interclassista, esso non può essere fatto proprio da quelle organizzazioni le cui origini e tradizioni sono di matrice socialista. Al fine di conseguire un modo nuovo di produrre, nuove forme e nuovi rapporti di produzione, occorre andare oltre il carattere economicistico-rivendicativo dell’azione sindacale; occorre chiamare la classe lavoratrice a sperimentare una democrazia economica che sia in grado di ridefinire bisogni e priorità, dare corpo a nuove politiche economiche e sociali contribuendo così a dare vita a una fase di transizione. Senza la lotta per un modo nuovo di produzione e per la riappropriazione del “general intellect”, il destino della sinistra, sia di quella politica che di quella sociale, non può che essere quello dell’integrazione nel sistema che si era proposta di superare. 17.6 – Riappropriazione del “general intellect” quale leva per convertire l’economia A metà degli anni ’60, sulle colonne di “Rinascita” è apparso un articolo di Rossana Rossanda in cui trovava spazio il tema dell’egemonia della sinistra. L’allora dirigente del Pci così interpretava la transizione al socialismo: “E’ dalla capacità del marxismo come scienza di dirimere e mettere a nudo il meccanismo di soggezione capitalistica, nelle forme concrete e originali in cui si presenta, e 554
dalla capacità del partito rivoluzionario di fare di questa scienza azione politica, che avviene lo spostamento delle masse e dei ceti sociali”. Pochi anni dopo, senza che il partito rivoluzionario avesse fatto scienza nel mettere a nudo il meccanismo di soggezione del capitale, scoppiava la contestazione studentesca e operaia, le lotte per il cambiamento investivano ogni ambito della società e i palazzi del potere erano presi d’assalto. Il partito rivoluzionario perdeva l’occasione di mettersi alla testa del movimento e finiva per svolgere una funzione moderatrice. In molti, a sinistra, gridarono al tradimento, solo in pochi si resero conto che non si trattava di cattiva volontà, ma di un grave deficit di teoria. A mancare, infatti, era proprio quella capacità della sinistra di denunciare la rapina dell’intelligenza dei lavoratori da parte del capitale, appunto del “general intellect”, e di farne scienza del cambiamento. Se si va oltre l’ortodossia dogmatica del marxismo, ci si rende conto che tra il capitale e il lavoro si verificano due scambi e non uno solo come in molti credono: il primo riguarda l’acquisto da parte del capitale della capacità lavorativa, dalla quale ricava il plusvalore; il secondo la trasformazione che esso compie del “lavoro vivo” in “lavoro morto”, ossia la sua oggettivazione nelle macchine. La sinistra ha da sempre attribuito importanza al primo scambio, cioè all’aspetto riguardante l’appropriazione del lavoro, la subordinazione fisica, lo sfruttamento materiale, il salario, le condizioni ambientali, che giustamente non poteva e non può essere trascurato. Sul secondo scambio, invece, ha dimostrato scarsa sensibilità, infatti, non ha mai aperto un solo contenzioso su vasta scala nei confronti del capitale per contestargli l’appropriazione dell’intelligenza dei lavoratori nella prospettiva di metterla al servizio dell’interesse collettivo. Gli stessi teorici del marxismo sul “general intellect” hanno dimostrato un’ingiustificabile trascuranza. Almeno a me, è risultato difficile trovare dei riferimenti sull’importanza della riappropriazione del sapere sociale ai fini del cambiamento, in trattati e testi di economisti marxisti illustri come, per fare alcuni esempi, John Eaton, Maurice Dobb, Antonio Pesenti, Vincenzo Vitello, Luciano Barca, i quali hanno sicuramente contribuito a formare intere generazioni di comunisti. Per non dire degli economisti dei regimi del “socialismo reale” (dal sovietico Leontiev al cinese Xu He) autori di trattati ufficiali nei quali non vi è addirittura alcuna traccia di questa problematica. L’argomento è ignorato anche dalla stragrande maggioranza degli studiosi occidentali del calibro di Schumpeter. In genere, si fa riferimento alla tesi marxiana della socializzazione, ma sul come essa si possa realizzare e come “l’intelletto generale” possa diventare patrimonio della collettività, si è detto e si dice poco o niente. E pure quando la stessa esperienza storica ha evidenziato, sia in positivo che in negativo, l’importanza della riappropriazione da parte del movimento dei lavoratori del sapere sociale (dai consigli di gestione all’esperienza dell’autogestione, come ho già ricordato), i teorici della sinistra si sono dimostrati distratti e miopi non avvertendo l’importanza di una riflessione critica e di una rielaborazione teorica. E’ questo, a mio avviso, uno dei motivi principali per cui il movimento dei lavoratori è risultato storicamente perdente nello scontro con il capitalismo. Nel “Frammento sulle macchine”, nei “Grundrisse”, dopo aver ricordato che l’autonomia della società civile è da ricercarsi nell’economia politica, e non altrove, Marx spiega che la forza produttiva immediata nel modo di produzione capitalistico è costituita dall’appropriazione del sapere sociale generale, cioè dell’“intelletto generale”. Così lo chiama perché rappresenta un patrimonio di tutto il genere umano. Egli fornisce la nozione di “lavoro vivo” per significare la soggettività che sta dietro e dentro la forza lavoro, la quale è da lui considerata il motore della riproduzione capitalistica. Abbiamo già visto come l’esperienza intellettuale del lavoro umano venga trasferita nella macchina attraverso la trasformazione del “lavoro vivo” in “lavoro morto”. Tramite questa operazione, l’accumulazione del sapere e dell’abilità delle forze produttive viene assorbita nel capitale in contrapposizione al lavoro e si presenta come sua qualità esclusiva. “Nel capitale fisso – argomenta Marx – la forza produttiva sociale del lavoro è posta come qualità inerente al capitale; sia la potenza scientifica, sia la combinazione di forze sociali all’interno del processo di produzione, sia, 555
infine, l’abilità trasferita dal lavoro immediato alla macchina, alla forza produttiva morta”. E avverte che “lo sviluppo del capitale fisso mostra in quale misura il sapere sociale generale, la conoscenza, si è trasformato in forza produttiva immediata, e quindi fino a che punto le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo dell’intelligenza generale e rimodellate in accordo con essa”. L’attività mentale, creativa e progettuale, connessa alla proprietà, è dunque prerogativa del capitale. Si pensi all’uso del brevetto che nel tempo è passato dalla macchina alla chimica, alla farmacia, fino al terziario avanzato, o alla “cassetta delle idee” istituita in molte aziende, per rendersi conto di quali mezzi faccia uso il capitale per attribuirsi la proprietà della conoscenza. Ebbene, Marx ci ricorda che prerogativa per il superamento del capitalismo è la capacità della sinistra di organizzare il mondo del lavoro e di operare affinché il movimento operaio si riappropri del sapere sociale e della soggettività collettiva, cioè del “general intellect”. La riappropriazione del “lavoro vivo” rappresenta la condizione per la liberazione dalla schiavitù del lavoro, poiché esso è il soggetto potenziale della trasformazione progressiva della società e il prerequisito per consentire a ciascuno di realizzare le proprie aspirazioni conciliando l’esigenza della solidarietà sociale con il bisogno di libertà. L’alternativa al capitalismo passa dunque attraverso questa riappropriazione, diversamente si determina solo un cambiamento di superficie. Non sono riuscito a stabilire se Lenin abbia avuto modo di prendere conoscenza dei “Grundrisse”, dubito che l’abbia potuto fare, perché ai suoi tempi la circolazione delle idee era estremamente difficoltosa e le opere di Marx erano poco diffuse. Sono però convinto che egli abbia percepito la sostanza del pensiero marxiano sul “general intellect”. Pur se le condizioni della Russia zarista lo hanno costretto a compiere scelte autoritarie e a copiare il modo di produrre capitalistico, egli aveva chiaro che “l’intelletto di decine di milioni di creatori produce qualcosa che è incomparabilmente più alto della più grande e geniale previsione”. Sta di fatto comunque che l’Urss è sorta e si è sviluppata senza neppure porsi il problema dell’uso del “general intellect” a livello di massa, nelle condizioni in cui si trovava gli era del resto impossibile farlo. Ad aver provato a mettere in pratica la teoria marxiana è stato invece Gramsci il quale, nel corso dell’esperienza torinese dei consigli, si è impegnato a far assumere agli operai una cosciente capacità direttiva nel processo produttivo e nell’economia. A quel tempo, fra il Partito socialista e la Confederazione generale del lavoro era stato sottoscritto un patto: la fabbrica era terreno riservato del sindacato e in essa si poteva lottare solo per conquiste esclusivamente rivendicative e normative. Egli invece si è battuto perché i lavoratori studiassero l’organizzazione del sistema produttivo e affinassero le loro capacità tecniche in modo di coniugare il loro sapere professionale con la politica e dare così luogo a un nuovo modo di produrre sulla base di una diversa concezione del mondo. Questa esperienza, però, come sappiamo, è finita male e dalla moderna sinistra viene ignorata o quantomeno sottovalutata. Eppure, con la crisi di questi ultimi anni il problema della riappropriazione del “general intellect” è tornata ad essere di estrema attualità. Di intelligenza sociale parlano (a sproposito) i “grillini”, nelle file della sinistra sono in pochi a conoscerne il significato. Fino a ieri la rivoluzione socialista si è imposta ovunque attraverso il ricorso allo scontro fisico, ora pare giunto il tempo in cui lo scontro decisivo si consuma sul terreno delle forme della produzione. Nel 1916 Lenin sosteneva che “una classe operaia che non cercasse di imparare a maneggiare le armi, che non tendesse a possederle, meriterebbe di essere trattata da schiava”. Anche se il ricorso alla forza, come atto difensivo, non può essere escluso, parafrasando il leader bolscevico, oggi potremmo dire che una sinistra che non avverte il bisogno, o si dimostra incapace, di valorizzare il “general intellect” è sicuramente destinata a rimanere subalterna al sistema. Non è più possibile tollerare che l’attività mentale, creativa e progettuale rimanga prerogativa della classe dominante. E’ tempo di impedire che il capitale, nella sua fissità di macchina e automa, continui a incorporare la scienza e la creatività di chi lavora e rappresenti l’intelligenza generale della società. E’ ora di dire basta all’estraniazione del lavoratore e alla sua “degradazione mentale”. Non si deve dimenticare che la modernità non è cosa che appartiene al capitale; essa racchiude in sé 556
generali potenzialità emancipatorie che sono il prodotto dell’intera collettività, frutto dell’intelligenza e del lavoro di molte generazioni. Nell’interpretazione degli sviluppi del capitalismo la sinistra deve ripartire da Marx e andare oltre le sue analisi e intuizioni. Deve saper monitorare e intervenire sul passaggio dal “lavoro vivo” al “lavoro morto” per comprendere come si realizza nell’epoca della globalizzazione. E lo deve fare avendo chiara la propria weltanshauung, evitando cioè di dar retta alle sirene del riformismo. Qualche tempo fa, in occasione della presentazione da parte di Marchionne del piano Fiat, Pietro Ichino, un ex di sinistra, è intervenuto sostenendo che è tempo in cui “abbiamo tutti bisogno di un sindacato ‘intelligenza collettiva dei lavoratori’ che sia capace di valutare il piano industriale innovativo (riferito appunto a quello di Marchionne) e l’affidabilità di chi lo propone, e che, se la valutazione è positiva, sappia guidare i lavoratori nella scommessa comune con l’imprenditore su quel piano, negoziandone le modalità di attuazione a 360 gradi”. E’ questo un modo subalterno di far uso dell’intelligenza collettiva dei lavoratori. La scommessa è da fare non con i dirigenti della Fiat o con altri rappresentanti del capitalismo, ma con la storia per innovare il modo di produrre e ciò che si produce, e non solo per assicurarsi il posto di lavoro. La democratizzazione del solo processo decisionale non porta alla socializzazione, ma affida ancora una volta a un’oligarchia tecnocratica il governo della società. Alla sinistra spetta invece il compito di favorire la riappropriazione da parte dei lavoratori del “general intellect” promuovendo nuove forme di lavoro e producendo beni che siano socialmente utili e favoriscano lo sviluppo dell’autonomia e della libertà di ogni individuo. E questa operazione, contrariamente a quel che fa supporre la complessità della nostra epoca, oggi risulta più semplificata che nel passato proprio grazie all’avvento delle nuove tecnologie. Un quarto di secolo dopo aver tracciato l’itinerario di una possibile transizione al socialismo, Rossana Rossanda così commentava l’evoluzione del dominio capitalistico sul sapere sociale: “E’ fortemente discutibile che la rivoluzione informatica comporti un salto di teoria nell’ipotesi marxiana del macchinismo, che è sempre ‘lavoro morto’: anche il programma dei microprocessori è stato lavoro, ora ‘morto’ e diventato capitale fisso, la sola innovazione reale indotta e, finora, inducibile che supera le possibilità del cervello umano essendo l’accumulo di memoria e la rapidità di calcolo – non altro – la intelligenza artificiale più sofisticata non potendo che comporre e ricomporre quel che vi è stato indotto, e tanto meno inventar un altro calcolo”. Il “lavoro vivo”, a suo giudizio – e io concordo in pieno con questa sua tesi – continua a essere insostituibile e lo sarà fino a che l’uomo vivrà, anche se le sue forme sono destinate a cambiare. Nel contesto della produzione immateriale il processo di riappropriazione del sapere sociale acquista una nuova fisionomia, poiché ogni individuo ha libero accesso alla conoscenza, e perciò è messo nella condizione migliore per dare corso a un modo nuovo di produrre e di consumare. Occorre, però, forzare la gabbia dei rapporti capitalistici che fondano sul criterio esclusivo del tornaconto, avendo coscienza che lo sviluppo delle forze produttive non è un fatto puramente economico, bensì è un processo sociale. Altresì è necessario costruire una nuova etica in contrapposizione all’avvincente competitività capitalistica, e bisogna scrollarsi di dosso la religione del denaro, il deus ex machina dell’economia capitalistica, e socializzare i rapporti umani. La via democratica al socialismo non può consistere in una spallata, ma è un processo lungo che richiede un faticoso tirocinio di lotta politica e di sperimentazione di nuove forme di organizzazione produttiva e di intreccio di rapporti sociali e di interessi. Come avviene per la scienza, il progresso di queste sperimentazioni non può che essere il risultato di tentativi e di errori compiuti, pertanto la critica e l’autocritica si rivelano pratiche essenziali e insostituibili. Pensando alla transizione dal capitalismo a una società socialista, Engels così immaginava il percorso: “Lo Stato proletario svilupperà la sua proprietà in concorrenza con le aziende capitalistiche, il che presume una maggior efficienza della proprietà socialista rispetto a quella capitalistica, per cui la prima dovrebbe vincere la competizione su di un mercato onestamente organizzato”.
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Che la classe capitalistica, in una fase di transizione, si comporti in maniera cavalleresca facendo del mercato un baluardo di onestà, a me appare cosa assai dubbia. L’introduzione di elementi di socialismo nel tessuto capitalistico non può che provocare un conflitto d’interessi al quale non si può far fronte offrendo l’altra guancia. La sinistra è chiamata perciò a fare i conti con non pochi ostacoli, così come secoli fa la borghesia ha dovuto farli con il lascito del feudalesimo. Che il capitalismo possa essere soppresso con le armi o per decreto, è pura illusione, considerato che noi stessi siamo il prodotto e insieme gli eredi di questo stesso sistema. A noi spetta di sgombrare il campo delle sue macerie ed edificare su nuove fondamenta una società più razionale e più egualitaria. E questa è un’operazione che richiede tempo, intelligenza e anche pazienza. Per avviare e gestire la transizione occorre mettere in campo una forte capacità di controllo e di iniziativa sull’intero tessuto sociale in modo da far diventare nuova classe dirigente l’insieme dei lavoratori. I vecchi meccanismi economici devono essere gradualmente soppiantati da meccanismi nuovi, attraverso il massimo protagonismo sociale e con il conseguimento progressivo di migliori condizioni di vita. Sin dall’antichità le nuove tecniche economiche non si sono imposte di colpo, ma sono state introdotte poco a poco, le une dopo le altre, con raggruppamenti svariatissimi e in tempi molto diversi da zona a zona; da alcuni decenni hanno assunto un ritmo più accelerato, questa novità, però, non elimina il loro procedere graduale. Vanno conseguentemente superati i parametri dell’economia di mercato: il Pil, come ho già detto, è una categoria inadatta a dar conto di tutti i fenomeni economico-sociali, in specie delle disuguaglianze e della distruzione dell’ambiente, perciò vanno adottati nuovi criteri di valutazione. Occorre ristrutturare ecologicamente l’economia che rappresenta una sfida difficile, perché obbliga a considerare l’ambiente non un qualcosa di immutabile da difendere, ma un bene da valorizzare e ciò comporta una complessa conversione culturale e comportamentale degli individui. Obiettivo deve essere la produzione di beni e servizi da conseguire con il minimo impiego di risorse materiali e ambientali. Sia nell’agricoltura che nell’industria i processi produttivi e gli stessi prodotti devono comportare il minimo impatto ambientale e i rifiuti non riciclabili devono essere ridotti al minimo. Altra condizione per la ristrutturazione ecologica dell’economia è l’incremento delle zone di produzione dove è escluso l’impiego di sostanze chimiche ed è bandito il ricorso al lavoro minorile e nero. La competitività nella produzione si deve svolgere non più sul risparmio di forza lavoro e sull’abbassamento dei costi d’esercizio, come avviene nel sistema capitalistico, ma sulla qualità dei prodotti, sul loro valore d’uso e sul consenso di chi produce e di chi consuma. I trasporti devono essere organizzati in modo di conciliare la mobilità con la salubrità e la conservazione dell’ambiente. L’urbanizzazione deve corrispondere alle regole della razionalità ed escludere speculazioni e deturpazioni del territorio. Il suolo deve diventare un bene pubblico. I servizi devono tendere a un impiego personalizzato e devono essere assicurati a tutti senza discriminazione alcuna. Nel programmare lo sviluppo economico e sociale si deve partire dai bisogni che la comunità esprime, non già dai valori di mercato condizionati dal dominio commerciale. Ciò significa stabilire una nuova scala dei bisogni individuali e sociali che necessariamente è antitetica al modo di consumare vigente, la quale deve dare priorità alle fondamentali esigenze di vita. Occorre cioè sovvertire gradualmente il rapporto tra valore d’uso e valore di scambio di ciò che si produce. Com’è risaputo, sia il valore d’uso che il valore di scambio hanno un’esistenza antica. Già quattordici secoli fa Aristotele aveva colto la distinzione fra l’uno e l’altro. Nel modo di produzione capitalistico il valore d’uso ha subito una trasformazione diventando il mezzo per la produzione del valore di scambio. E come ci insegna ancora Marx, mentre “il tempo di lavoro necessario lavora per il puro valore d’uso, per la sussistenza, la giornata lavorativa eccedente è lavoro per il valore di scambio, per la ricchezza”. Bisogna spezzare questa logica se si vogliono liberare il processo produttivo e i rapporti sociali dal dominio capitalistico.
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Fino a che la direzione del mondo produttivo e riproduttivo resterà nelle mani di ristrette élite imprenditoriali e professionali e la maggioranza di chi lavora sarà relegata a rimanere “idiota”, il capitale continuerà a esercitare il suo dominio sull’uomo. Fino ad oggi, da parte della sinistra non è stata condotta una coerente battaglia per far prevalere il valore d’uso sul valore di scambio. La qualità e le finalità di ciò che si è prodotto e si produce sono state e continuano ad essere determinate dal capitale. Non è possibile immaginare che un processo di cambiamento sociale possa avvenire senza che si verifichi un mutamento strutturale dei bisogni umani. Ci si è spesso nascosti dietro le innegabili difficoltà di una conversione del genere, la quale investe indubbiamente non solo il modo di produrre e di consumare, ma il modo stesso di vivere e di pensare degli individui. Eppure, si è data scarsa considerazione al fatto che, nonostante la sua strapotenza sull’intera attività umana, il capitale non è riuscito a trasformare in valore di scambio i valori d’uso che da millenni produce la donna in qualità di “angelo della famiglia”. E questo significa due cose precise: la prima, che anche il sistema capitalistico ha i suoi limiti e i suoi confini; la seconda, che un sistema sociale non può vivere senza valori d’uso, ma può fare sicuramente a meno del valore di scambio. Questa constatazione dovrebbe far superare alla sinistra le sue timidezze infondendole coraggio e intraprendenza sul piano dell’innovazione e della sperimentazione. Se si pensa che il mercato capitalistico trascura non pochi bisogni individuali e collettivi che hanno finalità sociali, per dare priorità ai consumi superflui indotti, e che sul mercato esiste un’abbondante forza lavoro non utilizzata, a causa della perversa legge del profitto, appare evidente che uno spazio per coniugare la riappropriazione del “general intellect” con la soddisfazione dei bisogni individuali e collettivi mortificati, esiste. Occupare questo spazio significa però andare oltre le asfittiche esperienze dei “lavori socialmente utili” che si sono rivelate espedienti di mera natura assistenziale. La sperimentazione sia del processo di riconversione dell’economia sia dell’utilizzo per fini sociali di forza lavoro in esubero, risulta sicuramente di più facile attuazione nell’ambito della pubblica imprenditoria e del mondo della cooperazione. La sua espansione nel resto del tessuto sociale può avvenire in modo graduale dopo che si sono venuti delineando esperienze di modi nuovi di produrre e si sono create le condizioni di concorrenzialità di questo settore con il sistema capitalistico. In presenza di una palese incapacità del sistema di creare nuova occupazione, simili soluzioni possono trovare largo consenso sia nel mondo del lavoro che nell’opinione pubblica. Ma anche nell’imprenditoria privata una simile impresa oggi appare più fattibile che nel passato, visto che pure in questo ambiente sta maturando l’esigenza di un processo innovativo a tutto campo. L’esperienza delle “workersd buy out” è da questo punto di vista significativa. In questi ultimi anni, anche nel nostro Paese si sono registrati numerosi casi di piccole aziende salvate e rimesse in carreggiata dai dipendenti attraverso l’impiego della liquidazione, del Tfr, dell’indennità di mobilità e con gli aiuti finanziari e manageriali del movimento cooperativo. Altra testimonianza della vivacità imprenditoriale non a fini capitalistici ci viene da molte delle esperienze fornite dal cosiddetto “terzo settore”. Quale contenitore di iniziative variegate e controverse, in esso si manifestano i germi di un nuovo sviluppo e di un nuovo protagonismo sociale, e la sinistra farebbe bene a prestare ad esso molta più attenzione di quanto non faccia. Si deve aver chiaro che l’imprenditorialità non è un requisito esclusivo delle aziende capitalistiche e che a creare occupazione non sono solamente queste strutture. Esiste un’imprenditoria sociale che si ispira a valori alternativi a quelli del profitto la quale dimostra funzionalità e solidità anche nei periodi più neri di crisi economica. Alle cosiddette imprese start up che operano fuori mercato la sinistra deve garantire sostegno e prospettiva, deve creare incubatori per la moltiplicazione delle esperienze imprenditoriali finalizzate alla soddisfazione dei bisogni collettivi e individuali che si sottraggono alle leggi del capitale. Suo compito è poi quello di imporre leggi che, nei casi di fallimento di aziende, lo Stato possa sequestrare gli impianti e metterli a disposizione dei rispettivi lavoratori ai quali garantire l’aiuto necessario a presentare business plan di continuità produttiva o di riconversione finanziati a tassi agevolati dalle banche. 559
Poiché la concorrenza capitalistica, in nome della proprietà intellettuale, impedisce a ogni impresa di socializzare i progressi conseguiti nella ricerca, deve essere introdotto nel diritto l’abbattimento del segreto industriale per tutte le attività che hanno finalità non lucrative, in modo non solo di favorire l’imprenditorialità sociale, ma anche di aprire un varco nel dispiegamento del potenziale democratico delle nuove tecnologie. La figura del knowledge worker (lavoratore della conoscenza) deve trovare sviluppo in ogni ambito sociale e deve rappresentare una delle leve della trasformazione della società capitalistica in società socialista. La ricerca e la circolazione delle conoscenze sono dei fattori decisivi nel superamento di ogni tipo di crisi economica e sociale, eppure a causa delle restrizioni imposte dal regime capitalistico, non possono essere messe a vantaggio della collettività. E’ un muro questo che deve essere abbattuto. Solo lo svincolo della ricerca scientifica, tecnologica e medica e del lavoro dalla logica del profitto può garantire sicurezza sociale e soddisfazione piena dei bisogni umani. La cultura capitalistica ci ha abituati all’idea che l’attività umana può essere stimolata solo dall’incentivo del profitto e che gli uomini sono spinti a produrre il surplus necessario alla loro esistenza solo se possono appropriarsene come privati. Ci ha fatto credere che questa è una legge naturale, insita nell’uomo. Ebbene, la sinistra deve smentire questa fandonia, deve rendere chiaro che i valori dell’uomo sono un prodotto della cultura, dell’educazione e che si può, anzi si deve produrre non per il guadagno, ma per il benessere collettivo. Allo stimolo del denaro si deve contrapporre l’aspirazione a un sistema sociale solidale, alla concorrenza si deve preferire l’armonia comunitaria. Per tutte queste ragioni appare importante non indugiare oltre e dare inizio alla sperimentazione sul campo. Riappropriarsi dell’intelligenza e della creatività diffuse nella società, dello stesso patrimonio impropriamente accumulato dal capitale, per metterle al lavoro ai fini di una produttività sociale, vuol dire dare vita a una dinamica autopropulsiva nel conseguimento di un disegno di razionalità dello sviluppo fondato sui principi dell’autogoverno. Significa anche affermare il principio secondo cui la struttura economica scaturisce dall’opera degli uomini e può obbedire alle leggi dell’interesse collettivo e della solidarietà, anziché a quelle del capitale. Motore di un simile progetto di sviluppo deve essere la fiducia nell’uomo e nelle sue capacità creatrici esplicate nel rispetto dell’ambiente in cui vive e di tutti i suoi simili. 17.7 – L’imprescindibile rivolgimento del lavoro Nell’ultimo quarto di secolo il mercato del lavoro italiano è stato stravolto da riforme il cui obiettivo era quello di favorire la creazione di nuovi posti di lavoro. Il collocamento è stato privatizzato, sono state create le agenzie d’intermediazione tra domanda e offerta, si è ridimensionato il ruolo contrattuale delle organizzazioni sindacali dei lavoratori, il posto fisso è stato abbondantemente rimpiazzato dalle occupazioni precarie, si sono introdotte nuove figure professionali (emblematica è quella dell’apprendista calciatore), eppure la disoccupazione è dilagata. Se si prendono in considerazione le previsioni degli economisti, degli imprenditori e degli esperti in materia si apprende che nel prossimo futuro non saremo affatto in presenza di una crescita dell’occupazione, bensì addirittura al rischio di un ulteriore restringimento dei posti di lavoro. E anche se ci fosse una ripresa della crescita, questa non sarebbe in grado di assicurare automaticamente un aumento dell’occupazione. Come già abbiamo visto, sul piano occupazionale, le nuove tecnologie, in specie quelle digitali, non producono gli stessi effetti che nel passato ebbe l’applicazione ai sistemi produttivi del vapore, dell’elettricità, del motore a scoppio, tutte innovazioni che hanno creato nuovi universi industriali. Sull’impiego del lavoro umano il sistema capitalistico genera delle contraddizioni che fanno presagire tempi assai bui. Non solo l’occupazione diventa sempre più precaria e nella lotta per il posto di lavoro si è innescata una sciagurata competizione tra giovani e cinquantenni, ma il sistema mentre non offre lavoro a tutti quelli che lo richiedono, induce chi il posto ce l’ha a lavorare sempre 560
più intensamente, sia per l’accelerazione dei ritmi di lavoro che per l’allungamento della giornata lavorativa. Per ottimizzare le prestazioni lavorative e tener sotto controllo i lavoratori, gli imprenditori sono ricorsi addirittura all’impiego dei sensori e hanno inventato una forma innovativa di taylorismo digitale. Considerate le potenzialità delle nuove tecnologie e l’impiego sempre più esteso dell’automazione e dei robot, si potrebbe creare occupazione riducendo e ridistribuendo l’orario di lavoro, ma questo va contro la legge del capitale e non lo si può fare. E pensare che Keynes aveva previsto che l’uomo si sarebbe liberato dalla fatica lavorando 15 ore la settimana! Si preferisce mantenere in essere un esercito di forza lavoro di riserva, non utilizzata, anche se preparata professionalmente e costata soldi e sacrifici alla comunità, pur di non trasgredire le leggi del profitto. Questi modi di essere del sistema capitalistico costituiscono uno spreco di risorse tale da minare alle fondamenta il progresso dell’umanità. Ecco perché una svolta è necessaria e urgente! Riappropriarsi del “general intellect” è la strada che la sinistra deve finalmente imboccare. Fare questo implica necessariamente ridefinire il significato e il ruolo del lavoro nella vita dell’uomo. Secondo la logica del capitale, lo sviluppo economico non può prescindere dalla produzione di merci e dall’esistenza del denaro. Ai suoi fini il lavoro è soltanto un complemento. E’ questo un postulato che deve essere respinto, giacché il lavoro è il fattore fondamentale, insieme alla natura, dell’evoluzione umana. A insegnarci che senza il lavoro il capitale è nulla non è solo Marx, prima di lui a individuare nel lavoro l’attività creatrice della ricchezza è stato lo stesso Adam Smith. Per restituire al lavoro il suo vero valore è necessario rendersi autonomi nel rapporto che esso ha con il capitale, vale a dire bisogna andare oltre la sua forma-merce e ricusare il contratto sociale che la sanziona. Solo un modo di produzione socializzato consente di creare occupazione sulla base del soddisfacimento dei bisogni e per finalità sociali senza dover dipendere dal valore di scambio. Se si considera che oggi, a causa della contraddizione esistente tra la spinta alla sovrapproduzione di beni e il progressivo restringimento dell’area del “lavoro vivo”, con il conseguente venir meno dei salari e degli stipendi, il capitalismo non è più in grado di garantire un’ulteriore espansione dei livelli occupazionali, la sperimentazione di un’alternativa diventa non solo un’opportunità da offrire a chi ha bisogno di lavorare, ma una necessità storica. E poiché è illusorio che possa bastare la semplice riduzione dell’orario di lavoro per soddisfare il crescente bisogno di occupazione, occorre porre mano allo stesso sistema della produzione e della distribuzione. Si deve in sostanza avere il coraggio di svincolare il lavoro dal denaro e non far più dipendere da esso lo sviluppo delle forze produttive. Creare posti di lavoro senza dover dipendere dal capitale e dalla sua merce di scambio per eccellenza è possibile. Sbaglia Marco Ferrando, quando suggerisce di espropriare le banche per creare lavoro. Nuovi posti di lavoro si creano cambiando il modo di produrre e nel farlo si deve svuotare il denaro del suo potere ridimensionando, non valorizzando il ruolo dei santuari del credito. Già a partire dalla fase di transizione, la funzione del salario e dello stipendio può essere gradualmente sostituita da forme di reddito di cittadinanza e da un modo nuovo di assicurare agli individui beni e servizi indispensabili alla loro esistenza (per esempio, la loro gratuità). Per dare inizio a un processo del genere occorre valorizzare le professionalità, esaltare l’autonomia dei singoli soggetti rendendoli responsabili delle proprie azioni, predisporli a mettersi in discussione continuamente, a rendersi efficienti non più per il “padrone” e per il profitto, ma per l’interesse collettivo. Il socialismo reale è risultato fallimentare anche perché non ha saputo compiere una tale conversione di sentimenti e comportamenti, strada obbligata per la realizzazione di un nuovo modo di produzione. Nel far funzionare il processo produttivo, il sistema sovietico si è, infatti, dimostrato incapace di sostituire gli incentivi materiali con incentivi di carattere etico. L’economista cecoslovacco Ota Sik, denunciando l’esistenza nel sistema socialista di un contrasto tra la figura del lavoratore produttore 561
e quella del lavoratore consumatore, aveva riscontrato la permanenza in quel sistema di una prevaricazione dell’interesse materiale su quello etico, per cui si determinava una mortificazione delle forze produttive e la matrice capitalistica del lavoro salariato rimaneva inalterata. Si è trattato di una riflessione che meritava di essere approfondita, ma dalla classe dirigente dei Paesi dell’Est è stata vissuta come una provocazione. Ota Sik non venne ascoltato nemmeno dalla sinistra dell’Occidente e questa non curanza rappresenta, a mio avviso, uno dei motivi della mancata evoluzione della teoria marxiana del lavoro. Lo sviluppo delle forze produttive può procedere senza impedimenti a patto che il lavoro non solo venga organizzato in modo pianificato, ma diventi anche un lavoro “per sé”, un lavoro libero, creativo, disalienato. Diceva Marx che il superamento dell’alienazione esige che la società sia trasformata in “un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali con una sola forza-lavoro sociale”. La rottura con il lavoro comandato e coercitivo deve dunque essere netta, anche se il processo di disalienazione non può che avvenire gradualmente nel tempo. E’ del resto solo questo il modo per debellare le diverse forme di darvinismo sociale e impedire a un gruppo ristretto di individui di accaparrarsi, a detrimento della maggioranza degli uomini, dei beni essenziali alla sopravvivenza. Solo così è possibile impiegare tutte le energie al fine di un miglioramento delle condizioni esistenziali di tutti. Come ha scritto l’economista dissidente polacco Wlodzimierz Brus, “la vera socializzazione dei mezzi di produzione richiede continui progressi nel sollevare il popolo dalla posizione di oggetto a quella di soggetto delle decisioni, attraverso lo sviluppo dell’autogestione e della democrazia politica a tutti i livelli di organizzazione della comunità”. Bisogna perciò avere l’intelligenza e il coraggio di sfidare il sistema sul terreno dell’innovazione e non accettare la supremazia dell’impresa capitalistica come fatto naturale. Con essa, almeno per un certo periodo di tempo, dopo che ha avuto inizio la transizione, si sarà destinati necessariamente a conviverci, ma già dall’inizio è possibile operare perché la sua funzione vada a rapido esaurimento. E per farlo si devono rendere concreti il controllo sociale e l’uso dell’enorme potenzialità produttiva che il capitale ha acquisito. Obiettivo fondamentale da perseguire è quello di liberare l’uomo dalla fatica e dalla ripetitività del lavoro e ciò presuppone che il processo d’innovazione tecnologica sia spinto al massimo e che l’uso della scienza e della tecnica sia messo a disposizione del progresso collettivo. Bisogna essere in grado di dominare la tecnica invece di subirla e a questo scopo occorre diffondere una cultura dell’innovazione che faccia crescere la capacità di comprendere e analizzare il modo in cui le cose si costruiscono e si disfano. Si tratta di una proprietà che fino ad ora è stata monopolio di una ristretta categoria di tecnici e specialisti e che nel processo di cambiamento deve essere trasferita all’intera collettività dei produttori. Si deve in sostanza passare dalla democrazia dei consumi alla democrazia dell’intelligenza. La trasformazione socialista della società è impossibile senza un grande sforzo educativo che faccia acquisire all’uomo una consapevolezza adeguata dell’importanza del sapere e della natura sociale della sua individualità. Prioritaria dunque è la diffusione e l’apprezzamento della conoscenza. Non si deve dimenticare che la possibilità di alleviare la fatica dell’uomo e di soddisfare i suoi bisogni dipende dal livello raggiunto dal sapere collettivo e dal suo uso. Si tratta di una questione non facile da affrontare, poiché la scienza è nelle mani di pochi. Bisogna perciò sottrarla al loro dominio, porla al riparo da qualsiasi forma di discriminazione e disuguaglianza e renderla accessibile a tutti. Oggi l’umanità ha raggiunto un livello di conoscenze e di saperi impensabile solo qualche decennio fa, purtroppo però questo patrimonio collettivo continua a essere al servizio del capitale e condizionato dalla logica del profitto. Se lo si impiegasse a pro dell’intera comunità si potrebbero eliminare dalla faccia della Terra oltre all’ignoranza, la fame, la miseria e le guerre. La risorsa fondamentale che deve essere liberata dai vincoli del sistema è dunque la creatività di ogni singolo individuo la quale ha la caratteristica di essere inesauribile e costituisce il fattore fondamentale dello sviluppo delle forze produttive. 562
L’alternativa al capitalismo esige la messa in movimento della capacità inventiva di ogni lavoratore quale elemento insostituibile di un nuovo modo di produrre. Non va dimenticato che prima ancora che dipendere dalle condizioni oggettive, l’azione trasformatrice è anzitutto creazione soggettiva, è capacità di modificare le circostanze. Oggi, del resto, è il capitalismo stesso a dimostrarci che è più importante creare idee piuttosto che prodotti. Non va poi dimenticato che il terreno di sfida della teoria marxiana è quello riguardante il superamento della divisione sociale del lavoro. Nella produzione capitalistica il lavoro manuale viene scisso da quello intellettuale e questa separazione dà origine a due gruppi diversi di lavoratori con proprie specifiche funzioni: quelli del braccio e quelli della mente. Ricomporre a unità queste due componenti del mondo del lavoro è un’operazione estremamente complessa e difficile, soprattutto se si considera che il progresso scientifico e tecnologico è fondato sulla specializzazione; esso si base, infatti, sulla formazione di ristretti gruppi di individui il cui sapere e la cui esperienza sono considerati loro propri. Il capitalismo ci ha disabituati a vivere senza l’ausilio di abilità tecniche e di competenze altrui, di saperi specialistici a noi sconosciuti. Questa costrizione è funzionale alla società moderna. Il progresso delle scienze, il concetto stesso di “sviluppo” sospingono nella direzione del frazionamento. L’uomo, però, tende per natura all’interezza, a una totalità armonica e questo contrasto produce alienazione e disordine. E la specializzazione, per la stragrande maggioranza delle persone, si traduce in subordinazione sociale. Non è semplice superare i saperi parziali e ricomporre il sapere totale, forse è impossibile, una via per ridare all’uomo la sua compiutezza però ci deve essere. Occorre cercarla. Ed è la politica che ha il compito di farlo. Onde evitare che l’apparato degli specialisti continui a fare corpo separato dal resto della società, occorre anzitutto sottoporlo al controllo democratico e procedere a una riforma delle istanze in cui sono accumulati i saperi e dove si attua la ricerca, in modo di garantire una sapiente circolazione di ruoli ed esperienze senza che la loro evoluzione ne abbia a soffrire. Le relazioni tra le strutture del sapere e gli organismi dell’autogoverno devono essere strettissime. Per rendere possibile un trasferimento di intelligenza e di conoscenze dall’alto in basso si devono mettere nelle condizioni gli individui di ricoprire ruoli diversi e di diventare poliedrici ai massimi livelli. Nelle pubbliche funzioni, ad esempio, può essere sperimentato l’avvicendamento nei posti di lavoro e nella formazione specialistica. E per favorire un tale corso torna utile mettere a punto un progetto di imprenditorialità sociale che assicuri a ogni soggetto una formazione permanente, di carattere sia scientifico che umanistico, favorendo la creazione di un nuovo e diffuso management. Strumento prezioso di questo vasto processo di socializzazione del lavoro e dei saperi può essere la “conferenza di produzione”, cioè quell’istituto che in alcune aziende italiane nei decenni passati è stato sperimentato in occasione della partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa. La sua riproposizione necessita ovviamente di un suo adeguamento all’evoluzione dei processi scientifici, tecnologici e un suo raccordo stretto con le istanze della democrazia diretta. La “conferenza di produzione” può senz’altro consentire la saldatura tra lotta rivendicativa e lotta per un diverso sviluppo, tra economia e politica e diventare un mezzo efficace per far emergere l’intelligenza dei produttori e socializzare il sapere sociale. A raccordare e unificare l’azione delle “conferenze di produzione” a livello di comparti e di settori merceologici possono essere messi in campo organismi collegiali, pure essi da sottoporre a un rigoroso controllo democratico dal basso. Secondo la teoria marxiana, un cambiamento del ruolo del lavoro non può assolutamente essere disgiunto dalla pratica democratica e dalla garanzia di libertà per ogni membro della società. In forza di questo principio l’uso della forza produttiva non può continuare a essere delegato, ma deve essere autogestito, anche perché la socializzazione del lavoro può essere realizzata solo se oltre all’economia si democratizza anche la politica. La sostanza democratica della società è, infatti, garantita solo se il lavoro cessa di essere fonte di ricchezza per alcuni e diviene per tutti lo strumento di liberazione dalla fatica e dai bisogni. Un cambiamento del modo di lavorare comporta inevitabilmente un cambiamento di civiltà.
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Compito della sinistra è dunque quello di sfidare il sistema varcando la soglia che divide la preistoria dalla vera storia dell’umanità, come diceva Marx. Si deve cioè dare corso a una nuova fase storica suscitando il protagonismo sociale, mettendo in campo nuove forme di democrazia per riappropriarsi del “general intellect” e sperimentare un nuovo modo di produrre, di consumare e di vivere. Ogni individuo deve essere sollecitato e messo in condizione di mettere a disposizione della comunità le proprie energie e capacità avendo in cambio la garanzia dello sviluppo della propria personalità in armonia con i suoi simili e con l’ambiente in cui è inserito. Ecco la mission della sinistra del 2000! Una ventina di anni fa, l’economista socialista Giorgio Ruffolo ebbe a invocare la nascita di un terzo sistema produttivo, non privato e non statale, capace di produrre merci sociali, un’area di lavoro decentrata, basata su negoziati collettivi e sull’apporto del volontariato. Poteva essere l’inizio di un nuovo corso, ma il suo appello non fu ascoltato. Così come non è stata raccolta la provocazione che Enrico Berlinguer ha fatto nel coniugare “terza via” e strategia dell’austerità che presupponeva un mutamento antropologico dei modelli di consumo costruito sul consenso democratico e nella solidarietà intragenerazionale. In ognuna di queste occasioni la sinistra non ha saputo osare commettendo un grave errore e rimanendo al palo. Oggi l’emergenza impone una svolta ed essa non può più permettersi di rimanere sorda agli appelli di chi la invita a riappropriarsi dello spirito originario e ritornare ad essere se stessa.
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Capitolo 18°
La crisi dello Stato e della democrazia 18.1 – Il processo evolutivo delle forme statuali La democrazia, come dimostrano le testimonianze storiche, ha origini lontane: era praticata dai greci già venticinque secoli fa. Il termine “democrazia” deriva, infatti, dai vocaboli demos (popolo) e kratos (potere) e significa “potere del popolo”. Nei secoli 8° e 7° a.C., a Sparta, esisteva un sistema statuale le cui leggi erano dettate dal mitico Licurgo, ritenuto il fondatore dell’eguaglianza e della giustizia. Questo sistema, che per diversi popoli ha rappresentato un modello esemplare di società, era egualitario, ma aveva il difetto di essere autoritario. I suoi abitanti erano composti da tre categorie di soggetti: gli spartiati, erano i cittadini che si consideravano tra loro eguali; i perieci, erano cittadini che per ragioni militari risiedevano in periferia ed erano dediti all’agricoltura e al commercio; gli iloti, erano i discendenti degli indigeni, coltivavano i campi in stato di soggezione ed erano 15-20 volte più numerosi dei cittadini eguali. Nel corso del 5° secolo a.C., in Grecia è avvenuta una trasformazione delle idee e delle istituzioni politiche di importanza storico-epocale: le città dirette da monarchi e da tiranni si sono trasformate in sistemi governati da gruppi di uomini liberi. Da questa nuova visione del mondo e dalle nuove pratiche politiche è nata la pòlis ateniese. Anche le città Stato greche che ne sono scaturite erano popolate da più classi di abitanti. Il loro governo era retto da una minoranza della popolazione adulta, mentre dalla vita politica erano esclusi i meticci, cioè i non greci puri, le donne e gli schiavi che erano privi di qualsiasi diritto. E’ stato stimato che nell’Atene del 4° secolo a.C. vi fossero 20.000 ateniesi liberi contro la presenza di 200.000 schiavi. Dal racconto mitologico, apprendiamo che nella città greca vi erano “tre classi sociali: i ricchi, che desiderano avere sempre di più; i poveri, che sono pericolosi perché indulgono all’invidia e non fanno altro che tentare di colpire la ricchezza dei possidenti, e sono preda dei demagoghi poneroi (capi malvagi); i mediani, unica fonte di possibile salvezza della città e del suo ordine”. Una descrizione questa che ci fa capire quanto sia lento il processo di emancipazione dell’umanità e come siano dure a morire le vulgate moraleggianti. Anche la democrazia della pòlis era dunque di natura esclusiva e non inclusiva, ed era caratterizzata da feroci lotte per il potere causate dalla presenza di esasperati personalismi. La libertà era relegata all’appartenenza alla città la quale si estendeva non oltre il suo immediato retroterra e non superava quella dimensione che va oltre il riconoscersi reciproco. Luogo di riunione dell’assemblea popolare era la piazza centrale (l’agorà) che costituiva anche il centro religioso, economico e politico della pòlis. Il teatro, sede stabile di manifestazioni artistiche e religiose, aveva dimensioni tali da poter raccogliere l’intera comunità. I cittadini di Atene si riunivano sulla collina di Pnyx almeno 40 volte l’anno per decidere dei problemi della città. Quando però la popolazione ha superato le 40 mila unità l’assemblearismo è divenuto impraticabile. Raggiunta una certa estensione, lo sviluppo della città Stato si arrestava e si procedeva alla costruzione di una nuova città. Già allora non tutti concordavano sulla bontà di questa forma primordiale e privilegiata di democrazia diretta. La pòlis aveva i suoi sostenitori, ma doveva fare i conti anche con detrattori e critici. Tra coloro che hanno avuto un ruolo di spicco nell’opporsi ad essa sono da annoverare Platone, il teorico del “governo dei custodi”, cioè di una minoranza di individui dalla superiore conoscenza e dalle speciali virtù, e Atristotele il quale pure era contrario alla condivisione del potere con i poveri e riteneva che alcune persone “sono per natura schiave, ed è meglio per loro... essere governate da un padrone”. Egli negava la cittadinanza anche ai braccianti e agli artigiani. Che la democrazia della pòlis susciti ancor oggi atteggiamenti problematici e sia considerata arcaica dai più, è un dato comprensibile. Alcune sue regole e pratiche, però, non mancano di sorprendere. 565
Per esempio, a cementare la pòlis era l’uguaglianza nel diritto alla parola nell’assemblea di governo e di fronte alla legge di tutti i cittadini (i liberi, ovviamente). Gli ateniesi non praticavano la delega, nelle assemblee intervenivano direttamente e non avevano rappresentanti. Quando non potevano fare a meno della rappresentanza, come nel consiglio delle tribù, i loro delegati venivano eletti a sorte ed era consentito a qualsiasi cittadino di entrare a far parte del consesso, seppure per un tempo limitato. Governati e governanti si scambiavano a turno le parti e ogni cittadino svolgeva servizi sociali. Chi ricopriva una carica pubblica era costretto a dimostrare di aver pagato le tasse. Pericle, uno degli uomini politici greci più prestigiosi, pretendeva che il cittadino ateniese, mentre attendeva alle proprie faccende private, non avesse a trascurare i pubblici affari, ma soprattutto, che non si occupasse di politica per risolvere le sue questioni private. Chi predicava bene e razzolava male perdeva di credibilità. Dalla democrazia della pòlis, dunque, di certo ci resta ancora qualcosa da imparare. L’esperienza ateniese non è durata molto, dopo nemmeno 150 anni non ha retto agli assalti delle oligarchie, e anche a causa delle insopportabili condizioni di esistenza dei poveri e degli schiavi ha dovuto soccombere. A non apprezzare la pòlis sono stati anche i romani i quali hanno preferito sposare il repubblicanesimo di Aristotele, quella forma statuale che nel corso dei secoli avrà molti illustri sostenitori e teorici tra cui, oltre a Cicerone, Machiavelli, Guicciardini, Rousseau e Mazzini. La Repubblica romana non era una democrazia nel significato che oggi viene dato a questo termine. I romani consideravano la forma statuale ateniese un eccesso di sovranità affidata al popolo, perciò l’avevano respinta. Il Senato romano era espressione della nobiltà patrizio-plebea e costituiva un’oligarchia. Nell’antica Roma era pressoché impossibile a chi non possedeva beni di fortuna aspirare a una carica pubblica, anche perché i governanti non avevano diritto ad alcun compenso. Ogni famiglia importante aveva una propria clientela ereditaria anche ai fini elettorali e per conquistarsi le simpatie era costretta a spendere grandi somme di denaro. La nomina dei consoli era poi di competenza dei magistrati e al popolo era riservato il solo diritto di votare su liste di candidati scelti da questi. Eppure, anche nell’esperienza del repubblicanesimo romano antico, nonostante l’impostazione classista, erano operanti dei principi che nelle democrazie moderne sono del tutto ignorati. Nel 3° secolo a.C. una legge proibiva ai senatori di possedere navi di capacità superiore alle 300 anfore, cioè dalla capienza di circa 8 tonnellate. Questa normativa, che era di origine popolare, mirava a impedire che la nobiltà, politicamente onnipotente, si valesse del suo prestigio politico per fare una troppo facile concorrenza alla piccola borghesia nel campo commerciale. Nel nostro evoluto sistema democratico non solo non c’è limite al possesso, ma chi è al governo può bellamente approfittare per arricchirsi ancora di più godendo al tempo stesso della venerazione di una larga fascia di popolazione. Nella Roma antica nessuno poteva essere rieletto alla medesima magistratura entro lo spazio di un decennio, né poteva tenere due cariche in un solo anno. Il primo e più antico diritto fondamentale dei tribuni romani era lo jus auxilii: il tribuno della plebe era obbligato a intervenire personalmente a favore di qualsiasi cittadino che si fosse a lui diretto per un reclamo contro qualsiasi magistrato. C’è stato un periodo in cui ai senatori che disertavano le sedute veniva imposta una multa. A partire dalla fine del 2° secolo a.C. agli stessi senatori è stato persino tolto il posto riservato che avevano garantito negli spettacoli pubblici. E pensare che questo accadeva in una società dominata da cittadini padroni di schiavi! Durante il medioevo, cioè nel periodo che va dalla caduta dell’impero romano alla nascita dei grandi Stati territoriali, il sistema predominante, in Europa, è risultato essere lo Stato dominato dalla nobiltà feudale il cui ordinamento giuridico e politico aveva carattere assolutista e universalista. A fare da padroni erano gli imperatori, i re, il papato e i signorotti loro vassalli. Questi erano proprietari non solo dei beni immobili e mobili, ma anche delle persone che vivevano sui territori da loro posseduti, cioè i servi della gleba, i quali non avevano diritto di partecipare alla vita pubblica. Essi non potevano possedere alcunché, erano impossibilitati a sposare persone in condizione di 566
libertà e, per di più, non erano ammessi al sacerdozio. A partire dal 10° secolo, il loro status sociale ha subito dei cambiamenti, ma anche dopo di allora essi sono rimasti soggetti alla formariage (tassa sul matrimonio del servo che convolava alle nozze con una serva non dipendente dallo stesso padrone), alla manomorta (diritto del signore di prevalere una parte dei beni appartenenti a un servo defunto), alla taglia (tassa arbitraria sul patrimonio del servo) e al testatico (tassa personale per la dipendenza dal signore). La colonìa e la mezzadria hanno origini proprio nell’epoca medievale. Benché il rapporto tra il monarca, gli aristocratici e i loro vari servitori fosse gerarchico, esso non comportava affatto un’obbedienza personale incondizionata, ma corrispondeva a norme contrattuali che legavano le gerarchie sulla base di garanzie di protezione e di assistenza. Il signore feudale, in quanto proprietario terriero, assolveva le funzioni di amministratore, di giudice, di capo dell’esercito, mentre lo Stato era fondato su un sistema di poteri assoluti la cui legittimità proveniva dalla sovranità di chi stava in alto. Chi era collocato in basso aveva solo dei doveri. Nei secoli 14° e 15°, a seguito dei processi di centralizzazione e razionalizzazione amministrativa e dell’assunzione da parte del potere centrale del monopolio della forza e dello sviluppo dell’economia monetaria, ha avuto inizio l’ascesa della borghesia e il sistema feudale ha incominciato a sgretolarsi. In Francia, Spagna e Inghilterra, con l’affermarsi delle monarchie assolute, ha preso forma lo Stato moderno il quale, spezzando l’universalismo ecclesiale cattolico, ha subordinato a sé la Chiesa nazionale e ha posto l’organizzazione della vita sociale sotto il segno della politica. Verso la fine del 16° secolo, quando l’assolutismo si era imposto quasi ovunque e le lotte di religione avevano creato un clima di intolleranza non più sopportabile, in Olanda è stata promulgata una dichiarazione d’indipendenza ispirata a posizioni contrattualiste e giusnaturaliste e fondata sull’inalienabilità dei diritti umani. In essa veniva affermato la norma per cui il principe aveva il dovere di governare a vantaggio del suo popolo, mentre ai sudditi veniva riconosciuto il diritto di contestare la sua autorità qualora avesse preteso servile obbedienza. Anche se le forme feudali di dominio hanno continuato a sopravvivere negli apparati dello Stato per ancora un lungo periodo di tempo, quell’atto ha sancito la fine di un’epoca. Si è dovuto, però, attendere un altro secolo prima che, in Inghilterra, venissero sanciti, con l’approvazione del Bill of Rights, i principi cardine delle democrazie occidentali, cioè la libertà individuale, il diritto alla proprietà, la sovranità popolare, l’equilibrio fra i poteri e la tolleranza religiosa. Postulati questi essenziali al nascente modo di produzione capitalistico. Lo Stato moderno è dunque nato su precetti che erano sconosciuti alla monarchia feudale. Esso si è affermato attraverso la presenza permanente dell’esercito sul territorio, il cui scopo era quello di assicurarne il controllo militare, e l’istituzione di un sistema di rendite sicure per garantire l’esistenza di una salda organizzazione amministrativa. Lo stesso potere legislativo è stato svincolato dai tradizionali condizionamenti religiosi e signorili e messo al servizio del bene della corona e della comunità. Nei secoli 17° e 18°, in America e in Europa è stato elaborato il repubblicanesimo moderno, mentre verso la fine del Settecento, con la rivoluzione francese e la distruzione dei residui dei separatismi regionali, è nato lo Stato nazione. All’idea dello Stato come dominio personale del monarca, le rivoluzioni americana e francese hanno sostituito quella della sovranità nazionale o popolare. Al sistema feudale di sfruttamento della terra corrispondeva, infatti, l’idea del sovrano come titolare di un diritto di proprietà e ciò risultava incompatibile con le nuove condizioni economiche e sociali create dallo sviluppo delle industrie e dei commerci, oltre che in contrasto con la una nuova cultura che si stava affermando. I nuovi eventi hanno fatto sì che l’autorità politica suprema fosse fondata sulla volontà e sul sentimento degli abitanti e che il popolo (non tutto, ma alcune categorie sociali) fosse chiamato a scegliere chi doveva governare nel suo interesse. Ad avere un sistema di governo repubblicano fondato sulla sovranità popolare, ai primi del ‘900, nel mondo, erano però solo tre Stati: gli Usa, la Francia e la Svizzera. E a risultare realmente indipendenti erano solo una ventina di paesi. 567
Lo Stato nazione viene giustamente identificato con la borghesia, ma nei fatti questa classe ha dimostrato anche di saper tradire i suoi stessi principi alimentando quel nazionalismo che nel Novecento ha provocato totalitarismi e ben due guerre mondiali. Mentre in Urss, con la mancata socializzazione del potere, si è imposto lo Stato totalitario, nel cuore dell’Europa il fascismo ha soppresso ogni istituzione di democrazia liberale. Lo Stato degli anni ’30 è risultato essere lo Stato dell’amministrazione pianificata, della subordinazione dispotica del profitto privato, dell’espansione inaudita della sfera burocratica. Sia all’Est che all’Ovest ha preso corpo il capitalismo di Stato il quale ha divorato la società civile e dissolto qualsiasi forma di libertà. E quando il mondo è stato liberato dal nazifascismo, in Occidente la democrazia è rimasta confinata nella sfera politico-istituzionale e non è penetrata nei gangli dell’economia e della società. Questa rapida e sommaria rievocazione del processo storico evolutivo delle forme statuali, ci consente di ribadire quattro concetti fondanti la teoria marxiana e spesso ignorati, o quantomeno trascurati, da molti aderenti della stessa sinistra. Primo. L’attività storica dell’uomo, mentre genera in continuazione nuovi bisogni, predispone di conseguenza nuove forme di rapporti umani mostrando una tendenza al perseguimento di un ordine sociale. Questo fa sì che lo Stato sia da considerarsi un prodotto storico e non invece, come diversi teorici borghesi hanno sostenuto e sostengono, una sovrastruttura immutabile. Secondo. Le forme dello Stato hanno radici nelle relazioni materiali, sono condizionate dai rapporti di forza tra le classi sociali e non invece dall’evoluzione del pensiero, come ancora qualcuno ci vuol far credere. Sono dunque le formazioni sociali i luoghi effettivi dell’esistenza dello Stato e della sua riproduzione, mentre la sua struttura organizzativa è determinata dalle contraddizioni di classe. Terzo. Qualsiasi Stato è fondato sul diritto e di esso non può farne a meno. Sia lo Stato asiatico e dispotico, sia quello schiavistico greco-romano, sia ancora quello feudale, per esercitare i loro poteri hanno avuto bisogno di definire delle proprie specifiche forme giuridiche. Anche la forma statuale più sanguinaria ha trovato legittimazione nel diritto. E anche lo stesso diritto, come ci ricorda Marx, è un prodotto del sistema sociale. Quarto. Da quando l’uomo ha incominciato a tramandare le proprie esperienze ai posteri, il dominio della società è risultato essere prerogativa di una parte minoritaria della popolazione, mentre la maggioranza ha sempre dovuto obbedire. Dai tempi della pòlis a quelli della globalizzazione, l’evoluzione del processo democratico non ha di certo fatto registrare grandi progressi. Sono cambiate le forme, ma la sostanza è rimasta pressoché invariata. 18.2 – Lo Stato del capitale L’esperienza storica ci insegna che le trasformazioni delle forme statuali intervenute nel corso dei secoli sono il risultato dell’evoluzione delle forze produttive e dei rapporti di produzione. Il fattore determinante del mutamento delle sovrastrutture è, infatti, la base economica e le diverse forme istituzionali si conciliano sempre con le esigenze del mondo produttivo. Al pari di ogni altro sistema, anche il capitalismo ha bisogno dello Stato; di esso non può fare a meno nonostante sia una forma di produzione che vanta un meccanismo economico contenente in sé una potente forza di costrizione sociale. Per poter esercitare la sua egemonia, il capitale deve aver garantita la mediazione sociale e culturale e lo Stato gli serve per questo. In “The Theory of Moral Sentiments” Adam Smith ha sostenuto che il capitalismo avrebbe avuto certezza di sviluppo solo alla condizione che nella società ci fosse stata la presenza di istituzioni con il compito di assicurare l’educazione universale e un sollievo alla povertà, insieme ai comportamenti non profit delle persone atti a garantire altruismo, affidabilità e fiducia; tutte qualità che il capitale non vanta. Seppure abbia avuto una struttura relativamente semplice, lo Stato per tutto un periodo ha assicurato alla società la regolazione normativa ricorrendo alla forza fisica in maniera sistematica. Con l’evoluzione del sistema capitalistico, invece, ha ridotto la sua azione repressiva fino al punto di 568
esercitare l’autorità impiegando efficaci e sofisticati strumenti di persuasione, anche se non ha mai rinunciato al monopolio della violenza. Da allora ha assunto in misura sempre maggiore compiti che richiedevano stanziamenti di fondi e ha fatto diventare la spesa militare un fattore di sviluppo. Con il progresso tecnico-scientifico ha assicurato un radicale miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e ha attenuato i contrasti di classe, anzi, per certi aspetti li ha appianati. Lo Stato rappresentativo moderno si distingue dalle forme precedenti perché è costretto in qualche modo a tenere conto degli interessi delle masse popolari. Formalmente, è l’espressione della libertà, dell’uguaglianza e della democrazia. Garantisce ai cittadini la possibilità di esprimere la loro volontà e i loro desideri, consente loro di essere liberi di produrre, di commerciare, di vendere la propria forza lavoro e di sentirsi eguali come possessori di merci. Provvede alla crescita economica e traccia i confini tra la sfera privata e quella pubblica sulla base delle regole stabilite dai rapporti di produzione e dalla divisione sociale del lavoro. Gestisce il potere separando l’attività legislativa dalle funzioni esecutive e giudiziarie e assicura l’uguaglianza formale di ogni cittadino davanti alla legge. Attraverso il diritto e i suoi apparati (esercito, scuola, burocrazia, carceri, ecc.) penetra profondamente la società civile e plasma ideologicamente i soggetti su cui esercita il potere. Monopolizza i dispositivi di organizzazione dello spazio e del tempo e li erige a reti di dominio. Concentra tutte le funzioni politiche che originariamente erano di competenza della società civile all’interno del corpo istituzionale e in questo modo la spoglia di ogni autonomia decisionale. In nome dell’unità nazionale cementa gli apparati burocratici e conferisce loro ruoli prevaricanti la sovranità del popolo. Con la sua ideologia dà ad intendere di essere arbitro tra le classi in lotta e di perseguire l’interesse generale rappresentando la volontà popolare. Di fatto esso è sorto e vive sulla base della divisione del lavoro e della società in classi. Se è pur vero che l’ordinamento dello Stato moderno è costituito da classi aperte e non chiuse, è un grave errore considerare la sua funzione come mediatrice neutrale tra differenti interessi e tra le leggi del sistema e i bisogni sociali. Esso agisce non per separare le classi, bensì per legarle reciprocamente in un rapporto asimmetrico di dominio e di sfruttamento. E anche se nei confronti del blocco d’interessi di cui è espressione mantiene una relativa autonomia, nella sostanza esprime l’egemonia delle classi economicamente dominanti. Mentre afferma in continuazione il perseguimento del bene comune e dell’interesse generale, nei fatti media i rapporti sociali tra dominanti e dominati e ogni sua legge è subordinata al meccanismo produttivo ed è funzionale all’accumulazione capitalistica. Se le divisioni di classe fossero per davvero superate, come l’ideologia borghese vorrebbe far credere, e se ci fosse comunità anziché antagonismo, non ci sarebbe bisogno della sua presenza. Nell’epoca del capitalismo, classi e Stato si condizionano reciprocamente e gli uomini entrano in rapporto fra loro solo per il tramite del diritto e del mercato. I processi di mediazione che lo Stato assicura incorporano anche le rivendicazioni e le proteste delle classi dominate, alle quali viene offerto un sistema di canali istituzionali per la presentazione delle loro istanze. La gestione dei conflitti viene così istituzionalizzata e la politica economica può contare sul patto sociale. Anche quando si è in presenza di un mutamento del rapporto tra le forze politiche e di una modificazione del potere in favore delle classi popolari, lo Stato non rinuncia al suo ruolo di difensore degli interessi della classe borghese, dimostrando così che la sua funzione va ben oltre la tutela dell’ordine pubblico e dell’offerta di servizi essenziali. C’è chi ritiene sia una concezione antiquata e strumentale il considerare lo Stato una dittatura di classe. Secondo costoro, infatti, esso costituirebbe un apparato speciale la cui natura materiale non sarebbe affatto riducibile a un rapporto di dominio politico. Marx, invece, ci ha dimostrato che se nell’era del capitalismo lo Stato, come sfera politica, non rappresenta direttamente gli interessi della classe dominante, è però al suo servizio poiché “sancisce come non politiche le distinzioni di nascita, censo, educazione, ruolo” e con ciò “lascia… agire la proprietà privata, l’educazione, il lavoro e valorizza la loro particolare essenza”. E la storia ci fornisce innumerevoli prove di questa sua natura partigiana. Anzitutto, lo Stato moderno, garantendo lo spossessamento del lavoratore nel rapporto di produzione, rende formale la separazione del potere politico dal potere economico cancellando di 569
fatto l’uguaglianza politica dei cittadini. Intervenendo nella vita economica, favorisce la riproduzione dei rapporti capitalistici e qualifica lo sviluppo orientando produzione e consumi non secondo il soddisfacimento dei bisogni primari, ma secondo le convenienze del mercato. Tutte le misure che prende, anche quelle imposte dalle masse popolari, sono inserite in una strategia compatibile con la riproduzione allargata del capitale. Per l’accumulazione capitalistica esso si rivela essere una condizione necessaria: il sistema del profitto non può vivere senza uno Stato che lo garantisca. Protegge e promuove la concentrazione e la centralizzazione del capitale e mette in atto una serie di misure intese a contrastare la caduta tendenziale del saggio di profitto. Attutisce il conflitto tra i singoli capitalisti impegnati nell’incessante corsa al conseguimento del profitto impedendo la deflagrazione dei loro rapporti; socializza le loro perdite e interviene in loro vece in quei settori che per il capitale non risultano redditizi. Predispone le regole del gioco per la condotta delle imprese nello svolgimento dei loro affari e protegge la concorrenza non come sistema di armonie, ma come fonte di squilibri che favoriscono la formazione dei monopoli. Come Stato nazionale protegge e difende il capitale allorquando si muove sul mercato mondiale e assicura ad esso un intervento che non garantisce, almeno in pari misura, al proprio cittadino quando valica la frontiera. Protegge il valore di scambio, che è principio borghese, e persino nella gestione del suolo e del welfare consente che esso abbia supremazia sul valore d’uso. Irreggimenta la produzione della scienza e tiene separato il lavoro intellettuale dal lavoro manuale riproducendo questa divisione nell’insieme della società e consolidando quella tra sapere e potere. Gerarchizza le professioni, classifica le specializzazioni, sancisce i ranghi sociali e mantiene le masse popolari collocate dalla parte del lavoro esecutivo e manuale. Legifera in materia di lavoro senza proporsi lontanamente di rimuovere l’ostacolo più grande alla vera emancipazione dell’umanità: lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Come si vede sono molti gli aspetti che rendono chiara, a chi vuol intendere, la vera natura dello Stato e che dimostrano come dietro la sua declamata neutralità vi sia il condizionamento, anzi il dominio, della proprietà privata. Eppure, nonostante sia impossibile ignorare la realtà dei fatti, sulla sua indole nella cultura della sinistra domina da tempo una gran confusione. Difatti, mentre i teorici della 2a Internazionale hanno considerato lo Stato un positivo strumento di organizzazione e di stabilizzazione sociale, quelli della 3a Internazionale hanno interpretato la crescente importanza del suo ruolo come un segno di decadenza e di destabilizzazione. Entrambe le correnti si sono dimostrate incapaci, e non interessate, ad approfondire l’analisi delle sue funzioni e trasformazioni e non hanno perciò colto, o comunque hanno trascurato, le sue straordinarie capacità di adattarsi alle forme di produzione e di essere insieme loro agente regolatore. Il pensiero socialdemocratico fa sua l’idea che lo Stato sia arbitro imparziale fra le classi sociali e giudica naturale che suo compito primario sia quello di attenuare le oscillazioni dei cicli economici garantendo il predominio della proprietà privata sull’interesse collettivo. Lo considera il soggetto di potere per eccellenza, detentore di una razionalità intrinseca incarnata nelle élite politiche e nella democrazia rappresentativa. Si rifiuta di fare una doverosa riflessione sul fatto che nemmeno le più avanzate esperienze di welfare non hanno intaccato il modo di funzionare del sistema economico capitalistico e non hanno scalfito i suoi meccanismi di sfruttamento. Che poi lo Stato-provvidenza, anziché ampliare l’autonomia degli individui, li assoggetti al suo potere assicurando loro qualche sicurezza esistenziale; che contraddica le aspirazioni di libertà e di emancipazione che costituiscono le ragioni della nascita della stessa sinistra, non sembra impensierire i proseliti di Bernstein. Il fatto stesso che il neoliberismo, esigendo più Stato per il capitale, pretenda sempre più drastici tagli al welfare mentre il debito pubblico si ingigantisce fino al rischio della bancarotta non li preoccupa affatto. Le esperienze di governo cui la sinistra ha dato vita hanno dimostrato chiaramente l’impossibilità di scalfire lo Stato dall’interno delle sue stanze dei bottoni e di trasferire le leve del dominio dalle mani della borghesia a quelle del movimento dei lavoratori. Il massimo risultato che la sinistra ha conseguito su questo terreno è stata l’alternanza di governo la quale però non ha tolto al capitale la sua capacità egemonica e il suo predominio sulla società. 570
Tutto fa supporre che la sinistra non abbia preso atto che a generare le forme statuali sono i modi di produzione il cui potere è tale da trasformare e distruggere le nazioni togliendo ai popoli non solo la libertà, ma anche le tradizioni, la storia e la memoria. Quella parte della sinistra che, presumendo di portare dall’alto il socialismo alle masse popolari, si propone di rimpiazzare i vertici istituzionali con delle élite illuminate, in modo di apportare correzioni al loro funzionamento, non tiene conto dei fallimenti delle socialdemocrazie e non prende atto che lo Stato moderno è per il capitalismo il migliore involucro politico. Dopo essersi impadronito di questo involucro il capitale mantiene il suo potere in modo talmente saldo che, nell’ambito della repubblica democratica borghese nessun cambiamento, né di persone, né di istituzioni, né di partiti può scuoterlo. Poiché una delle sue proprietà è proprio quella di cooptare nel suo sistema le avanguardie del fronte avverso, a subire la trasformazione non è lo statalismo tecnoburocratico, ma gli stessi illusi innovatori. Lo Stato dell’era del capitalismo ha ampiamente dimostrato di essere in grado di costruire a ogni stadio della sua evoluzione nuovi strumenti di consenso e di integrazione capaci di neutralizzare la lotta di classe, di esportare il conflitto sociale e di provocare guerre civili pur di preservare il suo ordine e la sua sovranità. Se la storia del proletariato internazionale è segmentata e se si è giunti al punto di assistere allo scontro armato tra le classi operaie di differenti nazioni, questo è dipeso non già da contrasti ideologici, ma proprio dal ruolo perverso degli Stati nazione. Il giurista Guido Rossi, grande esperto di metodica gestionale ed esponente dell’area moderata liberal-democratica, qualche anno fa ha sostenuto che “il capitalismo, come sistema di economia di mercato, non comporta necessariamente un regime politico di democrazia”. Si tratta di una considerazione che è difficilmente confutabile, ma che non tutta la sinistra si è dimostrata disposta a sottoscrivere. Viene spesso dimenticato che la rivoluzione borghese è stata compiuta invocando la libertà, l’uguaglianza e la fratellanza e che, anziché rendere materiali tali propositi, gli Stati nazionali da essa creati, proprio per favorire gli interessi dei rispettivi capitali e far imperare i più meschini egoismi, hanno fatto di questo mondo un campo di battaglia. Questi vuoti di memoria inducono a concludere che poiché la fisionomia storica dello Stato moderno e la complessità delle sue articolazioni, hanno fissato nell’egemonia il terreno di vita e di sviluppo delle moderne società capitalistiche, il fronte su cui la sinistra deve organizzare la lotta per la loro trasformazione passa prioritariamente attraverso la conquista delle coscienze. 18.3 – Le forme statuali nell’era della globalizzazione Con l’intensificarsi del processo di globalizzazione dell’economia, in tutto l’Occidente capitalistico si è diffusa l’idea che lo Stato nazione è destinato a una rapida dissoluzione. In effetti, il potere e i privilegi che è venuto acquisendo dal ‘700 in poi hanno subito un’erosione sia dall’alto che dal basso. In particolare in questo ultimo ventennio, parte della sua sovranità è stata espropriata e alcune delle leve di controllo che aveva a disposizione non funzionano più. Le politiche neoliberiste lo hanno indebolito soprattutto nella sua funzione di governo dell’economia, mentre hanno accentuato il suo ruolo di regolatore di taluni processi essenziali all’evoluzione del sistema capitalistico. Le due rivoluzioni del nostro tempo, quella dell’information technology e quella dei mercati finanziari, hanno reso obsoleti i confini nazionali e mentre la politica e il diritto hanno continuato ad agire nell’ambito del territorio dei rispettivi Paesi, l’economia ha dilagato oltre le frontiere, nell’intero mondo e nella rete telematica. Se la funzione dello Stato si conferma ancora decisiva per alcuni settori, nel complesso il suo intervento risulta pesantemente subordinato agli interessi del capitale. Per esempio, esso fornisce ingenti investimenti alla scienza intesa come forza produttiva e predispone la formazione della forza lavoro secondo le esigenze del sistema industriale e finanziario. Ed esercita queste funzioni sacrificando spesso la sicurezza sociale e l’emancipazione culturale di larga parte della popolazione. 571
Con la perdita di controllo sugli affari economici sono venuti meno i poteri di comando e di controllo delle stesse istituzioni rappresentative, il cui campo d’azione resta vincolato dalle frontiere e questo fa sì che l’attività parlamentare dia vistosi segni di sofferenza. Anche il ruolo dei partiti e dei sindacati ha perso d’importanza e l’appartenenza nazionale è diventata un requisito trascurabile. Ha detto bene Giulio Tremonti quando ha denunciato che due pilastri dello Stato nazione, l’esercito e la triade dio-patria-famiglia, hanno subito una trasformazione talmente profonda da lasciare senza punti di riferimento i discepoli del liberalismo. Si è dunque rivelato profetico quanto Marx aveva scritto oltre un secolo e mezzo fa, precisamente quando ebbe ad asserire che “il continuo rivoluzionamento della produzione, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali che contraddistinguono l’epoca borghese, non possono che scuotere e rivoluzionare congiuntamente lo Stato, la sua struttura e la sua funzione”. Poiché le strategie neoliberiste non possono rischiare di rimanere impigliate nelle reti territoriali, i gruppi industriali e finanziari transnazionali preferiscono avere a che fare con uno Stato debole. E se è pur vero che il loro rapporto con i rispettivi Paesi di origine resta forte nel tempo, questo legame non esalta di certo l’autonomia dello Stato, ma anzi lo rende ancora più subalterno alla logica capitalistica. Nel quadro della concorrenza sul mercato mondiale, infatti, esso viene sollecitato a garantire il mantenimento e il rafforzamento della capacità competitiva dell’economia nazionale. E’ significativo che già all’inizio degli anni ’90, nel corso di una riunione a Lisbona, la Trilateral abbia individuato nel superamento dello Stato il nuovo scenario dell’evoluzione mondiale. Di fronte ai mutamenti che le funzioni dello Stato hanno subito c’è dunque chi sostiene che saremmo alla vigilia di una sua prossima dissoluzione. Ci sono però anche teorici e politici che avversano nel modo più risoluto una simile tesi. Mentre i primi ritengono che ad accelerare la sua crisi abbia contribuito la fine dei regimi dell’Est e che un suo allargamento, inteso come espansione di apparati, sia impensabile data la complessità sociale, i secondi insistono sull’importanza della sua azione sulla scena globale e sulla sua insostituibilità come parte integrante delle organizzazioni internazionali. Alcuni di loro ritengono che la teoria del superamento degli Stati nazionali abbia forti finalità politico-ideologiche ma nessuna concretezza applicativa. C’è addirittura chi, preoccupato del processo di globalizzazione, come rimedio alla crisi dello Stato sollecita un rilancio della politica nazionale e quindi un rafforzamento della sua azione in alcuni settori chiave. Tra questi sono da annoverare diversi esponenti dell’estrema sinistra i quali considerano fuorviante parlare di perdita di sovranità dello Stato nazione e ritengono non solo esagerata, ma “pericolosa e compromettente l’analisi dei fenomeni”, la tesi secondo cui starebbe scomparendo. In documenti ufficiali delle formazioni neocomuniste italiane ed europee, e in dichiarazioni di loro esponenti, si leggono a questo riguardo affermazioni del tipo: “A nostro modo di vedere lo spazio nazionale continua ad essere cornice decisiva e ineludibile della lotta di classe”; “Noi partiamo dalla convinzione che lo stato nazionale resta tuttora un luogo ed uno strumento importante per portare avanti la lotta antimperialista nonché per costruire la solidarietà internazionale delle forze di progresso”; “Gli Stati nazionali non deperiscono, ma acquistano un peso crescente nell’epoca della globalizzazione capitalistica e di una accentuata competizione interimperialistica per le zone di influenza che ha ormai assunto una dimensione planetaria. Quelli che vengono destrutturati sono i poteri pubblici”. Sostenere che le principali multinazionali sono più potenti degli Stati nazione viene considerato da costoro un vero e proprio abbaglio ideologico. E al fine di ridimensionare il potere che le imprese transnazionali hanno sui mercati, essi sollecitano, in alternativa a un ipotetico governo mondiale, la promozione della cooperazione fra gli Stati. E’ da notare a questo riguardo che nel “Manifesto comunista” Marx ed Engels hanno sostenuto che le differenze nazionali e gli antagonismi tra i popoli sarebbero andati scomparendo sempre più, proprio per mano del capitale, e con il dominio del proletariato sarebbero scomparsi del tutto. E in altri scritti hanno chiarito che la causa dei mali dello Stato vanno ricercati nella sua stessa natura.
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La crisi dello Stato è oggi un dato evidente, l’egemonia del proletariato invece resta ancora un sogno. Purtroppo, mentre la sinistra ha perso la memoria della sua stessa storia, l’avversario organizza nella teoria e nella pratica il proprio dominio sul terreno globale e sulla società riversa gli effetti perversi dell’intreccio tra oggettività sopranazionale e soggettività di tipo localistico creando una rovinosa confusione politica e culturale. Non va dimenticato che lo Stato-nazione è ormai vecchio di quattro secoli e che nel corso di quest’arco di tempo ha subito profonde modificazioni. Ritenere che esso rimanga pressoché uguale nel tempo nel suo ruolo e nelle sue funzioni, in specie nelle fasi storiche turbolente, è un concetto che fa a pugni con una visione storico-dialettica della realtà. Come la storia insegna, al mutare della struttura economica corrisponde un adeguamento della sovrastruttura e in forza di questa legge i mutamenti di forma e di sostanza dello stesso Stato sono inevitabili. Anzi, da alcuni decenni si susseguono con una frequenza sempre maggiore. La condizione per realizzare l’unità dei popoli europei, processo obbligato se si vuole conseguire un progresso economico-sociale del vecchio continente, comporta necessariamente l’abbattimento delle barriere nazionali e la creazione di una sola entità politica istituzionale con le competenze che oggi vantano i singoli Stati. Siamo dunque chiamati a fare i conti non tanto con le ipotesi di dissoluzione o di continuità statica dello Stato nazione, bensì con un processo che lo trasforma in continuazione. Siamo in sostanza di fronte alla sua transizione verso una statualità transnazionale il cui sistema delle coordinate politiche si muove su scala globale. “Oggi ci troviamo a dover discutere del passaggio dallo Stato-nazione a una democrazia transnazionale e cosmopolita”, ha sostenuto il sociologo tedesco Ulrich Beck, mentre Zygmunt Bauman ha definito le trasformazioni in atto un processo di glocalizzazione. Se si interpretano obiettivamente i cambiamenti in atto non si può non condividere le loro tesi , così come non si può assolutamente non essere preoccupati delle conseguenze che questo processo comporta. I pericoli, i rischi, le contraddizioni che la globalizzazione produce sulle forme della statualità e sugli assetti della democrazia sono infatti decisamente inquietanti. Bisogna prendere atto che a spingere lo Stato a cedere a strutture internazionali quote crescenti di sovranità non è solo l’economia, ma sono anche le istanze di miglior qualità della vita che provengono dalla società civile (dalla sicurezza contro il terrorismo, alla salvaguardia dell’ambiente, all’uso sociale delle scoperte scientifiche, fino alla libera circolazione) le quali richiedono interventi di cooperazione e integrazione tra una pluralità di Paesi e di popoli. La stessa sovranità giudiziaria si rivela inadeguata a regolare le odierne relazioni tra gli individui ed è per questo che sono sorte le Corti internazionali il cui intervento traccia a grandi linee un futuro ordine giuridico globale. Nel 2013, sul pianeta, risultavano presenti ben 120 tribunali internazionali e circa 60 mila organizzazioni non governative (nel ’51 erano 832). Mentre però all’orizzonte si profila la necessità di un governo mondiale, le nuove entità sopranazionali (dall’Onu alla UE, dal Fmi all’Ocse) si rivelano incapaci di assicurare equità di governo, relazioni solidali e democrazia. E’ anche questa la ragione per cui, non esistendo una vera autorità globale, a ritagliarsi spazi e occasioni d’azione sono i poteri forti non legittimati democraticamente. Le nuove entità sopranazionali nate per rappresentare gli interessi dell’intera umanità sono relegate a ruoli puramente formali. La responsabilità di questo deficit di governabilità democratica globale ricade principalmente sui governi dei Paesi ricchi i quali non intendono rinunciare al loro stato di privilegio. Una parte di loro è persino giunta al punto di non finanziare più né l’Onu né l’Oms (l’Organizzazione mondiale della sanità) e di conseguenza, mentre la prima rischia la sopravvivenza, la seconda si ritrova in balia delle multinazionali farmaceutiche. Questo stato di cose fa sì che il processo di trasformazione in atto metta in gioco il destino della democrazia, della sua tenuta e del suo sviluppo, mentre si ripropone il rischio di un approdo a un governo mondiale “dei custodi” di platonica memoria. Un altro esempio di contraddittorietà del processo di transizione dallo Stato nazione alle nuove strutture sopranazionali, è rappresentato dall’esperienza della stessa Unione Europea.
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E’ risaputo che le direttive scritte a Bruxelles e approvate dagli organi istituzionali della UE rappresentano ormai all’incirca la metà delle singole legislazioni nazionali. Esse concernono una gamma di problemi, in particolare di carattere economico e finanziario, avendo gli Stati del vecchio continente accettato di abbandonare una parte della loro sovranità. Si tratta di provvedimenti e di indirizzi che gli Stati aderenti sono chiamati ad attuare senza aver contribuito democraticamente alla loro formulazione. Questo provoca nelle singole comunità nazionali opposizioni e resistenze al processo di unificazione, mentre gli stessi Stati si dimostrano indisponibili a cedere la rimanente loro sovranità politica. Logica vorrebbe che in una fase di transizione a una forma di statualità centralizzata le spinte al nazionalismo si estinguessero o quanto meno si attenuassero, invece accade proprio il contrario. Poiché l’interesse nazionale non sparisce, le esasperazioni nazionaliste trovano terreno fertile per la loro coltura. In questi ultimi decenni gli Stati europei, anziché diminuire sono addirittura raddoppiati (nell’80 erano una ventina, trent’anni dopo ammontavano a 45 unità), e il loro proliferare si accompagna proprio all’esplosione dei regionalismi e dei localismi. Lo stesso mercato europeo rivela un carattere provinciale ed è spesso dominato da uno spirito ottuso e meschino: le tentazioni protezionistiche restano latenti. Questo fenomeno, che purtroppo non è prerogativa del solo vecchio continente, rappresenta una delle antilogie del processo di globalizzazione e dimostra come per un verso l’economia spinge al globalismo, per altro la cultura e i fattori sociali operano per preservare le identità locali e regionali. Si tratta di un intreccio tra tendenze all’omologazione e alla frammentazione che produce forme odiose di populismo rabbioso e intollerante e che sulle forze del progresso e della sinistra si riversano come una “rivoluzione passiva”. Fin che esisterà questo contrasto sarà praticamente impossibile costruire una società socialista. Eppure la sinistra non sembra cogliere i risvolti drammatici di questa situazione. I suoi ritardi di analisi e di teoria destano preoccupazione. Dovrebbe, per esempio, far riflettere l’assenza in Europa di un giornale continentale o di un programma televisivo europeo, ma anche questo vuoto non sembra turbare i sonni delle sue dirigenze. Pare non si renda conto che in presenza di un’opinione pubblica che continua a essere alimentata dallo spirito nazionalista, la vittoria del solidarismo internazionale è praticamente impossibile. Un’altra contraddizione che caratterizza questa fase di transizione è rappresentata dal rapporto perverso che si è instaurato tra governanti e governati. Mentre la globalizzazione consolida in tutto il pianeta la tendenza alla democrazia politica basata sul suffragio universale e sulla parità politicogiuridica formale, nelle cittadelle del capitalismo produce episodi di intollerabile mortificazione del protagonismo politico-sociale. Nell’Unione Europea, ad esempio, è stato introdotto il nuovo sistema monetario senza che i cittadini venissero consultati e nella maggioranza degli Stati si è fatto di tutto per evitare che venissero promossi dei referendum popolari per confermare o smentire la scelta compiuta dai vertici del potere. Le nuove forme di statualità sopranazionale si sono arrogate il diritto di decidere senza essere state delegate da chi viene solennemente proclamato sovrano e continuano a sottrarsi a qualsiasi verifica di rappresentatività. Questo esproprio di potere avviene mentre ovunque nel mondo cresce la disaffezione alla politica e una quota sempre più consistente di elettorato diserta le urne. Cresce di conseguenza l’arbitrio della burocrazia e della tecnocrazia e le stesse assemblee elettive subiscono la marginalizzazione. A determinare questo deterioramento del protagonismo politico di massa non è solo lo scarso rigore della classe politica, ma anche e soprattutto il carattere stesso delle forze produttive moderne che alla democratizzazione del processo decisionale preferiscono affidarsi alle oligarchie degli esperti. Secondo fonti bene informate, presso gli uffici dell’Unione Europea di Bruxelles, opererebbe un esercito di 17.000 lobbisti stipendiati da aziende e società di servizi affinché i loro interessi siano rappresentati e fatti valere presso la Comunità. Si tratta della seconda concentrazione mondiale di gruppi di pressione dopo quella statunitense, la cui capacità di influenzare le scelte degli organismi comunitari è sicuramente molto più efficace della tradizionale dialettica politica.
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Anche questa è una testimonianza del grande rischio che con il processo di globalizzazione la democrazia sta correndo e insieme la dimostrazione che lo Stato, così come la mia generazione l’ha conosciuto, è in fase di profondo cambiamento, anche se rimane radicato nel nostro immaginario. Il contrasto tra materialità dei processi e coscienza sociale rappresenta, infatti, una delle grandi contraddizioni della nostra epoca. Occorre prendere atto che la forma dello Stato nazione e le sue attuali competenze sono chiaramente inadeguate non solo alle esigenze e alle prospettive del sistema capitalistico, ma anche allo stesso processo di evoluzione della democrazia nell’ottica di un nuovo ordine sociale. Per la sinistra è giunto il momento di imboccare nuove strade, di rendere materiale anche sul piano istituzionale l’agognata alternativa e avere il coraggio di sperimentare nuove forme di democrazia. Si tratta di un percorso tutt’altro che lineare, certamente lungo e denso di difficoltà e di ostacoli che non possono essere esorcizzati, ma che devono essere affrontati con lucidità analitica, vivacità teorica e duttilità pratica, anche perché questa è l’unica strada che può portare a un modello di società nuovo e progressista. 18.4 – La natura contraddittoria del suffragio universale Nel periodo che va dalla polis greca alla metà del secondo millennio, nel mondo civilizzato il potere è stato detenuto dai monarchi e non c’è stato spazio per esperienze di governi formati da rappresentanti eletti dal popolo. Solo dopo la metà del ‘700, quando si sono imposte le idee degli illuministi ed è divenuta operante la separazione dei poteri (il potere legislativo è stato reso indipendente da quello esecutivo e da quello giudiziario), la potestà del sovrano ha incominciato a essere soppiantata dalla democrazia rappresentativa. Con l’istituzione della delega sono nate le istituzioni democratiche e al governo della società sono ascesi i rappresentanti del popolo. Da quel momento la democrazia ha incominciato a diffondersi, seppure con grande difficoltà, imponendosi dapprima nei Paesi in cui la riforma religiosa aveva messo in discussione il potere costituito. Così come nell’antichità è successo che a combattere lo Stato romano è stato il cristianesimo primitivo, nell’epoca della transizione dal sistema feudale a quello borghese, nell’avversare le monarchie e la ragion di Stato aristocratico-papale hanno avuto un ruolo determinante le formazioni protestanti. Prima d’allora coloro che si definivano democratici erano considerati dei fuorilegge e fino agli inizi del ‘900 dai papi, ma anche da buona parte degli stessi liberali, il termine democrazia era considerato una bestemmia. Il potere era esercitato in modo repressivo e i lavoratori, le donne e gli analfabeti non avevano alcuna voce in capitolo. Nell’ultimo quarto di secolo del Settecento, prima in America (1776-1787) poi in Francia (1789), sono stati proclamati i diritti dell’uomo, inteso come soggetto individuale e a prescindere dalla sua appartenenza e condizione sociale. Di fronte alla legge ogni persona ha incominciato a essere considerata libera e uguale alle altre, la libertà è stata concepita come diritto di “poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri”, il diritto di proprietà dichiarato “inviolabile e sacro” e assunto come argine al potere arbitrario del sovrano. A differenza di quella americana che esalta l’individuo, la Costituzione giacobina ha affermato che “scopo della società è la felicità comune” e ha sancito il principio secondo cui ciò che è di tutti ha più valore di ciò che appartiene ai singoli individui. Sulla proclamazione dei diritti dell’uomo non sono mancate certamente le resistenze da parte delle forze conservatrici le quali, mentre nella pratica le hanno avversate con la violenza, nella teoria si sono arrampicate sui vetri. Per citare un caso emblematico, nel corso di una discussione all’Assemblea nazionale francese il barone Pierre Victor Malouet, intendente di finanza e proprietario di schiavi, ebbe a esprimere parere contrario alla proclamazione dei diritti naturali e di uguaglianza affermando che se andava bene agli americani, i quali “hanno preso l’uomo nel senso della natura e lo presentano all’universo nella sua sovranità primitiva”, perciò sono “preparati a ricevere la libertà in tutta la sua energia”, non andava affatto bene per i francesi la cui “moltitudine immensa” era composta da uomini senza proprietà i quali si attendevano dal governo la sicurezza 575
del lavoro e non la libertà. E’ questo un esempio di come la razza padrona abbia sempre fatto ricorso al paternalismo per difendere la propria posizione di comando e i propri privilegi. Sulla Dichiarazione che proclamava la proprietà privata un diritto sacro e inviolabile, nei decenni successivi si sono concentrate le critiche dei socialisti. Marx ha denunciato quella proclamazione come stigma dell’egoismo borghese che in virtù di una esasperata concezione individualistica separa l’uomo dagli altri uomini e dalla comunità. Quando la borghesia è divenuta forza dominante attraverso la realizzazione della società industriale, è nato lo Stato di diritto il quale è stato concepito come l’opposto del potere illimitato dello Stato: da allora in poi, tutti gli uomini sono stati considerati formalmente liberi e uguali di fronte alla legge, a patto che si considerassero borghesi. Norberto Bobbio, un giorno ha fatto notare che se dietro all’avvento dello Stato di diritto ci sta la rivoluzione borghese, dietro all’affermazione dello Stato democratico ci sono le lotte del movimento operaio il cui obiettivo è stato quello di strappare ai detentori della proprietà privata la gestione esclusiva del monopolio della forza attraverso il suffragio universale. In effetti, se il liberalismo ha assunto progressivamente contenuti democratici, ciò non è per volontà e magnanimità della borghesia, ma proprio in forza della gigantesca mobilitazione del movimento operaio. A partire dal 1870, infatti, le classi lavoratrici hanno lottato per l’allargamento del suffragio universale, per la creazione dei sindacati e per l’attuazione dello Stato sociale e su tutti questi fronti hanno ottenuto importanti conquiste. In Europa, a dare impulso alla democrazia, è stata proprio la classe operaia la quale ha pagato le sue conquiste col sangue. Il protagonismo di nuovi strati della popolazione alla vita politica ha reso necessario l’ampliamento delle istituzioni rappresentative. Mentre per tutta la prima fase della sua esistenza lo Stato moderno, essendo basato su un censo ristretto di maschi proprietari e generalmente cristiani, i cui interessi trovavano espressione in una Camera “alta”, ha vantato un carattere monoclasse, successivamente, al fine di dare spazio alla contrattazione tra classi antagoniste, è stato inaugurato il bicameralismo. Nella Camera “alta” vi sedevano i rappresentanti dell’aristocrazia, in quella “bassa” prendevano posto gli esponenti della borghesia. Con lo sviluppo della società di massa e con l’espandersi del proletariato questa divisione ha perso di senso. A completare il formalismo borghese è stata l’istituzione del suffragio universale la quale ha costretto la classe al potere a conquistare il consenso popolare. Questa innovazione ha dato avvio alla competizione politica tra le diverse formazioni sociali rendendo più complessi i criteri di rappresentatività. All’inizio di questo processo i cittadini chiamati alle urne erano una piccola minoranza. Ovunque solo un pugno di uomini aveva diritto al voto. In Italia, nel 1880, gli elettori erano appena l’1,92% della popolazione, nel 1892 sono diventati il 7%, nel 1913 il 23,2%, nel 1919 il 27,3%. Un significativo sviluppo della democrazia politica lo si è avuto all’indomani della prima guerra mondiale, quando in molti Paesi sono state adottate Costituzioni scritte e il suffragio è stato allargato alle fasce sociali subalterne. Va ricordato che a questa innovazione istituzionale si è accompagnata l’adozione della giornata lavorativa di otto ore e programmi assicurativi contro le malattie, l’invalidità e la vecchiaia. Negli anni ’20, unica eccezione alla generale ascesa della democrazia è stata l’Italia fascista. Con l’avvento poi del nazismo la democrazia è stata soffocata su quasi la totalità del vecchio continente. Solo nel secondo dopoguerra il suffragio universale ha trovato applicazione in quasi tutti gli Stati a seguito dell’allargamento al mondo femminile. Nella stessa Francia, patria della rivoluzione borghese, il suffragio universale è stato adottato solo nel 1945 e ciò appare per certi aspetti sorprendente, considerato che in Inghilterra e negli Stati Uniti era già in vigore da decenni. Qualcuno ha definito il suffragio universale “l’istinto delle masse”, altri l’hanno classificato come “intelligenza senza selezione”; sta di fatto che la sua istituzione ha rappresentato una garanzia di radicamento della democrazia fra le masse popolari ed è per questa ragione che ha tardato a essere riconosciuto. Come ho già ricordato, il movimento operaio si è battuto con forza per la sua attuazione, ma lo ha fatto a ranghi sparsi, senza porsi l’obiettivo del superamento della forma Stato e limitandosi a 576
contendere alle forze borghesi la sua gestione. La corrente di destra ne ha esaltato la funzione, e quindi ha dato grande credito allo Stato stesso, ammonendo che l’assenza di democraticità politica mette in pericolo la stabilità delle stesse conquiste sociali. La corrente di sinistra ha invece creduto giusto porre l’accento sui suoi limiti. Tutti però hanno convenuto che la strada da battere era quella della conquista del potere politico, trascurando così l’importanza della dimensione sociale. La discordanza di strategie a questo riguardo è antica, essendo sorta al tempo della nascita stessa della sinistra, e ha rappresentato una costante nella sua storia fino a giorni nostri. Se Marx ha esaltato l’esperienza della Comune di Parigi per aver fatto suo il suffragio universale come strumento di superamento dello Stato, gli anarchici hanno giurato lotta eterna a qualsiasi forma istituzionale. La 2a Internazionale, identificando nell’occupazione dello Stato la condizione dell’attuazione della società socialista, ha intravisto nel suffragio universale la realizzazione della democrazia, mentre i bolscevichi lo hanno abolito sostituendolo con i soviet e Stalin ha costruito il moloch. Jean-Paul Sartre ha addirittura espresso ripugnanza per questa forma di democrazia. Ha sostenuto che un voto non potrebbe mai rappresentare il pensiero concreto di un uomo e ha argomentato la sua tesi dichiarando che “solo molto più tardi ho capito che cosa mi ha sempre dato fastidio nel suffragio universale: il fatto che poteva servire soltanto alla democrazia indiretta, che è un imbroglio”. Non va ignorato che i padri del socialismo scientifico hanno difeso l’istituzione del suffragio universale con tutte le loro forze. Memorabili sono le polemiche di Marx nei confronti di Bakunin e pure le puntualizzazioni di Engels che ebbe a scrivere al riguardo: “Noi, i ‘rivoluzionari’, i ‘sovversivi’, prosperiamo molto meglio coi mezzi legali che coi mezzi illegali e con la sommossa. I partiti dell’ordine, come essi si chiamano, trovano la loro rovina nell’ordinamento legale che essi stessi hanno creato... Il suffragio universale è uno strumento più noioso e più lento della proclamazione della rivoluzione, ma è anche dieci volte più sicuro e, soprattutto, indica con assoluta precisione il giorno in cui si devono impugnare le armi per la rivoluzione”. I padri del socialismo, però, dopo aver elencato i meriti di questo istituto, non hanno mancato di mettere in risalto i suoi limiti. Hanno spiegato che lo Stato rappresentativo è fondato sull’astratta sovranità del popolo e sull’attività politica di pochi; hanno messo in chiaro che l’uguaglianza formale nasconde la disuguaglianza reale degli individui e che il voto è uguale per uomini disuguali. In effetti, il suffragio affida la gestione del potere a una élite che ha la malcelata pretesa di essere illuminata. Consente al cittadino di concorrere alla formazione del proprio sistema politico, ma gli nega la possibilità di fare altrettanto a riguardo della propria attività lavorativa quotidiana, di intervenire cioè sulla struttura della società per cambiarla. Il suffragio universale non è valso a impedire il formarsi delle oligarchie, non è servito e non serve ad evitare le varie forme di populismo e di cesarismo, nonché di degenerazione dispotica. Nelle stesse società di democrazia rappresentativa il potere autocratico è molto più diffuso del potere democratico. Soprattutto, con l’avvento del parlamentarismo e in forza della delega, in ogni ganglio dello Stato è venuta ad espandersi la burocrazia. Come il capitale, estorcendo il plusvalore e appropriandosi del “general intellect”, concentra su di sé la scienza e la tecnica nonché il potere sociale, così lo Stato attraverso il suffragio elettorale espropria la società civile di tutte le funzioni politiche e ne affida la gestione agli apparati burocratici. L’attività politica viene così separata dall’attività sociale e i gestori del pubblico interesse si trasformano in corporazione. La tendenza dello Stato moderno è anzi quella di ridurre progressivamente il potere degli stessi organismi rappresentativi e di trasferirlo nelle mani degli apparati burocratici i quali si trasformano in gerarchie d’affari. Protagonista della società non è più il cittadino, l’uomo della strada, ma il tecnocrate. Max Weber considerava la burocrazia il mezzo per rendere efficiente lo Stato adeguandolo alle esigenze moderne. Oggi la burocrazia si rivela un tumore maligno sul corpo dell’organizzazione sociale. Gia lo storico romano Tacito lamentava che i burocrati esercitano “poteri di re con animo di schiavi” e dopo quasi duemila anni le cose sembrano non essere cambiate di molto. 577
Fino a quando la società avrà carattere gerarchico, fino a quando le funzioni politiche saranno affidate a gruppi ristretti di persone il burocratismo, come tendenza, non potrà essere eliminato. Purtroppo, rispetto a questo insieme di incongruenze e di contraddizioni che il suffragio universale ha messo in mostra, nel corso di questi ultimi decenni, la sinistra non sembra aver tratto motivo di preoccupazione alcuna. In Occidente, anche nella classe operaia, si è consolidata la tradizione al ricorso alle elezioni come forma di gestione politica della società, senza lasciare prevedere altra alternativa che quella fra governi di destra e governi di sinistra moderati. La borghesia è stata capace di determinare tempi e modi della democratizzazione e adottando il suffragio universale e le libere elezioni ha integrato nel suo sistema la classe operaia. La sinistra, per fare una stravagante considerazione, non ha avuto nemmeno il coraggio di rivendicare una “terza camera” per distinguersi dalla borghesia, così come questa aveva fatto nei confronti dell’aristocrazia, ma ha convissuto e continua a convivere senza mostrare alcun disagio con il bicameralismo che altro non è se non un vetusto e superfluo lascito del passato. Ha fatto sua la delega e anzi di essa sembra addirittura compiacersi. L’esperienza storica ci ha così dimostrato la fondatezza della tesi secondo cui, in regime capitalistico, non è il popolo che fonda lo Stato, come vorrebbe la concezione democraticistica, bensì al contrario è lo Stato che plasma il popolo. E finché prevarrà questa logica la sovranità del popolo resterà una chimera. 18.5 – Pregi, limiti e contraddizioni della democrazia Democrazia è uno di quei concetti che assume un significato diverso a seconda delle convinzioni politiche di chi lo pronuncia. Ha un uso analogo al termine libertà, che peraltro ne costituisce l’anima, e la cui interpretazione è in dipendenza di un dato credo filosofico-etico-morale. Nel repertorio politico le specie di democrazia sono molteplici: c’è quella politica e quella civile, quella economica e quella sociale, quella rappresentativa e quella diretta. A queste si aggiungono altre versioni come: la democrazia moderna, in antitesi a quella antica; la deliberativa, comprende le decisioni prese senza ricorrere al consulto; la funzionale, esercitata dalle rappresentanze sindacali e imprenditoriali; la post-elettorale, non più legittimata dal voto ma esercitata dalle lobbies; la plebiscitaria, quella derivante da decisioni prese all’unanimità; l’egualitaria, rivendicata dalle formazioni radicali di sinistra; la telematica, praticata on-line con i nuovi mezzi di comunicazione; e persino la demarchia (per sorteggio), la capitaldemocrazia, la democrazia atea. E sui diversi usi e sulle diverse applicazioni del termine si potrebbe continuare a lungo. Questa varietà di locuzioni genera inevitabilmente confusione e favorisce un uso retorico e interessato del termine che molto spesso si allontana dal suo significato originale. C’è, infatti, chi dietro la parola democrazia maschera situazioni e propositi che con la sovranità del popolo hanno nulla a che fare. E succede pure che politici e commentatori faziosi, per ovvi motivi ideologici, si affannano ad esaltare i meriti dei teorici e dei fondatori della democrazia nascondendo scientemente le incongruenze, le antilogie e le contraddizioni che contraddistinguono il loro pensiero, le loro elaborazioni e le loro azioni. Già ho avuto modo di ricordare come Aristotele, ritenuto per secoli un antesignano dei principi di libertà e di giustizia, identificasse la democrazia con il governo dei molti, o meglio dei poveri, e giudicasse cattivo un tale governo. Eppure, nonostante questo suo spirito conservatore che lo ha portato anche a sostenere “la necessità e l’eternità della schiavitù”, Aristotele resta ancor oggi un’icona di chi si professa democratico. E sul contrasto che esiste tra il pensiero del filosofo greco e le pratiche di governo che il corso storico ci ha fatto conoscere, i suoi estimatori preferiscono glissare. Un comportamento identico si riscontra a riguardo delle antilogie che contraddistinguono la teoria e l’azione di altri personaggi storici.
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Poiché considero un simile atteggiamento significativo della malizia culturale che spesso aleggia negli ambienti politici e nelle istituzioni formative e informative, credo valga la pena di passare in rapida rassegna alcuni esempi di queste ignoranze intenzionali, perché li ritengo eloquenti. John Locke è considerato uno dei più eccelsi paladini della libertà e della tolleranza, eppure anche lui ha giustificato la schiavitù nelle colonie e ha sostenuto che tutti coloro che venivano sorpresi a chiedere l’elemosina fuori della loro parrocchia e vicino a un porto di mare, dovevano essere imbarcati coattivamente nella marina militare e nel caso avessero disertato dovevano essere catturati e puniti con la pena capitale. Charles De Secondat Montesquieu, altro padre della democrazia borghese e fautore della separazione dei poteri, si compiaceva nel far sapere che detestava “l’estrema eguaglianza”. Immanuel Kant, il teorico della “ragion pura”, riconosceva la qualifica di “cittadino” solo a chi disponeva di libertà e di indipendenza, ossia, chi vantava “una qualche proprietà che gli procuri i mezzi per vivere”; chi non si trovava in quella condizione di privilegio non era da lui considerato cittadino in senso proprio, e non avrebbe potuto esercitare il diritto di voto. “Il garzone occupato presso un negoziante o presso un fabbricante, il servo, il pupillo, tutte le donne e in genere tutti coloro che nella conservazione della loro esistenza non dipendono dal proprio impulso ma dai comandi degli altri”, per lui non erano da considerarsi cittadini. (Si vedano i suoi “Scritti politici”). Friedrich Hegel, il precursore della dialettica, ha sostenuto che “la sovranità popolare fa parte di quelle idee confuse alla base delle quali c’è l’incolta rappresentazione di popolo”. Charles H. Tocqueville, teorico della democrazia politica, ne “Il mio istinto, le mie opinioni” ha scritto: “Amo con passione la libertà, la legalità, il rispetto dei diritti, ma non la democrazia… Disprezzo e temo la folla”. Sostenendo l’esigenza di tutelare la libertà individuale, ha condannato senza appello la regolamentazione per legge dell’orario di lavoro (le travail de douze heures) giudicandola un’espressione di dispotismo. Ha tacciato gli algerini e gli arabi di essere dei semicivilizzati e ha salutato con calore le imprese del colonialismo europeo. Ha odiato il movimento socialista e invocato il pugno di ferro nei confronti dei rivoltosi parigini durante i moti del ’48. Ha poi sostenuto che “la guerra ingrandisce quasi sempre il pensiero di un popolo e gli innalza il cuore”. Il grande guru della sociologia Max Weber, in “Economia e società” ha scritto che “la democratizzazione non deve significare un aumento necessario di partecipazione attiva dei dominati al potere”. Benedetto Croce, il filosofo dello “storicismo assoluto”, ha affermato che “le masse elettorali possono manifestare i loro sentimenti e i loro bisogni, che giova conoscere e mettere nel calcolo, ma non certo dirigere, né suggerire l’opera dei governi”. Hans Kelsen, il fondatore della teoria pura del diritto, ha sostenuto che “l’esclusione degli schiavi e delle donne dai diritti politici, non impedisce affatto di considerare un ordinamento statale come democrazia”. L’economista neoliberale Joseph A. Schumpeter ha criticato la teoria classica della democrazia giudicando la sovranità popolare un’utopia e ha definito essenziale per la stabilità della società il ruolo dei corpi intermedi. Per il liberale Jeremy Bentham la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 non era altro che un cumulo di “sofismi anarchici”. Con essa “l’apprendista è uguale in diritti al suo padrone, ha il diritto di governare e punire il padrone, quello stesso diritto che il padrone esercita nei suoi confronti”, dunque, “il principio assurdo dell’égalité può far piacere solo ai ‘fanatici’ e alla ‘moltitudine ignorante’”. Non va dimenticato che, nell’Ottocento, dai liberali i disoccupati venivano considerati degli “oziosi vagabondi”. E’ chiaro che l’ammettere l’esistenza di siffatte contraddizioni nel pensiero di quelli che vengono ritenuti i sommi padri della democrazia significa non solo compromettere la loro onorabilità, ma soprattutto rischia di porre in dubbio la bontà delle loro teorie e delle stesse intenzioni di coloro che ne fanno vangelo.
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Identico ragionamento vale per quanti, nel porre sugli altari Adam Smith quale fondatore della scuola classica liberale, se ne guardano bene dal ricordare che in “Lezioni di giurisprudenza” egli ci ha spiegato come sia proprio l’introduzione della disuguaglianza a rendere necessaria la costituzione di un governo al fine di mantenerla in essere. E pure si tace sul fatto che ha definito il governo “una combinazione dei ricchi” per opprimere i poveri e conservare i loro propri vantaggi, considerando questa operazione una misura indispensabile alla borghesia per garantirsi la sua stessa sopravvivenza e, con essa, il processo di accumulazione capitalistica. Ammettere l’esistenza nell’elaborazione del teorico dell’economia politica di simili riflessioni critiche, deve apparire agli adulatori del sistema capitalistico un’imperdonabile debolezza, pertanto risulta loro più conveniente metterci sopra una pietra. A personaggi come Piero Ostellino che sul più illustre quotidiano italiano, negli anni 2000, ha avuto la faccia tosta di scrivere che “la democrazia non è un ‘vogliamoci bene’, bensì pur amandoci, cerchiamo di non scannarci”, risulta certamente impossibile attribuire al termine democrazia il significato di un allargamento del potere alle classi subalterne. Simili atteggiamenti falsificano il significato di democrazia, manipolano il suo valore, la trasformano in ideologia, in metafisica e, come si sa, questo modo di agire non contribuisce a unire, ma a dividere. Essendo prigionieri di un meschino orizzonte sociale e culturale, i democratici borghesi riducono il problema alla sfera delle libertà politiche formali e al pluralismo dei partiti. Sovente li si sente dire che dove non c’è mercato non può esserci democrazia e questa è un’interpretazione che non fa onore alla verità. Chi ha simili convinzioni, o è in mala fede oppure non si rende conto che la questione è assai più complessa e comunque finisce per considerare la democrazia un male inevitabile da tollerare. C’è chi si schernisce quando si fanno le distinzioni tra conservatori, moderati e progressisti, eppure tra di loro le differenze di pensiero e di comportamento sono profonde. Mentre i primi si battono per lo status quo, quando non addirittura per un ritorno al passato, i secondi interpretano la democrazia una regola del gioco, una procedura di potere fondata su un diffuso consenso il cui scopo è quello di stabilire delle norme di convivenza tra gli uomini. Per un progressista, invece, il suo significato ha un valore più ampio. La democrazia non è semplicemente un problema giuridico, di diritti civili, ma è un prodotto dei rapporti sociali di produzione e riguarda gli interessi reali delle persone. Per chi ha la mente aperta, le sue fondamenta non stanno nella fraseologia politica, ma nella realtà economica. La pretesa di porre la sovranità del popolo a fondamento dello Stato quando l’esercizio del potere politico è affidato a un gruppo di rappresentanti eletti dalla maggioranza degli elettori, da un vero democratico è considerata un modo per travisare la realtà. I delegati, infatti, rappresentano un’infima minoranza della popolazione e, in regime di democrazia borghese, non sono nemmeno sottoposti alla verifica e alla revoca del mandato nell’evenienza che non mantengano gli impegni dichiarati o che si comportino male. Può forse considerarsi sovranità del popolo questa? E’ forse democrazia un’oligarchia elettiva? Per un progressista la democrazia non è solo semplice libertà di scelta tra i vari partiti, ma è anche e soprattutto un mezzo per il conseguimento della giustizia sociale e dell’uguaglianza tra gli uomini; è garanzia di dignità e di autonomia nella formazione dei valori esistenziali per ciascuno. Non essendo mai soddisfatto dei traguardi raggiunti, il vero democratico si dà da fare per migliorare in continuazione la condizione civile ed economica dell’intera comunità. Ho già evidenziato come di tutte le società, quella borghese ha realizzato il più alto livello di libertà formale e di tolleranza delle differenze. Infatti, ha separato i poteri, ha reso universali i diritti politici, ha legittimato i conflitti di classe, ha riconosciuto il diritto di espressione delle minoranze e ha garantito loro la possibilità di diventare maggioranza. Nonostante tali progressi, l’umanità non ha però conosciuto regimi pienamente democratici. E la ragione di tale insuccesso è dovuta al fatto che la democrazia assoluta non è realizzabile in regime capitalistico. Quelle esistenti sono democrazie zoppe, incompiute. E, detto per inciso, anche i regimi dei tempi in cui l’uomo giungerà (se avrà la saggezza di evitare la barbarie) al superamento della delega e alla realizzazione dell’autogoverno, 580
seppure di qualità superiore, avranno carattere limitato, giacché la corsa al perfezionamento del protagonismo sociale e individuale e alla gratificazione dello stare insieme, con l’aprirsi di nuovi scenari, è destinata a continuare e a presentarsi sempre più complessa e ardua. Nel regime attuale, essendo la società divisa in classi, la democrazia politica esprime volontà e interessi di una determinata classe la quale è oggettivamente in conflitto con altre categorie sociali. La legislazione odierna non fa altro che regolare i rapporti economici esistenti e salvaguardare il primato della classe possidente. Lo stesso Locke ha ammesso che “la società politica è stata fondata soltanto per conservare a ciascun privato la proprietà dei beni, e per nessun alto fine”. Dietro la democrazia formale c’è il potere del capitale. La sua caratteristica tanto decantata di rappresentare l’arena del cambiamento è inficiata da questa ipoteca. Il meccanismo elettorale e gli equilibri parlamentari non sono mai elementi autonomi, essi ratificano solo il rapporto di forza che si è determinato nella società. Quella borghese è una democrazia funzionale per un’infima minoranza, quella dei ricchi. E a metterla in pericolo, non è solo e tanto la lotta di classe, ma lo stesso sviluppo delle forze produttive e anche le crisi ricorrenti del sistema capitalistico, le quali logorano le istituzioni costringendole a un continuo riassestamento. Si pensi, ad esempio, al fatto che la tecnica procede senza tenere in alcun conto la democrazia e che non è assoggettabile ad alcun vincolo politico. Nell’applicazione delle regole democratiche la società borghese è destinata ad affrontare una perpetua fatica di Sisifo giacché, mentre difende la proprietà privata e garantisce l’ordine del capitale, è costretta a limitare e mortificare i diritti delle persone; e quando invece applica il principio dell’uguaglianza rischia di vedersela crescere contro i suoi stessi interessi, perciò la deve contenere. E’ questa una contraddizione del sistema che appare insanabile. Attraverso la delega l’esercizio del potere viene a trasferirsi al di fuori di coloro che dovrebbero essere i naturali detentori producendo un consenso passivo. Chi è delegato ad amministrare lo Stato, se non opera in direzione di ribaltare il sistema, si trova nelle condizioni di scontrarsi con la società civile e di essere pronto a tutto pur di evitare di compiere scelte che gli facciano perdere il voto alle elezioni. Il sistema della delega penalizza le fasce sociali meno abbienti: basti considerare che a fronte dell’esistenza nel nostro Paese di quasi 7 milioni e mezzo di operai, nel parlamento (legislatura 2013) siedono solo 7 senatori e 9 deputati la cui condizione professionale dichiarata è “operaio, artigiano, agricoltore”, a fronte della presenza di 33 senatori e 72 deputati che si qualificano “avvocati”, la cui categoria professionale a livello nazionale conta 230.000 iscritti. Stesso squilibrio si riscontra con altre figure professionali. E’ forse un’equa rappresentanza questa? Si consideri che il fenomeno è comune a tutti i Paesi a regime di democrazia rappresentativa. Capita poi spesso di sentir dire che soggetto principale dell’attività istituzionale e del diritto è il cittadino. Anche questa è una fandonia. In realtà, l’individuo conta solo nel momento in cui deposita la scheda elettorale nell’urna. Commentando il sistema elettorale inglese, Rousseau diceva che il popolo è libero solo “durante l’elezione dei suoi membri del parlamento; appena essi sono eletti, esso è schiavo, esso non è più nulla”. Sono trascorsi due secoli e mezzo e le cose stanno come allora. Ma anche la stessa pratica elettorale è una regola di democrazia discutibile. Prendiamo ad esempio il referendum che per molti rappresenta una forma di democrazia diretta. La sua funzione è quella di far pronunciare gli elettori su questioni che generalmente sono complesse e che per essere affrontate richiedono conoscenza e ponderazione, requisiti che non sono certo patrimonio della maggioranza di chi si accontenta semplicemente di depositare nell’urna un “sì” oppure un “no”. Istruttiva è stata per me l’esperienza referendaria del 1987. Se ho avuto motivo di essere felice per la vittoria del voto contrario al nucleare, ho avuto anche la grande delusione di assistere a un successo che non era affatto frutto di una approfondita riflessione sul problema, ma di una reazione emotiva. Soprattutto, mi ha rattristato e preoccupato il fatto che nonostante le promesse, dopo di allora i vincitori non hanno fatto più nulla per accrescere il livello di coscienza su un tema che è destinato a tormentare l’umanità. 581
Un altro aspetto controverso della pratica elettorale è rappresentato dal fatto che mentre il voto ha uguale valore per tutti, i livelli di conoscenza e di coscienza di ciascun elettore sono differenti; e questa diversità penalizza le persone impegnate e premia quelle superficiali. Come l’esperienza storica insegna la democrazia ha un più rapido sviluppo nelle società in cui i livelli di cultura sono elevati, mentre fatica a realizzarsi dove sussistono sacche di analfabetismo, antico o moderno che sia. Se è ingiusto e intollerabile che a qualcuno non venga riconosciuto il diritto di voto, non appare giusto che si parifichi il consenso o il dissenso ragionato e meditato a quello espresso o negato futilmente. Solo la democrazia diretta può consentire di far corrispondere il peso del senso di responsabilità sociale di ciascuno alle volontà che si è chiamati ad esprimere politicamente. E’ un problema questo che lo stesso Gramsci si è posto e al quale ha tentato di fornire una risposta. Le elezioni, a suo parere, dovrebbero svolgersi su programmi di lavoro concreti e gli elettori andrebbero distinti in categorie (“comune cittadino legale”, cittadino “amorfo”, elettore impegnato socialmente). Il suo suggerimento non deve certo essere inteso come una soluzione, bensì come una testimonianza di disagio di fronte a un sistema elettorale incapace di garantire la complessità della società moderna. In conclusione, la democrazia borghese ha indubbiamente dei pregi, ma mostra anche dei limiti e delle vistose contraddizioni. Se la si interpreta come strumento per realizzare le stesse premesse della rivoluzione francese, cioè liberté, égalité, fraternité, ci si accorge che essa è inadeguata. Quel che appare certo è che nel vigente sistema di democrazia rappresentativa, la semplice alternanza di governo, quale massimo risultato conseguibile dalle forze del cambiamento, non può di per sé trasformare né lo Stato né la società, così come non può aprire la strada al socialismo se non si va oltre la delega e il modo di produrre capitalistico. 18.6 – La crisi della democrazia rappresentativa E’ evidente a tutti che il processo di concentrazione capitalistica provoca uno svuotamento della democrazia politica e mette in crisi le istituzioni rappresentative. Persino il moderato Karl Lamers, braccio destro di Kohl ai tempi della riunificazione tedesca, si è detto convinto che, a causa degli ostacoli che la globalizzazione procura alla rappresentanza politica, “i singoli Stati nazionali non sono più in grado di gestire la realtà”. Difatti, se da un lato l’economia globale corrode il tradizionale potere d’intervento dello Stato nazione, dall’altro l’estensione e la complessità dei compiti che esso è venuto assumendo in questi ultimi decenni si scontrano con l’inadeguatezza delle strutture rappresentative. L’insieme di queste dinamiche mette a rischio la sua stabilità. Non va dimenticato che le forme della rappresentanza politica sono state ideate in tempi in cui la società non era complessa come lo è oggi. E seppure nel corso degli anni si è cercato di adeguarle alle nuove esigenze, esse sono rimaste tali e quali nella loro struttura e nel loro funzionamento; nel frattempo la società ha conosciuto profonde modificazioni che hanno sconvolto il modo di vivere e di relazionare delle persone e accresciuto le loro aspettative di benessere, di sicurezza e di protagonismo. Se fino a qualche decennio fa la democrazia borghese riusciva ad assicurare al ceto medio una condizione di vita decorosa e gratificante, oggi si dimostra non più in grado di mantenere fede a questa sua originaria vocazione. Si tratta di un’incongruenza che provoca insoddisfazione e timori e determina una spaccatura tra istituzioni e società civile. Mai come oggi, infatti, la sfiducia nelle forze politiche e nelle strutture rappresentative, ha raggiunto livelli tanto alti. In quasi tutte le democrazie liberali del pianeta, il sentimento di larga parte del popolo verso la classe politica è di disgusto e addirittura di ripulsa nei confronti dei politici di professione. Secondo un sondaggio di Der Spiegel di qualche tempo fa, quasi un terzo dei tedeschi (i cittadini del Paese che primeggia per la stabilità politica e il benessere sociale) hanno dichiarato di non
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credere più nei valori incarnati dal sistema democratico. Nelle regioni dell’ex Ddr due persone su cinque si sono definite scettiche. Nel 1986 la percentuale degli sfiduciati era appena del 6%. Un’indagine svolta nel nostro Paese, nell’autunno del 2010, ha rivelato che l’84% degli italiani manifestano un atteggiamento negativo verso la politica; il 55% ha dichiarato di essere disgustato e di provare noia, mentre solo il 6,3% ha espresso interesse e il 2,4% manifestato passione. Nel 2012, un’altra indagine ha accertato che il parlamento è la più impopolare fra le nostre istituzioni, mentre nel 2013 un’altra rilevazione ha stabilito che a essere coinvolti nell’attività dei partiti è solo il 2% dei giovani. Nel 2014 la Demos&Pi ha stimato che solo il 13% degli italiani ripone fiducia nello Stato. Non solo in Italia, ma ovunque nel mondo è diffusa stanchezza per la politica e per i partiti e sempre più la maggior parte dei cittadini si identifica con il proprio Paese non attraverso le istituzioni, ma gli sport nazionali. Si è esaurita l’epoca in cui l’autorità era concepita come appendice del sacerdozio. L’antico patto tra individuo e Stato che per quattro secoli ha regolato il rapporto tra classe politica e società civile si è rotto; ad avere il primato sulle vecchie forme della democrazia, nell’epoca dei mass-media, è il plebiscito dell’audience. E non è solo la politica a pagare lo scotto, ma qualsiasi altra forma tradizionale di rappresentanza. Testimonianza ne è l’ammissione di Maurizio Landini quando denuncia che esiste “una crisi di rappresentanza che riguarda tutto il sindacato, senza distinzioni”. Il sistema della delega è entrato in crisi perché le strutture di democrazia rappresentativa appaiono non più in grado di fare sintesi dei diversificati interessi della società civile. Esso non riesce più a esprimere e soddisfare i bisogni emergenti. Poste a confronto con il protagonismo consumistico indotto dalla logica capitalistica, le istituzioni elettive appaiono sorde e inefficienti. Mentre il cittadino produttore e consumatore si sente un agente attivo, il soggetto politico prova passività ed evanescenza, poiché il suo coinvolgimento nell’attività politica e istituzionale è quasi nullo e gratifica solo chi è detentore della delega. Succede così che il cittadino manifesta la sua insoddisfazione con clamorosi voti di protesta antisistema oppure con l’astensionismo elettorale. E’ quest’ultimo un fenomeno non nuovo, ma che negli ultimi anni ha registrato una sorprendente crescita in tutte le aree del mondo. Negli Usa, Paese considerato da molti la patria per eccellenza della libertà e della democrazia, da ormai quarant’anni i votanti non superano il 60% degli aventi diritto al voto e i presidenti, scelti da una nomenclatura e molto somiglianti nelle opzioni politiche, vengono eletti da un quarto degli elettori. Fra il 1960 e il 1988 il numero degli operai americani che si sono recati alle urne in occasione delle elezioni presidenziali ha registrato un calo di un terzo. Negli anni successivi, a mostrare il più alto tasso di astensione sono stati i lavoratori della new economy, cioè la fascia meglio retribuita e che rappresenta oltre il 30% della popolazione attiva. Un terzo dell’elettorato dei paesi occidentali non va alle urne perché non crede all’utilità del suo voto. In Francia, nel 2012, al secondo turno delle amministrative, i votanti hanno rappresentato il 43,7% dell’elettorato. Nel 2013 in Giappone è andato alle urne solo il 52% degli aventi diritto. E si potrebbe continuare a elencare esempi analoghi giacché l’astensionismo cresce ovunque, non solo laddove il sistema democratico vanta secoli di esperienza e la cui rappresentanza politica può considerarsi logorata dal tempo, ma anche nei Paesi di recente pratica democratica. In Italia il fenomeno ha incominciato a manifestarsi all’inizio degli anni ’90 e ha proceduto in un costante crescendo nonostante la metamorfosi del sistema dei partiti. Nel 2013, alle elezioni regionali in Basilicata, l’astensionismo ha superato il 50% essendo andato al voto solo il 47,5% degli aventi diritto. Alle ultime elezioni europee e regionali l’astensione diretta e indiretta (non votanti + schede bianche e nulle) è stata praticata da un elettore su tre. A dare il consenso alle liste di partito è stato solo il 56% degli aventi diritto al voto. Alle precedenti elezioni europee (2009) i voti validi avevano raggiunto il 60%. L’astensionismo diretto e indiretto è in continua crescita: in cinque anni è aumentato di 4 punti %, cioè di oltre 1.600.000 elettori. 583
Alle recenti politiche si è verificata una leggera ripresa dell’affluenza alle urne, ma successivamente, alle amministrative parziali, l’astensione dal voto ha ricominciato a crescere fino a superare, nei ballottaggi, la metà dell’elettorato. E questo avviene nonostante che dall’avvento della repubblica siano stati sperimentati ben dodici sistemi elettorali (con l’“Italicum” siamo alla tredicesima riforma). E’ questa inequivocabilmente una testimonianza del grado di alienazione che ha investito il rapporto tra il cittadino e le istituzioni rappresentative. La svalutazione del sistema della delega è tale che si è tentati di dare ragione a Lenin allorquando affermava che a volte può essere più efficace il voto espresso “con i piedi” (manifestazioni di protesta) che quello delle urne. La democrazia rappresentativa segna del resto il passo anche dal punto di vista estensivo, in controtendenza del procedere della globalizzazione dell’economia. L’Associazione americana Freedom House, che da anni compila la classifica del grado di libertà politica di tutti i Paesi del globo, ha stimato che all’inizio del 2013 solo in 90 di essi, su un totale di 196, erano garantiti i diritti politici, mentre le democrazie elettorali risultavano insediate solo in 118. I Paesi considerati “non liberi” o “parzialmente liberi” erano 106. Si tratta di un dato che, seppure fondato su criteri di valutazione opinabili, suscita inquietudine. Il filosofo e psicologo greco Cornelius Castoriadis ha sostenuto che in nessuna parte del mondo esiste attualmente la democrazia. A suo dire, nei Paesi dell’Occidente, sarebbero insediate al potere delle oligarchie liberali, che non vanno confuse con la pratica democratica, giacché a prendere le decisioni sono dei gruppi ristretti formati da politici, industriali, giornalisti, intellettuali esenti da controlli, salvo la verifica del voto ogni qualche anno. Se l’opinione di Castoriadis può essere giudicata estremista, è innegabile che siamo in presenza di un generale declino delle istituzioni parlamentari e di una crescente presenza di gruppi ristretti di potere la cui causa è da situarsi nel cuore stesso dei rapporti di produzione e della divisione sociale del lavoro. Sempre più spesso il potere è esercitato non dal governo, ma dai dirigenti dei ministeri, dai famosi grandi corpi dello Stato, dai funzionari, dalle lobby. Non è raro il caso in cui, di fronte alla burocrazia statale, i parlamenti manifestano palesemente la loro impotenza. Le crisi finanziarie hanno accentuato la concentrazione delle decisioni in seno a simili apparati, governativi e non, provocando nelle rappresentanze elettive una diffusa sensazione di impotenza politica. Ad avere sempre più importanza sono le intese, i compromessi dietro le quinte tra un numero ristretto di politici, di burocrati, di faccendieri. Stiamo assistendo, in sostanza, all’apoteosi della tecnocrazia manageriale la quale si accompagna all’autocratizzazione della politica, cioè a quel processo che fa venire meno il controllo del parlamento sull’attività degli apparati esecutivi e riduce al minimo l’influenza degli orientamenti elettorali sull’esercizio del potere. In un tale contesto si inseriscono le aggregazioni lobbistiche le quali inducono i politici a prestare maggiore attenzione alle istanze di chi finanzia le loro campagne elettorali piuttosto che a quelle delle persone che li hanno eletti. Mentre la politica viene colonizzata, lo Stato viene fatto a brandelli e la corruzione dilaga. Tutte le democrazie rappresentative sono insidiate da due minacce: la corruzione, appunto, e la demagogia. A risultare corrotti sono addirittura i corpi dello Stato deputati a sconfiggere il malaffare (Magistratura, Guardia di Finanza, Polizia, Carabinieri). In Italia non c’è ambito sociale che sia al riparo di questo cancro. Del resto, quando il potere è concentrato in poche mani e il controllo dei cittadini è ridotto al minimo, la contaminazione diventa più facile, mentre risulta più difficile, anche se non impossibile, corrompere le moltitudini, come l’esperienza dei nostri governi di centro-destra hanno dato dimostrazione. In simili circostanze, negli Stati in cui la democrazia dà ancora segni di sopravvivenza, è la magistratura non corrotta che interviene in supplenza del potere politico ormai incapace di estirpare il cancro che ha lasciato crescere nel proprio corpo. In questi casi, la discesa in campo del potere giudiziario suscita però scandalo e rivolte, giacché sono in pochi a rendersi conto che una tale supplenza avviene in forza dell’impoverimento della democrazia politica la quale ha fatto il suo
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tempo e non è più in grado sia di risolvere i problemi che la società ha di fronte a sé, sia di garantire l’integrità morale dei propri interpreti. Si medita troppo poco su questi aspetti. Nella cultura moderna prevale la rassegnata convinzione che la corruzione sia una componente ineliminabile della politica e si rinuncia ad approfondire le cause dei mali della democrazia politica finendo così per legittimarli. L’astensionismo, per esempio, dovrebbe rendere inquieti tutti, ma così non è. Sulle colonne delle più prestigiose testate giornalistiche appaiono articoli che giustificano, anzi glorificano il fenomeno. Pierluigi Battista sul Corriere della sera nel 2009 ha scritto: “L’idea che la democrazia esiga un’elevata temperatura partecipativa non ha riscontri in moltissime nazioni… I cittadini hanno tutto il diritto di astenersi, per stanchezza, disgusto, incredulità, pessimismo, disinteresse”; e nel 2013 ha ribadito: “E’ vero: la Costituzione parla di ‘dovere civico’. Ma è una parte della nostra carta che tradisce la paura del passato della dittatura appena finita. E’ un residuo mentale autoritario, perché costringere a votare è un controsenso, è la spia di una mentalità illiberale”. E Piero Ostellino, sulla stessa testata nel 2010 ha eloquiato: “Una parte cospicua di italiani ha capito che votare non è un dovere, e tanto meno un obbligo, ma un diritto che attiene alla libera scelta individuale; non un imperativo collettivo… Oggi la riproposizione del voto come obbligo non ha più alcun senso né logico né politico… Il non voto è la manifestazione dell’emancipazione della società civile”. A meravigliare non è la spregiudicatezza di questi araldi del “libero pensiero” e degli interessi forti, ma l’assenza di critiche esplicite alle loro sciagurate teorie. Chi crede nella democrazia borghese dovrebbe sollecitare l’elettore a esprime il proprio consenso o il proprio dissenso con la scheda elettorale e non invece a disertare le urne. Ma si sa, la coerenza è una virtù che non appartiene a tutti e, soprattutto, è spesso assente in chi è abituato a ragionare a priori per servire meglio il “padrone”. Un altro aspetto su cui si riflette poco è quello che riguarda il deterioramento del rapporto tra elettorato ed eletti. Ho già detto come l’istituto della delega separa i governati dai governanti e affida la gestione del potere alle élite disincentivando il protagonismo politico delle masse popolari. Essa è funzionale solo a una società che fonda sulla divisione del lavoro e sulla disuguaglianza degli individui. La critica della delega e del sistema parlamentare, in particolare a riguardo della degenerazione del rapporto elettore-eletto, non è affatto una novità. In Italia essa ha avuto come interpreti non solo pensatori comunisti, Antonio Gramsci fra i più noti, ma anche esponenti socialisti come Gaetano Mosca e Gaetano Salvemini, e persino il liberale Piero Gobetti. Oggi si ripropone con forza, poiché la crisi della rappresentanza ha assunto connotazioni addirittura perverse. L’antico principio del pacta sunt servanda sembra non avere più alcun senso. Chi rispetta i patti e tiene fede alla parola data viene considerato un’eccezione, un patetico relitto di un nobile passato. Si assiste a un ritorno del trasformismo più bieco e la politica viene ridotta a mercato. La delegittimazione della democrazia rappresentativa è causata da molteplici motivi. Uno di questi è quello relativo ai suoi costi. Il funzionamento di Camera, Senato, Quirinale e Palazzo Chigi pesano sulle spalle delle comunità in misura di 3 miliardi di euro l’anno. Le spese della presidenza del Consiglio, nel 2013, sono ammontate a 458 milioni. I compensi e i rimborsi spettanti ai deputati e ai senatori hanno raggiunto i 447 milioni di euro, metà dei quali destinati ai vitalizi degli ex parlamentari. Non c’è paragone con altri Paesi europei rapportabili all’Italia come Germania o Gran Bretagna. E nonostante gli scandali, le denunce, le proteste e le promesse di tagli, i costi continuano a crescere. In misura altrettanto elevata è il costo di Regioni, Province e Comuni. Gli eletti in Italia sono 144.591: 1041 parlamentari, 1.270 consiglieri regionali, 3.446 consiglieri provinciali, 138.834 consiglieri comunali. Gli apparati politici dei Comuni e delle Comunità montane sono costate 1,7 miliardi, quelli regionali più di 1 miliardo. Considerato che siamo dominati da un sistema che fonda sul calcolo economico, se dovessimo fare il bilancio costi-benefici delle istituzioni elettive dovremmo concludere che il lume non vale la candela.
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Un’altra causa del clima di sfiducia verso le istanze della rappresentanza politica consiste nel meccanismo stesso della delega. Nel momento in cui svolge la sua attività, l’eletto si separa oggettivamente dalla società civile che lo ha designato, poiché il suo dovere è quello di difendere a tutti i costi dalle contestazioni che provengono dai suoi stessi elettori, i provvedimenti che prende. Il funzionamento della politica fa poi sì che nelle assemblee elettive non si entri come scelti dal popolo, ma come nominati dai leader di partito o da ristrette cerchie di dirigenti. Una volta entrati nelle sfere del governo, i politici sono messi in condizione di compiere più o meno le stesse scelte, quale che sia il loro orientamento politico. Le istanze delle società civile restano di competenza di sparute minoranze relegate all’opposizione. La logica elettorale poi impone all’eletto una visione limitata al proprio mandato, cioè una visione a breve e condizionata dall’interesse di essere rieletto, e questo modo di fare induce a non essere impopolari e sacrifica i bisogni delle future generazioni le quali non portano voti e perciò non sono degne di interesse. E tutto questo può avvenire grazie alla manipolazione della coscienza politica dell’elettorato il quale viene artatamente distratto dai problemi reali e disabituato alla visione critica dei rapporti sociali. Duemila e più anni fa, gli imperatori romani applicavano il principio di “buon governo”, secondo cui era bene assicurare al popolo “panem et circenses”, in maniera di evitare sommosse e rivolte. Rispetto a quell’epoca poco è cambiato nella sostanza, almeno se si fa eccezione della modernità delle coreografie e dei loro interpreti. Nonostante che le persone siano più istruite, il livello di consapevolezza dello stato di subordinazione in cui si ritrovano sembra essere rimasto quello di allora. In “Stato e rivoluzione” Lenin ha scritto: “Gli schiavi salariati moderni, per le condizioni dello sfruttamento capitalistico, restano a tal punto soffocati dal bisogno e dalla povertà che hanno altro da fare che non occuparsi di democrazia, che non occuparsi di politica, in modo tale che nello svolgersi normale, pacifico, degli avvenimenti, la maggioranza della popolazione è tagliata fuori dalla partecipazione alla vita politico-sociale”. Il sistema capitalistico, almeno nelle sue roccaforti, ha liberato le persone da una condizione di miseria materiale, ma non le ha per nulla rese autonome nel pensiero. Esso condiziona il loro tempo libero, disincentiva l’impegno sociale e impedisce la maturazione di una coscienza critica. Il potere costituito ha del resto sempre fatto di tutto per impedire un riscatto delle classi subalterne e continua a farlo tuttora con mezzi sempre più sofisticati. A far crescere il livello di coscienza politica, insieme a un diffuso protagonismo sociale, quali fattori indispensabili per costruire l’alternativa, dovrebbe essere la sinistra, ma ad assolvere questo compito non sembra né molto interessata né preparata. Pare persino che non si renda conto che lo spirito del capitalismo contraddice gli stessi principi borghesi secondo cui la libertà è obbedienza alla legge che lo stesso sistema ha prescritto e che la libertà di ciascuno finisce dove comincia quella di un altro. Non sembra accorgersi che il capitalismo, dopo aver dissolto la democrazia delle stesse società anonime, restringendo in questo modo i margini delle stesse libertà dei suoi interpreti, ora sta distruggendo la democrazia parlamentare. E che questa viene gradatamente sostituita dalla democrazia funzionale, cioè da quelle forme di coinvolgimento negli apparati dello Stato di gruppi di interesse che non sono democraticamente sindacabili. Infine, pare non accorgersi che il ciclo storico della democrazia di tipo elettivo-rappresentativo si sta sostanzialmente concludendo e che, in assenza di una innovazione profonda, non solo sono a rischio le conquiste sociali, ma possono nascere nuovi autoritarismi. Sposando la causa del bipolarismo, ad esempio, anche la sinistra si è illusa di assicurare stabilità ai governi e rafforzare in questo modo la democrazia. Non si è resa conto che la decretazione politica della morte del “centro” non può sopprimere la vasta area di moderati che popolano il nostro Paese e che un simile atto provoca nell’elettorato solo confusione e disagio, con grande detrimento per la stessa democrazia. La strada da percorrere non è quella delle furbizie politiche, ma quella della crescita nella società civile di una coscienza critica e di un protagonismo a tutto campo.
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Quando si sopravvaluta il ruolo del consenso rispetto all’espansione della partecipazione e del protagonismo di massa, si attribuisce allo Stato una neutralità che non possiede e si accresce la distanza tra la democrazia politica e la democrazia sociale. Il sistema della rappresentanza politica e istituzionale non può che limitarsi a ratificare il rapporto di forza che si è stabilito nella società e per sua natura è destinato a gratificare solo la libertà dell’homo oeconomicus. Non va mai dimenticato che la democrazia è nata con lo scopo di garantire a ognuno non solo la libertà, ma anche la dignità e l’uguaglianza di diritti e di opportunità. E se la sua efficacia si limita alla libertà di scelta tra i vari partiti in lizza alle elezioni, non può certo assicurare a tutti condizioni di vita soddisfacenti. Se non può entrare nel mondo della produzione e non può garantire autonomia di ciascuno, nella formazione di valori e principi, significa che è una falsa democrazia.
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Capitolo 19°
La sinistra e lo Stato 19.1 – Lo Stato in Marx e in Engels Chi intendesse rintracciare negli scritti di Marx una teoria dello Stato non la troverebbe di certo, semplicemente perché non esiste. Verso la metà ‘800, egli ebbe a scrivere che era sua intenzione affrontare il problema dello Stato nel quadro di un vasto piano di opere di cui “Il Capitale” avrebbe dovuto costituire solo la prima parte. Questo suo piano non ebbe realizzazione. “Il Capitale”, opera incompiuta, si arresta proprio sul punto in cui egli comincia ad affrontare il tema della sovrastruttura politica. Marx tratta dello Stato in altre sue opere, ma lo fa in maniera disorganica e a volte persino confusa. Qualcuno ha ritenuto che nell’affrontare l’argomento egli sia stato condizionato da un potente pregiudizio antiautoritario, qualcun altro lo ha giudicato avversario della democrazia; e non è mancato nemmeno chi ha visto tra le sue tesi e quelle di Engels al riguardo una palese discordanza. A mio modesto parere, ciò che manca nella sua trattazione sull’argomento, e che ci si sarebbe augurati ci fosse, è una strategia di transizione dallo Stato borghese a una condizione di socializzazione della politica, assieme a quella del sistema produttivo. La stessa discordanza tra le sue tesi e quelle di Engels, non riguarda a mio avviso il ruolo e la natura dello Stato, su cui invece c’è identità di vedute, ma il modo e i tempi del suo superamento, della sua estinzione. Va premesso che Marx è alla ricerca di una libertà superiore rispetto a quella liberale ed è interessato alla questione del potere intesa non come consenso, come legittimazione, ma come dominio. Anche per questa ragione egli trascura (ma considerata la situazione della sua epoca ciò è giustificabile) l’importanza dell’intervento che la classe dominante esercita nei confronti dei governati sul piano della soggettività, amministrando cioè non solo i bisogni materiali, ma anche quelli dello spirito. E’ questo un vuoto analitico che ha contribuito a determinare sia l’impostazione economicistica ed evoluzionista data alla questione dalla 2a Internazionale, sia gli schematismi della 3a. Se comunque a Marx qualcuno può rimproverare di non aver affrontato in modo organico la questione dello Stato, ai suoi eredi va di certo attribuita la responsabilità di non aver sviluppato i concetti generali che egli comunque ha elaborato e di non aver approfondito l’analisi del processo evolutivo che le forme statuali hanno subito nel tempo. E’ anche a causa di questa negligenza che la teoria dello Stato rappresenta uno dei “buchi neri” della storia del marxismo. Ma vediamo cosa Marx ha scritto sull’argomento. A suo giudizio, lo Stato nasce quando la società, dopo essere stata indifferenziata per lungo tempo, si è divisa in classi antagoniste e ha avuto inizio la divisione del lavoro. Per l’autore de “Il Capitale” lo Stato “è tenuto insieme dalla vita civile”. Non è lo Stato che condiziona e regola la società civile, ma è la società civile che condiziona e regola lo Stato. Difatti, “la legislazione, sia politica che civile, non fa che pronunciare, verbalizzare la volontà dei rapporti economici”.Per società civile Marx intende la sfera dei bisogni, del lavoro e della vita privata, in quanto dominata dagli interessi della proprietà e divisa in ceti e classi caratterizzati da condizioni economiche e culturali profondamente differenziate. In gioventù egli ha opposto al monarchismo di Hegel il principio democratico. Per lui lo Stato moderno non è un’autorità morale, ma semplicemente l’agente della società civile capitalistica. Lo Stato è “l’astratto”, il popolo è “il concreto”. Un giudizio questo che viene da lui corretto in età matura quando vede nello Stato l’espressione concreta di determinati rapporti di classe. Compito dello Stato è quello di proteggere l’anarchia della società civile che lo ha posto a farle da guardiano: la lotta universale dell’uomo contro l’uomo, dell’individuo contro l’individuo, la guerra reciproca di tutti gli individui separati gli uni dagli altri e interessati soltanto a difendere la propria individualità. 588
Lo Stato è perciò l’espressione e il tutore di determinati rapporti di produzione e di scambio. Suo contenuto reale è la proprietà privata ed esso esiste solo a favore di essa: “non è altro che la forma di organizzazione che i borghesi necessariamente adottano, a fini tanto interni che esterni, per la reciproca garanzia delle loro proprietà e dei loro interessi”. Sua essenza è il potere politico, “compendio ufficiale dell’antagonismo nella società civile”. Nel “Manifesto” è scritto che “il potere politico dello Stato moderno non è che un comitato il quale amministra gli affari comuni di tutta quanta la borghesia”, ed è “soltanto il potere organizzato di una classe per l’oppressione di un’altra”. Esso “poggia sulla schiavitù emancipata, nella società civile”. Separato dalla società, viene a contatto con essa solo attraverso i suoi “delegati”, cioè la polizia, i tribunali, la burocrazia i quali amministrano la cosa pubblica contro la società civile. Questi sono “gli occhi, le orecchie, la mani, le gambe con cui il proprietario di foreste osserva, ascolta, giudica, proibisce, prende, corre”. In sostanza, “lo Stato non è in realtà che una macchina per l’oppressione di una classe da parte di un’altra”. E nel denunciare la violazione dei diritti della maggioranza dei cittadini, egli condanna la sua funzione di servitore del ricco contro il povero. Se la critica di Marx è severa, quella di Engels non è da meno. In “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato” egli sostiene che presentandosi come “il principale potere ideologico sull’umanità”, esso è di fatto lo strumento di una classe che esercita la supremazia sulla società. E’ “una potenza che in apparenza è al di sopra della società, che attenua il conflitto, lo mantiene nei limiti dell’ordine; e questa potenza emanata dalla società si estrania sempre più da essa”. “Lo Stato moderno – scrive nell’“Antiduhring” – è una macchina essenzialmente capitalistica, il capitalista collettivo ideale”, la quale trasferisce l’esercizio del potere al di fuori di coloro che dovrebbero essere i naturali detentori. “E’ la confessione che questa società si è avvolta in una contraddizione insolubile con se stessa, che si è scissa in antagonismi inconciliabili che è impotente ad eliminare”. Se si vuole comprendere il giudizio critico che i teorici del socialismo scientifico hanno espresso sullo Stato, si rende necessario prendere in considerazione il loro pensiero anche a riguardo del diritto, della democrazia e del suffragio universale. E’ cioè bene ricordare (qui lo faccio in estrema sintesi) che Marx ha messo in evidenza come l’individuo democratico tenda ad immaginare se stesso uguale ai propri simili, quando invece la società e la natura non cessano di produrre disuguaglianze. E’ questa un’osservazione che ha trovato d’accordo lo stesso Tocqueville. Pertanto, per Marx “il diritto, invece di essere eguale, dovrebbe essere diseguale”, mentre “ogni diritto consiste nell’applicazione di un’unica norma a persone diverse, a persone che non sono in realtà né identiche né uguali”. Il diritto poi è nulla senza un apparato capace di costringere all’osservanza delle sue norme. Non c’è diritto che preceda la forma sociale, non c’è rapporto di produzione capitalistico senza diritto ineguale. Dunque, il diritto non è altro che il riconoscimento ufficiale del furto. La legge è il codice della violenza pubblica organizzata, essa materializza l’ideologia dominante. E alla funzione repressiva dello Stato, Marx contrappone la realizzazione di un più alto livello di coscienza di ciascun individuo. “Quando vigeranno rapporti umani – scrive – la pena non sarà realmente altro che il giudizio di chi sbaglia su se stesso. Egli troverà negli altri uomini i naturali redentori della pena che egli ha inflitto a se stesso”. Sul fronte della democrazia, Marx ha prospettato un sistema nel quale la partecipazione e la rappresentanza non sono distinte, ma si integrano. “Il primo passo della rivoluzione operaia … è l’elevarsi del proletariato a classe dominante, la conquista della democrazia”. “Soltanto nell’elezione illimitata, sia attiva che passiva, la società civile si solleva realmente all’astrazione da se stessa”. Solo con l’autogoverno la direzione diventa espressione della comunità e la condizione per conseguire un tale obiettivo è l’attuazione del controllo dei governati sui governanti. Da parte sua Engels ha insistito nel sottolineare che “la democrazia non può sanare i mali della società. L’unità democratica è una chimera, la lotta dei poveri contro i ricchi non può essere in alcun modo decisa sul terreno della democrazia o della politica”.
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Sono molti gli esponenti della sinistra che hanno criticato le tesi di Marx sulla democrazia. L’ex comunista Biagio De Giovanni, per esempio, ha sostenuto che “la riflessione di Marx sulla democrazia è insufficiente. Il rapporto tra democrazia e rapporti sociali va oggi ripensato in una chiave per cui Marx non ci basta più”, però l’invocata operazione di ripensamento né lui né il suo partito si sono sentiti in dovere di compierla. Lo storico Rosario Villari ha invece sentenziato che “il giudizio di Marx sulla democrazia ha prodotto gravi danni nella cultura contemporanea”, scambiando le sue teorie con la pratica del marxismo e dimenticando che la sinistra non dogmatica non ha saputo andare oltre la logica della democrazia rappresentativa. Marx ha combattuto e ha fatto combattere dall’Internazionale la battaglia per l’allargamento del suffragio universale e non si è mai accontentato di una sua semplice estensione. Ponendo l’accento sulla ricomposizione dei bisogni, del lavoro e dei saperi con i processi di formazione della volontà collettiva, egli ha prefigurato una sua trasformazione “da mezzo inganno in strumento di emancipazione”, considerandolo una “misura socialista” capace di dare corso a una socializzazione effettiva del potere. Engels, convinto della sua proprietà di “strumento di dominio della borghesia”, lo ha giudicato “la misura del grado di maturità della classe operaia”. Marx ha rotto con gli anarchici proprio per la loro indisponibilità a utilizzare la “stalla” del parlamentarismo borghese, al tempo stesso però ha condannato duramente l’abuso del mandato parlamentare. Ha visto nella Camera dei deputati prussiana “uno strano miscuglio fra l’ufficio e l’aula scolastica” e a riguardo dei ricorrenti comportamenti assunti dagli esponenti socialdemocratici al Reichstag ha asserito: “Sono già tanto infetti da cretinismo parlamentare che credono di stare al di sopra delle critiche, e condannano la critica come delitto di lesa maestà”. Ha quindi giudicato la repubblica parlamentare inadeguata a garantire la democrazia perché “limitata alle elezioni”. Egli non sopportava che agli oppressi fosse consentito di decidere solo una volta ogni qualche anno da quali parlamentari farsi rappresentare e insieme opprimere. E pure Engels non ha mancato di sollecitare la classe operaia ad assicurarsi “contro i propri deputati e impiegati” in modo di evitare “la trasformazione dello Stato e degli organi dello Stato da servitori della società in padroni della società”. Alcuni mesi prima che venisse dato vita alla Comune di Parigi, nell’autunno del 1870, Marx ebbe a invitare gli operai parigini a desistere da ogni tentativo di rovesciare il governo considerandolo una scelta dettata dalla disperazione. Quando però nel marzo del ’71 l’insurrezione divenne fatto compiuto, egli salutò con entusiasmo il successo dei comunardi, nonostante questi non apprezzassero le tesi e la presenza degli esponenti dell’Internazionale. Egli vide nella Comune un’esperienza storica di enorme importanza, perché per la prima volta la classe operaia diventava classe dominante. La Comune era composta da consiglieri municipali eletti a suffragio universale nei diversi mandamenti di Parigi, revocabili in qualunque momento. Anche i funzionari amministrativi e giudiziari erano elettivi e revocabili e, abolito l’esercito permanente, la forza militare era costituita dal popolo. Non solo la casta politica e quella burocratica non esistevano più, ma tutte le indennità di rappresentanza e i privilegi degli eletti erano aboliti e il loro stipendio era parificato al salario operaio. Marx ha approvato la Comune perché ha rappresentato “una corporazione non parlamentare, ma di lavoro, legislatrice e insieme esecutrice delle leggi”. Ai suoi occhi era l’essenza stessa della democrazia diretta e “la forma politica finalmente scoperta nella quale si poteva compiere l’emancipazione economica del lavoro”. Egli aveva visto realizzarsi quella previsione che decenni prima aveva descritto in “Miseria della filosofia” e cioè: “La classe lavoratrice sostituirà, nel corso del suo sviluppo, all’antica società civile un’associazione che escluderà le classi e il loro antagonismo e non vi sarà più potere politico propriamente detto”. La Comune era appunto da lui assunta come l’inizio dell’estinzione dello Stato e del superamento della delega, precisamente di quell’obiettivo che a partire da Rousseau si erano posti in termini utopistici molti socialisti quali Saint-Simon, Owen, Fourier, Leroux e lo stesso Proudhon.
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L’estinzione dello Stato è stata una delle preoccupazioni costanti di Marx e di Engels in quanto essi consideravano lo Stato una forma di alienazione politica a causa della sua burocrazia gerarchica, degli stratagemmi parlamentari e dei sotterfugi dei partiti. Per questa ragione essi si sono proposti il loro superamento sostenendo che “tutte le rivoluzioni precedenti non fecero che perfezionare la macchina dello Stato, ora bisogna spezzarla, demolirla”. “Lo stato non esiste ab aeterno”, hanno proclamato. “Sorto in condizioni ben determinate, esso perderà, in altre condizioni, la sua ragione d’essere e tenderà a scomparire”. Dopo la presa di possesso di tutti i mezzi di produzione, “al posto del governo sulle persone appare l’amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi. Lo Stato non viene ‘abolito’: esso si estingue”. Un conto, infatti, è l’abolizione dello Stato un altro è l’estinzione. Questa ultima comporta l’eliminazione delle condizioni che inducono alla necessità della rappresentanza. Compito del socialismo è di trasformare gli organi della pianificazione da statali in sociali. Deve essere la società, e non lo Stato, a regolare sempre più i rapporti tra gli uomini; ogni funzione statale deve essere resa talmente semplice da essere alla portata di tutta la popolazione. Lo Stato potrà estinguersi completamente solo quando la società avrà realizzato il principio “ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni”. E ciò potrà avvenire quando la società avrà raggiunto un progresso scientifico, economico e sociale da rendere superflua la costrizione del lavoro, quando sarà eliminata l’anarchia della produzione, quando non ci saranno più classi sociali da tenere in soggezione, quando saranno eliminate le disuguaglianze sociali. Estinzione dello Stato significa per i padri del socialismo scientifico anche estinzione della democrazia, un processo cioè che matura progressivamente, in tempi lunghi, con il venir meno della necessità del potere politico. Mentre Marx parla del “futuro Stato della società comunista” ammettendo la necessità dello Stato anche in regime comunista, Engels si limita a prevedere un costante sviluppo verso una maggioranza elettorale socialista in condizioni di suffragio universale. Se Marx insiste sulla necessità di “mutare lo Stato da organo sovrapposto alla società in organo assolutamente subordinato ad essa”, Engels predilige ripetere che “la forma specifica della dittatura del proletariato” è la repubblica democratica. Nelle note stese in occasione del congresso del Partito socialdemocratico tedesco di Erfurt del 1891, egli ha scritto: “Se vi è qualcosa di certo, è proprio il fatto che il nostro Partito e la classe operaia possono giungere al potere soltanto sotto la forma della repubblica democratica. Anzi, questa è la forma specifica per la dittatura del proletariato, come già ha dimostrato la grande Rivoluzione francese”. E in altra occasione ha affermato: “Non essendo lo Stato altro che un’istituzione temporanea di cui ci si deve servire nella lotta, nella rivoluzione, per tener soggiogati con la forza i propri nemici.... quando diventa possibile parlare di libertà allora lo Stato come tale cessa di esistere”. Sul processo di transizione, però, ambedue hanno detto poco. Marx ha precisato che “tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico di transizione, il cui Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato”. Engels ha sottolineato l’importanza dell’agire democratico da parte della classe operaia la quale è destinata ad evolversi meglio con i mezzi legali piuttosto che quelli illegali. Per Marx comunque la conquista del potere politico di per sé non può essere la premessa di una costruzione socialista; esso può essere conquistato e superato solo se le condizioni della presa del potere si sono già create all’interno della società. A suo giudizio una trasformazione radicale dei rapporti politico-giuridici deve necessariamente avere le fondamenta nella modificazione dei rapporti sociali. Come abbiamo visto, una teoria dello Stato nei fondatori del socialismo scientifico non c’è, però non mancano suggerimenti e spunti per capire quello che la sinistra non deve fare per costruire un’alternativa al regime capitalistico. E a dimostrare la giustezza delle loro preoccupazioni è la stessa esperienza storica.
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19.2 – Dalla teoria dell’estinzione al moloch Nell’ambito del movimento operaio la teoria marx-engelsiana dell’estinzione dello Stato ha incontrato più oppositori che proseliti. A deprecarla, eluderla o combatterla non sono stati solo Bakunin e gli anarchici, ma anche il capo dell’Associazione Generale Tedesca degli Operai e fondatore del Partito Socialdemocratico e anche collaboratore di Marx, Ferdinand Lassale. Questi era convinto che lo Stato avrebbe potuto essere posto al servizio degli interessi dei lavoratori e perciò ha teorizzato un socialismo di Stato nel quale associazioni di produzione industriale e agricola fossero finanziate con i proventi delle entrate fiscali. Anche Georges Sorel, teorico del sindacalismo rivoluzionario, pur criticando radicalmente lo Stato, ha individuato come strumento della presa del potere non già il partito e la politica, ma il sindacato attraverso la proclamazione dello sciopero generale. Rifiutando ogni forma di azione politica egli ha condannato e respinto ogni “pretesa di attenuare la contrapposizione tra le classi e di temperare il conflitto con sdolcinatezze umanitarie e logiche di compromesso”, e ha appunto insistito sulle radicali rivendicazioni economiche del movimento operaio. Soprattutto, a contrastare le tesi marx-engeliane, è stata la maggioranza degli esponenti della 2a Internazionale con alla testa Eduard Bernstein e Karl J. Kautsky. Questi hanno aperto la strada alla concezione di un passaggio evolutivo dal capitalismo al socialismo, per via di riforme e di avanzamenti elettorali, sino alla conquista del 51% dei suffragi. Bernstein ha teorizzato che lo Stato “da organo al servizio delle dinastie o delle classi privilegiate si trasforma in organo amministrativo essenzialmente democratico…. Esso diventa socialista nella misura in cui il popolo diventa tale”. Per lui dunque non era necessario che lo Stato scomparisse, giacché sarebbe stato destinato a perdere il suo carattere oppressivo. Da parte sua, Kautsky ha ribadito che “l’obiettivo della nostra lotta politica rimane, come per il passato, la conquista del potere statale mediante il conseguimento della maggioranza in Parlamento e della trasformazione del Parlamento in padrone del governo”. Secondo i teorici della socialdemocrazia, la lotta per il socialismo sarebbe coincisa con la lotta per la liberazione dello Stato dai ceppi ad esso imposti dal potere privato e monopolistico. Inteso come dispositivo formale di garanzie democratiche, esso è stato da loro assunto come il soggetto principale della transizione dal capitalismo al socialismo, affidando così alla classe operaia un ruolo di semplice supporto materiale. E’ stata proprio tale posizione verso lo Stato nazionale a portare, in occasione del primo conflitto mondiale, alla rottura della solidarietà internazionale dei lavoratori. Dopo la morte dei padri del socialismo scientifico, a fare propria la tesi dell’estinzione dello Stato sono rimasti dunque in pochi. Tra questi è da ricordare Paul Lafargue il quale, come ho già ricordato, ha respinto la tesi della statalizzazione e perorato la causa della socializzazione. E poi Lenin il quale, nel 1905 ha insistito sulla necessità di educare il popolo “a sbrigare da sé tutte le sue faccende” e nove anni dopo ha teorizzato l’estinzione dello Stato in forma processuale. E’ però nell’estate del ’17, in previsione dell’insurrezione armata in Russia, che egli, scrivendo “Stato e rivoluzione”, ha messo a punto la sua teoria. Si tratta di un testo che è chiaramente in polemica con l’opportunismo socialdemocratico e contiene una feroce critica al parlamentarismo. Lenin sostiene che occorre fare come la Comune di Parigi nel corso della quale “il parlamentarismo, come sistema particolare, come divisione del legislativo dall’esecutivo, come condizione privilegiata per i deputati non esiste più. Noi non possiamo configurare una democrazia, sia pure una democrazia proletaria, senza istituzioni rappresentative, ma possiamo e dobbiamo configurarla senza parlamentarismo”. Egli non crede nell’uso dello Stato borghese, nemmeno nella forma della repubblica democratica, perché essa lascia in essere il meccanismo dello sfruttamento capitalistico. L’alternativa rivoluzionaria per lui non può essere soltanto quella di un rinnovamento di forze negli apparati dello Stato che si limita a consentire un semplice ricambio di governo, ma deve comportare una profonda ristrutturazione della società. Elementi decisivi di questo processo rivoluzionario sono la democrazia diretta e l’autogoverno, ambedue intesi in stretta relazione alla semplificazione e alla 592
gestione dal basso dell’economia della cui organizzazione, però, egli in questo testo non si occupa. Dopo aver conquistato il potere politico la classe operaia è chiamata a demolire dalle fondamenta il vecchio apparato burocratico e a ridurre “i funzionari dello Stato alla funzione di semplici esecutori dei nostri incarichi, alla funzione di ‘sorveglianti e di contabili’, modestamente retribuiti, responsabili e revocabili…. E questo inizio, fondato sulla base della grande produzione, porta da se stesso alla graduale ‘estinzione’ di ogni burocrazia, alla graduale instaurazione di un ordine”. Si tratta non soltanto di garantire l’eleggibilità, dunque, ma anche la revocabilità, e come compenso, uno stipendio non superiore al salario di un operaio. L’essenza della democrazia diretta significava per Lenin “riunire le funzioni legislativa ed esecutiva nella persona dei rappresentanti eletti dal popolo”. Uno Stato socialista è forte solo quando le masse sanno tutto, discutono di tutto, decidono di tutto. “Il socialismo ridurrà la giornata di lavoro, eleverà le masse a una vita nuova e metterà la maggioranza della popolazione in condizioni tali da permettere a tutti, senza eccezione, di adempiere le funzioni statali, ciò che porta in ultima analisi alla completa estinzione di qualsiasi Stato in generale. In regime socialista tutti governeranno a turno e tutti si abitueranno ben presto a far sì che nessuno governi”. “Il proletariato ha bisogno unicamente di uno Stato in via di estinzione, organizzato cioè in modo tale che cominci subito a estinguersi e non possa non estinguersi”. Egli prospetta un processo graduale e spontaneo che non comporta l’immediata distruzione delle istituzioni borghesi, ma che è inesorabile. Il principio della delega è pertanto destinato a sopravvivere ancora per un certo tempo, ciò che da subito scompare è il parlamentarismo come sistema separato dalla società. Per Lenin lo Stato composto dagli operai non è più uno Stato nel senso proprio della parola, ma una “forma di democrazia superiore”. “Il regime soviettista è mille volte più democratico del più democratico regime borghese” e il reale esercizio della democrazia da parte della maggioranza del popolo è rappresentato dalla dittatura del proletariato. La quale “coincide con l’estensione della democrazia a una maggioranza così imponente della popolazione che la necessità di uno speciale apparato repressivo comincia a svanire”. E avverte: essa deve colmare il periodo che va “dallo Stato al non-Stato” e deve rappresentare una condizione di non libertà, di repressione solo per una minoranza intransigente. “Ogni Stato è non-libero e non-popolare” e “quanto più completa è la democrazia, tanto più vicino è il momento in cui essa diverrà superflua”. Lo Stato socialista viene definito da Lenin “uno Stato borghese senza borghesia al potere” e considerato uno Stato di transizione verso la nuova società senza Stato. “Stato e rivoluzione” appare un testo eloquente a riguardo del divario che inevitabilmente esiste tra il “dire” e il “fare”. Leggendolo viene spontaneo chiedersi come sia possibile che, con tali premesse, dopo pochi anni dalla sua morte, in Urss abbia potuto sopravvenire lo stalinismo. Quel che appare certo è che mentre i propositi di Lenin erano sinceri, la situazione in cui egli si è ritrovato a operare, come abbiamo già visto, non era tale da consentire che questi potessero essere concretizzati. Durante l’inverno 1917-18, in Russia, a mettere in pericolo la rivoluzione non era solo la “reazione bianca” antibolscevica e la minaccia alle frontiere degli eserciti dei Paesi capitalistici che temevano la sfida del socialismo, ma anche e soprattutto la situazione di miseria e di caos e il conseguente crollo di ogni autorità. Di fronte al rischio di ingovernabilità del Paese e di ritorno allo zarismo, Lenin si è ritrovato nelle condizioni di ricorrere a una misura che era l’opposto dei suoi progetti, cioè al rafforzamento degli apparati dello Stato, anzitutto di quello militare repressivo. Non va dimenticato che una delle misure da lui prese subito dopo la rivoluzione d’Ottobre, e che purtroppo è stata abbandonata di fronte all’asprezza della contingenza storica, è stata quella di mettere le tipografie a disposizione di ogni gruppo di lavoratori che desiderassero stampare un giornale, garantendo così una libertà di espressione che non esisteva altrove. Il soviet era da lui interpretato come fonte del potere, strumento d’iniziativa diretta delle masse popolari, mentre l’armamento del popolo avrebbe dovuto assicurare un nuovo ordine statale alternativo al tradizionale ruolo di esercito e polizia. La limitazione del suffragio universale ai danni dei ceti 593
borghesi era giustificata dalla ferma volontà di reprimere qualsiasi forma di sfruttamento da parte di una classe nei confronti di un’altra. D’altronde, non si è mai registrata nella storia dell’umanità una sola esperienza di successione da un potere all’altro che non abbia comportato la penalizzazione delle componenti sociali avverse alla nuova classe dominante. La violenza che si rimprovera a Lenin è la stessa usata dai rivoluzionari francesi nei confronti dell’aristocrazia monarchica o dai nordisti americani nei confronti degli schiavisti del Sud. A Lenin si può semmai rimproverare di aver sottovalutato le forze che si sarebbero opposte al suo progetto e sopravvalutato al contrario le qualità e potenzialità dell’emergente proletariato russo. A me pare che egli abbia commesso due errori: il primo, di non essersi reso conto che adottando il taylorismo avrebbe reso non solo complicato, ma addirittura impraticabile il processo di socializzazione sia dell’economia che della politica, indirizzando in quel modo il cambiamento verso un sistema di capitalismo di Stato; il secondo, di essersi illuso che a un ordine economico differente da quello capitalistico avrebbe potuto determinarsi automaticamente una sovrastruttura ideologica e politica capace di porre fine all’egoismo degli uomini inducendoli a servire gli interessi della società quando erano il prodotto di una cultura e di una pratica oppressiva. Ha scritto al riguardo in “La rivoluzione tradita” Trotzkij: “I teorici e i costruttori dell’Urss speravano che il sistema duttile e chiaro dei soviet avrebbe permesso allo Stato di trasformarsi pacificamente, di dissolversi e di deperire via via che la società avesse compiuto la sua evoluzione, economica e culturale. La vita si è mostrata più complessa della teoria”. I bolscevichi, in sostanza, hanno fatto propria un’utopia che per la verità è stata patrimonio, ovviamente in chiave conservatrice, dello stesso Adam Smith: hanno cioè creduto che il naturale egoismo degli uomini avrebbe potuto, in condizioni idonee, servire agli interessi della società. L’alienazione dell’esperimento socialista in Russia ha dunque inizio non con Stalin, come generalmente i militanti di sinistra hanno creduto. Lo stalinismo altro non è che l’estrema manifestazione di un processo che ha origine negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione, quando il potere politico e l’economia hanno iniziato a essere centralizzati ( e non socializzati) e quando il soviet ha cessato di essere istanza di democrazia e di protagonismo. Le responsabilità di Stalin nell’accentrare i poteri e nell’inasprire il carattere repressivo dello Stato sono indubbiamente grandi. Egli ha addirittura teorizzato che più sarebbe progredito il socialismo più si sarebbero acutizzati i rapporti tra amici e nemici del socialismo, sia quelli interni che quelli esterni, e più si sarebbe reso necessario uno Stato interventista e controllore. Egli ha addirittura sostenuto che l’estinzione dello Stato si sarebbe fatta tramite non l’indebolimento del potere statale, ma proprio con il suo rafforzamento. E fino a quando non fosse stato liquidato del tutto l’accerchiamento capitalistico, lo Stato non sarebbe deperito, “nemmeno in periodo di comunismo”. Ha addirittura definito la tesi del deperimento dello Stato una “teoria controrivoluzionaria”. In realtà, il socialismo è diventato ideologia, non con l’avvento delle purghe e dei gulag, ma nel momento in cui l’agire politico ha tradito la teoria. Cioè, quando Lenin non è stato in grado di fare ciò che si era ripromesso e non ha avvertito che l’imitare il capitalismo nella gestione dell’economia avrebbe comportato una compromissione del suo disegno strategico. I teorici della 3a Internazionale che gli sono succeduti, incuranti della teoria marx-engelsiana dell’estinzione, non hanno avvertito una tale incongruenza e hanno supinamente sposato la tesi secondo cui la conquista del potere si realizza assaltando e occupando lo Stato e instaurando la dittatura del proletariato. Si tratta di una concezione che è contrassegnata da uno scetticismo verso l’intervento delle masse popolari in seno allo Stato stesso, poiché lo Stato socialista è stato occupato dal partito rivoluzionario attraverso l’eliminazione di qualsiasi concorrenza politica. Dall’Urss alla Cina, dall’Est a Cuba, il fattore deterrente alla costruzione del socialismo è stato ovunque la centralizzazione del potere e la proliferazione della burocrazia. A vincere è stata la statolatria staliniana che è rimasta in auge nel movimento comunista internazionale sino al suo disfacimento. Ancora nel ’68, quando in tutto il mondo dilagava la contestazione studentesca e operaia, sulla Pravda si poteva leggere che “il marxismo-leninismo identifica nello Stato socialista il principale strumento dell’edificazione della società nuova. Da ciò deriva la necessità del suo 594
ulteriore rafforzamento, senza il quale è impensabile il positivo sviluppo di qualsiasi paese socialista”. E purtroppo, anche gli “eretici” dell’eurocomunismo si sono dimostrati incapaci di intraprendere il percorso di una “terza via” che rifiutasse sia lo schema borghese che quello del marxismo-leninismo. Ripercorrendo la storia del movimento operaio, abbiamo però potuto constatare che non tutti i suoi dirigenti si sono adeguati all’ortodossia marxista. Rosa Luxemburg e Antonio Gramsci, per esempio, l’hanno contestata e hanno inteso il comunismo come un generale sviluppo delle energie di ogni individuo. Alla teoria dell’assalto al palazzo e della sua occupazione essi hanno contrapposto la strategia dei consigli e il protagonismo della società civile. Purtroppo sono rimasti inascoltati sia dai loro contemporanei che dai posteri. Non sono peraltro mancati, nel corso dei decenni successivi, tentativi di contrapporre alla centralizzazione del potere forme di democrazia diretta: si pensi all’autogestione jugoslava o ai “cento fiori” e alla “rivoluzione culturale” cinese. La storia però ha decretato la sconfitta sia di queste pratiche alternative sia del pensiero critico-democratico. Le stesse esperienze di autogoverno sorte al di fuori degli schemi marxisti, com’è il caso dei kibbutz israeliani, si sono o esaurite nel tempo o trasformate in radice nell’indifferenza generale. E persino all’indomani del fallimento del socialismo reale la filosofia dei partiti superstiti della sinistra è rimasta quella della conquista del potere politico da parte di un’avanguardia, che seppure in forma pacifica e democratica, non è di certo la via che porta all’estinzione dello Stato, bensì alla sua glorificazione. Paradossalmente, di fronte all’offensiva liberista del capitalismo e delle nuove formazioni di destra, i partiti progressisti si ritrovano nella condizione di assolvere al ruolo di difensori delle forme statuali borghesi sacrificando sull’altare della governabilità la loro eredità storico-politica. E chi a sinistra continua testardamente a porsi il problema dell’estinzione dello Stato e dell’autogoverno viene compatito come un povero nostalgico “vetero”. 19.3 – La statualità dei comunisti italiani Nelle file del Partito comunista italiano, nel corso della sua storia, sul tema dello Stato e della democrazia sono convissute posizioni differenti e si sono alternate strategie che si sono rivelate tra di loro inconciliabili. Considerando la partecipazione alle elezioni un’inclusione della classe operaia nell’ordine borghese, il primo segretario del partito Bordiga ha fatto sua la posizione astensionista. Nell’avversare anche i consigli operai, ritenuti strumenti di “egoismi particolaristici”, ha dichiarato di privilegiare l’occupazione delle prefetture e delle questure a quella delle fabbriche. Nei confronti di chi teorizzava una gradualità di obiettivi e la ricerca di alleanze politiche, egli ha contrapposto una visione schematica del processo rivoluzionario assumendo un atteggiamento decisamente settario. Pur non apprezzando la democrazia borghese, Gramsci, al contrario, ha individuato nella presenza della classe operaia nelle istituzioni rappresentative una delle condizioni per la costruzione del socialismo, dimostrando al tempo stesso piena consapevolezza dei limiti della delega. Nel 1916, infatti, ebbe a sostenere che “la democrazia è la nostra peggiore nemica, è quella con la quale dobbiamo sempre essere pronti a fare a pugni, perché intorbida il limpido distacco delle classi, e vorrebbe quasi diventare le molle della carrozza che servono a far pesar meno sulle ruote il carico dei passeggeri e ad evitare gli scossoni che possono far traballare”. E due anni dopo, su “Il grido del popolo”, ha ribadito che essa “esplica una funzione morbosa di confusionismo, di scrocco, di predicazione dell’incoerenza. E’ l’impaludamento, più che effettivo progresso”. E’ sulla base di una tale visione critica della democrazia rappresentativa borghese che egli ha elaborato e sperimentato la strategia consiliare. I consigli di fabbrica sono stati da lui intesi come i pilastri di uno Stato in fieri fondato sui principi dell’autogoverno. Alla domanda: “Si vuole che ci siano sempre governati e governanti, oppure si vogliono creare le condizioni in cui la necessità dell’esistenza di questa divisione sparisca?, cioè si parte dalla premessa della perpetua divisione 595
del genere umano o si crede che essa sia solo un fatto storico, rispondente a certe condizioni?”, egli ha risposto ponendo al movimento l’obiettivo della conquista delle casematte del sistema capitalistico quale condizione per affermare l’egemonia operaia in campo economico e culturale e dare così vita a una società autogovernata. Al suo confronto, Togliatti ha mostrato un atteggiamento ambiguo: mentre da un lato ha esaltato l’elaborazione gramsciana, dall’altro ha fatto suo lo schema leniniano della presa del potere politico per mano dell’avanguardia rappresentata dal partito. Alla Costituente egli si è battuto contro la pretesa democristiana di uno Stato federale e mentre si è dichiarato favorevole al decentramento amministrativo, ha respinto l’idea di affidare quote di potere legislativo alle regioni. All’8° congresso del partito, nel ‘56, ha affermato: “Fino a che rimane (il capitalismo), la democrazia è sempre limitata e falsa, perché tra gli uomini non esiste eguaglianza economica e i lavoratori non sono liberi dallo sfruttamento” e ha reclamato l’organizzazione dei consigli di gestione, “composti di lavoratori, che in particolare partecipano alla conoscenza del modo come si organizza il progresso tecnico”. Una decina di anni dopo, a un convegno dell’Istituto Gramsci, quasi a fare sintesi del suo pensiero e della sua azione, ha puntualizzato che “ogni Stato è una dittatura, e ogni dittatura presuppone non solo il potere di una classe, ma un sistema di alleanze e di mediazioni, attraverso le quali si giunge al dominio di tutto il corpo sociale e del mondo stesso della cultura, così come ogni Stato è anche un organismo educativo della società, negli obiettivi delle classi che dominano”. La linea che ha imposto al partito era per altro scevra di tendenze elettoralistiche, vero è che al 10° congresso, nel ’62, l’ultimo da lui celebrato, aprendo i lavori ha ammonito: “Ridurre la lotta alle competizioni elettorali per il parlamento e aspettare la conquista del 51% sarebbe, oltre che ingenuo, illusorio... L’idea della conquista del potere viene ridotta, in questo modo, a una banalità”. Sono i tempi in cui su “Critica marxista” appaiono saggi di autorevoli esponenti del partito nei quali viene denunciata “l’escogitazione dei mezzi ‘tecnici’ più raffinati per bloccare e alterare la volontà popolare” quali “gli apparentamenti, la fissazione di un minimo di voti per ottenere rappresentanti, la dosatura delle circoscrizioni secondo criteri di opportunità e convenienza politica, il tendenziale controllo dei partiti, la richiesta talvolta di ‘dichiarazioni di fedeltà’ ai candidati o ai partiti, il controllo sui partiti, gli ‘accordi di legislatura’”, i quali – si dice – determinano un “restringimento della sovranità popolare”. Togliatti, in sostanza, ha lasciato in eredità ai comunisti italiani il convincimento che il passaggio obbligato per la trasformazione della società è la conquista dello Stato per mano del partito della classe operaia. Più problematico e più convinto del “Migliore” circa il ruolo positivo che devono avere gli organismi di base, si è dimostrato Longo, colui che lo ha rimpiazzato alla segreteria generale del partito. Già nel ’51, aprendo il 7° congresso, Longo aveva affermato: “In questa vasta e molteplice azione unitaria, un’attenzione particolare dobbiamo dare all’attivazione degli organismi unitari di base, alle Commissioni interne, ai Consigli di gestione, ai Consigli d’azienda, ai Comitati per la terra, alle Consulte, ai comitati per la rinascita, ai Comitati cittadini e locali... ai Comitati per la pace e per la difesa e l’assistenza di questa o quella vittima politica o sindacale... ai Comitati locali, cittadini e regionali in cui si realizzano più larghe alleanze e per obiettivi più generali. Conferenze di produzione, conferenze di studio, incontri e assemblee di rappresentanti dei vari organismi unitari e dei vari interessi”. Con la Dichiarazione programmatica approvata all’8° congresso nel ’56, però, l’azione del partito si è venuta concentrando sulle riforme di struttura le quali prevedevano tra l’altro un riordinamento degli organi dello Stato attraverso lo sviluppo delle libertà democratiche. Degli organi di democrazia diretta quale strumenti di autogoverno della società civile in quel documento non si faceva alcun cenno. Nei testi ufficiali delle scuole di partito si leggeva appunto che “la vittoria del socialismo passa per la repubblica democratica… il passaggio al socialismo può compiersi senza interruzione della continuità costituzionale, senza sospensioni della legalità democratica, dei suoi
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istituti e dei suoi metodi”. Alle masse era riservato il ruolo di protagoniste di “forme ampie di discussione democratica”, non già di gestione del potere. Longo, pertanto, ha avuto a che fare con un partito orientato più verso la democrazia rappresentativa che verso la democrazia diretta. Nel ’68, a fronte dello scoppio della contestazione studentesca, egli si è ufficialmente proposto come interlocutore del movimento e su “Rinascita” ha voluto precisare che il Pci “non ha mai concepito la via italiana al socialismo come una via puramente parlamentare. Essa è, nella nostra concezione come nella nostra azione pratica, una via di grandi lotte popolari e di classe”. Un anno dopo, al 12° congresso, ha ribadito che “senza la lotta delle masse organizzate, senza la pressione democratica del Paese, la via delle assemblee inevitabilmente degrada nel parlamentarismo e nel trasformismo”. Le lotte operaie e studentesche della fine degli anni ’60 e dei primi anni ’70, come ho già ricordato, hanno avuto carattere innovativo e rivoluzionario e hanno danno corpo a forme di democrazia diretta (consigli di fabbrica, di zona e di settore, comitati di quartiere, consigli dei genitori, collettivi di base, comitati unitari, organizzazioni varie spontanee) che dai luoghi di lavoro e dalle scuole si sono estesi al territorio nell’intento di unificare non solo gli interessi, ma anche i saperi. Pressati dalla mobilitazione di massa i sindacati sono stati costretti ad aprirsi alla volontà decisionale anche dei non iscritti. Per la sinistra, e per il Pci in particolare, era giunto il momento di approfittare della mobilitazione e della creatività delle masse e di offrire uno sbocco politico alle numerose strutture di democrazia diretta che erano sorte in tutto il Paese, ma essa ha avuto paura della spontaneità e si è limitata a istituzionalizzarle, inquadrandole cioè nel regime parlamentare, mortificando così l’azione e lo spirito dei loro protagonisti. La rinuncia a dare corso a una fase di cambiamento radicale, ha provocato nel Pci l’esplosione delle divergenze di strategia che già da tempo covavano sia nelle dirigenze che alla base. La radiazione del gruppo di compagni che hanno dato vita a “il manifesto” altro non è stata che la manifestazione più clamorosa dell’indisponibilità del gruppo dirigente di cambiare strategia e sperimentare il nuovo. Nel partito sono venute emergendo tre correnti di pensiero: quella di centro che comprendeva la maggior parte dei componenti gli organismi direttivi, quella di destra con alla testa Giorgio Amendola e Giorgio Napolitano, quella di sinistra con la leadership di Pietro Ingrao. Denunciando la tendenza al concentramento dei poteri negli organismi esecutivi e la conseguente mortificazione del ruolo delle assemblee elettive, Ingrao ha invitato il partito a recuperare la tematica dell’autogoverno attraverso la costruzione di nuovi strumenti di rappresentanza politica. Sotto la spinta del movimento di massa e anche della corrente di sinistra, al 12° congresso si è discusso anche su come conseguire il “deperimento dello Stato” nella società di transizione e su come trasformare il partito in “cervello sociale e politico” di questo processo senza ricorrere all’occupazione dello Stato. Questi propositi, però, sono rimasti confinati nel campo del confronto delle idee e, con il graduale declino del movimento di lotta, hanno perso di peso nella stessa memoria di chi li ha elaborati. Nei primi anni ’70, il nuovo segretario Berlinguer si è limitato a ribadire la giustezza della lotta che il Pci, nel ’53, ha condotto contro la “legge truffa”, a definire sbagliato il credere che la via democratica al socialismo fosse da identificarsi con la via parlamentare e ad assicurare che il partito non era disponibile a rinunciare alla rappresentanza proporzionale. Nella sua relazione al 14° congresso, nel ’75, ha puntualizzato: “Stanno venendo avanti esperienze nuove e promettenti (Comitati di quartiere, Consigli di zona e di comprensorio, Comunità montane) che rappresentano una positiva articolazione e decentramento nella vita dello Stato... (Sono) le varie forme di quella che potrebbe essere chiamata democrazia di base”. Il suo lusinghiero giudizio su queste strutture non significava però la loro accettazione da parte del partito. Difatti, egli ha subito precisato che erano da respingere le “astruse teorizzazioni circa una democrazia diretta... in conflitto con le istituzioni della democrazia rappresentativa... I comunisti non hanno mai concepito il 597
decentramento e l’articolazione come diminuzione delle funzioni preminenti di indirizzo e scelta nazionale che spettano ai poteri centrali dello Stato democratico. Noi siamo per una democrazia profondamente articolata ma anche forte: forte perché sostenuta dalla fiducia e dalla iniziativa dei cittadini... (E’ però) agli organi del potere politico (che) spetta la guida generale del Paese”. Le proposizioni della sinistra ingraiana riguardanti la parità di cittadinanza politica tramite l’applicazione del “diritto uguale”, la determinazione di un raccordo tra Parlamento e consigli, cioè tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, l’avvio di una fase di transizione a un regime in cui lo Stato inizia a deperire, si confermano a quel punto velleità di una minoranza. Se è pur vero che nelle tesi del 15° congresso del ’79 si fa cenno a “un graduale superamento della divisione fra governati e governanti”, nella pratica, le ambizioni del partito sono altre. Berlinguer si è così dimostrato un erede fedele del togliattismo e le sue strategie del “compromesso storico”, della “terza via” e dell’“alternativa democratica” si sono rivelate funzionali al conseguimento di un sistema in cui maggioranze e minoranze si alternano al governo. La sua stessa proposta di “austerità” si è in breve spogliata di quegli elementi rivoluzionari che originariamente sembrava avesse, prestandosi all’interpretazione non solo degli avversari come una politica di sacrifici. Tanto è che pochi anni dopo la sua morte, la sua eredità politica è stata contestata e dissipata dai suoi stessi più diretti collaboratori. Dopo Natta, che ha avuto un ruolo di semplice transizione, alla segreteria del partito è succeduto Occhetto. Nel ’67, quando era leader dei giovani comunisti, su “Critica marxista”, egli ebbe a commentare l’affermazione di Adam Schaff secondo cui “lo Stato come apparato amministrativo non si estinguerà”. A dire del filosofo polacco, l’estinzione dello Stato avrebbe dovuto essere considerata “una chimera che i fondatori del marxismo avevano abbandonata nell’età matura” e che anche Lenin avrebbe considerato una assurdità. Lo Stato a suo giudizio non sarebbe dunque da estinguere, andrebbe invece migliorata la burocrazia rendendola “più colta e ragionevole”, poiché non è possibile eliminarla. Occhetto ebbe a giudicare una simile tesi il frutto di uno “statalismo illuminato” e sostenendo che un suo accoglimento avrebbe di certo rappresentato “un notevole passo avanti”. Nel corso dei vent’anni che sono succeduti a quella “illuminazione”, come si sa, anche con il contributo del Pci, la burocrazia si è ancor di più diffusa in tutto il Paese, mentre l’auspicata riforma dello Stato è rimasta un capitolo del libro dei sogni. Alla fine degli anni ’80, nel dare avvio a quel processo di “rinnovamento” del Pci che culminerà nel suo autoscioglimento, la direzione di Occhetto ha affidato il destino della democrazia a un progressivo allargamento della frontiera dei diritti: “non più spostamento dei poteri, ma generalizzazione dei diritti e delle garanzie individuali”; “il tessuto democratico di base deve sorreggere, integrare, dar forza alle istituzioni”, hanno sostenuto i teorici del “nuovo corso”. E da allora il partito, dopo aver obliterato la sua memoria storica, si è lasciato sedurre dalle sirene del modernismo. Suo riferimento è divenuto il modello di Stato keynesiano. L’obiettivo di una progressiva espansione della democrazia e di un processo di autoemancipazione sociale è stato così messo definitivamente in archivio e non c’è stato più alcun freno a concepire la politica come conquista del potere. L’involuzione teorico-strategica che ha investito il partito comunista ha causato una indeterminatezza politica che ha prodotto una perdita di coerenza e di credibilità nelle stesse file della classe operaia. Su due fronti in particolare il vuoto teorico e l’opportunismo politico hanno determinato nell’azione del partito confusione e incertezza. Il primo è quello riguardante la riforma del Parlamento, il secondo la tematica referendaria. Già nel ‘68 il gruppo dirigente aveva elaborato la proposta di introduzione del monocameralismo la quale prevedeva l’eliminazione del Senato e la riduzione dei membri della Camera a 570 unità (420 deputati più 150 eletti dalle Regioni). “Il discorso sulla prospettiva di un’unica assemblea legislativa da noi avviato – era specificato nella relazione che la presentava – (sta a significare la volontà di) una trasformazione e un rinnovamento della macchina statale che accresce il potere delle masse”. E’ trascorso quasi mezzo secolo da quell’impegno programmatico e nonostante che i 598
post comunisti siano entrati nella “stanza dei bottoni”, dell’opportunità di snellire e rendere efficiente l’apparato istituzionale si sta discutendo ancora oggi. Circa invece la possibilità che i cittadini potessero concorrere a determinare l’attività legislativa nazionale, fino a poco prima degli anni ’90, i comunisti si sono dimostrati ostili a qualsiasi referendum. Al tempo della stesura della Carta costituzionale, nel partito albergavano pareri e posizioni differenti sulla consultazione popolare extraelettorale. Togliatti, convinto che le masse fossero ancora immature, era decisamente contrario a qualsiasi forma referendaria; Grieco la considerava in linea teorica uno “strumento di democrazia”; Terracini la giudicava una “forma di controllo popolare”; Laconi, l’“espressione di un diritto popolare”. Solo negli anni ’70, dopo il ricorso da parte della Democrazia cristiana all’uso del referendum per revocare le leggi sul divorzio e sull’aborto, i comunisti sono stati indotti ad assumere un diverso atteggiamento verso questa forma di democrazia. Berlinguer, che pure ha voluto il referendum sulla “scala mobile”, si è dato da fare, con proposte correttive e limitative, perché l’istituto referendario non si traducesse in uno “strumento plebiscitario in contrapposizione alla democrazia parlamentare e rappresentativa”. Dunque, non solo sulla necessità di una nuova statualità i dirigenti del Pci non hanno ritenuto fosse il caso di andare oltre le esperienze consolidate sia in regime borghese che con il socialismo reale, ma rispetto alle elaborazioni marx-engelsiane e gramsciane sullo Stato e sulla democrazia diretta hanno dimostrato reticenza e in qualche circostanza persino avversione. Loro compito era quello di sviluppare e dare concretezza alle tesi della graduale estinzione delle istituzioni borghesi e di sperimentare l’autogoverno, ma la loro concezione della democrazia si è rivelata prigioniera di esitazioni, paure e pregiudizi. Si sono illusi che per costruire il socialismo bastassero la conquista del potere politico e una guida di governo illuminata, lasciando inalterate le sovrastrutture ereditate dal capitalismo. Per questo hanno sempre parlato a nome e per conto delle classi subalterne, della classe operaia in particolare, e non si sono posti in maniera determinata il problema di far conseguire a ogni individuo quel livello di autonomia di pensiero e di protagonismo politico-sociale che è indispensabile a realizzare l’autogoverno. Tutta la loro azione è stata fondata sul principio della delega e mai si sono curati di sottoporlo ad analisi critica, facendo tesoro dei fallimenti conseguiti sia dal socialismo reale sia dalle esperienze socialdemocratiche. 19.4 – La sinistra tra abiura, nuovismo e localismi Salvo rare eccezioni, le formazioni politiche della sinistra italiana sono ormai tutte dislocate in modo acritico e subalterno sul terreno della democrazia rappresentativa e si rivelano rispettose delle regole del gioco che essa ha storicamente determinato. Le scadenze elettorali costituiscono, infatti, un traguardo per la quasi totalità delle organizzazioni in campo, mentre le rivendicazioni di democrazia diretta restano un ricordo del passato. Chiunque critichi il parlamentarismo e riproponga il tema dell’estinzione dello Stato e dell’autogoverno, viene considerato “fuori corso” o tacciato di anarchismo. A fronte della globalizzazione le classi dominanti si organizzano, nella teoria e nella pratica, sul terreno della sopranazionalità, mentre la sinistra dà segno di essere spiazzata e in stato confusionale e subisce passivamente gli effetti perversi dell’intreccio tra globalità e localismo. Persino molti di coloro che si sono riproposti di rifondare il comunismo non riescono a superare una visione ristretta dello scontro politico e continuano a considerare lo Stato nazionale “uno strumento importante per portare avanti la lotta antimperialista” (l’Ernesto 2000-2001). Sulla validità dell’engelsiana “amministrazione delle cose” c’è addirittura chi si dichiara dubbioso (Gian Mario Cazzaniga, 1989). Quella parte della sinistra che ha ceduto al fascino del revisionismo regressivo è persino giunta al punto di credere che “non c’è democrazia senza capitalismo”, cioè “senza proprietà privata e mercato” (Michele Salvati, 2010).
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Abiurando i padri del socialismo scientifico, i moderni riformisti sono rimasti in sostanza dei conservatori nel rapporto con la società. E sembra non si siano accorti che finché a dominare sarà il capitale, la politica è destinata a essere prigioniera dell’economia. Di fronte ai crescenti mali sociali, credono che essi siano causati dal fatto che il timone dello Stato è nelle mani degli avversari politici e non si rendono conto che lo stato di disastro in cui ci si trova, è generato dal sistema capitalistico e che il germe della crisi è insito nelle sue stesse istituzioni. All’espansione della partecipazione, essi prediligono la caccia al consenso senza avvertire che larga parte del moderno proletariato è ormai riluttante verso la politica e le istituzioni le quali non sono e non posso essere organismi neutrali. La mitica classe operaia si dimostra, infatti, sempre più sfiduciata nella funzione della delega e quando vota, in larga parte lo fa con indifferenza, sceglie volta per volta la formazione politica meno peggio, secondo impulsi umorali e senza più alcun discernimento. Di questo alienante processo la sinistra nel suo complesso non pare curarsi, magari afferma di dolersene, ma non agisce di conseguenza. Nel perseguire la conquista del consenso, si illude di poter risolvere il problema dell’anomia con la semplice riforma del sistema elettorale. Ci sta provando ormai da oltre vent’anni senza che il suo sforzo appaghi le aspettative. Nell’intento di arginare la corruzione politica, gran parte della stessa sinistra ha abolito le preferenze, ha rigettato il sistema proporzionale e ha istituito il collegio uninominale. Con il proposito di ridurre il numero dei partiti e semplificare la politica, si è votata al bipartitismo e ha introdotto le soglie di sbarramento nell’accesso al parlamento. Trascurando il piccolo particolare che l’elettorato italiano è storicamente moderato (si pensi al quasi cinquantennale dominio della Democrazia cristiana), ha eliminato ex cathedra il “centro” e ha sposato acriticamente il bipolarismo. Smentendo la sua storica avversione alle “leggi truffa”, ha introdotto il premio di maggioranza. Promettendo il federalismo, ha riformato l’articolo 5 della Costituzione decentrando alcune competenze legislative. E ha in vece quintuplicato le firme necessarie per le leggi popolari e alzato la soglia delle sottoscrizioni per il referendum. Si è proposta di sopprimere il Senato come doppia Camera e istituire al suo posto la Camera dei cittadini, ma la vecchia istituzione simbolo dell’aristocrazia decaduta è ancora in piena efficienza: cambieranno le competenze, ma non verrà soppressa. Ha poi dato assicurazione al Paese che con l’alternanza il problema della governabilità sarebbe stato risolto e il voto dei cittadini avrebbe contato di più, eppure la stabilità dell’esecutivo continua a essere un assillo per ogni compagine governativa, per reggere si ricorre a connubi perversi, mentre il peso dell’elettore si riduce sempre di più a causa dell’accentramento delle decisioni. Dopo che il popolo italiano si è pronunciato contro il finanziamento pubblico ai partiti, per continuare a foraggiare l’apparato e garantirsi una prospettiva, al pari delle forze moderate e conservatrici, la sinistra è ricorsa alle astuzie legislative e ha gesuiticamente obliterato la volontà popolare. Qualcuno ha ventilato l’ipotesi di introdurre il “recal”, cioè la possibilità di revocare l’eletto immeritevole, ma essa ha fatto finta di non sentire. Non essendosi opposta energicamente al processo di degenerazione della politica è stata essa stessa travolta dalla corruzione e dagli scandali. Di fronte all’approfondirsi della crisi del sistema politico ha deciso di prendere esempio dall’esperienza degli americani e, nell’illusione di offrire all’elettorato un’immagine più virtuosa e rassicurante, ha “inventato” le primarie nella scelta del leader di partito. In conclusione, anche sul fronte delle forme della statualità la sinistra ha dimostrato di essere allo sbando. Può forse consolare il fatto che la crisi della democrazia non riguarda solo la realtà italiana, bensì è un fenomeno globale. A fare i conti con lo scadimento della rappresentanza, infatti, sono le formazioni politiche di tutti i Paesi in cui non regna la dittatura. Ma questo stato di cose non giustifica, anzi aggrava le responsabilità delle leadership progressiste le quali avrebbero il dovere di individuare e praticare nuovi percorsi di convivenza. Purtroppo, giunti a un punto di svolta nella storia dell’uomo, quella che ama definirsi la sua avanguardia politica e intellettuale dà dimostrazione di essere incapace di tracciare nuovi orizzonti.
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In questi anni si è assistito alla formulazione di una varietà di proposte di rinnovamento dei criteri di rappresentanza politica, alcune delle quali appaiono addirittura fantasiose. Curiosamente, però, del superamento della delega e dell’opportunità di mettere in campo organismi di democrazia diretta per superare la politica borghese e dare corso a una nuova era di protagonismo sociale, nessuno ne ha parlato, neppure coloro che quarant’anni fa invocavano l’abbattimento dello Stato borghese e l’instaurazione del potere operaio. La sinistra si è limitata a celebrare un revival del mandato istituzionale. A livello internazionale abbiamo assistito alla proposta di estendere il diritto di voto ai sedicenni, già praticato in alcuni Paesi come l’Austria, il Brasile e l’Ecuador; addirittura di riconoscerlo anche agli infanti, a partire dalla nascita. Qualcuno ha avanzato l’idea di istituire il voto per procura, esattamente di riconoscere ai genitori di minori un voto, o qualche decimale di voto, in rapporto al numero dei figli, da aggiungere al proprio in modo di garantire espressione e peso politico anche alle future generazioni. Qualcun altro, ha prospettato la possibilità di differenziare il peso del voto secondo l’età, in maniera di gratificare i giovani rispetto agli anziani. E c’è stato persino chi ha proposto di designare le assemblee elettive per sorteggio. Oltre oceano si è continuato a insistere perché fosse rilanciata in chiave moderna la poliarchia, cioè quel principio affermatosi con le rivoluzioni francese e statunitense secondo il quale l’organizzazione della società dovrebbe essere fondata sul decentramento non solo della politica, ma anche dell’economia, della scienza, del sapere, in modo che potere e controllo siano prerogativa di ogni individuo. Gli studiosi americani hanno pure messo a punto la teoria del “minipopulus” che consiste nell’affidamento di specifiche decisioni a gruppi di cento persone scelte anno per anno. E sempre da loro è stato sperimentato il “XXI Century Town Meeting”, sistema che si propone di realizzare una democrazia deliberativa, ma che in realtà si limita a organizzare incontri di cittadini a livello comunale per discutere dei problemi in funzione consultiva. A livello globale, da più parti e con sempre maggiore insistenza sono stati e vengono invocati il voto telematico e l’estensione del referendum confermativo e abrogativo. Temi questi che certamente trovano giustificazione nell’evoluzione della tecnologia applicata alle relazioni sociali e alla politica, i quali però richiedono una valutazione attenta, ponderata. E’ evidente che con la rivoluzione digitale ogni individuo è messo in condizioni di poter scegliere, di dire la sua e di prendere autonome decisioni in un’infinità di ambiti. L’informatica è un mezzo che può favorire l’azione non solo di chi detiene il potere, ma anche di chi è minoranza, il problema è di saperla usare bene. C’è chi, riferendosi alla rete, parla di “comunismo delle idee”. In effetti, internet favorisce un libero scambio di informazioni, offre la possibilità di comunicare senza alcuna mediazione e controllo, permette di realizzare nuove forme di socialità e di cooperazione solidale. E il tutto avviene in tempo reale. Mentre la radio e la televisione sono reti gerarchiche, oligopolistiche, internet non lo è. Le opinioni e le idee che circolano nei blog hanno sul mondo politico un’influenza tale da incidere pesantemente sugli orientamenti e sulle scelte di chi tiene le redini del governo. Con l’uso dei social network si ha spesso la sensazione di essere coinvolti in una campagna elettorale permanente. Wikipedia, per fare un altro esempio, permette un facile e gratuito accesso al sapere globale che mai prima d’ora era stato realizzato, perciò rappresenta uno straordinario strumento di acculturazione accessibile a chiunque. Con la tecnologia informatica, in sostanza, i meccanismi della democrazia rappresentativa sono messi alle corde e la gente comune è posta in condizione di entrare nella storia come protagonista a pieno titolo. Un esempio eloquente ci viene dall’Islanda dove la popolazione, attraverso facebook, ha contribuito alla stesura della Costituzione dando vita all’agorà virtuale. Detto questo, però, va tenuto conto che la tecnologia informatica non è di per sé sufficiente a garantire un progresso della democrazia. Non solo perché finora essa è stata impiegata soprattutto per accrescere la distribuzione piuttosto che la partecipazione: il cosiddetto “villaggio globale elettronico” ha favorito la circolazione delle merci, del denaro, dell’informazione, quando non addirittura del malaffare, mentre alle procedure della politica e al coinvolgimento nelle decisioni di 601
interesse collettivo ha dato scarso spazio. E ancora, non solo perché essa permette a un club di miliardari di determinare, in tempo reale e con la semplice pressione su un tasto, il destino di un’impresa o condizionare l’esistenza di un’intera comunità, e ciò è disdicevole. Ma anche perché l’applicazione della tecnologia informatica alla cosiddetta “volontà popolare” avviene in un contesto sociale nel quale a dominare è un senso comune che rifiuta la complessità, la riflessione e lo spirito critico. L’informatica altro non è che un prodotto dell’intelligenza umana che di per sé stesso non può creare fermenti dal nulla, ma può solo dare forza a quelli che già esistono nella società, e di certo essa non può svolgere quel ruolo e quell’azione che una classe dirigente è chiamata a svolgere nel processo di emancipazione. Il protagonismo, la partecipazione dei singoli alle decisioni politiche possono essere realizzati solo alla condizione che il livello di coscienza sociale negli individui abbia il massimo sviluppo, e questo compito non può essere affidato alla tecnologia, ma deve essere svolto dall’uomo. L’informatica, il social-web e qualsiasi altra forma di comunicazione sono semplicemente dei mezzi dell’azione umana la quale è, almeno al momento, insostituibile. Se usati male possono mettere a rischio la libertà. Da alcuni è stata indicata come risolutrice del deficit di democrazia l’istituzione del referendum telematico. Non c’è dubbio che una tale forma di consultazione è uno strumento utile a dare voce al popolo dei governati e costituisce un perfezionamento della rappresentanza, di certo però non è la soluzione del problema. Chiamare alle urne una moltitudine di individui atomizzati, isolati tra loro e culturalmente sprovveduti, perché decidano della bontà o meno di un provvedimento elaborato e deciso sopra le loro teste in sede istituzionale, non è certo un buon esempio di democrazia. Come la storia insegna, questa è una pratica che favorisce una partecipazione formale, non di sostanza. Un’eloquente testimonianza ci viene offerta non solo dall’esperienza della Confederazione elvetica, ma dalle stesse campagne referendarie di casa nostra. Tra il 1974 e il 2005, in Italia, sono stati promossi 59 referendum abrogativi. Il primo è stato quello relativo alla legge sul divorzio, l’ultimo ha riguardato quattro quesiti tra cui quello sulla procreazione assistita. Mentre il primo ha registrato un’affluenza alle urne pari all’87,7% degli aventi diritto al voto, all’ultima consultazione si sono recati alle urne solo poco più del 25% degli elettori e poiché non è stato superato il quorum, esso è stato decretato senza alcun valore. Chi scambia il referendum per una forma di democrazia diretta, compie dunque un grosso errore. Essere consultati su alcune scelte, seppure importanti, non significa diventare protagonisti a pieno titolo della vita collettiva. Il superamento della divisione tra governanti e governati e la realizzazione dell’autogoverno sono altra cosa. Uno dei terreni su cui la sinistra ha dimostrato di non avere una visione autonoma e “alta” della problematica Stato-democrazia è quello del federalismo. A questo riguardo, essa ha dato segno di non tenere in debito conto non solo la teoria dei padri del socialismo, ma di trascurare pure l’esperienza storica mettendo in mostra la grande confusione che al riguardo regna nelle menti delle sue leadership. Marx non era per nulla contrario per principio alle esperienze federaliste, le considerava però delle eccezioni alla regola. L’autodeterminazione nazionale non era da lui ritenuta un diritto assoluto, inalienabile, ma un principio che non poteva essere rinnegato. Non tollerava i movimenti separatisti in nazioni piccole e culturalmente sottosviluppate, perché destinati ad andare in direzione opposta agli interessi della trasformazione socialista. Di fronte alla separazione dell’Irlanda dall’Inghilterra egli ha ipotizzato la realizzazione di una federazione e nel caso della Polonia ha difeso il “diritto di ogni popolo a disporre di se stesso”. Ha respinto ogni proposta federalista che tendesse ad alterare “quell’unità delle grandi nazioni che, se originariamente è stata realizzata con la forza della politica, è ora diventata un potente fattore della produzione sociale”. La sua polemica nei confronti di Proudhon e di Bakunin, i quali erano federalisti, era mossa dalla convinzione che fosse necessario distinguere le rivendicazioni che avrebbero portato alla formazione di unità statali più vaste e più potenti, da quelle che invece avrebbero portato alla
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frantumazione dei grandi Stati e alla creazione di piccoli. Egli era convinto che, ai fini della realizzazione del socialismo, le prime fossero da accettare, mentre le seconde da respingere. Nel 1850, nel suo indirizzo alla Lega dei comunisti, di fronte alla posizione dei democratici borghesi tedeschi che appoggiavano l’idea federativa e cercavano di indebolire il potere centrale rafforzando l’indipendenza delle regioni, ha invitato i lavoratori a “parteggiare non solo per una repubblica tedesca una e indivisibile, ma per un deciso accentramento dei poteri nelle mani dello stato”. Egli considerava la repubblica federale un ostacolo allo sviluppo. Le sue prese di posizione, però, non sono mai state dogmatiche; erano sempre funzionali al disegno di cambiamento che egli aveva in mente. Così come, pur essendo contrario a qualsiasi forma di colonialismo, egli ha approvato la conquista delle regioni arretrate dell’Asia e dell’America meridionale da parte delle nazioni progredite, perché era convinto che quella fosse la condizione per realizzare il socialismo su scala globale.
Pure Engels ha assunto in alcune circostanze posizioni favorevoli all’autodeterminazione e al decentramento dei poteri, ma lo ha sempre fatto rivendicando al tempo stesso l’eliminazione della burocrazia, l’elezione e la revoca non solo degli eletti, ma anche degli impiegati, e reclamando il diritto di proposta e di veto del popolo per tutte le leggi e decreti. Quando si è verificata la possibilità che in Germania venisse attuato il modello federalista svizzero, egli ha giudicato questa eventualità un “enorme passo indietro”. Federalisti, come ho già ricordato, erano i proudhoniani, gli anarchici di Bakunin e pure i blanquisti. Gli stessi comunardi parigini hanno visto nella federazione la suprema forma di unione tra comuni libere. Essi erano infatti noti con il nome di “les fédérés”. Ma anche loro, seppure non ancora socialisti, ma culturalmente sotto l’influenza della borghesia, intendevano il federalismo non come semplice decentramento amministrativo, ma come gestione dal basso del potere politico ed economico. Nel 1897, al Congresso di Vienna, la socialdemocrazia austriaca, sotto la pressione delle minoranze nazionali, dei cechi, degli sloveni, dei galiziani polacchi e dei ruteni ucraini, nell’intento di salvare il partito dalla sicura disintegrazione, ha rotto con la tradizione centralista e ha adottato un’organizzazione improntata ai principi federali riconoscendo l’autonomia delle sezioni. Kautsky ha progettato vasti Stati federali i quali avrebbero dovuto aggiungersi ai grandi Stati nazionali per formare gli Stati Uniti del mondo. Alla fine dell’800 il Partito operaio socialdemocratico russo ha proclamato il diritto delle nazioni all’autodecisione e ai primi del ‘900, nel programma dei socialisti rivoluzionari russi era contemplato il federalismo. Nel 1913, Lenin, in una risoluzione del Comitato centrale del partito, ha sostenuto che “in condizioni di capitalismo, le esigenze principali sono: uguaglianza di diritti per tutte le nazionalità e per tutte le lingue, rifiuto di una lingua ufficiale obbligatoria, istruzione scolastica in lingua locale, e un’ampia misura di autonomia provinciale e di autogoverno locale”. Ha però ritenuto poi di precisare che “il marxismo è incompatibile col nazionalismo, anche col nazionalismo più ‘giusto’, più ‘puro’, più raffinato e civilizzato”. Nel ’17, in un comunicato sottoscritto assieme al presidente degli Stati Uniti Thomas Wilson, ha proclamato il diritto per tutti i popoli all’autodeterminazione. All’indomani della rivoluzione d’ottobre ebbe a sostenere il principio dell’autodecisione, “fino alla secessione inclusa”, per le nazioni dell’ex impero zarista e ne rispettò l’applicazione sia per l’Ucraina che per la Finlandia. Egli era per “una completa parità di diritti tra tutte le nazionalità” e persuaso che i marxisti dovessero essere “contrari alla federazione e al decentramento per la semplice ragione che il capitalismo richiede per il suo sviluppo Stati il più possibile grandi e accentrati. A parità di tutte le altre condizioni, il proletariato cosciente difenderà sempre lo Stato più grande. Lotterà sempre contro il particolarismo medievale e vedrà sempre con favore la più profonda coesione economica
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di vasti territori, sui quali possa dispiegarsi ampiamente la lotta del proletariato contro la borghesia”. L’Unione Sovietica, come si sa, è nata come repubblica federale non certo per esaltare le nazionalità, ma per garantire pari dignità ai rispettivi popoli e nella prospettiva, almeno di alcuni suoi dirigenti, della costituzione di una federazione mondiale socialista. Federalista convinto è stato Stalin, mentre Rosa Luxemburg considerava il diritto all’autodecisione dei popoli un’eredità e una realizzazione borghese improponibile nell’epoca della rivoluzione socialista. In Italia, tra i più noti esponenti socialisti che hanno abbracciato il federalismo sono da ricordare Giuseppe Ferrari, Gian Domenico Romagnosi e Gaetano Salvemini. Loro comune intento è stato quello di coniugare il federalismo con il socialismo. Il Partito comunista italiano al federalismo ha privilegiato il decentramento amministrativo. Nella risoluzione conclusiva del 6° congresso svoltosi nel ’46 si legge: “Preoccupato di difendere e rinsaldare l’unità politica e morale della nazione, il Partito comunista è contrario a ogni forma di organizzazione federativa dello Stato, poiché vede in essa un pericolo per l’unità così difficilmente e tardi conquistata. Esso riconosce però la necessità di un’ampia autonomia regionale della Sicilia e della Sardegna... Rivendica per i Comuni ed altri enti locali piena autonomia amministrativa e particolari autonomie per determinate zone di frontiera; chiede l’abolizione del regime prefettizio; è favorevole a riconoscere alla regione particolari funzioni autonome nel campo amministrativo, nell’organizzazione della vita economica, dell’agricoltura, della sanità pubblica ecc.. Propone come garanzia dell’ordinamento democratico una riforma dell’amministrazione pubblica che moltiplichi i contatti e le forme di controllo del popolo sull’apparato dello Stato; la democratizzazione dell’esercito e della polizia; l’introduzione nella scelta dei giudici del criterio della eleggibilità”. Più tardi nel tempo si è battuto per la realizzazione delle regioni e a livello europeo ha fatto sua la battaglia condotta da Altiero Spinelli per la realizzazione dell’unione europea in chiave federalista. La storia del movimento operaio e della sinistra, come si può dedurre, è ricca di esperienze e di elaborazioni sulle forme della statualità, ma la sinistra post-socialista e post-comunista non ha affatto ritenuto il caso di farne tesoro. Nel momento in cui nelle aree ricche del Paese si sono imposti gli spiriti animaleschi del capitalismo, essa ha perso la testa e acriticamente si è lasciata imbambolare dalle sirene “padane”. Allo sforzo di coniugare in chiave moderna federalismo e socialismo, con l’obiettivo di perseguire forme di autogoverno ispirate alla solidarietà da contrapporre all’egoistico e separatistico “far da sé”, per opportunismo politico, ha preferito lasciarsi coinvolgere nei balletti della politica spettacolo e confondersi con i paladini di un ammodernamento dello Stato che non si cura affatto di rimuovere la storica divisione tra governanti e governati. Il fatto che il federalismo statunitense sia fondato su un esasperato spirito individualistico e antistatalista; che quello elvetico, in barba ai canoni della democrazia, abbia per secoli negato il diritto di voto alle donne; che fra tutte le esperienze federaliste non ce ne sia una sola che abbia localizzato il gettito fiscale laddove viene riscosso o che abbia vantato la presenza di un solo ente locale che abbia gestito completamente le imposte maggiori; che lo stesso moderno decentramento di casa nostra, quello informato al “federalismo fiscale”, non abbia attenuato il carico di imposte e tasse sul contribuente, ma anzi le abbia aumentate (tra il 2010 e il 2014 l’aumento delle addizionali Irpef comunali e regionali è stato pari al 30%; per i pensionati è stato pari al 34%, per gli operai del 36%), creando ulteriore burocrazia e sovrapponendo le competenze tra centro e periferia; per la sinistra, tutto questo non è stato e continua a non essere motivo di riflessione. Anch’essa ragiona ormai di democrazia come mera regola di relazioni civili e politiche, non già in termini di rapporti sociali e di potere. Eppure, l’esperienza insegna molte cose. Per esempio, che né l’impiego della tecnologia informatica né il federalismo sono in grado di contrastare i processi di concentrazione e centralizzazione del potere economico, e nemmeno di modificare il rapporto tra cittadini e istituzioni e garantire una società più giusta e solidale. Ci insegna ancora che in una società in cui a 604
dominare sono le élite, non è possibile dare corso a processi di socializzazione del potere senza che si operi per la loro estinzione. Nessuna legge elettorale può garantire di per sé l’autogoverno del popolo e per assicurare il protagonismo sociale non basta sostituire un gruppo dirigente con un altro, ma occorre modificare i sistemi e i metodi di direzione della società. Non a caso generazioni di parlamentari provenienti dal movimento operaio, inseriti nelle istituzioni borghesi, non sono riusciti nel tempo a modificare in modo significativo i modi di essere del potere. L’alternanza al governo non è affatto un’alternativa di potere. Se la sinistra pretende ancora di essere tale, non può non ricordare tutto questo. 19.5 – Oltre la delega, per l’autodeterminazione e l’autogoverno Ai primi del 2000, lo storico Aldo Schiavone faceva notare che la politica stava “montando la guardia a forme istituzionali superate e continuamente bypassate come i Parlamenti” e sosteneva che è “proprio il meccanismo della rappresentanza che non funziona più, perché è nato in un’epoca in cui i meccanismi della comunicazione erano rarefatissimi milioni di volte più di oggi”. In effetti, a datare dagli ultimi decenni del secolo scorso, lo sviluppo dei moderni mezzi di comunicazione, l’estensione delle libertà civili e, soprattutto, il consumismo capitalistico, hanno fatto crescere enormemente il bisogno di protagonismo degli individui e hanno messo in crisi profonda la delega. Una dimostrazione ci viene dal processo di deperimento che ha investito gli stessi tradizionali apparati ideologici e formativi (la Chiesa, la famiglia, la scuola, le organizzazioni politiche e sindacali) e dall’imporsi nella società di una pluralità di soggetti che intervengono nella formazione del senso comune. Con la crisi della rappresentanza, la stessa tradizionale identificazione tra lo Stato e i partiti è venuta offuscandosi e la politica ha perso la sua tradizionale autorevolezza. A fronte dell’esplosione di un protagonismo sociale di tipo nuovo la sinistra, che pure si è storicamente assunta il compito di far acquisire alle masse popolari un peso politico sempre maggiore, si è dimostrata incapace di risolvere le antinomie della società moderna; non ha saputo dilatare il potere e prospettare un superiore regime di democrazia. A determinare la sua sconfitta non sono state solo la forza e la resistenza dell’avversario, o l’indubbia difficoltà e complessità che si incontrano nel realizzare un’alternativa al sistema, ma le sue stesse insufficienze. Nel perseguire la sua azione essa ha continuato a privilegiare la delega e conseguentemente ha contribuito a mantenere concentrato il potere e a estendere il suo arbitrio assieme a quello della burocrazia. Non è riuscita a immaginare e prospettare una società in cui l’élite politica, cioè “l’avanguardia”, fosse gradualmente superata da una diffuso protagonismo popolare. Si è dimostrata incapace di contrastare la tesi, cara ai conservatori, che considera le persone comuni interessate solo alla soluzione dei loro problemi più immediati, attente soprattutto alla sfera privata, quindi incapaci di affrontare la complessità della vita, pertanto bisognose di tutela. Sembra altresì non rendersi conto che la delega elttorale e di potere, essendo conseguibile solo attaverso la competizione, è motivo di divisione politica; che essa è funzionale solo a una società fondata sulla separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale; che è impossibile, come insegna l’esperienza storica, per un sistema sociale fondato sulle élite autoreferenziali, dare vita a una forma di Stato e di diritto in grado di allargarsi a processi di partecipazione di massa fino a esaurimento delle loro stesse funzioni. E sembra persino consideri l’obiettivo di una democrazia di massa un ideale non raggiungibile nelle società moderne, e quello dell’autogoverno un’utopia. Il fatto che un tale “sogno” sia stato motivo di riflessione e di auspicio, non solo di Marx e di Gramsci, ma anche di tanti luminari dell’umanità, tra cui Kant e Rousseau, poco importa ai moderni revisionisti. Sotto la pressione di un rigore politico asettico, conformato al realismo, un tale obiettivo viene addirittura considerato un fossile politico. Sia chiaro, motivi per considerare problematica la possibilità di realizzare la società sognata dai padri del socialismo, non mancano di certo. Se si tiene conto della fine che hanno fatto i soviet, del tragico destino che hanno avuto le esperienze consiliari europee degli anni ’20, e ancora, del 605
carattere precario e fugace che ha contraddistinto tutte le forme di democrazia diretta che sono state realizzate nel corso di quasi un secolo, c’è ben motivo di essere guardinghi e sfiduciati. E poi prendere collettivamente delle decisioni, ricercare il consenso più largo possibile, è molto più laborioso che affidarsi alla gestione delle élite. Non va mai dimenticato che a problemi difficili non esistono soluzioni facile e che nessuna società è mai riuscita a concretizzare tutti gli ideali dei suoi protagonisti. Si deve però avere anche consapevolezza che se la sinistra rinuncia alla sua storica funzione di emancipatrice dell’umanità, nella fattispecie alla promozione e all’allargamento del protagonismo delle classi subalterne, essa sconfessa se stessa, rinnega la sua ragione d’essere. Storicamente, il movimento socialista si è battuto per l’estensione del protagonismo politico e sociale delle masse popolari, e questa regola è un fondamento irrinunciabile della sua stessa esistenza. Per complessi che siano, gli obiettivi del superamento della delega e della realizzazione dell’autogoverno sono irrinunciabili. Il socialismo esige la democrazia integrale. Esso non può significare solamente la liberazione del popolo lavoratore dal predominio della classe che lo sfrutta, ma deve assicurare anche la piena valorizzazione della personalità di ogni individuo. E solo con la realizzazione dell’autogoverno è possibile garantire espressione ad ogni singolo componente della società. Il fatto che i sistemi fondati sui consigli abbiano avuto una durata limitata nel tempo, e siano stati circoscritti nella loro estensione territoriale, quasi sempre a causa della repressione dei poteri centralizzati e autoritari, non può indurre all’oblio o all’abiura. Dovere della sinistra è di riflettere sulle cause della mancata realizzazione dei suoi progetti, di aggiustare di conseguenza le teorie e le pratiche politiche e di persistere nella propria azione rivoluzionaria, avendo il coraggio di sperimentare e superare gli ostacoli che si presentano sul suo percorso, senza esitazione alcuna. Se un secolo fa, le formazioni del movimento operaio e democratico, di fronte alle resistenze dell’avversario, e a causa della scarsa fiducia delle masse popolari in un allargamento della democrazia, avessero rinunciato a rivendicare il suffragio universale, probabilmente oggi noi voteremmo ancora sulla base del censo e della discriminazione sessuale. L’esperienza storica insegna che ogni innovazione è il prodotto di battaglie condotte con determinazione e testardaggine. Non va altresì dimenticato che a distinguere l’azione rivoluzionaria dalla pratica riformista di stampo socialdemocratico è proprio il superamento della società divisa in governati e governanti, cioè di quella diffusa pratica che affida il proprio destino alle élite di specialisti. Pesa indubbiamente il fatto che l’educazione che abbiamo ricevuto fonda sul principio della delega e non su quello dell’autogoverno. La delega, assieme alla proprietà privata, è alla base del sistema in cui viviamo, mentre a fondamento del socialismo ci sono l’autogestione dell’economia e la democrazia diretta. Socialismo non può significare altro che socializzazione del potere, realizzazione della democrazia sostanziale, eliminazione della burocrazia gerarchica, trasformazione dell’interesse particolare in interesse generale, superamento dell’alienazione politica. Solo con l’autogoverno è possibile transitare dall’eguaglianza formale all’eguaglianza reale, dal diritto eguale al diritto diseguale. Solo con il protagonismo sociale si supera la storica separazione tra comunità e individuo, tra bene comune e felicità privata. I diritti e gli interessi di ognuno hanno la garanzia di non essere trascurati solo nel caso in cui le persone sono poste nella condizione di partecipare alle scelte che le riguardano. Un progetto di cambiamento ha dunque bisogno non solo di strategie di politica economica e sociale, ma anche di interventi in campo pedagogico-culturale. Per realizzare l’autogoverno si rende necessario mettere in campo strutture di democrazia diretta come i consigli, i quali rappresentano gli strumenti più idonei per far uscire le classi subalterne dallo stato di frantumazione e di frustrazione in cui si trovano e liberarle dalla condizione di sudditanza materiale e culturale a un sistema fondato sull’ingiustizia sociale. E’ anche attraverso l’attività consiliare che gli individui si spogliano dei loro egoismi personali, prendono coscienza della loro universalità, acquisiscono responsabilità e si dispongono a perseguire l’interesse 606
collettivo. Il loro potere di controllo e d’intervento non deve avere alcun limite e deve fondare sul congiungimento dell’economia con la politica attraverso il superamento della separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Il socialismo non può essere ridotto né a un mero problema di democrazia né a un’esclusiva questione economico-sociale. La socializzazione politica e la socializzazione economica devono integrarsi fra di loro perfezionandosi. Mentre la socializzazione dell’economia nasce dal superamento dell’economia politica, la socializzazione del potere politico nasce dal superamento della delega. Si tratta di due processi che, per chi si pone l’obiettivo di dare forma a una società socialista, non possono essere separati. Antonio Gramsci, ricordando che in regime capitalistico il potere politico è in mano a “servi nella produzione”, ha insistito nel sottolineare che solo vantando una propria autonoma weltanschauung la classe operaia può ambire a realizzare una società in cui gli individui si autogovernano. La fine disastrosa delle esperienze consiliari degli anni ’20 e di quelle che si sono realizzate nel tempo successivo, e l’ingloriosa sorte che hanno avuto i soviet e il sistema di autogestione jugoslavo, rappresentano un eloquente insegnamento. Tutte queste esperienza stanno a dimostrare che se la socializzazione dell’economia non s’intreccia con la socializzazione della politica, il progetto di cambiamento è destinato al fallimento. Il consiglio pertanto non può essere una cinghia di trasmissione di un potere centralizzato, né può essere espressione di interessi particolari o avere competenze delimitate, ma deve vantare una visione universale dell’uomo e del mondo e deve essere messo in grado di esprimersi su tutto. Perciò, occorre guardarsi dai processi di istituzionalizzazione, cioè di regolamentazione dall’alto della vita interna degli organismi di democrazia diretta. Quando, da noi, i comitati di quartiere, i consigli operai e scolastici, nati dalla spontaneità del movimento, hanno subito l’istituzionalizzazione da parte dei Comuni, della scuola, del sindacato, hanno perso i loro caratteri originari di spontaneità e di carica libertaria, e sono diventati superflui se non inutili parlamentini ingabbiati nelle reti della burocrazia; non hanno più saputo elevarsi al di sopra della propria specificità. Occorre perciò garantire alle strutture di democrazia la salvaguardia della loro autonomia in un contesto di pluralismo di poteri la cui finalità è appunto l’autogoverno. Bisogna, in sostanza, dare vita a un sistema di rapporti economici e politici nuovo e superiore a quello che sin qui abbiamo conosciuto, avendo la consapevolezza che non esiste un sistema in cui tutte le contraddizioni sociali trovano soluzione, e che la ricerca del “meglio” è una metà che l’uomo è chiamato a perseguire sino alla fine dei suoi giorni. Va poi tenuto presente che un processo di trasformazione sociale presenta inevitabilmente degli ostacoli i quali, per essere superati, richiedono tempo, pazienza e fatica. Rispetto ai sistemi che lo hanno preceduto, il capitalismo vanta un’originalità che non è facilmente neutralizzabile. Esso produce rapporti economici e sociali che creano disuguaglianze e mortificazioni, eppure si dimostra in grado di garantire coesione sociale senza bisogno di ricorrere alla violenza fisica; addirittura, riesce a dominare gran parte degli stessi sfruttati con il loro consenso. Si tratta di una perversa caratteristica che deve essere aggredita e resa inefficace se s’intende costruire una società socialista. La delega è un prodotto storico incarnato nel nostro stesso modo di essere, al punto tale da rendere legittimo l’interrogativo se sia possibile superarla quando la stragrande maggioranza degli uomini non si limita ad affidare il proprio destino terreno ad altri loro simili, ma consegna quello postmortem al cielo, cioè all’ignoto. Anche questo aspetto ci avverte di quanto complesso sia il passaggio da un regime di democrazia rappresentativa a un regime di democrazia diretta che richiede responsabilizzazione, realismo e fiducia in se stessi. Occorre poi avere coscienza che lo sviluppo di nuovi rapporti di potere è destinato a creare tensioni non sempre mediabili e ad aprire delle crisi nella gestione dello Stato e nel tessuto sociale che possono degenerare in scontro aperto. L’affermazione della democrazia diretta comporta necessariamente una contesa con la democrazia rappresentativa e se questo conflitto non viene adeguatamente gestito rischia di provocare violenza. 607
D’altra parte, le grandi svolte della storia sono sempre avvenute al di fuori delle istituzioni, in alternativa ai poteri costituiti e non in modo indolore. L’allargamento della democrazia si è sempre realizzato attraverso grandi cicli espansivi causati non da decreti ministeriali, ma da sommosse di popolo e dal protagonismo sociale. E anche nell’era della globalizzazione questa regola non viene meno. Come sostiene Dahl, oggi siamo nel bel mezzo della terza grande trasformazione della democrazia, dopo la prima che ha dato origine alla città-Stato e la seconda che ha portato alla nascita dello Statonazione. Non si tratta certo di tornare all’agorà greca e neppure alla riproposizione di una nuova versione delle nazionalità, visto che i mutamenti della struttura e delle coscienze hanno ormai assunto una dimensione internazionale. Il processo di evoluzione che l’umanità sta vivendo impone alla sinistra diverse incombenze: essa deve essere sensibile alle istanze della società civile; è chiamata a sollecitare la creatività e il dinamismo dei singoli individui e di ogni organismo sociale; deve vantare una spiccata predisposizione all’innovazione e alla sperimentazione; deve avere una straordinaria capacità di sintesi. Sono questi gli ingredienti con cui si dà corpo a una società autogestita. La sinistra deve perciò avere una visione della rivoluzione prima ancora che come processo politico-istituzionale, come processo sociale. E nell’assolvere a questo ruolo di levatrice di una nuova società, che sorge non per opera di un demiurgo, ma sull’onda di un protagonismo sociale diffuso, deve saper cogliere e valorizzare tutto ciò che, sia sul piano istituzionale sia su quello sociale, si muove nella direzione del rinnovamento. Il fatto che alla fine del secolo scorso sia stato universalmente riconosciuto il diritto dei popoli all’autodeterminazione; che la Comunità europea abbia di recente elaborato la Carta dei diritti dei lavoratori, andando così oltre il concetto di democrazia politica; che oggi, da più parti, venga invocata una cittadinanza non più legata a sangue e territorio, ma a residenza e lavoro e possa avere carattere rinnovabile, sono tutti segnali che anche sul piano giuridico internazionale si stanno aprendo dei varchi per la proposizione di un nuovo e superiore ordine sociale. E’ soprattutto, però, verso ciò che si muove nella società civile che la sinistra deve rivolgere la sua attenzione, perché è dal tessuto sociale che provengono gli stimoli decisivi al cambiamento. Negli ultimi decenni a livello planetario si sono verificati fenomeni che testimoniano la crescita del bisogno di protagonismo e incoraggiano l’azione trasformatrice. Le esperienze comunitarie vantano da tempo una continua espansione. Anche sotto la sferza della crisi, sempre più persone e famiglie decidono di convivere mettendo in comune lo stipendio, le spese per i bisogni primari; costruiscono cioè rapporti sociali alternativi a quelli imposti dalla società capitalistica, anche per sentirsi più sicuri, garantiti e meno soli. Mentre nel Nord Europa e negli Stati Uniti si registra l’esplosione del cohousing (condivisione di abitazione e servizi), in Israele si assiste al ritorno dei kibbutz che ora si insediano negli stessi centri urbani. Nelle nostre città si moltiplicano i “comitati dei cittadini” e i residenti animati di spirito civico aderiscono sempre più numerosi alle strutture del volontariato con l’obiettivo di assicurare vigilanza e ordine nella propria specificità territoriale, dando così vita a un’esplosione di esperienze democratiche. Questo diffuso protagonismo sociale è il segno dell’impossibilità per lo statalismo autoritario di integrare le masse popolari nel proprio assetto disciplinare e insieme è la manifestazione del crescente bisogno di un nuovo ordine sociale. Compito prioritario della sinistra è quello di unificare tutte queste esperienze e convertirle in progetti politici. Persino sul piano della religiosità le cose stanno cambiando: il monoteismo è in crisi e l’era digitale induce gli individui a rifiutare nel rapporto con dio la tradizionale mediazione delle chiese. E’ anche questo un segno che la delega è in declino. Nel perseguire l’obiettivo di un nuovo assetto democratico la sinistra deve ricorrere anche all’impiego delle nuove tecnologie, l’informatica e la telematica in primo luogo. Mentre l’informatica risulta preziosa nell’espletamento dell’attività di analisi e di pianificazione, la rete deve essere utilizzata in funzione connettiva come uno dei mezzi idonei a raccogliere e soppesare l’opinione di tutti e a favorire la partecipazione di ogni individuo alla formazione delle decisioni che riguardano la collettività.
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Il superamento della delega e del parlamentarismo si consegue attraverso la messa in opera della partecipazione costante e diretta dei cittadini alla direzione della società e dello Stato. Questo processo di transizione è necessariamente di lunga durata, perché non solo richiede la messa in campo di una rete capillare di strutture di democrazia diretta, ma esige contemporaneamente la conduzione, a partire dalla scuola e utilizzando le strutture pubbliche e dell’associazionismo, di campagne pedagogiche al fine di stimolare negli individui spirito critico, autonomia di pensiero e di azione, senso di giustizia e di solidarietà, virtù queste che il capitalismo mortifica e stravolge. Si tratta di responsabilizzare gli individui e di aiutarli a condividere problemi, idee, soluzioni. La divisione borghese tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario deve essere gradatamente superata e le istituzioni che regolano i rapporti tra le persone devono essere reinventate andando oltre sia la tradizione liberale che l’esperienza del socialismo reale. Nella fase di transizione le strutture stataliste devono essere convertire in forme nuove di sintesi politica che si diffondono in tutto il tessuto sociale e si confondono con esso. La società civile deve diventare un laboratorio in cui a dominare è la sperimentazione del “nuovo”. E’ chiaro che la democrazia diretta non può sostituire tout court la democrazia rappresentativa, ma per tutto un periodo le due forme sono destinate a convivere e a combinarsi in modo di rendere non traumatico il passaggio dall’eguaglianza giuridico-politica formale a un regime di eguaglianza sostanziale in cui la democrazia rappresentativa esaurisce la sua storica funzione. Per disalienare e superare la delega occorre estendere il controllo e l’intervento popolare su tutte le decisioni che riguardano la collettività e, per l’intera fase della transizione, occorre rendere operanti i principi dell’elettività di tutte le cariche pubbliche, della revocabilità degli eletti e dell’iniziativa popolare in materia legislativa. Questi criteri devono essere applicati anche al settore della magistratura i cui operatori non possono essere esentati dal rendere conto del loro operato al soggetto nel cui nome emettono le loro sentenze, cioè il popolo. All’interno di ogni istituzione vanno creati dei contropoteri autonomi e alternativi con funzioni di sorveglianza e di controllership. Come pure vanno messi in campo organismi collegiali intelligenti con il compito di predisporre piani e programmi alternativi a quelli elaborati dagli organi ufficiali. La sinistra, in conclusione, oltre a dover rinnovare le sue strategie politiche, deve riorganizzare le proprie file in funzione di questo rinnovamento, deve cioè porre mano alla sua stessa organizzazione. E nel farlo deve spersonalizzare la politica rompendo con le odiose pratiche narcisiste e vanagloriose che, ahimé, sono proprie anche dei suoi leader, sia della vecchia che della nuova guardia, sia della sinistra comunista che di quella postcomunista. Suo dovere è quello di riscoprire il valore sociale, e non solo mistico, della missione politica che va intesa come servizio da svolgere a favore della comunità, così come ha fatto la stragrande maggioranza dei suoi leader storici e la quasi totalità dei suoi militanti.
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Capitolo 20°
L’organizzazione politica ieri e oggi 20.1 – Il partito nel pensiero dei padri del socialismo e nella prassi del movimento Il partito politico, inteso nella sua attuale configurazione, ha preso forma nel corso della rivoluzione francese con i famosi club giacobini. Interpretando obiettivi di forte valore sociale, questi organismi hanno rappresentato l’espressione degli ideali illuministi e hanno consentito di aggregare attorno ad alcune personalità forti le classi sociali in contesa. I partiti politici, difatti, sono il prodotto delle tensioni che insorgono nell’ambito dei rapporti sociali di produzione e della conseguente divisione della società in classi. Il loro sviluppo è legato all’evoluzione del processo democratico, all’affermarsi del sistema parlamentare e all’estensione del suffragio popolare. Con l’imporsi dei partiti, la politica si afferma come attività di élite. Mentre essi rappresentano gli interessi delle varie componenti della società civile e ambiscono a gestire il potere in loro nome, al popolo è riservato il ruolo di scegliere coloro che lo rappresentano in parlamento e nelle istituzioni periferiche dello Stato. E’ in un simile contesto di competenze che trova ragione la disputa elettorale. Il primo tentativo di costruire il partito operaio, come abbiamo visto, è stato compiuto verso la metà dell’800 da Marx e da Engels con la fondazione delle “Lega dei comunisti”. Il grande partito socialista di massa è invece maturato nei decenni successivi. La costituzione del partito proletario ha rappresentato un’autentica novità nella storia dell’umanità, poiché ha significato l’apparizione sulla scena politica di un soggetto che in nome e per conto della classe operaia, componente sociale che fino ad allora non aveva alcun peso nei palazzi del potere, ha incominciato a operare per la trasformazione dei rapporti sociali e politici. La sua apparizione ha sollevato una tematica del tutto nuova per la stessa scienza politica e ha dato inizio a uno scontro sociale su basi non più spontanee ma progettuali. Con la formazione delle grandi aggregazioni proletarie, il partito ha assunto tre caratteristiche che col tempo sono divenute prerogativa di ogni formazione politica, indipendentemente dall’orientamento e dagli interessi espressi. Esse sono: un programma omogeneo, un’organizzazione diffusa e stabile, una continuità di funzionamento. A distinguere i partiti operai e socialisti dalle altre formazioni politiche, almeno per il periodo che va dalla loro nascita fino al primo conflitto mondiale, sono due rivendicazioni fondamentali, precisamente: la riforma della politica attraverso l’attuazione del suffragio universale e la socializzazione dei mezzi di produzione. Nel periodo storico successivo, mentre la prima istanza ha continuato a essere patrimonio dell’intero movimento operaio, la seconda è rimasta prerogativa delle sole formazioni comuniste. L’atteggiamento dei leader del movimento dei lavoratori verso l’istituzione partito si è da subito rivelato disomogeneo, anzi è divenuto motivo di scontro. Mentre la stragrande maggioranza di essi, ai fini della difesa delle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia, hanno riconosciuto l’importanza di dare vita a una propria formazione politica, oltre a quella sindacale, alcuni hanno sposato i principi anarchici. Altri, in prima fila il francese Georges Sorel, nel timore che la classe operaia fosse conquistata dalla logica parlamentare, hanno respinto l’organizzazione partitica contrapponendole il sindacato rivoluzionario. Anche nel nostro Paese il mito sociale contrapposto a quello politico ha influenzato per un lungo tempo molti sindacalisti e lavoratori. Nella fase di sperimentazione e di assestamento dell’organizzazione del proletariato, il partito ha avuto la semplice funzione di contenitore delle diverse anime del movimento, piuttosto che offrire una risposta al bisogno di unificazione e di direzione. Solo con l’esperienza comunista il partito ha centralizzato le decisioni politiche imponendo ai militanti un’omogeneità di comportamenti. A partire dalla fine del diciannovesimo secolo, quando quasi ovunque è stato conseguito il riconoscimento legale delle organizzazioni sindacali e dei partiti politici, la classe operaia ha avvertito il bisogno di affidare la loro direzione a dei gruppi ristretti di aderenti in modo che fosse 610
garantito il loro funzionamento. Si sono così formate le direzioni, le sezioni, le segreterie, gli apparati, sono nate le figure dei funzionari e dei redattori di giornali, sono apparse le tessere e le quote, si è in sostanza formata la burocrazia di partito che, nel bene e nel male, rendendo possibile un’efficiente attività sociale e parlamentare. Se per un verso la nuova strutturazione ha dato ordine ai rapporti interni ed esterni dell’organizzazione, rendendo più funzionale l’esplicazione delle attività di ogni singolo organo, per altro ha ridotto e mortificato, quando non addirittura espropriato, il potere d’intervento e l’autonomia della massa degli aderenti. Commentando l’esperienza del Partito socialdemocratico tedesco, il politologo marxista Wolfang Aberdroth ha scritto: “Tutta questa burocrazia sindacale e di partito non vive più per, ma del movimento operaio… (il quale) da leva per l’azione diventò per essi (i burocrati) inavvertitamente un fine a sé stante; nel loro pensiero fine e mezzo si scambiarono di posto. A questo gruppo cominciò a sembrare sospetta ogni attività delle masse che superava i ‘limiti legali’ e rischiava di mettere in pericolo la legalità del partito o persino solo di mettere in discussione la vecchia routine”. Il grande partito di massa può comunque contare su una fedeltà quasi assoluta dei suoi aderenti e, per i contenuti e gli obiettivi che esprime, risulta essere portatore di una globalità che altrimenti non sarebbe conseguibile. A lungo andare, però, sia in regime socialista che in regime capitalista, esso ha subito un processo di degenerazione. Nel socialismo reale si è immedesimato nello Stato trasformandosi in molòc, nell’Occidente democratico si è integrato sempre più nel sistema e le sue componenti parlamentari e dirigenziali sono diventate una casta. La crisi della delega ha investito non solo le istituzioni rappresentative, ma anche i partiti, soprattutto quelli che fanno riferimento al movimento operaio, i quali sono nati con il proposito di realizzare lo sviluppo massimo della democrazia. Di fronte a un tale processo degenerativo, diversi politici e studiosi sono andati alla riscoperta dei sacri testi per rintracciare nel pensiero dei padri del socialismo scientifico una teoria del partito e quindi porre rimedio alla deriva. Si è trattato, però, di uno sforzo che non ha trovato soddisfazione, perché né Marx né Engels hanno fornito alcuna ricetta al riguardo. Nelle loro elaborazioni si trovano solo considerazioni sparse su ciò che deve o non deve essere un’organizzazione del proletariato. In esse sono addirittura assenti teorie sul concetto di classe e sull’organizzazione sindacale. E anche laddove Marx tratta del partito, mentre in alcuni scritti esso viene confuso con la coscienza di classe delle masse, in altri è inteso come il centro di organizzazione, di direzione e di educazione del proletariato; in altri ancora viene interpretato come libera associazione dei suoi membri e determinato soprattutto dalla forma delle istituzioni esistenti nella società. Ciò che appare espresso in modo chiaro, è il concetto che se la classe operaia vuole liberarsi dello stato di subordinazione in cui si trova, liberando con sé l’intera umanità, deve necessariamente organizzarsi in partito politico. Nulla di più. I padri del socialismo scientifico si sono semmai preoccupati di chiarire che nell’organizzazione politica e sindacale dei lavoratori non può essere tollerata la presenza di nessuna forma di cesarismo e di cospirazione segreta. Nei confronti degli atteggiamenti di capo carismatico assunti da Ferdinand Lassalle, per esempio, Marx ha espresso nient’altro che vivaci polemiche. E si è mostrato profondamente indignato dello “spirito putrido”, della superficialità intellettuale e dell’attitudine all’opportunismo e al facile revisionismo, che regnava nei capi di partito del suo tempo. Nel 1874 a un amico ha scritto: “Il compromesso coi lassalliani ha portato al compromesso con altre mediocrità, a Berlino con Duhring e i suoi ‘ammiratori’ e inoltre con tutta una banda di studenti immaturi e di sapientissimi dottori che vogliono dare al socialismo un indirizzo ‘ideale superiore’, cioè vogliono sostituire alla base materialistica (che, se si vuole operare su essa, esige un serio studio oggettivo) una mitologia moderna con le sue idee di giustizia, libertà, eguaglianza e fraternità”. Da parte sua, Engels si è limitato a definire il partito proletario “quella parte della classe operaia che è giunta alla coscienza degli interessi comuni della classe”. Anche nei suoi scritti il tema dell’organizzazione politica viene affrontato in modo generico e frammentario. In una lettera a Bebel, a riguardo del regime interno di censura che era in uso nelle stesse organizzazioni proletarie 611
del tempo, pure lui mostra riluttanza verso i capi. “Nessun partito – scrive – in qualunque paese mi può far tacere, quando ho deciso di parlare... Voi – il partito – avete bisogno della scienza socialista, e questa non può vivere senza libertà di movimento”. Nella loro teoria della rivoluzione sembra dunque non esserci necessità e neppure spazio per i dettagli sull’organizzazione politica. Essi hanno solo precisato che condizione del cambiamento è il superamento della politica e che questo passaggio implica automaticamente il trapasso del partito stesso. Difatti, Marx ravvisa nella rivoluzione francese il momento supremo dell’illusione e della superstizione politica, considerandola l’ultimo tentativo possibile per emancipare l’uomo attraverso la politica. Ciò che, invece, egli non ha mai asserito è che la coscienza di classe del proletariato possa essere conseguita solo attraverso il programma e l’azione del partito. Il vuoto di teoria sul partito che si riscontra nel pensiero dei padri del socialismo ha fatto sì che in tutto il periodo della 2a Internazionale prevalesse la concezione evolutiva del passaggio dal capitalismo al socialismo, e l’elemento soggettivo, cioè il partito come forza dirigente, venisse abbondantemente sottovalutato. A mettere in campo una teoria del partito è stato Lenin, agli inizi del ‘900. La sua idea di organizzazione è riassunta nel “Che fare?”, ma si esplicita anche in altri scritti. Ne “I compiti urgenti del nostro movimento” egli scrive: “Nessuna classe della storia ha conquistato il potere senza esprimere dei propri capi politici, dei propri rappresentanti d’avanguardia capaci di organizzare e dirigere il movimento”. Egli è convinto che la classe operaia sia per sua natura tradeunionista, perciò occorre mettere in campo un’avanguardia per farle acquisire la coscienza socialista. “Il compito della socialdemocrazia – precisa – è di introdurre nel proletariato la coscienza della sua situazione e della sua missione”. Secondo la sua concezione, il partito è composto dagli elementi politicamente maturi e lungimiranti del proletariato e loro compito è di formare la massa arretrata al fine di farle conseguire autonomia politica e trasformarla in “combattente d’avanguardia per la democrazia”. E’ da considerare che la teoria leniniana del partito è profondamente influenzata dall’arretratezza della società russa di quel tempo e dalla condizione di illegalità nella quale erano costretti a muoversi i rivoluzionari. Le masse proletarie non potevano che assolvere un ruolo di truppa ed eseguire gli ordini dei capi senza discutere. Il partito leninista è regolato dal centralismo democratico: il momento centralistico assicura una direzione unitaria del partito e impegna ogni militante alla realizzazione della linea e degli obiettivi stabiliti; il momento democratico consente a ogni aderente di partecipare alla formazione delle decisioni attraverso un libero confronto che si conclude con l’adozione della linea sostenuta dalla maggioranza. I suoi principi chiave sono la subordinazione della minoranza alla maggioranza, il diritto di cooptazione nella costruzione degli apparati e l’unità dall’alto verso il basso. Lenin ritiene che la lotta tra opinioni diverse sia “inevitabile e necessaria, finché non porta all’anarchia e alla scissione”. Ritiene che il comunista debba considerare l’attività rivoluzionaria una professione e debba essere un intellettuale-scienziato che sa agire e dirigere le masse. E poiché il militante deve essere impegnato in maniera totalizzante, considera compito del partito quello di “preparare uomini che consacrino alla rivoluzione non solo le sere libere, ma tutta la loro vita; bisogna approntare un’organizzazione tanto forte che in essa si possa attuare una rigida divisione del lavoro fra i vari aspetti della nostra attività”. In polemica con Martov, che della militanza aveva una concezione più larga, ha sentenziato: “E’ molto meglio non dare il diritto di chiamarsi membro del partito a dieci persone che effettivamente lavorano per esso che darlo a una sola persona che sia semplice ripetitore delle sue parole d’ordine”. Nella concezione leniniana il militante finisce per essere relegato a un ruolo esecutivo il cui senso risiede nel fatto che è dedicato alla causa, mentre il partito diviene il portatore di una coscienza rivoluzionaria astrattamente sovrapposta alla classe, cioè soggetto di una delega che diventa difficile contestare. Non è un caso che Lenin abbia mai lasciato spazio alla problematica della 612
cosiddetta prefigurazione della società futura, che in Marx significa liberazione dell’individuo da ogni costrizione autoritaria, giacché l’ha considerava una metodologia intrisa di idealismo. Di fronte alle critiche al carattere centralistico dell’organizzazione e alla sua inevitabile burocratizzazione, provenienti dalla stessa base del partito, Lenin ha sempre tacciato i contestatori di idealismo e individualismo e anche di avere un atteggiamento controrivoluzionario. A osteggiare le sue tesi non sono stati i soli Plechanov, Martov, i menscevichi, i quali intendevano costruire il partito dal basso in alto, e i “marxisti legali”, ma alcuni stessi bolscevichi. Già nel 1904, ne “I nostri compiti politici”, Trotzkij profetizzava che i metodi di Lenin avrebbero portato a una situazione in cui l’apparato si sarebbe sostituito al partito, il comitato centrale all’organizzazione di partito e, infine, un ‘dittatore’ avrebbe soppiantato lo stesso comitato centrale. A manifestare dissensi e contrarietà al modello leninista di partito e a mettere in campo concezioni e pratiche alternative ci hanno provato anche alcuni esponenti di sinistra del marxismo occidentale tra i quali ha primeggiato Rosa Luxemburg. La rivoluzionaria polacco-tedesca ha criticato il Lenin del “Che fare?” e di “Un passo avanti e due indietro” sostenendo che la sua era una teoria blanquista e non marxista. Gli ha rimproverato “la tendenza a sopravvalutare l’organizzazione che, a poco a poco, da mezzo in vista di un fine si muta in un fine in se stesso”. La Luxemburg riteneva che il partito può aiutare la maturazione politica delle masse, ma non può assolutamente sostituirsi ad esse. “I passi falsi che compie un reale movimento operaio rivoluzionario – ha scritto – sono sul piano storico, incommensurabilmente più fecondi e più preziosi dell’infallibilità del miglior comitato centrale”. A suo avviso, il ruolo dei cosiddetti “capi” deve essere quello di illuminare le masse sui loro compiti storici, perciò la tendenza dominante deve essere “l’abolizione dei capi”. Anche Gyorgy Lukàcs e Antonio Gramsci, pur ritenendo il pensiero leniniano una pietra miliare della storia del movimento comunista, sulla questione del partito hanno formulato teorie e tracciato itinerari che mettono in discussione il carattere centralista che esso ha assunto con l’esperienza dei bolscevichi. Queste critiche e opposizioni non hanno però impedito che nel pensiero e nella pratica del movimento comunista trionfasse la teoria leniniana del partito. Ritengo doveroso ricordare che finché il partito bolscevico è stato diretto da Lenin, il dibattito in seno all’organizzazione è stato esercitato liberamente e pubblicamente da tutti gli iscritti, mentre la critica ai dirigenti ha potuto essere espressa sempre senza alcun vincolo. Non solo “il vecchio” ha giustificato la presenza delle frazioni, ma ha addirittura teorizzato l’omogeneità di pensiero dei loro componenti. Le cose sono cambiate con la gestione di Stalin. Questi, infatti, ha mostrato di avere una concezione del partito ancora più chiusa e monolitica, fino al punto di farlo diventare monocefalo. La divisione dell’organizzazione in maggioranza e minoranza è stata abolita e il compito di pensare e decidere per tutti è stato affidato a uno solo: a lui. L’eredità della concezione leniniana e staliniana del partito ha pesato enormemente sul movimento comunista, e di riflesso sull’intero movimento operaio. E’ stata come un fardello di cui è ancor oggi difficile disfarsene in via definitiva. Dopo la morte di Stalin ci sono stati due tentativi di superare la tradizionale forma partito attraverso un nuovo rapporto avanguardia-massa: uno è rappresentato dalla rivoluzione culturale cinese, l’atro dalla contestazione studentesca e operaia del ’68-69; ambedue i tentativi, però, sono falliti nel loro intento. Qualsiasi forma di revisionismo, dall’eurocomunismo al post-comunismo, non ha saputo o voluto disfarsi del centralismo democratico-burocratico, tant’è che tutt’oggi, seppure denominato in modo diverso, esso resta nella sostanza il criterio regolatore della vita di ogni formazione politica di sinistra. Le uniche alternative ad esso sono rappresentate dai partiti e dai movimenti di gestione padronale i quali ripudiano qualsiasi forma di democrazia. Così come continuano a sopravvivere ovunque, come se fossero leggi di natura, la separazione tra il partito-avanguardia e la massa elettorale e la divisione dei ruoli tra dirigenti e diretti.
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20.2 – La singolarità del Partito comunista italiano Il Partito comunista italiano è stato oggetto di grande attenzione da parte di politici e storici italiani e stranieri. Su di esso sono stati scritti fiumi di parole ed espressi giudizi di ogni genere. C’è stato chi l’ha avuto in orrore, e sono i più, e chi invece l’ha blandito acriticamente; solo in pochi hanno saputo valutare le sue peculiarità e il suo ruolo storico con obiettività. A venire meno al criterio dell’imparzialità e del rigore analitico non sono stati solo i suoi “nemici”, i quali per combatterlo sono sistematicamente ricorsi alla denigrazione, bensì anche uomini di cultura e di pensiero democratico ritenuti dall’opinione pubblica campioni di sapienza e saggezza. Per citarne alcuni, ai tempi della caduta del “muro di Berlino”, il filosofo Massimo Cacciari scriveva che quello del Pci è stato “un senso comune rivoluzionario che non ha assolutamente nulla a che fare con il marxismo come scienza. Né tanto meno si può notare, nella storia culturale dei gruppi dirigenti, un riferimento sostanziale alla tradizione marxista, propriamente intesa”. L’illustre studioso di scienze politiche, Giovanni Sartori, ha sostenuto che il partito del “Migliore” era “spietato cinismo di potere nei vertici e un partito di ideologia (non di ideale) nel suo apparato”. E che all’Istituto di Studi comunisti di Frattocchie i quadri venivano addestrati al “killeraggio ideologico” (io sarei uno di loro). Lo storico e giornalista Ernesto Galli Della Loggia ha sentenziato che la natura più intima, il carattere e la storia del Pci hanno rappresentato “un ostacolo formidabile per lo sviluppo democratico dell’Italia”. Se si pensa che questi manipolatori di storia sono facitori del senso comune e concorrono a formare il fior-fiore dell’intellettualità dominante, si comprende facilmente dove risiedono le cause del degrado culturale che sta investendo la nostra società. La verità è che il Pci è stato un partito diverso dagli altri, non solo dai partiti socialdemocratici e borghesi, ma dagli stessi partiti comunisti di tutto il mondo, e se si è onesti e obiettivi nel giudizio, accanto agli aspetti critici che certamente non mancano, torna doveroso tener conto del ruolo positivo che esso ha svolto nel processo di emancipazione delle classi subalterne. Oltre ad aver portato nell’arena politica milioni di uomini e di donne insegnando loro a non togliersi il cappello davanti ai “padroni” e a essere protagonisti del proprio destino, ha cambiato il dna del movimento operaio italiano sconfiggendo il massimalismo e dando corso a un originale pragmatismo progettuale. Esso ha costituito un patrimonio di lotta e di idee non solo per il movimento operaio, ma per l’intero Paese, giacché la libertà conquistata con la sconfitta del nazifascismo è costata ai comunisti vite umane, sacrifici e discriminazioni in misura maggiore di qualsiasi altra formazione. E il contributo che essi hanno dato alla costituzione della Repubblica è stato determinante. Per tutta un’epoca il Pci è poi stato sinonimo di correttezza nell’opera di amministrazione delle realtà locali, studiato e imitato persino dai liberisti americani, e i suoi amministratori locali si sono contraddistinti sia per il disinteresse personale sia per lo spirito di sacrificio e di servizio offerto alla collettività. Qualità queste, che sono risultate sconosciute alla maggioranza delle altre forze politiche e che di certo non appartengono alla più parte dell’odierna classe politica. Non va dimenticato che se il nostro Paese ha conosciuto uno sviluppo democratico, civile, sociale ed economico tra i più sorprendenti a livello mondiale, questo non è merito esclusivo del capitalismo e delle sue espressioni politico-governative, ma anche e soprattutto di quella massa di lavoratori e di cittadini che lo hanno reso materialmente possibile con la loro fatica e intelligenza e molti dei quali hanno fatto propria la causa del socialismo e del comunismo. Ha giustamente rilevato Rossana Rossanda, nei giorni in cui il Partito comunista italiano si stava autosciogliendo, che “il Pci è stato una grande forza politica popolare fondata sul principio d’un contrasto di interessi fra capitale e salariati, e decisa a difendere questi ultimi rappresentandoli nella sfera politica e contrattandone i diritti col metodo della lotta di massa e della competizione parlamentare”, e ha ricordato che per questo è diventato “il più grosso e combattivo dei partiti riformisti europei”.
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Quando gli avversari fanno i conti con la storia dei comunisti italiani non mancano mai di concentrare la loro critica sulla dipendenza del Pci dall’Urss e sulla “doppiezza togliattiana”. E nel farlo, trascurano scientemente aspetti storici che pure devono essere presi in considerazione se si vuole esprimere un giudizio equanime. Quella che i critici chiamano “obbedienza all’Urss”, non può affatto significare sudditanza del Pci alle direttive del Cremlino, perché di fatto l’atteggiamento dei comunisti italiani verso i Paesi del socialismo reale è stato il prodotto di uno stretto legame di solidarietà internazionale in un clima di guerra “calda” e “fredda”, comunque caratterizzato da un rapporto critico e da un’accentuata autonomia d’azione. A mostrare subalternità verso governi stranieri sono stati semmai proprio quei politici che hanno fatto loro la “conventio ad excludendum”. Di fatto, le scelte politiche compiute dal Pci, non solo durante il periodo dell’eurocomunismo, ma già a partire dal “memoriale di Yalta” di Togliatti, hanno incontrato molto spesso nelle dirigenze del Cremlino disaccordo o non consenso e sono state anche motivo di aspre polemiche. Coloro che insistono sui finanziamenti che l’Unione Sovietica ha garantito per anni ai comunisti italiani, dimenticano con malizia che il fronte dell’anticomunismo italiano, dalle forze politiche di destra a quelle di centrosinistra, oltre ad aver depredato il “palazzo”, è stato abbondantemente foraggiato dagli “amici” occidentali proprio per impedire che i “rossi” guadagnassero consensi. Ai tempi della “guerra fredda” le regole del gioco erano spietate, e non certo per colpa dei comunisti, e a chi non era disposto a soccombere non restava che adeguarvisi. Questi critici non tengono poi conto che se in Italia c’è stato un partito che ha messo a disposizione degli storici e degli specialisti i propri archivi, questo è il Pci, mentre nessun altro si è sentito in dovere di farlo. Se si vuole giudicare il Partito comunista italiano, non si può mettere a fuoco solo la parte della sua storia che più si presta a essere interpretata negativamente, si devono invece fare i conti con ogni sua azione e quindi anche con l’indubbio contributo che esso ha dato al progresso democratico. Le ragioni della sua nascita, del suo travaglio e anche l’incessante processo di evoluzione che ha caratterizzato la sua esistenza non sono delle variabili indipendenti e non possono essere trascurate pena il cadere nella faziosità. E pure le sue scelte politiche e di vita interna vanno giudicate alla luce delle condizioni e degli avvenimenti storici dai quali non possono essere assolutamente dissociate. Nato come strumento di guerra sociale con l’obiettivo di “fare la rivoluzione”, il Pci è stato per i primi anni di vita un’organizzazione decisamente settaria e solo con la direzione di Gramsci si è aperto al confronto e all’azione unitaria. Costretto però subito alla clandestinità e perseguitato dal fascismo per più di un ventennio, ha dovuto lottare per la sopravvivenza e ha potuto riscattarsi democraticamente solo dopo la liberazione del Paese dall’orda nazista. Dopo aver contribuito alla stesura della Carta costituzionale repubblicana, seppure sia stato il principale artefice della lotta antifascista, è stato estromesso dal governo per mano della Democrazia cristiana, dietro ordine degli americani, e i suoi militanti sono stati sottoposti alle più odiose discriminazioni. Se in Italia c’è stata una formazione politica che ha mostrato compattezza e senso di responsabilità, anche in tragiche situazioni come quelle dell’attentato a Togliatti e delle persecuzioni poliziesche antioperaie di Scelba, questa è proprio il Partito comunista. E questo suo contegno è stato possibile grazie alla disciplina che vigeva nell’organizzazione e allo spirito democratico che ha animato non solo il suo gruppo dirigente ma la sua stessa base. Temprati dalla lotta antifascista e partigiana, i suoi dirigenti si sono dedicati all’attività politica con spirito di sacrificio e con una rettitudine di comportamenti da farsi apprezzare persino dai loro stessi avversari. Nel 1996, l’anticomunista per eccellenza, Indro Montanelli, ha osservato che “fra gli apparati (del Partito comunista) non c’erano lotte di potere: le impediva un rigoroso controllo che penetrava anche negli angoli più riposti della vita privata. Il personale del Pci era il più, anzi il solo animato da un autentico spirito di servizio”. E il sociologo Luca Ricolfi, nel 2008, ha scritto che “il militante comunista di un tempo aveva spesso enormi paraocchi, ma ancora più spesso era una persona animata da un’abnegazione e un disinteresse di cui non si vede traccia nel militantetipo dei giorni nostri”. E questa caratteristica è propria dei comunisti, e non solo di quelli italiani. 615
Fino alla fine degli anni ’60 i funzionari del Partito comunista italiano erano mal pagati e non tutti godevano dell’assicurazione previdenziale. Ha ricordato ancora Rossana Rossanda nei primi anni ’90: “Noi eravamo un partito assai pesante, senza finanziamenti dello Stato. Ma da noi c’era il lavoro volontario, comunitario. In una sezione si faceva cultura, alfabetizzazione; si organizzavano gli inquilini. Dopo venivano anche gli scioperi o le elezioni”. “Entrare nel partito – ha raccontato Vittorio Vidali – era per noi come fare un voto, entrare in una setta piena di mistero, di purezza, di luminosità”. Dal militante il partito era vissuto come un esempio di società giusta e trovava in esso la sua ragion d’essere. Con esso si immedesimava e per la sua causa era disposto a tutto. Dedicava il suo tempo libero alla campagna di tesseramento e reclutamento, alla distribuzione degli opuscoli propagandistici, alla diffusione de “l’Unità”, all’organizzazione dei festival. Sui luoghi di lavoro si batteva per il rispetto dei diritti sindacali e della dignità dell’uomo. Partecipava alle riunioni, non solo per ascoltare il dirigente, ma anche per esprimere il proprio giudizio il quale, attraverso il centralismo democratico, concorreva alla formazione delle decisioni. Alla scuola di partito non si apprendeva solo la linea politica, ma ci si arricchiva culturalmente e si affinava lo spirito critico e autocritico. Il Partito comunista, in sostanza, è stato una scuola di realismo, una fucina di straordinario volontariato e di associazionismo militante. Questo almeno fino ai primi anni ’70. Dopo di che, il clima nel partito ha incominciato a mutare e la sua “diversità” si è ridotta alla qualità morale nel governare l’esistente. L’apparato si è progressivamente distaccato dalla base sociale tendendo a diventare una forza elettorale piuttosto che militante; si è posto l’obiettivo della conquista del consenso invece del protagonismo sociale e della costruzione dell’alternativa. La storica presenza organizzata sui luoghi di lavoro è venuta via via scemando e la forma organizzativa prevalente è diventata la sezione territoriale in funzione del ruolo istituzionale. Il progetto di cambiamento è stato sostituito dalla ricerca dei modi per arrivare al governo, lo spirito rivoluzionario ha lasciato il posto alla pratica riformista e l’intera attività politica si è appiattita nei palazzi del potere. I temi cruciali che la riflessione gramsciana aveva messo al primo posto, quelli cioè della rivoluzione in Occidente, della strategia consiliare e della riforma intellettuale e morale, sono spariti dall’agenda politica divenendo semplice oggetto di interesse storico-culturale. E’ pur vero che già Togliatti, nel dare vita al “partito nuovo”, aveva mediato l’eredità del Gramsci maturo con la concezione leninista del partito e che sul piano strategico aveva subordinato la conquista delle “casematte” a quella del potere politico. Era però ferma in lui la convinzione che la realizzazione del socialismo sarebbe stata possibile solo con la messa in campo di un grande partito di massa, composto da individui operanti e pensanti, non semplice gregge da comizi, la cui azione doveva esplicarsi in ogni ambito della società. Non per caso uno dei suoi capolavori è consistito proprio nella costruzione del più grande partito comunista dell’Occidente. Con la riduzione della lotta politica all’assalto delle istituzioni, il partito di massa è divenuto un obiettivo superfluo. La delega è apparsa più congeniale della partecipazione e del protagonismo di base. La doppiezza costituita dalla convivenza nel partito della cultura leninista con la cultura gramsciana si è così venuta gradatamente sciogliendo e il Pci ha subito un vero e proprio mutamento antropologico. Come ha scritto Luciano Gruppi, “sotto la nozione di laicità è passata molta merce di contrabbando. Si è confusa l’affermazione del carattere programmatico del partito con una sorta di indifferenza teorico-culturale, con il prevalere di un praticismo più o meno alla giornata”. Mentre Gramsci aveva concepito la lotta per il socialismo come un salto di qualità, come rovesciamento della storia ad opera dell’uomo stesso, il piatto pragmatismo del Pci preautoscioglimento ha reso dirigenti e militanti prigionieri del gioco politico. Se per Gramsci il fine della vita politica era l’etica, per l’esponente della sinistra “moderna” la questione morale è apparsa roba da asceti. Se dunque si mette sotto analisi critica l’intera storia del Pci, nell’intento di comprendere le cause che hanno portato all’esaurimento della sua funzione storica, ci si accorge che esso non è stato affatto immune da errori e da incoerenze e che parecchi sono gli aspetti problematici che hanno 616
contraddistinto la sua esistenza. I padri del socialismo scientifico, e Gramsci con loro, avevano elaborato una teoria che era antidogmatica, antireligiosa e antieroica per eccellenza. L’esperienza storica del movimento operaio e della sinistra, invece, ha partorito la tendenza all’assunzione dogmatica e non dialettica dei principi e delle strategie del movimento, ha premiato il pragmatismo, ha conosciuto l’esaltazione dei “capi” fino alla loro divinizzazione. Nello stesso Pci, almeno fino agli anni ’70, la dottrina politica veniva intesa da molti come un articolo di fede e il legame tra il militante e il dirigente ha spesso assunto un carattere religioso. Poiché si diventa comunisti per protesta e raramente per convinzione delle teorie che stanno alla base di tale appartenenza, compito del partito avrebbe dovuto essere quello di educare ogni militante all’apprendimento e all’accumulo di sapere, all’autodeterminazione, ma ciò è risultato un’operazione assai difficile per quei tempi da coinvolgere l’intera massa degli aderenti. E la fragilità di formazione che si è determinata è una delle cause del mutamento involutivo che poi è avvenuto. Si è cioè registrato quel fenomeno che è caratteristico della comunità cristiana: più che l’amore e il rispetto per il prossimo, a caratterizzare i loro riti di fede e la loro assiduità nel proclamare la loro appartenenza è l’egoistico miraggio del premio eterno. Fino a che il partito è stato in vita, sono esistiti i “satrapi” la cui funzione non ha mai subito alcuna censura da parte delle massime dirigenze. L’“intellettuale collettivo” di togliattiana memoria è risultato essere un obiettivo mai completamente realizzato. E’ di qualche tempo fa l’affermazione di Claudio Petruccioli secondo cui “in una struttura a centralismo democratico l’opinione della base degli iscritti conta poco, decidono i gruppi dirigenti”, e dal momento che è stato uno degli esponenti più influenti dell’ultima stagione, non c’è motivo di non credere che questo sia stata la concezione e la prassi del gruppo dirigente dell’epoca. A Petruccioli si può semmai far osservare che quel centralismo cui lui fa riferimento non era democratico, ma burocratico. Si è spesso condannato ufficialmente Stalin per aver incoraggiato la diffusione del culto della personalità, eppure anche nel Pci il narcisismo non ha avuto limiti, tant’è che esso continua a vivere in gran parte degli esponenti postcomunisti. Alla crescita dello spirito critico e dell’autonomia di pensiero del militante, i nuovi gruppi dirigenti hanno preferito dare spazio alla cortigianeria e alla piaggeria. Dopo il crollo del socialismo reale, il Pci avrebbe potuto compiere la scelta di un rinnovamento nell’ispirazione dei padri del socialismo, ma invece ha scelto la strada più semplice e più comoda della totale integrazione nel sistema. Del resto, già da tempo aveva completato il suo processo involutivo. Emanuele Macaluso ha sostenuto che il Pci era morto già nell’estate del 1984, insieme a Enrico Berlinguer, sul palco del comizio in piazza a Padova. Quando ha inizio la crisi del sistema politico italiano, sul suo gruppo dirigente si fanno sempre più intense le pressioni per una definitiva rottura con il passato: da Scalfari a Flores d’Arcais gli appelli alla sua socialdemocratizzazione sono quotidiani. La vecchia guardia è ormai emarginalizzata e anche quel che resta di essa non ha più né la forza né la lucidità per tenere viva la memoria storica. Il suo nuovo ceto intellettuale si compiace di essere deideologizzato, come riferimento non ha più Marx e i padri del socialismo, ma i teorici della liberaldemocrazia, e sul piano della manovra politica ha fatto suo il principio machiavellico del fine che giustifica i mezzi. Così quel potenziale che per tutta una fase storica ha combattuto in nome e per conto dalla classe operaia e popolare, si è dissolto nel magma della società postmoderna consegnando il proprio destino nelle mani di politicanti senza né parte né scrupoli. 20.3 – L’involuzione politico-organizzativa della sinistra Ad alcuni dibattiti con dirigenti di partito, mi è capitato spesso di sentirmi dire che solo le “anime belle” si lamentano dell’amoralismo che si registra negli ambienti politici. I miei interlocutori giustificavano questa loro affermazione con la tesi secondo cui nell’arte del governare sono da mettere necessariamente in conto (vale a dire sono da considerarsi leciti, anzi inevitabili) anche 617
comportamenti non del tutto onesti. “Fare politica” esigerebbe dunque, secondo non pochi dirigenti di partito, possedere la “virtù” della scaltrezza prima ancora che quella del galantomismo. E’ questa un principio che non solo contraddice il pensiero dei padri del socialismo, ma induce a sottovalutare i danni che una simile trascuranza di valori è destinata a produrre nel tessuto della società. Poiché il divorzio tra cittadini e politici sta ormai caratterizzando tutti i sistemi fondati sulla democrazia rappresentativa, appare evidente che la stessa sinistra ha la responsabilità di non aver saputo prospettare un modello di partecipazione superiore e di aver tollerato troppo a lungo un allentamento del rigore morale nell’azione sociale e negli stessi rapporti di vita interna alle proprie organizzazioni, al punto che la corruzione ha investito non pochi dei suoi stessi esponenti. Siamo ormai giunti al punto in cui controbattere il diffuso odioso convincimento secondo cui nei confronti dei politici, di tutti i politici senza alcuna distinzione di appartenenza, non si è mai troppo diffidenti, è divenuto un’impresa titanica. Il dilagare del qualunquismo ne rappresenta del resto una chiara testimonianza. Ho già detto della crisi di rappresentanza, però vale la pena di ritornare sull’argomento. I più recenti sondaggi condotti nel nostro Paese ci dicono che la stima dei cittadini nei confronti dei partiti è precipitata paurosamente, attestandosi tra il 5 e l’8% degli interpellati. Sommate tra loro, le persone che dichiarano di avere un orientamento di sinistra e di centrosinistra non superano il 30% dell’intero elettorato, mentre quasi il 40% non si sentono rappresentate da nessuna formazione politica. I giudizi sulle compagini governative sono da tempo negativi risultando decisamente minoritari. Gli iscritti ai partiti sono sempre meno. Prima della crisi del sistema politico, alla fine degli anni ’80, erano all’incirca 5 milioni gli italiani che avevano in tasca la tessera di un partito, dopo di allora le adesioni hanno incominciato a flettere precipitosamente. Lo stesso Pd, dagli iniziali 800 mila iscritti è sceso in poco tempo a 250 mila, e ha dovuto ammettere che nei calcoli erano incluse anche tessere false. Non va dimenticato che ci sono stati anni in cui il Pci e la Fgci contavano sull’adesione di oltre due milioni e mezzo di persone. Il calo di attrazione della militanza di sinistra che si è riscontrato in questi decenni la dice lunga sulla supposta bontà del modernismo politico. La flessione degli iscritti è determinata da una crisi d’identità che investe sia le vecchie che le nuove generazioni; queste ultime, anzi, mandano da tempo vistosi e inequivocabili segnali di riluttanza all’impegno politico che dovrebbero far riflettere. Diverse ricerche hanno dimostrato che tra i giovanissimi l’interesse per i partiti è ridotto al lumicino e oltre il 90% di loro non si fidano dei politici e si dichiarano scarsamente interessati a partecipare alle competizioni elettorali. La fiducia dello stesso proletariato nei confronti dei partiti della sinistra e del movimento sindacale è venuta meno. Si tratta di una disaffezione che è causata anzitutto dalla straordinaria capacità del sistema di integrare le classi subalterne, ma è anche dovuta all’incoerenza politica e rivendicativa dei vertici e allo svuotamento di valori e di progetti di quei partiti che si rifanno al movimento dei lavoratori. La precarietà e la superficialità del legame tra la base e le dirigenze sono dovute proprio all’assenza o quanto meno alla caduta d’interesse per il confronto e lo scontro sui temi relativi alla visione del mondo e alle strategie di cambiamento. A fare da incentivo alla militanza è sempre più spesso la corsa alla carriera e alla carica pubblica. La stessa sinistra si dà ormai da fare soprattutto per strappare alle masse popolari il consenso elettorale e poco si preoccupa di renderle protagoniste delle scelte che intende compiere. Ha anche reso difficile per la base qualsiasi verifica sull’operato dei gruppi dirigenti e degli eletti e non si preoccupa di metterla al riparo dalle alienanti pratiche di istupidimento del sistema. Il fatto che l’astensionismo, aspetto su cui mi sono già soffermato, sia in progressiva espansione ad ogni appuntamento elettorale, costituisce la più eloquente testimonianza dell’allarmante perdita di fiducia nel sistema dei partiti da parte dei cittadini. Se si considera poi che tra le file di chi continua a militare politicamente è in rapida espansione la tendenza al più gretto gesuitismo, la prospettiva si presenta decisamente inquietante. Non ostante l’evidenza di tutti questi aspetti deleteri, la sinistra non sembra percepire la gravità della situazione. Avrebbe il dovere di interrogarsi a fondo sulle cause di una tale deriva, ma non dà 618
segno di sentirne il bisogno. Di fronte alle degenerazioni si comporta come lo struzzo, rivolge l’attenzione altrove come se nulla di insolito succedesse, o al massimo assume un atteggiamento di rassegnazione. In questi anni i partiti, compresi quelli di sinistra, hanno di fatto subito una profonda trasformazione. Da espressione della volontà popolare, come è tra l’altro previsto dalla Carta costituzionale, sono diventati dei veri e propri comitati elettorali il cui scopo principale è quello di andare a caccia di consensi attraverso l’esercizio del potere. E per rendere più efficace la loro azione hanno adottato metodi imprenditoriali sia nella gestione interna all’organizzazione che nei rapporti con la società. Il voto è diventato merce e la democrazia ne risulta vanificata. Si è a lungo criticato il sistema sovietico per il suo carattere onnivoro, eppure anche i partiti del cosiddetto “mondo libero” hanno teso incessantemente a dominare in ogni ambito sociale tendendo a “farsi Stato”. Si ha l’impressione che nemmeno si rendano conto che il progetto leninista della presa del potere politico da parte di un’avanguardia (ora non più rivoluzionaria, ma semplicemente istituzionale) è decretato morto dall’esperienza storica. Per contendersi il consenso popolare, i partiti si sono trasformati in mulini di parole. Molto spesso i loro leader chiacchierano su ciò di cui non hanno né conoscenza né competenza. Non intendendo scontentare nessuno, si sforzano di tenere insieme mercato e solidarietà, concorrenza e giustizia, privilegi e garanzie sociali. Ai loro congressi non presentano più il progetto di tesi e nemmeno un programma elaborato, ma si accontentano di semplici mozioni e di proclami. All’analisi e alla teoria dell’azione sociale preferiscono il sondaggio d’opinione; ricorrono all’ausilio degli specialisti per catturare il maggior consenso e mal sopportano la ricerca e l’indagine critica. In questi ultimi decenni sulla scena politica italiana sono comparsi il craxismo, il leghismo, il berlusconismo, il dipietrismo, il grillismo, tutti fenomeni che hanno messo a dura prova la sinistra, eppure i suoi gruppi dirigenti non hanno avvertito l’esigenza di dedicare a tali eventi un adeguato sforzo analitico al fine di comprenderne cause, natura ed effetti. L’incuria intellettuale e teorica è risultata essere tale da generare nello stesso centrosinistra un fenomeno assai simile: il renzismo. La politica è così diventata teatro e le sue modalità sono quelle dello slogan pubblicitario. Engels raccomandava ai proletari del suo tempo che “bisogna ristudiare tutta la storia, bisogna indagare nei particolari le condizioni di esistenza delle diverse formazioni sociali”, mente Lenin rivolgendosi ai bolscevichi ammoniva: “Commettereste un gravissimo errore se tentaste di trarre la conclusione che si può diventare comunisti senza impadronirsi di tutto ciò che il sapere umano ha accumulato”. Il sapere per i politici è diventato superfluo. Quando si tratta di comporre le liste dei candidati, le dirigenze della moderna sinistra vanno a caccia non degli esperti e delle persone colte e intelligenti, ma delle star dello spettacolo e dei campioni dello sport. E’ peraltro naturale che un partito che si accontenta di coltivare la modesta ambizione di gestire al meglio l’esistente, non avverta il bisogno di elaborare una teoria del cambiamento e perciò faccia a meno di persone con esperienza, inventiva e lungimiranza. Le nuove classi dirigenti prediligono ricorrere a maldestre pratiche di illusionismo politico, alimentando così il tanto vituperato populismo, e la sinistra si rivela non in grado di contrapporre alternative. Essendo legata alle convenienze elettorali, non può che avere anch’essa una visione “breve” delle cose; una miopia che provoca una desertificazione del futuro, poiché scarica le contraddizioni sociali (si pensi al debito pubblico, alla disoccupazione giovanile, all’ambiente) sulle spalle delle nuove generazioni. A dominare la vita interna dei partiti sono ormai gli opportunismi, i trasformismi, gli edonismi e i narcisismi. La competizione personale non incontra più alcun freno e a prevalere sono l’istinto del potere e le manovre di apparato. Il politico agisce nel senso di realizzare il proprio vantaggio, di assicurarsi la rielezione. Per far carriera è anche disposto a vendere la propria personalità e il proprio onore e dà sistematicamente segno di non voler scendere dal palcoscenico, se non quando vi è costretto a forza. Chi lo fa è considerato una mosca bianca. Mentre i governi svuotano il welfare, l’eletto del popolo continua a godere benefici e privilegi senza alcun pudore; non mostra senso di colpa, ma anzi quando viene criticato reagisce in modo 619
arrogante. Persino i moralizzatori di un tempo e gli ex rivoluzionari che sono rimasti nell’agone politico, di fronte alle critiche che provengono dalla società civile, recalcitrano. Per sedere sullo scanno tradiscono elettori e ideali. A sedici mesi dal voto politico del 2013, nel parlamento italiano hanno cambiato casacca ben 120 eletti, cioè il 13% del totale. E questa operazione collettiva di trasformismo è avvenuta nella generale indifferenza. Persino i militanti onesti della sinistra e del centro-sinistra sembra abbiano scordato che i carrieristi sono la morte di ogni progetto di cambiamento; non sanno neanche più riconoscerli e neutralizzarli. Di fronte ai vari leader della socialdemocrazia, come Tony Blair, Gerhard Schroder, Felipe Gonzalez, che dopo il loro mandato si sono messi al servizio del capitale accumulando un mucchio di soldi, il popolo di sinistra e progressista appare imbambolato. I tempi in cui i leader del movimento operaio vantavano dignità e coerenza, come ebbe a fare – ad esempio – il segretario del Pc spagnolo, Gerard Iglesias, che, giunto alla fine del suo mandato, ha rifiutato qualsiasi incarico istituzionale o collocazione professionale per ritornare tra i suoi compagni a fare il minatore, sono lontani al punto da essere persino svaniti nella memoria del militante di sinistra. Viviamo, ahimé, in un mondo in cui la corruzione, il clientelismo, il padrinaggio sono elementi costitutivi; e la sinistra, quando non si lascia invischiare nell’intrigo, non mostra il coraggio di ribellarsi e denunciare il malaffare che è ormai diffuso in ogni ambito sociale, diventando così complice di un imperdonabile degrado. Come ammonisce Vittorino Andreoli, nella nostra società si è insinuato un virus: la “menzogna collettiva”, quella appunto che viene raccontata dal potere stesso e a questa situazione sembrano adattarsi anche i compagni. Nell’intento di apparire più trasparenti e democratici dei loro avversari e desiderosi di recuperare credibilità, i post-comunisti hanno persino inventato le “primarie”, il cui unico effetto è quello di esaltare il narcisismo e di restringere ulteriormente il confronto sui contenuti programmatici. Insomma, l’ambiente politico si rivela seriamente malato, anziché rappresentare il luogo dell’emancipazione umana, appare ridotto a un vero e proprio mercato del potere, a un laboratorio del darwinismo più spietato, a un palcoscenico delle ambizioni e delle vanità. A prevalere è la manipolazione mediatica; la politica è divenuta oggetto che si può vendere in franchising. La democrazia rappresentativa sembra così essere giunta al capolinea. Ad alimentare questo sospetto contribuisce anche il fatto che da qualche tempo a dirigere la “stanza dei bottoni” vengono designati non più i politici democraticamente scelti, ma i “tecnici”. A Palazzo Chigi non si è trovato di meglio che insediare un sindaco guascone, non già un parlamentare, e questa novità è un’altra eloquente testimonianza del processo di degrado che sta investendo il sistema della rappresentanza politica. L’atteggiamento critico verso i governanti e i partiti non è certo una novità. Già duemila anni fa circa Plutarco definiva la politica area di caccia, o “pascolo di bestie senza ragione”. Rousseau sosteneva che la condizione perché la volontà popolare si possa affermare è che non ci siano di mezzo i partiti. Saint-Simon paragonava il valore dei ministri di Stato a quello dei garzoni. Weber e Michels consideravano i partiti delle macchine burocratizzate la cui funzione è quella di distribuire cariche. Simon Weil li accusava di asservire ogni loro iscritto. E persino Lenin ha speso parte delle sue energie per combattere e scongiurare le perversioni insite nella delega. Tra la critica dei tempi passati e quella di oggi c’è però una differenza sostanziale: mentre le preoccupazioni, le previsioni e le riserve dei pensatori del passato erano frutto di constatazioni parziali e soprattutto dell’intuizione, lo scetticismo e l’atteggiamento critico di oggi fondano su un abbondante riscontro dei fatti. Così come accade per tutte le cose di questo mondo, anche i sistemi politici sono destinati a invecchiare e in forza dei mutamenti strutturali esauriscono la loro storica funzione. L’onda lunga del suffragio universale ha portato con sé la crisi della politica e ha messo a nudo l’inadeguatezza del sistema della deputazione. In questi ultimi tempi, la società ha conosciuto un grande progresso economico, tecnologico e culturale che ha stravolto non solo usanze e abitudini, ma anche la scala di valori e la cognizione di spazio e di tempo. La politica, i cui movimenti sono per tradizione lenti, avrebbe dovuto rinnovarsi 620
e avere il coraggio di andare oltre il sistema della delega. Ancorata agli schemi ottocenteschi, è risultata invece ancor più soggetta al dominio dell’economia e della finanza e con l’accelerazione delle comunicazioni il suo rapporto con la società è stato investito da una crisi che appare irreversibile. A fronte del protagonismo sociale indotto dal capitalismo, rispetto al passato, i governati si ritrovano in una condizione di maggiore subalternità nei confronti dei governanti. La vita interna alle organizzazioni politiche è rimasta vincolata al sistema di comando piramidale e il militante fa solo opinione. In sostanza, tra le aspettative e la quotidianità sociale degli individui e il mondo dei partiti è intervenuta una profonda discrepanza. La politica è stata e resta ancor oggi una tra le attività più complesse che l’uomo è chiamato a svolgere. Suo compito è quello di conciliare interessi tra loro contrapposti e assicurare la convivenza tra gli individui mentre le disuguaglianze crescono, perciò a coloro che se ne fanno carico sono richiesti conoscenza, competenza, intelligenza, rigore morale, disponibilità al dialogo e al confronto. Ebbene, nel torno di quest’ultimo ventennio, in Italia, nell’arena politica sono entrati anche “cani e porci”, cioè personaggi tronfi e senza scrupoli e a prevalere sullo spirito innovatore sono state l’ignoranza, la presunzione e la conservazione. Mentre al tornitore o al barbiere, per esercitare la loro professione, è richiesto un diploma di specializzazione, al politico basta la scaltrezza del farsi eleggere per poter governare la comunità. A questo processo degenerativo la sinistra non ha saputo far fronte, anzi, da esso è stata travolta. Alla cosiddetta “crisi delle ideologie” avrebbe dovuto contrapporre un pensiero nuovo, invece è stata essa stressa contagiata dal “pensiero debole”; avrebbe dovuto rispondere con l’analisi sociale e l’elaborazione politica, si è invece rifugiata nella palude del pragmatismo. Si è innamorata del mercato e non ha voluto prendere atto che l’economia, essendo intrinsecamente antipolitica, non ha morale. Nonostante fosse stata avvertita dagli stessi padri del socialismo, non ha voluto tener conto che con il dominio della merce il cittadino viene trasformato in semplice consumatore. Di più, ha cancellato dalla sua memoria il travaglio, le sofferenze, le rinunce cui hanno fatto fronte i pionieri dell’organizzazione operaia, i quali erano costretti a misurarsi, da un lato, con gli impietosi nemici del movimento e, dall’altro, con le incertezze, le remore, le resistenze dei loro simili, soggiogati dai poteri costituiti e dal retaggio dell’ignoranza e delle vecchie tradizioni. L’opera dei pionieri del socialismo è stata possibile solo a condizione di enormi sacrifici e se noi viviamo in condizioni migliori è grazie anche a loro. Il nuovo leader del centro sinistra, Renzi, nel farsi largo tra postcomunisti e postdemocristiani, ha sostenuto che bisogna “mandare in soffitta il vecchio socialismo ed essere finalmente di sinistra”. Già il fatto che a dare lezioni di socialismo e di sinistra, sia un boy scout allevato negli incubatori democristiani, dovrebbe far rabbrividire chiunque abbia un po’ di memoria della storia d’Italia del dopoguerra. Ma che la sinistra possa essere scorporata dal socialismo o addirittura lo possa rinnegare è una vera e propria assurdità. Chi conosce le tradizioni del movimento operaio sa che nessun suo dirigente non ha mai rinnegato le sue origini, che gli stessi padri del socialismo scientifico hanno criticato gli utopisti correggendo le loro elaborazioni, si sono scontrati con gli anarchici e con i massimalisti, ma non hanno mai ripudiato il rapporto solidale con loro. La forza della sinistra e il suo prestigio sono anche il prodotto dell’eredità delle vecchie generazioni. Chi le disprezza e dissipa il loro patrimonio teorico e di lotta, imbocca una strada diversa ponendosi fuori dalle tradizioni del movimento dei lavoratori. Non meraviglia dunque che proprio sotto la gestione di chi vuole trasformare l’espressione politica della sinistra in un partito cool, venga liquidata “l’Unità” e cancellata ogni traccia di socialismo. C’è di che interrogarsi come possano ancora trovarsi a loro agio coloro che hanno militato nel vecchio Pci, soprattutto coloro che hanno ricoperto incarichi di responsabilità e di direzione, e come sia possibile che quanto nel Pd è rimasto del popolo comunista non provi un senso di rigetto verso questi maldestri tentativi di cancellare il passato. Se tutto questo è potuto succedere è anche perché il protagonismo della base del partito è stato ridotto al folclore politico, perché è venuta dominando sempre più la figura del leader carismatico e perché si è consentito che attorno ad esso crescesse una corte di piccoli uomini destinati a vivere 621
alla sua ombra. Al collaboratore intelligente e autonomo, del resto, i “capi” preferiscono i mediocri, giacché questi non creano problemi, garantiscono consenso e obbedienza; e così, a risultare premiato è il servilismo, non l’intelligenza critica e creativa. A ben vedere, la responsabilità della mancata innovazione della sinistra è da attribuire in grande misura ai dirigenti comunisti del tempo andato ai quali va ascritta la paternità dell’attuale classe dirigente. E purtroppo oggi, all’osservatore critico capita di essere ossessionato dall’interrogativo che già aveva tormentato Babeuf il quale, uscendo dalla prigione dell’Abbaye, curioso di capire quale sorte avesse avuto il popolo eroico dei sobborghi di Parigi, si chiedeva dove fosse andata a finire la fierezza plebea. Ebbene, a più di duecento anni di distanza ci si accorge che a conformare la coscienza collettiva è ancora l’avversario di sempre e che il progetto di cambiamento rischia di essere vissuto come un’utopia. Ciò che oggi sembra più chiaro di ieri è che se il “vecchio” muore e il “nuovo” non nasce, le responsabilità di certo sono dei “capi” i quali, assurti a ruoli di potere, non avvertono più quel bisogno di cambiamento che li aveva animati prima che divenissero tali. Però, le inadempienze sono anche delle masse popolari le quali, accontentandosi di godere del falso benessere che riserva loro il regime capitalistico, hanno attenuato la tensione rivoluzionaria. E purtroppo la storia insegna che i plebei alzano la testa solo quando la loro condizione materiale è divenuta disperata, e il più delle volte sono destinati a risultare fuori tempo. 20.4 – Il partito di sinistra nell’era della globalizzazione La storia del socialismo è caratterizzata da una discrasia che per la sinistra rappresenta un vero e proprio dilemma: anziché l’idea marxiana della rivoluzione sociale, nella realtà dei fatti si è affermata la rivoluzione politica, quella gestita dal “principe”, ovvero dal partito. L’assalto al Palazzo d’Inverno ha significato il primato della politica e tutte le rivoluzioni proletarie guidate da un’élite si sono dimostrate incapaci di realizzare una società che nelle forme e nei contenuti corrispondesse alle proposizioni dei padri del socialismo scientifico. In ogni dove si è adottata la strategia dell’avanguardia, il partito non ha saputo superare la divisione sociale del lavoro e trasferire il potere alle masse. Sopravvivendo a se stesso, anziché ridurre la distanza tra governanti e governati, l’ha allungata. Il guasto che il mancato superamento della visione leninista della rivoluzione ha prodotto nelle file della sinistra è stato tale che ancora oggi, nell’era dell’esasperazione dell’individualismo capitalistico, il militante è proteso nell’affannosa ricerca del “capo”, idealizzato come l’“uomo della provvidenza” al quale affidare la direzione del processo di cambiamento. Non va dimenticato che i bolscevichi erano figli dello zarismo, cioè di un epoca in cui il ruolo dell’avanguardia era pienamente giustificato. E pure che Lenin, cosciente di non poter oggettivamente instaurare da subito il socialismo nella Russia arretrata, nel conferire al partito il compito di costruire le basi del socialismo, si è instancabilmente prodigato al fine di trasferire, attraverso i soviet, il potere nelle mani della classe operaia. Le condizioni odierne della lotta per il socialismo sono molto diverse, eppure la sinistra persiste nel mantenere centralizzata la direzione del movimento, dà segno di non voler rinunciare alla delega e sembra non avere consapevolezza che la politica dei due tempi non porta al socialismo. Non si è ancora resa conto che sia la strategia leninista, seppure nella versione della contesa parlamentare, sia la pratica socialdemocratica appartengono a un glorioso passato il quale, se non può e non deve essere dimenticato e rinnegato, di certo non può essere riproposto tout court. Il protagonismo mercantile della società capitalistica ha messo in discussione il concetto e la funzione dell’avanguardia che sono stati alla base dell’esperienza sin qui compiuta dal movimento operaio. Per essere vincente, un progetto di trasformazione della società capitalistica evoluta, deve necessariamente fondare sul più ampio e cosciente protagonismo degli individui. Il partito che invoca il cambiamento e si propone di dare l’assalto al potere statale per procura, anche se con 622
spirito democratico e pacifico, è destinato al sicuro fallimento. Non è un caso, del resto, che nessuna formazione politica di sinistra sia mai riuscita in nessun paese a sottrarre la società all’egemonia del capitale attraverso l’accesso alla “stanza dei bottoni” e si sia dimostrata incapace di costruire democraticamente una maggioranza anticapitalistica in grado di sovvertire i rapporti di forza. Una moderna strategia rivoluzionaria non può prescindere dal fatto che nel corso di questo ultimo mezzo secolo, profondi mutamenti hanno investito lo stesso scontro di classe e che l’individuo dei giorni nostri risulta purtroppo essere più che mai, sia sul piano dei comportamenti che su quello della morale e della cultura, una creatura plasmata dal capitalismo. Pertanto, se si vuole perseguire un progetto socialista, si deve avere il coraggio di lasciarsi alle spalle la concezione ideologica borghese della politica e proporsi invece il superamento sia del modo di produzione capitalistico sia del sistema della delega attraverso una contesa su larga scala dell’egemonia culturale. Gramsci invocava l’avvento di un nuovo Rinascimento che non fosse reazionario come quello che la storia ci ha fatto conoscere, dal momento che aveva lasciato alla Chiesa la funzione culturale; compito della sinistra - diceva – è quello di affidare questa funzione alle masse. In ogni ciclo storico il cambiamento di struttura ha imposto un adeguamento delle istituzioni, della politica e della cultura, e quindi delle coscienze. Quando le forme dello sfruttamento e del condizionamento sociale mutano, i contenuti e le forme della lotta per l’alternativa devono essere necessariamente ripensati. Un processo di rinnovamento che parta dal basso e renda protagonista cosciente ogni individuo che aspira a una società superiore, oggi non è più eludibile. Come già trenta e più anni fa ammoniva Louis Althusser, se non si ha il coraggio di fare un simile salto di paradigma, si è destinati a restare prigionieri dell’illusione giuridica della politica e si continua a essere irrimediabilmente affetti da cretinismo parlamentare. E’ chiaro che un simile passaggio di mentalità e di strategia richiede tempi lunghi e una complessa riconversione di pratiche politiche, sociali e culturali. Va perciò messo in conto un periodo di transizione durante il quale, come ho già ricordato, dal punto di vista istituzionale, democrazia rappresentativa e democrazia diretta devono convivere e integrarsi. Artefice indispensabile di un graduale superamento del distacco esistente tra istituzioni e società civile, e della conseguente divisione della società in governanti e governati, resta il partito il quale è chiamato a svolgere la funzione di soggetto mediatore del processo di transizione. Poiché all’orizzonte si sta affacciando minaccioso un modernismo autoritario, in assenza di un sistema di democrazia rappresentativa la società civile rischierebbe di essere profondamente mortificata e posta in balia di tentazioni assolutiste. Occorre difatti avere coscienza che l’assenza di un sistema di rappresentanza politica esporrebbe il tessuto sociale al rischio di una destrutturazione e favorirebbe una devastante conflittualità tra spinte anarcoidi e rivalse conservatrici, poiché i contrasti di interesse sono destinati a sopravvivere per l’intero periodo della transizione. Nella società dominata dal capitale, i partiti hanno dunque un’indiscutibile funzione di collante sociale e un loro declino, in assenza di un’alternativa progressista, provocherebbe non solo un crollo di specifiche soggettività, come la crisi odierna sta dimostrando, ma una vera e propria lacerazione del tessuto sociale determinando un vuoto di autorità pericolosissimo per la convivenza civile. Coloro che ritengono che il sistema dei partiti possa essere soppiantato dalle nuove tecnologie comunicative non sono altro che degli sprovveduti. Mirare esclusivamente all’uso del consenso, piuttosto che allo sviluppo della democrazia, è un atto di follia. Con la crisi del vecchio sistema politico, però, la forma partito che conosciamo si è rivelata inadeguata a gestire un processo di radicale trasformazione, per di più ha perso credito nello stesso mondo della sinistra. Di questo processo di deterioramento bisogna tenere conto. Il partito che si propone di costruire l’alternativa deve pertanto avere il coraggio e l’intelligenza di superare il modo attuale di fare politica, avendo piena consapevolezza sia del suo carattere provvisorio che della sua funzione di servizio alla società. Si tratta di requisiti che non
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appartengono certo alle formazioni partitiche odierne le quali, avendo come obiettivo la conquista del “palazzo”, sono ripiegate su se stesse. Per ridare prospettiva al processo di cambiamento non è perciò sufficiente un lifting della forma partito che conosciamo, ma si rende necessaria una sua vera e propria rifondazione. Ai primi degli anni ’90, a seguito dell’autoscioglimento del Pci, un gruppo di compagni ha avvertito questa esigenza, ma il percorso che poi essi hanno intrapreso non è andato oltre una stanca riproposizione dei vecchi schemi. Anche alla luce di quell’esperienza, e richiamandosi alla preziosa elaborazione gramsciana, oggi appare ancor più necessario e urgente imboccare una nuova strada. Ci si deve rendere conto che un partito che si ispira ai principi del socialismo e del comunismo non può essere una forza semplicemente critica e organizzatrice della protesta o della speranza, ma deve rappresentare uno strumento di modificazione dei rapporti sociali e deve essere produttore di una propria visione del mondo. Una formazione politica non può diventare fautrice di un nuovo modello di società se la sua etica e le sue regole di vita sono identiche a quelle di chi si batte per lo status quo. Essa deve vantare una propria weltanschauung e avere come obiettivo prioritario una riforma intellettuale e morale per il rifacimento del senso comune. Il ruolo di un partito è da valutarsi non in rapporto alle sue dichiarate intenzioni, bensì alla sua capacità di interpretare ed esprimere i bisogni e le aspirazioni delle masse e, conseguentemente, di determinare i dovuti cambiamenti nella realtà politica e sociale e nella sfera culturale. Gramsci ha sostenuto che il fine della politica e lo scopo della vita sono non solo il superamento della divisione tra governati e governanti, ma anche il conseguimento dell’“uguaglianza dei soggetti morali”. I suoi stessi odierni presunti eredi, invece, danno segno di considerare una tale visione del mondo frutto di un moralismo ormai superato dalla storia. Il mancato passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza è proprio dovuto all’incapacità della politica di plasmare i soggetti del cambiamento. Ciò che alla sinistra s’impone è pertanto un ripensamento della politica e perciò della stessa forma e funzione del partito; un ripensamento che deve avvenire alla luce di valori alternativi al pensiero e all’etica imposti dal capitale. La sinistra deve cioè disporsi anzitutto a riflettere sulla propria storia per individuare lacune e incertezze, deve quindi recuperare la sua autonomia e ritessere la tela della teoria del cambiamento; e per fare questo deve rendersi disponibile alla sperimentazione e avere come obiettivo la costruzione dell’“uomo nuovo” di gramsciana memoria. I padri del socialismo hanno interpretato il superamento della politica come sviluppo massimo della democrazia e del protagonismo sociale, come liberazione dell’uomo dall’alienazione del capitale e realizzazione dell’autogoverno. E’ per questi obiettivi che ci si deve battere e per farlo si deve essere estremamente critici nei confronti dei comportamenti sociali, oltre che di quelli politici. Hegel sosteneva che “colui il quale si adatta a non disprezzare la pubblica opinione, come la ode qua e là, non farà mai niente di grande”. E l’esperienza storica gli ha dato ragione. Adoperarsi per cambiare il senso comune è un dovere di ogni rivoluzionario, pena il divenire egli stesso complice della deriva morale. E’ opinione corrente, per esempio, che in politica sia lecito mentire e addirittura che l’astuzia e la menzogna siano sue essenziali prerogative. Ebbene, la sinistra non può esimersi dal contrastare con energia simili convincimenti e lo deve fare con la coerenza dei suoi comportamenti. Gramsci ci ha insegnato che “nella politica di massa la verità è una necessità”. E poiché dire la verità assai spesso si diventa impopolari, si deve avere il coraggio di marciare contro corrente. La sinistra deve contrastare il processo di degenerazione della politica e non deve lasciarsi coinvolgere nella sua spettacolarizzazione. Deve rompere con l’economicismo e il pragmatismo imperanti, giacché queste sono pratiche che si limitano a conseguire un miglioramento dei rapporti sociali e non puntano alla loro trasformazione. Deve contrastare la separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e opporsi all’esaltazione acritica delle competenze, per favorire invece una riunificazione dei saperi. Deve fare ricognizione sociale ed essere lungimirante; alla pratica del compromesso politico per la gestione del presente, deve anteporre la progettualità per il futuro. E 624
come ancora ammoniva Gramsci, non deve essere prigioniera dei miraggi ideologici e considerare “cattiva tattica affidarsi agli errori degli avversari”, per adoperarsi invece a sottrarre ad essi le armi dello sfruttamento e dell’egemonia. In presenza della formale pacificazione tra i sessi e tra le generazioni, deve battersi per il pieno riscatto della condizione femminile e di quella giovanile dalla cui valorizzazione di ruolo dipende in gran parte la realizzazione del socialismo. La forma partito non è una variabile indipendente, essa è conformata ai valori e agli obiettivi che ci si propone. L’organizzazione di una forza politica è organica alla concezione del potere. Un partito che si pone l’obiettivo dell’autogoverno non può essere identico a quello che vuol governare per conto del popolo. Mentre quest’ultimo può essere un “partito leggero” di opinione, quello che si propone l’alternativa deve necessariamente avere la capacità di influenzare e mobilitare le masse. Non solo, esso deve anche predisporsi a respingere qualsiasi tentativo o tentazione di integrazione nel sistema. Se la piccola formazione rivoluzionaria può facilmente mantenersi pura, quella di grandi dimensioni è chiamata costantemente a fare i conti con i rischi dell’omologazione all’esistente. La lotta quotidiana induce all’empirismo e il compito di mediare tra ideale, progetto e azione immediata non è certo facile, specie in una realtà sociale complessa come quella determinata dal capitalismo maturo. Una delle condizioni per agire nel profondo della società e mantenersi integri è che il partito non deve tendere a farsi Stato, ma deve stare dentro le sue istituzioni per accelerare l’esaurimento delle loro funzioni e trasferire il potere alla società civile. Deve perciò porre la massima attenzione ai movimenti, in specie alle diffuse forme di volontariato, e avere con le organizzazioni sindacali una reale dialettica in modo di raccordare la lotta per il miglioramento della condizione lavorativa con quella per la riappropriazione del “general intellect”. Per essere il “lievito trasformatore”, il partito deve assicurarsi anche uno stretto e proficuo rapporto con il ceto degli intellettuali dai quali non deve pretendere un’organicità di pensiero, ma un rapporto critico e un contributo progettuale. Se queste sono le caratteristiche che deve avere una formazione rivoluzionaria, la sua visione non può che essere cosmopolitica, i suoi comportamenti devono essere prefiguranti la società che intende costruire e le sue strutture devono essere luoghi aperti all’incontro e al confronto. Il partito di sinistra che conosciamo vanta come collante dei suoi aderenti e della sua azione politica la “linea”. Senza di essa non potrebbe dirsi tale . La linea politica, però, comporta un grosso limite, cioè quello di mortificare fino al loro sacrificio sull’altare dell’unità, l’autonomia, l’intelligenza e la creatività dei singoli. Non per caso lo stesso centralismo democratico, nel corso del tempo, si è inesorabilmente trasformato in centralismo burocratico e la prassi quotidiana ha mandato in soffitta la teoria e reso il dirigente autosufficiente, strumento arbitrario di sintesi e anche presunto portatore di verità. Non c’è partito che per salvaguardare credibilità e prestigio, di fronte al dissenso, non sia ricorso e non ricorra al metodo della censura e delle espulsioni. Non va dimenticato quanto in una lettera indirizzata ad August Bebel scriveva Engels: “Nessun partito in qualunque paese mi può far tacere, quando ho deciso di parlare... Voi - il partito - avete bisogno della scienza socialista, e questa non può vivere senza libertà di movimento”. Ebbene, un partito che intende essere “intellettuale collettivo” non può adottare come criterio di vita interna quello della censura, ma deve favorire il pluralismo delle idee e delle esperienze e fare sintesi ai più alti livelli d’innovazione. Il nuovo, infatti, nasce laddove voci ed esperienze diverse convivono in un contesto in cui nessuna di esse sovrasta o annulla le altre, ma tutte concorrono alla miglior soluzione. Deve perciò stimolare la creatività e le capacità individuali di ciascuno rendendolo protagonista non solo nella prassi, ma anche nella ricerca, nell’elaborazione e nella sperimentazione. Suo collante deve essere la determinazione di trasformare la società. Il partito di sinistra dell’era della globalizzazione deve essere attraversabile dai conflitti e trasparente. E per essere tale deve avere anche una funzione pedagogica. Deve cioè insegnare non solo a ribellarsi, ma anche a essere poliedrici, a prendere decisioni e ad agire dopo che di ogni evento ci si è dati ragione del come, quando, perché è potuto avvenire. Rosa Luxemburg ha 625
sostenuto che “l’autocritica spietata non è soltanto il diritto vitale, ma anche il più alto dovere della classe lavoratrice”. Al bisogno di certezze che è insito in ogni essere umano, il partito deve contribuire alla presa di coscienza dello stato di precarietà e di relatività della nostra esistenza terrena, e rendere chiaro che valore supremo per cui vale la pena vivere è lo spirito e l’agire solidale verso i propri simili. In una società in cui a essere vincenti sono l’individualismo, l’egoismo e l’opportunismo, non è certo facile imporre la morale e la prassi che qui ho tracciato. Questa prospettiva però appare l’unica capace di evitare una ricaduta nella barbarie. Contrariamente a quel che si pensa, l’aspirazione a una società solidale è un sentimento largamente diffuso. Esiste una carta africana dei diritti degli uomini e dei popoli che fonda sul principio della comunità, mentre rifiuta l’individualismo occidentale. Si tratta della testimonianza che si può, anzi si deve vivere spogliandosi di quella parte di istinto egoista che è in noi e che il capitalismo ha esaltato. Alla sinistra del ventunesimo secolo spetta l’onere di realizzare un nuovo Rinascimento. Così come cinque secoli fa un gruppo di uomini illuminati hanno avuto l’ardire di rompere con il pensiero e la tradizione aristotelica e sperimentare con coraggio il metodo scientifico, aprendo all’umanità una nuova prospettiva, la sinistra deve avere l’intelligenza e il coraggio di essere foriera di una nuova epoca.
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“E’ facile cantare quando le strade risuonano di canti, quando i tamburi battono il ritmo che ci batte dentro… E’ abbastanza facile dire le parole che fanno agire quando la massa è in movimento e vuole ciò che si vuol dimostrare. Quel che non è facile è fare da guida nel buio conoscendo esattamente in ogni istante in che punto e con quale forza può scoccare la scintilla. Poiché il vero lavoro è il lavoro che nessuno vede e che non ottiene alcuna ricompensa”. Poeta comunista inglese Randall Swingler. Considerazioni conclusive Passando in rassegna le tappe evolutive del pensiero e dell’azione della sinistra, si è rafforzato in me il convincimento che sia nel governare il presente che nel progettare il futuro, la memoria storica assume un’importanza fondamentale. Il presente altro non è che il passato cristallizzato nei rapporti sociali, nelle psicologie degli individui e nelle stesse istituzioni, e la condizione per chiunque voglia cambiare lo stato di cose esistente e prefigurare l’avvenire, è proprio quella di trarre insegnamento dall’esperienza storica. Solo la consapevolezza di ciò che è avvenuto nel passato consente di comprendere i rischi e le opportunità che si hanno di fronte, soprattutto permette di evitare il ripetersi di errori già commessi. Lo storico francese Marc Bloch ha sostenuto che “l’incomprensione del presente nasce fatalmente dall’ignoranza del passato”, mentre Pietro Barcellona ha argomentato che “se non abbiamo più passato, cioè una tradizione su cui poggiare, sia pure per prendere le distanze, non si può più avere un presente che (tra)guarda un futuro”. Sono tesi ineccepibili le loro, eppure molta parte dell’odierna sinistra non sembra tenerne conto, dimenticando così che la democrazia oltre che partecipazione è anche conoscenza. Molto spesso le polemiche degli avversari del socialismo hanno fatto breccia nell’opinione pubblica, nonostante il loro carattere mistificante e la chiara adulterazione della realtà, proprio perché nel mondo della sinistra, assieme a uno svilimento dell’autonomia di pensiero, si è fatta largo l’ignoranza storica. La rinuncia alla memoria porta tra l’altro a una grave sottovalutazione del ruolo che la classe operaia e le sue espressioni politiche hanno avuto nella lotta per l’emancipazione umana. Non è da dimenticare che, per oltre un secolo, il protagonismo della sinistra ha garantito i diritti e le condizioni di vita delle classi subalterne riscattandole da situazioni di miseria endemica e di oppressione. Generazioni di socialisti e di comunisti hanno dimostrato una dedizione alla causa sorprendente; non a caso la loro passione, la loro intelligenza, il loro eroismo hanno stupito il mondo, e ciò rappresenta un patrimonio cui la sinistra odierna non può e non deve rinunciare. Attraverso la rilettura della storia mi sono altresì ulteriormente convinto che per essere egemoni occorre avere autonomia di pensiero e semplicità di argomentazione. L’affermazione, a fine Ottocento, del movimento socialista e del marxismo è stata possibile proprio per la nuova visione del mondo di cui queste espressioni del movimento operaio sono state portatrici. Per la prima volta nella storia dell’umanità, mettendo in campo valori antagonisti a quelli dominanti, esse hanno dato nuovo senso non solo al lavoro, ma all’esistenza stessa dell’uomo. Trascendendo l’agire individuale hanno fatto acquisire spessore politico alle lotte operaie e hanno formulato una nuova teoria del mondo in termini di prassi, cioè di condotta quotidiana. La loro forza d’urto è consistita nel porsi fuori dalle coordinate culturali del tempo e nella concretezza dei loro obiettivi. I padri fondatori del socialismo scientifico hanno avuto in sostanza una visione critica globale dell’esistente e una spiccata attitudine all’analisi e alla sintesi. 627
Non basta dunque lavorare sodo, occorre anche avere piena consapevolezza di quel che si fa. Molto spesso il nostro agire è invece condizionato e giustificato dall’“ideale”, cioè dall’autocoscienza, quando non addirittura dalla corsa alla conquista del consenso, non già dall’analisi della realtà sociale, dei suoi sviluppi e delle contraddizioni del sistema, e una tale prassi non può certo dirsi scientifica. Attribuendo maggior peso alla sovrastruttura, anziché alla struttura, si viene meno a un’interpretazione storico-dialettica della realtà. Non si deve poi mai dimenticare che il pensiero marxiano non è semplicemente una teoria politica ed economica, ma è anzitutto una concezione alternativa dei rapporti sociali e del mondo e, pertanto, che a renderci “diversi”, prefiguranti, credibili ed efficaci nell’agire, è l’operare politico ispirato a un progetto alternativo complessivo, scevro da pregiudizi e da dogmi. Nel comportamento di molti esponenti della sinistra è spesso ricorrente invece un pregiudiziale atteggiamento di netta antitesi con la storia e la cultura della borghesia. Un tale modo di essere, se per un verso trova giustificazione nell’antagonismo di classe, per altro verso trascura il dato di fatto che la sinistra, essendo figlia della componente giacobina, è – come insegna Marx - l’erede della borghesia e suo compito non è di rigettare, ma di vagliare criticamente il patrimonio di conoscenza e di esperienza che lo stesso sistema capitalistico ha accumulato nel tempo. La pratica di militante politico e di ricercatore sociale mi ha indotto a concludere che la ragione non sta mai da una parte sola e che al rivoluzionario, proprio in forza della sua visione dialettica del mondo, spetta di prendere in considerazione con serietà e rispetto le ragioni altrui, anche quelle avverse alla causa per cui egli lotta. Ho imparato che ogni opinione fonda su una propria logica e che in ogni pensiero c’è in qualche misura del vero. L’atteggiamento da assumere, perciò, non sta nell’essere alteri, ma nell’individuare il punto di vista da cui un’opinione nasce e matura, e solo su una simile base è possibile giudicarla e se del caso contestarla e combatterla in modo efficace. Viviamo tempi in cui la complessità dei processi storici rende estremamente difficile l’azione di cambiamento sociale e culturale. Rispetto al passato lo scarto tra la materialità delle innovazioni e i livelli di coscienza dell’uomo registra un’accelerazione. Per questa ragione la sinistra oggi ha più bisogno di ieri di analisi, di riflessione, di confronto, di verifiche al fine di mettere a punto una teoria del cambiamento e un’operatività che siano all’altezza dei tempi. Il settarismo, dunque, non dovrebbe contagiare il militante comunista. Dalla lettura del passato ho tratto poi altri utili insegnamenti. Di fronte ai torti e alle ingiustizie si è comprensibilmente spinti ad assumere posizioni intransigenti, radicali e di rapida soluzione. Guai se venisse meno un simile impulso, significherebbe che si è perduta la sensibilità che è propria dei comunisti. Si vive una volta sola e di fronte ai disagi e ai soprusi è giusto ribellarsi e non avere esitazioni. L’impazienza è però cattiva consigliera; non solo spesso si trasforma in intolleranza, ma rischia di far perdere la lucidità e la freddezza necessarie al rivoluzionario. Le leggi dello sviluppo economico-sociale non possono essere forzate, ciò che occorre è creare le condizioni materiali e soggettive perché si abbrevi il travaglio. Se si pensa al tempo che hanno richiesto la conquista della giornata lavorativa di otto ore, l’attuazione del suffragio universale, la realizzazione del welfare state, per citare alcuni esempi, si ha l’idea di come ogni cambiamento di sostanza non può avvenire dall’oggi al domani, ma esige tempo e pazienza. Allorquando il movimento rivoluzionario si è illuso di poter abbreviare il processo di trasformazione sociale ricorrendo alle maniere brusche, ha immancabilmente pagato dazio. Il tracollo del socialismo reale ne è la testimonianza più eloquente. Liberarsi dei condizionamenti materiali e culturali del sistema sociale in cui si è inseriti, è opera immane. Occorre poi avere coscienza che i frutti del nostro lavoro verranno colti, se tutto va bene, dai nostri figli o nipoti. Noi dobbiamo accontentarci di aver dato il nostro contributo senza il quale l’alternativa al sistema del capitale avrebbe subito un’ulteriore dilazione. Altra constatazione che ho fatto nel compiere questa riflessione, è che quando si sbaglia nell’analisi, si è destinati a sbagliare anche nell’orientamento e nella proposizione. Occorre perciò essere estremamente attenti e rigorosi nella lettura della realtà ed evitare semplificazioni. 628
Infine, si deve avere coscienza che le difficoltà maggiori che l’azione di cambiamento è destinata a incontrare stanno prima ancora che nell’affermazione delle nuove idee, nella neutralizzazione e nel superamento delle vecchie concezioni. E’ più facile cambiare una cosa materiale che un’abitudine. E anche il dover affrontare questa difficoltà comporta un lavoro complesso e di lunga lena. Rispetto alle prospettive della sinistra e del socialismo, riaffermando la convinzione che la teoria marxiana non è affatto da considerarsi morta, ma è più che mai attuale, sono giunto alle conclusioni seguenti. 1) Le condizioni oggettive per la realizzazione del socialismo sono giunte a maturazione proprio nell’epoca della globalizzazione e oggi il progetto marxiano può trovare realizzazione non nelle periferie del mondo, ma nel cuore stesso del capitalismo, esattamente nel vecchio continente europeo il cui sviluppo economico-sociale ha raggiunto l’apice e si coniuga non solo con un’eredità storica che non ha riscontri altrove, ma anche con le esperienze di lotta più ricche e più avanzate del movimento dei lavoratori. E’ qui che si gioca il futuro dell’umanità e di questo la sinistra europea deve avere piena consapevolezza. Deve accettare la sfida della storia e assolvere il ruolo di precorritrice. 2) Una delle ragioni per cui tutti i tentativi di sperimentare una società socialista che si sono susseguiti in questo ultimo secolo, si sono conclusi con un fallimento, è da individuarsi nel frazionamento, sia sul fronte sociale che su quello politico, delle espressioni organizzative della sinistra. All’imperativo del “Manifesto comunista” “Proletari di tutti i paesi, unitevi!” hanno fatto seguito solo divisioni, litigiosità, incomunicabilità. Sulla solidarietà di classe che Marx considerava il criterio dell’esistenza stessa del proletariato, sono prevalsi i nazionalismi, i privilegi di categoria, le influenze ideologiche. L’azione del capitale ha avuto sicuramente un ruolo determinante nel fomentare particolarismi ed egoismi e nel favorire lo sgretolamento del movimento, ma è anche evidente che grosse responsabilità ricadono sulle èlite dirigenti delle forze sindacati e politiche della sinistra. Cosa certa è che fin che sussisteranno le divisioni, a risultare vincente sarà sempre il capitale. La sinistra deve avere il buon senso e il coraggio di imboccare la strada dell’unità e dell’internazionalismo se vuole dare corso alla costruzione dell’alternativa, la quale non può essere realizzata se non in dimensione internazionale. Si tratta certamente di un percorso irto di difficoltà e di ostacoli, ma non c’è altra strada che porti al socialismo. Se è vero che oggi tra la classe operaia di tutto il mondo ci sono meno cooperazione e solidarietà di quante ce ne sono state nel passato, è altresì un dato che mai come oggi sono esistite le condizioni materiali per costruire un tessuto unitario. I moderni mezzi di comunicazione, la facilità di mobilità delle persone sull’intero pianeta, la presenza dei lavoratori migranti, i quali rappresentano un’avanguardia dell’internazionalizzazione del movimento progressista, sono fattori che possono favorire il necessario processo unitario. E’ il caso di prendere lezione dal capitalismo stesso: i singoli imprenditori, infatti, pur essendo oggettivamente in feroce competizione tra di loro, obbediscono tutti a un unica legge, quella del capitale, e questo loro contegno costituisce il cemento che tiene insieme un sistema denso di contraddizioni. 3) Uno dei punti deboli della sinistra è rappresentato dalla sua incapacità di agire contemporaneamente su più fronti e di coordinare le sue diverse iniziative in un unico disegno. Per esempio, mentre propone un diverso sviluppo economico, non riesce a raccordare a tale obiettivo generale le lotte nei luoghi della produzione e della riproduzione il cui carattere prevalente resta quello rivendicativo; proclama la lotta per la pace, ma poi non mostra coerenza e determinazione nel boicottare la produzione di armi; reclama la salvaguardia della salute e dell’ambiente, ma poi non si oppone con forza alla monetizzazione della nocività sui luoghi di lavoro e sul territorio, dimostrandosi incapace di superare la contraddizione inquinamento-occupazione. Quando una sua formazione politica è impegnata nella competizione elettorale, sull’altare della conquista del consenso sacrifica l’impegno sociale e attenua la sua matrice di classe. Insomma, nella prassi politica non istituzionale, essa rivela una difficoltà a essere coerente e ad articolare e unificare la sua azione su più fronti contemporaneamente. 629
Proporsi, come ho cercato di chiarire nella mia argomentazione, il superamento dell’economia politica, la transizione dalla delega alla democrazia diretta e la conversione del partito da soggetto esclusivamente impegnato nell’azione politico-istituzionale, in strumento che si propone anche l’emancipazione culturale e morale degli individui, comporta necessariamente una discontinuità di pensiero e di azione nel modo di essere a tutti i livelli. Non è certo facile compiere una conversione di comportamenti, ma la coerenza di obiettivi e la loro interconnessione costituiscono una delle condizioni della costruzione di una società socialista. E’, d’altra parte, questo il modo per superare il ricorrente atteggiamento di ripiegamento in difesa delle conquiste conseguite e minacciate dall’avversario e assumere invece l’iniziativa offensiva su terreni più avanzati e in grado di spiazzare le mire conservatrici. 4) La condizione perché l’umanità abbia un futuro sicuro e sereno è il superamento del sistema capitalistico. Se l’uomo continua a lasciare le briglie sciolte alla competizione e al libero mercato, al prevalere degli egoismi sullo spirito solidale, il suo destino è un mondo di barbarie a permanente rischio di autodistruzione. Come ho cercato di documentare, oggi il sistema non è più in grado di soddisfare una serie di bisogni individuali e collettivi (dalla sicurezza sociale all’occupazione, dalla distribuzione equa delle risorse alla salvaguardia dell’ambiente), mentre lo spirito capitalistico fomenta divisioni tra le etnie e le generazioni, alimenta guerre e anziché rendere l’uomo libero e cosciente lo aliena. Per governare l’intera umanità c’è bisogno di una svolta radicale a livello politico e culturale, giacché i termini dell’esistenza umana esigono di essere ripensati. Fino ad oggi le rivoluzioni sono avvenute sotto la spinta della necessità, della disperazione, quando cioè le condizioni di vita dei popoli che ne sono stati protagonisti aveva raggiunto il limite della sopportazione. E ciò ha generato violenze e distruzioni. E’ ora il caso di chiedersi se per imprimere un cambiamento alla società è proprio necessario attendere che sul confronto e sullo scontro civile prevalga l’odio e la forza fisica, o se invece è più ragionevole e saggio prevenire la catastrofe perseguendo l’arma della ragione e della conquista del consenso. La sinistra ha il dovere di dare soluzione a un simile dilemma e, considerati i rischi e i pericoli che l’umanità ha di fronte, lo deve fare in tempi rapidi. Esitare ancora sarebbe da irresponsabili. 5) I padri del socialismo ci hanno insegnato che a fare la storia è il genere umano. Il motore dell’evoluzione dell’umanità sono l’intelligenza e l’operatività della collettività. Ne “La sacra famiglia” Marx ed Engels hanno scritto che “la storia non fa niente... E’ piuttosto l’uomo, l’uomo reale, vivente, che fa tutto, possiede e combatte tutto; non è la storia che si serve dell’uomo come mezzo per attuare i propri fini, come se essa fosse una persona particolare; essa non è altro che l’attività dell’uomo che persegue i suoi fini”. Il sistema capitalistico ha oscurato questa verità, ha reso l’uomo prigioniero delle istituzioni da lui stesso create e lo ha depotenziato nel corpo e nello spirito. E’ tempo di liberarci di queste catene e di ridare ai singoli uomini la loro dignità e autonomia. Se è pur vero che la sinistra ha perso il filo della sua evoluzione, è anche indubbio che questo filo non si è ancora spezzato, ed è possibile riprendere la tessitura della tela del socialismo. Seppure sia da mettere in conto che la storia non ha sempre un andamento progressivo non va dimenticato che essa è fatta di corsi e ricorsi. La sinistra oggi è in serie difficoltà, non è però la prima volta che questo succede; nel passato essa ha attraversato tempi molto più duri di quello odierno e ogni volta ha avuto la forza di rinascere. Ci vuole dunque coraggio ed entusiasmo. E’ dalla nascita della civiltà che nella storia del genere umano vive il sogno di una società basata sulla fratellanza e sull’uguaglianza tra gli uomini. Questo sogno è antico sin dai tempi della civiltà greca, è esistito ed esiste nella generalità della religioni monoteiste, ha motivato i fautori del Rinascimento e gli utopisti laici e socialisti dei secoli scorsi. Non sarà certo il capitale a cancellare dalla memoria dell’umanità un così nobile progetto.
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Appendice
631
632
Date di nascita e di morte di alcuni personaggi richiamati nei testi Adler Friedrich 1879-1960 Adler Max 1873-1937 Adler Victor 1852-1918 Adorno Theodor 1903-1969 Althusser Louis 1918-1990 Aristotele 384-322 a.C. Babeuf Francois-Noel 1760-1797 Bakunin Mikhail 1814-1876 Balabanoff Angelica 1878-1965 Bauer Otto 1881-1938 Bebel August 1840-1913 Becker August 1812-1873 Bentham Jeremy 1748-1832 Berlinguer Enrico 1922-1984 Bernstein Eduard 1850-1932 Bignami Enrico 1844-1921 Blanc Louis 1811-1882 Blanqui Louis Auguste 1805-1881 Bloch Ernst 1885-1977 Bobbio Norberto 1909-2004 Bogdanov Aleksandr 1873-1928 Bonnot de Mably Gabriel 1709-1785 Bordiga Amadeo 1889-1970 Bucharin Nicolaj I. 1888-1938 Buonarroti Filippo 1761-1837 Cabet Etienne 1788-1856 Cafiero Carlo 1846-1892 Campanella Tommaso 1568-1639 Carrillo Santiago 1915-2012 Castro Fidel 1928Cavour Camillo Benso conte (di) 1810-1861 Chou En-lai 1898-1976 Chruscev Nikita 1894-1971 Churchill Wiston 1874-1965 Colajanni Napoleone 1847-1921 Condorcet Marie Jean A. N. 1743-1794 Considerand Victor 1808-1893 Constant Alphonse 1816-1875 Costa Andrea 1851-1910 Crispi Francesco 1819-1901 Cunow Heinrich 1862-1936 De Gasperi Alcide 1881-1954 De Leon Daniel 1852-1914 Della Volpe Galvano 1895-1968 Denison Maurice Frederik 1805-1872 Depretis Agostino 1813-1887 Dimitrov Georgi 1882-1949 Di Vittorio Giuseppe 1892-1957 Dobb Maurice 1900-1976 633
Dubcek Alexander 1921-1992 Ebert Friedrich 1871-1925 Engels Friedrich 1820-1895 Foster William Z. 1881-1961 Fourier Charles 1772-1837 Fromm Erich 1900-1980 Garibaldi Giuseppe 1807-1882 Giolitti Giovanni 1942-1928 Gnocchi Viani Osvaldo 1837-1917 Godwin William 1756-1836 Gorbacev Michail 1931Gorter Hermann 1864-1927 Gramsci Antonio 1891-1937 Grieco Ruggero 1893-1955 Grossmann Henryk 1881-1950 Guesde Mathieu-Basile Jules 1845-1922 Guevara Ernesto “Che” 1928-1967 Haase Hugo 1863-1919 Habermas Jurgen 1929Hobsbawm Eric 1917-2012 Hegel G.W.Friedrich 1770-1831 Hilferding Rudolf 1877-1941 Hobbes Thomas 1588-1679 Ho Chi Minh 1890-1969 Horkheimer Max 1895-1973 Jaurès Jean 1859-1914 Kamenev Lev B. 1883-1936 Kant Immanuel 1724-1804 Kautsky Karl 1854-1938 Kelsen Hans 1881-1973 Keynes Maynard J. 1883-1946 Kim Il Sung 1912-1994 Kingsley Charles 1819-1875 Korsch Karl 1886-1961 Kropotkin Petr A. 1841-1921 Labriola Antonio 1843-1904 Lafargue Paul 1842-1911 Lahautière Richard 1813-1882 Lamennais Felicitè Robert 1782-1854 Laponneraye Albert 1808-1849 Lassalle Ferdinand 1825-1864 Lenin Vladimir I. 1870-1924 Liebknecht Karl 1871-1919 Liebknecht Wilhelm 1826-1900 Locke John 1632-1704 Longo Luigi 1900-1980 Lukacs Gyorgy 1885-1971 Luporini Cesare 1909-1993 Luxemburg Rosa 1870-1919 Machiavelli Nicolò 1469-1527 Malatesta Enrico 1853-1932 634
Mao Tse-tung 1893-1976 Marcuse Herbert 1898-1979 Martov Julij O. C. L. 1873-1923 Marx Karl 1818-1883 Matteotti Giacomo 1885-1924 Mayers Hyndman Henry 1842-1921 Mazzini Giuseppe 1805-1872 McCarthy Josef R. 1909-1957 Mehring Franz 1846-1919 Menotti Serrati Giacinto 1874-1926 Meslier Jean 1664-1729 Michels Robert 1876-1936 Molotov Vjaceslav M. 1890-1986 Montesquieu Charles 1689-1755 Morelly secolo XVIII Moro Tommaso 1478-1535 Morris William 1834-1896 Mussolini Benito 1883-1945 Nenni Pietro 1891-1980 Nietzsche Friedrich 1844-1900 Owen Robert 1771-1858 Pannekoek Anton 1873-1960 Parvus (Aleksandr Gelfand) 1867-1924 Piatakov J. Leonidovic 1890-1937 Plechanov Georgij 1856-1918 Prampolini Camillo 1859-1930 Proudhon Pierre Joseph 1809-1865 Radek Karl 1885-1939 Raphael Max 1889-1952 Renner Karl 1870-1950 Ricardo David 1772-1823 Roosevelt Franklin Delano 1882-1945 Rosmini Antonio 1797-1855 Rousseau Jean Jacques 1712-1778 Saint-Just Louis-Antoine-Lèon 1767-1794 Saint-Simon Claude Henri 1760-1825 Sartre Jean Paul 1905-1980 Scheidemann Philipp 1865-1939 Schumpeter Joseph A. 1883-1950 Secchia Pietro 1903-1973 Smith Adam 1723-1790 Sraffa Piero 1898-1983 Stalin Josif V. D. 1879-1953 Staudinger Franz 1849-1921 Sternberg Fritz 1895-1963 Stirner Max 1806-1856 Sturzo Luigi 1871-1959 Sun Yat-sen 1866-1925 Sweezy Paul 1910-2004 Tasca Angelo 1892-1960 Terracini Unberto 1895-1983 635
Thalmann Ernst 1886-1944 Tito Josif 1892-1980 Tocqueville Alexis (de) 1805-1859 Togliatti Palmiro 1893-1964 Tristan Flora 1803-1844 Trotzkij Lev D. 1879-1940 Truman Harry Spencer 1884-1972 Tugan Baranovskij Michail J. 1865-1919 Turati Filippo 1857-1932 Vandervelde Emile 1866-1938 Varga Eugen 1879-1964 Weber Max 1864-1920 Weitling Wilhelm 1808-1871 Winstanley Gerrard secolo XVII Zinov’ev Grigorij E. 1883-1936
636
Italia - Dati elettorali dal 1946 al 1992 Elezioni politiche (Camera dei deputati) Pci
2/6/’46
Sinistra (1)
v.a.
% val.
%elett.
v.a.
% val.
%elett.
4.356.686
19,0
15,6
9.114.815
39,7
32,5
-
-
8.137.047
31,0
27,9
18/4/’48
-
7/6/’53
6.121.922
22,6
20,2
9.563.227
35,3
31,6
28/5/’58
6.704.706
22,7
20,7
10.912.817
36,9
33,6
28/4/’63
7.767.601
25,3
22,7
12.023.437
39,7
35,2
19/5/68
8.555.477
26,9
24,1
14.573.972
45,9
41,0
7/5/72
9.085.927
27,2
24,5
13.372.830
40,1
36,1
76
12.614.650
34,4
31,2
16.738.732
45,6
41,4
79
11.107.883
30,4
26,1
15.512.922
42,4
36,7
83
11.032.318
29,9
23,3
15.797.719
42,8
36,0
87
10.249.690
26,6
22,5
16.393.691
42,5
36,0
8.518.389(2) 21,7
17,9
13.854.747
35,3
29,2
92 _____
Prima percentuale su voti validi; seconda percentuale su aventi diritto al voto. (1) Pci-Pds-Prc, Psi, Psiup, Manifesto-Pdup, Dp-Nsu, Mpl, Partito comunista rivoluzionario. (2) Pds-Prc.
637
Italia - Suffragi raccolti dallo schieramento di sinistra in occasione delle elezioni politiche. Voti percentuali su totale elettori.
Consensi 45 40 35 30 25 20 15 10 5 0 46 48 53 58 63 68 72 76 79 83 87 92
638
Governi in Italia dal 26 luglio 1943 al 31 dicembre 1991 Presidente
dal
al
partiti della coalizione
26/7/43 22/4/44 18/6/44 12/12/44 21/6/45 10/12/45
17/4/44 18/6/44 10/12/44 19/6/45 8/12/45 1/7/46
composto da funzionari Dc, Pci,Pd’A,Pli, Psiup Dc, Pci,Pd’A,Pli, Psiup Dc, Pci, Pli Dc, Pci,Pd’A,Pli, Psiup Dc, Pci,Pd’A,Pdl,Pli, Psiup
13/7/46 2/2/47 31/5/47 23/5/48 27/1/50 26/7/51 16/7/53 17/8/53 18/1/54 10/2/54 6/7/55 19/5/57 1/7/58 15/2/59 25/3/60 26/7/60 21/2/62 21/6/63 4/12/63 22/7/64 23/2/66 24/6/68 12/12/68 5/8/69 27/3/70 6/8/70 17/2/72 26/6/72 7/7/73 14/3/74
20/1/47 31/5/47 23/5/48 14/1/50 16/7/51 29/6/53 28/7/53 12/1/54 30/1/54 22/6/55 6/5/57 19/6/58 26/1/59 24/2/60 19/7/60 2/2/62 16/5/63 5/11/63 26/6/64 21/1/66 5/6/68 19/11/68 5/7/69 7/2/70 6/7/70 15/1/72 26/2/72 12/6/73 2/3/74 3/10/74
Dc, Pci, Pri, Psiup Dc, Pci, Psiup Dc, Pli, Pri, Psli Dc, Pli, Pri, Psli Dc, Pri, Psli Dc, Pri Dc Dc Dc Dc, Pli, Psdi Dc, Pli, Psdi Dc Dc, Psdi Dc Dc Dc Dc, Pri, Psdi Dc Dc, Pri, Psdi, Psi Dc, Pri, Psdi, Psi Dc, Pri, Psdi, Psi Dc Dc, Pri, Psu Dc Dc, Pri, Psdi, Psi Dc, Pri, Psdi, Psi Dc Dc, Pli, Psdi Dc, Pri, Psdi, Psi Dc, Psdi, Psi
Dalla estromissione di Mussolini all’Assemblea costituente Badoglio Badoglio Bonomi Bonomi Parri De Gasperi Govern repubblicani De Gasperi De Gasperi De Gasperi De Gasperi De Gasperi De Gasperi De Gasperi Pella Fanfani Scelba Segni Zoli Fanfani Segni Tambroni Fanfani Fanfani Leone Moro Moro Moro Leone Rumor Rumor Rumor Colombo Andreotti Andreotti Rumor Rumor
639
Moro Moro Andreotti Andreotti Andreotti Cossiga Cossiga Forlani Spadolini Spadolini Fanfani Craxi Craxi Fanfani Goria De Mita Andreotti
23/11/74 12/2/76 29/7/76 11/3/78 20/3/79 4/8/79 4/4/80 18/10/80 28/6/81 23/8/82 1/12/82 4/8/83 1/8/86 17/4/87 28/7/87 13/4/88 22/7/89
7/1/76 30/4/76 16/1/78 31/1/79 31/3/79 19/3/80 27/9/80 26/5/81 7/8/82 13/11/82 29/4/83 27/6/86 3/3/87 28/4/87 11/3/88 7/7/89 29/3/91
Dc, Pri Dc Dc Dc Dc, Pri, Psdi Dc, Pli, Psdi Dc, Pri, Psi Dc, Pri, Psdi, Psi Dc, Pli, Pri, Psdi, Psi Dc, Pli, Pri, Psdi, Psi Dc, Pli, Psdi, Psi Dc, Pli, Pri, Psdi, Psi Dc, Pli, Pri, Psdi, Psi Dc, Indipendenti Dc, Pli, Pri, Psdi, Psi Dc, Pli, Pri, Psdi, Psi Dc, Pli, Pri, Psdi, Psi
640
Evoluzione dello stock del debito pubblico esterno dei Paesi in via di sviluppo 1970-2008
1440 1600 1400 1200 1000
800 600 400
1
200 0 1
Fonte: Elaborazione su dati Banca Mondiale
Evoluzione del tasso di profitto negli Usa e in Europa 1960-1982-2007
12
10,17 8,7
10 8
8,3
7 6 5
6
Usa Ue
4 2 0
50
82
07
Fonte: Elaborazione su dati Ameco, Commissione europea
641
Evoluzione del monte salari in percentuale sul Pil negli Usa e In Europa (dei 15) 1960-1981-2008 66
65,2 66 64
64,2 62,7 61
62 60
Usa 57
58
Ue
56 54 52
60
81
08
Fonte: Elaborazione su dati Ameco, Commissione europea
Evoluzione dei tassi di profitto delle societĂ finanziarie e non finanziarie degli Stati Uniti 1980-2005 30 30 25 20
18 15,2 Finanziarie
15 10
8
6,5
5
Non finanziarie
5 0
60
90
05
Fonte: Elaborazione su dati US Departement of Commerce
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