racconti famigliari

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Racconti famigliari di Monti William


Questa ricerca è dedicata a mia figlia Viviana e a tutti i discendenti della famiglia Dalli Monti di Marola. Ogni giorno passato su questo lavoro ha fatto crescere in me la profonda consapevolezza di essere testimone di una stirpe speciale che, seppur senza mezzi e senza cultura, ha saputo portare avanti il proprio nome con orgoglio attraverso un millenio di storia.


Indice pagine 4

La ricerca

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Il Medioevo

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Il XVI secolo

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Il XVIII secolo

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Il XIX secolo

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Piccolo album di famiglia

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I racconti

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L’incontro con Matilde

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1645

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1888

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La ricerca


Il Medioevo I periodi più antichi sono problematici per la mancanza di fonti scritte anche per i veri storici, non avendo dati certi a cui fare riferimento si deve procedere per ipotesi. Secondo Francesco Milani (Monsignore e studioso della storia locale reggiana e in particolare di Marola ) la nostra famiglia dovrebbe provenire da una zona montana di confine fra Toscana ed Emilia: la VaI d'Asta. Questa valle fu abitata fin dal periodo preromanico dalla popolazione dei Liguri, sia i Romani che gli Etruschi e gli Umbri non si spinsero mai a quote tanto elevate sui monti. Oltre a questo popolo è possibile che vi fossero anche insediamenti Longobardi poiché si trattava di una zona strategica di passaggio per gli eserciti del longobardo Adalberto Atto (fondatore della stirpe dei Canossa, creato conte e duca poi marchese di Toscana). Questo condottiero avrebbe potuto insediare, in un luogo tanto determinante per la sua politica di espansione in Emilia, famiglie longobarde a lui fedeli per approvvigionare le sue truppe di passaggio e allevare cavalli. Partendo da queste considerazioni mi sento di avanzare due ipotesi: l) I Monti potrebbero derivare dai Liguri, popolazione montanara diffusa sull'Appennino Reggiano e in molte zone d'Italia. Una delle più antiche etnie italiane, di origini poco chiare forse africane, organizzata in piccole comunità autonome senza capo o re con un’incredibile e innata combattività. Infatti questa popolazione pur non avendo una salda unità politica non si sottomise facilmente ai Romani. 2) I Monti potrebbero invece essere di origine longobarda, discendere quindi dalle popolazioni germanicche scese in Italia nel IV secolo d.C. provenienti dalle zone toscane del lucchese. Si tratta di famiglie appartenenti alla sfera di influenza dei Canossa, con cui poi la loro storia continuerà ad intrecciarsi. Per quanto riguarda il periodo del basso Medioevo, più recente è presumibile che per tutto l'XI secolo i nostri avi abbiano abitato nella comunità di VaI d'Asta (Minozzo) facendo i pastori e vivendo nella più nera miseria. Soltanto verso la fine del XI secolo, nel 1090, l'incontro con la duchessa Matilde di Canossa, figlia ed erede di Bonifacio III duca e marchese di Toscana, cambiò la situazione. La celebre Sovrana era una potente feudataria profondamente devota alla chiesa e stipulò con la famiglia dei Monti e quella dei Boastri un contratto per lo sfruttamento dei castagneti di Marola: per roncare (tagliare) i boschi e raccogliere le castagne a Marola. Queste famiglie furono infati le prime ad abitare il territorio marolese, particolarmente ricco di castagneti, di boschi e

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abitato fino da allora solo dai monaci poiché Matilde in questi luoghi aveva patrocinato la creazione di un monastero ad opera di Giovanni l'eremita nel 1080. A questo punto rimane da chiarire perché la scelta della Duchessa cadde proprio su questo gruppo di persone. Forse fu un fatto casuale motivato dal bisogno di coloni, o da un atto caritatevole verso una comunità in difficoltà, ma potrebbe anche essere legata all'origine longobarda delle famiglie scelte e quindi alla tradizione di fedeltà alla casata dei Canossa. A Marola avvenne quindi il fortunato passaggio dalla pastorizia alla silvicultura della famiglia Monti che porterà prosperità per tre secoli. Spostandosi dalla VaI D'Asta alla località che oggi si chiama i Monchi, la famiglia Monti non solo ha superato la crisi ma ha acquistato fra l' XI e il XIII secolo sempre maggior prestigio. Esistono documenti che testimoniano questo cambiamento: nel 1184, Guido Clericus Montibus risulta firmatario di un rogito per l’acquisto di terreni. Questo fatto mi fa pensare ad una situazione piuttosto florida nel casato dei

Montibus (Dalli Monti), proprio perché non era di secondaria importanza in quei tempi avere fra i membri della famiglia un sacerdote, appunto un clericus, che era un uomo libero e affrancato dagli obblighi feudali di lavoro. Inoltre nel 1216 Bernardus De Montibus risulta firmatario di un contratto di affitto di due terreni stipulato con i monaci di Marola. Dobbiamo supporre, vedendo le strutture ancor oggi esistenti e sorte nel XIII secolo ai Monchi, che

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ci sia stato in quel periodo un buon andamento dell’ economia famigliare. Non solo si presero nuovi terreni in affitto per la raccolta di castagne ma si costruirono case nuove ed essicatoi più grandi attorno al pianoro oblungo dei Monchi. Il Librum Focorum, censimento del 1484 voluto dai D’Este che acquistano il territorio marolese nel 1406, riporta fra i capifamiglia più importanti Bertono delli Monty di Marola, da questo possiamo dedurre che durante tutto il trecento e il quattrocento la famiglia si sia fatta potente e numerosa nella comunità di Marola. Nel 1535 una parte dei Monti si sposta dai Monchi alla Canova, casa costruita dagli stessi pochi anni prima nel 1530. Si tratta di una bellissima dimora edificata nel momento del massimo splendore economico. Essa è attualmente abitata ed è stata in parte modificata nel XVIII secolo con l’aggiunta di una straordinaria loggia. L’ultimo restauro è datato 1994 commissionato dalla famiglia Canovi (da sempre abitante in quella casa) ramo derivato dalla stessa famiglia Monti che ha però assunto il nome dalla Canova appunto. Comincia il cinquecento in un clima favorevole di ricchezza.

l Documento ritrovato all’Archivio del Monastero di Marola (L. c, Busta III ,49), Lite per possedimento di terra in Gombio, pervenuta poi in seguito attraverso donazione al convento, nel rogito compare Guido Clericus Montibus, il rogito risulta effettuato in foro Antoniani (Carpineti). 2 Incartamento ritrovato nell’ Archivio del convento di Marola fra i contratti di affitto fatti dai Monaci 3 Archivio di Stato di Modena

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Il XVI secolo In questo secolo la Chiesa si avvia a divenire un organismo politico e amministrativo oltre che spirituale. Nel 1563 il Concilio di Trento introduce l’uso di censire le nascite, le morti e i matrimoni in modo sistematico all’interno delle singole parrocchie. La maggior parte dei cognomi si fissa in questo periodo storico per far fronte alle nuove esigenze amministrative che obbligavano ad identificare con precisione i nuclei famigliari. Questo non riguarda il cognome Monti che risale all’XI secolo come abbiamo potuto vedere dai documenti ritrovati. Il cognome Montibus o De Montibus potrebbe essere anteriore alla venuta in Marola e quindi, esser stata la stessa famiglia a dare il nome ai luoghi da lei occupati, oppure viceversa i nuclei stanziatisi ai Monchi avrebbero assunto il nome dal luogo. Nel primo caso la stirpe avrebbe mantenuto la propria identità dando la medesima connotazione al luogo, nel secondo, Dalli Monti o Montibus avrebbe il significato di: coloro che provengono dai Monchi e che vi abitano. Comunque sia è impossibile giungere ad una soluzione certa anche per la morfologia del nostro cognome (che si richiama presumibilmente ad un luogo ), quindi entrambe le ipotesi sono plausibili. La parrocchia di S.Donino di Marola documenta a partire dalla metà del 1500 lo stato dei suoi parrocchiani e per nostra fortuna questi documenti si sono conservati per 450 anni ,con essi e con quelli di altre parrocchie ho potuto ricostruire mezzo secolo di storia dei Monti stabilitisi alla Canova. Il primo componente della famiglia ad essere iscritto nel libro della parrocchia di S. Donino è Domenico dalli Monty di Marola della Canova. Con suo figlio Bartolomeo dalli Monti, nato nel 1580, comincia il declino della famiglia, contribuirono liti, processi, cattivi investimenti, forse questioni politiche che indussero i Capifamiglia di maggior prestigio a prendere una sofferta decisione. La congrega dei Monti si divide in tre diversi rami: Il ramo di discendenza diretta pur continuando a chiamarsi Dalli Monty di Marola esce dalla Canova e va in affitto nel palazzo del Conte Fontanelli (ex Monastero di Marola); un secondo ramo che rimane ai Monchi continua a chiamarsi dalli Monty di Marola mentre un terzo ramo della Canova cambia nome e diventa Canovi della Canova. Probabilmente durante tutto il 1500, ed oltre, i nostri avi ebbero il permesso dal Vaticano di farsi seppellire dentro la chiesa romanica di Marola. Questo è testimoniato dall’Archivio Vaticano poiché la chiesa e il Monastero di Marola dipendono direttamente dalla Santa Sede fin dalla loro nascita, avvenuta, come abbiamo già avuto modo di dire, nel 1080. Il punto esatto

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di sepoltura era il primo tombino sul pavimento vicino alla porta di entrata. LÏ vennero seppelliti insieme ai Canovi fino al 1800 tutti i Monti residenti in Marola. La prima sepoltura accertata dei nostri parenti è quella di Giulia figliuola di Pietromaria dalli Monty di Marola, parente non diretta, cugina di Bertolomeo: Atto di morte di Giulia Morse a di 29 luglio 1602 fu sepolta nella chiesa di Marola, presenti Franceschino e Pietromaria suddetto et altri del popolo fatti per me curato e don Marco Capellano, le solite essequie e suffragi.

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Il XVIII secolo

Loggiato del 1700 alla Canova Nell’anno 1700 da Bernardo Monti figlio di Carlo e Cattarina sua moglie, nasce Carlo che sarà il capofamiglia più importante di tutto il XVIII secolo ed avrà una vita lunga e travagliata. Presumibilmente, con lui avverrà l’importante passaggio da un’attività di carattere silvopastorale , legata alle zone boschive di Marola ed ai suoi castagni, all’ attività agricola, che rimarrà quella principale della famiglia fino all’età moderna. Tutto il territorio reggiano viveva, in quei tempi, una grave crisi sia economica che monetaria per questo nella seconda metà del 1700 si cercherà di dare impulso al settore agricolo per aumentare la produttività e recuperare il territorio sotto la supervisione degli illuministi reggiani. Carlo dopo aver lavorato come servitore in diverse famiglie contadine del marolese apprende l’arte di coltivare i campi e riesce all’eta di 50 anni a formare una famiglia con Giovanna Filippi. Con non pochi sforzi da parte sua ha la possibilità di coltivare la terra come mezzadro, un cambiamento importante nella storia dei Monti. Lo Stato delle anime dell’anno 1783 redatto dal parroco di Felina, nel quale si trova la famiglia di Carlo Monti fotografa la situazione famigliare ma

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su questo documento sono presenti alcune anomalie: Bernardo risulta nato nel 1753, Giovanni nel 1759 e Antonio Carlo Angelo nel 1760. Infatti Carlo, per errore, risulta settantenne mentre doveva in realtà avere oltre ottant’anni essendo nato circa nel 1700. Un altro errore è la parola libero che segue il nome di Giovanni, non è esatta dato che Govanni era da poco sposato con Maria Campovecchi, lo prova la nascita della figlia Rosa Celeste e il ritrovamento di una lettera che il parroco di S. Donino. Gianotto Silvi, scrisse il 30 giugno 1782 al parroco di Felina per dare il proprio assenso al matrimonio dei due. Diversi anni dopo la redazione di questo stato delle anime Giovanni all’età di 25 anni si trasferisce con sua moglie Campoveccbi Maria nalla borgata di Ca Cerrettì che si trova nel territorio di Felina a circa dieci chilometri da Marola verso la VaI D’Enza . Giovanni ha da Maria tre figli: Lorenzo(nato nel 1800), Caterina Maria Giovanna (nata nel 1791) e Anna Maria Cattarina (nata nel 1811). Negli ultimi decenni del secolo la situazione per la popolazione diventa sempre più insostenibile, cominciavano a sentirsi gli echi della Rivoluzione francese e dal 1796 al 1815 si attua la Rivoluzione borghese nelle zone circostanti la città di Reggio . L’occupazione napoleonica che rappresetna per molti aspetti un evento straordinario, per i contadini reggiani non cambia nulla, poiché per loro rimangono gli stessi oneri da pagare in tasse e per questa ragione già nel 1797 essi si ribellano ai francesi. Questa Rivoluzione non è per loro che una parentesi terminata nel 1815 con il ritorno del Duca, insieme agli austriaci, senza portare alcun miglioramento delle condizioni di vita.

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Il XIX secolo Agli inizi del secolo la situazione contadina nel reggiano si presentava in mod frastagliato: da un lato la montagna in cui sono piccoli proprietari dediti alla pastorizia, dall’altro la collina in cui si produce uva e la media pianura in cui si producono latte e formaggio infine la pianura vera e propria in cui non ci sono contadini, se non in numero irrilevante, ma braccianti e lavora-

Le Salatte

tori stagionali poiché quasi tutti i terreni sono di proprietà dei baroni. Nel 1805 iniziano i lavori di sistemazione del passo del Cerreto, importante collegamento fra la città e la montagna oltre che con le valli liguri e il mare. La famiglia Monti in questo periodo è proprietaria della casa alle Salatte, non più con un contratto di mezzadria ma contadini proprietari ormai da un secolo. Il capofamiglia più importante è Lorenzo, un personaggio molto

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particolare che ha una vita travagliata. Nel 1827 sposa la prima moglie Maria Tedeschi e va ad abitare nella casa in località Le Salatte, borgata della parrocchia di Felina, insieme al padre Giovanni ormai settantenne e alla madre. Da Maria Tedeschi, Lorenzo ha due figli: Giuseppe nato nel 1829 e Giovanni nato nel 1832, anno in cui un violento terremoto colpisce la la montagna reggiana facendo ingenti danni. Dopo due anni la giovane Maria muore e Lorenzo dopo poco cerca moglie anche per crescere i suoi due figli, dal 1834 al 1847 sposa e ripudia tre donne diverse. Soltanto nel 1847 si sposa definitivamente con Francesca Giberti dalla quale ha due figli. Il primo Domenico Giuseppe nel 1847 ed il secondo Antonio Giovanni nel 1850. Il particolare carattere di Lorenzo emerge anche dal fatto che non sceglie come successore alla conduzione della famiglia il suo primogenito, come vorrebbe la tradizione, ma sceglie il secondogenito Giovanni, avo diretto del nostro ramo della famiglia. Questa scelta poteva essere dettata da incomprensioni fra i due oppure da una vera e propria incapacità dimostrata dal primogenito. Giovanni, il secondogenito invece si sposerà con Lucilla Pinotti nel 1855 e avrà da questa tre figli Marianna (1856) Lorenzo (1858) e Giuseppe Carlo nato nel 1863, tre anni dopo l'unità d'Italia. Per tutta la seconda metà del 1800 la famiglia rimane a Le Salatte, dove il giovane Giuseppe Carlo sposa nel 1887 Beatrice Becchetti di Marola, divenendo poco dopo capo famiglia. Ed è la seconda volta in meno di un secolo che il figlio, secondogenito prende in posto del più anziano alla conduzione della famiglia. La discendenza di Giuseppe Carlo e di sua moglie Beatrice ci interessa da vicino: Le notizie utili relative al nostro casato durante il novecento sono legate agli spostamenti fatti, come per tutte le grandi famiglie contadine di quel periodo. Nei primi anni del secolo nel 1909 e precisamente 1'11 di novembre la famiglia emigra dalle Salatte per raggiungere la località chiamata Il Lupo comune di Vezzano sul Crostolo. Nel 1913 si sposta ancora e va ad abitare nella meravigliosa casa a torre di Sedrio detta De dlà da l'acqua comune di Vezzano sul Crostolo . Tre anni più tardi il nucleo di Giuseppe va ad abitare a Villa Seta (Ca del Bosco di Sopra) sempre in provincia di Reggio Emilia, nel podere chiamato La Palaseina. Dopo la Prima guerra Mondiale (verso il 1921) il ramo dei Monti giunto fino a noi si divide definitivamente distribuendo famiglie in Emilia in Liguria, in Francia e anche per un certo periodo in Australia. Il mio avo diretto e precisamente mio nonno è Adelchi Primo, diviso dal resto dei parenti, abita per pochi anni alla" Maduneina " borgata di case posta sulla statale 63 nei pressi di Zurco di Ca del Bosco Sopra, da prima sbarca il lunario come bracciante nei poderi della Bassa Padana , poi viene assunto verso il 1927 come manovratore carri alle


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officine Reggiane . Nel 1929 cambia residenza probabilmente per avvicinarsi al posto di lavoro e va ad abitare al ",Bus ed'la Runçeina" (borgata di R.E.). Adelchi Primo si era sposato con Bertolini Venesca nel 1912 dalla quale aveva avuto 4 figli: Alberina morta di pochi giorni nel 1913 , Arturo mio padre nato nel 1915 ,OmelIa detta Guerina e Fides rispettivamente nate nel 1917 e nel 1927 . Per tutto il periodo della grande guerra la mia famiglia abita al " Bus " e anche durante il cosÏ detto" miracolo economico" degl'anni 50 - 60, periodo della mia nascita.


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Piccolo album di famiglia

Arturo e Laura papĂ e mamma


Guerrina, Fides, Arturo

Giuseppe

Venesca detta Antenesca

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I racconti


L’incontro con Matilde

Nella stanza la luce penetrava appena da una piccolissima finestra semichiusa, un uomo parlava con voce commossa, aveva i capelli lunghi e disordinati con due baffi appena segnati, il suo nome era Antonio, il capo famiglia. Non era il più anziano della comunità ma era certo il più saggio. La nostra gente sta soffrendo, quello che una volta è stato un punto di passaggio importante col passar del tempo si è ridotto a poco e nulla. Diceva. Nei primi anni dell’ insediamento in quella dura zona, nel cuore delle montagne Tosco Emiliane, le cose non erano andate male: maiali e pecore da allevare, un discreto passaggio di soldati, che non mancavano di comprare formaggio, pane fatto in casa e carne insaccata; nei i boschi poi c’erano anche legna da ardere in abbondanza, mirtilli, funghi da raccogliere e selvaggina. Agli inizi del dominio dei Signori di Canossa l’importanza strategica del passaggio fra Toscana ed Emilia giustificava a pieno la fatica del vivere sul crinale ma col passare del tempo tutto era cambiato. Ora il consolidamento del potere dei Conti e l’aumentato interesse degli stessi sulla Padania avevano indebolito il transito sulla dorsale appenninica e ridotto agli stenti la popolazione. Era da poco passata la quarta ora del pomeriggio ed il sole cominciava a perdere luminosità, la neve ghiacciata splendeva di un riflesso bluastro e le piccole case formavano ombre lunghissime sui pendii montani. Il freddo era nelle ossa e i montanari stavano pressati come sardine nella stanza da pranzo della casa di Bernardo, la più grande dell’intero paese. Antonio parlava senza enfasi, cercando di spiegare le ragioni di quella improvvisa riunione. Era un uomo di media statura con due occhi azzurri chiari, la fronte alta, il freddo gli scavava solchi profondi sul viso e la mani esili gli servivano per parlare.

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Non si erano riuniti, in quel pomeriggio grigio, per raccontare della fame sofferta o di quella futura ma per un avvenimento di grande interesse. Domani Matilde di Canossa, la Contessa passerà di qui. Antonio insisteva. Più di una volta si era cercato di far sapere alla Contessa, attraverso il consiglio dei capi famiglia, le gravi difficoltà in cui versava la comunità di montanari ma senza successo. Antonio si guardava intorno e vedeva soltanto disperazione, nei volti dei bambini e nei loro corpi scheletrici mal coperti dal ruvido tessuto; nell’abbraccio delle madri mute impaurite dalla fame; nella smorfia degli uomini all’ululato del lupo che da un po’ di tempo si avvicinava sempre più alle case, mettendo in serio pericolo le poche pecore rimaste. Non c’era più niente da mangiare, la neve era già scesa ed il fuoco da solo non bastava a rallegrare gli animi. Antonio voleva che si riunissero ad aspettare, all’alba, il passaggio della tanto amata Contessa sul ciglio della strada, a pochi passi dal villaggio per l’ultima disperata supplica. Uno alla volta i montanari si congedarono sommessamente con pochi cenni di consenso; molti, raggiunta la propria casa cominciarono a pregare, altri accesero ceri votivi a tutti i santi conosciuti senza escluderne nessuno. Nel buio profondo della notte non dormì nessun uomo o donna, solo i piccoli presero sonno come ogni altra sera nonostante il dolore allo stomaco vuoto. L’indomani erano tutti lì, tra la neve alta fino alla cintura, sul ciglio della via sterrata e così apparvero a Matilde, seduti sulla neve bambini e grandi insieme abbracciati in quell’ultimo gesto disperato. Stavano in silenzio e guardavano ammirati il prodigio che stava avvenendo: la Contessa saliva lungo l’impervia strada seguita da una milizia di soldati a cavallo. Gli occhi di tutti erano fissi sul corteo, su quei cavalli che soffiavano con forza dalle narici tese col mantello che fumava per il sudore e il collo che si spostava in avanti e si allungava come per cercare aria. I soldati con mantelli lunghissimi e i copricapi di metallo erano ingobbiti dal freddo


e di tanto in tanto si massaggiavano le gambe o le distendevano lungo i fianchi del cavallo facendole dondolare. Il tempo dell’attesa sembrava interminabile come il freddo, rompevano il silenzio soltanto le parole dei soldati che uscivano dalla bocca seguite da un alone di fiato caldo che diventava vapore. Improvvisamente dal pendio uscì il sole e dal fianco dei soldati si animarono di luce le lame delle armi che colpirono gli occhi dei montanari nel loro scintillio. Ai bambini sembrò un gioco e le loro risa riempirono la valle, anche loro facevano quel gioco, riflettevano il sole sui pezzi lucidi di metallo: la vecchia sussurrarono, come lo chiamavano loro quel gioco. Adesso che il drappello si avvicinava si poteva vedere la vice Regina d’Italia. Non si scomponeva, pareva assorta nei suoi pensieri. Il suo cavallo, grigio, il più bello e fiero, procedeva solenne. Era coperta da un lungo mantello di velluto viola cangiante al sole mattutino e sopra il capo portava un cappello fermato da una spilla d’argento che lasciava cadere una ciocca di capelli rossi sulla fronte. Al gruppo di montanari la forza cominciava a mancare, Antonio il capo famiglia prescelto per fermare ed implorare la Duchessa era il più grigio, il colore del suo volto era come quello della cenere che si usa a far bucato e le parole da dire non uscivano dalla bocca. I dubbi erano sorti all’improvviso, serpeggiando come il corteo dei soldati su per la montagna: “se la proverbiale carità della Signora non fosse poi così proverbiale?” Pensava Antonio “e se scambiasse una supplica per un aggressione?” “E se i pensieri di una Contessa fossero troppo grandi e importanti per essere interrotti dalla supplica di pochi montanari?”. Si accorsero in quel momento che nella loro misera condizione era difficile affrontare la fame ma ancor di più lo era affrontare i potenti. Matilde era così vicina che si poteva toccare, soltanto una piccola salita li separava. Antonio, all’improvviso, si girò verso il paese, voltando le spalle alla Contessa e orinò contro la neve, lasciando un piccolo disegno giallastro. Per la tensione altri montanari lo imitarono in particolare i bambini.

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Quando si voltarono la Contessa era già lì davanti a loro, si era fermata per un attimo davanti ad Antonio e pareva intenzionata ad ascoltarlo. Non una parola uscì dalla sua bocca, il montanaro si limitò a guardare la gran Sovrana con una disperazione più eloquente di mille discorsi. Matilde sapeva della disavventura di quella comunità ed aveva già ricevuto da varie parti preghiere e suppliche perché salvasse quelle genti per la pietà cristiana che muoveva il suo animo. Matilde iniziò a parlare, ascoltarono tutti ma pochi capirono. Dobbiamo partire domani disse Antonio alla fine del colloquio. Dobbiamo raggiungere la località denominata Marola e una volta lì giunti possiamo prendere possesso di un pezzo di castagneto. Con le castagne raccolte Antonio sapeva che avrebbero allontanato per sempre lo spettro della fame. La contessa se ne andò con la sua milizia e con gli occhi tutti continuarono a seguire i riflessi del suo mantello viola. Rimase dentro il cuore la gioia per aver camminato al passo con grandi eventi tra lo scintillio delle armi e l’odore di cavallo sudato. Tre capi delle famiglie più bisognose, probabilmente quelle che non avrebbero superato integre l’inverno, partirono l’indomani: Mauro di Giacomo, pastore, Mario di Fabio, pastore, Antonio di Bernardo, boscaiolo Si incamminarono uno dietro l’altro verso la valle, non sapevano niente, la terra promessa era lontana e a loro sconosciuta le strade da percorrere impervie e piene di pericoli nascosti dalla folta vegetazioni. Voltandosi verso casa si vedevano ancora le mogli sulla soglia con i figlioletti fra le gambe che salutavano lentamente. Avevano il cuore stretto, come trafitto, da una strana sensazione di caldo, era paura, poi tutto tornò calmo nella bruma fredda del mattino: la fame era la bestia più nera di tutte ed il pericolo di morirne era la paura più grande di qualsiasi altra. Agli occhi di chi li incontrava sulla strada di montagna apparvero, sotto una leggera pioggia ghiacciata avvolti nei loro miseri stracci. Tutti e tre portavano un lungo mantello di pelle di montone che gli scendeva fino alle caviglie, calzavano suole di legno fasciate ai piede con strisce di cuoio e calzoni di tela senza tasche. Per proteggere le mani dal gran freddo avevano ritagli di pelle ravvolti. Tutto il loro


avere era un grosso bastone e pochissime provviste raccolte in una piccola bisaccia legata in cintura.

I tre viaggiatori L’intera prima giornata fu consumata nel decidere quale direzione prendere ma verso il calar del sole, grazie al naturale ingegno di Mario, i tre montanari si trovarono come per incanto nel gretto del fiume Secchia. Avevano parlato poco durante tutto il viaggio, presi a guardare paesaggi e cose mai viste. Per i nostri amici non era facile orientarsi fra sassaie, foreste, cespugli di rovi, torrenti e sentieri costeggiati da perfidi dirupi. Mario e Mauro avevano già viaggiato insieme, durante la stagione delle migrazioni, per portare le pecore ai pascoli alti sul monte Cusna. Tutti e tre avevano circa 30 anni, erano nati nello stesso paese e si conoscevano da sempre. Erano stanchi ed affamati perché in tutta la giornata non si erano fermati nemmeno per mangiare ed ora stavano cercando un rifugio per la notte. In quest’ora della sera il pensiero tornava a chi era rimasto a casa davanti al fuoco: Mario pensava alla sua Caterina, una donna semplice e buona e ai suoi due figli, Bernardo, avuto con Maria morta di parto e Luigi avuto da Caterina. Si era dovuto risposare presto per far sopravvivere il figliolo appena nato e lo aveva fatto con la sua vicina di casa, non bella ma tanto buona. Mario aveva una folta chioma di capelli scuri e riccioluti che ricopriva un volto scarno ed appuntito, due piccoli occhi tondi veloci come un lampo appoggiati ad un forte naso, una dolce bocca sottile ed onesta. Più che ad un pastore le sue fattezze si addicevano ad un antico guerriero greco. Mauro, figlio di Giacomo, ripensava invece alla sua Maria, una bella giovane di 20 anni, con la quale aveva avuto una figlia Sara. Il buon figlio di Giacomo era di ossatura larga, polsi e braccia forti, sotto al cappuccio di montone nascondeva i pochi capelli biondi su una fronte spaziosa e sudata. Il volto era lungo e sorridente con un paio di occhi piccoli e attaccati, il naso e la bocca

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erano belli, la sua altezza era inferiore di poco a quella di tutti e due i suoi compagni di viaggio. Anche Antonio era assorto nei suoi pensieri, era lui il designato dalla comunità a supplicare la Contessa per il suo alto senso di responsabilità ma anche lui aveva una famiglia. Si era sposato molto Giovane con la Cecilia, donna magra e burbera di nobili origini. Ripensava spesso a su padre Bernardo, nei momenti difficili, Bernardo che lo aveva lasciato orfano a soli otto anni. Si era impegnato ad imparare il mestiere del boscaiolo ma non vi era riuscito in pieno, in compenso era un buon pensatore, un saggio, tanto che quando nella comunità scoppiavano contrasti o liti si chiamava Antonio per porvi rimedio. Assorti dai suoi pensieri i tre montanari si fermarono dove il sentiero sembrava essere inghiottito dal fiume e guardandosi in faccia, senza fiatare capirono di non avere più riserve di energia, il duro sforzo dovuto alla giornata di cammino e la miseria patita costringeva i tre a fermarsi ancor prima del calar del sole. Per fortuna poco distante da quel punto trovarono un rifugio, una tana ai piedi di un altissimo monte di colore biancastro, sulla sommità si vedevano alcune colonne di fumo che facevano pensare all’esistenza di un paese (probabilmente Cerrè). Accesero il fuoco su una pietra al centro della grotta in una cavità un bel mucchio di cenere stava a dimostrare che quel luogo non era nuovo ad ospitare viandanti occasionali. Mangiarono senza parlare la stanchezza ed il caldo del fuoco sulla faccia inibiva la bocca e socchiudeva gli occhi. Solo Mario accennò per l’indomani, l’intenzione di percorrere il sentiero lungo il fiume Secchia fino a raggiungere il castello di Carpiteti, Mauro ed Antonio risposero con lo sguardo senza parlare e i tre ancora per pochi momenti udirono lo scoppiettio del fuoco sul braciere e il rumore della pioggia mescolata all’acqua del Secchia che in quel punto scende rapidamente a valle. Poi il silenzio del sonno e la magia dei sogni inghiottirono tutto. L’indomani, alle prime luci dell’alba, ripresero il cammino, Mario guidava il gruppo sparuto, non pioveva più, ed un timido sole appariva fra una nuvola e l’altra per intiepidire l’aria. I tre viaggiatori costeggiarono il gretto del fiume per diverse ore giungendo nei pressi di una cascata in cui l’acqua verso la valle formava un lago. Il fiume passava da impetuoso a calmo improvvisamente, sembrava riposare, la superficie si appiattiva allargandosi e piccole onde lo percorrevano in tutta la sua estensione. L’acqua era di una trasparenza tale da non riuscire a stimare la profondità del lago, più a valle enormi


sbarramenti di pietra levigata segnavano all’occhio la fine della golena, in quel punto l’acqua riprendeva la veloce corsa scomparendo dallo sguardo.

Il borgo Sul fianco della cascata il sentiero deviava allontanandosi dal fiume e dopo un breve tratto pianeggiante prendeva a salire il fianco di una dolce collina fino a raggiungere un piccolo borgo. Giunti a poche centinaia di metri dall’abitato i tre rallentarono il passo, erano obbligati dal fiume a percorrere quel nuovo sentiero ma non avrebbero mai voluto incontrare prendere quella via completamente sconosciuta. Mario ripeteva ad alta voce i consigli del padre ma non sapeva proprio come fare per uscire da quella situazione, prendere un percorso più ampio significava aggirare la strettoia ma con ogni probabilità perdere l’orientamento e la direzione senza il fiume come punto di riferimento. Continuare lungo il fiume però poteva essere molto rischioso perché sulle grosse pietre levigate si poteva scivolare nell’acqua ghiacciata, non rimaneva che attraversare il borgo. I montanari si avvicinarono sospettosi all’abitato, le case erano precedute da una breve radura erbosa e protette per tutta la lunghezza da uno sbarramento di alberi e pali legati fra loro che si interrompeva soltanto da un lato, per circa dieci passi, lasciando entrare il

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sentiero nell’insediamento. Dentro, due case di pietra di modesta dimensione erano poste al centro di un gruppo di baracche di fattura robusta, con porte e finestre di legno sotto un tetto di paglia. Le più distanti erano differenti e sembrava dalla sporcizia che uomini e bestie vi convivessero. Un signore basso e curvo si fece loro incontro a passi lunghi, sogghignava parlottando guardava verso il basso eppure veniva proprio verso di loro. Chi siete, disse, da dove venite e dove andate! Nel paese non si vedeva anima viva, il piccoletto non si avvicinava più di tanto e continuava a fissare mani e volto dei montanari, probabilmente per vedere se affioravano sintomi di malattie infettive gravi. Veniamo dalla Val d’Asta per raggiungere Carpineti poi Marola, rispose Antonio timidamente ma non troppo mostrando la carta che teneva ben stretta nella mano destra , è una lettera che Matilde Contessa di Canossa , ci ha consegnato da recapitare personalmente all’ Abate di Marola. Al suono di quel nome, Matilde, come per incanto il paese sembrò rianimarsi e apparve la gente che indaffarata percorreva i piccoli e fangosi cortili senza curarsi più di loro, come se fossero stati lì da sempre, perfino il loro interlocutore, soddisfatto dopo la risposta, li accompagnò per tutto il paese e li salutò con la mano finché non scomparvero coperti dal folto del bosco di quercioli .

Festa al castello A pochi passi dal bosco si fermarono a guardare verso valle, si poteva vedere distintamente il castello di Carpineti, abbarbicato ed imponente, prima di sera con l’aiuto di Dio l’avrebbero raggiunto. La sera si accamparono nei boschi ai piedi del castello, i tre montanari solitari frastornati dalle esperienze vissute nella giornata, prima di addormentarsi pregarono lungamente poi in silenzio si coricarono su un giaciglio di foglie umidicce guardandosi soddisfatti l’un l’altro. Avevano parlato poco durante il viaggio, non avevano avuto tempo da dedicare alla conversazione e nemmeno tempo per mangiare. Antonio aprì la bisaccia di pelo e ne estrasse l’ultimo pezzo di pane rimasto, con la bocca nascosta dalla mano vi introdusse tutto il pane


cominciando una lenta e complessa masticazione. Mario e Mauro divisero un pezzetto di formaggio di pecora tagliandolo in piccolissime strisce tanto per assaporarlo meglio. Dal cortile del castello si sentivano urla e risate, sembrava una festa, a tratti un cantore intonava una musica celtica. Nella scura sagoma del castello una finestra illuminata si apriva come l’occhio rosso di un gigante da cui uscivano il fumo dei fuochi, le voci e le musiche di una festa al castello. Il tintinnio dei bicchieri unito al rumore delle posate e dei pugni sul tavolo faceva capire ai nostri viandanti che si trattava di un nobile banchetto e la fantasia faceva il resto. L’odore di arrosto di cinghiale usciva dalla finestra, a bocca completamente spalancata e narici tese, i nostri montanari seduti sul terreno gelido, guardavano la colonna di vapore inzuppata di sapori deliziosi uscire dal pertugio luminoso e disperdersi senza pietà nell’ aria. I commensali mangiavano, urlavano e cantavano con la bocca piena, pareva di vederli, con una coscia di coniglio in bocca tracannare un bicchiere di buon vino e prima ancora di aver inghiottito il boccone girarsi, per il gusto di parlare. Una voce tuonò più forte delle altre, non si sentiva bene quel che aveva da dire ma doveva essere di grande importanza perché il silenzio calò tutto attorno, il parlare continuo per un poco di tempo poi la festa si riaccese con ancor più intensità, lunghe lingue di fuoco, accompagnate de sussulti di stupore, uscivano dalla finestra tingendo la gelida notte di un rossore misterioso, sembrava di essere scesi all’inferno tutto attorno gli animali spaventati si allontanavano frettolosamente: erano arrivati giocolieri e saltimbanchi. Soltanto nel cuore della notte gli invitati cominciarono a dare i primi segni di stanchezza, gli schiamazzi erano ridotti a dialoghi, balli e danze languivano accompagnati da svogliati cantori. Rimanevano gruppi di ombre ondeggianti riflesse dal fuoco del camino in piedi davanti alla finestra, immagini alte coperte da lunghi mantelli che pacatamente parlavano fra di loro come spiriti. D’improvviso si udì un rumore di serramenti provenire dal castello proprio dietro le spalle dai viandanti ed una massa enorme di verdure, fieno pestato impregnata di piscio di cavallo e rifiuti di mensa caddero a pochi passi da loro. I montanari in quel momento si svegliarono come da un sogno, il freddo riprese insieme alla

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fame mentre le prime luci dell’ alba illuminavano il castello. I fuochi tristemente si spensero, lo scalpitio dei cavalli attraversò il cortile acciottolato fino alla porta grande e le voci lentamente tacquero, per i tre montanari era finita una notte di festa come non gli era mai capitato di sentire in tutta la loro vita.

L’arrivo a Marola Era giunto il momento di riprendere il cammino, si alzarono con gesti rituali stirarono le membra addormentate, con le mani batterono gli abiti per togliersi di dosso lo sporco assorbito durante la notte. Ripresero lentamente il cammino aggirando il castello. Scesero per il pendio seguendo gli ultimi cavalieri usciti dal paese di Carpineti e dopo un paio d’ore si trovarono in un immenso bosco di castagne, seguendo l’unico sentiero agevole si trovarono di fronte alla bella Badia di Marola. Suonarono la campana con la corda posta a fianco del portale e di li a poco apparve un frate, alto e molto magro, che disse di chiamarsi Fra’ Onorato. Antonio si presentò consegnando la missiva datagli da Matilde, il sant’uomo prese la lettera in mano e se ne andò non prima di aver fatto accomodare i viandanti. Cominciava così la loro nuova vita senza fame e patimenti.


1645 a strada era piena di neve, tutta la borgata era bloccata da tempo. Dall’enorme camino acceso emanava fumo e calore, le voci della numerosa famiglia risuonavano nello stanzone solo Bernardo sembrava assente, non si interessava a nulla. Era di umore nero dal giorno della grande nevicata e guardava sempre dalla finestra. In realtà sentiva avvicinarsi il giorno della fine in cui sarebbero venuti a prenderlo i gendarmi. Il tentativo di uccidere il duca era fallito amaramente e qualcuno presto avrebbe fatto la spia. Restava immobile assorto nei suoi pensieri con un aria rassegnata: che sciocchezza tentare di uccidere il Conte con un coltello a pochi metri di distanza da cinque gendarmi. Quando era così vicino da poterlo toccare non era riuscito a tacere la sua indignazione, il suo sdegno per la miseria e la disperazione. La povera gente muore di fame gravata dalle tasse mentre il Conte esibisce i suoi broccati d’oro e i suoi mantelli di velluto. “Maledetto porco!”aveva gridato guardandolo in faccia perché non avesse dubbi sulle sue intenzioni, come se si potesse benedire qualcuno con un coltello in mano. Lo doveva sapere che era spacciato quel porco! Pensava. Eppure quell’errore di esuberanza e di gioventù gli era costato caro, aveva incrociato gli occhi azzurri e freddi dell’uomo che stava per uccidere e lui con la forza della disperazione era riuscito a sottrarsi alla lama che si era conficcata nella sella di morbido cuoio. Anche se era fuggito subito e aveva il volto coperto qualcuno poteva aver riconosciuto la sua voce. Tutti lo avrebbero denunciato per scagionarsi e sicuramente di lì a poco i gendarmi lo avrebbero catturato e ucciso dopo un assurdo processo. Gli spioni lo avevano senz’altro riconosciuto il modo di correre e la voce…di lì a poco il padrone avrebbe offerto una piccola ricompensa ed il suo nome in men che non si dica sarebbe stato sussurrato all’orecchio del Podestà Tassoni.

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Guardando la neve pensava alla sua folle fuga nel bosco, dove non poteva raggiungerlo nessuno, lungo quei sentieri era al sicuro, lì aveva corso fin da bambino ne conosceva a memoria ogni anfratto ogni pista di animale. Solo a quel punto si era accorto che in quella corsa disperata era tornato verso casa, verso i Monchi sotto a dei piccoli fiocchi bianchi di neve. Mentre si avvicinava da lontano sentiva la voce famigliare della cugina Maddalena che chiamava i bambini “Battista, Maria!” forse guardava il cielo che prometteva una bella nevicata. Era lì il suo posto, lì dove aveva visto passare la peste, dove aveva trovato sempre qualcosa da mangiare e un letto caldo. I gendarmi sarebbero arrivati in quel borgo per cercare vendetta e lui aspettava senza saper cosa fare e infatti era alla finestra quando vide arrivare il gruppetto di uomini preceduti da un servo che spalava la neve a fatica. In fila sulla neve formavano una piccola scia. Si accorse di loro Giulia che uscendo per prendere la legna attraversò il cortile e prima di raggiungere l’essicatoio delle castagne si trovo sul lato del cortile che guarda Marola. Diede un occhiata a quelle macchie nere sulla neve e le riconobbe subito poi vide Bernardo alla finestra e corse dentro gridando con tutta la voce che aveva…. Antonio si alzò lentamente e percorse tutta la cucina mettendosi al fianco di Bernardo di fronte alla finestra. Cercano te? Chiese con gli occhi bassi. Sì. Rispose il giovane. Il vecchio sospirò profondamente poi disse: Va via! E si rimise seduto con lo sguardo grave. Bernardo a quelle parole corse fuori come un puledro impazzito e getto per i boschi in discesa fino al Tassubbio ghiacciato. La pellegrina gli volava da tutte le parti e il sacchetto di pane e castagnacci lo colpiva sul fianco. Stava scappando. Raggiunto il fiume però si fermò e si guardò indietro. Chi sarebbe morto in sua vece? Cosa significava il profondo sospiro del vecchio Antonio? Il Conte aveva bisogno di punire qualcuno pubblicamente e i gendarmi non avrebbero mai fatto la fatica di inseguirlo nella neve. Uno qualsiasi dei suoi cugini sarebbe andato benissimo, un corpo appeso per ammonire gli animi ribelli, terrorizzare i miserabili e divertire i potenti. Adesso sapeva cosa fare. Doveva tornare. Le piccole incomprensioni, i rancori fra cugini, il brontolio delle donne e dei vecchi


erano un rumore lontano, la colonna sonora di un uomo che ha un appuntamento importante con il proprio destino. Ripercorse il tragitto col cuore in gola e la paura di arrivare in ritardo al suo patibolo, si aiutò perfino con le mani nella faticosa salita e finalmente giunse al cortile di casa. Il sudore lo appesantiva e gli occhi gli si erano appannati ma li vide subito, più grossi e cattivi di tutti gli altri che aveva visto prima in paese perché erano venuti per lui, erano i suoi gendarmi. Quello più vicino a lui parlò forte: Sei tu Bernardo Dalli Monti? Con gli occhi bassi e la voce rotta in gola rispose. E il gendarme continuò guardandolo fisso e pronto allo scatto in caso di fuga del malcapitato: In nome del Podestà Tassoni dobbiamo portarti a Carpiteti dove sarai giudicato per aver attentato alla vita del Conte Giulio II Fontanelli e…giustiziato ( aggiunse con un tono più basso di voce ). Sulla soglia della casa tutti guardavano senza parlare, solo il piagnucolio di qualche bambino e delle donne rompeva il silenzio. Bernardo con le mani ormai legate diede un ultimo sguardo a tutti per imprimersi nella memoria i loro volti ma l’ultimo saluto fu per il Vecchio Antonio. I due si guardarono e il vecchio fece un cenno di approvazione con la testa, il suo volto era segnato da un sorriso amaro.

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1888 Nelle narici ancora l’odore della stiva puzzolente ma, in coperta, si stava bene e una leggera brezza primaverile sferzava il mare accarezzando la dura fiancata del veliero con tante piccole onde. Le gambe ancora indolenzite ma l’ora d’aria che gli spettava era finita e doveva ritornare nella stiva, al pensiero di rimanere per quasi tutto il giorno fra quei poveracci, ammassati come bestie, gli si chiudeva lo stomaco. In quella mattina di marzo del 1888, Monti Giuseppe, contadino delle Salatte, piccola frazione di Felina, stava, attraversando il mar Ligure con altri 350 operai Italiani: dal porto di Bastia in Corsica, dove avevano lavorato come stagionali nelle miniere di zolfo approdavano nel bellissimo golfo dei poeti a La Spezia, un piccolo porto commerciale. Il padre Lorenzo lo aveva mandato, durante la stagione invernale, “a fer al minador”, proprio lui che si sentiva il più amato dei tre fratelli non se l’era sentita di dire di nò ma in cuor suo non capiva perché un povero contadino, per di più montanaro, avrebbe dovuto attraversare le Alpi, come le chiamava lui, in realtà si trattava dell’Appennino Tosco Emiliano, per salire su un veliero, mai visto neppure sui giornali illustrati e andare su un isola di cui solo il nome faceva rabbrividire Corsica. Castelnuovo ne Monti era il paese più grande che gli era capitato di vedere fino a quel giorno con le sue mille anime, millecinquecento il lunedì, quando era giorno di mercato. Solo al pensiero si sentiva venir meno ma nessuno se ne sarebbe dovuto accorgere tanto meno l’amato padre. Stringendo i denti era partito con un sacco da farina imbottito di pochi abiti e si era incamminato per la polverosa strada. Arrivato all’altezza dei boschi di quercia aveva girato lo sguardo verso casa con la mano alzata per salutare e un sorriso che sconfinato in un improvviso singhiozzo: avrebbe rivisto la sua casa,i fratelli, la madre Lucilla, donna austera ma tanto buona che non se l’era


sentita di discutere la decisione del marito, pur non condividendola. Avrebbe riabbracciato suo padre e Virgilio il servitore? Quell’uomo uomo pacato, gran lavoratore e amico fedele. Avrebbe stretto ancora le sue grandi mani solcate da segni profondi? Con questi pensieri per la testa, camminando fra boschi di quercioli e acacie spoglie arrivò nell’abitato di Roncrofio, dove aveva appuntamento con un uomo, un certo Canovi Adolfo. L’aveva visto si e no un paio di volte e quanto a parlargli gli aveva rivolto a malapena qualche saluto. Non erano amici ma avrebbero condiviso un viaggio e un soggiorno di tre mesi lunghissimi in un territorio sconosciuto. Questa consapevolezza bastava per imporre ai due un senso di solidarietà fraterna. Si diedero la mano in silenzio e si incamminarono alla volta di Castelnovo ne Monti uno dietro l’altro, come due commilitoni che si incamminano verso il fronte. Per Giuseppe quel mattino le cose si muovevano in maniera diversa, più lenta come se volessero stamparsi nella memoria le immagini di quella sua montagna: il carro trainato dai buoi, con ammassati parenti e mobilio, poche pentole di rame pochi sacchi di frumento, una vacca e molti figli, lo avevano incontrato nei tornanti ripidi e gli sarebbe venuta in mente per tutta la vita. I contadini che percorrendo la stessa strada in senso contrario tornando dal mercato che nel volto portavano scritto l’affare fatto, apparivano mesti se non erano convinti dell’impegno preso, scuri o arrabbiati se non erano andata bene le cose ma giulivi e sicuri se erano stati buoni gli accordi e belle le strette di mano con uno sputo come si usava allora per garantire la parola data. Nella mente di chi è giovane tutto appare molto semplice, i colori dell’animo umano sono al massimo due con qualche piccola sfumatura. Giovanni si divertiva ad indovinarli sui volti dei contadini che rientravano dal mercato. Mentre incrociava con lo sguardo i montanari si divertiva a catalogarli in una o nell’altra pagina di un registro immaginario non guardava che vestito portavano o che ombrello avevano sotto il braccio, gli piaceva ricordare l’espressione del volto, solo e semplicemente quella, come fosse un documento d’identità. E furono tanti i contadini che incontrò e tante le cose che gli

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rimasero impresse che quasi non si accorse di aver allungato troppo il passo, staccando il compagno che invece rallentava e non capiva bene questa fretta, visto il gran viaggio e il duro lavoro che li aspettava. Si fermarono solo pochi minuti a Monteduro, quattro case poste lungo la statale Romana, per salutare una cugina di Canovi, Teresina, bellissima ragazza della quale Adolfo era innamorato da sempre. Erano morosi dall’età di tredici anni e Canovi l’avrebbe voluta sposare. La sposò al ritorno dal viaggio in Corsica anche se la madre di lei non ne fu molto felice ma, che cosa si può fare contro il volere di Dio, diceva. La zia Edera, cosi si chiamava la signora alta e magra che li fece entrare nella stanza buona, era di Bologna e lo si capiva dal fare, parlava molto aperta e strisciava la s come se dovesse scappargli un fischio da un momento all’altro. Conosceva un mucchio di cose e fu lei a raccontargli del mare, il colore, l’immensità, il gioco delle onde. Canovi e la cugina si guardavano senza parlare, i racconti dell’Edera su quell’immensa distesa d’acqua spaventavano entrambi. Giuseppe seduto in fondo alla tavola, di fronte ad un bicchiere di vino, per non pensare suonava una vecchia polka con la fisarmonica del padrone di casa. Note languide senza colore uscivano dallo strumento che ce la metteva tutta per ravvivare l’ambiente. Lo zio di Adolfo, padre di Teresina, un signore alto e bello sui cinquant’anni, con un fare da galletto e mosse da ballerino, seguendo la musica, prese la moglie sotto braccio e accenno a danzare. Ma dovevano andare perché già una pioggia leggera aveva cominciato a cadere, sul sentiero che da largo e sicuro si era fatto più ripido e sassoso. Percorrevano la Sparavalle, una strada romana che si inerpicava per chilometri fra boschi di castagne secolari ed abeti altissimi, costeggiando una immensa vallata dove di tanto in tanto si scorgevano piccoli gruppi di case. Su quel pezzo di strada se ne sentivano di tutti i colori, sembrava fosse abitata da briganti, frequentata da spiriti notturni, addirittura meta di leggendari cavalieri alati.


La parte più impervia del percorso era anche la più pericolosa e doveva essere percorsa nel minor tempo possibile. Giuseppe si era fatto coraggio, aveva preso con la mano il bordo del tabarro e se l’era gettato, con un largo e studiato movimento sulle spalle, incamminandosi per primo. Il bosco a ogni tornante della strada si faceva più fitto e i due viaggiatori camminavano a grandi passi senza voltarsi mai, la pioggia non smetteva di appesantire i mantelli sulle spalle. All’improvviso dovettero fermarsi, Adolfo trattenne il compagno per un braccio e gli fece un cenno: non c’era dubbio qualcuno camminava dietro di loro muovendo il fogliame sul sentiero. Con gli occhi spalancati per leggere nell’oscurità del folto bosco, le orecchie tesissime, senza emettere un respiro attesero. Lentamente tra le foglie e i rami, i giochi di luce e d’ombra lasciarono apparire una figura umana bassa e robusta che avanzava sicura. I due con un sospiro di sollievo si tranquillizzarono: era un uomo in fin dei conti, il cuore poteva rimettersi a pulsare regolarmente e la paura lasciava il posto alla curiosità. Chissà chi poteva essere quell’individuo dai lineamenti gentili che camminava in fretta avanti e indietro come rincorrendo i suoi pacchi e parlando da solo. Era Fischietto, un mendicante, che girava il mondo con tutto il suo bagaglio, non aveva una casa e metteva tutto nei sacchi che portava con se. , Indumenti, corde, coltelli, cestini in vimini per raccogliere l’uva, pane raffermo, sale, oggetti senza nessun apparente valore stavano tutti alla rinfusa dentro a quei pesanti sacchi. Il povero Fischietto, non potendoli portare tutti sulle spalle contemporaneamente li caricava due per volta e li portava per un pezzetto di sentiero, li riponeva, poi ritornava sui suoi passi, riprendeva altri due sacchi e rifaceva lo stesso sentiero. Arrivato in un posto adatto per dormire raggruppava tutto l’armamentario in circolo e si coricava in questo cerchio come se fosse la sua casa. Contando i suoi sacchi, parlava con loro come se fossero il suo gregge, ammoniva quelli più grandi ed era più comprensivo con i piccoli, proprio come fa il pastore prima di prender sonno dopo il duro lavoro quo-

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tidiano. Giuseppe e Adolfo rimasero fermi ad osservare il curioso ometto ed impiegarono un po’ di tempo per capire il funzionamento di quel trasporto eccezionale e prima che avessero il tempo di fiatare Fischietto si fermò davanti a loro e si presentò. Era petulante nel parlare proprio come nel camminare e non dava il tempo ai suoi interlocutori di rispondere alle sue domande. Ogni tanto il flusso di parole si interrompeva da solo e Fischietto guardava gli interlocutori come se da loro si aspettasse qualcosa, una risposta, che portasse finalmente ordine nella confusione. Salutava continuamente e insistentemente “bouna sira, bouna sira” come se sapesse che più di pochi minuti la gente non si fermava con lui e quindi prima o poi avrebbe dovuto salutarli. I due si guardavano divertiti e dopo poco Fischietto riprese la sua corsa senza più curarsi di loro. Sotto la pioggia, che si era fatta più insistente, anche i due contadini ripresero il loro cammino. Ogni tanto voltandosi con lo sguardo potevano intravedere, fra rami e tronchi di alberi spogli, Fischietto, che da quella distanza appariva ancor di più un povero essere umano fradicio fra sacchi pieni di sogni fradici. Un campanile lontano batteva le quattro del pomeriggio. Fra un’ora sarebbe stato buio, non era consigliato per dei viaggiatori inesperti, come loro, avventurarsi nei boschi dopo il calar del sole per di più senza un giaciglio sicuro per dormire. La stanchezza, gli abiti completamente bagnati e il giorno che volgeva al termine, tutto consigliava ai due di porre fine alla loro fatica quotidiana. Entrarono nell’abitato di Collagna alle sei del pomeriggio, la pioggia si era fatta nevischio e la locanda unica di un paese di cinque case era stracolma di viandanti. La padrona li guardò a lungo prima di decidersi a rispondere alla loro richiesta di asilo per la notte. C’era posto solo nella stalla. Giuseppe, stanco e affammato, non se lo fece dire due volte e senza attendere la decisione di Canovi, uscì dalla locanda infilandosi nella stalla adiacente.


Dall’ odore acre della stanza risultava difficile, anche per un naso esperto quanto il suo, immaginare da quali animali fosse abitata. Entrò a tastoni e inciampò su di una cosa, che doveva essere di legno a giudicare dal dolore che sentiva all’osso della tibbia. Sempre al buio si avvicinò zoppicando al muro per raccogliere paglia, in quell’istante la stanza si illuminò, era la locandiera con un lume in mano portato alto contro il viso. Grossa e burbera, alta quanto un carabiniere in parata, la padrona lo aveva seguito. Entrò e dettò le regole della casa e sopprattutto quanto sarebbe costato. Il povero contadino, stanco com’era non discusse nessuna delle condizioni, si limitò a chiedere in aggiunta un piatto di minestra che gli venne concesso. Quasi nascosto dietro la locandiera Adolfo si sfregava le mani inconsciamente in segno di gioia, la stalla se non altro era calda e quel gran numero di bestie alla rinfusa, legate in posta una accanto all’altra, senza tener conto della razza pareva rassicurarlo. C’erano vacche, cavalli, muli e somarelli, di propietari differenti, mescolati; in fondo alla stanza, quasi fuori, un gruppo sparuto di sporchissime pecore, l’esatto contrario della stalla dei Canovi a Roncrofio. La sua stalla, cioè la stalla del padre, il genitore ne andava fiero, con tutte le vacche in fila e sempre pulite, i vitellini alloro posto in fondo alla stalla e i cinque figli del Canovi vestiti quasi uguali al lavoro insieme nei campi. Insomma un microcosmo funzionante, non si sarebbe mai aspettato il piccolo Adolfo di ritrovarsi in quella confusione. Uscita la locandiera i due si misero sdraiati sulla paglia, uno a fianco dell’altro a ridosso dell’unica parete libera. Da quella posizione si potevano vedere la fila delle colonne della stalla sobrie ed eleganti, sporche di sterco, con i capitelli tondi in pietra serena e il soffitto di mattoni a volte, che formava una grande spiga di pesce. La volta tondeggiante e umida sembrava imbrattata di fiato di animale. La visuale si illuminava e si oscurava ritmicamente, con un affascinante gioco di luci ed ombre, magistralmente diretto dal vento, che passava fra le fessure della porta e faceva muovere la

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fiaminella della lampada a petrolio. Per la stanchezza non riuscivano a parlare, eppure avevano fatto poca strada nella giornata appena trascorsa stando a quello che si sentiva dire in giro. Un viaggiatore esperto dopo una giornata di marcia in quelle condizioni e per quel percorso, sarebbe stato in grado di dormire a Fivizzano, un paese della Liguria. Tutti e due erano frustrati ma non trovavano la forza per rimproverarsi. Si accontentarono di dormire a Collagna, con un piatto di minestra in mano e un letto di paglia. Alla luce fioca di una lampada a petrolio si godevano il riposo rassicurati per fortuna dall’odore conosciuto della stalla. Mentre si addormentavano, fuori dalla minuscola finestra la terra si ricopriva di un leggero strato di neve.




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