CONVERSAZIONIDIGITALI LA TECNOLOGIA È PER TUTTI?
un anno insieme Riflessioni sull’alfabetizzazione digitale: un nuovo modo di comunicare www.conversazionidigitali.com
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CONVERSAZIONI DIGITALI DANILA FORTI LIUBA SONCINI 1째 edizione settembre 2015 Copyleft licenza Creative Commons CC BY-ND Realizzazione a cura di www.conversazionidigitali.com Progetto editoriale e grafica di Viviana Monti
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Indice La tecnologia davvero non è per tutti? p5 Liuba Soncini - 30 agosto 2014
Web building: i fondamentali. Netiquette e temi affini p6 Danila Forti - 15 dicembre 2014
Coderdojo, giocare per costruire il futuro dei nostri bambini p9 Liuba Soncini -15 gennaio 2015
La Terra di Mezzo, ovvero Live Long and Prosper p11 Liuba Soncini - 30 gennaio 2015 Quando imparare a programmare è espressione di fantasia p 13 Danila Forti -15 maggio 2015
Primavera, tempo di bilanci e di soddisfazioni p15 Liuba Soncini - 22 maggio 2015
A Coderdojo Reggio Emilia 72 piccoli ninja a “scuola” di coding (e fantasia) p17 Liuba Soncini - 29 maggio 2015
Generazione App: riflessione sul mondo digitale e le nuove generazioni p 19 Liuba Soncini - 15 giugno 2015
Al Summer Camp di Ragazze Digitali l’informatica contro il digital divide p22 Liuba Soncini e Claudia Canali - 26 giugno 2015
Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma p 24 Danila Forti -21 agosto 2015
Bambini e genitori online: istruzioni per l’uso p 26 Danila Forti - 15 settembre 2015
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Introduzione Quando un anno fa abbiamo deciso di cominciare l’avventura di un sito web tutto nostro, non avevamo idea di come sarebbero andate le cose. Eravamo consapevoli dell’impegno che ci assumevamo, scrivere un blog, per quanto all’interno di un sito, comporta un lavoro di redazione costante. Ma avevamo voglia di dire la nostra, raccontare il nostro punto di vista su questa era digitale in cui siamo sbarcati, poco consapevoli dei grandi mutamenti che la nostra società sta vivendo. Proprio perché abbiamo un piede nell’era analogica e uno nell’era digitale, volevamo parlare a chi ancora si sente più di là che di qua, escluso da questi cambiamenti. E la scrittura è diventata così la nostra compagna di viaggio. Oggi tiriamo le somme di questo primo anno di Conversazioni Digitali, un anno vissuto intensamente, che ha visto cambiare per prime noi, acquisendo nuove competenze e consapevolezza. Siamo ancora in pista per il prossimo futuro, sono tanti i temi ancora da trattare. Abbiamo deciso di suddividere i contenuti pubblicati sino a questo punto in due ebook, per renderli più fruibili. Due grandi temi hanno attraversato la nostra scrittura: il mondo dell’alfabetizzazione digitale con le tante attività che si sono sviluppate sul nostro territorio e quello della cittadinanza attiva, perché solo se si è cittadini consapevoli e informati si può davvero realizzare un territorio partecipato. Potrete leggere la nostra evoluzione dalle pagine di questo e-book: un evoluzione che speriamo possa riguardare anche voi.
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La tecnologia davvero non è per tutti? Liuba Soncini -30 agosto 2014
Bella domanda! Partiamo da questo video divertente per riflettere sul nostro rapporto con la tecnologia. Quante volte abbiamo sentito dire la frase “la tecnologia non fa per me”, “non mi interessa”, come se ci fosse un mondo abitato da esseri umani e un mondo “altro”. Ma non è così. La tecnologia fa parte della nostra vita. La nostra quotidianità, che sia a casa, in ufficio o in auto è ormai è attraversata dai vari dispositivi tecnologici che utilizziamo abitualmente. Il più delle volte non ce ne rendiamo neanche conto, tanta è l’abitudine, ma che sia la lavatrice o il televisore, oppure la nostra automobile: siamo circondati dalla tecnologia. Ora, perché invece è così difficile “fare il salto” e utilizzare un pc o uno smartphone? Oppure pensare di avere un proprio indirizzo di posta elettronica? Dov’è lo scoglio? Dovendo pensare di tenere corsi di alfabetizzazione, ci siamo poste spesso questa domanda. Qual è il problema? E’ un problema economico? Forse poteva essere così fino a qualche anno fa, ma ormai ci sono tante offerte e sia i pc che gli smartphones hanno prezzi accessibilissimi. Si parla spesso di tecnologia user friendly, ma lo è davvero? Vuoi che l’ostacolo sia proprio questo? Una delle obiezioni che si sente è “non conosco l’inglese”. E’ vero, soprattutto l’informatica parla inglese. Tralasciando il fatto che ormai non si può più prescindere dalla conoscenza della lingua inglese, mi è rimasta impressa una risposta data a un bambino che, durante un Coderdojo (eventi autorganizzati per insegnare ai bambini la programmazione) notava che i “comandi” erano in inglese: “Così è, fattene una ragione”. La risposta sul momento sembrava veramente perentoria, poi ripensandoci è emerso il senso più ampio. E’ inutile porsi il problema, perché questa è la realtà. Il mondo di Internet, dei social media, dei dispositivi mobili è fatto da un linguaggio proprio costituito prevalentemente da termini inglesi o nella migliore delle ipotesi da termini mutuati dall’inglese e importati nella lingua italiana (twittare, postare, googlare, ecc.). Sapere l’inglese non significa automaticamente conoscere il significato di questa “lingua”; è come entrare in una casa che non si conosce: occorre imparare dove sono le varie stanze, dove si trovano gli oggetti che ci servono, ecc. Il motivo per cui ci siamo messe in gioco e sono nati progetti come Dazeroaweb è proprio quello di metterci a disposizione delle persone per trasmettere loro quello che sappiamo, per raccontare quello che sta succedendo nel mondo digitale, in modo che chi ha voglia di fare il salto non si senta escluso da questo passaggio epocale.
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Web building: i fondamentali. Netiquette e temi affini Danila Forti - 15 dicembre 2014
Tutti sappiamo che esistono tipologie di comunicazione diverse a seconda del destinatario. Anzi sono in difficoltà nel parlarne perché è intuitivo che è diverso comunicare con i 140 caratteri di un Tweet da uno status di Facebook. Pubblicare un commento a un post, non è come scrivere un post sullo stesso blog. I social poi complicano ulteriormente il panorama: qui esiste una differenziazione tra quelli più adatti a condividere contenuti leggeri, da altri nati con una vocazione più informativa. Non è una novità che il registro di una conversazione con le amiche non sia adatto a una conferenza pubblica. E meno male. Il web, non fa eccezione. La piazza virtuale è aperta a chiunque, tanti sono gli incroci fra persone diverse per cultura, professione e livello di preparazione. I primi ormai affermati utilizzatori, fonte di ispirazione per molti (e ci inchiniamo a loro con deferenza) convivono con i nuovi utilizzatori, che stanno colmando il gap tecnologico, a volte anche solo per sopravvivere. O per capire cosa sta facendo tutto il giorno il figlio con lo smartphone. In ogni caso cosa non può mancare è la buona educazione. Un atteggiamento rispettoso e non invasivo è quello che dovremmo avere dentro la rete. Come nella nostra vita, considerando che non si tratta di due parti distinte o di uno sdoppiamento di personalità. Il condizionale è d’obbligo visto il livello circolante. C’è chi preferisce sempre e comunque la presenza online alla presenza offline, dimenticandosi di avere un corpo fisico e occhieggiando il fido telefonino anche in presenza dell’interlocutore. È chiaro che in ambiente digitale non essendoci comunicazione non verbale, il contenuto nudo e crudo e le modalità utilizzate sono parte del contenuto. Facendo una ricerca sulle buone prassi di comportamento in rete poi, devo ammettere che ho scoperto anche alcuni miei errori. Non che sia una novità, anzi, ma anche in questo caso il motto popolare non fa eccezione. Anche perché l’insieme delle informazioni in rete non è organico e un intervento di sintesi, spesso, è utile. Con il termine Netiquette, neologismo che unisce il termine inglese network (rete) con il francese étiquette (buona educazione) s’intendono le regole che disciplinano il comportamento fra gli utenti di Internet attraverso risorse come newsgroup, mailing list, forum, blog, reti sociali o email. Non ci sono norme che impongono un determinato comportamento e sotto un aspetto giuridico, la netiquette è spesso richiamata nei contratti di fornitura di servizi di accesso da parte dei provider. Ciò che più ci interessa sono i comportamenti contrari alla
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netiquette e talvolta sanzionati: l’invio di spam, il mailbombing e l’eccessivo cross-posting e/o multiposting nei gruppi di discussione. Anche l’invio di email senza un oggetto è poco rispettoso del destinatario - quante volte presa dalla fretta mi è capitato – perché l’indicazione dell’argomento aiuta a realizzare una priorità di utilizzo molto utile ,in particolare sul lavoro. Altrettanto scorretto è l’invio o l’inoltro di email a un gran numero di persone (anche se ormai è una prassi aziendale) inserendo gli indirizzi nel campo “To:” la conseguente messa in chiaro di tutti i destinatari è quindi implicita violazione della privacy (oltre che veicolo di diffusione di virus informatici). Poco polite è inoltrare a terzi conversazioni precedenti senza informare le persone coinvolte – alzi la mano chi non lo ha mai fatto – così come utilizzare tanti !!!! o ???? – io lo faccio sempre perché sono tendenzialmente infantile - o scrivere in stampatello maiuscolo (perché equivale a urlare). Altre simpatiche raccomandazioni che ho trovato in questo viaggio riguardano la non tolleranza degli errori grammaticali altrui (che vanno corretti ma senza cafonaggine e con stile) o il benevolo sguardo per chi scrive in una lingua che non è la sua e commette errori vari. La nostra netiquette è stata fissata in forma definitiva nell’ottobre 1995 con il documento RFC 1855 che contiene tutte le regole ufficialmente riconosciute per un buon uso della rete. Per la trattazione normativa particolareggiata vi rimando alla netiquette di registro.it, l’organismo responsabile dell’assegnazione e della gestione dei domini Internet che terminano con il dominio di primo livello nazionale. E se devo pensare ad una sintesi di buon senso mi viene in mente il richiamo alla responsabilità individuale nel buon funzionamento delle cose: “non fare o dire cose che non vorresti a tua volta venissero fatte o dette”. Si può decidere di comportarsi da persone civili, o al contrario, si può utilizzare la rete come predatori o vandali, saccheggiando le risorse condivisibili. La chiave come sempre è la responsabilità personale. Altro tema, ora oggetto di discussione animata, è l’hate speech – in italiano da intendersi come “incitamento all’odio”. La giurisprudenza americana, negli anni, ha elaborato questa categoria per indicare i discorsi che servono solo ad esprimere odio e intolleranza verso una persona o un gruppo e rischiano di provocare in risposta reazioni violente. La condanna dello hate speech – sia sul piano giuridico che nelle “conversazioni al bar” – si confronta necessariamente con la
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libertà di parola, principio fondante di ogni democrazia, non esistendo specifiche e condivise normative internazionali. I social network, come Google e Facebook, risolvono il problema creando team di persone che curano il contenuto delle norme di utilizzo dei servizi che allargano o restringono le maglie di un tema divenuto sempre più centrale, se si considera la possibilità di “nascondersi” offerta dalla rete. Vi lascio con questo video #digitalchampions e #unicef uniti per un web sicuro. Che mi sembra di buon augurio.
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Coderdojo, giocare per costruire il futuro dei nostri bambini Liuba Soncini -15 gennaio 2015
“E’ un dovere per il futuro del Paese. Investire nei bambini, futuri cittadini digitali, è dare loro la consapevolezza dell’uso del web, per non abusarne, e fare in modo che Internet non rimanga patrimonio di pochi potenti”. Laura Boldrini Se non avete mai fatto l’esperienza di un Coderdojo, vi consiglio di provarla. E parlo degli adulti, perché i bambini si divertono come matti. Il Coderdojo è un movimento internazionale, declinato a livello nazionale e locale grazie all’iniziativa di gruppi di volontari. Nel nostro paese esistono tanti gruppi di Coderdojo che hanno l’obiettivo di insegnare ai bambini la programmazione e lo sviluppo della creatività con l’utilizzo del Linguaggio di Programmazione Visuale (Visual Programming Language). I bambini giocano e si divertono sotto l’occhio di mentor volontari mentre si avvicinano all’informatica: il V.P.L. infatti è uno strumento educativo molto efficace per favorire l’incontro con la programmazione. E i dubbi sull’opportunità di questo tipo di approccio scompaiono partecipando agli incontri: il metodo utilizzato è intuitivo e adatto anche ai più piccoli. Ma scendiamo nel dettaglio. La parola Coderdojo è l’unione del termine coder (programmatore) a dojo (palestra). Per realizzare un incontro è sufficiente una sala attrezzata con tavoli e sedie e una parete per proiettare lo schermo del pc e mostrare i comandi del programma. I giovani programmatori, di solito tra i 7 e i 12 anni, installano sul pc personale Scratch, il programma ideato dal prof. Resnick del MIT, e iniziano la costruzione del gioco: scelgono personaggi, sfondo, dimensioni e azioni da compiere e, seguendo le indicazioni dei mentor, scoprono le potenzialità della programmazione. Il gioco non finisce qui: a casa infatti ciascun bambino potrà programmare nuove avventure e allenare così la creatività e la comprensione del pensiero computazionale che è alla base del coding. E’ bello vedere tanti bambini e bambine con i loro pc impegnati a seguire le istruzioni. Tante le scoperte a portata di click: come si fa a creare un videogioco, a muovere i personaggi, guadagnare o perdere punti. Provo una certa soddisfazione nel notare che, almeno a questa età, sono tante le bambine partecipanti: spesso sono le migliori, vere e proprie geek girls libere dalla presenza ingombrante dei soliti stereotipi di genere.
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Un’esperienza nata per caso, grazie a qualche battuta scambiata su Twitter con alcuni appassionati pionieri per Reggio Emilia, che mi riempie ogni volta di energia positiva e di gioia. Dopo l’esperienza da spettatrice al primo Coderdojo, ospitato nelle sale rinnovate dei Musei Civici di Reggio Emilia, sono stata “reclutata” come mentor del secondo incontro. A proposito, consentitemi la digressione, se vi capita fate un salto ai Musei Civici della mia città: vi troverete in un luogo che è riuscito a mantenere le caratteristiche storiche dell’impostazione museale creata da Lazzaro Spallanzani e Gaetano Chierici rinnovandosi con percorsi esperienziali innovativi progettati dall’architetto Italo Rota. Ho trascurato uno degli aspetti più importanti: l’organizzazione dei Coderdojo si affida all’impegno spontaneo di genitori appassionati di tecnologia, che, dopo aver fatto provare questa attività ai propri figli hanno deciso di proporla ai bambini di tutto il territorio. Così è partito il viaggio del Coderdojo per la provincia emiliana, un viaggio che ritrova ogni volta l’entusiasmo dei bambini e la soddisfazione di chi ci mette tanto cuore nell’organizzarlo. L’esperienza è così riuscita che ora gli insegnanti delle scuole primarie prendono contatto con i genitori per capire il funzionamento di Scratch e utilizzarlo nelle attività didattiche. E qui sta il punto vero: ecco perché negli ultimi mesi si stanno moltiplicando le iniziative legate al coding per i bambini e perché presto nelle scuole sarà introdotta l’ora di coding. Comprendere fin da piccoli il pensiero computazionale pone le basi formative per aprire le menti di chi in futuro dovrà dialogare sempre più con la tecnologia. L’importanza del pensiero computazionale si coniuga con una nuova forma di pedagogia, realmente non direttiva, dove il professore o maestro diventa un mentor, o anche un facilitatore. E permette ai bambini di creare di volta in volta nuovi videogiochi, imparando la complessità del ragionamento se-allora-altrimenti.
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La Terra di Mezzo, ovvero Live Long and Prosper Liuba Soncini - 30 gennaio 2015
1. Tutto quello che è al mondo quando nasci è normale e banale, è semplicemente parte del modo in cui il mondo funziona; 2. Tutto quello che viene inventato tra i tuoi 15 e 35 anni è nuovo, eccitante e rivoluzionario e potresti fare carriera usandolo; 3. Tutto quello che viene inventato dopo i tuoi 35 anni è con- tro l’ordine naturale delle cose Douglas Adams, autore della Guida Galattica per Autostoppisti ma anche uno dei più lucidi osservatori dell’odio-amore tra umani e computer, scrisse anni fa le tre leggi del progresso scientifico Tutto è iniziato quando un’amica si è definita “paleotecnologica”. In realtà stiamo parlando di una persona che utilizza quotidianamente i dispositivi tecnologici, si informa, è presente sui social media e certamente non si blocca davanti ad esperienze nuove. Il fatto è che c’è un Prima e un Dopo Internet e fior di generazioni sono proprio a cavallo fra queste due ere. Tutti quelli nati dopo una certa epoca non hanno vissuto in prima persona il Prima, ma ne hanno solo sentito parlare, come se fosse un’era paleolitica e guardano alle persone che ne parlano come a dei dinosauri in via di estinzione. É vero: queste generazioni in bilico fra i due mondi sono in via di estinzione, testimoni oculari di un mondo non connesso, in cui per cercare le informazioni dovevi spostarti fisicamente, per esempio per andare in biblioteca a consultare volumi per una ricerca o un approfondimento. Ancora lontana appare l’era del “Beam us up, Scotty!”, ma siamo comunque proiettati alla ricerca di nuova vita e nuove civiltà “to boldly go where no man has gone before” (la citazione a Star Trek qui è d’obbligo, ndr). È un po’ come passare dall’asilo alla scuola superiore senza aver fatto le elementari e le medie. Questa è la sensazione che probabilmente provano in tanti nel loro quotidiano approccio con la tecnologia. Il fatto è che in tanti casi non è solo una questione di età. Da cosa dipendono le difficoltà? Perché per alcuni l’approccio è semplice, mentre altri si bloccano al primo ostacolo? Credo che questo sia davvero il punto di partenza. Mettersi in gioco e provarci, sperimentare. E’ così che funziona il cosiddetto learning by doing (imparare facendo), oggi l’approccio più funzionale per accedere agli strumenti digitali. Rispolveriamo dunque il mito della frontiera, quello che ha visto come protagonisti gli eredi
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dei Padri Pellegrini quando si sono messi in cammino per colonizzare un territorio vastissimo verso ovest ma anche quello che ha portato alle esplorazioni dello spazio. C’è una piccola Enterprise per ciascuno di noi pronta a salpare per andare là dove nessun uomo è mai stato prima. Cosa ci serve per questo viaggio? Solo tanta curiosità e la convinzione che possiamo farcela. Perché non possiamo restarne fuori. A questo proposito citiamo la prima mostra dedicata all’esperienza dei nidi e scuole dell’infanzia di Reggio Emilia, “L’occhio se salta il muro”: un titolo scelto, non a caso, dall’indimenticabile pedagogista Loris Malaguzzi. Andiamo indietro di 30 anni, ma questo concetto è tuttora importante. E’ quello che chiediamo a tutte le persone che si affidano a noi quando ci incamminiamo assieme verso il digitale. La mente deve andare oltre l’ostacolo, guardare avanti, perché oltre il muro c’è un mondo nuovo.
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Quando imparare a programmare è espressione di fantasia Danila Forti - 15 maggio 2015
Questo post è stato scritto per il sito del Coderdojo Reggio Emilia É sempre un’emozione vedere cosa è capace di creare l a fantasia di un bambino: cani psichedelici e astronavi, gatti umanoidi o pinguini del Madagascar. Ogni volta è un privilegio osservare il mondo unico e magico dei bambini, sempre fantastico a prescindere dall’età e dal tipo di “maturità informatica”. Al Coderdojo le regole sono invertite: sono i ragazzi che portano i genitori, è obbligatorio fare merenda e soprattutto copiare. E i mentor non si stancano mai di ripetere le poche regole che servono per realizzare il proprio gioco. Quando si parla di digitale e di ragazzi l’atteggiamento è spesso antitetico: c’è chi demonizza e vede la tecnologia come un pericolo e c’è chi non utilizza filtri di nessun tipo non preoccupandosi di ciò che viene loro propinato. L’equilibrio non è facile in questo territorio, perché si tratta di un ambito nuovo, inesplorato e in continua trasformazione. Con cui anche gli adulti, nativi o tardivi digitali, si misurano quotidianamente. In questa confusione educativa però un principio può aiutarci: il realismo, cioè l’osservazione della realtà e dei cambiamenti che inevitabilmente si producono, condito con alcuni ingredienti fondamentali: la cura, la condivisione e la libertà di espressione. Così è cresciuto il nostro reggianissimo Coderdojo in un anno di attività e questo spirito semplice ma concreto e efficace è lo stesso che ci animerà anche sabato 16 maggio dalle 15 presso il Centro Internazionale Loris Malaguzzi di Reggio Emilia. Il prossimo Coderdojo è un importante punto di approdo per tutti quanti: la nascita di una collaborazione prestigiosa che, sotto l’egida dell’Assessorato all’Innovazione e Agenda digitale del Comune di Reggio Emilia, ha visto la consacrazione di un nuovo linguaggio di comunicazione dei ragazzi. Dalle parole della stessa Vea Vecchi, atelierista delle scuole d’infanzia e stretta collaboratrice di Loris Malaguzzi, abbiamo colto il passaggio dal pregiudizio all’entusiasmo della scoperta di nuovi e inesplorati territori. La programmazione come linguaggio, uno dei tanti in cui l’espressione si può convogliare, per aiutare i ragazzi a sviluppare il pensiero logico con creatività e in modo personale. Non per creare programmatori, ma per imparare a utilizzare ingegno e creatività in un nuovo atelier virtuale, distinto ma vicino alle attività più materiche, come l’atelier Raggio di Luce, che animano il Centro Internazionale Malaguzzi, punto d’eccellenza della nostra città.
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Il Coderdojo di sabato vuole essere anche un momento di crescita e arricchimento per gli accompagnatori dei ragazzi, tempo speso bene e interessante per tutti: dalle 15 alle 17.30 si svolgerà infatti un incontro dal titolo “I 100 linguaggi della Rete: il web come moltiplicatore di opportunità”. È la prima volta che si realizza un’attività sinergica che apre alla città, l’incontro è pubblico, un tema importante e di attualità come i linguaggi della rete. Augusto Valeriani, sociologo dei processi culturali e comunicativi all’Università di Bologna, Paola Cagliari, pedagogista e direttore dell’Istituzione Scuole e Nidi d’infanzia del Comune di Reggio Emilia, coordinati da Alessia Maccaferri, giornalista di Nova – Sole 24Ore con Valeria Montanari, assessore a Innovazione, Agenda digitale e Partecipazione del Comune e Carla Rinaldi, presidente della Fondazione Reggio Children – Centro Loris Malaguzzi prenderanno in esame da differenti punti di vista questo tema, molto caro non solo a chi educa ma a chi ha modo di osservare con occhi disincantati il nostro futuro.
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Primavera, tempo di bilanci e di soddisfazioni Liuba Soncini -22 maggio 2015
Questo post è stato scritto per il sito del Coderdojo Reggio Emilia Un anno vissuto intensamente. Così si può descrivere il primo anno trascorso insieme del team del Coderdojo di Reggio Emilia: 11 incontri realizzati, più di 300 bambini partecipanti, un gruppo di oltre 20 mentor, la collaborazione con Reggio Children. Il nostro non è solo un bilancio di numeri, ma anche di emozioni e soddisfazioni. Per chi ancora non ci conosce, i gruppi di Coderdojo fanno parte di un movimento aperto, libero e gratuito nato in Irlanda nel 2011. Ogni team organizza nel proprio territorio incontri gratuiti per insegnare a bambini e adolescenti a programmare e familiarizzare con i computer. Una palestra di creatività dove i ragazzi possono creare i propri programmi, videogiochi, animazioni o storie interattive divertendosi (guarda il video). Una lezione in cui la collaborazione e la condivisione d’informazioni e competenze è un elemento fondamentale e materia d’insegnamento. E sabato scorso, al Centro Internazionale Loris Malaguzzi, abbiamo festeggiato il nostro primo anno di attività con un evento maxi. A quasi un anno di distanza dal primo timido Coderdojo ai Musei Civici di Reggio Emilia, il nostro gruppo, grazie alla partnership con Reggio Children, è entrato nel tempio della pedagogia moderna. Quando, qualche mese fa, abbiamo iniziato a parlare di questo progetto con l’assessore Valeria Montanari e le pedagogiste dell’Istituzione comunale scuole e nidi d’infanzia sapevamo che avremmo affrontato la sfida della nostra maturità. Far conoscere le potenzialità di Scratch, il programma che utilizziamo, a chi si occupa dei processi di apprendimento e sviluppo cognitivo dei bambini ai più alti livelli al mondo era una sfida. Far accettare la programmazione come uno dei linguaggi di cui dispongono i bambini per esprimere creatività ci sembrava un obiettivo ambizioso e per nulla scontato. Abbiamo avuto addosso gli occhi della città e soprattutto dell’Amministrazione comunale di Reggio, che per prima ha creduto in noi e nei nostri contenuti educativi. Più di 70 bambini e 16 mentor hanno animato la grande sala del centro Malaguzzi per quasi tre ore di attività. I piccoli ninja hanno prima visto personaggi, azioni e comandi per realizzare e personalizzare il proprio videogioco. Poi, dopo la merenda, una tradizione immancabile per noi reggiani, libero sfogo alla fantasia più sfrenata con le Scratch cards per realizzare piccoli giochi in maniera autonoma e autogestita.
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La collaborazione con Reggio Children non si è fermata qui: anche grazie al prestigio e alla competenza della Fondazione abbiamo realizzato un’idea che avevamo in mente da tempo: un incontro per genitori e educatori. E’ importante parlare del web e dell’utilizzo da parte dei bambini soprattutto con gli adulti. Le motivazioni sono sotto i nostri occhi quotidianamente. Oggi gli adulti sono spesso impreparati nel confronto con le nuove generazioni “ipertecnologicizzate”. La tecnologia è percepita come un ostacolo e non come uno strumento. Siamo convinti che i nostri ragazzi, nativi digitali per definizione, solo per l’uso che fanno dello smartphones, siano in grado di valutarne rischi e opportunità. In realtà nessuno nasce digitale: si tratta infatti di un processo educativo che si intraprende da bambini nel quale i genitori devono intervenire con il dialogo e lo scambio costante. Abbiamo lavorato molto per realizzare questo doppio evento. Perché l’alfabetizzazione e il dialogo sono le sole armi educative che abbiamo a disposizione per affrontare con sicurezza e consapevolezza l’ambiente della rete. Durante l’incontro più volte i relatori, il sociologo Augusto Valeriani e la pedagogista Paola Cagliari, hanno parlato della rete come di un ambiente da vivere, al pari del mondo reale, in cui i nostri figli crescono e di cui devono conoscere le regole ma anche le potenzialità. Bambini e adulti hanno a disposizione tanti linguaggi per comprendere ed esplorare il mondo in cui viviamo. La rete è uno di questi. Forse la giornata di sabato è stato un primo timido passo in avanti per proseguire nel dialogo fra generazioni.
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A Coderdojo Reggio Emilia 72 piccoli ninja a “scuola” di coding (e fantasia) Liuba Soncini - 29 maggio 2015
Questo post è stato scritto per il sito dei Digital Champions Metti un pomeriggio di maggio con il sole che va e viene e metti un’orda agguerrita di oltre 70 piccoli ninja a dare sfogo alla loro fantasia giocando con Scratch, il linguaggio di programmazione visiva ideato dal prof. Resnick dell’MIT. Ma soprattutto metti i volontari del CoderdojoRe nel tempio della pedagogia moderna. E’ quello che è successo il 16 maggio scorso al Centro Internazionale Loris Malaguzzi di Reggio Emilia. 72 bambini, dai 7 ai 13 anni, si sono ritrovati in questo luogo speciale, dedicato al pedagogista che ha cambiato la visione dell’educazione prescolare, accolti da uno squadrone emozionato di mentor, pronti a farli giocare insieme, ma soprattutto a farli entrare nel magico mondo della programmazione. Dove puoi creare, liberamente, il tuo videogioco personale. Le regole sono chiare: divertirsi, condividere e, perché no, copiare. L’invasione dei ninja è il frutto della collaborazione fra il gruppo del CoderdojoRe e la Fondazione Reggio Children, fulcro del progetto educativo Reggio Approach. Il linguaggio della programmazione è entrato a far parte delle tante modalità di espressione a disposizione dei bambini: un modo nuovo per esprimere la propria creatività. E l’aspetto fondamentale del progetto sta proprio in questo: computer, tablet e smartphones non sono solo un freddo apparecchio tecnologico, ma uno strumento educativo a tutti gli effetti, la versione tech dei fogli bianchi sui quali da bambini disegnavamo mondi fantastici con le miriadi di pastelli e pennarelli contenuti nei nostri astucci. Ora i fogli e i colori sono diventati virtuali, ma le possibilità creative offerte ai bambini sono rimaste immutate. La filosofia educativa che da Reggio Emilia è stata esportata in tutto il mondo mette al centro il bambino, portatore di forti potenzialità di sviluppo e soggetto di diritti, che apprende, cresce nella relazione con gli altri. L’incontro con più materiali, più linguaggi, più punti di vista, gli consente di avere contemporaneamente attive le mani, il pensiero e le emozioni, valorizzando l’espressività e la creatività e scoprire nuovi mondi. Il Coderdojo “maxi” è stato quindi il punto di arrivo di un percorso che i volontari di Coderdojo e le pedagogiste di Reggio Children hanno promosso insieme nei mesi scorsi, con incontri, dimostrazioni e coderdojo nelle classi primarie del Centro Malaguzzi. Così la programmazione è stata accettata come un nuovo linguaggio: un sorta di atelier virtuale, non tanto distante da quelli materici che siamo abituati a vedere nelle nostre scuole dell’infanzia.
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Non bisogna però dimenticare che i bambini devono confrontarsi anche con noi adulti. E qui è nato il secondo momento formativo importante: un momento di riflessione dedicato anche ai genitori, in un approccio complessivo e organico del tema. Il gruppo del CoderdojoRe ha così proposto a Reggio Children di affiancare all’esperienza formativa con i bambini un incontro-conversazione con gli accompagnatori adulti per riflettere sui linguaggi del web come opportunità educativa. Hanno affrontato il tema, spesso ostile a genitori ed educatori, Augusto Valeriani, sociologo della comunicazione digitale e Paola Cagliari, direttore Istituzione comunale scuole e nidi d’infanzia. Oggi i genitori e gli adulti in generale si trovano spesso impreparati ad affrontare il rapporto le nuove generazioni. La tecnologia sembra essere più un muro che uno strumento. Siamo convinti che i nostri ragazzi, per il solo fatto che sono definiti nativi digitali, siano in grado di valutare rischi e opportunità. Nessuno nasce digitale e tutti noi abbiamo bisogno di essere educati e di apprendere. S’inizia da bambini a diventare cittadini digitali e i genitori hanno il compito di contribuire a questo processo con un dialogo costante. Alfabetizzazione e dialogo sono dunque le armi educative per affrontare con sicurezza e consapevolezza l’ambiente della rete. L’incontro ha sottolineato che la rete è un ambiente da vivere, al pari del mondo reale e i nostri figli crescono in questo ambiente, di cui devono conoscere le regole ma anche le potenzialità. Il web non può avere solo un approccio passivo, il posto in cui andare a leggere e ad informarci, ma anche costruttivo. L’ambiente in cui noi andiamo a creare e a condividere contenuti, esperienze, emozioni. La parte creativa della rete è per tutti noi una grande opportunità per non essere semplici fruitori ma creatori di contenuti e interazioni. Naturalmente tutto questo è un percorso da fare insieme: genitori e figli in un dialogo costante che li sostiene entrambi nello sviluppo intellettivo. Quello che è successo a Reggio è perciò molto importante: si sono poste le basi di un nuovo fare insieme, bambini, adulti, mentor e istituzioni in cui tutti sono coinvolti attori e artefici del futuro e in cui le regole si stanno scrivendo insieme.
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Generazione App: riflessione sul mondo digitale e le nuove generazioni Liuba Soncini -15 giugno 2015
Questo post è stato scritto per il sito del Coderdojo Reggio Emilia Nei giorni scorsi il gruppo del Coderdojo Reggio Emilia è stato invitato da Reggio Children a partecipare ad un incontro molto interessante con Howard Gardner* per parlare delle sue recenti ricerche sul mondo digitale. Non esiste un’intelligenza digitale. Così Howard Gardner parte a spiegare le riflessioni maturate nel suo nuovo libro Generazione App. Il concetto è che usiamo la stessa intelligenza quando usiamo il computer o interagiamo con le persone. E questa affermazione non può non farci subito riflettere. Ma i bambini di oggi sono differenti rispetto a quelli che non possedevano i computer. Gli adolescenti contemporanei sono i primi a essere definiti usando la tecnologia come elemento distintivo piuttosto che la politica o l’economia (dalla generazione della grande depressione o della guerra siamo passati ai figli di Facebook o Internet). Queste nuove generazioni tecnologiche hanno un arco temporale più breve rispetto alle generazioni che si definivano in senso biologico (una singola generazione comprendeva tutte le persone dalla nascita fino all’età genitoriale) e si pongono in opposizione alle generazioni precedenti. Si differenziano fra loro e si contrappongono: per cui abbiamo la generazione di Facebook in opposizione a quella dei media, e così via. A cosa porta questa premessa? Al fatto che ci troviamo di fronte ad una sfida per educatori e genitori. Gardner racconta la situazione negli Stati Uniti, che non è molto distante da quella europea o italiana, e fa l’esempio dell’app Yik Yak, che viene utilizzata in aree geograficamente molto limitate e da utenti coperti dall’anonimità, con la quale si possono distruggere comunità intere grazie alla possibilità di fare commenti negativi e pesanti contro altre persone. Nelle scuole hanno vietato l’utilizzo di questa app, ma questo è il solo contesto protetto. Un mondo totalmente nuovo al quale noi adulti non avevamo pensato e che non saremmo riusciti neanche a immaginare. Una ricerca di Project Zero dell’Harvard University che ha studiato il comportamento dei giovani fra i 10-20 anni d’età, ha rilevato che l’elemento identificativo sono proprio le app. Le app infatti sono delle scorciatoie formidabili per fare cose in modo efficiente. La maggior
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parte dei giovani di oggi, ad esempio, non ha mai sperimentato il perdersi, il non trovare la strada giusta, perché è sempre guidata dalle app che servono a questo scopo. Questo cosa comporta? Che è scontato che il problema non esiste. Le app ci rendono la vita più facile e conveniente ma in cambio ci dicono anche ciò che è importante per noi e ciò che non lo è. L’aspetto insidioso di queste applicazioni sono proprio i giudizi impliciti che esse formulano: ci dicono cosa vogliamo o non vogliamo fare. Tutti conosciamo le icone facilmente riconoscibili (pensiamo all’uccellino di Twitter) e i giovani che guardano queste icone pensano di doversi presentare nello stesso modo. Gardner, nella sua riflessione, individua tre tipi di comportamenti legati all’utilizzo delle app: la dipendenza, la facilitazione e la trascendenza. La dipendenza da un’app è negativa perché ci pone nella condizione di dipendere da ciò che ci dice l’app stessa. La facilitazione consente all’app di metterci nella condizione di decidere cosa fare. L’esempio che Gardner porta è quello di Doodle Buddy, un programma di creatività che consente di disegnare liberamente oppure di avvalersi di modelli suggeriti e assemblarli insieme. La trascendenza è l’area in cui insegnanti e genitori sono impegnati in un approccio educativo alla tecnologia. Per esempio regolando l’utilizzo dei dispositivi tecnologici: non usare lo smartphone a cena oppure andare in vacanza dove non c’è il wifi. Steve Jobs è un esempio di app transcendent: è uno dei maggiori responsabili della modalità in cui oggi viviamo ma è anche una persona che non ha mai permesso alla tecnologia di entrare nella sua vita, decidendo in modo autonomo cosa fare. Alla base di questa osservazione vi è un presupposto semplice, quasi puerile ma fondamentale: non dobbiamo diventare troppo dipendenti dalla tecnologia che utilizziamo. Se un attacco cybernetico ferma tutta la strumentazione tecnologica avremmo molte persone che non saprebbero cosa fare. Non esiste perciò una intelligenza digitale ma il mondo digitale sta scrivendo un nuovo capitolo della nostra vita. I giovani di oggi non distinguono fra vita online e offline, per loro questa separazione non esiste. Ma se osserviamo attentamente quello che ci circonda possiamo vedere che i bambini sono a loro agio a guardare uno smartphone ma molto meno a guardare negli occhi una persona: non sono abituati al contatto visivo con gli altri esseri umani. Allo stesso modo siamo ormai abituati a messaggiare qualsiasi cosa ma non a parlarci direttamente, non siamo in grado di sostenere una conversazione diretta. Che ci piaccia o meno i produttori di software vogliono che utilizziamo le app in modo da convogliare la pubblicità verso i nostri dispositivi, con il rischio di perdere il valore umano. Come cittadini dunque dobbiamo essere un passo avanti rispetto a chi produce le app. Anche perché i bambini osservano ciò che facciamo noi adulti.
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Questo non significa abolire le app o qualsiasi altro tipo di dispositivo tecnologico. Dobbiamo utilizzare le app che offrono diversi tipi di soluzioni per poter affrontare un problema con diverse modalità. Ed essere quindi noi a decidere cosa fare. * Howard Gardner insegna Scienze cognitive e dell’educazione e Psicologia alla Harward University e fa parte del comitato scientifico di Reggio Children. Ha firmato il volume Generazione App. La testa dei giovani e il nuovo mondo digitale (Feltinelli, Milano 2014) con Katie Davis, docente alla Scuola di informatica dell’Università di Washington, dove studia il ruolo delle tecnologie digitali nella vita degli adolescenti.
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Al Summer Camp di Ragazze Digitali l’informatica contro il digital divide Liuba Soncini e Claudia Canali 26 giugno 2015
Questo post è stato scritto per il sito dei Digital Champions Superare il divario digitale di genere è sicuramente una delle priorità del nostro paese e non solo. Le possibilità di occupazione e di crescita per giovani e imprese sono innumerevoli, ed è necessario che anche le ragazze siano pronte per la sfida. Con questa premessa il 15 giugno scorso è dunque partita la seconda edizione del summer camp di informatica al femminile Ragazze Digitali a Modena. Per un mese 33 studentesse delle 3° e 4° superiori di Reggio e Modena “vivranno” l’atmosfera dell’università ma soprattutto “lavoreranno” al Dipartimento di Ingegneria Informatica di Unimore. Il summer camp ha un triplice scopo: eliminare i vecchi stereotipi sulla figura dell’ingegnere donna, avvicinare le ragazze a temi informatici che sono e saranno fondamentali per il nostro e loro futuro, vivere l’esperienza di un campus universitario dall’interno. L’obiettivo finale è di incentivare la scelta di informatica come studio universitario. Il progetto ambizioso è nato due anni fa quando il professor Michele Colajanni, parlando con una socia della delegazione di Reggio-Modena di EWMD (European Women’s Management Development), espresse il suo cruccio perché solo il 9-10% di ragazze sceglie l’indirizzo di studi in informatica. Il suo sogno era di realizzare il primo summer camp di informatica solo per ragazze e superare così quelle barriere psicologiche che portano a pensare di non essere adeguate o portate per questo tipo di studi, autoescludendosi così dalle innumerevoli possibilità di lavoro nel campo informatico e digitale. La barriera culturale più difficile da abbattere è proprio quella che abbina l’informatica alla matematica, quando in realtà ha più a che fare con il linguaggio e la creatività. Non a caso Colajanni ha ribadito più volte di volere ragazze provenienti dal liceo classico o dall’istituto d’arte. Grazie a questa idea è partito il progetto Ragazze Digitali. Per far conoscere il progetto sono stati realizzati due eventi a Reggio Emilia (Novembre 2013) e a Modena (Maggio 2014), portando centinaia di studentesse a contatto con modelli di ruolo che potessero ispirarle. E’ stato questo lavoro di contatto con le singole scuole superiori che ha consentito di accogliere una cinquantina di ragazze al primo summer camp nel 2014. Il loro entusiasmo nel recepire le proposte didattiche del team di giovani ricercatori del Prof. Colajanni ha ripagato degli sforzi fatti. Quattro settimane estive sono state dedicate a questa esperienza unica. Alla fine le ragazze non avevano solo realizzato un videogioco, ma ne avevano studiato anche le potenzialità di commercializzazione.
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Quest’anno ci sono 33 ragazze iscritte. Sono tutte molto motivate, ed è bastato un passaparola con quelle che avevano fatto questa esperienza lo scorso anno e alcuni incontri nelle scuole per raccogliere le iscrizioni. Durante le quattro settimane di summer camp, le ragazze scopriranno come realizzare videogiochi interattivi programmando con Python, un linguaggio molto moderno e sempre più diffuso sia in ambito accademico che aziendale. Alcune giornate saranno dedicate ad approfondire gli aspetti più creativi dello sviluppo di un videogioco, legati alle parti grafiche e audio. Saranno inoltre approfonditi temi legati alla sicurezza informatica, alle reti sociali e al Web. Ora l’obiettivo è riuscire a rendere il progetto stabile e replicabile nel tempo: occorre garantire i finanziamenti, non basta la buona volontà delle persone. Ma se un professore universitario pone il problema della mancanza di donne ad Ingegneria Informatica e propone un summer camp a loro dedicato, significa che occorre lavorare anche nel medio/lungo periodo, non basta il clamore di un mega-evento, ma occorre gettare le basi affinché non si perdano competenze e attitudini creative. La speranza è che questo progetto venga “clonato” in tante altre realtà. Si possono realizzare progetti innovativi molto belli grazie alla volontà di piccole associazioni e singoli individui. E questo il nostro territorio sta iniziando a comprenderlo. Le amministrazioni locali e regionale hanno dato fiducia al progetto formativo. L’idea di farlo diventare un’esperienza pilota si sta pian piano concretizzando.
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Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma Danila Forti - 21 agosto 2015
Ancora sul personal branding una riflessione sui contenuti digitali prodotti Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma, diceva il chimico Lavoiser nel ‘700. Questa frase mi è venuta in mente digitando in Google Immagini il nome di una persona, neanche troppo famosa, della mia città. La carrellata di fotogrammi uscita dal click è stata immediata: tante foto e documenti, frammenti di vita che in un attimo hanno ripercorso un cammino di informazioni, progetti, forse anche sogni, a portata di tutti e immediatamente disponibili. Sto parlando di una persona che io, tra le altre cose, non conosco. La nostra identità digitale non è secondaria: capire quali informazioni emergono se digitiamo su un motore di ricerca le parole che compongono il nostro nome e cognome non è banale. Il nostro ritratto online è e sarà sempre più un biglietto da visita: il buco della serratura dal quale molti andranno a sbirciare. Per le più varie ragioni. A guardare non sono solamente gli amici ma anche chi per varie ragioni, anche professionali ha bisogno di farsi un’opinione su di noi. Il tema s’intreccia con la consapevolezza dei contenuti che lanciamo nel web: tutte le volte cioè che condividiamo una foto – soprattutto la nostra foto o quella dei nostri figli –, un video o produciamo un contenuto che sia informativo o molto personale, dobbiamo renderci conto che stiamo mettendo a disposizione di altri informazioni che ci riguardano. La buona notizia è che anche noi possiamo parlare di noi e costruirci una identità, la cattiva è che gli anche altri possono condividere nostri contenuti. Selezionare gli aspetti di noi che vogliamo pubblicare è perciò fondamentale. In questo percorso buon senso e buona educazione ci soccorrono. La scelta è ovviamente legata a doppio filo alle informazioni che vogliamo far circolare: la consapevolezza delle nostre azioni anche sul web è fondamentale. Se usiamo Twitter, Facebook, Instagram, nonostante l’ambiente sia stato sapientemente “arredato” con il nostro gusto e secondo le esperienze fatte, non possiamo dimenticarci che stiamo usando piattaforme proprietarie. In parole povere: non siamo a casa nostra. A trarre in inganno le modalità in cui, soprattutto Facebook, sono strutturati: una bacheca che diventa proiezione di noi stessi, creata con immagini, foto, pensieri in formato digitale. Il punto però è che una volta che la foto, il video personale, la frase che sintetizza la nostra vita in quel momento, sono pubblicate, smettono di essere nostri e diventano contenuto socializzabile, a seconda ovviamente dei livelli di privacy impostati. Richiamando il titolo perciò abbiamo operato una trasformazione. Cosa fare allora? Intanto verificare che il livello di privacy impostato sia corrispondente alle nostre intenzioni (sul profilo Facebook > Impostazioni sulla privacy > Personalizza impostazioni), suddividere gli
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amici secondo i contenuti che ci interessa far conoscere, bloccare chi disturba, ma soprattutto usare la testa. Proprio come nella vita offline: di norma non diamo tanta confidenza agli sconosciuti, scherziamo in maniera goliardica con gli amici ma non lo faremmo allo stesso modo con il professore del liceo o il datore di lavoro. I contenuti postati restano per sempre. Ci seguono: si evolvono con i nostri cambiamenti personali e professionali. Quindi, quando postiamo pensiamo sempre che stiamo condividendo una parte di noi che rimarrà e che, nonostante un elevato livello di privacy, potrà essere visualizzata da chi non è nella nostra cerchia ristretta di amici. Grazie al meccanismo dei commenti infatti anche la nostra vita è condivisa nella timeline degli amici. Quindi se proprio vogliamo sfogarci perché abbiamo avuto un problema, una delusione d’amore o una lite furibonda, cerchiamo di utilizzare mezzi di comunicazione più riservati, per evitare poi di pentirci delle dichiarazioni fatte in un momento emotivo. Non è un invito alla mancata autenticità il mio. E’ solo un appello a usare la testa, per evitare conseguenze inaspettate e spiacevoli.
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Bambini e genitori online: istruzioni per l’uso Danila Forti - 15 settembre 2015
Chi ha a che fare con i bambini e i ragazzi lo sa: i dubbi sull’educazione sono tanti e sono quotidiani. Le certezze incrollabili sono persino inopportune quando si tratta di adattarsi a fare il meglio per i bambini e ragazzi, per definizione esseri in continua evoluzione. In un mondo veloce. Se poi i figli sono i tuoi diventa ancora più difficile. Perché spesso interviene una cortina di fumo a oscurare lo sguardo quando siamo coinvolti in prima persona. Internet e genitori (2.0!!!) - uso questo termine per indicare i genitori tecnologici - non sono termini estranei, quasi inconciliabili. Anzi, sono due parole da concordare. Il punto è: cosa fare, cosa consentire e cosa vietare ai nostri figli? Quali strumenti utilizzare e quali cassare? Incoraggiare o stoppare l’approccio al digitale? L’identità digitale è una cosa concreta: fatta dalla somma delle nostre azioni, la proiezione di ciò che siamo in un posto immateriale in cui si incontrano e convivono tante persone. Cappuccetto Rosso convive con il lupo e con il cacciatore non solo nelle favole ma anche nella vita reale e virtuale. Le opportunità da scegliere e da individuare senza pregiudizi, sono tante, così come le zone di attenzione anche per costruire, non dimentichiamocelo, la scuola di domani. Nell’indecisione sul cosa fare ho provato a guardarmi attorno, a conoscere e a informarmi. A volte mi sono persino incasinata perché le opinioni sono diverse e contrastanti, persino inconciliabili. In questa ricerca ho avuto la fortuna di assistere a un incontro, organizzato dal Coderdojo Reggio Emilia, Reggio Children e dal Comune di Reggio Emilia, pionieri nel capire l’importanza di un confronto sul tema. I relatori, il sociologo Augusto Valeriani e la pedagogista Paola Cagliari, più volte hanno parlato della rete come di un ambiente da vivere, al pari del mondo reale, in cui i figli crescono e di cui devono conoscere regole e potenzialità. Il dialogo fra generazioni passa proprio da qui: la rete è uno dei linguaggi dei bambini, un tramite per esplorare e comprendere il mondo. Riconoscerla come strumento di dialogo dei ragazzi, senza pregiudizi e paure, è una piccola rivoluzione anche mentale che gli adulti devono fare. Anche noi dobbiamo partecipare a questa rivoluzione. Non possiamo non esserci. Dobbiamo seguire i ragazzi, stare al loro fianco e informarci per dare sostegno così come per controllare. Ovviamente fondamentale è la preparazione anche mentale a questo processo di digitalizzazione. Non è necessario diventare programmatori ma semplicemente conoscere gli strumenti che usano i nostri figli e soprattutto vedere la tecnologia non come ostacolo ma come strumen-
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to. Esistono persino strumenti per meglio regolare il tempo e i contenuti visti dai bambini quando utilizzano il nostro smartphone, come Nexter, un’app di una disegnatrice per bambini che crea un vero e proprio ambiente digitale protetto, con tanto di timer di consultazione. I ragazzi non sono nativi digitali per definizione, solo perché utilizzano lo smartphones non sono in grado di valutarne completamente rischi e opportunità, capire il livello di privacy da impostare. Così come cerchiamo di insegnare loro la buone educazione offline è opportuno che conoscano anche quella online: cosa postare, quali fotografie o video pubblicare, riflettendo sul fatto che i contenuti sul web non possono essere distrutti così come una fotografia. Nessuno nasce digitale: la digitalizzazione è un processo educativo che si intraprende da bambini nel quale i genitori devono intervenire con il dialogo e lo scambio costante. È un processo di crescita, quello digitale, che è a due vie: riguarda il genitori e il figlio, anche perché se è vero che la tecnologia sta producendo strumenti impensabili fino a poco tempo fa, l’uomo continua ad essere lo stesso dal punto di vista emotivo.
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1째 edizione settembre 2015 Copyleft licenza Creative Commons CC BY-ND Realizzazione a cura di www.conversazionidigitali.com Progetto editoriale e grafica di Viviana Monti
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Danila Forti Sono un avvocato, che per caso e per convinzione ha cominciato a percorrere la strada della comunicazione. Oggi mi occupo dell’ufficio stampa di una impresa della grande distribuzione organizzata. In questi tempi di profondi cambiamenti del modo e dello stile di comunicare l’orientamento è spesso difficile. Come spesso mi succede non ho avuto un colpo di fulmine immediato con il mondo web e social. Un master dal Sole 24 ore su Twitter e sull’ufficio stampa 2.0 mi ha innamorare.
di formazione organizzato aperto gli occhi e mi ha fatto
Liuba Soncini Lo studio delle lingue straniere ha attraversato tutta la mia carriera scolastica fino all’Università di Bologna, dove mi sono laureata in Lingua e letteratura Inglese. Dopo l’università ho messo a frutto gli studi umanistici occupandomi di progetti di comunicazione. Prima per un’azienda specializzata nell’organizzazione di manifestazioni fieristiche, poi come responsabile customer care per un’azienda della grande distribuzione organizzata. Entrata nella comunicazione 2.0 perché il futuro è adesso, mi considero social media manager e community manager per passione. Mi occupo di alfabetizzazione digitale e social media, con un occhio alla tecnologia, e partecipo attivamente alle attività di costruzione di un territorio sempre più smart.
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