Valore dell'imperfezione__Giuseppe Longhi

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il valore dell’imperfezione: temi dalla biennale del design di istanbul Testi originali: G.Mancini, D. Sudjic, J. Grima, in: http://istanbulavrupa.wordpress.com/2012/11/02/ istanbul-biennale-del-futuro-articolo-completo/ http://istanbuldesignbiennial.iksv.org/about/biennial-theme/ Traduzione e rielaborazione: Giuseppe Longhi

Lucas Maassen & Sons, Furniture Factory

Istanbul, Biennale del futuro, Giuseppe Mancini Dal 13 ottobre – e fino al 12 dicembre – Istanbul è la capitale mondiale della creatività. La prima edizione della Biennale del design è stata voluta e organizzata dalla Iksv, la fondazione che raggruppa i grandi imprenditori turchi attivi da 40 anni nel mecenatismo di alto profilo: dalla musica al cinema, dall’arte contemporanea al teatro, dalla preservazione del patrimonio storico al finanziamento di progetti culturali – a Istanbul, nel resto della Turchia, all’estero. Il tema che lega tra loro le molteplici attività della manifestazione è stato suggerito da Deyan Sudjic,

direttore del museo del design di Londra e membro del comitato scientifico della Biennale di Istanbul: l’imperfezione (kusurluluk, in turco), perché una delle qualità speciali della ex capitale imperiale – città fatta di innumerevoli strati vecchi persino 8500 anni, resa dinamica dalle rapide trasformazioni urbane e sociali – è la capacità di trarre vitalità creativa per la sua espansione anche economica “dall’imperfetto, dall’inesatto, dal provvisorio”. L’identità in perenne trasformazione ed evoluzione (o involuzione, a volte) della città sul Bosforo è esaminata in due grandi due mostre: allestite nell’ex

Venezia, gennaio 2014


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scuola della comunità greco-ortodossa di Galata appositamente restaurata e nell’Istanbul Modern (il museo di arte contemporanea inaugurato nel 2004), che insieme accolgono i lavori di circa 300 architetti e designer provenienti e attivi in 46 paesi. La prima è stata curata da Joseph Grima, direttore di Domus: “Adhocracy”, una riflessione attraverso 60 progetti non tanto sugli oggetti ma sui processi di creazione e realizzazione. L’idea di fondo – coniugata in linguaggi e stili diversissimi, in cinque piani luminosissimi e spaziosi (terrazza con vista compresa) – è che si sta compiendo una terza rivoluzione industriale: e che sempre più i network, l’open source, la cultura hacker, le manipolazioni, l’attivismo politico fondato sulle trovate di geniale comunicazione, le produzioni “dal basso” e nel giardino di casa, le piattaforme di collaborazione, stanno prendendo il posto del design industriale degli oggetti in serie per le masse, apparentemente perfetti più che flessibili e adattabili – l’ad hoc del titolo. Una rivoluzione che è tecnologica, culturale, sociale: che rende l’utente parte attiva e non più target passivo del design. Dal top-down al bottom-up. Un esempio tra i più suggestivi è il video che documenta le attività del collettivo di attivisti UX (Urban eXperiment): che ha riparato autonomamente, di nascosto e senza chiedere autorizzazioni e permessi, l’orologio del Pantheon di Parigi da troppo tempo rotto e fermo. All’inno alla creatività di Grima, un manifesto per il futuro, fa da contraltare la tetra messa in scena dell’architetto turco Emre Arolat: che si è invece concentrato, in uno spazio ristretto e caotico, sui catastrofici rischi di implosione e di distruzione del tessuto sociale dei progetti di sviluppo urbano a Istanbul, messi a confronto con analoghi processi altrove. Il titolo della mostra è tutto un programma: “Musibet”, che può significare disastro (o peste), o “esperienza difficile” e per questo istruttiva; si viene accolti dalle sbarre di una prigione: e dentro vengono raccontati minuziosamente i rischi alla vivibilità creati da scarsa pianificazione, da costruttori rapaci, da progetti di riqualificazione urbana che ignorano gli abitanti, da complessi residenziali per ricchi isolati dalla comunità, dal rispetto scarso per la natura e per la storia, dal sovrappopolamento e dal traffico paralizzante. Secondo il professor Güven

Sak, direttore del think tank Tepav, l’assenza di una strategia ben definita di sviluppo urbano – le spese per l’acquisto di immobili drenano i risparmi privati – pone un freno alla crescita economica, nel 2012 stimata al 3,2% dopo il + 8,5% del 2011; mentre il 5 ottobre il premier Erdoğan ha lanciato un piano del valore di 300 miliardi di euro per la demolizione e adeguamento – nei prossimi 20 anni – di circa 6 milioni e mezzo di edifici – privati e pubblici – considerati ad alto rischio sismico. Lo slogan perfetto è quello massimamente provocatorio di Aydan Çelik: “Inşaat Ya Resulullah” tra due grattacieli in costruzione, la copertina di una rivista trasformata in gigantografia (“Costruzione, o Messaggero di Allah”), invece del canonico “Şefaat Ya Resulullah” (“Intercedi, o Messaggero di Allah”) che campeggia nel periodo del Ramadan sui festoni di luci tesi tra due minareti. Arolat ritiene che il cambiamento stia avvenendo in modo troppo veloce e senza regole: e che andrebbe invece governato, coinvolgendo gli esperti e i cittadini; “dobbiamo fermarci e riflettere”: un invito rivolto soprattutto alla politica. Il presidente di Iksv, Bülent Eczacıbaşı, ha espresso un’idea molto simile intervenendo nel corso della cerimonia di apertura, a cui hanno preso parte il ministro per gli affari europei Egemen Bağış e quello della cultura e turismo Ertuğrul Günay: “abbiamo bisogno di città concepite meglio, abbiamo bisogno di prodotti concepiti meglio”. E ha poi aggiunto qualcosa di molto più rilevante, una formula che riassume un programma economico: l’auspicio di passare presto “dal made in Turkey al designed in Turkey”, di trasformarsi – con l’Italia come modello da imitare e concorrente da sopravanzare – da paese dei manufatti a basso valore aggiunto a paese delle idee creative ad altissimo valore aggiunto, della ricerca, dell’innovazione, della creatività. La moda, il design, il lusso: un’industria che, ancora in fase embrionale, vuole crescere rapidamente; e la Biennale del design, se saprà imporsi sulla scena internazionale, potrà rappresentare una vetrina preziosissima per i professionisti turchi, spesso impegnati all’estero ma con solide basi a Istanbul: anche il governo, che ha concesso uno stanziamento irrisorio (a coprire il 5% dei costi) per la prima edizione, ha promesso di fare molto di più per quelle successive. Il governo, del resto,


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sta favorendo gli investimenti nell’innovazione grazie a una serie di incentivi e altre facilitazioni: e dal 2009 sono stati creati 130 centri per la ricerca e lo sviluppo, che hanno creato quindicimila nuovi posti di lavoro altamente qualificati (nei settori dell’automazione, delle nuove tecnologie, della farmaceutica, della difesa). Alle due mostre di più alta visibilità fanno già da contorno una serie inesauribile di attività, in ogni angolo di Istanbul: seminari, workshop, conferenze accademiche, proiezioni cinematografiche, passeggiate guidate nel mondo del design (alla scoperta di artigiani, atélier, spazi di produzione, negozi) per una visione alternativa dei quartieri di Istanbul. In totale 514 progetti, ben distribuiti tra turchi e stranieri; il tema è sempre lo stesso: l’imperfezione, la creatività, l’innovazione, la città e l’economia del futuro. Ma colpisce il forte coinvolgimento delle università e dei giovani: 26 facoltà di architettura, design e comunicazione hanno messo in calendario mostre e conferenze, circa 250 studenti universitari – in vista della Biennale – hanno partecipato a 12 workshops (i loro lavori sono esposti nelle università aderenti). Il palcoscenico principale, quello di “Adhocracy”, è stato conquistato anche da studenti italiani: dal collettivo Autlab di RomaTre, per un progetto sui lavori dell’architetto Giancarlo De Carlo, socialista libertario e “partigiano dell’architettura”. Olivia e Daniele, incontrati il giorno dell’inaugurazione, sono rimasti sorpresi dal ruolo propulsivo che è stato assegnato giovani e agli studenti, “qualcosa che in Italia è impensabile perché è tutto in mano alle solite persone, ai mostri sacri.” Forse questa è la vera lezione da trarre dalla Biennale di Istanbul: il futuro costruito sui giovani e non sulle rendite di posizione. Imperfezione, Deyan Sudjic Imperfezione è il tema della prima biennale di design di Istanbul, attraverso il quale si coglie l’occasione di esplorare gli infiniti layer della megalopoli, carichi della vitalità che deriva dai loro rapidi cambiamenti: sociali, culturali ed urbani. Istanbul come città è lontana dalla perfezione ma è uno dei più eccitanti e dinamici centri al mondo; la sua qualità è saper sfruttare creativamente l’imperfezione, l’inesattezza

e il provvisorio. Con il tema dell’imperfezione Istanbul stimola la sua creatività e la sua capacità di incorporare i risultati di un’approfondita discussione sulla natura del design oggi. La Biennale racconterà al mondo qualcosa di Istanbul e offrirà al mondo un bilancio sulla natura del design contemporaneo. Il tema dell’imperfezione riprende vecchie idee, ricollegandosi ai concetti giapponesi di wabi, di instabilità, di transitorietà. Esso costituisce la motivazione per un’intera generazione di giovani progettisti, che hanno abbandonato l’idea di pensare in termini di utopia per trovare ispirazione nella caotica realtà della vita quotidiana. Questo implica l’esigenza di introdurre la possibilità di devianze rispetto al processo ordinato e preciso della macchina di produzione industriale, consapevoli che lavorare sull’imperfezione è più difficile che lavorare sulla perfezione. Progettare secondo l’ordine industriale significa aver definito esattamente lo scopo, per disegnare tutte le connessioni e le relazioni utili per modellare con precisione ogni superficie. Progettare sull’imperfezione è un procedere a tentoni, non assistiti da un processo le cui regole concettuali sono definite ex ante e sviluppate in base ad abilità specialistiche, determinazione e uniformità. Nel progettare sull’imperfezione ogni decisione è una scelta personale, non il risultato di una filosofia. Per un progettista che lavora sull’imperfezione la cosa più difficile è giustificare le scelte estetiche. La perfezione è la caratteristica di un oggetto, che benché difficile da realizzare è concettualmente semplice. Nell’era della produzione di massa, la perfezione è stata intesa come la capacità di fare centinaia, migliaia o addirittura milioni di oggetti che sono esattamente gli stessi. La parola stessa suggerisce l’esistenza di un originale, con le specifiche qualità che esso comporta. Tali oggetti sono intesi come copie perfette di qualcos’altro, invece di oggetti che devono essere intesi come aventi proprie qualità individuali. Gli oggetti di produzione di massa sono il risultato di un’epoca in cui nonostante ci possa essere un prototipo o un modello, non c’è un originale. È la natura della produzione di massa il centro della

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questione. Ciò significa che ogni Volkswagen esito di un ciclo di produzione ben definito è uguale ad ogni altra Volkswagen. Non esiste un singolo oggetto ideale, che Walter Benjamin chiamava l’’aura’ dell’arte, creando, nell’epoca della riproduzione meccanica, una categoria di oggetti distinguibili, in contrasto con la promessa di prestazioni per i ‘molti’. Ogni auto ha le stesse caratteristiche, le caratteristiche del modello, in opposizione alla tendenza umana a distinguersi e a personalizzare le scelte, secondo il desiderio istintivo di personalizzare ciò che possediamo. La ricerca del perfetto è in parte la comprensione di uno dei problemi emersi immediatamente con la produzione di massa. Esplorare l’attrattività dell’imperfezione mette il progettista in una posizione molto più esposta; ogni fase del processo di progettazione richiede di prendere una decisione, per così dire, senza una rete di sicurezza. Abbiamo ora la possibilità di utilizzare i criteri e gli strumenti della produzione industriale con nuovi livelli di sofisticazione, per utilizzare la macchina non per fare un oggetto che appaia come se fosse fatto a mano, che è un sottinteso della produzione fin dall’inizio del 19 ° secolo, ma per introdurre variazioni e individualità nel processo. La geometria pura non è l’unica lingua formale possibile, la simmetria non è più l’unica opzione. Lo scopo dello sfruttare le possibilità dell’imprecisione è quello di avviare un chiacchericcio per ammorbidire e addomesticare la produzione industriale, per trovare soluzioni che soddisfino il sistema delle preferenze individuali. Adhocrazia, Joseph Grima Questa è una mostra sulla “gente che fa cose”. Lo scorso aprile l’Economist ha pubblicato un inserto speciale che annunciava l’avvento della terza rivoluzione industriale. Questo evento è tanto più importante se si considera che la rivista, fondata nel 1840, è stata testimone dell’intera seconda rivoluzione industriale. Il mondo della “gente che fa cose” rappresenta un cambiamento radicale: se l’obiettivo della rivoluzione industriale era realizzare oggetti perfetti in modo standardizzato, in milioni di pezzi tutti eguali, di identica qualità, l’obiettivo dell’ultima rivoluzione è

produrre pezzi unici o in piccola serie. Il suo luogo di nascita non è la fabbrica ma il workshop ed il suo ciclo di vita si sviluppa nella rete. Al posto della perfezione standardizzata del mondo industriale, essa sostiene l’imperfezione come testimonianza di un’emergente forza di identità, individualità e non linearità. Ancora, questo cambiamento rappresenta qualcosa di più sostanziale che un mero cambiamento radicale nell’apparato tecnologico dell’industria; esso è destinato a coinvolgere l’intera società. Infatti, con l’avvento della rete come modo dominante dell’organizzazione sociale e culturale, le strutture di potere intorno alle quali la società si è organizzata per decenni se non per secoli si stanno trasformando in modo epocale. Il fare cose, progettare, non era usualmente definito come un’attività politica; oggi creare qualcosa, dalla scala di una rete immateriale fino a quella molto materiale della città, significa interrogarsi sul valore del lavoro, sulla natura della proprietà intellettuale, sull’etica del consumo, sui limiti della tecnica, sull’ordine del potere. Il progetto è un atto di osservazione, interiorizzazione, riflessione e ripensamento per rispondere a queste domande e per dare forma alla vita quotidiana e agli spazi collettivi. Se il progetto sta declinando come campo di pochi che pretendono di creare per i “molti” (dai prodotti di consumo fino alla città), secondo il modello top down dell’industrialesimo burocratico, cosa sta diventando?. Questa Biennale pensa che piuttosto che oggetti fisici, la massima espressione del progetto oggi sia il processo, l’attivazione di sistemi aperti, di strumenti che permettano alla società di esprimere autorganizzazione, attraverso piattaforme collaborative diverse dal modello capitalistico di competizione e di sviluppo di reti di produzione. Il progetto è in movimento: sta migrando dal rigido campo della burocrazia verso la rizomatica realtà dell’adhocrazia. La tentazione è di percepire tutto ciò come qualcosa di completamente nuovo, improvviso e inaspettato. Ma l’adhocrazia cerca, fra l’altro, di dimostrare che alcune delle pratiche che riteniamo essere la massima


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espressione della contemporaneità sono nate molto tempo fa, probabilmente in anticipo sul loro tempo o rispetto alla nostra capacità di comprensione. Nello scenario dei veloci conflitti che investono il futuro della società, il progetto - il mondo della “gente che fa cose” - è oggi una competizione fra burocrazia e improvvisazione, autorità e l’incontrastabile forza delle reti, alla ricerca di nuovi linguaggi e nuovi cittadini da coinvolgere.

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