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AURÉLIA STUART STEINER│LA
CAGGIURRA DI
PRAGA
© v.s. gaudio 2009
Ci sarà davvero quest’organizzazione quasi sovversiva, fondata di recente a Praga, che esorta i suoi adepti a inventarsi degli ostacoli da superare mentre si masturbano? L’organizzazione, che ha nome “Malessere della Masturbazione” abbreviato in MDM1, per chi parla ammašcânte “’Ngarzatura du Furguwune”(NGAFUR), ha stabilito che la prima prova per il centro italiano è quella di declamare “L’Armure di Miss Martinguhing” di V.S. Gaudio di fronte ad almeno tre ascoltatori quadarari che nel contempo devono contemplare, anche in fotografia, gli angeli del sepolcro Stuart che si trova in Vaticano. Il primo a raggiungere lo scopo è stato il poeta stesso che ha eiaculato sul podice dell’Angelo A, quello a sinistra del visionatore, pronunciando i versi della poesia 12: “più bagnata del legno è la guiggia con cui lei artiglia la visione succo schiacciato e colata o macchia azzurra del tessuto quando il suono tira tra bocca e solco delle natiche, tra parlare e bere nuotando tutta la sera come se la barda della puledra fosse questa groppiera la fibra della sera amara di succo e muschio, sole e sperma, sabbia e kama-salila”2. Nella zona della piazza della Città Vecchia, un po’ a nord della Staroměstkē Náměstí, nel quartiere ebraico, se proprio si vuole essere precisi, 1 2
Cfr. Harry Mathews, Piaceri singolari, trad. it. Es, Milano 1993: pag.64. V.S. Gaudio, L’Armure di Miss Martinguhing, © 2006.
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è lì che abita Aurélia Steiner a Praga, dove è strano come quasi tutte le statue dei grandi della letteratura ceca stanno sedute, anche Karel Mácha al Parco Petřín deve appoggiarsi lievemente a una colonna3, mentre le statue cattoliche sono piene di movimento come atleti, come se stessero sempre dando palla sopra la rete della pallavolo, così dice Bohumil Hrabal4,
Angelo Stuart
Jana Havlova
tanto che Aurélia Steiner un po’ è l’Angelo Stuart e un po’ Francesca Piccinini o Jana Havlova, Non sarebbe stata strana la statua che fa sedifice(che sta seduta) di un personaggio di Karel Mácha, quella Lori che già nel gennaio del 1974 il poeta tirò dentro la “Sindrome Ipopinealica” di cui si riporta qui una sintomatica, stupefacente, porzione:”La posizione, oltre che all’azione appunto/esempi di testicoli grossi così,/alcuni gruppi di fotografie, e un pezzo di pane di Bagnacavallo/tuttavia, il livello delle evidenze, i rischi, anche i problemi di contenuto/con peli o mestruazioni; e tanto di mammelle, in rapidità/il culo enorme di Lori, di Karel Mácha”(V.S. Gaudio, da Endocrinologos,in: Idem, Sindromi Stilistiche, Forum Quinta Generazione, Forlì 1978: pag. 31). 4 Cfr. Bohumil Hrabal, Una solitudine troppo rumorosa, trad. it. Einaudi, Torino 2005. 3
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per come fanno del corpo umano una sorta di clessidra, quel che sta giù sta su, e quello che sta su sta giù, due triangoli incastrati, il sigillo di re Salomone, la proporzionale matematica fra il libro della sua giovinezza, il Cantico dei cantici, e il risultato della sua osservazione di vecchio signore, la vanità delle vanità, l’Ecclesiaste, o la losanga di Lacan in cui l’oggetto a , sempre con lo sguardo in alto, se gioca a pallavolo, ma con un movimento di rotazione che da qualche parte implode, anche nell’Angelo Stuart, rende pensosa l’iconicità della giovinezza, e non si tratta del semivalore del pondus dell’eros polacco di Gombrowicz5, che cosa è passato sotto l’inflessione dei giunti, tra i rettangoli dritti alla giuntura delle natiche o delle pietre di legno dove il muro gira e lei si innalza verso il cielo? Non si tratta del crepuscolo, quando la linea della rete con il peso che fibra per fibra nell’incrocio delle ginocchia quest’incavo aperto nell’azzurro dei calzoncini ce trou qui laisse voir sulla superficie che ha l’ombra rossa della maglietta e nella linea del sole che tramonta il numero nel momento in cui le forme mischiano deretani e braccia, 5
Cfr. V.S. Gaudio, Feminae Semipondus, La semidissertazione su “Pornografia”, © 2007.
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e si toccano le mani e si somigliano le gambe degli angeli e delle giocatrici che lasciano vedere un seul à fois ce dos d’un jour jusqu’au gris, e il fondo della sera più alta della linea né dell’orologio astronomico che qui è collocato sul municipio dall’inizio del XV secolo, con l’anello delle cifre arabe che indicano l’ora boema, quello dei numeri romani con l’ora attuale, e la parte azzurra del quadrante con il giorno babilonese, né guarda in alto il poeta a osservare il percorso del sole e della luna nei 12 segni zodiacali, o il calendario di Josef Mánes è in questa piazza della Città Vecchia, dove c’è un palazzo medioevale che è la casa con la campana di pietra, nello stretto passaggio Melantrichova che ad essa conduce, che il passo di Aurélia Steiner ‘nteccata strocca ammâšcânte tira su l’oggetto a del poeta, un po’ dentro la polka, come quello delle zingare di Hrabal, tra quello con la gonna verde turchese e quello con la gonna rossa satinata, che andavano a visitarlo sempre come apparizioni, a un tratto, quando ormai non le aspettava più, quando pensava già che erano morte, che da qualche parte le avevano sgozzate
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col coltello da contrabbandiere i loro ganzi, quelle zingare, due giovani raccoglitrici di carta vecchia, che la portavano dentro fazzolettoni sulla schiena, coi nodi enormi come quando ai vecchi tempi le donne portavano l’erba dal bosco, quelle due zingare si dondolavano per le vie, piene di vita in modo tale che i passanti dovevano farsi da parte nelle vetrine e nei passaggi, quell’inimitabile passo di polka di Aurélia Steiner, che è il mezzo passo, così rapido e di cadenza marcata che hanno le zingare boeme, come il pikë-e-gazi di Aurélia Gurgur6 Aurélia Steiner che sta a Praga non è boema, la luna lei la chiama “Justrusa” anche quando la indica nell’orologio astronomico, che per lei è “’U cuncutrillu”, Aurélia Steiner sta qui, aspetta la sera, sta’mbruna, dice, fa stáfice e quando attraversa la città lei passa di strìttuwa in strìttuwa, un po’ di schipìciu, in autunno quando compra caldarroste, chiede “’i pruppituse du ruffu”7.
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Cfr. Idem, Aurélia Steiner di Durrës: Pikë e Gazi, “Lunarionuovo”, nuova serie n. 24, Catania ottobre 2007.
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Il cielo non è umano, ma c’è qualcosa forse più di questo cielo, che non è il quadrante al neon del campanile della Città Nuova, è quando le zingare oscurano il mondo con le gonne e quando il poeta si guarda di nuovo intorno le zingare stanno sedute accanto a lui una di qua e una di là, di fronte a lui a gambe larghe sta lo zingaro con la macchina fotografica nelle dita, gli occhiali neri contro il sole guardano nel mirino della macchina e le zingare si stringono a lui e guardano l’obbiettivo, e poi lo zingaro che è il visionatore di Morin col palmo alzato richiama anche l’attenzione del poeta e lui guarda la macchina con quel sorriso spasmodico che hanno solo i poeti e poi sente lo scatto della macchina che non aveva mai avuto nelle sue viscere la pellicola, così che il poeta comprenda che al mondo non dipende proprio nulla da come le cose finiscono, ma tutto è soltanto desiderio, volere e anelito, come quando a Bologna la Zangheri, per essere speculare allo zingaro di Hrabal, nello stesso tempo in cui lui ne stava scrivendo l’assolutezza anonima faceva il ritratto inesistente del poeta “Le castagne del fuoco”, in ammâšcânte; “strittuwa” è “strada”,”vicolo”; “schipìciu” è “sghembo”, “obliquo”, con quel taglio, una certa diagonalità di movimento o del portamento, che richiama l’apposizione di prima ,“’nteccata”, che è “delinquente”, che viene da ‘nteccare, che è “tagliare”, “incidere”, la “‘nteccata strocca” riflette in qualche modo un taglio maledetto, puttanesco, un segno, una piega, anche comportamentale o gestuale che è la parte maledetta di Aurélia Steiner. Per la lingua nascosta dei quadarari e anche per l’utile dizionario Italiano-Ammâšcânte e Ammâšcânte-Italiano annesso, cfr. John Trumper, Una lingua nascosta, Rubbettino editore, Soveria Mannelli 1992. 7
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con un’altra macchina fotografica in cui c’era la pellicola fantasmata, dentro una galleria d’arte , fuori il cielo inumano sopra Bologna e sotto nelle cloache e nelle fogne scorreva tra acque di scarico e materie fecali la neve di quel febbraio così segreto, così rumoroso e così solo Aurélia Steiner, questa quadarara che sta qui a Praga, questa minéca che chiama “cuncutrillu” l’orloj, in una stanza vicino al Convento di Sant’Agnese di Boemia, guarda l’imbarco battelli che c’è in Náměstí Curieových. E’ ritornata nella sua camera per scrivere al poeta. Ha chiuso porte e finestre. Sono le tre del pomeriggio. Dietro la Vltava c’è il sole, il tempo è fresco. Io sono qui in questa grande sala in cui faccio stáfice8. Oltre la scursénta9, c’è il fiume. E tu dove sei ? 8 9
“sto”. “finestra”.
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Ti sei perduto? Ti sei perduto tanto che io grido che ho paura? Si dice che tu viva nel delta del Saraceno, in uno di quei paesi ammâšcâti in cui convivono arbëresh e ‘gliaroni, e altri quadarari dell’Italia che sta lì e altrove, è come una terra equatoriale, in cui ormai niente è blu liquido, il cielo laggiù non è umano e la vita sopra di te e sotto di te e dentro di te neppure, né puoi stenderti sulla schiena dentro la fossetta, la fossetta ancora calda della zingara in gonna turchese, giacere e ascoltare i suoni della via, quella bella musica concreta, ascoltare come nel palazzo di sei piani dove stavi e dov’era su in alto il deposito di carta vecchia e scorreva e gorgogliava incessante la schiuma dallo scarico del lavello, sentivi come tirava la catenella del water ‘u gattijaturu ‘gliarone10, tutto ormai è una cloaca e una fogna laggiù così come tutto quello che ho guardato in questo mondo, tutto va contemporaneamente in avanti e tutto torna contemporaneamente indietro, come un mantice da fabbro, tutto trapassa nel proprio opposto e unicamente così nulla al mondo zoppica e tu ormai da trentacinque anni gattìjsë nel pantano 10
“il cacatore ‘gliarone”, ovvero l’evacuatore della confraternita dell’ogliarola, che è virtualmente e semanticamente connessa con quella dei quadarari.
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e per questo uno dovrebbe avere non soltanto l’istruzione universitaria o il liceo scientifico ma anche un master di idromeccanica dello sterco. Verso sera, qui, ci sono sempre colpi di luce, colpi di luce all’orizzonte, dal fiume la luce moldava, anche se il tempo è stato brutto per tutto il giorno, anche se ha piovuto,le nuvole in un istante si spostano e lasciano passare la luce del sole, la luce boema della Vltava. La luce azzurra della Moldava, la maniera polka di Aurélia Steiner, il suo mezzo passo, la sua sensualità crepuscolare con quella cadenza marcata del mezzovento sopra con la diagonalità e l’inclinazione ripida del suo portamento lieve e laterale e lento in avanti, il portamento, la maniera azzurra, la maniera moldava di camminare di Aurélia Steiner a Praha leggera e laterale, di bolina stretta come se ricevesse il mezzovento con un angolo di circa 30° sopra il culo: aperta al vento trattiene la luce moldava, questo pondera come l’Angelo Stuart, ha la camminata della luce boema sulla Vltava, al crepuscolo. ‘A ‘mbruna, avìcavěnā11. 11
“La notte, eccola che viene”.
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Aurélia Steiner fa stáfice a’ra scursénta suisa12 e, aspettando lui, mi scrive. Tremula del desiderio di lui, mârsianu wenzatu m’nforcuna13. Si ricorda di lui con me, perché io sono quello che non ha. Sugnu ‘u cianciarusu ca s’ammarcùna14, u marsianu togu, a tuféri cafa’ allumella a’ru Rijarmune15. Tencu a cupa16 a Praga, dove un tempo c’era un’officina di mussicottu17 con la cappa, cuttiniju gulasc ‘i patanë c’a zauzizza ‘i marmuru18, senz’u ruffu nun pozzu campari19. Il poeta pensa, come quel tale che ha pressato carta vecchia qui alla pressa meccanica per trentacinque anni, che, per quanto io sia una quadarara , non possegga la comprensione della scrittura, e per quanto io sia una quadarara rom “sta alla sua finestra”. “conno bagnato mi chiava”. 14 “Sono lo spirito che si sposa”. 15 “il bel conno, la figa che illumina il mondo”. 16 “Abito, tengo casa”. 17 “fabbro”. 18 “Cucino gulasch di patate con la salsiccia di cavallo”. 19 “Senza fuoco non posso vivere”. 12 13
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non abbia posseduto libri di letteratura rom, il fatto è che non tutti i libri di letteratura, non solo rom, siano stati pressati da Hanta, i tanti libri che tenevamo a casa dove stavo con i miei genitori e un asino,’nu marmuru, che, finché visse il mio minego carnente20, lui voleva che l’asino imparasse tante cose quante ne aveva imparate lui. E qquannu aucciò ‘nu justrusu ca ‘ncupallizzirijò21 dal cielo cadde tanta di quella wenza ca tutti i suttapropri du Rijarmune pi ricuglia ‘a mmuscitta ca’cadija non ci bastarono22. I fiumi strariparono e tutt’u Rijarmune fu ‘nu sottaproprio chijno ‘i lenza23. ‘A lenza allenzò tutt’ a cupa nostrodara24. ‘A carnante andò issa stissa a’ra scursénta25 : “Chi’cchignju! O’ppi ‘ra proffia da Giramarca, quantu chignju allinzatu!”26 Chjanò asup’a scursénta27, cadde e finì ca ‘a lenza la trascinò via con forza. Stava pi’nnicara e u minego carnente a’llumò28: “padre”. “E quando venne un giorno che piovve”. 22 “tanta acqua che tutti gli orinali del mondo per raccogliere la merda che cadeva”. 23 “e tutto il mondo fu un cantaro pieno di acqua”. 24 “L’acqua allagò tutta la nostra casa”. 25 “La madre andò ella stessa alla finestra”. 26 “Che cazzo! Oh, per la fessa della madonna, quanto cazzo ha piovuto!” 27 “Salì sul davanzale della finestra”. 28 “Stava per annegare e il padre la vide”. 20 21
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“O’ Santa Ràrica ‘i filice! ‘A proffia carnente s’annīca!”29 E ‘u proffio si jetta pur’issu int’a lenza toga e ssī frīca30. Passa nu justrusu.Passa na’ ‘mbruna.31 ‘U marmuru tinija sghissa e ppi sgranâre ‘untinija nu cazzu32. Accussì sgrânò i scartoccie33, tutti i libri da litteratura cuadarara e rom du Minego Carnente ca issu stissu gli aveva dato da leggere e da imparare. Doppu, quannu si sgranò tutt’a litteratura ‘u marmuru nun tinija cchjù niente da sgranare, accámpānò di sghissa34. D’ìchisì accámpānò ‘a carnante, accámpānò ‘u Minego Carnente, accámpānò ‘u Marmuru, accámpānò ‘a litteratura ammašcānte35.
“Oh, Santa radice del Gaudio! La fessa della moglie sta annegando!” “E il fesso si butta pur’esso nelle acque immense e si frega”. 31 “Passa un giorno. Passa una notte”. 32 “L’asino teneva fame e per mangiare non teneva un cazzo”. 33 “Così mangiò i libri”. 34 “Dopo quando si mangiò tutta la letteratura il ciuccio non aveva più niente da mangiare, morì di fame”. Il “Muro della fame”, che è Hladová zed’, che allittera un po’ la Havlova, foss’anche solo per le fortificazioni, che attraversando il Parco Petrín , arriva fino a Strahov, intorno al margine meridionale del Piccolo Quartiere, che fu costruito per la grande carestia che si verificò in Boemia intorno al 1360, costituisce una sorta di oggetto a speculare ancora ad Aurélia Steiner non solo per via della pietra ma anche per la fame di cui all’asino che mangia non solo i libri della letteratura rom, anche per il “muro”, zed’, che si fa nella pallavolo per via della anzidetta Jana, che nello specchio della fame del poeta riflette l’angelica iconicità imbronciata della Piccinini. 35“ Così morì la madre,morì il padre, morì il ciuccio, morì la letteratura ammašcânte”. 29 30
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questo bagliore ajinico che hanno le zingare...
Il poeta comprese così che è per questo che non c’erano libri da cui imparare la lingua di Aurélia Steiner e la scienza di Aurélia Steiner, che sono entrambe nella macchina fotografica dentro la quale c’è anche quel suo ritratto inesistente che gli fece la Zangheri, che è questo il mistero dell’assolutezza anonima, questo bagliore ainico che hanno le zingare
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che oscurano ‘u Rijarmune con le gonne e quando ti guardi attorno le zingare ti stanno sedute accanto, una di qua e una di là, si strofinano a te accarezzandoti con le mani, con il podice, con le gambe, con i mantici, con la bocca, con i piedi, così che si comprende che al mondo non dipende proprio nulla dalla scienza e dalla lingua dei libri ma è tutto soltanto desiderio, voglia e zucchero candito al rum di Jamaika, che stanno tutti nella macchina fotografica dell’oggetto a , quella libbra di carne che un po’ è crìpine duce36 di canna candito, un po’ è ‘a ràrica ‘i filice du marmuru37, un po’ è ‘a marmura cafà ‘a polka, un po’ è ‘a caggiurra38 che fa la statua non al sepolcro Stuart ma quando sterra un buco nella terra e tu sei il visionatore di Morin. I cieli non sono umani, ma c’è qualcosa forse più di questi cieli, la pellicola fantasmata du Rijarmune che ha la lingua del corpo stupefatto, il riflesso dell’idea che ha ‘a caggiurra, ‘a picara39, del gaudio perfetto, che ha dentro e fuori il bagliore ainico, come Aurélia Steiner l’ammašcānte di Praga che dice tutto usando dita e corpo in vece di parole o, meglio, di libri, che, l’abbiamo saputo, se li è mangiati il ciuccio che sgranò la letteratura senza poter essere l’aquilone, che Hanťa e la zingara insieme fanno volare nel cielo a Okrouhlìk, e quando la zingara restituì il rocchetto dei fili perché aveva il terrore che l’aquilone la portasse ai cieli, non è che in realtà non avesse paura di non vedere mai più Hanta “Zucchero”; “crípine” solo sta per “sale”; “crìpine scàwiu” è il “sale ammoniaco” “Il fallo dell’asino, del mulo”. 38 “la zingara”. 39 E’ sinonimo di “caggiurra”. 36 37
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ma che temesse, per come l’aquilone tirava, di finire nei cieli con il ciuccio che aveva mangiato la letteratura?
Aurélia Steiner cuttunìja gulasch ‘i patānë cu’ā zazìzza ‘i marmuru40 e agguanta a birra’nda cucca grânnara41, nun fa vowella autra ca sgargiare ‘u témpara coma sa fussa ostia santa42 e doppu allumâre u ruffu43, i luminère, u ruffu ca issa ‘ntinnava da ciottèlla44 e che era sacralmente unito con la sua razza, u ruffu ca ‘tene a muccusa a sutta a ogni duluri45 e fa allušcare u marsiānu du pinzīru ca tēne a caggiurra a’supa ‘u gauru togo46. Quannu alluma u puēta a’ra chiazza du Rijarmu Grânnaru, ‘ntašca47: “Togu, cuccusu d’u ciaune càwin48, “Aurélia Steiner cucina gulasch di patate con la salsiccia di cavallo”. “e beve la birra nel boccale grande”. 42 “non vuole altro che rompere il pane come se fosse ostia santa”. 43 “e dopo accendere il fuoco”. 44 “il fuoco che lei conosce da fanciulla”. 45 “il fuoco che tiene la luce sotto ogni dolore”. 46 “e fa brillare il buco del pensiero che ha la zingara sul gaudio immenso”. 47 “Quando vede il poeta in piazza della Città Vecchia esclama”. 48 “Bellezza, mestolo della giovinezza bella”. 40 41
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Cianciarusu ‘e trioffa du Sāntusu49, Russettu ‘i Ggisù, che scerpa ‘ncupate cca gghjécu50?”
Dove potrebbe essere quest’organizzazione quasi sovversiva, fondata di recente a Praga, che esorta i suoi adepti a inventarsi degli ostacoli mentre si masturbano? E avendo nome MDM, la sezione ammašcānte dell’NGAFUR potrebbe essere quella diretta da Aurélia Steiner? Come Mančinka, che era diventata quella che non aveva neppure sognato, che Mančinka era andata più lontana di tutte le persone che Hanta aveva incontrato in vita sua, più lontano, mentre Hanta, benché incessantemente leggesse e cercasse segreti nei libri, ebbene i libri avevano congiurato contro di lui e lui non aveva ricevuto un solo messaggio dai cieli51, mentre Mančinka, come Aurélia, odiava i libri ed era diventata quella che era, era diventata quella di cui si scrive, anzi ancora di più, s’era involata con le sue piume in pietra, perché infine, dopo essersi costruita questa villetta, aveva, per di più, conquistato un artista che l’amava di un amore platonico e per di più aveva costruito e scolpito “Spirito della carne di Dio”. “Sangue di Gesù, che cosa fate qui?”; si tenga presente che Russettu vale anche come “arancia”, “rosso”, “pomodoro”. 51 Cfr. Bohumil Hrabal, trad.it. cit.:pag. 69. 49 50
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in rappresentanza di Dio Mančinka come angelo, un angelo androgino come gli angeli Stuart in Vaticano, che sono oggetto di immonde carezze secondo i canonici compilatori di guide turistiche circolari52, ma che sono, invero, l’oggetto a, quella famosa libbra di carne, che si è fatta pietra, rendendosi irredenta nell’assolutezza anonima del tempo levigato, che nel fantasma del poeta quando passa l’analemma esponenziale al meridiano di Praga [che è un po’ anche quello di Pescocostanzo, alle pendici del Parco della Maiella, per la lingua lombardesca che è speculare all’ ammašcānte dei calderai non solo di Dipignano, e che essendo il paese dei merletti a tombolo, degli intagli nel legno e dell’oreficeria, non è avventato considerarlo parte integrante nell’ascendenza archetipica di Aurélia Steiner che sta a Praga, visto che la Via degli Italiani, Vlašská Ulice, è nel Piccolo Quartiere, dove dal XVI al XVIII secolo nelle case lungo questa strada, per esempio “Alla bilancia d’oro”, abitavano artigiani di origine italiana], l’angelo androgino scende dal cielo e come la zingara appoggia la testa sulla spalla del poeta, e non ha più il terrore che l’aquilone la porti ai cieli, e di non vedere più il poeta, che ha piantato in terra un paletto sul quale ha avvolto il filo grezzo, ed è allora che quell’aquilone era Aurélia Steiner e il poeta, con quel filo che era il suo sguardo lungo il quale entra in rapporto con l’oggetto a, in contatto e colloquiando con Aurélia Steiner stessa che è un po’ l’angelo A di Stuart o tutti e due Cfr. Luciano Zeppegno e Franco Bellegrandi(a cura di), Guida ai misteri ed ai piaceri del Vaticano, Sugar, Milano 1973: ”Le armoniose e quanto prominenti nudità posteriori degli Angeli furono certamente, e forse lo sono tuttora, oggetto di bramose, inconfessabili ricognizioni manuali, tant’è vero che oggi risplendono dopo un secolo e mezzo di furtive, immonde carezze, come fossero tirate a lustro ogni giorno e possono competere per lucentezza(…)col baciatissimo piede di bronzo dell’antichissima statua raffigurante San Pietro”. 52
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e un po’ tutt’e due le zingare di Hrabal, quelle zingare che si fanno fotografare per assolutizzare la loro patafisica assolutezza anonima e quella che s’era fatta coraggio e reggeva i fili e tremava tutta proprio come il poeta, tremava come tremava anche l’aquilone sotto i colpi del vento, reggeva il filo col ditolino e gridava per l’entusiasmo… I cieli sono come un profondo sottotesto, nelle profondità delle cloache e delle fogne scrosciano le acque di scarico e lassù, sulla schiena del poeta, quei cieli di due tonnellate di libricini e libri, e al meridiano l’analemma esponenziale del suo fantasma che dall’angelo Stuart per questa statua che viene scolpita per l’oggetto a di Hanta è qui che allušca Aurélia Steiner la quadarara ammašcânte che vive a Praga con quel suo mezzo passo di polka tra la gonna verde turchese e quella rossa satinata delle zingare che venivano a visitare stando sempre come apparizioni, a un tratto, quando ormai non le aspettava più, quando pensava già che erano morte, che da qualche parte
□ una parte di Aurélia Stuart Steiner, in cui c’è l’aquilone di Furgiulia Cuticchjùna, è apparsa online in Uh Magazine per la 2nd Long Summer □
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Gli Angeli del Sepolcro Stuart
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le avevano sgozzate col coltello da contrabbandiere i loro ganzi, ed erano gli angeli del Sepolcro Stuart , levigati e lucidi oggetti del desiderio, che non sono nient’altro che te stesso, che, essendo così androgini e avendo quel pondus così carico della funzione del taglio, tutto quello che resta è sempre eliso, nascosto, soggiacente ad ogni rapporto del poeta con un oggetto qualsiasi, ed è lì che a va scovato, dove il soggetto o il poeta si trova sospeso e si identifica con tale resto a, al di qua dello specchio, il desiderio del poeta funziona all’interno di un mondo che, benché esploso, porta la traccia della sua prima chiusura all’interno di quel che resta, immaginario o virtuale, nella ‘stambruna di Praga, c’è il ruffio e la proffia, il proprio di Aurélia Steiner, questo proprio angelico per quella S, che essendo il sigaro è il “fumuso”, il livello S del soggetto che si trova al di qua dello specchio, che, va da sé, è al di qua dell’occhio del visionatore o del dispiegatore infinito di immagini che si riflettono a vicenda, che involve Stuart e Steiner, e da questa cuta, o cuticchjuna, che fa più lastra nel gergo dei calderai, o fors’anche muro, c’è la pressa di Hanta, e il sasso, cuta, che, una volta lanciato, è qui a Praga che è caduto ed è Aurélia Steiner la calderaia rom che, con le gonne alzate, sterra un buco nel fondo del cielo del poeta, il resto a della marmura nella pellicola fantasma attraversa il passaggio Melantrichova, il quadrante dell’orologio astronomico di Staroměstské Náměstí, il patafisico trunânte
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togo di Aurélia Steiner di Staré Město Prahy.
│photo © alessandro gaudio│cover uh-book on calaméo E' questo il patafisico trunante togo di Aurélia Steiner?
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Non c’è niente all’orizzonte, un cambiamento che possa prodursi nella profondità del mare, o tra l’orizzonte e la spiaggia, contro il mio corpo, questo freddo del vetro, che a momenti per come vibra si potrebbe pensare che la luce venga dal fondo del mare, questo colore troppo pieno, o quando si fa trasparente come il marsiānu, dà una levigatezza, di un bagliore che non è quello del fosforo, ma, non essendo quello della profondità del mare, è dal fuoco della carne che viene, dopo l’ottenebramento al crepuscolo, quando non tutte le cose si fanno più belle, non tutte le vie, non tutte le piazze, non tutte le persone a sera, quando sono in giro, mi piace vedermi camminare nei vetri delle vetrine, come mi piace veder camminare la zingara, che ora è Furgiulia Cutacchjuna, vedere da tutto il suo corpo disegnato da una linea gialla l’irraggiamento di un’aureola, questo suo modo di girare la testa e guardarmi nei vetri delle vetrine e con un dito mi disegna il naso e la bocca e in generale non mi bacia e neanch’io la bacio, la tocco, sì, ci diciamo tutto con le mani, e guardiamo i bagliori e i riflessi del suo fulgore ainico, il quale emana dal proprio interno una luce azzurra che è quella del Marsiānu, ed è il legno che sta bruciando così fino all’eternità e all’infinito, come se tutto dovesse durare fino all’autunno che è la stagione degli aquiloni dove non c’è il mare, perché davanti a me nasce così questo colore,
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che è molto intenso, come la sua veste verde turchese, come i suoi jeans in cui c’è tutto il suo bagliore ainico tenuto in questo colore così intenso, come se fosse il mare, ma più piccolo, un mare nel tutto del mare, e lei va a prendere la birra e poi facciamo insieme un aquilone, stringiamo i pesi dei fili affinché l’aquilone possa salire con precisione su ai cieli, e poi facciamo rapidamente una lunga coda, a corda, e lei lega colombelle di carta e così ci rechiamo a Okrouhlik o al Parco Pětrín, e quando lancio l’aquilone ai cieli e allento i fili e per un attimo li tengo nelle dita e tiro, affinché l’aquilone si tenda e resti immobile nel cielo, e solo con la coda formi a onda la lettera S, lei ha il volto coperto dalle mani e i suoi occhi stupefatti per quella luce del desiderio che è l’S barrato e l’aquilone è la losanga, il punzone, che ha agli angoli il godimento, l’angoscia, l’oggetto a e A, e la luce che non viene dal fondo del mare, poiché a è irriducibile e Furgiulia53 Cuticchjuna regge adesso questo aquilone che è così trasparente e che ha il suo stesso fulgore, la levigatezza delle sue gambe e delle gambe degli angeli Stuart, Si è supposto che Aurélia Stuart Steiner o Furgiulia(che si può scrivere anche:Furgiuwia)Cuticchjuna possa essere la cugina di Aurélia Ašmantama di Goa[Vedi. V.S. Gaudio, Aurélia Ašmantama di Goa, © 2008]: c’è una leggenda metropolitana in cui è chiamata “Suvarnasvara Ašmantama”: “Suvarna”, in sanscrito, è “oro” e “svar” è il “sole”; “Ašmantama” è la “pietra grande”. Nella zona della Vlašská, la leggenda metropolitana narra che qualcuno la chiama “Vrišowa”, per l’”oro” che è “vrišolu” in ammašcante; o anche “Vrišuwuna”, in cui c’è anche l’accrescitivo di “Cuticchjuna”, Aurélia Petrone in ammašcante. In altri quartieri di Praha è conosciuta anche come Sǖ rya Furguwa, cioè “sole”, in sanscrito, e che attizza sempre, maneggia, radice proairetica della “folgore” e del ”razzo” in ammašcante. In Furgiulia, o Furguwa, c’è anche commutato il “fergiuwu”, che è l’ ”oro”, che si connette alla “forgia”, la fucina, il Forgulu. 53
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il bagliore didonico del suo podice e del podice degli angeli Stuart, ma a, lo sappiamo, non è assimilabile a un significante, e S non è il godimento, lei si sente volare, in su nel cielo, la reggo per le spalle, e la tocco, e io sento quel tocco e comincio a tremare tutto, e a un tratto quell’aquilone era il suo corpo e il filo era davvero lo Spirito di S che sta tra godimento, oggetto a, angoscia e desiderio e la zingara trema tutta proprio come me, trema come trema54 anche l’aquilone sotto i colpi del vento che lei chiama “Shqiponjë-shqiponjë”[pr.: sc’qipogn’] come gli albanesi, non avendo nella sua lingua ammašcânte alcun termine per indicare l’oggetto a che vola se non “muffulo” per come l’aquilone le sembra un fazzoletto55. Che cosa aggiungerebbe al paradigma dire che tutti questi “trema” che “bucano” il testo fanno in realtà sottentrare i “trema” frattali che rappresentamocome scrive Benoît B. Mandelbrot- “porzioni di spazio modellate, a seconda dei casi, su diverse forme geometriche(intervalli, dischi,cubi,ma anche figure più irregolari) e che vengono ritagliate ed asportate da un oggetto in base a una procedura che può essere tanto di carattere deterministico quanto di tipo aleatorio. Il neologismo “trema” riprende letteralmente il vocabolo greco τρημα “buco”(B.B.Mandelbrot, Gli oggetti frattali, trad.it. Einaudi, Torino 1987: pag.157)? L’”aquilone” è il “foro”, il τρημα , che, rappresentando una porzione di spazio modellato, ha la stessa dimensione topologica della polvere di Cantor, allora è questo 0 che buca il Meridiano di Praha, ed è per questo che il poeta «trema”, per la losanga quadarara Shqiponjë-shqiponië ? A seconda della procedura, la porzione di spazio modellato che “trema” al Meridiano può avere un carattere tanto deterministico quanto aleatorio? Tra godimento, oggetto a , angoscia e desiderio , l’aquilone che fora il Meridiano ha in sé il “fuggo per la paura” di τρέω ? 55 L’aquilone, che Aurélia Steiner chiama “Shqiponjë-shqiponjë”, cioè usa la forma superlativa dell’albanese, raddoppiando, ripetendo, specchiando il sostantivo di base,è anche il “settentrione” e il vento di tramontana , che soffia da nord: al Parco Petřín è come se fosse il meridiano di Praga; che, se si temporalizza l’abbordaggio della giovane zingara al poeta con l’asse Asc. 120-Disc. 300(di cui alla nota 59) alla latitudine di Praha, 50°05’ Nord, l’asse Mc-Fc è 7-187(che corrisponde come tempo siderale a 25 m35s): è questa la losanga del passaggio al meridiano di Praha dell’analemma esponenziale dell’oggetto a del poeta, la sua apparizione demonica, la losanga accende il suo bagliore ainico? E in questo bagliore cosa è che si riflette nello specchio o nell’occhio del poeta o del visionatore? La posizione 25 du Foutre du Clergé, Fergiulia che si mette in ginocchio sulla sponda del letto, prosternata, il culo sui talloni, e il poeta dietro di lei che fušca e fa l’enzuvë lasciando la scursénta sempre aperta per timore che arrivi lo zingaro a fotografare, lei che non è sul letto inginocchiata ma su una sedia vicino allo stipite e con la gonna verde turchese o rossa satinata alzata si sta facendo infarcunare a più non posso, cosicché facendo la 25 e la 35 insieme, come l’”anatra” e la “sentinella”, sta facendo “u pullu ca’ tawija”, l’”uccello che guarda attentamente”, e ‘u puēta fa l’enzuvë fantasmato, nell’attesa che lo zingaro arrivi a sorprenderli per fotografarli con la macchina senza pellicola. Va da sé che in shqip, da cui Furgiuwia prende le parole che non ha in 54
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Io chiedo: Aurélia Steiner? Furgiulia Cuticchjuna56? Lei non risponde. S’allontana da me. Lei grida: com’è che lo sai? Io dico che avevo sentito parlare di lei dai turisti circolari. Lei chiede. Piange. Dico: sì, tutti, erano degli uomini dai capelli neri. L’indomani mattina la città è come i cieli in autunno, il sole così crudo e pieno. Come se annunciasse una tempesta. ammašcânte, l’”anatra” è “rosë” e la “sentinella” è “rojë”(leggi:ros; roj), cosicché è questo che sta facendo rosë-rojë, “ros-roj”, una sorta di “rossurojë”, che è qualcosa che sta vicino all’atto con cui si tiene costantemente acceso il fuoco, facendo sì che non debordi e non si propaghi,abbiamo visto come Furgiuwia è maestra quadarara, brava nell’attizzare ‘u rossu, lei furguwunija sempre, perché lei senza fuoco non vive, fa sempre, anche quando furguwunija, rosë-rojë, l’anatra e la guardia, l’enzuvamento costantemente attizzato e costantemente sospeso per guardare se arriva lo zingaro a sorprenderla nella losanga di Lacan. 56 E’ evidente l’analogia che la Cutacchjuna, che è Aurélia Steiner, ha con la meccanica della pressa, avendo in sé la pietra del mulino e, come dall’uno all’altra, ovvero il mulo o la mula che Aurélia ha in sé, passi l’asino che divora i libri della lingua e della scienza, per come faccia girare la ruota del mulino che macina libri e del “mullar” che macina il fantasma del poeta. L’arcobaleno sulla terra e l’arcobaleno dentro la terra che insieme fanno una ruota di Luna Park[cfr. quanto scrive Sergio Corduas in Hrabaliana, appendice in: Bohumil, Hrabal, trad. it. cit.: pag.108], e Hanta che sta sull’asse centrale e lì vive e opera o da dove sale e scende da un punto all’altro, non è che il meridiano su cui culmina l’analemma esponenziale del fantasma del poeta. Ecco perché la Cuticchjuna sembra che sia di Pescocostanzo, che ha quasi lo stesso meridiano di Praha, e sembra che sia maestra del merletto a tombolo, se non del merletto di Vamberk, e maestra dell’oggetto a intagliato nel legno, o nella pietra, nel marmo, insomma levigato gioiello rosso di Boemia, per via del fuoco, il Ruffu quadararo, e dell’oreficeria di cui sono ingorde e maestre le quadarare non solo italiche.
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La Vltava è là, al suo posto. La città è come lo zucchero di canna candito in un barattolino di rum della Giamaica, è cristallizzata nel suo cielo così assoluto. Tutto quello che guardo, tutto va contemporaneamente in avanti e tutto torna contemporaneamente indietro, non c’è la luce tremolante delle notti estive del plenilunio, bevo la Velkopopoviché di 10 gradi, che è la sua gravità, il suo pondus, originale, la sua densità del malto e degli altri zuccheri impiegati nella fabbricazione; in realtà, la percentuale di alcool sul volume complessivo è del 4%. Aurélia Furgiulia Cuticchjùna mi racconta la storia dell’asino che sgranò la letteratura rom. Ogni tanto si ferma, mi guarda ed esclama: Carino, piaghe di Dio, cuore di Gesù, dài, facciamo?! Dice: ‘Ncupiamo?57 Mi guarda con gli occhi stupefatti e i jeans abbassati: Infarcuni ‘u trunānte58? Santusu, ‘mporgiami, tìgnami, fušcami59!
“facciamo?”. “Mi fotti in culo?” 59 “Cristo, mettimelo, intingimelo, fottimi”.Il significato di “’mporgiàre”, “tignâre”, “fušcare”, nella valenza fonologica di ogni termine, ha sempre una specificità così densa e viscosa che non si riflette mai nel termine usato in traduzione. 57 58
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la zingara, la fotografia, le zingare...
Ricorda il poeta come incontrò quella zingara per la prima volta, [quell’amore della sua giovinezza, da zingara quieta e senza malizia, quella che quando lo aspettava sui binari della stazione Nebozízek teneva una gamba spostata in avanti e di fianco come stanno le danzatrici nella posizione di base e come stanno gli angeli Stuart, e come questi ogni volta che lo carezzava era lustro e imbrattato,
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tutto enzuvato, con la macchia di Lacan tirata a lucido, tanto che è così che basterà solo l’occhio(del visionatore) perché da quel fantasma si produca il dispiegamento infinito delle immagini dell’angoscia e del desiderio, che da quell’oggetto a si riflettono, colano dal meridiano, che è il mezzo cielo che passa tra il godimento e A, perché il corpo della bellezza della giovinezza del poeta e degli angeli Stuart di questo mullar infinito di a si è fatto specchio] gli si affiancò sui binari e restò con lui, parlava con lui al disopra della spalla, si reggeva sempre alla sua schiena e mai restava indietro o lo oltrepassava, era uscito il poeta dal Nebozízek, che è a metà strada della funicolare del Parco Petřín, e al bivio dice, addio60, “io devo andare”,
Da notare che a Praga il poeta, quando viene abbordato dalla giovane zingara, sempre in ambito ferroviario, non è sui binari del passaggio a livello, come avviene nel delta del Saraceno, ma è alla stazione intermedia della funicolare, la Lanová Dráha, che attraversa il Petrínské sady nella sua porzione inferiore, e , fatto ancor più interessante, il movimento ha la direzione ovest quando nel delta del Saraceno la direzione era verso est, ma sia qui che a Praha, guardando verso sud, il poeta e la zingara vedono un muro, a Praha c’è la Hladová zed’, il “muro della fame”, nel delta, su quei binari, c’è il muro che separa la ferrovia da una via cittadina; messa così la disposizione prossemica, a Praha il poeta andrebbe alla Torre dell’Osservatorio verso ovest cioè, se ci si attiene alla sua mappa cosmografica, verso il suo Discendente, che è all’inizio dell’ Acquario, che comincia a gradi 300, che corrispondono quasi esattamente ai 299 gradini della scala a chiocciola, che, una volta che si è sulla terrazza panoramica, ormai si è sul gradino 300. Nel delta del Saraceno, invece, si sta andando verso l’Ascendente, che è all’inizio del Leone, quindi a 120 gradi, che raddoppiano l’altezza della torre ottagonale dell’Osservatorio di Praha. Non entra in questa determinazione numerica il CAP 12060 di “Grinzane Cavour”, il paesino di un ridondante e, per certi versi, mauriziano premio letterario il cui presidente, nei giorni in cui il poeta sta scrivendo, è tratto in arresto per molestie sessuali nei confronti di un suo inserviente clandestino dell’isola Mauritius[dove, per intenderci, i tahmili fanno la “marcia sul fuoco”]e malversazione, nonostante gli abitanti del luogo siano chiamati, oltre che “grinzanesi”, gallesi, e gallese è il formalizzatore della lingua nascosta dei quadarari, che, comunque, non fa una grinza, anche se adesso, a pensarci bene, qualche grinza la farebbe, non ebbe il poeta a porgere in una breve notizia biografica: “Contrario a ogni confraternita, non ha mai partecipato a qualsivoglia premio”[cfr. in: Ragioni e canoni del corpo, Versi inediti di poeti contemporanei, antologia a cura di L.Troisio, Terziaria Asefi, Milano 2001]? Non ebbe il poeta a dar inizio alla sua attività di giornalista, così come viene contemplata dal codice 8000 delle attività fiscalizzate, con un articolo sulla marcia sul fuoco dei Tahmili dell’isola Mauritius(cfr. V.S.Gaudio, La marcia sul fuoco, “Astra” n.4 , Editoriale del Corriere della Sera, Milano, aprile 1978)? 60
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ma lei disse che doveva andare nella stessa direzione che aveva preso il poeta, così camminava il poeta verso la chiesa di San Lorenzo e alla fine dice, allora addio, io devo andare, e lei disse che andava anche lei in quella stessa direzione, e così volutamente arrivò il poeta fino a Růžovy sad e le porse la mano dicendo che doveva rincasare, e lei disse aspetta, ti leggo la mano, so leggere la mano, c’è scartoccia, disse, “libro”, ‘nda strângèlla tuja, nella tua mano, fai stàfice, stai, aspetta, fai stàfice, scartoccia, e fušcare, vulla, cibbèrne61, infarcùni e fušchi62, topinàru e trunànte63, t’âmmarcùni e ‘ncupi triëparu ciottéllu64, càlin-puēta ca grasija e sgranija ‘a purpitusa65, e così camminarono e salirono verso il Labirinto degli Specchi, qui disse il poeta l’occhio di per sé è già uno specchio e disse che ormai era lì che l’eternità poteva passare al meridiano, e mentre stava per dirle addio, io voglio a salire a piedi i 299 gradini della scala a chiocciola della Torre dell’Osservatorio, apparve uno zingaro con la macchina fotografica e lei allora si alzò la veste e toccò col deretano nudo il poeta guardando l’obbiettivo, poi lo zingaro col palmo rialzato richiamò l’attenzione del poeta e lui guardò la macchina un po’ a bocca aperta e sentì lo scatto della macchina che non aveva nelle sue viscere la pellicola, così comprese che al mondo non dipende proprio nulla da come le cose finiscono, Si noti anche come il poeta, pur puntualizzando come destinazione il “Labirinto degli Specchi”, lì non entra, ma è proprio lì che lo zingaro non avrebbe potuto fotografarlo con la zingara, essendo proibito fotografare in quel luogo, ma si può proibire di fotografare tra gli specchi deformanti chi fotografa con una macchina senza pellicola? 61 “fottere, figa, seni”. 62 “chiavi e fotti a destra e a manca”. 63 “fessa e culo”. 64 “ti sposi e fai tre figli”. 65 “bel poeta che beve vino e mangia la castagna”.
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ma tutto è soltanto desiderio, angoscia, oggetto a e Altro, e che il suo viso volava avanti con l’aquilone al meridiano di Bologna per farsi fotografare in quell’inverno in cui non c’erano popovické da 10 gradi da bere né pellicola nella macchina fotografica per farsi fantasma perenne della minèca che tanto amò quell’oggetto a, che, in quanto mancanza, apriva, come aveva detto la zingara al poeta, la porta al godimento, al bonheur.
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AURÉLIA STUART STEINER ALIAS FURGIULIA CUTICCHJÙNA LA STIMMUNG-AMMAŠCÂNTE CON BOHUMIL HRABAL SULLA MORTE DELLA LETTERATURA
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