Il ritmo dell'essere - Vicenza - Wilhelm Senoner

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LE MIE FORME: SPIGOLI DI ROCCIA KANTEN AUS DEM FELSEN, IN DENEN ICH MEINE GESTALTEN GEFUNDEN HABE


photo© Attilio Pavin

“LE MIE FORME, SPIGOLI DI ROCCIA” “Ho camminato molto in montagna da ragazzo. Ero appassionato e affascinato dalle forme delle rocce. Rocce che si innalzano, rocce che si sgretolano. Ricordi che si sono sviluppati, animando prima la mia immaginazione artistica e trasformandosi poi in forme plastiche, in bassorilievo, in rappresentazioni grafiche che rimandano ai sentieri, alle vie nella roccia, alle slavine e ai ghiaioni. Insomma, alla montagna nei suoi molteplici, complicati e affascinanti aspetti. Ad alta quota si respira, si apre l´orizzonte, insieme alle nuove vie e, soprattutto, alle nuove idee”. Wilhelm Senoner

„KANTEN AUS DEM FELSEN, IN DENEN ICH MEINE GESTALTEN GEFUNDEN HABE.” „Schon als Junge bin ich viel in den Bergen gewandert. Ich war begeistert und fasziniert von den Formen der Felsen. Felsen, die sich erheben, Felsen, die zerfallen. Erinnerungen, die sich entwickelt haben, die zuerst meine künstlerische Vorstellungskraft angeregt haben und sich dann in plastische Formen, in Reliefs, in grafische Darstellungen verwandelt haben, die auf die Wege verweisen, die Pfade in den Felsen, auf die Lawinen und die Geröllfelder. Also auf die Berge mit ihren vielfältigen, komplizierten und faszinierenden Seiten. Auf der Höhe atmet man, der Horizont öffnet sich zusammen mit den neuen Wegen, und vor allem den neuen Ideen.“ Wilhelm Senoner


photo© Egon Dejori

Wilhelm Senoner

scultore e pittore | Bildhauer und Maler

È nato a Ortisei in Val Gardena il 3/6/1946, dove vive e lavora. Ha frequentato l´Istituto d´Arte di Ortisei, completando la sua formazione presso rinomati scultori; dal 1977 in poi svolge libera attività artistica. Numerose mostre lo fanno conoscere in Italia e all´estero. Opere sue si trovano presso enti pubblici, musei e privati.

Geboren am 3.6.1946 in St. Ulrich. Er besuchte die Kunstschule in St. Ulrich und machte die Lehre bei verschiedenen Bildhauermeistern. Seit 1977 arbeitet er als freischaffender Künstler. Zahlreiche Ausstellungen machen ihn im In- und Ausland bekannt. Seine Werke befinden sich in öffentlichen Gebäuden, Museen und in Privateigentum.


PREMESSA “L’Unione Cattolica Artisti Italiani (UCAI) “Beato fra Claudio Granzotto”- Sezione di Vicenza, è lieta ed onorata di aver ospitato nella monumentale Chiesa di San Silvestro - in occasione del IX Festival Biblico - la rassegna d’arte “Il Ritmo dell’ Essere e dello Spazio” dello scultore Wilhelm Senoner e del fotografo Attilio Pavin. Due artisti che vivono ed operano in luoghi sensibilmente diversi per usi, costumi e tradizioni, che condividono, però, la comune ricerca del rapporto tra l’uomo e l’universo, inteso quale componente inscindibile e meravigliosa della straordinaria opera di Colui che in sei giorni ha creato, ammirandola il settimo giorno. E’ proprio in questo rapporto che l’uomo deve essere se stesso, nell’ affrontare le difficoltà che la vita gli riserva senza scorciatoie per realizzare un mondo diverso e migliore di quello che oggi l’umanità intera sta vivendo. Sono convinto che da questa esperienza anche l’Associazione che rappresento possa attingere nuove energie. Un grazie particolare a tutti coloro che hanno animato questo singolare e straordinario evento. Il Presidente Roberto Meneguzzo

Il 17 giugno 2013 si conclude a Vicenza la mostra “Il Ritmo dell’ Essere” di Wilhelm Senoner, facente parte della IX edizione del Festival Biblico, organizzata dall’ UCAI “Beato Fra Claudio Granzotto” sezione di Vicenza, nel Complesso Monumentale di San Silvestro. Numerosi interventi culturali, artistici e musicali ispirati alle sue opere hanno contribuito a creare un ambiente speciale negli interni di San Silvestro, per tutta la durata della mostra. Nel momento successivo, della riflessione, è stato spontaneo raccogliere alcune considerazioni, “impressioni” lasciate a Vicenza dalle sue opere. Si aggiungono a questa raccolta di testi le riflessioni del teologo Ewald Volgger, immediatamente successive e risalenti ad un dibattito pubblico sul “bacio che dà vita” tenutosi presso la sede della Caritas di Bolzano l’otto novembre duemilatredici. Nasce così questa raccolta di testi: Le mie forme: spigoli di roccia, arricchita dalle fotografie di Attilio Pavin per ricordare la presenza di Wilhelm Senoner a Vicenza.

Die Unione Cattolica Artisti Italiani (UCAI) Beato Fra Claudio Granzotto, der Ortsgruppe von Vicenza freut sich und fühlt sich geehrt die Ausstellung Il Ritmo dell’Essere e dello Spazio des Bildhauers Wilhelm Senoner und des Fotografen Attilio Pavin anlässlich des IX. Festival Biblico in der Kirche San Silvestro zu Gast gehabt zu haben. Zwei Künstler, die an ganz verschiedenen Orten leben und arbeiten, verschieden in Bezug auf die Sitten und Gebräuche, die aber die Suche nach der Beziehung von Mensch und Universum gemeinsam haben, eine Beziehung und ein untrennbarer und wunderbarer Teil des außergewöhnlichen Werkes, das Gott in sechs Tagen geschaffen hat und das von ihm am siebten Tag bewundert wurde. Und gerade in dieser Beziehung muss der Mensch ganz er selbst sein, indem er sich den Schwierigkeiten des Lebens ohne Abkürzungen stellt, um eine andere und bessere Welt zu schaffen, als die, in der heute die Menschheit lebt. Ich bin überzeugt, dass auch unser Verein aus dieser Erfahrung neue Energien schöpfen kann. Ein besonderer Dank an all diejenigen, die dieses außergewöhnliche Ereignis beseelt haben. Der Präsident Roberto Meneguzzo

Am 17 Juni 2013 endet die Ausstellung Il ritmo dell’essere von Wilhelm Senoner im Rahmen der IX Ausgabe des Festival Biblico, das von dem Verein UCAI Beato Fra Claudio Granzotto, Ortsgruppe Vicenza, in dem Denkmalkomplex von San Silvestro organisiert wurde. Zahlreiche Beiträge zum Thema Kultur, Kunst und Musik, die von seinen Werken inspiriert wurden, haben dazu beigetragen, in der Kirche San Silvestro für die gesamte Dauer der Ausstellung eine besondere Atmosphäre zu schaffen. In der Folge haben einige Autoren spontan entschieden, „Impressionen“, die von seinen Werken eingegeben wurden, zusammen zu tragen. Die Texte dieses Katalogs werden von den Gedanken des Theologen Ewald Volgger begleitet, die im direkten Anschluss während einer öffentlichen Diskussionsrunde über den „bacio che dà vita“ (den Kuss, der Leben gibt) am Sitz der Caritas Bozen am 8. November 2013 entstanden sind. So ist diese Sammlung von Texten entstanden, die zusammen mit den Fotos von Attilio Pavin in den Katalog Le mie forme: spigoli di roccia / Kanten aus dem Felsen, in denen ich meine Gestalten gefunden habe aufgenommen wurden, um an die Ausstellung von Wilhelm Senoner in Vicenza zu erinnern.

Enrica Volpi

Enrica Volpi


photoŠ Attilio Pavin


SPAZI ESPOSITIVI E LUOGHI ELETTIVI Dove ci chiamano le opere di Wilhelm Senoner? Per le opere d’arte vengono allestiti spazi espositivi. Le sculture di Wilhelm Senoner sono state ospitate in musei, gallerie, sale, padiglioni, chiese, ville, hotel, palazzi, conventi e castelli. Lo spazio espositivo riunisce le opere affinché il pubblico abbia la possibilità di osservarle, analizzarle e apprezzarle da vicino. Ma è davvero qui che possiamo incontrarle? Siamo accorsi ad ammirare le sculture di Senoner in questi spazi chiusi, architettonicamente eccellenti, ma – non ce ne vogliano gli organizzatori – non è in questi contesti che ci è dato di incrociarne lo sguardo. Tra pareti, soffitti, moquette, pannelli e vetrate, luci artificiali e impianti ad aria condizionata, questi Uomini e queste Donne sembrano a disagio. Restano distanti, a dispetto del loro essere lì davanti a noi. Mostrano il loro distacco, ritraendosi pudicamente (o caparbiamente?) sui loro piedestalli. Sembrano essere in attesa, dissimulando per pura cortesia, da buoni ospiti, la fretta di andarsene (o tornarsene) altrove. Ciò a cui anelano non è uno spazio di ostensione, bensì un luogo di meditazione. Se gli spazi espositivi possono essere molti, addirittura infiniti, il luogo elettivo di un’opera d’arte può essere, concettualmente, solo uno. Ed è soltanto nel loro luogo elettivo che le opere ci si fanno incontro, riprendono a vivere per noi e con noi nella loro verità. Il rapporto dell’opera con il luogo elettivo è complesso, non arbitrario come lo è quello con lo spazio espositivo. In quanto spatium ed extensio lo spazio c’è già anche prima di essere riempito, occasionalmente, dalle opere, e continua a esserci anche dopo esserne stato svuotato. Come ogni involucro, è neutro: vi si transita, e si passa oltre. Il luogo, invece, solo grazie alla presenza dell’opera diventa il luogo che è. È vivo: vi si abita, vi si dimora insieme alle opere. Parafrasando – ma non troppo – il filosofo Martin Heidegger, si potrebbe dire che il luogo non esiste già prima dell’opera, ma si origina solo a partire dall’opera. Non è involucro ma ricettacolo. Solo quando si colloca nel suo ricettacolo elettivo l’opera dispiega tutta la sua potenza simbolica ed evocativa. Tra luogo e opera sussiste un rapporto di scambievole, simbiotica reciprocità. Pur rimanendo distinti, luogo e opera fanno tutt’uno: l’opera si prende cura del luogo, e lo genera – il luogo accoglie l’opera nel suo seno, e vi si rispecchia. Nel 2011, con l’installazione, intitolata Nel profumo del vento, di sette sculture, per cinque mesi, sulla sommità dell’Alpe Rasciesa, nel Parco Naturale PuezOdle, a 2.300 metri di quota, Senoner ha realizzato il sogno, a lungo coltivato, di restituire le sue opere al loro luogo elettivo, anzi alla capacità di delimitare e originare un luogo, fuori e lontano da ogni spazio espositivo, per quanto eccellente. L’uomo in cammino, l’Uomo con l’aquilone, La donna nel vento, L’uomo controvento, L’uomo con il sigaro, L’uomo che pensa e La donna in attesa si sono ritrovati così là dove la mente e la memoria del loro autore li avevano già da sempre collocati: “Già da ragazzo” rammenta l’artista “andavo molto a camminare in montagna. Ero appassionato e affascinato dalle forme delle rocce. Rocce che si innalzano, rocce che si sgretolano. Ricordi che si sono sviluppati, animando prima la mia immaginazione artistica e trasformandosi poi in forme plastiche, in bassorilievo, in rappresentazioni grafiche che rimandano ai sentieri, alle vie nella roccia, alle slavine e ai ghiaioni. Insomma, alla montagna nei suoi molteplici, complicati e affascinanti aspetti”. In questo ruvido altrove rispetto al levigato spazio espositivo le sculture di Senoner sembrano finalmente a loro agio. Il caparbio ritegno ad abbandonare i loro piedestalli, che le rendeva così avulse in galleria, sembra trasformarsi qui, tra cielo, terra, prati, rocce, pioggia, neve e vento, nell’ansia opposta di eliminare l’ingombrante frammezzo del basamento, di scendere giù dal palcoscenico cui la noblesse di oggetti artistici le obbligava, per reimmergersi infine nella propria physis, là dove la familiarità con luoghi e persone torna a essere determinante. Sarebbe tuttavia un errore, crediamo, ridurre tutto ciò a un raffinato amarcord inscenato dall’artista con intento puramente autobiografico e psicologico. Il suo gesto ha invece, a nostro parere, un valore soprattutto ontologico, riguarda cioè l’essenza stessa dell’arte, in particolare della scultura, arte tattile-visuale, materico-spaziale, dunque “locale” per eccellenza. Il luogo, la terra verso cui le sculture di Senoner ci chiamano non è solamente la sua terra geografica – l’incomparabile ambiente naturale e culturale della montagna dolomitica della Val Gardena –, e neppure solo la terra intima della memoria e della nostalgia di un singolo uomo, ma la terra propria delle opere stesse, quella loro insondabile, grezza, ruvida, scabrosa, opaca matericità significante che, essa sola, permette ai significati immateriali di emergere. Unicamente ritirandosi in se stessi, nel segreto e nell’enigma del proprio corpo tangibile, il legno, il bronzo, la pietra di una scultura consentono alle sue forme di disvelarsi in un mondo di senso. In fin dei conti, l’artista altro non è che il tramite – vorremmo dire il medium – di tale disvelamento, in cui è la terra stessa dell’opera a chiamarlo all’opera e a guidare la sua mano. Rispondendo a tale chiamata, la mano sapiente di Senoner ci ha donato L’uomo con l’aquilone, che – ce lo dice lui stesso – “aspetta il momento giusto”, L’uomo in cammino, che “cerca esperienze nuove, incontri nuovi, nuove vie”, L’uomo con il sigaro, che “sta al di sopra della situazione”, L’uomo controvento, che “sfida le leggi della gravità”. E così via. Sul senso simbolico, cioè sui significati potenziali di queste figure, ci si può interrogare all’infinito, com’è d’obbligo al cospetto di ogni opera d’arte che si rispetti. Una riflessione che può dipanarsi ovunque,


Giovanni Gurisatti Università di Padova

photo© Egon Dejori

anche tra le mura di un semplice spazio espositivo. Ma in questo involucro, già lo si è detto, proprio la terra di queste opere sembra ammutolire, ritrarsi nell’ombra. Lascia che siamo noi a parlare, in attesa di riprendere la parola in un luogo elettivo. Allora, d’un tratto, capiamo. Ricollocando le sue sculture là, sulla montagna, Senoner ha risposto, ancora una volta, al loro appello. Lassù il loro corpo-dibronzo – adottato per necessità, eppure così simile, nel tocco esperto dell’artista, al legno, al tronco, alla corteccia, alla pietra, alla roccia, alla ghiaia, al terriccio – ha ripreso a vivere e a parlare la sua lingua e a dialogare, anzitutto, non con noi (chi siamo, “noi”?), ma con gli elementi. Tutto ciò che lo spazio espositivo, nella sua asettica, artificiosa chiusura, teneva forzatamente lontano da queste sculture, può ora, nel luogo elettivo, riprendere vivo contatto con la loro terra: il vento infuriare e carezzare, il sole scaldare e abbrunare, la luce risplendere, la calura deformare, la pioggia dilavare e arrugginire, la grandine ammaccare, la nebbia ossidare, il fango imbrattare, la sabbia ingiallire e velare, la neve corrodere, il gelo mordere, il fulmine colpire, scheggiare, devastare. Ma appunto: tutto ciò che qui fa luogo – legno, pietra, roccia, ghiaia, prato, pianta, vento, sole, calura, pioggia, grandine, nebbia, fango, sabbia, neve, gelo, fulmine – inizia anche a essere luogo e a delimitarsi come tale soltanto in presenza dell’opera. Può sembrare paradossale, però è così. Artisti come Wilhelm Senoner lo sanno bene. Sono loro a restituire al luogo il suo genius. Se nello spazio espositivo è l’uomo a prendersi cura delle opere, proteggendole dagli elementi e dagli uomini, nel luogo elettivo sono le opere a prendersi cura degli elementi e degli uomini. Se là le sculture, tramite il loro contenuto simbolico, ci comunicano un senso, qui, tramite la loro terra, ci consentono un’esperienza altra, più originaria, che non è quella della riflessione e del pensiero, ma dell’incontro e della vita. Solo hic et nunc tra queste rocce e pietre, L’uomo in cammino le fa essere rocce, lascia che siano le pietre che sono, ce le fa incontrare come se prima non le avessimo mai né viste né toccate, e ci esorta a camminare tra esse e con esse. Solo spazzati dal vento, L’uomo con l’aquilone, La donna nel vento e L’uomo controvento fanno sì che il vento sia il vento che è, ce lo fanno percepire in tutta la sua essenza – sconvolgente, rabbrividente, infuriante, carezzante, alitante – di vento. Solo adesso comprendiamo che cosa significhi essere-vento, essere-nel-vento e per-il-vento. Soltanto lì, immobili, sotto sole, pioggia, nebbia, neve e gelo, L’uomo con il sigaro, L’uomo che pensa e La donna in attesa lasciano che sole, pioggia, nebbia, neve e gelo siano gli elementi che sono, li fanno essere, per noi, come mai, nello spazio espositivo, avremmo potuto sperimentarli. In breve: una volta ritornati nel loro luogo elettivo, e grazie alla loro magica capacità di dare origine al luogo e ai suoi elementi, gli Uomini e le Donne di Senoner ci sollecitano non solo a transitare loro accanto nello spazio, ma a trattenerci presso di loro, a prendere dimora, almeno spiritualmente, nel sito che hanno circoscritto per noi. Platone, che detestava l’arte poiché non capiva nulla della potenza ontologica, veritativa e rivelativa della “terra” materica delle opere, ci impone di andare al di là della loro cosiddetta mera costituzione sensibile, per ascendere, oltre il visuale-tattile-materiale, all’idea intelligibileintangibile-immateriale. È questa in fondo la funzione dello spazio espositivo, da sempre deputato a isolare e astrarre l’arte dalla vita, per farne oggetto di contemplazione e di pensiero. Ma una volta ricollocate nel loro luogo elettivo, le opere così straordinariamente visuali, tattili, materiche e telluriche di Senoner sembrano invitarci a un percorso diverso: non già un’ascesa intellettiva – una theoria – oltre e al di là dell’eidolon (l’immagine, la forma sensibile, il corpo) per giungere a cogliere l’eidos (l’idea, l’essenza intelligibile, il senso), bensì un’ascesa vissuta – una praxis – dentro e attraverso la materia dell’opera e della montagna, affinché il nostro incontro est-etico con l’opera d’arte possa trasformarsi in un cammino ascetico che ci riconduca alla (ri)scoperta del luogo. Dove ci chiamano le opere di Wilhelm Senoner? Ci chiamano a un luogo di spiritualità, ovvero a un’esperienza di verità che presuppone una radicale trasformazione di sé. Da sempre, nelle più varie culture ed epoche, questo luogo di spiritualità è stato identificato con la montagna – territorio per eccellenza di un’ascesa che, prima ancora che impresa di conquista della vetta, è cammino d’ascesi, percorso di meditazione, esposizione all’altro, cura di sé e conquista di sé. Possiamo – anzi dobbiamo, ogni volta che se ne presenti l’occasione – recarci a visitare le opere di Senoner nei loro spazi espositivi, ovunque essi siano. Ne trarremo molto. Ma ne trarremo ancor più se saremo disposti a seguirle idealmente, passo passo, fin lassù, là dove, rispondendo alla loro chiamata, finalmente incontrandole potremo incontrare anche noi stessi. La montagna è il loro luogo elettivo, e attende pazientemente il loro (e il nostro) ritorno. Forse in futuro Wilhelm Senoner potrà farci ancora questo dono.


AUSSTELLUNGSRÄUME UND WAHL-ORTE Für Kunstwerke werden Ausstellungsräume eingerichtet. Die Werke von Wilhelm Senoner wurden in Museen, Galerien, Sälen, Pavillons, Kirchen, Villen, Hotels, Palazzi, Klöstern und Schlössern ausgestellt. Der Ausstellungsraum vereint die Werke, damit das Publikum die Möglichkeit hat, sie zu betrachten, zu studieren und aus der Nähe zu würdigen. Aber ist das der richtige Raum, um sie zu treffen? Wir sind herbeigeeilt, um die Werke von Senoner in diesen geschlossenen Räumen zu bewundern, die architektonisch hervorragend sind, aber – und ich hoffe, die Kuratoren werden mir das verzeihen – es wird kaum in diesen Gebieten sein, dass wir ihren Blick kreuzen. Umgeben von Wänden, Decken, Teppichböden, Tafeln und Glasscheiben, künstlichem Licht und Klimaanlagen scheinen diese Männer und Frauen sich unwohl zu fühlen. Sie bleiben uns fern, obwohl sie direkt vor uns stehen. Sie zeigen ihren Abstand, indem sie sich schamhaft (oder trotzig?) auf ihre Sockel zurückziehen. Sie scheinen etwas zu erwarten, und nur aus Höflichkeit, als gute Gastgeber, lassen sie sich die Eile nicht anmerken, die sie haben, woanders zu gehen (oder zurückzukehren?). Das, wonach sie streben, ist nicht ein Raum der Zurschaustellung, sondern ein Ort der Meditation. Wenn es einerseits viele Ausstellungsräume gibt, vielleicht sogar unendlich viele, so kann es doch für ein Kunstwerk, wie es in der Natur der Sache liegt, nur einen Wahl-Ort geben. Und nur an ihrem Wahl-Ort kommen sie uns entgegen, erwachen wieder zum Leben für uns und mit uns in ihrer Wahrheit. Die Beziehung des Kunstwerkes zu seinem Wahl-Ort ist komplex, nicht willkürlich wie es diejenige zu einem Ausstellungsraum ist. Als spatium und extensio existiert der Raum schon, bevor er, zufällig, von den Kunstwerken ausgefüllt wird, und er existiert auch weiter, nachdem er wieder entleert wurde. Wie jeder Behälter ist er neutral: man geht hindurch und dann weiter. Der Ort hingegen wird allein durch die Anwesenheit der Werke der Ort, der ist. Er lebt: man wohnt dort, man hält sich auf, zusammen mit den Kunstwerken. Indem man frei wiedergibt – aber doch nicht zu sehr – was der Philosoph Martin Heidegger geschrieben hat, könnte man sagen, dass der Ort vor dem Werk noch nicht existiert, sondern sich erst aus dem Werk erschafft. Er ist keine Hülle sondern eine Hut und Unterkunft. Erst wenn es sich in seiner Wahl-Hut und Wahl-Unterkunft befindet entfaltet das Werk seine ganze symbolische und beschwörende Kraft. Zwischen Ort und Werk existiert eine Wechselbeziehung, eine symbiotische Gegenseitigkeit. Obwohl sie getrennt bleiben, bilden doch Ort und Werk eine Einheit: Das Werk besorgt den Ort, es bringt ihn sozusagen hervor – der Ort nimmt das Werk in seinem Schoß auf und spiegelt sich in ihm wider. Im Jahr 2011 standen sieben Skulpturen fünf Monate lang auf dem höchsten Punkt der Raschötzer Alm, im Naturpark Puez-Odle, auf einer Höhe von 2.300 Metern: Mit der Ausstellung Im Duft des Windes hat sich Senoner einen langgehegten Traum erfüllt, seine Werke ihrem Wahl-Ort zurückzugeben, und damit ihrer Fähigkeit den Ort zu begrenzen und zu schaffen, im Freien und weit weg von jedem, auch noch so hervorragenden Ausstellungsraum. Der Gehende, Der Mann mit Drachen, Die Frau im Wind, Der Mann im Gegenwind, Der Mann mit Zigarre, Der Denker und Die wartende Frau haben sich dort wiedergefunden, wo der Geist und das Gedächtnis ihres Schöpfers sie schon immer gestellt hatten. „Schon als Junge“ erinnert der Künstler „bin ich viel in den Bergen gewandert. Ich war begeistert und fasziniert von den Formen der Felsen. Felsen, die sich erheben, Felsen, die zerfallen. Erinnerungen, die sich entwickelt haben, die zuerst meine künstlerische Vorstellungskraft angeregt haben und sich dann in plastische Formen, in Reliefs, in grafische Darstellungen verwandelt haben, die auf die Wege verweisen, die Pfade in den Felsen, auf die Lawinen und die Geröllfelder. Also auf die Berge mit ihren vielfältigen, komplizierten und faszinierenden Seiten.“ In diesem rauen Anderswo im Vergleich zum glatten Ausstellungsraum scheinen die Figuren Senoners sich endlich wohl zu fühlen. Die hartnäckige Zurückhaltung ihre Sockel zu verlassen, die sie in der Galerie so herausgerissen erscheinen ließ, scheint sich hier zwischen Himmel und Erde, inmitten von Wiesen, Felsen, Regen, Schnee und Wind in das entgegengesetzte Verlangen zu verwandeln, das sperrige Hindernis der Basis loszuwerden, von der Bühne herunterzusteigen, auf die sie durch die Noblesse eines Kunstwerkes gezwungen waren, um schließlich wieder in die eigene physis einzutauchen, dort, wo die Vertrautheit der Orte und Personen wieder entscheidend wird. Es wäre dennoch ein Fehler, wie wir glauben, dies alles auf eine subtile nostalgische Erinnerung zu beschränken, die vom Künstler zu rein autobiografischem und psychologischen Zweck inszeniert wurde. Seine Geste hat hingegen unserer Meinung nach einen vor allem ontologischen Wert, d.h. in Bezug auf das Wesen selbst der Kunst, besonders der Bildhauerkunst, einer taktilen-visuellenmateriellen-räumlichen Kunst, d.h. „örtlich“ schlechthin. Der Ort, das Land wohin die Skulpturen von Senoner uns rufen, ist nicht nur seine geographische Heimat – die unvergleichliche natürliche Umgebung der Dolomiten des Grödnertales – und auch nicht nur die vertraute Heimat der Erinnerungen und der Nostalgie eines einzelnen Mannes, sondern die eigentliche Erde der Werke selbst, diese ihre unergründliche, rohe und gleichzeitig raue, unebene, undurchsichtige bedeutungstragende Materialität, die, und nur die, die immateriellen Bedeutungen zum Vorschein kommen lässt. Allein indem sie sich auf sich selbst zurückziehen, in das Geheimnis und das Rätsel ihres eigenen greifbaren Körpers, das Holz, die

photo© Egon Dejori

Wohin rufen uns die Werke von Wilhelm Senoner?


Bronze, den Stein einer Skulptur erlauben sie ihren Formen sich in einer Sinn-Welt zu enthüllen. Im Grunde genommen ist der Künstler nichts anderes als ein Vermittler – wir möchten sagen Medium – dieser Enthüllung, bei der die Erde selbst des Werkes ihn ruft und seine Hand leitet. Als Antwort auf diesen Ruf hat uns die geschickte Hand Senoners Den Mann mit Drachen geschenkt, der – wie er uns selbst erzählt – „den richtigen Moment abwartet“, Den Gehenden, der „neue Erfahrungen, neue Begegnungen und neue Wege sucht“, Den Mann mit der Zigarre, der „über der Situation steht“, Den Mann im Gegenwind, der „den Gesetzen der Schwerkraft trotzt“. Und so weiter. Über den symbolischen Sinn, das heißt über die potentielle Bedeutungen dieser Figuren, kann man sich unendlich befragen, wie es auch Pflicht ist gegenüber jedem Kunstwerk, das man achtet. Eine Überlegung, die sich überall entwickeln kann, auch innerhalb der Mauern eines einfachen Ausstellungsraumes. Aber in dieser Hülle scheint, wie schon erwähnt wurde, eben die Erde dieser Werke zu verstummen, sich in den Schatten zurückzuziehen. Sie lässt uns sprechen, in Erwartung das Wort wieder zu ergreifen an einem Wahl-Ort. Und plötzlich verstehen wir. Indem er die Skulpturen dort, auf dem Berg, wiedergestellt hat, hat Senoner ein weiteres Mal ihren Ruf beantwortet. Dort oben hat ihr Bronzekörper – aus Notwendigkeit angenommen, und doch dank der erfahrenen Hand des Künstlers, dem Holz, dem Stamm, der Rinde, dem Stein, dem Felsen, dem Geröll und der Erde so ähnlich – wieder begonnen zu leben, seine Sprache zu sprechen und zu reden, zunächst nicht mit uns (wer sind „wir“?), sondern mit den Elementen. All das, was der Ausstellungsraum, in seiner unpersönlichen, künstlichen Abgeschlossenheit, gezwungenermaßen von diesen Skulpturen fernhielt, kann jetzt, an ihrem Wahl-Ort, den Kontakt zu ihrer Erde wieder aufnehmen: Der Wind kann toben und liebkosen, die Sonne erwärmen und bräunen, das Licht leuchten, die Hitze verformen, der Regen auswaschen und verrosten lassen, der Hagel beschädigen, der Nebel verwittern, der Schlamm besudeln, der Sand vergilben und verschleiern, der Schnee zersetzen, das Eis stechen, der Blitz einschlagen, zersplittern, zerstören. Aber genau das, was hier den Ort ausmacht – Holz, Stein, Fels, Geröll, Wiese, Pflanze, Wind, Sonne, Hitze, Regen, Hagel, Nebel, Morast, Sand,

Schnee, Eis, Blitz – beginnt hier auch Ort zu sein und sich somit erst in der Gegenwart des Werkes abzugrenzen. Es kann paradox erscheinen, aber es ist so. Künstler wie Wilhelm Senoner wissen das gut. Sie sind es, die dem Ort seinen genius zurückgeben. Wenn im Ausstellungsraum der Mensch die Werke besorgt und sie vor den Elementen und Menschen schützt, so sind es an dem WahlOrt die Werke, die die Elemente und Menschen besorgen. Wenn die Skulpturen uns dort durch ihren symbolischen Gehalt eine Bedeutung mitteilen, erlauben sie uns hier, durch ihre Erde eine andere ursprünglichere Erfahrung, nicht diejenige der Reflexion und des Denkens, sondern die der Begegnung und des Lebens. Nur hic et nunc inmitten dieser Felsen und Steine, lässt Der Gehende sie Felsen sein, lässt sie die Steine sein, die sind, lässt uns ihnen begegnen, als ob wir sie nie vorher gesehen oder berührt hätten, und er fordert uns auf zwischen ihnen und mit ihnen zu gehen. Nur wenn der Wind über sie hinwegfegt, lassen Der Mann mit Drachen, Die Frau im Wind und Der Mann im Gegenwind sein, dass der Wind der Wind ist, der ist, sie lassen ihn uns in seinem ganzen Wesen – überwältigend, erschauernd, tobend, liebkosend, säuselnd – als Wind spüren. Erst jetzt verstehen wir, was es bedeutet Wind-zusein, im-Wind und für-den-Wind-zu-sein. Erst dort, unbewegt, in der Sonne, im Regen, Nebel, Schnee und Eis lassen Der Mann mit Zigarre, Der Denkende und Die wartende Frau Sonne, Regen, Nebel, Schnee und Eis die Elemente sein, die sind, sie lassen sie sein, für uns, wie wir sie im Ausstellungsraum nie hätten erleben können. Kurz gesagt: Sobald sie an ihren Wahl-Ort zurückgekehrt sind, und dank ihrer magischen Fähigkeit den Ort und seine Elemente zu erschaffen, ermahnen uns die Männer und Frauen von Senoner nicht nur an ihnen im Raum vorbeizugehen, sondern uns bei ihnen aufzuhalten, eine Heimstatt bei ihnen zu finden, zumindest geistig, an der Stätte, die sie für uns begrenzt haben. Platon, der die Kunst hasste, da er nichts von der ontologischen, die Wahrheit offenbarenden und enthüllenden Macht der materischen „Erde“ der Werke verstand, zwingt uns über ihre sogenannte rein wahrnehmbare Beschaffenheit hinauszugehen, um hinaufzusteigen, über das Visuell-Haptisch-Materielle bis zur intelligiblen-nicht fassbaren-immateriellen Idee. Und das ist am Ende die Funktion des Ausstellungsraumes, der schon immer dazu bestimmt war, die Kunst vom Leben zu isolieren und abzusondern, um aus ihr einen

Gegenstand der Betrachtung und des Gedankens zu machen. Aber sobald die so außergewöhnlich visuellen, haptischen, stofflichen und zur Erde gehörenden Werke Senoners sich wieder an ihrem Wahl-Ort befinden, scheinen sie uns zu einem anderen Gang einzuladen: nicht zu einem Aufstieg des Verstandes – einer theoria – weiter und über das eidolon (das Bild, die sinnlich wahrnehmbare Gestalt, den Körper) hinaus um das eidos (die Idee, das intelligible Wesen, den Sinn) zu begreifen, sondern ein gelebter Aufstieg – eine Praxis – in und durch den Stoff des Werkes und des Berges, damit unsere ästhetische Begegnung mit dem Werk sich in einen asketischen Weg verwandelt, der uns zurückführt zur (Wieder) Entdeckung des Ortes. Wohin rufen uns die Werke von Wilhelm Senoner? Sie rufen uns zu einem Ort der Spiritualität, beziehungsweise zu einer Erfahrung der Wahrheit, die eine tief greifende Veränderung des Selbst voraussetzt. Schon immer wurde dieser Ort der Spiritualität in den verschiedenen Kulturen und Epochen mit den Bergen gleichgesetzt – das Gebiet für eine ascesa schlechthin, die, bevor sie noch die Eroberung des Gipfels bedeutet, ein Gang der ascesi ist, ein Weg der Meditation, ein dem Anderen Ausgesetztsein, Sorge um sich und Selbst-Eroberung. Wir können, ja mehr noch, wir müssen jedes Mal, wenn sich die Gelegenheit dazu bietet, die Werke Senoners in ihren Ausstellungsräumen besuchen, wo auch immer sie sein mögen. Wir werden großen Nutzen daraus ziehen. Aber noch mehr, wenn wir bereit sind, ihnen ideel zu folgen, Schritt für Schritt, bis dort oben hin, dort, wo wir, ihrem Ruf folgend, ihnen endlich begegnen können und damit uns selbst begegnen können. Der Berg ist ihr Wahl-Ort und er wartet geduldig auf ihre (und unsere) Rückkehr. Vielleicht kann uns Wilhelm Senoner in der Zukunft noch einmal dieses Geschenk machen.

Giovanni Gurisatti Università di Padova


Noli me tangere – Appunti per Wilhelm Senoner filosofo e teologo

Il filosofo

Il teologo

Incede a passo misurato, il filosofo, con sguardo assorto in pensiero; è avvolto in panni dal colore vivo, cangiante. Il capo si volge a fissare un punto lontano. Sotto il braccio regge incartamenti ripiegati, e il gesto della sua mano vuol forse suggerirci qualcosa, additare la direzione delle sue indagini. Fin qui potremmo pensare al Platone o all’Aristotele nella Scuola di Atene di Raffaello in Vaticano. Non ci sono però discepoli ad attenderlo, né sontuose architetture a contestualizzare il suo gesto. L’ambiente da lui preferito non è a un passo dal mare o lungo le rive d’Ilisso; piuttosto a fil di crinale, su alture impervie e solitarie, spazzate dal vento, lassù sopra il Grödental. Non è leggibile un titolo di questi suoi faldoni: non è il Timeo né l’Ethica. Probabilmente un manoscritto che stringe a sé – prezioso – per proteggerlo dalle intemperie cui è solito esporsi. La sua mano non indica verso l’alto né si stende verso il basso: non sottolinea la verticale né l’orizzontale. Un Querdenker, direbbero lassù: uno stravagante che va errando per sentieri desueti e impervi. Ama camminare sopra crepacci, ergersi su fenditure profonde e buie. Non è la luce abbacinante e diffusa del sole ad attrarlo: il suo colore s’addice più al far del tramonto, quel rosseggiare in cui, sopra la landa desolata, s’alza in volo e comincia la sua ricognizione la nottola di Minerva, la civetta della filosofia. È forse anche mancino, il nostro filosofo: è con la mano sinistra che indica, in direzione degli scritti sotto il braccio. Platone diceva di non aver mai messo per iscritto i suoi pensieri più veri, avendo preferito vergarli nel cuore degli allievi. Questo filosofo sembra dire: qui ho depositato quanto ho strappato all’oblio, qui, nelle sudate carte che porto con me. La filosofia risiede nello sforzo immane della scrittura, nell’affrontare la fatica di procedere, tenendo saldo il timone del pensiero, senza lasciarsi sviare dalle inquiete e taglienti folate che spirano dall’esistenza. Non ci inganni però il suo apparente isolamento, la solitudine del luogo in cui ama ritrarsi: le sobrie parole – una traccia sbozzata a mano su quei fogli – intrattengono con gli altri un rapporto vivo e vissuto: è a loro che egli le rivolge; è per poterle condurre laggiù che le stringe a sé. Ed è come se un immaginario interlocutore nel fermarlo avesse interrotto i suoi pensieri: proprio per lui la mano s’appresta a far cenno. A ben vedere, anzi, questo gesto è più complesso del semplice indicare: la mano lo compie appoggiandosi al petto, sopra la regione del cuore. Anzi, il colore del cuore pervade tutta la sagoma come pure il suolo che sorregge il suo passo: è perché ha toccato sé e ha scrutato il proprio cuore che ha potuto affidare alla carta quanto esso dettava. Non il cielo lassù, non le molte cose quaggiù devi aver toccato, ma proprio a te stesso devi aver rivolto lo sguardo impietoso: nosce te ipsum, la massima più ardua di tutto il pensiero occidentale! “Toccare la verità”, dicevano i due della Scuola di Atene – sì, ma la prima verità da toccare è così invisibile perché così prossima: te stesso, il tuo cuore, la tua esistenza. Solo da qui prende corpo la domanda che investe l’ampio mondo fuori di me, il cielo stellato sopra di me, per tornare alla fine donde è partita: la legge morale dentro di me. Il filosofo si flette dapprima su di sé, per tornare quindi, dopo alto volo – uno slancio a scrutare il vasto universo – di nuovo a sé: in questo senso, il suo è un ri-flettere. E questo cammino è tanto più ampio e sorprendente, quanto più egli si lascia toccare dalle cose, dal volto dell’altro e da Dio. L’autoreferenzialità è sin dall’età antica un carattere specifico del divino. Aristotele insegna che nel momento in cui pensa al pensiero, il filosofo si assimila a Dio, il quale è sempre immediatamente a contatto con se stesso, mentre l’uomo lo diventa per via mediata, passando attraverso il mondo e allargando con lo sguardo il cerchio del suo cercare, sino a comprendere Dio e a immedesimarsi in lui, fino a sentire – in quel toccare sé – il tocco di Dio. Conosci te stesso e io sarò tuo – scriveva Nikolaus von Kues, il Cusano: “sis tu tuus et ego ero tuus”. Bisogna saper sentire su di sé il tocco di Dio.

Ma l’apostolo Tommaso di fronte a Gesù non s’avvede dell’abbraccio del Cristo che lo avvolge. Il suo gesto è tutto concentrato nella mano che punta dritta verso il costato. Anche lui vuole “toccare la verità”; epperò senza aver prima toccato se stesso. Il braccio si stacca dal corpo ad angolo retto, e il dito puntato lo prolunga, deciso e acuminato, sin dentro il corpo di Cristo. È un moto indagatore, di aggressione, manipolazione, una cattura di verità come certezza. È lo stesso moto che compie la scienza nei confronti del reale, al fine di dominarlo. “Eritis sicut Deus, scientes bonum et malum”: sono le parole che il Faust goethiano fa scrivere a Mefistofele. E a guardar bene, questo apostolo Tommaso ha proprio tratti mefistofelici: le orecchie a punta, lo sguardo di sfida; emergenze di nero affiorano nei suoi contorni, virando il rosso di toni infernali che ricordano un tizzone ardente. Che cosa c’è in comune fra l’apostolo incredulo e il Mefisto letterario? La tracotanza, l’oltrepassamento della misura, la volontà di scoprire per subito tutto relativizzare, la smania di catturare per dominare. Si tratta di una protervia temeraria che nasce dall’aver perso il giusto metro, pretendendo di prolungare la linea dell’umano ben oltre i limiti che le sono concessi, sino a conquistare l’infinito. E questa linea retta che muove via da sé verso il possesso dell’altro è spacciata persino per “rettitudine”. Anche il contatto visivo è in linea retta, proiettata dal volto dell’apostolo verso il dolce sorriso di Gesù, che si espande nel gesto del braccio e della mano. Nel Mysterium cosmographicum Keplero chiamava divino Nikolaus von Kues, cardinale e filosofo del Quattrocento, per aver paragonato la curva con Dio e la retta con l’uomo. Ebbene, l’abbraccio del Cristo, di cui Tommaso non s’avvede – non ne percepisce il tocco – è un moto avvolgente e curvilineo: imprime una rotazione a tutta la scena. La retta, diceva Cusano, non può mai assomigliarsi alla curva. Il piano umano non potrà mai essere quello di Dio. Ma – spiegava – può avvicinarsi indefinitamente: non si può esaurire la circonferenza servendosi di segmenti di retta, ma sarà possibile approssimarvisi aumentando con uno sforzo continuo il numero dei lati dei poligoni che in essa s’inscrivono e a essa si circoscrivono, e dei quali è misurabile il perimetro. Insomma, per avvicinarsi al divino, la retta umana deve ripiegarsi in frammenti sempre più minuti, finendo col ri-flettere su di sé. Anche il Cristo abbraccia Tommaso a partire da un toccare se stesso; non con l’indice, ma con il mignolo tocca la sua ferita: non è un “indicare”, ma un minimizzare. Non devi guardare il mio corpo, ma l’ampio cerchio divino dello spirito con cui ti avvolgo…

Nicola Curcio


photoŠ Attilio Pavin


photoŠ Egon Dejori


Noli me tangere - Randbemerkungen für Wilhelm Senoner, Philosoph und Theologe

Der Philosoph

Der Theologe

Er geht gemessenen Schrittes, der Philosoph, den Blick versunken in Gedanken; er ist in leuchtende, schillernde Farben gekleidet. Der Kopf ist gewendet, wie um einen fernen Punkt zu fixieren. Unter dem Arm hält er gefaltete Papiere, und die Geste seiner Hand möchte uns vielleicht etwas zeigen, den Weg seiner Nachforschungen deuten. Bis zu diesem Punkt könnten wir an den Platon oder Aristoteles aus Der Schule von Athen von Raffael im Vatikan denken. Hier gibt es jedoch keine Schüler, die ihn erwarten, und auch keine prächtige Architektur, um seine Geste in einen Zusammenhang zu stellen. Die ihm liebste Umgebung liegt nicht in der Nähe des Meeres oder an den Ufern des Ilissos, nein vielmehr zieht er die Gebirgskämme der unwegsamen und einsamen Höhen oberhalb des Grödnertals vor, über die der Wind hinwegfegt. Es ist unmöglich den Titel seiner Papiere zu erkennen: Es ist weder der Timaios noch die Ethik. Wahrscheinlich ist es eine Handschrift, die er an sich drückt, um das wertvolle Stück vor den Unbilden des Wetters zu schützen, denen er sich auszusetzen pflegt. Seine Hand zeigt nicht nach oben, aber sie streckt sich auch nicht nach unten: Sie unterstreicht weder die Vertikale noch die Horizontale. Ein Querdenker würde man dort oben sagen, ein absonderlicher Mensch, der über ungewöhnliche und unwegsame Wege irrt. Er liebt es, über Felsspalten zu wandern, sich über dunklen und tiefen Schluchten aufzurichten. Nicht das blendende Licht der Sonne sucht er, nein, seine Farbe passt besser zum Sonnenuntergang, diese Rottöne, in denen sich die Eule der Minerva der Philosophie über dem wüsten Land ihren Flug erhebt und ihre Erkundung beginnt. Vielleicht ist er auch Linkshänder, unser Philosoph: Er zeigt mit der linken Hand auf die Papiere unter seinem Arm. Platon sagte, dass er seine wahrsten Gedanken nie schriftlich festgehalten habe, sondern es vorzog, sie in die Herzen seiner Schüler zu schreiben. Dieser Philosoph hier scheint zu sagen: Hier habe ich all das hinterlegt, was ich dem Vergessen entrissen habe, hier in den mühevoll erarbeiteten Papieren, die ich bei mir trage. Die Philosophie wohnt in der ungeheuerlichen Mühe des Schreibens, die Anstrengung auf sich zu nehmen immer weiter zu gehen und dabei das Steuerrad der Gedanken festzuhalten, ohne sich von den unruhigen und schneidenden Böen ablenken zu lassen, die vom Dasein herüber wehen. Seine scheinbare Einsamkeit und die Abgeschiedenheit seines Rückzugsortes dürfen uns aber nicht irreführen: Die schlichten Worte – einen mit der Hand hingeworfenen Entwurf enthalten diese Papiere – unterhalten zu den Anderen eine lebendige und gelebte Beziehung: An sie sind diese Worte gerichtet; und um sie dort hinunter zu ihnen zu bringen drückt er sie an sich. Es scheint, als ob ein imaginärer Gesprächspartner ihn angehalten und damit in seinen Gedanken unterbrochen hätte: Und eben für diesen schickt sich die Hand an, ein Zeichen zu geben. Bei genauem Hinschauen entpuppt sich diese Geste als vielschichtig als ein einfaches Hinweisen: Die Hand führt sie durch, indem sie sich auf das Herz legt, oberhalb des Sitz des Herzens. Ja, mehr noch, die Farbe des Herzens durchdringt seine ganze Silhouette wie auch den Boden, der seine Schritte trägt: Und da er sein Selbst angerührt und sein eigenes Herz ergründet hat, konnte er dem Papier anvertrauen, was es ihm diktierte. Nicht den Himmel dort oben, nicht die vielen Dinge hier unten muss man berührt haben, auf sich selbst muss man den schonungslosen Blick richten: nosce te ipsum, die beschwerlichste Maxime des gesamten westlichen Denkens! „Die Wahrheit erkennen“ sagten die zwei von der Schule von Athen – ja, aber die erste Wahrheit, die man erkennen muss, ist so unsichtbar, weil sie uns so nah ist: sich selbst, das eigene Herz, die eigene Existenz. Nur von hier ausgehend nimmt die Frage Gestalt an, die die weite Welt um mich herum betrifft, den gestirnten Himmel über mir, um dann am Ende wieder dahin zurückzukehren, von wo wir ausgegangen waren: das moralische Gesetz in mir. Der Philosoph beugt sich zuerst über sich selbst, um dann, nach einem hohen Flug – einem Aufschwung um das weite Universum zu ergründen – wieder zu sich zurückzukehren: In diesem Sinne handelt es sich um ein wieder über sich beugen im Sinne von Re-flektieren. Und dieser Weg ist um so weiter und überraschender, je mehr er sich von den Dingen berühren lässt, vom Antlitz des Anderen und dem Gottes. Die Selbstbezüglichkeit ist seit der Antike eine spezifische Eigenschaft des Göttlichen. Aristoteles lehrt, dass der Philosoph in dem Moment, in dem er an das Denken denkt, sich Gott gleichsetzt, der immer direkt in Kontakt zu sich selbst ist, während der Mensch es nur indirekt ist, indem er die Welt durchquert und den Kreis seines Suchens mit dem Blick erweitert, bis er Gott begreift und sich in ihn hineinversetzt, bis er – in diesem sich selbst spürt – die Hand Gottes fühlt. „Sei du dein, und ich werde dein sein“ – schrieb Nikolaus von Kues, der Cusaner – „sis tu tuus et ego ero tuus“. Man muss an sich selbst die Hand Gottes spüren können.

Aber als der Apostel Thomas Jesus gegenüber steht, nimmt er die Umarmung des Christus, die ihn umfängt, nicht wahr. Seine Geste ist ganz auf die Hand konzentriert, die direkt auf die Brust gerichtet ist. Auch er möchte „die Wahrheit berühren“, allerdings ohne zuvor sich selbst berührt zu haben. Der Arm löst sich vom Körper im rechten Winkel, und der ausgestreckte Finger verlängert ihn, entschieden und spitz, bis hinein in den Körper Christi. Es ist eine forschende, angreifende, manipulierende Bewegung, ein Ergreifen der Wahrheit als Sicherheit. Es ist dieselbe Bewegung, welche die Wissenschaft der Realität gegenüber ausführt, um sie zu beherrschen. „Eritis sicut Deus, scientes bonum et malum“ sind die Worte, die Goethes Faust den Mephistopheles schreiben lässt. Und wenn man es genau betrachtet, hat dieser Apostel Thomas in der Tat teuflische Züge: die spitzen Ohren, den herausfordernden Blick; ein Hauch von Schwarz in der Kontur, das in ein teuflisches Rot übergeht, welches an glühende Kohle erinnert. Was haben der ungläubige Apostel und der literarische Mephisto gemein? Die Anmaßung, das Überschreiten des Maßes, den Willen, alles sofort zu entdecken, um alles sofort zu relativieren, die Begierde zu ergreifen um zu beherrschen. Es handelt sich um eine verwegene Überheblichkeit, die aus dem Verlust des rechten Maßes entsteht und die sich anmaßt, die Linie des Menschlichen weit über das hinaus zu dehnen, was ihr erlaubt ist, um die Unendlichkeit zu bezwingen. Und diese gerade Linie, die von dem Selbst wegführt zum Besitz des Anderen, wird sogar für „Geradheit“ ausgegeben, für rectitudo. Auch der Blickkontakt liegt auf gerader Linie, vom Gesicht des Apostels zum sanften Lächeln Jesus´, erweitert durch die Geste des Armes und der Hand. Im Mysterium cosmographicum bezeichnete Kepler den Kardinal und Philosophen Nikolaus von Kues als göttlich, weil er die Kurve mit Gott und die gerade Linie mit dem Menschen verglichen hatte. Nun, die Umarmung des Christus, die Thomas nicht wahrnimmt – er spürt die Berührung nicht – ist eine umfangende und kurvenförmige Bewegung: Sie prägt der ganzen Szene eine Drehung auf. Die gerade Linie, sagte der Cusanus, kann der Kurve nie gleichen. Die menschliche Ebene kann nie die Gottes sein. Aber, erklärte er, sie kann sich ihr unendlich annähern: Man kann den Kreis nicht auflösen, indem man gerade Segmente nimmt, aber man kann sich ihm annähern, wenn man mit einer kontinuierlichen Anstrengung die Zahl der Seiten des Vielecks erhöht, die sich in sie einbeschreiben und sie umschreiben, und an denen der Umfang messbar ist. Somit muss die menschliche Linie sich in immer kleinere Bruchstücke beugen, wobei sie sich am Ende über sich selbst beugt, um sich dem Göttlichen zu nähern. Auch der Christ umarmt Thomas ausgehend von sich selbst; nicht mit dem Zeigefinger, sondern mit dem kleinen Finger berührt er seine Wunde: Es ist kein „Zeigen“, sondern ein Herunterspielen. Nicht auf meinen Körper sollst du sehen, sondern auf den weiten göttlichen Kreis des Geistes, mit dem ich dich umhülle …

Nicola Curcio


“Il bacio” di Wilhelm Senoner Mi riferisco alla versione in legno presentata nella mostra in San Silvestro di Vicenza nel maggio-giugno 2013. Due teste: una scura, ancorata al blocco anch’esso scuro che la sostiene, l’ altra aerea, bianco-rosata, sospesa nello spazio da cui arriva toccando appena la fronte della prima con un bacio. Chi sono? Lo spettatore decide subito: lui è un uomo, lei una donna: lui brunito e scabro come il cubo di legno da cui emerge (materia o materies è in latino il legname da costruzione, ligna sono i pezzi di legna da ardere); lei delicata e leggera, planata dal volo cui allude la lunga ed ampia capigliatura, se tale è e non, forse, una misteriosa configurazione d’un essere extraterrestre; i corpi non ci sono, ma chi guarda immagina quello di lui disteso come dormiente o anche ancora racchiuso nel cubo-materia da cui emerge, quello di lei diffuso e sciolto nello spazio e nella luce che la sostanzia. I due non hanno nome e perciò molti sono i nomi con i quali possono essere chiamati: un visitatore della mostra esclamò stupito: “ ma questo è il bacio della Luna ad Endimione!” e mi ha così invogliato a cercare le testimonianze del mito: le versioni sono tante, come spesso nei miti greci, ma concordano in alcuni punti essenziali: Endimione, giovane e bello, era cacciatore o pastore sul monte Latmo in Caria, mentre dormiva di notte tra il suo gregge lo vide Selene ( il nome greco della Luna) e se ne innamorò perdutamente, discese accanto a lui e dolcemente gli baciò gli occhi chiusi, poi ottenne da Zeus che Endimione rimanesse per sempre giovane e addormentato, placidamente chiuso nel sonno eterno e lei potesse ritrovarlo per sempre come l’ aveva visto la prima volta. Selene, la luna, nella mitologia greca e poi romana fu identificata con Artemide, la vergine dea delle fiere selvagge, dei boschi e della caccia, che per i latini è Diana, ed anche con Ecàte, dea dell’ oltretomba che si aggira nei trivi in scorribande notturne con fiaccole e cani infernali. Diva triformis la invoca Orazio: Diana sulla terra, Luna in cielo, Ecàte agli inferi. I conti sembrano tornare: che l’ uomo sia immerso nel torpore del sonno — gli occhi chiusi, i tratti del volto spianati — pare evidente; che lei, la visitatrice misteriosa possa essere Selene, la chiara luna, pare suggerito anche dal profilo arcuato che il suo volto assume, se guardato da punti di vista che ne esaltino la linea. Il mito di Endimione e la Luna ebbe fortuna già nell’ arte romana in affreschi, mosaici e sarcofagi; in particolare nei sarcofagi si allude al sonno eterno che accoglie il defunto come quello concesso ad Endimione. Del resto “il sonno di Endimione” era passato in proverbio già in Grecia. Platone vi accenna nel discorso che Socrate fa a Cebéte poco prima di bere la cicuta (Fedone, 72): Socrate sta dicendo che le anime dei morti debbono continuare ad esistere in qualche luogo e da questo poi nuovamente rinascere: se ci fosse solo l’ addormentarsi e ad esso non corrispondesse lo svegliarsi saremmo come nel caso di Endimione cui toccò di dormire per sempre: tutto allora sarebbe morto nel mondo e nulla sarebbe vivo. Aristotele nell’ Etica Nicomachea (10,8) sta sostenendo che la felicità massima per gli uomini consiste nell’ attività contemplativa; questo vale anche per gli dei, che vivono e sono attivi e non si può certo pensare che dormano come Endimione; ora l’ attività di un dio, che eccelle per beatitudine, non può essere se non contemplativa. Cicerone nel libro primo delle Tusculane (I,38) sta affrontando il tema della paura della morte: “la morte non fa paura all’ uomo saggio: se essa infatti è come il sonno, tu ti addormenti ogni giorno ben sapendo che in esso perdi ogni sensazione e pensi che nella morte sia diverso? Se vogliamo ricorrere ai miti, pensi che Endimione che dorme da sempre sul Latmo si preoccupi delle eclissi della Luna, che si dice l’abbia voluto dormiente in eterno per baciarlo?” E’ significativo che in contesti diversi tre filosofi abbiano collegato il sonno di Endimione con l’inattività e la morte. Uno scrittore tedesco del secolo XVI, Nicolas Reusner, compositore di Emblemi morali ( Emblemata… …impressum Francoforti ad Moenum, 1581, III ,40) sceglie tra gli altri il mito di Endimione e Diana, figurato con apposita xilografia, con il titolo “Cupio dissolvi” (=bramo d’essere dissolto) e lo accompagna con sette distici elegiaci che sembrano rispondere polemicamente al passo di Cicerone sopra citato: chi vive piamente desidera d’ esser dissolto e baciato da Dio: [...] piorum nimirum dulcis mors solet esse sopor Nam quos Christus amat, sibi iungit carne solutos Et rapit ad vitae gaudia longa novae. La morte dei buoni è un sonno dolce: quelli che ama, Cristo li congiunge a sé, una volta sciolti dal corpo e li porta alle gioie eterne d’una nuova vita. Il tema di Endimione e la Luna ebbe grande fortuna e diffusione specialmente nella pittura e nel teatro in musica dal Rinascimento e fino al Neoclassicismo. Della fortuna letteraria cito soltanto i Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese: in uno di essi (Titolo: La belva) parlano Endimione e un ignoto straniero: il pastore racconta “Mi risvegliai sotto la luna — nel sogno ebbi un brivido al pensiero che

ero là, nella radura — e la vidi. La vidi che mi guardava, con quegli occhi un poco obliqui, occhi fermi, trasparenti, grandi dentro”. Il dialogo deve essere letto per intero, la Luna con i tratti prevalenti della Artemide della caccia e dei boschi, è “una magra ragazza selvatica”… “Non ha nome. O ne ha molti, lo so.” Ritorniamo al bacio di Wilhelm Senoner, ai due volti senza nome, dai molti nomi. L’opera potrebbe essere emblema di un incontro, di un amore silenzioso e discreto o fuggevole, inaspettato, sognato; potrebbe essere l’ ispirazione, la Musa che nel sonno bacia la fronte del poeta e tanti altri nomi ancora. Un tempo (cfr. Cesare Ripa, Iconologia) si rappresentava la Carità, virtù teologale, come una “donna vestita di rosso, che in cima del capo habbia una fiamma di fuoco ardente, terrà nel braccio un fanciullo, al quale dia il latte e due altri gli staranno scherzando a’ piedi”... Penso che questa scultura di Wilhelm Senoner rappresenti in modo molto più suggestivo della personificazione barocca il “farsi prossimo” che è il proprio della Carità cristiana. Mi azzardo infine a proseguire ancora nel mondo biblico: la Bibbia si apre con il racconto del principio, dell’ origine dell’ universo e dell’ uomo. I racconti in realtà sono due: il primo narra l’ opera dei sei giorni e si apre con i due versetti semplici, maestosi e solenni che proclamano: “In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”. Lo spirito di Dio è in ebraico Ruach, sostantivo femminile che significa “spirito” o “vento”, che qui aleggia su qualcosa di oscuro e informe, materies ancora senza vita: non siamo lontani dalla nostra scultura. Ma ci avviciniamo molto più con il secondo racconto (Gen. 2°,v.4 e sgg.): “Nel giorno in cui il Signore Dio fece la terra e il cielo nessun cespuglio campestre era sulla terra…e non c’era l’ uomo che lavorasse il suolo, ma una polla d’acqua sgorgava dalla terra e irrigava tutto il suolo. Allora il Signore Dio plasmò l’ uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente”. Il Signore Dio impasta l’ argilla come un vasaio (terra in ebraico è ’adamà, ’adam è l’ uomo) e la sua opera diviene vivente per l’alito di vita che Egli soffia nelle sue narici: nella scultura di Wilhelm Senoner scuro e terragno è il volto che emerge dalla materia, ruvido, impastato ancora, occhi chiusi, bocca serrata, ma su di lui si posa chiaro, luminoso il soffio divino, l’alito di vita, lo tocca e non sarà più ’adamà, terra, ma Adamo, l’uomo. Viene spontaneo il ricordo del dito del Creatore che dà vita ad Adamo sulla volta della Cappella Sistina: molte e diverse sono le icone che l’arte compone per esprimere l’ inesprimibile. Alla fine un “Grazie!” a Wilhelm, artista silenzioso ed anche per questo, fascinoso.

Francesco Pontarin


photoŠ Attilio Pavin


photoŠ Filippo Simonetti


„Der Kuss” von Wilhelm Senoner Ich beziehe mich hier auf das Holzmodell, das im Mai-Juni 2013 in der Kirche San Silvestro in Vicenza ausgestellt wurde. Zwei Köpfe: ein dunkler, der an dem ebenfalls dunklen Block, der ihn stützt, befestigt ist, der andere luftig, weiß-rosa, im Raum schwebend, aus dem er kommt, berührt kaum die Stirn des ersten mit einem Kuss. Wer sind sie? Der Betrachter entscheidet sofort: Er ist ein Mann, sie eine Frau: Er ist braun und rau wie der Holzklotz, aus dem er emportaucht (materia oder materies bedeutet in Latein das Bauholz, ligna sind die Holzscheite zum Verbrennen); sie ist delikat und leicht, aus ihrem Flug geglitten, an den die langen und dichten Haare anspielen, wenn sie solche sind und nicht womöglich eine mysteriöse Darstellung eines außerirdischen Wesens; die Körper existieren nicht, aber der Betrachter stellt sich den seinen liegend vor, als ob er schlafen würde oder noch in den Block-in die Materie eingeschlossen wäre, aus dem er auftaucht; den ihren ausgedehnt im Raum und im Licht, das ihr Gestalt verleiht. Die zwei haben keinen Namen und somit kann man sie mit vielen Namen rufen: Ein Besucher der Ausstellung rief erstaunt aus: „Aber das ist der Kuss von Selene und Endymion!“ und hat mich damit angeregt, die Quellen des Mythos zu suchen: Wie so oft in den griechischen Mythen existieren auch hier viele Versionen, aber sie stimmen alle in einigen wesentlichen Punkten überein: Der junge und schöne Endymion war Jäger oder Hirte auf dem Berg Latmos in Karien, und während er in der Nacht bei seiner Herde schlief, sah ihn die Mondgöttin Selene und verliebte sich unsterblich in ihn. Sie stieg herab zu ihm und küsste ihn sanft auf die geschlossenen Augen. Sie erreichte bei Zeus, dass Endymion für immer jung blieb und in ewigen Schlaf versank, und sie konnte ihn für immer so wiederfinden, wie sie ihn das erste Mal gesehen hatte. Selene, die Mondgöttin, wurde in der griechischen und dann in der römischen Mythologie mit Artemis, für die Römer Diana, der jungfräulichen Göttin der wilden Tiere, der Wälder und der Jagd identifiziert, oder auch mit Hekate, der Göttin der Unterwelt, die an den nächtlichen Wegkreuzungen mit Fackeln und Höllenhunden herumstreift. Diva triformis, dreifache Göttin, nennt sie Horaz: Diana auf der Erde, Luna am Himmel, Hekate in der Unterwelt. Die Rechnung scheint aufzugehen: Dass der Mann in die Benommenheit des Schlafes eingetaucht ist – die Augen geschlossen und die Gesichtszüge geglättet – scheint eindeutig; dass sie, die mysteriöse Besucherin Selene sein kann, die helle Mondgöttin, scheint ihr bogenförmiges Profil zu suggerieren, das ihr Gesicht annimmt, wenn man es aus einem Blickwinkel betrachtet, der die Linien hervorhebt. Der Mythos von Endymion und Selene war schon in der römischen Kunst in Fresken, Mosaiken und an Sarkophagen beliebt; besonders bei den Sarkophagen spielt man auf den ewigen Schlaf an, der den Verstorbenen aufnimmt, genau wie es Endymion gegönnt war. Im Übrigen war der Ausdruck „der Schlaf des Endymion“ schon in Griechenland sprichwörtlich geworden. Platon spielt in dem Gespräch des Sokrates mit Kebes kurz bevor er den Schierlingsbecher trank (Phädon, 72) darauf an: Sokrates sagt, dass die Seelen der Toten an irgendeinem Ort weiterleben müssen, von dem aus sie dann wieder geboren werden: Wenn es nur das Einschlafen gäbe und dem kein Aufwachen entspräche, wäre es wie in dem Fall von Endymion, der für immer schlafen muss: Alles in der Welt wäre dann tot und nichts wäre lebendig. Aristoteles vertritt in der Nikomachischen Ethik (10, 8) die Meinung, dass die höchste Glückseligkeit für die Menschen in der Tätigkeit der Betrachtung liegt; dasselbe gilt auch für die Götter, die leben und tätig sind und von denen man kaum annehmen kann, dass sie schlafen wie Endymion; nun kann aber die Tätigkeit eines Gottes, der sich durch Seligkeit auszeichnet, nicht existieren außer in der Betrachtung. Im ersten Buch der Tusculanae disputationes (I, 38) setzt sich Cicero mit dem Thema der Angst vor dem Tod auseinander: „Der Tod macht dem weisen Mann keine Angst: Wenn er in der Tat wie der Schlaf ist, so schläfst du jeden Tag ein und weißt, dass du im Schlaf jedes Gefühl verlierst und solltest du dann denken, dass der Tod verschieden ist? Wenn wir die Mythen zu Rate ziehen wollen, denkst du wirklich, dass Endymion, der seit ewigen Zeiten auf dem Latmos schläft, sich im Falle einer Mondfinsternis Sorgen um Luna macht, die ihn in ewigem Schlaf wollte, nur um ihn küssen zu können?“ Es ist bedeutsam, dass drei Philosophen in verschiedenen Zusammenhängen den Schlaf des Endymion mit der Untätigkeit und dem Tod in Verbindung gebracht haben. Ein deutscher Schriftsteller des 16. Jahrhunderts, Nikolas Reusner, Autor moralischer Gleichnisse (Emblemata [...] impressum Francoforti ad Moenum, 1581, III, 40) wählt unter anderem den Mythos von Endymion und Diana, auf einem eigens dafür bestimmten Holzschnitt, mit dem Titel Cupio dissolvi (die Begierde sich aufzulösen) und begleitet ihn mit sieben elegischen Distichen, die polemisch auf die oben zitierten Worte von Cicero antworten zu scheinen: Wer fromm lebt, begehrt von Gott aufgelöst und geküsst zu werden:

[...] piorum nimirum dulcis mors solet esse sopor Nam quos Christus amat, sibi iungit carne solutos Et rapit ad vitae gaudia longa novae. Der Tod der Guten ist ein süßer Schlaf: Die, die er liebt, nimmt Christus zu sich, sobald sie sich vom Köper gelöst haben und trägt sie zu den ewigen Freuden eines neuen Lebens. Das Thema von Endymion und Selene hatte großen Erfolg und Verbreitung, vor allem in der Malerei und im Musiktheater von der Renaissance bis zum Neoklassizismus. Aus dem literarischen Bereich führe ich nur die Gespräche mit Leuko von Cesare Pavese an: In einem von diesen, Das Wildtier, sprechen Endymion und ein unbekannter Fremder miteinander: Der Hirte erzählt, wie er im Mondlicht aufwacht und im Traum bei dem Gedanken erschaudert, das er sich dort befindet, auf der Lichtung, wo er sie sieht. Er sieht, dass sie ihn anschaut, mit ihren großen etwas schrägstehenden Augen, regungslose Augen, durchsichtig und groß in ihrem Inneren. Der Dialog sollte im Ganzen gelesen werden, die Mondgöttin mit den vorherrschenden Zügen der Artemis der Jagd und der Wälder ist „ein mageres wildes Mädchen“ […] „Sie hat keinen Namen. Oder sie hat viele, ich weiß.“ Kehren wir zurück zu dem Kuss von Wilhelm Senoner, zu den zwei Gesichtern ohne Namen, mit den vielen Namen. Das Werk könnte das Sinnbild einer Begegnung sein, einer stillen und unaufdringlichen oder vergänglichen Liebe, unerwartet, geträumt, es könnte die Inspiration sein, die Muse, die im Schlaf die Stirn des Dichters küsst und noch viele andere Namen hat. Einst stellte man die Caritas wie in der Ikonologie von Cesare Ripa eine theologische Tugend, als eine rot gekleidete Frau mit einer glühenden Flamme auf dem Kopf dar, im Arm ein Kind, das sie stillt und zwei andere, die zu ihren Füßen spielen … Ich denke, dass diese Skulptur von Wilhelm Senoner die Nächstenliebe, die der christlichen Caritas eigen ist, auf eine viel eindrucksvollere Art darstellt als es die barocke Personifizierung je tun könnte. Am Ende wage ich mich noch in die biblische Welt: Die Bibel beginnt mit der Erzählung vom Anfang, vom Ursprung des Universums und des Menschen. In Wahrheit sind es zwei Erzählungen: Die erste berichtet von dem Werk der sechs Tage und sie beginnt mit zwei einfachen und doch imposanten und feierlichen Versen, die verkünden: „Am Anfang schuf Gott Himmel und Erde. Und die Erde war wüst und leer, und es war finster auf der Tiefe; und der Geist Gottes schwebte auf dem Wasser.“ Der Geist Gottes ist im Hebräischen Ruach, ein weibliches Nomen, das „Geist“ oder „Wind“ bedeutet, der hier über etwas Dunklem und Gestaltlosen schwebt, materies noch ohne Leben: Damit sind wir nicht weit entfernt von unserer Skulptur. Aber wir nähern uns ihr noch mehr mit der zweiten Erzählung (Genesis 2,4 und ff.): „Und alle die Sträucher auf dem Felde waren noch nicht auf Erden, und all das Kraut auf dem Felde war noch nicht gewachsen; [...] und kein Mensch war da, der das Land bebaute; aber ein Nebel stieg auf von der Erde und feuchtete alles Land. Da machte Gott der HERR den Menschen aus Erde vom Acker und blies ihm den Odem des Lebens in seine Nase. Und so ward der Mensch ein lebendiges Wesen.“ Gott der Herr knetet den Lehm wie ein Töpfer (Erde in Hebräisch ist ’adamà, ’adam ist der Mensch) und sein Werk wird lebendig durch den Wind, den Er in seine Nasenlöcher bläst: Bei der dunklen und erdgebunden Skulptur von Wilhelm Senoner steigt das Gesicht aus der Materie auf, rau, geknetet, die Augen geschlossen, die Lippen zusammengepresst, aber auf ihm lässt sich klar und leuchtend der göttliche Odem nieder, der Hauch des Lebens, und so wird er nicht mehr ´adamà, Erde, sein, sondern Adam, der Mensch. Es fällt einem spontan der Finger des Schöpfers in der Sixtinischen Kapelle ein, der Adam Leben gibt: Die Kunst schafft viele Bilder, um das Unausdrückbare auszudrücken. Und am Ende ein „Danke!“ an Wilhelm, den stillen Künstler, der auch gerade deshalb so faszinierend ist. Francesco Pontarin


Il bacio che dà vita La scultura “Il bacio” di Wilhelm Senoner è stata esposta nell’atrio della Caritas. Grazie a quest’opera d’arte, la sezione dedicata ai malati terminali desidera richiamare l’attenzione sull’importanza del lavoro che svolge. La scorsa estate feci visita all’artista Wilhelm Senoner nel suo atelier. Ero accompagnato dal Direttore della Caritas Heiner Schweigkofler; e ci venne l’idea di esporre quest’opera nei nostri locali, nella spontanea convinzione che avrebbe offerto ai collaboratori della Caritas un’opportunità di meditare sul senso del loro impegno, e ai nostri ospiti l’occasione di comprendere meglio, per il tramite dell’arte, il lavoro qui svolto. Nell’atmosfera raccolta del nostro atrio si respira una certa “dimensione di sacralità”. Gli addetti mi hanno raccontato che passando davanti a quest’opera si sentono invadere da una sensazione di premura, di riguardo, che li fa proseguire rincuorati e rinvigoriti. “Sacro” e “profano” sono parole ed esperienze che si integrano a vicenda. È profana la quotidianità, la fatica, la realtà legata alla terra. Il sacrum è la percezione di elevarsi al di sopra di queste. Laddove un’opera d’arte ci faccia tragittare dal piano quotidiano al sentimento della reverenza, ciò è dovuto a quella cura riguardosa che l’uomo può provare nei confronti dell’essenziale, dell’intimo commosso interrogativo che questo solleva, e degli orizzonti che dischiude. È questo il luogo del “sacro”: in tali momenti l’uomo entra in contatto con quello che Dio ha istituito dentro di lui. La scultura si sofferma sull’istante dell’incontro e del contatto, sulla tenerezza di una prossimità, che per un verso è tutta erotica, ma per un altro si spinge ben oltre. Si tratta di un amore premuroso, quale spesso si avverte nella camera di un malato grave. Queste stanze recano spesso l’impronta di una peculiare sollecitudine; sono luoghi di dedizione e intimità, in cui vive una profonda umana commozione. Wilhelm Senoner ha chiamato “Il bacio” questa sua opera d’arte rifacendosi alla poesia di Bertolt Brecht in memoria di Marie Aumann: Un giorno di settembre, il mese azzurro, tranquillo sotto un giovane susino io tenni l’amor mio pallido e quieto tra le mie braccia come un dolce sogno. E su di noi nel bel cielo d’estate c’era una nube ch’io mirai a lungo: bianchissima nell’alto si perdeva e quando riguardai era sparita. E da quel giorno molte molte lune trascorsero nuotando per il cielo. Forse i susini ormai sono abbattuti: Tu chiedi che ne è di quell’amore? Questo ti dico: più non lo ricordo. Eppure certo, so cosa intendi. Pure il suo volto più non rammento, questo rammento: l’ho baciato un giorno. Ed anche il bacio avrei dimenticato senza la nube apparsa su nel cielo. Questa ricordo e non potrò scordare: era molto bianca e veniva giù dall’alto. Forse i susini fioriscono ancora e quella donna ha forse sette figli, ma quella nuvola fiorì solo un istante e quando riguardai sparì nel vento. Quando lesse questa poesia, Wilhelm si sentì toccato, e volle esprimere le proprie esperienze interiori. Ricorse alle grandi superfici tipiche del suo linguaggio formale, facendo giocare luci e ombre. Ciò che è legato alla terra egli congiunge alle sfere della luce: il bisogno della luce, il buio, s’espone al luminoso. E così alimenta una tensione fra cosmico e terreno: la forza del vuoto trova corpo e linguaggio nel mondo di una scultura, e questo ridesta a nuova apertura quel suo sentirsi toccato da esperienze commoventi. Nel dar forma queste meditazioni, ho scelto di intitolarle “Il bacio che dà vita”. L’opera d’arte prende congedo dalla commozione e dall’intenzione che afferiscono alla persona dell’artista per agire direttamente sugli osservatori. È in questi che trova dimora, ovvero, in altre parole, è in loro che s’insedia, nelle loro proprie esperienze. Ciò che qui l’artista materializza nel proprio linguaggio formale è la figura esteriore dell’esperienza che ha interiorizzato, e che diventa un messaggio con cui altri possono confrontarsi.

L’osservatore si sofferma sugli occhi chiusi. E questi rimandano a quell’occhio interiore che noi ben conosciamo, quella contemplazione più intensa che si apre sul nostro paesaggio interiore per sondarlo ed esplorarlo. Quando gli uomini vogliono interiorizzare un’esperienza, o riviverla nel proprio intimo, chiudono gli occhi. È proprio così che accogliamo la tenerezza della dedizione. In ciò risiede un aspetto della forza che quest’opera sprigiona: suscita in noi la visione interiore, la percezione di quello che abbiamo dentro. L’attimo che precede immediatamente il bacio conferisce all’espressione umana i tratti della dolcezza. Nel totale abbandono a quest’istante, nel congedo da ogni altra cosa, tutto è dedizione. Dentro tale gesto rimane celato il segreto dell’offerta. L’uomo si dona per intero all’altro. Per altro verso, del resto, il momento immediatamente prima del bacio è anche quello in cui chi lo riceve sviluppa una grande attesa, la totale accoglienza della gratuità di un dono. Ecco che questo istante si rivela anche per colui che è chiamato a ricevere il bacio un momento in cui tutto il resto della sua vita sbiadisce, dilegua, si relativizza. Nel ricevere si fa avvertibile il dono di sé, e nel dare il ricevere: l’uno senza l’altro non avrebbe alcuna realtà effettiva. Ebbene, è proprio questa dimensione dell’esperienza umana a conferire a questa scultura la sua peculiare forza espressiva, assieme a un dolce sorriso che scioglie i tratti del viso in soddisfazione e abbandono, in intimità e insieme quieta attesa. Forma e contenuto si condizionano a vicenda. Osservando da presso la scultura, il nostro sguardo arriva a concentrarsi sulla linea del naso. Sembra quasi di sentire il calore del suo respiro. Chi sente su di sé il calore dell’alito altrui, prova un grande senso di prossimità: o perché l’ha cercata e voluta, oppure perché questa vicinanza risulta per i motivi più vari da una dedizione più o meno volontaria. Alle volte è anche una sfida quella di tener testa alla soppressione della distanza. Ma l’idea del fiato dalle narici mi fa pensare anche al significato metaforico: il respiro della vita, un dono che abbiamo ricevuto. Con ciò entriamo in una dimensione nuova, che fa affiorare la domanda sulla nostra stessa origine. La Sacra Scrittura ci racconta che fu l’alito di Dio a farci esistere. In ogni respiro umano possiamo rinvenire il mistero della creazione dell’uomo da parte di Dio. Un bacio importante, segnale vivo della dedizione umana, è il primo bacio che si dà al proprio bimbo immediatamente dopo la nascita. È un bacio spontaneo quello con cui i genitori salutano l’arrivo di un bambino: un segno di accettazione, di accoglienza amorevole, di cura premurosa e insieme di affrancamento. Insomma: bacio che dà vita. Quando si è perso il linguaggio e si è troppo deboli per parlare o non si riesce più ad articolare quello che ci sta a cuore, allora cerchiamo la stretta di mano, e magari il bacio. E del resto, anche gli amici, i parenti, pur nella loro impotenza desiderano far sentire con un bacio il calore della vita. Quando è giunto il momento estremo del congedo, questo bacio ormai a lungo esercitato è il segno di un ultimo conforto, di un’ultima manifestazione accorata di affetto, e anche di congedo che dischiude una nuova libertà. Un bacio come questo abbraccia la vita tutta intera. E il bacio dopo la dipartita attesta il vissuto di questa esperienza del distacco e affida lo scomparso a una nuova realtà che si annuncia nella fase terminale della vita terrena. È con la dolcezza di un bacio che gli uomini prendono congedo dall’esistenza terrena. La scultura di W. Senoner materializza tale esperienza nella nuvola della dedizione, in quella figura di luce che si china sull’uomo per raccogliere il bacio che dona la vita. Se riflettiamo sulla forza originaria del bacio, l’immagine metaforica della vita insufflata nell’uomo ci ricorda che la Sacra Scrittura ci presenta Dio come amore. Dio è l’amore; chi è in Lui, ama. Dio è pensato come origine dell’uomo, suo creatore. Secondo me, il bacio che questa scultura ci mostra, offre una possibilità di acquisire consapevolezza di ciò, e di riflettere. Nella forma metaforica del bacio si sublima la devozione umana per la vita: essa prende forma nel vissuto. Nell’osservare questa immagine del bacio affiorano alla coscienza immagini interiori del bacio; ci parlano dell’aiuto alla vita, della sua valorizzazione. La relazione di aiuto, la cura riguardosa di una dottoressa, il buon consiglio, il dialogo rinfrancante, l’attenuazione del dolore, quale esso sia: sono tutte forme che possono trovare espressione nel bacio. Ecco come accade il bacio che dà vita. Possa quest’opera offrire un impulso per coltivare la nostra attenzione nei confronti degli altri e la dedizione che essi ci riservano. E soprattutto possa spronare chi lavora coi malati a dar forma a questo afflato creativo; dia loro fiducia ed energia nel promuovere la vita. Ma, per concludere, auspico pure che il desiderio di un bacio trovi soddisfazione ogni volta che si ha bisogno di umana tenerezza. Ewald Volgger OT


Zum Leben geküsst Die Skulptur „Der Kuss“ von Wilhelm Senoner wurde im Foyer der Caritas aufgestellt. Die Abteilung für Hospizarbeit will damit einen Akzent setzen und mit diesem Kunstwerk auf ihre Arbeit und ihr Selbstverständnis hinweisen. Als ich gemeinsam mit Caritasdirektor Heiner Schweigkofler im vergangenen Sommer den Künstler Wilhelm Senoner in seinem Atelier besuchte, ist uns die Idee gekommen, dieses Kunstwerk in den Räumen der Caritas zu zeigen. Es war eine spontane Überzeugung, dass es den MitarbeiterInnen und Gästen im Caritasgebäude ein Impuls sein kann, über ihre Arbeit und ihr Engagement nachzudenken, aber auch den Gästen Anregung kann, die Arbeit der Caritas zu verstehen und in der Begegnung mit dem Kunstwerk zu empfinden. In diesem kleinen Foyerraum ist eine „Dimension der Sakralität“ spürbar. Ich habe von MitarbeiterInnen im Haus berichtet bekommen, dass sie innehalten und eine Achtsamkeit wahrnehmen bzw. eine Aufmerksamkeit entfalten, wenn sie hier vorbei gehen. Sie setzen ihren Weg irgendwie berührt und verändert fort. „Profan“ und „sakral“ sind zwei sich ergänzende Erfahrungsorte bzw. -werte. Das Profane meint das Alltägliche, das Erdgebundene, das Mühsame. Das sacrum meint eine Wahrnehmung, die sich darüber erhebt. Wenn ein Kunstwerk vom Alltäglichen in die achtsame Wahrnehmung führt, dann hat dies zu tun mit der möglichen Achtsamkeit der Menschen für das Wesentliche, für ein Wahrnehmen, das ihn auf sich selbst mit seinen innersten Rührungen, Fragen und Horizonten verweist. Damit ergibt sich „Sakralität“, weil der Mensch in solchen Vorgängen dem von Gott gestifteten Wesen in ihm nahekommt. Die Skulptur hält den Augenblick des gerade sich Berührens und Begegnens fest, des sich zärtlich Nahekommens, einerseits ganz erotisch, andererseits aber weit darüber hinaus. Es ist aber auch eine achtsame Liebe, wie ich sie oft in Krankenzimmern erlebt habe. Krankenzimmer sind mitunter von einer besonderen Achtsamkeit geprägt, fordern eine Zuwendung und Intimität, die menschlich zutiefst berührt und Leben gibt. Wilhelm Senoner hat dieses Kunstwerk „Kuss“ benannt nach dem Gedicht von Bertolt Brecht, das dieser in Erinnerung an Marie Aumann geschrieben hat: An jenem Tag im blauen Mond September Still unter einem jungen Pflaumenbaum Da hielt ich sie, die stille bleiche Liebe In meinem Arm wie einen holden Traum. Und über uns im schönen Sommerhimmel War eine Wolke, die ich lange sah Sie war sehr weiß und ungeheuer oben Und als ich aufsah, war sie nimmer da. Seit jenem Tag sind viele, viele Monde Geschwommen still hinunter und vorbei. Die Pflaumenbäume sind wohl abgehauen Und fragst du mich, was mit der Liebe sei. So sag ich dir: ich kann mich nicht erinnern Und doch, gewiß, ich weiß schon, was du meinst. Doch ihr Gesicht, das weiß ich wirklich nimmer Ich weiß nunmehr: ich küßte es dereinst. Und auch den Kuß, ich hätt ihn längst vergessen Wenn nicht die Wolke dagewesen wär Die weiß ich noch und werd ich immer wissen Sie war sehr weiß und kam von oben her. Die Pflaumenbäume blühn vielleicht noch immer Und jene Frau hat jetzt vielleicht das siebte Kind. Doch jene Wolke blühte nur Minuten Und als ich aufsah, schwand sie schon im Wind. Wilhelm hatte dieses Gedicht gelesen und gespürt, dass er angestoßen von diesen Versen seinen eigenen verinnerlichten Erfahrungen Ausdruck geben will. Er wählt dazu die in seiner typischen Formensprache großen Flächen, die er in Beziehung setzt in einem Licht- und Schattenspiel. Er verbindet das Erdgebundene mit den Sphären des Lichtes; er setzt das Lichtbedürftige, das Dunkle, dem Lichtenden aus. Er bewegt eine Spannung zwischen dem Kosmischen und dem Irdischen, legt eine Kraft der Leere in die Sprachwelt seiner Skulptur, um so eine neue Offenheit für das eigene Berührtsein von berührenden Erfahrungen zu wecken. In Weiterführung dieser Überlegungen habe ich für meine Überlegungen den Titel „Zum Leben geküsst“ gewählt. Das Kunstwerk geht weg von der Bewegtheit und Intention des Künstlers hin auf die Wirkung in den Wahrnehmenden. In ihnen ist zuhause oder anders gesagt, in ihnen wohnt inne, was mit ihre Erfahrungen ausmacht. Was der Künstler hier materialisiert, was er Formsprache bringt, ist die veräußerte Gestalt seiner verinnerlichten Erfahrung, die zur Botschaft und zur

Auseinandersetzung für andere wird. Dem Betrachter fallen die geschlossenen Augen auf. Sie verweisen auf das innere Auge, das wir Menschen kennen, das intensivere Schauen und das intensivere Wahrnehmen in unserem Binnenraum des Erfahrens und Erkundens. Wenn Menschen eine Erfahrung verinnerlichen wollen oder verinnerlicht schauen wollen, dann schließen sie die Augen. Zärtliche Zuwendung wird vielfach auf diese Weise angenommen. Darin liegt ein Aspekt der Stärke dieses Kunstwerkes: Es führt zum inneren Schauen in uns, auf das Wahrnehmen dessen, was in uns drinnen ist. Der unmittelbare Augenblick vor dem Küssen gibt dem menschlichen Ausdruck sanfte Züge. Ganz dem Augenblick hingegeben und losgelöst von allem, was es sonst gibt, geschieht Zuwendung. In dieser Geste liegt verborgen, was gegeben sein will. Der ganze Mensch gibt sich dem anderen. Andererseits ist der Augenblick vor dem Entgegennehmen des Kusses auch der Augenblick, in dem der Empfangende eine hohe Erwartung entwickelt in seiner Offenheit für die Zuwendung, die ihm gerade widerfährt. So ist dieser Augenblick auch im Menschen, der den Kuss entgegennehmen darf, ein Augenblick, in dem alles Übrige seines Lebens verblasst, verschwimmt und sich relativiert. Im Empfangen ist das sich selbst Geben und im Geben das Empfangen spürbar, weil das eine ohne das andere nicht wirklich wahrhaftig ist. Diese Dimension menschlicher Erfahrung gibt dieser Skulptur die Kraft ihres Ausdrucks verbunden mit einem sanften Lächeln, das die Gesichtszüge auflöst in Zufriedenheit und Gelassenheit, in Geborgenheit und zugleich ruhige Erwartung. Form und Inhalt bedingen sich. Unsere Beobachtung und Wahrnehmung führt den Blick zur Nase. Wir meinen, den Nasenhauch zu spüren. Wer den Nasenhauch eines anderen Menschen spürt, weiß, wie nahe er einem Menschen ist, weil er ihm nahe kommen wollte oder aber weil sich diese Nähe aus unterschiedlicher Form freiwilliger oder unfreiwilliger Zuwendung ergibt. Mitunter fordert der Nasenhauch auch, Nähe auszuhalten. Der Nasenhauch lässt mich aber auch in seiner metaphorischen Bedeutung an den Hauch des Lebens denken, der uns geschenkt ist. Wir treten damit in eine neue Dimension über, in der diese Erfahrung auch zur Frage nach unserem Ursprung wird. Die Heilige Schrift spricht davon, dass es der Hauch Gottes war bzw. ist, der uns existieren lässt. In jedem Nasenhauch des Menschen können wir dem Geheimnis nachspüren, dass der Mensch Geschöpf Gottes ist. Ein wichtiger Kuss menschlicher Zuneigung ist der erste Kuss, der dem eigenen Kind unmittelbar nach der Geburt gegeben wird. Eltern begrüßen ihre Kinder unwillkürlich mit einem Kuss, es ist ein Zeichen des Entgegennehmens und zugleich der liebenden Annahme, ein Zeichen der liebenden Sorge und der Freigabe zugleich, sozusagen ins Leben geküsst. Wenn Menschen die Sprache verloren haben, wenn sie zu schwach zum Sprechen sind oder aber am Herzen Liegendes nicht mehr artikulieren können, suchen sie den Händedruck oder auch den Kuss. Andererseits haben Angehörige das Bedürfnis, nicht nur als Zeichen der Hilfslosigkeit den zärtlichen lebenswarmen Kuss zu geben. Wenn der letzte Augenblick des Abschieds gekommen ist, dann ist der so eingeübte Kuss das vertraute Zeichen eines letzten Zuspruchs, einer letzten Bekundung aller Herzlichkeit und des Zugetan-seins und zugleich auch des Loslassens in eine neue Freiheit. Ein solcher Kuss fängt alles Leben ein. Der Kuss nach dem Verscheiden bestätigt alle diesbezügliche Erfahrung und übereignet einen Menschen hinein in eine neue Wirklichkeit, die in der letzten Phase des irdischen Lebens spürbar wird. Menschen verlassen also mit dem zärtlichen Kuss der Ihren ihre irdische Existenz. Die Skulptur von W. Senoner vergegenständlicht diese Erfahrung mit dem Wolkenwesen der Zuwendung, der Lichtgestalt, die sich über den Menschen beugt, die den Kuss zum Leben empfangen darf. Wenn wir die Ursprungskraft des Kusses bedenken, dann wird mit dem metaphorischen Bild des eingehauchten Lebens bewusst, dass die Heilige Schrift Gott eigenschaftlich als Liebe beschreibt. Gott ist die Liebe und wer in ihm ist, ist liebend. Gott wird als des Menschen Ursprung gedacht, der ihn geschaffen hat; Ich meine, dass unser Kuss-Bild eine Möglichkeit ist, um dies ins Bewusstsein zu bringen und zu bedenken. In dieser metaphorischen Sprache ist vieles aufgehoben, was Menschen an Zuwendung zum Leben erleben bzw. gestalten. Im Betrachten des Kuss-Bildes werden innere Bilder ins Bewusstsein gefördert, die davon sprechen, was es an Lebenshilfe und Lebensförderung alles gibt. Beratende Hilfe, die Achtsamkeit einer Ärztin, der gute Ratschlag, das sorgsame Mitdenken im Gespräch, das Lindern von Schmerzen unterschiedlicher Art, das alles können Formen küssender Zuwendung sein. So wird zum Leben geküsst. Möge dieses Kunstwerk den Impuls geben, der eigenen Aufmerksamkeit und der fremden Achtsamkeit nachzuspüren. Mögen vor allem Menschen in der Hospizarbeit angespornt werden, den schöpferischen Hauch des Lebens zu gestalten. Mögen sie sich zutrauen, mit ihren Kräften Leben zu fördern. Schließlich wünsche ich aber auch, dass die eigene Sehnsucht, geküsst zu werden, Erfüllung findet, wenn Zuwendung Not tut und gebraucht wird.

Ewald Volgger OT


LEGNO, BRONZO E COLORI PER LE SCULTURE DI WILHELM SENONER Ho rivisto Wilhelm dopo alcuni anni, nel suo nuovo atelier di lavoro a Ortisei in Valgardena. Si trova in una zona nuova da poco edificata che precede il paese arrivando da Bolzano, caratterizzata da grandi spazi espositivi per le principali attività produttive e artigianali della vallata. Ricordavo bene il precedente spazio lavorativo, sulla riva opposta del torrente Gardena; un tipico laboratorio artigiano che sapeva di legno e colore; il cambiamento suggerisce subito l’affermarsi di una fase diversa del suo lavoro. Entrando nello spazio ampio e luminoso dell’atelier molte immagini coloratissime ci appaiono e si offrono al nostro sguardo curioso. Atteggiamenti diversi le caratterizzano e dimensioni varie fino al raggiungimento di forme con grande impatto visivo, oltre i due metri. Sono presenze mute ma suggestive che ci accolgono e ci accompagnano, testimoni di un singolare percorso creativo ma anche di quell’evoluzione tecnica che caratterizza fortemente a mio giudizio il lavoro di Wilhelm. Ci suggeriscono i passaggi, conquiste e dubbi propri di ogni ricerca. Sono scelte operative nuove ricercate e sperimentate in piena libertà da vincoli di tradizione e guidate da una ispirazione determinata e lucida. Una materia ruvida e fortemente colorata avvolge basamenti e figure impedendoci di riconoscere al primo impatto il nucleo costruttivo: il legno. Uno sguardo più attento fa emergere in alcuni tratti la venatura lignea che si fonde con il colore intenso, vibrato che ricopre ogni forma. È come se la matericità delle sue più recenti opere pittoriche trovasse un piano ideale di posa nella scultura. Wilhelm ci suggerisce questa corrispondenza, affiancando nelle sue mostre studi pittorici e la corrispondente scultura. A Vicenza nella mostra di San Silvestro ha esposto nell’abside minore della chiesa L’uomo che cammina (scultura) con l’omonimo dipinto. Sembrava indicarci e suggerire il valore ideativo della pittura, logos, del pensiero con la concretezza della scultura, praxis, pratica del reale. Due valori imprescindibili per l’esistenza umana. L’abbandono del linguaggio figurativo giovanile è per Wilhelm un punto d’orgoglio. Eccellente e raffinato intagliatore del legno, raggiunto un livello virtuosistico sente l’esigenza di lasciare la tecnica di tradizione e superarla in nome di un’adesione a metodi nuovi, più estemporanei. L’utilizzo della motosega costituisce una svolta rinnovante del suo linguaggio, ora più sintetico, essenziale e staccato dalla perfetta figuratività giovanile. Con questo mezzo, tutto si modifica e rivaluta. Non più il rapporto diligente e lento con la materia, rispettoso della mimesis naturale, ma un approccio stringato con le forme e il volume, segno del raggiungimento di una sintesi anche concettuale. Il prezioso cirmolo viene abbandonato per l’utilizzo di legni lamellari che incollati tra di loro vengono a formare il nucleo originario delle sue sculture, un nuovo punto di partenza. Le nuove tecnologie del legno rendono possibile il cambiamento per il vantaggio che offrono di maggiore indeformabilità e resistenza. Così il legno, materia di cui Wilhelm è abile conoscitore da un punto di vista lavorativo, può ciò che nel passato (la grande dimensione), era proprio di altri materiali ossia del marmo e del bronzo, con il vantaggio di un minor costo, e di maggiore leggerezza. In coerenza con alcune scelte della scultura contemporanea, Wilhelm cela nelle sue opere la materia originaria, il legno. Essa è appena riconoscibile dopo attenta ed esperta osservazione per le venature che si intravvedono nel colore della materia che riveste la sua scultura, una superficie ruvida e colorata simile alle rocce dolomitiche nel tramonto. Non dimenticando la grande tradizione figurativa scultorea della sua vallata, egli la riutilizza quale scelta di rinnovamento. Le antiche figure lignee da secoli rivestite di gesso e colle per la posa della doratura e dei colori lasciano il campo a immagini non più lisciate ma ruvide, materiche come la roccia e monocromatiche come i licheni e le muffe dei sassi della sua montagna. Ed è una sua invenzione quell’impasto di colla e colore ispirato alla tradizione scultorea che rinnova l’aspetto delle sue opere, oggi più emotive e immediate nel trasmetterci le emozioni e le sensazioni che vuole suggerire. Molto lavoro e sperimentazione continuata sono elementi del suo atteggiamento quotidiano, del suo linguaggio rinnovatore. Non è più la descrizione, pur raffinatissima della quale è maestro, che lo ispira, ma la trasmissione diretta del suo emozionante sentire allo sguardo pensante dello spettatore. Equilibri e statica da sempre hanno affascinato i più grandi scultori. Li attrae la sfida con la legge di gravità che domina tutto il nostro cosmo. È in questa sfida che la materia acquista potenzialità espressiva nuova. Si può far perdere peso e consistenza ad una massa per simulare con inganno percettivo leggerezza e sospensione. Come si regge la massa bianca della Luna su Endimione, l’aerea figura femminile sospesa nell’atto di baciare la fronte dell’amato? Quale trucco consente a questa massa di restare sospesa e leggera come una nube, come un’apparizione o immagine inconsistente di sogno? Un piccolo invisibile punto di contatto ben calcolato, genera un baricentro che rende possibile con un apparente miracolo, la sospensione della massa bianca senza peso nell’aria. Tutto questo è un punto d’arrivo per chi conosce bene il legno, la materia che egli principalmente lavora utilizzandola al massimo delle sue possibilità espressive. Sul tema degli equilibri ci accorgiamo di continue altre interessanti soluzioni. I basamenti delle sculture sono parte integrante delle sue opere e non un semplice appoggio per la figura. Wilhelm sembra dichiararlo colorandoli dello stesso colore dell’immagine sovrapposta. Ogni base si diversifica cercando corrispondenze ed

affinità con l’immagine soprastante. Il piano superiore di una base può infatti inclinarsi (L’uomo con l’aquilone), non per semplice evasione dalle regole. L’inclinazione rinnova la rappresentazione del movimento dell’incedere, rispetto alla postura a chiasmo di classica tradizione scultorea. Una base può essere pensata nello spaccarsi a metà (Il filosofo): è una corrispondenza con la dualità del pensiero filosofico antico? È simbolo di percorsi diversi del pensiero e degli atteggiamenti umani? Un continuum di forma? Questa fessura ci coinvolge nella ricerca di una spiegazione. L’uomo controvento aggrappato con i piedi alla sua base, si regge per un equilibrio di masse. Ancora una volta per il suo significato espressivo la base diviene parte integrante della scultura. Dalla matrice lignea originaria le sculture di Wilhelm possono trovare una corrispondente forma bronzea. Il bronzo, antica lega di rame e stagno della scultura classica dà maggiore durevolezza nel tempo alle opere e resistenza agli agenti atmosferici. La fusione può avvenire da un modello realizzato preventivamente e ricoperto con un leggero strato di cera. In seguito esso viene racchiuso in un grande involucro, oggi duplice, in silicone ed esternamente in argilla. Dallo stampo con uno speciale sistema di riempimento costruito ancora come nel passato da canne di bambù, per predisporre i fori di passaggio del bronzo fuso, si ottiene dallo scioglimento della cera la scultura in bronzo. Questo, sintetizzando molto, il procedimento con cui le sapienti e abilissime maestranze della fonderia Guastini di Gambellara realizzano l’opera dell’artista in bronzo: il profano ammesso alla visita resta affascinato e pensa ai monumenti equestri romani e rinascimentali, all’epica narrazione di Cellini per la fusione del suo Perseo, ai bronzi di Riace, fino alla mitica fucina di Efesto-Vulcano e capire de visu che l’idea iniziale dell’artista arriva all’opera compiuta solo con la collaborazione di un sapere tecnico antico e moderno di straordinaria abilità. Le sculture di Wilhelm tradotte nel bronzo vengono ancora da lui lavorate e rifinite: con la fiamma tratta le superfici sulle quali pone ossidi, materia e pigmenti per ottenere effetti particolari di modulazioni cromatiche e rugosità. Tutto questo può essere considerato un percorso nuovo e coraggioso derivante forse dalla sua esperienza pittorica. Il bronzo dà maggiore libertà espressiva allo scultore, in particolare nella risoluzione dei problemi statici. Questa tecnica più “indulgente” consente anche dei ripensamenti in rapporto alla determinazione e lucidità necessarie e indispensabili per il taglio scultoreo a motosega. L’opera, divenuta bronzo è ora anche più adatta a integrarsi e resistere nella natura, con le rocce, gli alberi, il bosco e l’acqua. In Rinnovare nella sua ultima definizione l’acqua è parte integrante della scultura come piano di appoggio della figura che in essa si specchia, rammentandoci lo specchiarsi del paesaggio nelle pozze d’acqua montane. Nel concludere mi vengono alla mente i disegni e i dipinti di Wilhelm. Io li sento in tutta la loro estemporaneità ed immediatezza come una prima forma del suo essere e percepire. Quel segno così vivo e fluido e a volte irriverente sa catturare immagini della mente, dar forma al sogno e alla suggestione. È come se dei fantasmi evanescenti potessero aver vita per rendere più viva la nostra stessa vita. Il 17 giugno 2013 si conclude a Vicenza la mostra “Il ritmo dell’ essere” di Wilhelm Senoner, facente parte della IX edizione del Festival Biblico, organizzata dall’ UCAI “Beato Fra Claudio Granzotto” sezione di Vicenza, nel Complesso Monumentale di San Silvestro. Numerosi interventi culturali, artistici e musicali ispirati alle sue opere hanno contribuito a creare un ambiente speciale negli interni di San Silvestro, per tutta la durata della mostra. Nel momento successivo, della riflessione, è stato spontaneo raccogliere alcune considerazioni, “impressioni” lasciate a Vicenza dalle sue opere. Si aggiungono a questa raccolta di testi le riflessioni del teologo Ewald Volgger, immediatamente successive e risalenti ad un dibattito pubblico sul “bacio che dà vita” tenutosi presso la sede della Caritas di Bolzano l’otto novembre duemilatredici. Nasce così questa raccolta di testi: Le mie forme: spigoli di roccia, arricchita dalle fotografie di Attilio Pavin per ricordare la presenza di Wilhelm Senoner a Vicenza. Enrica Volpi


photoŠ Attilio Pavin


HOLZ, BRONZE UND FARBEN FÜR DIE SKULPTUREN VON WILHELM SENONER Ich habe Wilhelm nach einigen Jahren in seinem neuen Atelier in Ortisei im Grödnertal wiedergesehen. Das Atelier liegt von Bozen kommend kurz vor dem Ort in einem neuen Stadtteil, der erst vor kurzem errichtet wurde. Dieses Viertel ist geprägt von großen Ausstellungsräumen für die wichtigsten Gewerbe- und Handwerksbetriebe des Tales. Ich erinnerte mich noch gut an den vorhergehenden Arbeitsraum, an dem gegenüberliegenden Ufer des Flusses Gröden gelegen, eine typische Werkstatt, die nach Holz und Farben roch; dieser Wechsel weist unmittelbar auf eine neue Phase in seinem Werk hin. Wenn man in den weiten und lichtdurchfluteten Raum des Ateliers tritt, erscheinen vor unseren Augen viele farbige Bilder und bieten sich unserem neugierigen Blick dar. Ihre künstlerische Gestaltung ist verschieden und auch die Größen variieren; einige sind in der Tat über zwei Meter groß und überwältigend. Sie sind schweigende und suggestive Erscheinungen, die uns empfangen und begleiten, Zeugen eines einzigartigen, kreativen Werdeganges und einer technischen Entwicklung, die meiner Meinung nach die Arbeit von Wilhelm Senoner stark prägt. Sie zeigen uns die Fortschritte, die Eroberungen und die Zweifel, die alle künstlerischen Studien kennzeichnen. Es sind neue strategische Entscheidungen, die in völliger Freiheit von den traditionellen Techniken erforscht und experimentiert werden; sie werden von einer entschiedenen und nüchternen Inspiration geleitet. Ein raues und stark gefärbtes Material umhüllt die Sockel und Figuren, und verhindert, dass man sofort den strukturellen Kern, das heißt das Holz, erkennen kann. Ein aufmerksamerer Blick lässt an einigen Stellen die Holzadern wahrnehmen, die mit der intensiven und modulierten Farbe verschmelzen, die alle Formen bedeckt. Es scheint, als ob die Materialität, die seine jüngsten Gemälde kennzeichnet, in den Skulpturen einen ideellen Stützpunkt finden würde. Wilhelm legt uns diese Entsprechung nahe, indem er in seinen Ausstellungen gemalte Entwürfe und die entsprechende Skulptur Seite an Seite ausstellt. In der Ausstellung in der Kirche San Silvestro in Vicenza wurde die Skulptur Der Gehende zusammen mit dem Gemälde mit demselben Titel in der kleinen Apsis der Kirche ausgestellt. Das schien den logos (die Bedeutung der Malerei und des Gedankens als Entwurf) und die praxis (die Praxis der Realität, dank der Konkretheit der Skulptur) aufzuzeigen und zu unterstreichen. Logos und praxis sind zwei untrennbare Werte für die menschliche Existenz. Der Verzicht auf die figurativen Ausdrucksweisen der frühen Jahre ist bei Wilhelm Senoner ein Moment des Stolzes. Ein hervorragender und kultivierter Holzschnitzer fühlt er jetzt, nachdem er ein meisterliches Niveau erreicht hat, das Bedürfnis, die traditionelle Technik hinter sich zu lassen und zu überwinden, um neue, spontanere und direktere Methoden anzunehmen. Der Gebrauch der Motorsäge bedeutet eine Wende, die seine künstlerische Ausdrucksweise erneuert: Er wird synthetischer, essenzieller und löst sich von der perfekten figurativen Präzision der Jugend. Mit diesem Werkzeug verändert sich alles und alles wird neu bewertet. Die Beziehung Senoners zu der Materie ist nicht mehr sorgfältig und langsam, und voller Respekt für die natürliche mimesis; jetzt interpretiert er die Formen und den Rauminhalt auf eine direktere Art, und das ist ein Zeichen für das Erreichen einer auch begrifflichen Synthese. Das wertvolle Zirbenholz wird aufgegeben: Er benutzt stattdessen geklebtes Lamellenholz, dass zum Ursprungskern seiner Kunstwerke wird, zu einem neuen Ausgangspunkt. Die neuen Technologien der Holzbearbeitung machen diese Veränderung möglich und bieten den Vorteil, dass die Werke sich weniger verformen und belastbarer sind. So wird das Holz (und Wilhelm ist ein großer Kenner der Materie) auch für Werke großer Ausmaße verwendbar, die früher nur in Marmor oder Bronze geschaffen werden konnten. Außerdem ist das Holz kostengünstiger und leichter. So wie andere zeitgenössische Bildhauer verbirgt auch Wilhelm in seinen Werken das ursprüngliche Material, das Holz. Es ist nur nach einer aufmerksamen und erfahrenen Betrachtung zu erkennen: Die Adern macht man in der Farbe des Materials aus, das seine Skulptur überzieht und das raue und farbige Oberflächen formt, die dem Dolomitgestein bei Sonnenuntergang ähneln. Senoner vergisst die große figurative Tradition der Bildhauerkunst nicht, die die Werke der Künstler seiner Heimat kennzeichnet, sondern nutzt sie, um sich zu erneuern. Die alten Holzfiguren (seit Jahrhunderten traditionell mit Gips und Leim überzogen, um die Vergoldung und die Farben aufzubringen) überlassen das Feld Formen, die nicht mehr glatt sind sondern rau: Sie haben materische Oberflächen wie der Fels und sind einfarbig wie die Flechten und der Moder auf den Steinen seiner Berge. Und es ist seine Erfindung, diese Mischung aus Leim und Farbe, die sich an einer Bildhauer-Tradition inspiriert, die sich erneuert und Werke schafft, die uns berühren und uns unmittelbar Gefühle und Empfindungen vermitteln. Viel Arbeit und Experimente erwarten ihn: Das sind die Elemente, die jeden Tag seinen Erneuerungsgeist anstacheln. Er inspiriert sich nicht mehr hauptsächlich an einer beschreibenden Ausdrucksweise (die er auf jeden Fall meisterlich beherrscht), sondern an dem Willen, dem Blick und dem Geist des Zuschauers direkt seine Einfühlungsvermögen und damit Gefühle zu vermitteln. Gleichgewicht und Statik haben die großen Bildhauer schon immer fasziniert. Es reizt sie, die Gesetze der Erdanziehungskraft, die unseren Kosmos beherrschen, herauszufordern. Und um diese Herausforderung zu meistern, gewinnt die Materie

eine neue Ausdrucksfähigkeit. Man kann eine Masse an Gewicht und Konsistenz verlieren lassen, um Leichtigkeit und Schweben vorzutäuschen, und damit die Wahrnehmung des Betrachters zu täuschen. Was hält die weiße Masse der Luna über Endymion, diese luftige weibliche Figur, die im Moment des Kusses, den sie auf die Stirn des Geliebten drückt, innehält? Welcher Trick erlaubt dieser Masse leicht wie eine Wolke, wie eine Erscheinung, wie ein haltloses Traumbild in der Luft zu schweben? Ein kleiner, unsichtbarer, präzise kalkulierter Kontaktpunkt schafft einen Schwerpunkt, der das Schweben der weißen ohne Gewicht scheinenden Masse in der Luft erlaubt, fast wie ein sichtbares Wunder. All das bedeutet die Bestimmung für denjenigen, der das Holz gut kennt, wobei er seine Ausdrucksmöglichkeiten auf das Beste ausschöpft. Zu dem Thema des Gleichgewichts experimentiert Senoner ständig und hat dazu auch interessante Lösungen geschaffen. Die Sockel der Skulpturen sind fester Bestandteil seiner Werke und nicht eine einfache Stütze für die Figur. Wilhelm scheint das unterstreichen zu wollen, indem er ihnen dieselbe Farbe der Skulptur gibt, die sie halten. Jeder Sockel ist verschieden und drückt Entsprechungen und eine Verwandtschaft zu dem ihn überragenden Bild aus. Der obere Teil des Sockels kann geneigt sein (Der Mann mit Drachen), aber nicht, weil der Bildhauer die Regeln nicht respektieren will. Die Neigung kann vielmehr, anders als bei der klassischen und traditionellen Chiasmus-Form, die Vorstellung der Bewegung des Schreitens betonen. Ein anderer Sockel zeigt sich zum Beispiel halb gespalten (Der Philosoph): Entspricht das der Dualität des antiken philosophischen Denkens? Ist es ein Symbol der verschiedenen Wege der Gedanken und des menschlichen Verhaltens? Ein continuum der Form? Dieser Spalt zieht uns herein in die Suche nach einer Erklärung. Der Mann im Gegenwind klammert sich mit den Füßen an seinen Sockel, er hält dank dem Gleichgewicht der Masse stand. Wieder einmal ist der Sockel durch seine ausdrucksvolle Bedeutung ein fester Bestandteil der Skulptur. Der hölzerne Ursprung der Skulpturen von Wilhelm drückt sich in einigen Werken in einer entsprechenden Bronzeform aus. Die Bronze – eine antike Legierung aus Kupfer und Zinn, die in der klassischen Bildhauerkunst benutzt wurde – macht die Werke haltbarer und widerstandsfähiger gegenüber Witterungseinflüssen. Der Guss kann mit einem eigens dafür hergestellten Modell erfolgen, das mit einer dünnen Schicht Wachs überzogen wird. Das Modell wird dann in eine große Hülle eingeschlossen, die heutzutage außen aus Lehm und innen aus Silikon besteht. Aus dieser Form entsteht dann, nachdem das Wachs geschmolzen ist, die Bronzeskulptur, dank eines Füllverfahrens, für das noch heute wie in der Vergangenheit Bambusstangen benutzt werden, um die Löcher für die flüssige Bronze zu schaffen. Das ist, kurz gesagt, das Verfahren mit dem die außergewöhnlich geschickten und tüchtigen Meister der Kunstgießerei Guastini in Gambellara die Bronzewerke von Senoner realisieren: Ein unerfahrener Zuschauer bei diesem Verfahren ist fasziniert und denkt an die Reiterstandbilder der Römer und der Renaissance, an die epische Erzählung von Benvenuto Cellini von dem Guss seines Perseus, an die Bronzestatuen von Riace, bis hin zur mythischen Schmiede von Hephaistos-Vulcanus; der Zuschauer kann so persönlich an der Verwandlung der ursprüngliche Idee des Künstlers in das fertige Werk teilnehmen; diese Verwandlung wird nur durch ein technische Wissen möglich, das gleichzeitig modern und antik ist und eine außergewöhnliche Fähigkeit ausdrückt. Die in Bronze übertragenen Skulpturen von Wilhelm werden dann von ihm weiter und nach bearbeitet: Er bearbeitet die Oberfläche mit Flammen, dann trägt er Oxyd auf, Materialien und Farbstoffe, um eine raue Oberfläche und besondere Farbeffekte zu erzielen. All das kann als ein neuer und mutiger Weg betrachtet werden, der vielleicht von seiner Erfahrung als Maler herstammt. Die Bronze gibt dem Bildhauer größere Freiheit im Ausdruck, vor allem in Bezug auf statische Probleme. Diese „flexiblere“ Technik erlaubt dem Bildhauer seine Meinung im Laufe der Arbeit zu ändern, während bei der Arbeit mit der Motorsäge wesentlich mehr Entschlossenheit und klarer Verstand nötig sind. Das Werk ist dann auch, einmal zur Bronze geworden, geeigneter, um sich in die Natur, mit ihren Felsen, Bäumen, dem Wald und dem Wasser, einzufügen und ihr zu wiederstehen. Bei der letzten Version des Werkes Rinnovare (Erneuern) ist das Wasser fester Bestandteil der Skulptur; es erscheint wie ein stützender Untergrund der Figur, die sich in ihm widerspiegelt und uns damit an die Wasserpfützen in den Bergen erinnert, in denen sich die Landschaft wiederspiegelt. Zum Schluss fallen mir noch die Zeichnungen und Gemälde von Wilhelm ein. Ich fühle sie in all ihrer Improvisation und Unmittelbarkeit, wie eine erste Darstellung seines Seins und seiner Empfindungen. Diese so lebendigen, fließenden und manchmal auch provokatorischen Werke schaffen es, die Bilder des Geistes einzufangen und dem Traum und dem Eindruck Form zu geben. Es ist, als ob die verschwommenen Geister lebendig werden könnten, um unser eigenes Leben lebendig zu machen. Enrica Volpi


photo© Attilio Pavin

La mostra “Il ritmo dell’essere” di Wilhelm Senoner incluso nel IX Festival Biblico è stato realizzato con il Patrocinio del Comune e della Provincia di vicenza


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via Arnaria, 9/1 Ortisei (Val Gardena) ph. +39.0471.797830 - m. +39.338.5076384 - info@wilhelmsenoner.191.it www.wilhelmsenoner.com


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