WolverNight fanzine - n° 51, novembre 2019

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N° 51

NUMERO 51 - Anno 29°- Novembre 2019 Redazione: Via Pianezza 2 , Mergozzo (VB) 28802 WN è stampato in proprio. Direttore Responsabile: Leicester Bangles

PREZZO: Offerta Minima € 3,00

Considerazioni “Non ho mai svolto un lavoro in tutta la mia vita, mai una giornata di onesto lavoro, mai un lavoro impegnativo in niente.”

BRUCE SPRINGSTEEN

“SPACE AND TIME : AMERICAN SONGBOOK” il nuovo disco del BOSS dopo 35 anni !!! e poi EZRA FURMAN VIOLENT FEMMES LLOYD COLE THE DREAM SYNDICATE - L’AGGHIACCIANTE RITORNO DEL VINILE ∞ in regalo il poster della cover del n°50. MAI PUBBLICATO !!! ∞


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WN – n°51 – Novembre 2019 SOMMARIO

THE BOSS IS BACK !!! Pag. 3

Capitolo 1 - “C’è qualcuno ancora vivo là fuori ?” di Marco Denti pag. 3 Capitolo 2 - “La scelta di Bruce” di Kurt Logan pag. 7 Capitolo 3 - “Bruce Springsteen 1972 / 1985” di Giorgio Ferroni pag. 8 Capitolo 4 - “Space And Time:American Songbook” di Alberto Nobili pag. 15 Capitolo 5 - “Chiamatemi Ismaele …” di Angelo Monte e Roberta Ardoino pag. 17 Capitolo 6 - “This Hard Land” di Michele Anelli pag. 19 Capitolo 7 - “L’ardito paragone: Ezra Furman diventerà il nuovo Bruce Springsteen ?” pag. 25

L’AGGHIACCIANTE RITORNO DEL VINILE / POSTER WN # 50 paginone centrale THE DREAM SYNDICATE Pag. 36 DISCHI DI ULTIMA GENERAZIONE: THE VIOLENT FEMMES & LLOYD COLE Pag. 38 LA VOCE DEL PADRONE - EDITORIALE Pag. 39 TITOLI DI CODA - THE PROMISE Pag. 40 I POSSIBILISTI

Ma possiamo dire che Bruce Springsteen ha dei problemi con la produzione dei propri dischi?

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LETTORI RISPONDETE NUMEROSI !!!!!!!

WN – n°51 – Novembre 2019 – Anno XXIX Redazione in carne e ossa: Giorgio Ferroni, Michele Griggi, Kurt Logan, Marco Massarelli, Angelo Monte, Alberto Nobili, Agostino Roncallo, Massimiliano Stoto, Sauro Zani. A questo numero hanno collaborato: Michele Anelli e Marco Denti. Guida Spirituale: Bruce Springsteen (nel bene e nel male). Logo di copertina: Daniele Comello. Progetto Grafico: Kurt Logan. QUESTO NUMERO E’ DEDICATO A MARK HOLLIS, ROKY ERICKSON E A TUTTI GLI SPRINGSTIGNIANI !!! Tutte le illustrazioni ed immagini riprodotte, (dove non indicato) sono degli autori o delle persone, agenzie, case editrici detenenti i diritti. WOLVERNIGHT – Via Pianezza n°2 Mergozzo (VB) 28802 e-mail: macy69@tiscali.it WolverNight è stampato in proprio. Questo numero è stato stampato in 50 copie Questa in tuo possesso è la n° di 50 - 1a stampa del 15/11/19


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THE BOSS IS BACK !!!

“SPACE AND TIME: AMERICAN SONGBOOK” è il nuovo disco di BRUCE SPRINGSTEEN, 35 anni dopo “Born in the U.S.A.”. Praticamente mezza vita. In questo lasso di tempo enorme il Boss non è scomparso alla J.D. Salinger. Ha tenuto concerti, si è perlopiù celebrato con cofanetti retrospettivi, ha scritto libri, fatto teatro. Ha cantato Pete Seeger e scritto anche per il cinema. Ha messo su famiglia e ha visto qualcuno dei suoi amici più cari “andare avanti”. Ora un disco doppio e quasi inedito, dal suono slegato e incoerente, musicalmente senza capo ne coda. Un disco quasi da solo. Con la E-Street Band ma di fatto senza. Prodotto da più persone e suonato da ancora più persone. Un disco che però ha canzoni e storie. E questa è la notizia. Canzoni e Storie... già... forse le migliori in grado di raccontare adesso, ora, subito, l’America di Trump, tra l’altro mai citato, e quella degli ultimi 35 anni. Noi vogliamo tirare le fila una volta per tutte e fare luce su un personaggio, vivo e reale, talmente lindo e diretto da sembrare immune a ogni critica. Un viaggio in 7 capitoli che ci permetterà di mettere a fuoco il mito del Boss in maniera un pò fantasiosa e un pò reale, e magari scoprirne un possibile erede. Capitolo 1

“C’è qualcuno ancora vivo là fuori ?” di Marco Denti “C’è qualcuno ancora vivo là fuori?” chiede ad alta voce Springsteen nel furore del riff elettrico di Radio Nowhere e la richiesta pare appropriata a questo inatteso ritorno, almeno quanto le domande che il lungo distacco, dalla produzione di dischi inediti, ha disseminato nella sua scia. Ammainata la stars n’ stripes di Born In The USA, Springsteen si era defilato in una posizione insolita, un po’ ai margini della giungla e della città, e per tutti questi anni ha scelto di girare al largo, con la sorprendente eccezione delle Seeger Sessions, una vitalissima e colorita rivisitazione delle radici americane, dentro e fuori le sue canzoni. Ma pur sempre un’eccezione, un episodio a sé, che


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tra le righe lasciava fiorire il sospetto che nelle vene del songwriting di Springsteen ormai si fosse diffusa una certa aridità. Alla luce di Space and Time è evidente che le canzoni hanno continuato a fluire una dopo l’altra, ma che, per qualche motivo, sono rimaste nascoste e non hanno trovato una collocazione pubblica nell’immediato. Le risposte qui sono pari alle domande perché come scriveva John Berger in Confabulazioni “le canzoni parlano di postumi e ritorni, di benvenuti e di addii. O, per dirla altrimenti: le canzoni sono cantate a un’assenza. L’assenza è ciò che le ha ispirate ed è ciò di cui parlano”. Di certo sono prosperate nell’assenza, attingendo a una sorgente attiva: la gamma è variopinta e c’è sempre qualcosa di divergente che prende forma tra una canzone e l’altra, ma c’è una linea sottile a collegarle che non è così imperscrutabile. Se lo psicodramma springsteeniano è circoscritto attorno a una forma di rock’n’roll abbastanza elastico da essere tirato in tutte le direzioni, le sue osservazioni alternano in modo assiduo, quasi frenetico, le osservazioni di carattere personale, con un particolare riguardo all’inarticolato linguaggio del cuore (come direbbe Van Morrison) e a quel mondo politico (come direbbe Bob Dylan) che poi coincide con una cosa non bene determinata chiamata America. A partire da un’ideale che Springsteen ha ripreso dalla Storia degli Stati Uniti d’America di Allan Nevins e Henry Steele Commager che la definivano “qualcosa di nuovo nella storia”, ovvero “il più temerario esperimento mai intrapreso nella fusione di popoli, in fatto di tolleranza religiosa, eguaglianza sociale, opportunità e democrazia politica”. Da quella ricostruzione Springsteen ha tratto la sensazione che l’America possa restare “lo sviluppo di un popolo abbastanza intelligente da sentire il bisogno di libertà e risoluto a lavorare e a combattere per essa”. Con ogni contraddizione (che ben conosciamo) compresa nel prezzo. La sua vicenda corre in parallelo a quella di un’intera nazione e sarà utile riflettere su come (eccome) è cambiata l’America rispetto alla definizione di Steele e Commager, su cosa succede quando finiscono le parti di ricambio e i cuori spezzati sono sempre di più. Ecco: cosa si è perso Springsteen e cosa ci siamo persi noi? Non molto. È cambiato tutto e non è cambiato niente. Avevamo una televisione con 57 canali e nulla da vedere (i canali adesso sono 57 per 57 e comunque non c’è nulla da vedere lo stesso) perché la vita succede tra una pubblicità e l’altra e alla fine come direbbe ancora Baudrillard, “sembriamo destinati alla retrospettiva infinita di ciò che ci ha preceduti”. Quanto la sua prolungata latitanza abbia influito sulla percezione di questo stato di cose è difficile da stabilire con precisione. È come se avesse cercato in ogni direzione possibile, ondeggiando, titubando, provando a usare le canzoni come richiami per i fantasmi per riportarli a casa o per scacciarli, chi può dirlo veramente? Ce ne sono moltitudini ad occupare lo spazio e il tempo di Springsteen: quello di Tom Joad e quelli dell’uragano Katrina e della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, quelli dell’AIDS e quelli delle infinite guerre americane e quelli degli immigranti lungo il border, quello di Amadou Diallo e quello di Matthew Poncelet, nomi che riportano ad altri momenti nella storia americana recente, e che, eppure, trovano ancora riscontro, in questo molto doloroso, e tragico, nell’ attualità. Lo troveranno sempre perché han


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no la forza dell’American Songbook, lo stesso che Springsteen ha rivisitato per The Seeger Sessions e non pare un caso che sia stato proprio quella l’unica deviazione dal buen retiro che si era imposto. Invece di diventare “top gun” del rock’n’roll, un Bryan Adams qualsiasi, ha scelto di rifugiarsi altrove, in cerca di una distanza e di una prospettiva. Forse spaventato dal clamore del successo (da rumore di fondo, e dalla folla delle arene) e ancora convinto che “le vere rock’n’roll band nascono da tempi e spazi condivisi, di ogni paese, di ogni città, di tutto quello che succede. Musicisti che provengono dalle stesse strade, si in contrano e suonano le canzoni del loro passato. Potresti non aver riunito i migliori musicisti, ma non è importante. È importante ciò che accade quando suonano insieme. Questo succede quando uno più uno fa tre”. Curioso che nel presentare Born In The USA, e quella straordinaria officina del rock’n’roll che è la E Street Band, Springsteen abbia parlato di “tempi e spazi condivisi”. Cosa cercava di dire? Era un personaggio, era un interprete, era un attore? Cosa stava impersonando, infine? Cosa è vero e cosa è stato costruito a sua immagine e somiglianza? Cosa credeva di cantare o per chi credeva di cantare? La contraddizione pop di Born In The USA deve essere stata, in prospettiva, più angosciante di quanto lo stesso Springsteen lasciasse apparire. Come se avesse fiutato l’intrinseca ambiguità del corto circuito tra pop, popolano, popolare e populista, tra il desiderio del pubblico di vedersi riconosciuto nelle canzoni e la fama nel suo complesso. Sembra certificarlo anche l’unica parentesi, Just Like Fire Would dei Saints, un omaggio intriso di nostalgia per un’era primordiale quando tutto era più semplice e tre accordi potevano essere scambiati per la verità. Oggi che la verità non c’è più, e il tempo e lo spazio sono una sorta di geografia tutta da inventare, nelle intenzioni, si può solo immaginare, cosa è successo. Aveva forse paura di essere frainteso o, ancora di più, di essere strumentalizzato, come puntualmente fece Reagan all’epoca. Certo lo sfoggio dell’onnipresente bandiera americana non aiutava a comprendere. Se il tempo resta quello indefinito del rock’n’roll, lo spazio è qualcosa che va oltre l’America come la vede Springsteen: “Se il mio lavoro riguarda qualcosa, è a proposito della ricerca dell’identità, per una conoscenza personale, per accettazione, per comunità e per un grande paese. Ho sempre sentito che è quello il motivo per cui la gente viene ai miei concerti, perché sentono quel grande paese nei loro cuori”. Essere oggetto del desiderio e nello stesso tempo continuare a coltivare l’idea, forse la speranza, di restare il soggetto della propria storia, questo il dilemma. La cura che ha dedicato Bruce Springsteen a costruire la sua immagine (una non immagine, a tutti gli effetti), come se lui e la E Street Band fossero i protagonisti di un film, lasciava pensare che la perdurante assenza da Born In The USA avesse la logica di preservare la realtà di un sogno, che si è trasmessa soltanto attraverso lo sterminato universo di bootleg, un mondo parallelo che ci diceva che Springsteen c’era ancora, da qualche parte. Anche quei dischi, illegali fino a un certo punto, erano parti integranti della costruzione di una reputazione è stata un’ossessione, nutrita in altri mille modi, e averne preso le distanze ha un valore specifico e speciale. Si capisce adesso che Springsteen era alla ricerca di un punto di osservazione privilegiato, una ridotta da cui tenere sotto controllo un mondo in frantumi e da cui resistere con un minimo di equilibrio tra il tempo della sfera pubblica e lo spazio più personale che poi sono i due elementi contigui e


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contrapposti che da sempre vivono nel suo American Songbook. Su questo piano, Space And Time è scomodo, non omologato, eccentrico nelle sue variazioni, dalle brillanti sviste del pop agli accorati appelli che sembrano seguire le ombre roboanti di Born In The USA, ma in direzione contraria fino alle cupe folate che conducono alla conclusione. Più ci si addentra e più il disco si attorciglia su se stesso e si rende necessario un atto di fede per arrivare fino in fondo, dove gli spettri prendono il sopravvento in una lunga sfumatura che comincia da The Wrestler e segue una traiettoria ondulante, quasi una traccia nel deserto dove i fantasmi del passato si sommano agli incubi di oggi e a quelli di domani: la terra dei sogni e delle speranze si è sgretolata. Ma differenza dell’America che resta il terreno pericolante su cui si muovono i protagonisti di Springsteen, come scriveva Baudrillard “l’arte è un forma, e una forma è qualcosa che non ha storia”. Qui il tempo e lo spazio sono collassati in una sola realtà e i suoi personaggi sono confluiti tutti in un’unica voce narrante che plasma i racconti adeguando il tono di volta in volta. Resta il dubbio su come collocare questo doppio album che insegue The River nell’architettura, ma non ne ha né l’uniformità né l’intrinseca forza emotiva. È una panoramica coraggiosa, forse anche un po’ confusa, che nelle sue molteplici pieghe tradisce un senso di impotenza, lasciando emergere l’inevitabile questione: siamo alla fine della corsa? L’ultimo fantasma è quello di un songwriter a Nashville e potrebbe benissimo essere Todd Snider (chi si ricorda la sua faccia campeggiare per tutta la copertina di Songs for the Daily Planet?) se soltanto le coordinate geografiche indicassero a East piuttosto che North Nashville. È soltanto un piccolo dettaglio dentro un finale che lascia un senso di smarrimento, di disorientamento da cui per altro sembra essere partito tutto e a cui tutto arriva, ma non arriva la cavalleria. Non è mai arrivata. Chi è MARCO DENTI ? E’ un giornalista e uno scrittore. Si occupa di editoria, discografia e comunicazione. Chi è veramente ve lo facciamo raccontare da lui: “Sono nato nell'anno di Like a Rolling Stone (Bob Dylan) e Satisfaction (Rolling Stones), ma della musica non me è fregato niente per tantissimo tempo. Nell'ordine ero più appassionato di Juventus, soldatini, armi e strategie militari (gli aerei mi fanno impazzire ancora oggi), paleontologia e geologia, filatelia e boy scout. E naturalmente leggere e scrivere. Ero un bravo ragazzo di campagna (che continuo ad adorare) poi dopo essermi preparato a studiare costruzioni aeronautiche, ho scoperto: a) il rock'n'roll; b) la politica, e così dopo assemblee, concerti, gruppi, occupazioni e un bel 36 al diploma ho fatto venti mesi di servizio civile in una comunità di tossicodipendenti (dove lavoro ancora oggi), ma questa è un'altra storia. Nel frattempo (non avevo ancora compiuto vent'anni) avevo già prodotto un 45 giri, facevo da manager a un gruppo, suonavo in un altro (chitarra scordata e fuori tempo: quello che conta è il feeling) e scrivevo su tre o quattro fanzine diverse. Nell'ottobre 1988 (sono trent'anni adesso, urge medaglia) comincio a scrivere su Mucchio Selvaggio, un mese dopo a trasmettere a Radio Popolare, tre anni dopo divento corrispondente per un quotidiano, più varie collaborazioni qui e là, sempre attorno alla scrittura (dischi e libri). Per una breve stagione divento direttore di un giornale bello e dannato, Feedback, e finisco al Buscadero per vent’anni, esperienza felicemente conclusa l’anno scorso. Nel frattempo sono stato coordinatore dei contenuti del celebre Zivago.com e mi sono dedicato alla collana Distorsioni (una ventina di titoli, compresi i dossier dell’FBI su John Lennon) poi rilevata da Feltrinelli con il sottoscritto, volente o nolente, nel pacco dono. Da lì ho scritto e pubblicato qualche libro, buon ultimo Non siamo qui per le caramelle, il primo libro dedicato al dramma degli esodati e ne recensisco in continuazione nei miei blog (www.bookshighway.it). Sicuramente mi dimentico qualcosa, ma non è facile aggiornare la propria biografia avendo in casa una squadra d'assalto, che i marines a confronto sono una passeggiata. Vivo a Lodi, dove sto benissimo e ogni tanto vado a caccia di serpenti.


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Capitolo 2

“La scelta di Bruce” di Kurt Logan A suo tempo l’operazione “Born in the U.S.A.” lo avrà lasciato basito. Di sicuro anche milionario. Ma nel suo profondo, penso io, piuttosto incredulo. Insomma tra promozione, video patinati e patriottismo da supermarket, la profonda e vera amarezza di quel disco non emerse quasi per nulla. E dire che già da “Born down in a dead man’s town...”, la prima frase, tutto sembrava molto esplicito. Il matrimonio fallito, sarà anche stato un colpo basso che la grande popolarità raggiunta non avrà aiutato a superare velocemente e magari a ricredersi verso un’ industria musicale che da allora non è certo migliorata. Forse già la strampalata concezione del cofanetto “Live 75/85” poteva essere vista come un primo parziale e tremolante passo falso. In definitiva la scelta, stop ai dischi ufficiali. La storia è nota e clamorosa…..fino ad oggi. Visto dal vivo molte volte, non una ho pensato cose diverse dalle seguenti: onesto e generoso. Supportato da una band unica per familiarità e capacità, concepirne una replica è impossibile perfino in laboratorio. Ripensando alla sua scelta, che da molti sarà stata interpretata come: “ Non mi avete capito, sbatto la porta e me ne vado !!!” mi sono venuti pensieri massmediatici un po’ fantasiosi. Che vi esprimo. Il successo mediatico e commerciale di Bruce Springsteen si sviluppa in un contesto storico del mondo occidentale ben chiaro, sul finire degli anni ‘70 e la metà del decennio successivo la guerra fredda torna alla ribalta, la paura del nucleare impera, l’Europa è disseminata di missili sia a est che a ovest. I partiti di sinistra dei paesi occidentali se non al governo sono comunque ben presenti nel dibattito pubblico e rappresentati nei rispettivi parlamenti. C’è una forte critica nei confronti della dipendenza dagli U.S.A., e soprattutto per le loro ingerenze politiche e militari. Anche non riconoscendo quanto la guerra avesse lasciato l’Europa con il culo per terra e a rialzarsi, mettendoci i soldi, ci avevano aiutato loro. Quello che voglio arrivare a dire è che esisteva un terreno molto fertile affinché certi cantori dell’anima americana, o che semplicemente ne raccontassero la vita reale, potessero proliferare ed avere un pubblico che ne recepisse il messaggio anche critico. Un artista in fondo è anche il suo pubblico.

Springsteen, è stato detto e scritto molte volte, ha impersonato l’ “American Way Of Life” ma in pochi hanno sottolineato quanto questo figlio dell’America operaia quel sogno lo abbia spesso raccontato anche nella sua piena amarezza, anche quando gli si è spezzato tra le mani. Perché se i primi due dischi sono “Gioventù, Poesia e Teatro” e i successivi sono “Cinema”, gli ultimi tre fino all’84 sono “Realtà”. La celebre risposta del Boss, alle parole del presidente Reagan, a Pittsburgh prima di eseguire “Johnny 99” non riuscì a spegnere il motore della macchina del patriottismo di maniera con tanto di bandiere al seguito e la vicenda, non a caso, moltiplicò quel cibo marcio su cui sono soliti avventarsi i media e gli avvoltoi. Il successo commerciale dell’album unitamente al tour trionfale che ne seguì e che vedeva un artista e la sua band al massimo della forma, generò un boom mediatico mondiale che andò ben oltre il valore del disco. Eroe o antieroe ? Di certo la bandiera a stelle e strisce sui media di quel tempo non mancava mai vicino a Bruce. Ci siamo intesi ? E così la scelta di Bruce io l’ho letta più come un distacco, un alienazione volontaria, una sospensione, più che uno sbattere la porta. Alla luce di questo nuovo doppio disco la parola “sospensione” evoca tutti i fantasmi delle storie in esso raccontate. Tanti o pochi per un silenzio così lungo ? Giusti e significativi direi, mai banali e capaci attraverso uno sguardo lucido di raccontarci un’America che non rappresenta più niente.


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Capitolo 3

“Bruce Springsteen 1973 - 1985” di Giorgio Ferroni Innanzitutto volevo dire che la chiamata alle armi del direttore Stoto è stato un inaspettato piacere, l'avventura di Wolvernight e stata epica ed appassionante e ha avuto la grande capacità di radunare una comunità ampia di appassionati di musica sul nostro territorio. Quando poi il direttore mi ha chiesto di pensare ad un pezzo su Bruce Springsteen ho accettato con una certa curiosità anche perché sostanzialmente avevo un po' perso di vista il boss da più di trent’anni. Bruce Springsteen è uno di quegli artisti su cui si è scritto e parlato tantissimo e navigando in internet oppure mettendosi a leggere qualcuno dei tantissimi testi disponibili credo si possa affermare senza troppe imprecisioni che la maggior parte dei critici e degli ascoltatori riconoscono che la produzione migliore di Springsteen è quella compresa fra il 1975 e il 1985. In altri termini si parla di “Born To Run”, “Darkness On the Edge of Town”, “The River”, “Nebraska” e “Born In The USA”. Qualche critico come Scaruffi ha un’opinione superiore alla media anche del secondo album “The Wild The Innocent & the E Street Shuffle”. Per quanto riguarda la classifica dei 500 dischi consigliati da Rolling Stone Magazine questa comprende addirittura ben 7 album di Springsteen, tutti scelti in ordine cronologico a partire dal primo, escludendo il live, ed inserend anche il disco d’esordio “Greetings From Asbury Park”. Anch'io sono in linea su questa impostazione generale e concordo sul fatto che la produzione migliore di Springsteen sia appunto quella della fase 75/85. Nella mia personale esperienza il primo disco di Springsteen ascoltato è stato “Born In The Usa” del 1984, ascoltato quello mi sono procurato in vari formati tutta la discografia compreso il famoso quintuplo live “75/85”. A mio parere non è casuale che i discografici della Columbia e Springsteen, in accordo, decidono di far uscire questo live per celebrare le gesta del forse più grande animale da palcoscenico della storia della musica rock, utilizzando le registrazioni live di quel periodo irripetibile. Questo disco era particolarmente atteso dai fans vista la fama del Boss di formidabile interprete, ma non ebbe la capacità di cogliere l’atmosfera dei live e a molti sembrò una semplice operazione commerciale per capitalizzare il successo di “Born in the USA”. Questo disco ha comunque il merito di delimitare la fase classica di Springsteen assieme al suo gruppo storico, la E-Street Band. I primi due dischi sono scarsissimamente rappresentati in quella raccolta e tutto si concentra principalmente sui 4 dischi elettrici del periodo sistemando nella scaletta solo tre brani tratti da “Nebraska”, cosa piuttosto scontata visto che questo LP nell’opera di Bruce è stato un episodio anomalo, intimo ed acustico, comunque difficilmente riproducibile dal vivo tenendone viva l'atmosfera. In seguito la mia passione per Springsteen si ridimensiona drasticamente e per una serie di ragioni, in parte anche casuali, decido di non seguirlo più assiduamente nella sua produzione discografica. Come noto la carriera di Springsteen continua fino ad oggi (sporadicamente mi dicono dalla redazione) e ha senza dubbio avuto qualche slancio interessante, ma senza quel coinvolgimento emotivo che aveva caratterizzato il decennio citato.


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Se restiamo su quello che è lo Springsteen classico, ossia quello fino al 1985, possiamo tranquillamente dire che è un musicista/autore che si colloca decisamente nel solco della profonda tradizione della musica popolare americana del Rock'n'Roll, del Rhythm and Blues, del Folk e in tutto quel l'immaginario musicale di un ragazzo degli Stati Uniti nato nel ‘49 e cresciuto negli anni 5060, ragazzo che in quegli anni unici e forse irripetibili costruisce il proprio immaginario culturale di riferimento. Infatti proprio in quell'epoca troviamo i riferimenti classici della sua estetica che è legata ai grandi valori americani agli spazi infiniti, al mito della frontiera e del self made man. Le sue coordinate musicali di riferimento si possono individuare chiaramente scorrendo l'elenco delle tantissime cover che l'autore ha disseminato nel corso della sua carriera di intrattenitore musicale rock. Lo Springsteen classico cresce e fa riferimento continuo a quel mondo musicale, questo fa di lui un artista fantasticamente e perfettamente fuori dal tempo. Lo Springsteen classico è infatti un musicista assolutamente fuori dalle mode e dalle tendenze musicali; fra il ‘75 e l’85 il mondo della musica rock si rivoluziona: nel 1976 escono i primi dischi dei Pere Ubu e dei Sex Pistols, nel 1980 si pubblicano “Sandinista” dei Clash e “Remain in Light” dei Talking Heads. Nel 1983 esordiscono su disco i Sonic Youth, sempre nel 1983 esce “Kill’em All” dei Metallica; e nei primi anni ottanta si inventa la musica House. Bene, in tutti questi anni Bruce Springsteen resta un perfetto alieno che si muove su coordinate che erano quelle della tradizione musicale americana degli anni ‘50, ‘60 e ‘70. Tutto questo fa di lui un disco volante che attraversa la scena musicale mondiale in perfetta solitudine. Springsteen non verrà ricordato sicuramente come un’musicista innovativo o particolarmente dotato, anzi le sue canzoni si muovono generalmente su strutture armoniche semplici e classiche, ma sicuramente ha lasciato il segno come autore di canzoni ed interprete, attenzione autore di canzoni e non compositore di musica. Springsteen compone canzoni e gli riesce bene solo sfruttando gli strumenti musicali che gli appartengono fin dall’infanzia: i brani di Buddy Holly, di Chuck Berry; Mytch Ryder; Johnny Burnette; The Drifters; The Contours; The Righteous Brothers; la Motown; Woody Gurthie etc, ect...

Sul suo ruolo di autore di testi bisogna fare un piccolo ragionamento, Springsteen all'inizio della carriera veniva definito il nuovo Dylan. È un paragone che oggettivamente non funziona (le motivazioni del Nobel a Dylan sono state “per avere creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana”), Dylan ha messo in campo una poetica propria, personale e potente, Springsteen più che un cantautore è forse un cantastorie, è un’artista che ha avuto l'incredibile capacità di raccontare un immaginario americano che descriveva però un mondo a sua modo storicizzato, Bruce stesso ha dichiarato più volte di parlare di lavoratori pur non avendo mai lavorato un giorno in vita sua. Springsteen ha un incredibile abilità nel raccontare storie e situazioni, anche storie che non appartengono al proprio vissuto, ma ciò nonostante ha un enorme capacità di raccontarle bene, trasmettendo emozioni forti. Questo racconto lo fa con grande semplicità, ma con grande pathos,


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per questo è stato capace di diventare il portavoce di una comunità ampia e popolare ed in questo senso, come dice Scaruffi è stato un populista, inteso come un narratore di vicende in cui la comunità si può riconoscere direttamente e senza intermediazioni. Questa immedesimazione fortissima con il pubblico si manifesta perché Bruce parla di storie che non hanno un intento di creare un momento di riflessione di sintesi o di astrazione, ma vuole raccontare le esperienze comuni della gente comune, non cattura lo zeitgeist (lo spirito del tempo) ma la sua poetica è la narrazione enfatica degli archetipi delle working class americane, soprattutto dei suoi giovani. Springsteen è comunque un divulgatore di buoni sentimenti e di prospettive di redenzione e lo fa anche quando canta gli esclusi dal sogno americano o le sofferenze delle persone normali. Non è uno sregolato anzi afferma che “l’assenza di regole sta alla libertà come la masturbazione sta al sesso”, in questo sta il suo essere “il fratello maggiore saggio” che tutti vorrebbero avere accanto nei moneti difficili e segna la sua lontananza rispetto allo stereotipo del rockettaro trasgressivo e anti sistema. Bruce lancia speranze e non semina odio, anche per questo resta un alieno nei tumultuosi anni settanta, non incita alla rivolta o all’anarchia, ma crede nei valori della comunità a cui appartiene e descrive una terra promessa. Tutto questo ragionamento in parte non vale per “Nebraska” che nella produzione di Springsteen è l’album più personale e anomalo, l’unico scritto e suonato in competa solitudine. Più che un “populist”, che attualmente è un aggettivo che si addice a chi fomenta le istanze della gente comune, mi pare più adeguato considerarlo un “retorico” ed in questo mi sembra molto adeguata la definizione di Stefano Isidoro Bianchi, che, di fatto, definisce Springsteen un musicista che mette in musica dei proverbi e si sa che i proverbi sono generalmente dei concetti condivisi che possono andare bene in gran parte delle occasioni (qualcuno li chiama anche luoghi comuni dipende dall’accezione che si intende darne). È un buon esempio di come a volte la forma è altrettanto importante della sostanza, perché se è vero che Springsteen accarezza i luoghi comuni lo fa con la capacità di creare un’enfasi e un coinvolgimento emotivo di altissimo livello. Volendo mettere in campo una metafora un po’ sarcastica possiamo dire che Vittorio Gassman aveva una grande interpretazione anche quando leggeva le ricette di cucina, perché era un grandissimo attore. Fatta questa introduzione generale sullo Springsteen classico bisogna cominciare a parlare un po' più nel dettaglio di dischi e di canzoni, perché comunque il ruolo di questi articoli dovrebbe essere anche quello di suggerire un percorso a chi voglia avvicinarsi all'ascolto di un artista. Cominciamo a dire che se un ascoltatore si ritiene appassionato di rock qualche disco di Springsteen comunque va ascoltato/acquistato, perché (almeno negli anni ottanta) è stato un vero e proprio fenomeno sociale, è stato un musicista che ha riempito le arene di mezzo mondo, ha venduto tanti dischi e soprattutto ha fatto delle belle canzoni. Dello Springsteen classico ribadisco l’importanza dell'ascolto di “Born To Run”, “Darkness in the Edge of Town”, “The River”, “Nebraska” e “Born in the USA”. I primi due dischi, “Greetings from Asbury Park” e “The Wild , The Innocent & The E-Street Shuffle”, non sono particolarmente riusciti anche per via della produzione non eccelsa, tanto è vero che la Columbia visto il loro scarso risultato commerciale valutò anche l'ipotesi di risolvere il contratto con Springsteen. I due dischi contengono comunque dei brani che vale sicuramente la pena di ascoltare come “Blinded By The Light” e “It's Hard To Be A Saint In The City”, pubblicate in “Greetings”; “Rosalita” e “New York City Serenade” pub


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blicate nel secondo. Quello che dopo lo scarso risultato dei due dischi di esordio ha impedito la fine prematura della carriera di Springsteen è stata senza dubbio la sua attività live, che continuava coinvolgere entusiasticamente un numero sempre crescente di spettatori. Il punto di svolta nella carriera di Springsteen è sicuramente l'incontro con il critico Jon Landau, quello che in una recensione scrisse la famosa frase: “Ho visto il futuro del rock n' roll e il suo nome è Bruce Springsteen”. Landau viene inserito come collaboratore alla produzione in “Born to Run”, ossia di quello che, registrato Fra il 74 è il 75, e pubblicato nel 1975 diventerà l'album della svolta e dell'affermazione definitiva del Boss sul mercato statunitense. È un LP che ha avuto un importante lavoro di produzione, in questo caso il tocco di classe la CBS lo fa mettendo a disposizione i fratelli Brecker, famosi jazzisti. Randy suona la tromba nella struggente “Meeting Across the River” e assieme al fratello Micheal al sax dà un groove soul al brano “Tenth Avenue Freeze-Out”. Il titolo dell'album prende il nome dall'omonimo brano che Springsteen eseguiva live già nel 1974, è una canzone che è la vera pietra miliare della carriera di Springsteen, anche la sua autobiografia ha lo stesso titolo a rimarcare come “Born to Run” è l'archetipo del suono classico di Springsteen e della sua narrazione. Bruce nella sua biografia ha dichiarato esplicitamente di essersi ispirato per la sua scrittura e la sua interpretazione a Roy Orbison, Phil Spector e Duane Eddy. Nell’interpretazione vocale si è rifatto a quella di Roy Orbison e per il suono delle chitarre ha usato lo stile di Duane Eddy. Nel 1974 Springsteen era affascinato dal “Wall of Sound” di Phil Spector, ossia dall’uso massiccio di fiati e archi per creare un muro di suono (Spector amava definire il suo lavoro "un approccio wagneriano al rock & roll: piccole sinfonie per i bambini”). Nella produzione di “Born to Run” cerca di ottenere lo stesso suono impetuoso attraverso un organico meno orchestrale, ma comunque corposo, con sax, tastiere e chitarra elettrica. Anche il riff di chitarra che introduce e sostiene il pezzo è più orchestrale che chitarristico. Il testo racconta di due ragazzi che cercano il sogno americano, la loro speranza è quella di avere una nuova automobile che li possa portare verso la realizzazione del sogno, realizzazione che sentono come un loro diritto e che loro sono sicuri di poter raggiungere. Nel finale della strofa il protagonista che esegue la narrazione si rivolge alla ragazza dicendogli che vagabondi come loro sono nati per correre (“Tramps like us, baby we were Born to Run). Questa immagine del percorso di redenzione e della strada che conduce al riscatto ritorna in altri brani di Springsteen ed è una delle immagini più diffuse nell'immaginario degli ascoltatori del Boss. Il tema del viaggio verso la terra promessa lo troviamo anche in “Thunder Road” (sempre su Born to Run) e anche nell’esplicito brano “The Promised Land” pubblicato nel disco del 1978 “Darkness On The Edge of Town”. In “Born To Run” c’è anche da ricordare anche i nove minuti di “Jungleland” che chiudono l’album, album che nel 2003 è stato inserito alla posizione 18 nella lista dei 500 migliori album di tutti i tempi della rivista Rolling Stone. Nel secondo album della discografia classiica, Springsteen decide di raccontare delle storie che descrivono le esperienze della sua infanzia e per questo vuole un suono più scarno e cupo, perché i temi che vuole raccontare lo esigono, ci sarà meno pianoforte e più chitarre elettriche. Il titolo è un programma, cantare il lato oscuro che sta ai margini della città. Anche “Darkness” è un disco che funziona molto bene ed ingiustamente sottovalutato rispetto al predecessore. Nelle sue dieci tracce ci sono alcuni pezzi che riprendono un'altra delle tematiche caratterizzanti la narrativa springsteeniana ossia il mondo della Working Class. Il primo brano che viene in mente è ovviamente “Factory” dove si racconta la storia di un uomo che fin dal mattino sente il fischio della fabbrica e attraversando una città dolorosa si porta verso i cancelli di una fabbrica in cui vede entrare anche il padre, in quel momento capisce che la sua vita inizierà e finirà in quella fabbrica. Anche l'inizio di “Prove it All Night” è un chiarissimo richiamo alla vita di una persona che lavora duramente cercando di restare pulito, ma aspetta la notte per poter guidare su una strada polverosa assieme al alla sua fidanzata. Una delle caratteristiche di questo viaggio Springsteeniano di riscatto individuale è che


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è strettamente legato all’immaginario del viaggio reale e agli strumenti reali del viaggio dell’immaginario comune americano: l’autostrada e l’automobile. La rappresentazione dell’automobile è una delle immagini forti derivata dalla cultura in cui Bruce è cresciuto, le auto degli anni 50 sono un’icona degli anni del benessere e rappresentano l’emancipazione giovanile e la libertà sessuale. Nel brano di “Darkness” “Racing in the street” il testo inizia proprio con la descrizione che il protagonista fa della sua automobile (Una Chevy del 1969 con testata 369, con moquette Hurst sul pianale), questa strofa oltre a confermare l’importanza per Springsteen dell’immaginario classico statunitense, è anche un perfetto esempio di un gancio con cui catturare l’immaginazione dell’ascoltatore. Una delle chiavi fondamentali della musica pop è l’immedesimazione. La musica popolare funziona solo se è capace di creare una identificazione fra artista e ascoltatore. Se canto di esperienze condivise sono già a buon punto, se poi canto di esperienze condivise con una buona interpretazione faccio centro. L’immedesimazione è un legame profondo e bidirezionale fra artista e pubblico e nessun cantante o artista riuscirà mai a coinvolgere profondamente il pubblico senza che lui stesso sia coinvolto emotivamente nella sua interpretazione. Questo è il punto di forza di Springsteen, non è un cerebrale, non ha studiato canto o composizione, è un artista di pancia, di istinto (in questo senso si giustifica il termine “populista”) e le sue interpretazioni sono passionali e sincere (parlo sempre dello Springsteen classico quello moderno e post moderno ha probabilmente perso quella schiettezza e di conseguenza la sua centralità sentimentale con gli ascoltatori); questo suo coinvolgimento e questa sua schiettezza si percepiscono e le sue canzoni funzionano anche quando parlano di proverbi popolari, oppure quando raccontano del rapporto fra un ragazzo e la sua automobile, automobile che è lo strumento con cui può restare da solo con la sua ragazza dopo il lavoro

e al tempo stesso quell’automobile diventa un elemento di riconoscibilità di tutta una comunità. Nel 1980 dopo una grande trionfale stagione di concerti live che hanno consegnato Springsteen nella leggenda, pubblica un doppio album “The River” con una marea di canzoni. Bruce voleva che il disco parlasse di amore, famiglia e matrimonio e voleva un suono che si avvicinasse maggiormente a quello dei suoi live. Per fare questo inserisce come produttore il chitarrista della EStreet Band Steve Van Zandt (probabilmente non è stata una scelta molto azzeccata). La mia canzone preferita è quella che apre il secondo disco che “Point Blank” (A bruciapelo), per inciso una delle poche ad uscire dalla logica della ritmica un po’ troppo quadrata che caratterizza gran parte dei brani. Da ricordare anche l’omonima “The River” che canta di un matrimonio riparatore ed è stata ispirata dall’ascolto di “My Bucket’s Got A Hole in It” di Hank Williams. Bella anche “Hungry Hearts” che era stata scritta originariamente per essere interpretata dai Ramones. Altri brani notevoli sono l’iniziale “The Ties That Bind”, ”Two Hearts”, le grintose “Cadillac Ranch”, “Out In The Street” e “Ramrod; oltre ai lenti introspettivi “Independence Day” e “Stolen Car”. Qualche canzone è invece più debole e non particolarmente riuscita come “Crush On you”, “You Can Look But You Better Not Touch”; “I Wanna Marry You”; “I'm A Rocker”. Una curiosità: nelle note di copertina si legge che le canzoni sono state divise per ragioni di copyright fra quelle scrit


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te nel 1979 e quelle del 1980, le mie preferite sono principalmente quelle del 1979, forse era già un segnale... Nel 1982 poi c'è l'anomalia di “Nebraska” che è un disco composto suonato in completo isolamento con chitarra acustica, armonica e voce. La formazione classica con cui Springsteen si esibisce dal vivo e con cui registra è un gruppo con lui che suona la chitarra, un secondo chitarrista, organo, pianoforte, sezione ritmica, sassofono e percussioni. Quindi un gruppo con un suono potente e vigoroso molto quadrato che si sente soprattutto in “The River” e poi in “Born In The USA”. il suono e l'atmosfera di Nebraska sono decisamente peculiari e quindi non sono così rappresentativi dello Springsteen classico, ma sicuramente questo è un disco che ha fatto parlare e continua a far discutere dopo più di trentacinque anni. È molto apprezzato da alcuni, meno da altri, ma vista la forma musicale questo attiene molto alla sensibilità di ogni ascoltatore ed in questo caso i testi e l'atmosfera fanno la differenza. Bruce dichiara nella sua biografia: “Nebraska nacque come meditazione inconsapevole sulla mia infanzia e i suoi misteri. Non ero politicamente o socialmente impegnato, cercavo un’atmosfera, un tono che riflettesse il mondo che avevo conosciuto e ancora portavo dentro, un mondo i cui resti erano ancora a dieci minuti e dieci chilometri da dove abitavo.” Con riferimento al suo mondo cita Dylan, Woody Guthrie, Hank Williams, Flannery O’Connor, James M. Cain, Terrence Malick… È un disco cupo, un disco scuro fin dalla copertina dove compare un paesaggio desolato e dove contrariamente a tutti i dischi precedenti (escluso l’esordio) non compare la faccia di Springsteen che negli anni è indubbiamente diventata un’icona americana.

Nell'84 la musica cambia letteralmente perché Bruce pubblica “Born in the USA”, che sarà l'album della sua consacrazione definitiva anche fuori dagli Stati Uniti. Springsteen diventa un idolo mondiale con copertine su tutti i giornali del mondo compresa “Famiglia Cristiana” in Italia. Il disco è aperto dal brano omonimo che è stato ispirato a Springsteen dalla lettura di una sceneggiatura cinematografica di Paul Schrader, già sceneggiatore del film “Taxi Driver”, ed è la storia di un reduce del Vietnam. È stato un testo in parte frainteso e inserito erroneamente in un contesto di esaltazione reaganiana del ruolo mondiale degli Stati Uniti. Tanto per inquadrare il periodo l’amministrazione Reagan stava sviluppando un progetto di difesa strategica che alzò moltissimo la tensione fra USA e URSS, nel 1983 gli USA invasero Grenada e si opposero alle sanzioni contro l'Apartheid in Sudafrica. Reagan nella campagna elettorale del 1984 ringraziò pubblicamente Springsteen per il messaggio di speranza veicolato dalle sue canzoni (per inciso Bruce non ne fu per nulla contento) e la cosa contribuì al fraintendimento sulle sue intenzioni espressive.


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(Sempre con riferimento al ruolo di cantastorie, faccio notare che la guerra nel Vietnam era finita nel 1975 e che per chi avesse voluto fare della canzone sociale e politica nel 1984 c’era molta carne al fuoco, ma Bruce difficilmente canta i suoi tempi). Born in The USA è un disco di nuovo molto rock e molto quadrato che ha delle belle canzoni un pochino più disimpegnate e danzerecce come “Dancing in the Dark” (la sua canzone più ascoltata su Spotify e anche una delle mie preferite di sempre) e “Glory Days”; ma anche introspettive e slow come “I'm On Fire” e “Downbound Train”. La critica non lo giudica benissimo, anche per via del brano omonimo che oggettivamente è un pezzo musicalmente non particolarmente riuscito per una certa magniloquenza e per l’uso di una batteria un po' troppo pestata e un po' troppo in evidenza ed un riff di sintetizzatore non eccezionale. È un disco con meno slancio emotivo di quelli precedenti, ma non è un brutto disco, anzi dopo tutti questi anni si lascia ancora ascoltare con piacere, è comunque ancora il suo disco più ascoltato ed ha venduto circa trenta milioni di copie (non significa nulla e non è mai una regola, ma per vendere un prodotto un po’ di qualità serve sempre). Come già citato, chiude il periodo d’oro di Bruce il celeberrimo quintuplo LP “Live 75/85” che era un disco attesissimo che però non ha soddisfatto né la critica né gli ascoltatori. In parte perché le attese erano troppo grandi, tutti quelli che hanno avuto la fortuna di avere un concerto di Springsteen speravano erroneamente che un disco potesse riprodurre quella sensazione, ma questo era sostanzialmente impossibile. Quindi resta un disco che ha lasciato un po' l'amaro in bocca a tutti i fans che però ha il merito di essere una bella raccolta di brani importanti di Springsteen dal vivo e fornisce ai fans le sue interpretazioni di due stupendi brani che aveva ceduto ad altri cantanti: “Because the Night” e “Fire”. Questo quintuplo vinile chiude la fase che a me piace definire dello Springsteen classico e sicuramente fotografa un decennio fondamentale per un musicista importante che ovviamente non dovrebbe mancare in nessuna discografia. Se ci pensiamo volendo essere un pochino critici e cinici possiamo affermare che per un artista che sulla scena da più di 45 anni, che ha avuto ben 11 album al primo posto della classifica delle vendite negli Stati Uniti, vendendo complessivamente circa 120 milioni di dischi, 5 dischi imperdibili/importanti sono abbastanza pochini, ma questo non toglie nulla all'importanza al valore di quei dischi. Se poi vogliamo andare al risparmio e da cinque vogliamo passare a due sceglierei senza problemi “Born to Run” e Darkness” e se potessi comprarne solo uno comprerei il primo dei due.

Alla fine di questo piccolo lavoro di riordino sul Boss devo dire che ho riscoperto con piacere una persona che fa musica con onestà e con sincera passione, una persona che al “giovane me” ha dato tante sensazioni di comunanza e di conforto e volutamente parlo della persona prima che dell’artista. Non ho certo la presunzione di affermare che conosco Bruce, ma nell’immaginario che è ispirato dalle sue canzoni si percepisce una bella persona. Non sarà il musicista più raffinato del mondo, non è il nuovo Dylan, probabilmente non fa un disco di alto livello da molti anni, ma persone come lui che hanno il coraggio di dire delle parole buone in un mondo di rancore che sembra avere dimenticato i valori della comunità sono pepite rare e il suo lavoro è da conservare con cura e amore. Se fare arte è comunicare sensazioni allora sicuramente Bruce è un grandissimo artista che rappresenta quel sogno di una America grande e generosa di cui tutti noi avremmo ancora disperatamente bisogno in questi anni bui.


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Capitolo 4

“Bruce Springsteen - Space And Time:American Songbook” (Columbia/Sony, 2019, tr. 12 - 46:35, tr. 11 - 49:23) di Alberto Nobili

Si rimane sbalorditi e increduli (come se non fosse vero) nell’ascoltare questo doppio disco del Boss che piomba, dalle puntine del 1984 ai nostri “device” del 2019, ben 35 anni dopo la sua ultima incisione ufficiale di pezzi propri sulla lunga distanza. 35 anni di (grandi) prestazione live sui palchi di tutto il mondo, con o senza la E Sreet Band, con l’ultima esperienza a teatro sulle assi di Broadway, ma solo una manciata di canzoni pubblicate per colonne sonore (di cui quattro presenti in questo clamoroso ritorno), ed il solo - buon - progetto delle “Seeger Sessions” a lasciare traccia tra la discografia del Boss (con brani tradizionali resi famosi da Pete Seeger o canzoni scritte dallo stesso Seeger). Certo lui non hai mai nascosto di aver sempre frequentato gli studi d’incisione in questi anni ma solo in una frase, in un’intervista a Rolling Stones del 2011, tentava di spiegare o giustificare il perché della scelta di non pubblicare quasi nulla (“devo essere sempre sicuro di dare il meglio “). 23 pezzi con le incisioni originali, presenti in ordine cronologico, dal 1987 sino ad oggi come, appunto, un percorso nel tempo e nello spazio per un libro di canzoni americane. Ovviamente se è inutile spendere parole sui quattro pezzi già editi e conosciuti dai fan (la bellissima “Streets Of Philadelphia” - Oscar nel 1993, “Missing” e “Dead man Walking” per i film di Sean Penn e “The Wrestler” premio Golden Globe nel 2008), parto dalla mia favorita, “Just Like Fire Would” : un pezzo molto divertente, potente, armonioso, quasi perfetto con la sua sezione fiati a colorare il tutto. Però è una cover (un pezzo degli anni ’80 degli australiani The Saints). Insomma... in maniera diretta, cruda e sincera: non ci sono le nuove “Thunder Road”, “Racing in the Street” o “Atlantic City”. Quell’epica e quel livello compositivo straripante è racchiuso in quella manciata di cinque album che, dal 1975 al 1984, ha reso Springsteen un icona del rock’r’roll mondiale. Prendete le ottime “The Ghost of Tom Joad “ e “Youngstown” (1994), brani che nei testi e nelle esecuzioni, per chitarra e voce e poco più, ripercorrono il solco della narrazione desolata che arriva da “Nebraska”. Pezzi ineccepibili e convincenti (con “The Ghost of Tom Joad” già conosciuta nella versione hard rock dei Rage Against The Machine), ma che non hanno quella cruda incisività, che scava nell’anima e nelle viscere, del suo illustre predecessore. O il trittico iniziale con “Spare Parts”, “Brillant Disguise” e “Tunnel of Love” (registrati nel 1987 nello studio casalingo di Springsteen chiamato Thrill Hill East con alcuni membri della E Street Band): “Spare Parts” è tirata, convincente e a tratti feroce mentre “Brillant Disguise” e “Tunnel Love” sono due belle ballate con la seconda, che si fa preferire nettamente, con un suono caldo, avvolgente e anche coraggioso rispetto alle coordinate classiche di Springsteen; il livello complessivo segnala ottime canzoni non capolavori. Forse è un errore giudicare questa manciata di pezzi con la testa rivolta al passato, a quel passato glorioso e fantastico, con paragoni che poco ha senso fare: quello che ci troverete in questo disco sono una manciata di onesti, brillanti, quasi mai


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scontati pezzi di ottimo rock. Non di più. E questo ci può bastare, me lo faccio bastare, perché la “meglio gioventù” nel rock ha schemi ben precisi, con periodi di genio creativo e compositivo che per il Boss sono scolpiti tra il 1975 e l’84. Poi ognuno di voi si faccia la personale classifica di ciò che lo convince di più: io oltre alla cover dei Saints ci metto “Leap of Faith”, “Radio Nowhere”, “We Take Care of Our Own”, “Wrecking Ball” (bellissima), “Land of Hope and Dreams”, “The Rising” (emozionante nel suo ricordo dell’11 settembre), con il tratto distintivo comune di essere ballate elettriche potenti, intense, emozionanti, contagiose, entusiasmanti e senza tempo. Si scrive, si mormora, si sussurra che in realtà le incisioni siano centinaia, addirittura per almeno 12 dischi. Non so se sia vero, ma se considerate che nello spettacolo di Broadway furono presentati sei inediti, fra questi, solo tre sono presenti nel nuovo disco. Essendo “The Wish”, “Tougher Than The Rest” e “Long Time Comin’ ” dei pezzi che non mi sono proprio sembrati trascendentali, il rischio di non aggiungere nulla a quella storia straordinaria esiste. Io mi accontento di questo doppio.“ E’ difficile essere un santo in città”, ma è maledettamente più difficile restarlo per sempre.

Ci vuole un atto di fede, per tirare avanti ci vuole un atto di fede, per mostrare il tuo coraggio ci vuole un atto di fede, per tirare avanti devi aver fiducia nel tuo cuore (Leap of Faith)

Tracklist CD 1 Spare Parts Brilliant Disguise Tunnel Of Love Leap Of Faith Streets Of Philadelphia 57 Channels (and nothin’ on) Blood Brothers (alternate version) Further on (up the road) Radio Nowhere Just Like Fire Would (Chris J. Bailey) The Ghost Of Tom Joad Youngstown

Tracklist CD 2 American Skin (41 shots) Dead Man Walkin’ We Take Care of Our Own Wrecking Ball Jesus Was An Only Son Land Of Hope And Dreams The Rising The Wrestler Matamoros Banks Missing Somewhere North Of Nashville

BRUCE SPRINGSTEEN SPACE AND TIME: AMERICAN SONGBOOK Il disco è disponibile in tutti i formati doppio cd e cassetta, quadruplo vinile e sulle piattaforme musicali più conosciute. Fra queste, vi diamo l’indirizzo ufficiale di una. Buon ascolto. https://www.deezer.com/it/playlist/6165212144


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Capitolo 5

“Chiamatemi Ismaele...” di Angelo Monte in collaborazione con Roberta Ardoino

“Chiamatemi Ismaele…” Fin dalla prima volta che ho visto Bruce Springsteen dal vivo alcuni anni fa, non importa esattamente quanti, e per i successivi 9 concerti, ho sempre pensato a queste due parole..."Chiamatemi Ismaele...". Quando Bruce sale sul palco con la E Street Band, ultimo di una processione rock, quando fa partire l'adrenalina iniziando il concerto con one two three...mi torna alla mente uno dei più famosi incipit letterari di una delle opere tra le più importanti della storia della letteratura, “Moby Dick” di Herman Melville, che trova nei concerti di Bruce la sua simbiosi, perché cos'è un concerto del Boss se non una coinvolgente narrazione che inizia con un incipit strepitoso che ti porta ad un viaggio di parole, musica, emozioni, lungo tre ore e più ? Non posso definirmi uno Springsteeniano come molti dei miei amici con cui ho assistito ai suoi concerti, non ho mai visto un live nel famoso pit riservato ad una cerchia ristretta e tenace di fan, non conosco le sue canzoni a memoria, conosco e ho ascoltato negli anni tutte le sue opere ma non possiedo tutti i suoi cd o lp. Se parliamo del cantante preferito, quello che mi ha traghettato


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nell'età adulta, il mio è Bob Dylan, l'ho visto in concerto 13 volte e con la sua musica, con le sue parole, ha aperto la mia mente...ma Bruce Springsteen, lui ha aperto il mio cuore e dato voce alla mia anima, facendomi provare durante i suoi concerti EMOZIONI UNICHE a partire dalla prima volta nel 1988 a Torino durante "Human Rights Tour" di Amnesty International, fino all'ultimo, indimenticabile, straordinario, nel 2016 a Roma al Circo Massimo. I concerti di Bruce sono stati soprattutto situazioni di grande sentimento con le persone con cui li ho visti, persone a cui voglio bene e con cui ho spesso condiviso forti emozioni. Nel 1988 ho visto piangere Maci appoggiato alle balaustre del Comunale di Torino durante “My Hometown” e, 36 anni dopo, lui ha visto piangere me al Circo Massimo sulle note di “Thunder road”. Ho visto Bruce con la mia famiglia, mia moglie, le mie tre figlie, perché quando conosci l'esplosione di stupende sensazioni, emozioni ed energia che accadrà su quel palco e tutt'intorno, non puoi fare a meno di farla vivere anche alle persone che ami di più. Anche le "perturbazioni meteorologiche" durante i concerti di Bruce si trasformano in momenti di gioia ed entusiastica euforia, come nella caldissima estate del 2003 a S.Siro, quando Springsteen uscì da solo sul palco sotto un diluvio epocale a cantare “Who’ll Stop The Rain ?” dei Creedence...esaltante !!! Ma soprattutto in questi anni ho visto, e spero ancora di vedere, un uomo, un cantante, uno scrittore salire sul palco e raccontare una storia, la sua storia lunga quasi quarant'anni che in un certo senso è anche la nostra, perché insieme a lui e alle sue canzoni, ognuno di noi ha creato il proprio personale racconto. In questi quarant'anni da ragazzi che eravamo siamo diventati adulti tra gioie, lacrime, paure, coraggio, follia e musica, tanta musica, ognuno inseguendo la propria "Balena bianca" navigando nel mare della vita ogni giorno, a volte nel mare in bonaccia, altre in tempesta ma sempre cercando il vento migliore, fieri sulla propria nave per poter approdare ancora in un porto sicuro, in quella terra promessa dove risuonino le note di una canzone di Bruce e all'urlo del suo one two three... il tempo svanisce e rimane solo la gioia di esserci.


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Capitolo 6

“This Hard Land” di Michele Anelli Scrivo queste righe nel giorno del mio 55° compleanno. Dal 1980 Springsteen è una costante. Avevo 16 anni. Settembre è sempre stato un mese di ricorrenze e ricordi: dalla nascita di Otis Redding al mio matrimonio (1989), quel giorno gli altri Stolen Cars, io ero leggermente impegnato con la mia Jersey Girl, intonarono I Wanna Marry You. Nello stesso anno, il giorno successivo, vi fu l’esordio sul palco con i Groovers e, oltre ad altre innumerevoli ricorrenze, c’è anche il compleanno di Bruce (che corrisponde al giorno nel quale mi sono sposato e, questa, non è una coincidenza). Tra tutte queste date e ricorrenze c’è anche quella del 19 settembre 1978, sono passati 41 anni dal leggendario concerto al Capitol Theatre di Passiac NJ, durante il tour di “Darkness On The Edge Of Town”. Quella sera Bruce Springsteen & the E Street Band furono immortalati in uno dei più famosi bootleg di sempre intitolato Piece De Resistence, ne posseggo una ristampa in vinile. Un concerto leggendario per scaletta, energia, sudore e rock’n’roll. Un concerto che, appena sarà pronta la macchina del tempo, andrò a vedere. Ma, come scrive Jennifer Egan, il tempo è un bastardo. E quel tempo, per ora, ce lo possiamo solo “ascoltare”. Un concerto che ora è disponibile a tutti, prelevabile ufficialmente dal sito di Bruce (cosa state aspettando?), ripulito, mixato e masterizzato e pronto da essere sparato a tutto volume che è quello che stavo facendo durante il viaggio in auto quando ho ricevuto il messaggio di Macy che voleva parlarmi di qualcosa di speciale. Bruce, Maci, Wolvernight, settembre, Kitty’s back (il brano che stava scaldando la notte nel momento in cui ho ricevuto il messaggio), il mondo può attendere. Da sempre mi porto sulle spalle il luogo comune della mia dedizione springsteeniana, ma non ci faccio più caso da anni. Diavolo! in fondo ascolto anche altro, tipo Little Steven, Southside Johnny, Gary US Bonds…. ahahahaha (scusate la risata ma volevo imitare uno dei più noti giornalisti del settore) e altri 7000 titoli sparsi tra vinile (in netta maggioranza), cd e cassette: soul, punk, garage, rock’n’roll, funky soul, folk ecc. (no, niente musica balcanica) la colonna sonora della mia vita. Nel 1980 comprai, da un

amico meinese, due album: “The River” e “London Calling”. Bruce e i Clash. Per me furono come Elvis negli anni cinquanta. Due doppi che spazzarono via le incertezze di un adolescente che guardava al mondo adulto con sospetto. Tutto questo preambolo per rispondere a una delle più complicate e difficili domande alla quale non mi posso sottrarre: ha ancora senso ascoltare Bruce Springsteen? Sì.


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Come autore di canzoni in oltre trent’anni di pubblicazioni musicali non ho mai ripetuto un disco uguale. Capisco Bruce. Mettersi in gioco e scegliere è stata una sua costante. Anche a costo di sbagliare o di non centrare il bersaglio. Il mio podio è, nell’ordine, “Darkness On The Edge Of Town”, “Nebraska”, “The River”. Quasi ad ogni uscita da “Born in the USA”, in poi, pregavo il cielo nella speranza di avere tra le mani, nelle orecchie, nel cuore e nell’anima un altro “Darkness”. Non è mai capitato. Ed è giusto così. Ogni volta ho cercato di cogliere il bello, l’essenza, l’energia contenuta negli album pubblicati dal 1985 in poi. Anche i primi tre lavori degli anni settanta sono irraggiungibili, ma per tematiche, suoni ed età, quei tre dischi da podio sono le fondamenta del mio credo musicale, attraverso le quali ho scoperto un mondo musicale infinito. Born in the USA: l’ho ballato e sudato e consumato e dovuto ricomprare il vinile perché “Downbound Train” saltava. Le tematiche della title-track e quella batteria di Mighty Max (ricordo ancora nel torace il colpo di cassa iniziale di San Siro 1985), l’emotività di “No Surrender” e “Bobby Jean”, il sesso di I’m on fire, il soul di Downbound train e il testo, sì il testo è memorabile, di “Dancing In The Dark”. Alcuni brani come “I’m Going Down” o le divertenti “Darlington County” e “Working On The Highway” potevano essere tranquillamente delle bsides (uscivano ancora tanti 45 giri) adatte per i live, anche perché quando hai scritto “Cadillac Ranch”, “Hungry Heart” o “Ramrod” sei a posto per parecchio tempo, soprattutto poi quando scopri, dai bootleg prima, dai cofanetti poi, le canzoni che sono state tenute fuori dal disco. “My Hometown” è stata spesso nelle scalette dei Groovers. E poi Glory Days, brano che ci accompagna ogni qualvolta ci troviamo “seduti a parlare dei vecchi tempi”. I live, rispetto a quelli del decennio precedente, diventato più quadrati, poche sbavature, una macchina pressoché perfetta nei dettagli. Non senti più accordare durante il set o strimpellare due note tra un brano e l’altro. Muscoli e rock’n’roll hanno sostituito il binomio precedente che era sesso e rock’n’roll. Tunnel of love: intimo, volutamente lontano dalle scorribande r’n’r del precedente e per questo ammirevole. Bruce ha scelto. Era in cima e, come tanti altri, poteva replicare il suono da un milione di dollari, e invece ha cambiato e bisogna dargli merito. Nel disco scorrono ottimi brani come “Tunnel Of Love”, “Tougher Than the Rest”, “One Step Up” e, su tutte, “Spare Parts”, la cui versione live mi è sempre piaciuta moltissimo. Recentemente ho avuto modo di ascoltare tutto l’album live, tratto da vari concerti, ed è stata una bellissima sensazione riscoprire quelle canzoni suonate tutte in modo differente, praticamente unplugged. E comunque, nel tour di TOL (a Torino) ha suonato “Have Love Will Travel” dei Sonics che il sottoscritto, proprio in quegli anni, pestava sulle corde del basso con gli Stolen Cars. Il palco ripulito dagli amplificatori e dai cavi continuava nella direzione dei dettagli perfetti, forse troppo ma, ribadisco, Bruce continua a scegliere e a cercare percorsi nuovi. E questo è sempre importante. Human touch/Lucky Town: il primo non l’ho mai digerito. Suono californiano, plasticato, inutilmente lungo. Alcuni brani suonati in un set acustico uscito prima della pubblicazione ufficiale ci raccontavano di una “Soul Driver” da paura,


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ma anche “Real World” non era da meno. Di “Human Touch” (la titletrack è ricalcata su un vecchio brano minore di musica soul) salvo “57 Channels”, “With Every Wish”, “I Wish I Were Blind” e “The Long Goodbye”. Probabile che Bruce stesso non fosse soddisfatto pienamente perché contestualmente pubblicò “Lucky Town”, musicalmente diverso da “HT”, a tratti graffiante, a tratti soul, mi piace tutto l’album. Adoro il suono e l’ironia di “Local Hero”, la voce tirata in “Better Days”, la dolcezza di “My Beatiful Reward” e “If I Fall I Should Behind”. Ma ogni brano è piacevole e ancora oggi lo ascolto tutto volentieri. Dal vivo, anche questa è una scelta coraggiosa, si fece accompagnare da una buona compagine di musicisti, ma non erano la E Street Band che, come per gli Heartbreakers di Tom Petty, rimaneva ineguagliabile.

The Ghost Of Tom Joad: Presentarsi spoglio sul palco, vestito sobriamente, chiedendo al pubblico di non applaudire e urlare continuamente, è stata l’ennesima scelta. La riprova che, oltre al disco, c’è qualcosa in più che ogni volta contraddistingue il suo mondo musicale. Fermarsi all’ascolto del disco non basta, si deve incontrare Bruce nei particolari delle canzoni per percepire fino in fondo i contenuti espressi da un album nello stesso tempo duro e delicato. Anni prima, nel 1985, Robert Ward diede alle stampe “Io sono Red Baker”. Vi invito a recuperarlo (in Italia le prime stampe tradotte sono del 2014). Un libro che è Springsteen fino al midollo, dove si trovano le tematiche del lavoro (da “Factory” in poi), del rapporto tra persone (“The River”, “Downbound Train), amicizia (“Bobby Jean”) e con un finale, in questo caso in anticipo di dieci anni, che richiama le tematiche di alcuni brani presenti in “TGOTJ”. Per inciso, quel libro l’ho adorato, ho cercato altri lavori di Ward ma, come per “Darkness”, non ho trovato la stessa emozione che mi ha dato “Io sono Red Baker”. Anche per questo disco vale il discorso della scelta, cambiare sound, cercare un altro mood per raccontare storie come se fossero piccoli film. Tematiche che pescano dal passato e diventano il modo per raccontare il presente e avvisarci sul futuro. Portando alla luce la netta spaccatura sociale che si sta verificando da tempo. Non poteva essere un altro “Nebraska”, ormai ci siamo capiti. Il valore di certi album sta nella loro unicità. E va bene così. Di questo album ricordo un aneddoto che ho letto da qualche parte: gli operai di Youngstown furono riconoscenti a Bruce per aver parlato di loro facendogli però notare che era una ballad mentre loro “ardevano” di rock’n’roll. In scaletta, con la E Street Band, il brano diventò super power. The Rising: con questo album ritornano gli E Streeters e inizia il periodo con la produzione di Brendan O'Brien che, a parte “Devils & Dust”, non ho mai amato molto. Sia i suoni che gli arrangiamenti non sono tra i miei preferiti. L’album ha un sound diverso da sempre e contiene alcune scelte coraggiose come “Paradise”, con il punto di vista anche di un(a) kamikaze o il coro pakistano in “Worlds apart”. Coraggiose perché fatte dopo il tragico 11 settembre,


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non quello cileno, ma quello statunitense. In generale l’ho trovato eccessivamente lungo, oltre settanta minuti, e un po’ contraddittorio nella scelta dei brani, come se esistessero due anime nello stesso album. Forse la voglia di tornare a macinare musica con la band di sempre (“Further (Up On The Road), “Mary’s Place”), insieme alla richiesta pervenutagli in un parcheggio dopo la caduta delle Torri gemelle (“Abbiamo bisogno di te!”) ha fatto scattare un fervore artistico che un produttore avrebbe dovuto e potuto incanalare meglio. Devils & Dust: passano tre anni e nuovo album solista. Diversamente da “TGOTJ” il live è più sporco, usa effetti, canta “Dream Baby Dream” dei Suicide, voci distorte, acustiche percussive, utilizza l’Armonium crea, in generale, un nuovo modo (l’ennesimo) per raccontare il disagio sociale che assorbe e traduce in canzoni. Di nuovo, ma diversamente coraggiosa, anche questa scelta dal vivo e piacevole, nelle sue sfumature, l’ascolto del disco. Antigovernativo nei contenuti (era il periodo di Bush figlio), erotico in alcuni passaggi, pronto a dare voce a chi voce non ne ha. Sulle “Seeger sessions”, così come sui cofanetti, le antologie, gli EP e i live soprassiedo. Dico solo che “We Shall Overcome” è l’ennesima prova di come una rockstar come Bruce sceglie da che parte stare. Pete Seeger e Woody Guthrie erano schierati e Bruce li ha entrambi cantati e incarnati. La contraddizione della rockstar che parla e racconta di coloro che stanno in fondo alla catena sociale è qualcosa con cui Bruce ha dovuto fare i conti: “Non ho mai svolto un vero lavoro in tutta la mia vita, mai una giornata di onesto lavoro, mai un lavoro impegnativo fisicamente, non ho mai lavorato dalle 9 di mattina alle 5 di sera. In definitiva questo è tutto ciò di cui ho scritto. E sono stato sfacciatamente e assurdamente fortunato.” Questa frase, ripetuta per 236 sere, nell’arco di poco più di anno, è il mantra con cui Bruce si è presentato davanti al pubblico che ha recentemente partecipato alle serate a Broadway. Più ancora dei tour di “The Ghost Of Tom Joad” e “Devils & Dust”, dei “Bridge Benefit” e di altri brevi periodi da solista, Bruce era lì sul palco, a 69 anni, a liberare una delle più riuscite contraddizioni che animano il mondo del rock’n’roll. Bruce non ha mai inventato nulla, ha copiato dozzine e dozzine di titoli da canzoni già preesistenti e suonato il rock nelle sue varie sfaccettature ma, e questo è il “ma” che è la pietra d’angolo su cui ha costruito tutto, è riuscito a farti ballare e pensare con la stessa canzone. Woody Guthrie e Elvis Presley, Bob Dylan e i Creedence Clearwater Revival, il Soul e il Rock’n’roll, con un songwriting che colpisce il cuore, allarga i pensieri e fa muovere le gambe. Magic: ho sempre pensato che se questo disco si fosse chiamato “Radio Nowhere” avrebbe avuto un altro impatto. O almeno diciamo che lo speravo. Da qui in poi ho l’impressione che le “scelte”, seppur altalenanti, che avevano contraddistinto una lunga fase della carriera di Bruce sono diventate più “normali”. Ne hanno beneficiato i concerti, tornati a rispolverare un po’ di caos sul palco, i dischi probabilmente meno. L’ascolto è soggettivo e certamente non tutti avranno le medesime sensazioni. Il brano di apertura dell’album ti fa schizzare in piedi, dalle chitarre al drumming, ai contenuti e a quella voce che senti affine ai tuoi sentimenti. Poi però la scintilla inziale si perde un po’. Nonostante vi siano momenti molto godibili, è un album che non mi ha scaldato molto. Working On A Dream: potrei ripetere quanto scritto per “Magic”. A fasi alterne ci sono cose che mi piacciono molto come “The Wrestler” e altri brani che trovo comunque belli, come “My Lucky Day”, “Good


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Eye”, “Working On A Dream” e la ballad “The Last Carnival” (dedicata a Danny “The Phantom” Federici). Il tour dell’album fu breve e le canzoni degli ultimi due album non erano certo le protagoniste. Scalette dedicate ai dischi del passato e tanto rock’n’roll. In generale sono contento che abbia finito la collaborazione con Brendan O'Brien che solo raramente mi è sembrato centrato sul lavoro di Bruce. Wrecking Ball: ho trovato questo album uno dei migliori che Bruce abbia pubblicato negli ultimi anni. Ho salutato con piacere la produzione di Ron Aniello che mi aveva favorevolmente colpito per il bellissimo lavoro che fece con Patti Scialfa, anche se oggi non vedo l’ora che Bruce scovi qualcuno che faccia emergere meglio la sua arte. L’unico rammarico di WB è che contiene Land of hope and dreams e American land che, pur essendo canzoni che adoro, musicalmente hanno un mood sonoro che con il disco non ha nulla a che vedere (testi a parte). WB è un bell’album rabbioso e pieno di soluzioni interessanti e, a parte qualche canzone più debole, in generale è solido e si eleva dalle sue ultime uscite. Primo tour senza Clarence Big man Clemons con scalette variabili e una lunghissima scelta di brani senza respiro. Una bella tournée dal sapore old time school. Lui si diverte e noi con lui.

High Hopes: in ben 12 nazioni su 13 (dal Canada alla Svizzera, dagli USA all’Italia) questo album è stato al primo posto in classifica (in Austria al secondo posto). Con gli altri dischi non era mai successo. Ovviamente non come vendite, che non sono più quelle di un tempo. Il download e lo streaming (anche se pare qualcosa stia cambiando) monopolizzano il mercato discografico e la concorrenza è diversa e, probabilmente, anche i paragoni sono difficili. Il contenuto dell’album è una sorta di compilation di outtakes che però si fa notare per alcune scelte, tre delle quali molto particolari: la title track degli Havalinas (tratta dall’unico album pubblicato dalla band nel 1990), il bellissimo brano Just Like Fire Would degli australiani The Saints (ho parecchi loro album e sono un’ottima band) e la presenza di Tom Morello (RATM). La scelta di avere Tom Morello alla chitarra in gran parte dei brani di HH, le cui idee politiche negli States non godono certo dei favori della maggioranza degli americani, la trovo dirompente. Non riusciamo a percepire fino in fondo la portata, per un artista affermato come Bruce, di presentarsi al pubblico, sia sul disco che dal vivo, con uno dei musicisti più politicizzati a sinistra attualmente in circolazione. L’album passa quasi in secondo piano. I live sono una carrellata di canzoni, degli ultimi album, salvo qualcosa di HH, solo WB viene omaggiato. Western Stars: il motivo di tutte queste parole è l’uscita di quest’ultimo atipico album. Un album che divide, accalora, esalta, stupisce. Eppure Bruce aveva anticipato, in qualche intervista, le sonorità cinematografiche che avremmo ascoltato. Quasi tutto l’album in realtà affonda le radici all’inizio degli anni 2000, precedentemente registrato e mixato con il fedele Toby Scott. Rimasto nel cassetto per anni, è venuto alla luce parecchio rimaneggiato con una bella manciata di orchestrazioni e melodie a volte già sentite, a volte inusuali per come conosciamo Bruce. La produzione di Ron Aniello non mi fa impazzire, (sarebbe bello, e forse anche il momento, che nascesse un binomio artistico del tipo Johnny Cash/Rick Rubin o Mavis Staples/Jeff Tweedy.) ma alla fine il disco gira e rimane costantemente sul piatto. A me piace Bruce perché


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sceglie e cambia, tira dritto per la sua strada. Forse qualche synth in meno e un po’ di polvere in più avrebbero meglio raccontato il senso del West per come lo idealizziamo. Difficilmente potranno essere la colonna sonora dei libri di Cormac McCarthy o Larry McMurtry ma qualche cavalcata in giro te la fanno comunque fare. La copertina patinata non regala particolari emozioni e si allinea con quella di WOAD. Non ci sarà una tournée ma un film. E anche qui la scelta è intrigante. Mentre voi discutete di quanto ho scritto e di ciò che avete letto su questo numero di WN, io esco in veranda alzo il volume e ritorno al concerto di Passiac del 1978. Vi saluto con alcune frasi estrapolate dai testi di Bruce che, insieme a quelle di Woody Guthrie, Joe Strummer, John Lennon e molti altri fanno parte dei miei pensieri quotidiani: “It's the working, the working, just the working life”

(Factory)

“Poor man wanna be rich, rich man wanna be king and a king ain’t satisfied till he rules everything”

(Badlands)

“I hid in the clouded wrath of the crowd but when they said "Come down" I threw up. Ooohh growin’ up” “Still at the end of every hard earned day people find some reason to believe” “It's a town full of losers, I'm comin' outta here to win”

(Growin’ up)

(Reason to believe)

(Thunder road)

“And if you can't make it, stay hard, stay hungry, stay alive if you can and meet me in a dream of this hard land” (This Hard Land)

Hugs! Mick

photo by Renato Bianchi

Dopo l’esperienza con la fanzine Fandango e le radio locali, negli anni ’80 Michele Anelli, nel 1987, forma una band di garagepunk, The Stolen Cars (con cui nel ’91 pubblica un Ep per la rivista Urlo e nel 2007 l’album “Can’t Stop Thee Stolen Cars”). Nel 1989 inizia l’avventura come autore di testi e musiche con la band The Groovers con cui suona in tutta Italia. Con i Groovers pubblica, nell’arco di vent’anni, l’ep “My Land” (per la rivista Urlo, 1992), il tape “Lost Ballads” (1994) e sette album: “Songs For The Dreamers” (1993), “Soul Street” (1995), “September Rain” (1997, segnalato dalla rivista Buscadero come miglior album di un gruppo italiano dell’anno), “That’s all Folks!!” (2000, miglior disco italiano dell’anno per il quotidiano Liberazione), “Do You Remember The Working Class?” (2001), “A Handful Of Songs About Our Times vol.1” (2003) e “Revolution – A Handful Of Songs About Our Times vol.2” (2008). Tra il 2003 e il 2008 la produzione si diversifica, ed Anelli incide, tra le altre cose, un album in italiano uscito per “L’Ernesto” dal titolo “Io Lavoro”. Ad aprile 2007, in seguito ai buoni riscontri avuti con un cd di canti della Resistenza intitolato “Festa d’aprile”, esce il primo libro di Anelli intitolato “Siamo i Ribelli – storie e canti della Resistenza”, lavoro che prosegue idealmente sia nel 2009 con i 15 brani del disco “Nome di battaglia: Ribelli” e con “Oggi mi alzo e canto!” disco dedicato “alla gente che lavora”, sia nel 2013 con il libro “Radio Libertà – dalla radio della Resistenza alla resistenza delle radio”. A novembre del 2009 viene assegnata ai Groovers una targa alla ventennale carriera, al MEI di Faenza. Nel 2013 inizia una collaborazione con i pavesi Chemako, ora terminata, dalla quale nel 2014 scaturisce il disco omonimo. Nel gennaio 2016 è uscito il nuovo album “Giorni Usati”, per Adesiva Discografica. Nel 2017 pubblica il libro “La scelta di Bianca” (Segni e parole edizioni), che contiene otto storie al femminile, con un cd allegato con altrettanti otto brani. Nel 2018 è uscito il terzo album solista in italiano, “Divertente importante”, sempre per Adesiva Discografica di Paolo Iafelice, con Andrea Lentullo (Wurlitzer), Elia Anelli (chitarra elettrica) e Nik Taccori (batteria).


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Capitolo 7

L’ARDITO PARAGONE: EZRA FURMAN DIVENTERA’ IL NUOVO BRUCE SPRINGSTEEN ? di Massimiliano Stoto

Tanto la domanda può spiazzare e far sorridere, tanto la risposta, almeno da parte mia sarà repentina e diretta. CERTAMENTE NO !!!! Però, però, però...... Dopo l’uscita di “Transangelic Exodus” (Bella Union, 2018), mi è successo non poche volte di vedere accostati nello stesso articolo i nomi di Bruce Springsteen e Ezra Furman. Per carità, non è il solo nome che si utilizza per fare riferimenti e parlare della musica del cantante di Chicago, ricorrono anche quelli di altri mostri sacri, quello di Springsteen però circola con più insistenza e il motivo sembra essere una similare capacità di raccontare l’America. Musicalmente il paragone non regge, tanto è corposo il suono della E-Street Band, tanto è sostanzialmente scarno l’approccio delle band che di volta in volta hanno accompagnato o accompagnano Ezra Furman. I due sembrano abitare pianeti distanti galassie musicalmente. Lo spessore della proposta e della risposta, e con rispophoto by Nicole M. Faust sta intendo il corpus mediatico e popolare con cui un’artista cresce e si misura, è talmente sproporzionato a favore di Springsteen da rendere folle il solo pensiero di poterli paragonare. A trenta tre anni, Furman è nato il 5 Settembre 1986, è sicuramente più di una nuova proposta del panorama musicale mondiale, ma Springsteen alla stessa età era certamente un po’ in crisi e perso nel “Nebraska”, ma con alle spalle nove anni in cui aveva scritto la sua leggenda e raccontato un paese come pochi altri avevano fatto prima. Gli mancava un solo passo, entrare nella “Hall of Fame Eterna”, e quel passo lo farà con “Born In The U.S.A.”. Ma c’è anche da considerare un altro fatto, l’industria musicale che investe e propone lo Springsteen dei primi tre album, e che difatti lo lancia nel firmamento, è ben diversa da quella con cui deve fare i conti e barcamenarsi Furman e come lui molti dei suoi colleghi odierni. Quarant’anni fa le etichette, co me le conoscevamo, investivano nell’artista, ci credevano, ora la realtà è ben diversa, se non drasticamente cambiata per sempre. Per raccontarvi il musicista Ezra Furman userò ovviamente i suoi dischi e le sue canzoni, cercandovi tracce del sacro fuoco springsteeniano. Vi parlerò di quello che conosco e comprato. Non mi


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sollazzerò, per fare il figo di turno, nel parlarvi di dischi che sono assolutamente disponibili con un paio di click e in maniera gratuita in pochi secondi. Credo ancora in quella cosa là ….insomma che sia giusto comprare la musica. Ma siccome Bruce ci insegna che è dura essere un santo in citta, ammetto che a “Inside The Human Body” di Ezra Furman & The Harpoons, più di un ascolto l’ho dato, d’altronde il disco è acquistabile solo a cifre che non mi posso permettere. Mettevi l’anima in pace….questo pezzo potrebbe risultare incompleto. Ezra Furman è ovviamente di origini ebraiche, il nome non lascia scampo del resto, nel periodo universitario a Boston, intorno al 2005/2006 inizia a scrivere e suonare canzoni con una band che si chiamerà Ezra Furman & The Harpoons, band formata oltre che da Ezra alla voce, chitarra e armonica, da Andrew Langer alla chitarra, da Job Mukkada al basso, piano e organo, Adam Abrutyn alla batteria, piano, triangolo. Producono tre dischi ufficiali (discreti) e un paio di raccolte non editate ufficialmente, poi E.F. & The Harpoons photo by Jade Amey (2009) dopo l’uscita di “Mysterious Power” nel 2011, il giocattolo si rompe. Non sono nemmeno dei siluri affonda transatlantici le critiche ricevute, anzi, tutto sommato la band, fra le molte che emergono negli ambienti universitari americani, se la cava alla grande con la sua proposta agreste e indie, che fonde punk, folk e folkrock, con un’onestà credibile e un approccio diretto ed energico. Del terzetto di dischi di Ezra e gli Harpoons l’unico che sono riuscito e reperire è l’ultimo “Mysterious Power” (Red Parlor, 2011). Come detto un buon disco che si muove tra slanci folk/rock ben riusciti “Wild Rosemarie”, la tirata springsteeniana di “Teenage Watseland”, la bella e ingenua “Portrait Of Maude”, la conclusiva “Wild Feeling”, “Hard Time In A Terrible Land” che sembra uscita dalle “Seeger Sessions” del Boss, l’omaggio a Dylan di “Don’t Turn Your Back On Love” e esempi nitidi dell’Ezra che verrà come “Bloodsucking Whore”, la title track, “I Killed Myself But I Didn’t Die”, l’ingenua ma onesta “Fall In Love With My World”, la tirata affilata di “Too Strung Out”, la teatrale “Heaven At The Drive-In”. Come forse è naturale che sia “M.P.” si divide fra le influenze, passioni e ispirazioni che possono avere un gruppo di ragazzotti non proprio acerbi ma nemmeno maturi e le aspirazioni di un leader che forse la sua strada in fondo al vicolo l’ha intravvista. Qualcosa sta cambiando in Ezra. Le scelte di Furman da qui in avanti appaiono come un “coming out”, una presa di coscienza artistica e personale. Nel 2012 esce “Year Of No Returning”, un titolo una dichiarazione, su Kinetic Family Records e solo in vinile, il disco viene poi ristampato nel 2013 su cd da Bar/None con due bonus tracks. Disco un po’ sconclusionato che fatica a prendere una direzione propria, registrato in diversi momenti dell’estate del 2011 e non con una band fissa ma con tutta una serie di musicisti e strumenti. Disco che cela ottimi spunti, anche negli arrangiamenti, ma anche sbandate paurose. Ad esempio “Sinking Slow” per metà esoterica e per metà una marcetta all’acqua di rose, l’innocua “Are You Gonna Break My Heart ?” che fa il paio con “That’s When It Hit Me” solo che questa è almeno caratterizzata da un paio di assoli sconclusionati. “Cruel Cruel World” è simpatica e rustica, viene di sicuro dal repertorio con gli Harpoons e con tutte le altre c’entra ben poco, ha la parte dell’armonica, e non solo, che ricorda un po’ “The Promised Land”. Anche la robusta e arrabbiata, “American Soil”, non fa impazzire, qui Ezra canta un verso che Bruce non avrebbe mai scritto: “Quando sento che Dio ti toglie gli occhi di dosso, sei nato per il suolo americano”, tutto sommato è un pezzo semplice, arrangiato solo per chitarra e batteria vigorosa, che fa


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molto “sound of Lou Reed”. L’esercizio che guarda alla West-Coast di “Lay In The Sun” è proprio un po’ innocuo, il pezzo è dedicato al regista Paul Thomas Anderson. Nel ritornello sembra di sentire gli Abba al rallentatore e l’incipit nasconde parole che a Bruce piacerebbero molto, “We've done a lot of things we

can't take back / But you can't take that so hard / We'll drive all night and we just won't look back / We can take your daddy's car” ovvero “Abbiamo fatto molte cose che non possiamo rifare / Ma

non puoi prenderla così duramente / Guideremo tutta la notte e non ci guarderemo indietro / Possiamo prendere la macchina di tuo padre”. Fino a qui tanta confusione, ma anche qualcosa di buono se non ottimo. L’iniziale “Dr. Jekill & Mr. Hyde”, ballata folk per chitarra, sax e clarinetto in cui l’ottima interpretazione mette in mostra le doti affabulatorie dell’autore, la solitaria e straziante “Down” composizione per piano, cello, violino e poca chitarra “Lasciare la città senza lasciare

nulla / Rendere orgoglioso papà / Come può un uomo fare qualsiasi cosa / Ti senti così? Sono giù” e i due pezzi che chiudono la prima edizione del disco “Bad Man” e “The Queen Of Hearts”. La prima si pone giusto giusto tra “Lost In The Flood” e “The Angel” dal primo disco di Springsteen. Pezzo caratterizzato da piano, voce, contrabbasso e un po’ di organo Hammond, bello perché intenso e sentito, vissuto fino in fondo, disperato “Sei troppo brillante per me, sono

troppo stupido per te / Di notte vedo la tua faccia sulla luna / Sei tu quello che si erge solido nelle sabbie mobili / E io sono un uomo cattivo, cattivo con un posto nel mio cuore per te”. La seconda è una ballata, magari come molte, ma ben caratterizzata dal sax di Dan Garfinkel, che la rende meravigliosa, notturna e solitaria. Ma è l’edizione del 2013 della Bar/None uscita a Luglio, che ci consegna due ottime bonus tracks che vale pena menzionare, una è “Doomed Love Affair” che è uno standard indie rock, occhieggiante un pò ai R.E.M. di mezzo, pre “Out Of Time” per capirci, e molto agli Okkervil River di quel Will Sheff che per qualche tempo è stato pure lui ricercato, come possibile nuovo Springsteen. L’altra è “40 Days in Kansas” dove stavolta è vero, lo spettro dell’uomo di Freehold è quasi carne e ossa. Non è “Thunder Road”, anche se la somiglianza fonica del ritornello lo fa pensare, somiglianza forse anche voluta da Ezra, non ne ha lo spirito, il sound, la liricità e la visione ma il pathos è quello “Mosè nascose l'acqua / Gesù nascose il cielo / noi abbiamo solo nascosto la

via di mezzo / Ho baciato tutto. Addio / Prendimi quando cado / Prendimi quando salgo / Lavami nel fiume / Ricordati di me / Potevo sentire il tuono in lontananza”. Bellissimo pezzo oscuro e viscerale, dominato dal piano e dalla voce di Ezra, minimamente anche sostenuti da parti di chitarra e contrabasso. Con “Bad Man” fa un’accoppiata micidiale. “Year Of No Returning” è un disco che rappresenta per il suo autore una forte presa di coscienza. Lo è fin dal titolo, lo è dalla copertina dove l’autore un po’ emaciato perde sangue dal naso, forse in seguito a uno scambio di opinioni andato un po’ oltre o forse per simboleggiare il ciclo mestruale. Lo è nei testi che spesso rimandano a relazioni fra uomo/donna e uomo/uomo. C’è un cambiamento in atto. Non le manda a dire nelle note del cd Ezra Furman, ce l’ha con se stesso “Ho ucciso Ezra Furman e gli ho preso le ossa, e ho fatto di me un nuovo uomo”, con il sistema “Lavoriamo o siamo intrattenuti quasi costantemente, in questo modo siamo sempre anestetizzati”, con il suo paese “Il mio paese e la sua cultura si sono diffusi, come Roma, in tutto il mondo nel corso dell'ultimo secolo”, ma “…decido di rifiutare fermamente di sottomettermi. Non dispero. Conserverò la mia umanità e cercherò Dio nell'oscurità” infatti il disco è “Dedicato a Dio e alla consolazione dell’uomo”. Cita la Bibbia e Mosè dall’Esodo “Se tu stesso non vieni con noi, non portarci fuori dal deserto” e inserisce un breve brano sulla violenza e l’oppressione, dovuta anche a delle proprie scelte, “Il posto da dove vieni non c'è più e quello dove avevi in mente di andare nemmeno. Il posto in cui ti trovi ora – la casa di tuo padre - non è altro che una scatola di cartone che posso abbattere in qualsiasi momento. Lo sai e l'hai sempre saputo. Mi senti?". Queste parole sono di Arnold Friend nient’altro che un personaggio di uno dei racconti più famosi della scrittrice Joyce Carol Oates, ovvero, “Where Are You


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Going, Where Have You Been?” in italiano “Dove stai andando, dove sei stato?”. Curiosità rock a margine, questo racconto ha fatto da base per la sceneggiatura del film, “Smooth Talk” (La prima volta, 1985) di Joyce Chopra, interpretato da una diciottenne Laura Dern, indimenticata Lula Pace Fortune nel “Cuore Selvaggio” di David Lynch, ma anche da Levom Helm, seppur in un ruolo minore (fa il padre della Dern), che in molti fra di noi si ricordano certamente più come batterista e vocalist di The Band . Il protagonista maschile, Treat Williams, è vestito alla maniera di Springsteen nei video patinati di “Glory Days”, “Dancing In The Dark” e “I’m On Fire”, infine il racconto della Oates è dedicato a Bob Dylan e non si è mai capito perché. “Day Of The Dog” esce su Bar/None nell’ Ottobre del 2013, a pochi mesi dall’uscita della ristampa di “YONR”, è un disco le cui registrazioni vengono effettuate nel luglio 2012 e nel gennaio 2013. A un primo ascolto appare subito chiaro che è un disco che ha un suono, che punta in una direzione e che soprattutto è realizzato da una vera band. Ezra Furman with his band The Boy-Friends è un quintetto che suona chitarra (il leader, che è, ovviamente anche alla voce), tastiere (Ben Joseph), sassofono (Tim E.F. & The Boy-Friends Sandusky anche alla registrazione e masterizzazione del disco), basso (Jorgen Jorgensen e qualche parte di chitarra in “Cherry Lane) e infine alla batteria Sam Durkes. Il contrabbasso viene suonato in un paio pezzi da Patrick Durke. Ma è il sax di Sandusky a rappresentare la vera novità, seppur mai messo in grande evidenza in fase di mixaggio, e pur non essendo presente in tutte le canzoni, le sue parti colpiscono subito nei primi tre pezzi dell’album “I Wanna Destroy My Self”, “ Tell’Em All To Go To Hell” e “My Zero”, li caratterizza non poco e induce curiosità in chi ascolta. Mai alla ricerca del colpo ad effetto, assolutamente versatile, sentire per esempio la meravigliosa cavalcata westernpsyche di “Walk On In Darkness”, arricchisce le canzoni e le rende più aderenti e “dentro” i generi a cui si ispirano principalmente: il rock’n’roll, il rockabilly, il pub rock inglese, un po’ di rithym and blues e leggere ambizioni punk soprattutto nel pezzo d’apertura. Non esaltante il pezzo che titola l’album, ballatona solitaria che sta nel mazzo, meglio la bucolica “Cold Hands” “Ora sono un cane al chiaro di luna / E sono un

punk acerbo / Stasera sono alla finestra della tua camera da letto / Gratto sul vetro / Voglio essere tenuto tra le tue fredde mani / Voglio solo essere tenuto tra le tue fredde mani” e la leggera godibile fifties songs “Anything Can Happen” adatta per qualsiasi innocente festa da li


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ceo “Mi metto una mano sul cuore e mi lascio alle spalle la città / E mi sto scrollando di

dosso le catene che erano nella mia mente / E vado in lontananza a bruciare il copertone in una linea retta perfetta / Ora ho buttato fuori tutto / E non so cosa essere / Quindi prendimi solo la mano e tutto può succedere / Adesso è chiaro per me / Che è doloroso solo essere se stessi / Ma sono grato di vedere che tutto può succedere ora”. E veniamo a “And Maybe God Is A Train” pietra angolare del disco, tiro iniziale alla “Working on The Highway”, band sul pezzo, sax in gran spolvero se c’è un punto di contatto, uno solo, tra Ezra e Bruce è qui. Centotrentacinque secondi a rotta di collo dove stare fermi è dura e il testo è perfetto per questo rock ‘n’roll

“E forse Dio è un treno che attraversa Atlanta, / E piange nel cuore della notte / E forse Dio è un treno, che illumina la luce in un tunnel / E sta arrivando con tutta la sua forza / E forse è tutto a posto, e non fa differenza quello che fai / E forse va tutto bene, e non fa differenza chi ama chi / Ma tesoro, abbi cura di te”. Sono interessanti i contrappunti fra sax e voce in “Been So Strange” ma il pezzo in se non mi meraviglia e nemmeno l’arrangiamento di “The Mall” che è un pezzo di Paul Baribeau, con chitarra arpeggiata e coretti fa un grande figura. Per i soliti incastri che non saltano fuori proprio solo per caso, ho scoperto che Paul Baribeau è un folksinger con una manciata di produzioni alle spalle, molto di nicchia e molto asciutte o meglio essenziali, che nel 2006 ha dato alle stampe in maniera, non ho capito se ufficiale o autoprodotta, il resoconto di un tour negli States con Ginger Alford intitolato “Darkness On The Edge Of My Town” in cui il duo fa solo cover di Bruce Springsteen in versione acustica. Il finale è di alto livello con “At The Bottom Of The Ocean” che sembra uno di quegli oscuri brani rhythm ‘n’ blues, con cui il boss è cresciuto, e che con il tempo sono diventati degli standard anche se non molto noti al grande pubblico, mi vengono in mente d’istinto “Quarter To Three”, “Knock On Wood”, “Raise Your Hand” per esempio. Infuocata. Photo by snaprockandpop La tirata hard psichedelica di “Slacker / Adria”, il pezzo più lungo del disco, cinque minuti abbondanti, un pezzo infuocato con un bel drumming black e chitarre acide e anche minimali tutto sommato, a far molto casino e Ezra alla voce completamente scatenato. La conclusiva “Cherry Lane” è leggera e spensierata, sembra una canzone liberatoria, una dichiarazione d’intenti, chitarre leggere a disegnare uno scheletro di canzone, una linea di basso e un poco d’organo e finalmente un pò di libertà “Sono andato guidando, sono andato a

piedi, sono andato lontano / Sono andato in posti da cui non puoi tornare, da qualche parte dove non puoi stare / Se mi vedi nel tuo viaggio, prova a dire il mio nome / Puoi girare e seguire i tuoi passi nel modo in cui sei venuto / Oppure puoi prendere l'autostrada correndo selvaggiamente attraverso la gioia e il dolore / Se vaghi laggiù lungo la mia Cherry Lane” Scrivo finalmente perché i testi sembrano sempre e comunque lasciti tormentati e combattuti, se non sono relazioni in difficoltà, si tratta sempre di scelte sofferte, di crisi umane e societarie con poche speranze all’uscita. Un ultimo assaggio: “Sono spazzato come una foglia attraverso gli

Stati Uniti / Con una forza che ti afferrerà e ti getterà via / E sono troppo giovane per morire” da “Tell’Em All To Go To Hell”. “Fuori nella prateria sconfinata / Le onde color ambra del grano / Mi sono seduto e ho acceso il fuoco / Ho visto il tuo treno di passaggio / Ho visto le finestre gialle / Non riuscivo a vedere la tua faccia” da “My zero”. “Ora che tutti se ne sono andati, siamo solo io e il Signore / In questo piccolo appartamento nel Queens / Con la spazzatura accatastata e una catena sulla porta / I vicini sanno cosa significa quel


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tintinnio / Vedo attraverso la finestra la luna come una macchia / E l'insegna al neon ronza una preghiera” da “Walk On Darkness”. Ma è ancora nelle note che troviamo delle risposte all’Ezra pensiero, soprattutto in quelle scritte di suo pugno, leggiamo: “Nelle nostre ore più Photo by snaprockandpop buie dipende da noi come reagire al modo in cui ci sentiamo e alle circostanze che ci circondano. Una ragione per cui amo la musica è che fa sentire e vivere i tuoi problemi sotto una luce diversa. Forse il tuo dolore potrebbe far parte di una storia più ampia, un eroismo o una vita selvaggia e piena. La buona musica può aiutarti a romanticizzare i tuoi problemi. Forse sono un preludio a una sorta di trionfo. Il rock 'n' roll, poiché le sue radici sono nel blues, tende a simpatizzare con gli oppressi” e infine “Le persone che non hanno potere e quelle con il cuore infranto sono gli eroi segreti. E sta arrivando il giorno in cui si alzeranno e otterranno ciò che meritano. Questo è il punto principale di questo disco. Le cose non sono come dovrebbero essere. Ma potrebbero essere. La libertà è possibile, la giustizia è possibile, anche se le cose sono oscure. Da qualche parte là fuori, o nel profondo, c'è un paese spalancato senza recinzioni, dove tutti possono vivere in pace”. A corredo delle parole del principale autore, anche quelle Kate Bornstein e di Rabbi Menachem Mendel Schneerson la cui sostanza non si discosta dal sunto: credi in te stesso, il mondo è governato da ladroni ma c’è sempre speranza. Scritta così sembra una banalità ma è il senso che ne ho tratto. “Perpetual Motion People” esce su Bella Union nel Giugno del 2015. E’ il disco con cui conosco Ezra Furman, sul mio giornale di riferimento, Blow Up, lo recensisce Beppe Recchia che inizia il pezzo così: ““P.M.P.” è uno dei dischi dell’anno !!!!”. Diventerà il mio preferito di quell’annata. E’ facile innamorarsi di questo disco, è immediato, è ruffiano ma non furbo, è scritto bene, è vario, ha canzoni che si lasciano cantare e fanno ballare, contiene almeno tre strike “Haunted Head”, “Ordinary Life”, “Body Was Made”. E’ un po’ introspettivo, un perfetto esempio di indie rock, brufoloso ma anche adulto. Ma pur fulminandomi allora, con il tempo devo ammetterlo, non è un disco migliore del precedente, è più appariscente ma sfugge a catalogazioni e scappa in più di una direzione, diventando stilisticamente quasi indecifrabile. Come nel precedente sono i The Boy-Friends ad accompagnare il leader nella sua crescita musicale, arricchendo le sonorità e gli arrangiamenti. E’ ancora Tim Sandusky dietro la consolle e questa volta fa tutto, anche la produzione. Il disco nasce tra l’autunno del 2014 e l’inverno dell’anno seguente, nello stesso studio di registrazione dove Ezra ha registrato gran parte della sua produzione, il Ballistico a Chicago. E’ “Restless Year” che apre l’album, effervescente pezzo con coretti sixties e tastiere liquide, che colpisce ma non decolla mai al contrario di “Lousy Connection” che nasce come ballad fifties e cresce ad ogni secondo, sempre più dominata dal sax. “Hark! To The Music” è un siparietto simpatico che diverte il giusto e lascia velocemente i riflettori al primo strike del disco quella “Haunted Head” che fondamentalmente è una ballata disperata: “Sono sveglio alle sei / Prendo una fetta di pane, ci faccio un

buco / Spacco un uovo in una padella / E provo a spegnere la mia mente / Sono nudo adesso / Perché non importa quando le ombre calano / Nato così, morirò così / Non so come mi dirò mai la verità / Vivo da solo / Una casa senza cuore non è una casa / Penso di poter distruggere le cose che possiedo / Sto tornando indietro, molto indietro al nero e al rosso / Dentro la mia testa stregata “, ma che quasi non si prende sul serio tra i coretti e contrappunti di sax. Un contrasto che funziona. “Hour Of Deepest Need” è un ballata per gli inconsolabili dominata dal piano e con leggero accompagnamento di chitarra e batteria, a tratti ironica a tratti dispera


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ta: “Non posso condividere

questo whisky con te al telefono / E se ne beviamo abbastanza / Potresti solo farmi ammettere / Che non ho mai imparato come stare da solo” oppure “E quando il sole trascina il giorno / Sarai a mille miglia di distanza / Nell'ora del mio bisogno più profondo?”. “Wobbly” è fortissima con le stimmate rock ‘n’ roll fifties impresse nel dna, con le parti di sax che la segnano a fuoco. Non viene mai fatta decollare ma ha stile e Photo by Frazer Harrison/Getty Images North America) poi contiene i versi che tutti i morbosi si aspettavano da tempo: “Genders, my friends, I've / Just been changing genders, fluidly”. Un altro pezzo d’alto livello è “Ordinary Life”, praticamente un inno. Nasce in forma acustica, accompagnata da basso, tamburi, battimani e coro alla “Knockin’ on Heaven’s Door” al primo verso c’è già da cappottarsi: “Sono già stufo di questo disco” ma poi assume una piega amara “Aspettavo fuori

nel mondo / Un settembre a Boston / Ho perso la voglia di vivere / Ero proprio come un astronauta tagliato fuori dalla navicella / E fluttuavo aspettando di morire / Ero stufo della mia vita ordinaria”. “Tip Of A Match” è un pezzo proto punk, con volumi saturi e un tiro degno del genere, prepara ottimamente il terreno a “Body Was Made”, nel senso che tra i due brani la differenza è talmente notevole che lo stacco o meglio il cambio di stile ci sta bene. Anche questo è un pezzo significativo per l’artista, dove affronta le tematiche del cambiamento di “genere” diciamo, musicalmente siamo davanti a un brano divertente, un up-tempo caratterizzato da sax e cori sixties, organo hammond e quant’altro. Uno dei brani migliori del disco. “Watch You Go By” è un’altra ballad disperata, il clarinetto di Sandusky ce la rende sognante, ma Ezra ogni tanto si auto cita con pezzi come questi. “Pot Holes” è un pezzo roccarolla e quasi jazzy divertente e poco più, un esercizio di una band che si mette in mostra. Un pezzo da cartone animato. Stacco e parte “Can I Sleep in Your Brain?”, altra ballatona che si trasforma a poco poco in un pezzo rock’n’roll da paura, sax a rotta di collo il pezzo più da EStreeters del disco: “Posso dormi-

re nel tuo cervello stanotte, straniero? / Posso riposare le mie ossa nella tua testa? / Non farò troppo rumore mentre resto qui / Ho solo bisogno di un qualche tipo di riparo”. Il pezzo finale sembra un pezzo prewar folk, “One Day I Will Sin No More” è una magia breve e sognante, un attestato di bravura, un’istantanea che fissa la classe di un’artista. “Un giorno non pec-

cherò più / Ma terrò questo pensiero nella parte posteriore della mia mente / Il Signore


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è più avanti e il Diavolo è dietro / Un giorno non peccherò più”. Che poi “Perpetual Motion

People” sia ancora figlio della schizofrenia musicale del suo principale autore e nel complesso ne paghi dazio è lampante, ma ne ribadisce il suo valore fissando il nome di Ezra Furman come uno dei più interessanti della scena rock indipendente mondiale. Nel 2016 pubblica due Ep, in primo il primavera “Songs by Others”, sette cover di diverso genere, artista e tempo. Suonate con la stessa band dei due dischi precedenti, sono registrate in studio (quattro al solito di Chicago), due durante sessions radiofoniche e una in camera solo soletto. Quelle che mi convincono di più sono la “Crown Of Love” degli Arcade Fire e “Ready Teddy” di Little Richard, che riprendono le caratteristiche essenziali del suono di Furman e della band, il resto è roba passabile e non propriamente essenziale. Non ci sono cover di Bruce. In estate esce invece “Big Fugitive Life”, sei pezzi autografati da Ezra Furman e suonati ancora con i Boy-Friends, registrati al Ballistico di Chicago nel Novembre dell’anno precedente. Nel complesso un Ep non trascendentale, ma importante per il nostro percorso in quanto nasconde gemme di pura essenza springsteeniana. Nulla di epico ma di sicuro è il supporto di Ezra Furman che più si rifà alla musica di Springsteen o perlomeno a certi pezzi di Springsteen, per lo più i dimenticabili o, per essere più buoni, quelli scartati. L’Ep si divide in una parte elettrica e una acustica. La parte elettrica comprende “Teddy I’m ready” è ispiratissima dall’uomo di Freehold. “Teddy sono pronto per il rock ‘n’ roll !!!!” dall’arpeggio di chitarra al sax di Sandusky, tutto rimanda alla E-Street Band, gli manca solo un Roy Bittan a cesellarne certi parti con il piano per essere perfettamente adatta al sound del gruppo di Bruce. Così come “Halley’s Comet” e “Little Piece Of Trash” che sembrano delle outtakes del periodo 1978/80 del Boss. Graffianti lo sono certamente ma non altrettanto memorabili come una “This Hard Land” o una “Loose Ends”. La parte acustica non ha per niente la magia di “One Day I Will Sin No More” che chiudeva “P.M.P.”, a partire da “Penetrate” ninna nanna alla “Pony Boy” solo con tematiche un po’ più aspre, l’anonima “Splash Of Light” per chitarra acustica a contrappunti di piano e “The Refugee” che sembra uscire da “Desire” di Bob Dylan per essere suonata da Zach Condon alias Beirut, qui l’arrangiamento però è bello grazie alla parti di violino, violoncello e clarinetto. “Perpetual Motion People” però aveva smosso le acque e creato aspettative attorno al ragazzo di Chicago, così “Transangelic Exodus” risulta essere un disco molto atteso. Esce all’inizio del 2018, il 9 Febbraio. Registrato a Chicago, sempre nello stesso studio, tra la fine del 2016 e l’agosto del 2017 con la stessa formazione dei dischi precedenti a cui viene solo cambiato il nome: The Visions. Il disco ha al suo interno la seguente dedica: “Per gli immigrati, per i rifugiati, per chi è rinchiuso e chi è uscito, per i vulnerabili e i senza tetto, per chi è alla ricerca”. Un disco che è una storia, un viaggio, una fuga e una mutazione. Da tanti critici questa storia del viaggio è una buona scusa per tirare in ballo Springsteen, ma non c’è un


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oncia di Springsteen in questo disco. E’ un disco bello “Transangeli Exodus”. Bello e difficile, a mio avviso il migliore di Ezra Furman dove ci sono idee musicali, non solo narrative, e una produzione che allaccia tutte le canzoni, come mai avvenuto prima nei suoi dischi Un suono, scuro e drammatico che caratterizza molti pezzi, che sfugge anche a etichette o catalogazioni di genere. Non è un disco punk o rock ‘n’ roll, nemmeno new wave o glam, potrebbe essere un disco cantautoriale? Potrebbe certo, se al termine “cantautoriale” attribuissimo un senso ben diverso da quello che solitamente diamo. “Suck The Blood From My Wound” apre il disco, sembra una tirata solitaria accompagnata da batteria elettronica e effetti soffocanti, “Driving Down To L.A.” è bellissima con la sua non nascosta aria disperata a cui fanno da contrasto percussioni sature, suoni da carillon e drumming elettronico e non arretra in quanto a tristezza “God Lifts Up The Lowly” viola ad aprire le danze, tensione palpabile, contrappunti di organo e percussioni a sostenere uno scheletro di canzone con un testo disperato che si chiude con una preghiera ebraica. Bellissima. “No Place” risolleva gli animi con la sua nenia ripetitiva e punk, supportata da parti elettroniche e disturbanti. Paranoica. “The Great Unknown” è una declamazione per chitarra affilata e tamburi con un testo perentorio: “Una canzone è un sogno che continua quando finisce / Un

uomo sente una canzone nella voce sommessa del suo amante / Un eroe continua quando gli altri credono che sia tutto finito / Una sorella è forte quando combatte per la causa di suo fratello”.

Photo by James Emmerman

“Compulsive Liar” ha un mood decadente e impennate liberatorie, suoni scarni tra un drumming potente, viola e effetti elettronici. “Maraschino Red Dress $ 8,99 At Goodwill” è post punk/no wave ha slanci finali da festa ai tropici che la rendono un must del disco. “From A Beach House” è esoterica e si evolve fino a sembrare nel disegno, ma non nell’arrangiamento, un pezzo da musical. Magari anche adatto a Rufus Wainwright. “Love You So Bad” è uno dei pezzi trascinanti del disco, un pezzo tipico dello stile di Furman ma arrangiato in modo da reggersi sul mood iniziale per tutti i quasi 4 minuti in cui si sviluppa, bellissime le parti degli archi e il chorus finale. “Come Here Get Away From Me” è una nottataccia disperata con le sue paure intraviste sul fondo di bicchieri sporchi in ore solitarie: ”Quindi dici che vuoi conoscermi / Quindi dici di voler entrare

in contatto / Beh, parla con me, piccola, vieni qui, allontanati da me / Parlami, piccola, vieni qui, allontanati da me / Parlami baby, conoscimi, puoi riprendermi subito”. “Peel My Orange Every Morning” una sveltina scorticante prima che il disco si chiuda in gran bellezza con la torch song “Psalm 151”: “L'ho vista bagnata dal chiaro di luna / Pregare in strada /Piume ai suoi

piedi / E ho visto la piccola arpa appesa / Che lei non suona mai / Aspettando il giorno / Quando tutto cadrà / E le parole adesso mi mancano” e con “I Lost My Innocence” brano divertente, classico dello stile dell’autore, dichiarazione d’intenti liberatoria e spensierata. E’ la fuga che finalmente si compie, l’alba di un nuovo giorno. E siamo ai giorni nostri e ai 28 minuti di “Twelve Nudes” (Bella Union, 2019). La notizia è che non c’è più Sandusky nella band, che per il resto è la stessa, e alla produzione. Registrate e editate da Trevor Brooks e poi mixate da John Congleton uno dei produttori più trendy dell’area di Los Angeles, il disco è stato infatti registrato a Oakland in California nell’autunno del 2018. Congleton ha alle spalle un’infinita


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serie di lavori con artisti per lo più dell’ambiente indie rock americano che se mi metto a elencarli non finisco più. E’ di fatto il primo produttore a cui Ezra affida la sua musica dai tempi degli Harpoons. Da allora sono passati 7 anni. “Twelve Nudes” però mi delude, sarà per il minutaggio insufficiente, sarà che mi aspettavo un ulteriore colpo d’ala ma lo trovo un disco largamente inespressivo, che riafferma certamente le capacità compositive di Ezra, compattate dalla mixaggio di Congleton, ma molti pezzi mi sembrano solo pretesti per stare sul mercato. Il pezzo più lungo dura 3 minuti e mezzo e il più corto nemmeno un minuto, il repertorio di Furman è presentato nella sua interezza, ci sono le tirate punkettone, i pezzi da story telling e quelli adolescenziali che ammiccano ai fifties e ai sixties (sembra essere una fissa). “Calm Down AKA I Should Not Be Alone” è un attacco punk con i coretti alla Stones altezza “simpatia per il demonio” ed è buona, “Evening Prayer AKA Justice” e “Transition From Nowhere To Nowhere” sono dei classici del repertorio di Furman, ci stanno però e suonano parecchio bene. Non capisco il perché ci sia “Rated R Crusaders” solo schizofrenia punk rock, ma son ben felice che ci sia “Trauma”, un pezzone dal drumming muscolare che potrebbe anche diventare il primo inno di Ezra

“Gli anni passano e non hanno ancora affrontato il nostro trauma / Gli anni passano e ancora non hanno guardato i loro peccati”. Con “Thermometer” torna la tirata punk rock che non dice nulla, “I Wanna Be Your Girlfriend” è il lento da festa al liceo che Ezra ha fra i suoi numeri ma che oramai ha rotto e “Blow” nemmeno un minuto di urla soffocate. Il finale è più convincente “My Teeth Hurt” e “What Can You Do But Rock 'n' Roll” sono molto belle, pezzi punk ‘n’ roll, la prima più divertente e giocosa, la seconda più tirata e tesa “Non hai un posto dove andare / Non puoi

uscire, non puoi stare a casa / Hai un po 'di anima / E tutti quelli che ti parlano / hanno un fine / Cosa puoi fare se non rock, rock and roll?”. Le due sono separate da “In America”, indiscutibilmente un grande pezzo, a cuore aperto, la “Born In The U.S.A.” di Ezra Furman alcuni dei brani del testo li uso per chiudere questo articolo.

E qui per ora si interrompe la storia di Ezra e della sua discografia….il viaggio non ha portato molti elementi per capire se Ezra Furman sarà il nuovo Bruce Springsteen e come preannunciato all’inizio se ci deve essere un verdetto lo ribadisco: non sarà lui e non può essere lui. Rimane il fatto che Springsteen come altri mostri sacri Dylan, Bowie, Mitchell, Reed, Young, Joplin, Morrison etc etc…è diventato un’icona a cui è facile riferirsi in qualche momento di pigrizia critica, d’altronde lui stesso è figlio di un equivoco. Jon Landau il suo scopritore vide certamente il futuro del rock ‘n’ roll in lui ma lo additò anche come


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nuovo Bob Dylan e la cosa a me è sempre sembrata molto poco centrata. Sul fatto di essere in grado di raccontare l’America in effetti qualcosa c’è, non si può negarlo. C’è chiaramente uno sguardo rivolto ai reietti, ai perdenti, ai diversi di un’ America ingrata e non si possono certo dimenticare le analogie con i testi di Springsteen dei primi due album, un campionario immaginifico di freak sempre in bilico tra santità e illegalità e quelle con la categoria che incarna il reietto per antonomasia a stelle e strisce: il reduce del Viet-Nam. Aggiungerei che non è un mistero di quanto è stato centrale per la carriera di Springsteen l’incontro con il libro “Nato il 4 Luglio” di Ron Kovic. Centrale e importante tanto quanto una scioccante presa di coscienza. Tornando a Ezra Furman chiudo dicendo che non mi sono soffermato molto sulla questione “Gender”, perché non la ritengo importante. Come Ezra vada in giro agghindato, sul suo make-up e cose di questo tipo per me sono solo chiacchere e morbosità. Ognuno è libero di porsi nella maniera che ritiene migliore, di amare fuori o dentro al letto chi vuole e nella maniera che vuole. Aggiungo solo che non mi sembra un tipo tanto furbo da aver fatto una scelta di questo tipo per avvantaggiarsene e far parlare di sé. Allo stesso tempo affermo, e chiudo veramente conscio di essere stato lunghissimo, dicendovi che se anche ci fosse un nuovo Bruce Springsteen all’orizzonte e se questi fosse “Gender”, “Trans-Gender” o “Gay Gay Gay manifesto”, all’America di oggi non potrebbe che fare meravigliosamente bene, a patto di essere in grado di aprici il cuore con una chitarra, urlando le parole di una canzone come “In America” (alcuni estratti sono riportati qui sotto). Ed Ezra per me lo è. “Siamo nati in America Vent'anni in un'America devastata E non è così terribile in America E se vai al cinema Non credere a ciò che mostrano al cinema L'intero mondo in 3D è incredibile” “Voglio tornare a casa in America Puliscimi come un clistere Miss America Siamo nati per l'America Per le autostrade e i luoghi d'America Non sei ancora morto quando ti seppelliscono” “Contro il muro con le mani in alto Non provare non c’è nulla di divertente Messicano dalla parte di tuo padre Ogni città ha un lato positivo e uno negativo Sei nato dalla parte triste dell'America” “Ci sono troppe canzoni rock Metti tutto in una canzone pop di due minuti A dire il vero è una canzone molto per l'America”

Photo by snaprockandpop

“Born To Be Gender” è il disco springsteeniano di Ezra Furman 17 tracks - 53’02”

01 In America 02 Hard Time In A Terrible Land 03 Teenage Wasteland 04 Cruel Cruel World 05 Bad Man 06 And Maybe God Is A Train 07 At The Bottom Of The Ocean 08 Ready Teddy 09 The Queen Of Hearts 10 Can I Sleep In Your Brain 11 Teddy I’m Ready 12 Halley’s Comet 13 Little Piece Of Trash 14 My Teeth Hurt 15 Love You So Bad 16 Forty Days In Kansas 17 Ordinary Life (Non troverete il disco sulle piattaforme di musica liquida, tutte non rendono disponibile “Forty Days In Kansas” . Onestamente non si poteva licenziarlo senza)


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“THE DREAM SYNDICATE” Come si sono trovati di nuovo qui ? di Massimiliano Stoto I Dream Syndicate sono tornati. Di per sé non è una notizia “How Did I Find Myself Here” il primo disco dal 1988 è uscito nel Settembre del 2017 e “These Times” a Maggio di quest’anno. Quindi con i tempi della musica odierna sono già abbondantemente fuori tempo massimo per parlarne. In fondo all’editoriale di pagina 39 dico però che siamo andati a ripescare appositamente qualche eroe mitico degli anni ottanta, che ha fatto dischi recentemente, per usarli come pietre di paragone e avere un elemento in più per capire in cosa consiste l’impasse artistica in cui Springsteen è finito. O semplicemente parlarne per permettere a voi di trarne qualche spunto per le riflessioni che più ritenete opportune o se non l’avete ancora fatto, scoprirne i dischi. Autori di quattro ottimi dischi tra il 1982 e il 1988, sono tra i massimi esponenti del movimento cosiddetto “Paisley Underground”. Si sciolgono dopo l’uscita di “Ghost Stories”, un album che la critica a posteriori giudica un po’ fuori fuoco, ma che ai tempi fu notevolmente promosso e ben valutato. A me, è sempre piaciuto molto, per intenderci. Steve Wynn il componente più famoso continua nel tempo a sfornare dischi autografi o con gruppi che di volta in volta vedono il suo nome in calce alla ditta o celato dalla sigla utilizzata volta per volta. E’ sempre lui, comunque, il cardine dei vari progetti che giungeranno alle nostre orecchie. E di questo gliene va dato merito. Ha fama di essere un songwriter dalla personalità piuttosto forte, e anche a causa di questa, chiamiamola sfumatura, la prima bassista del gruppo, Kendra Smth, abbandona dopo il primo disco e Karl Precoda chitarrista, fa altrettanto dopo il secondo. Nel Settembre del 2017 il folgorante ritorno. 8 pezzi 45 minuti circa di musica con il leader ci sono Dennis Duck (batterista) unico membro originario, Mark Walton (basso) con la band da “Out Of The Grey del 1986, e Jason Victor (Chitarra). In aggiunta c’è Chris Cacavas alle tastiere con cui è divisa anche la produzione del disco. Cacavas suonava anche in “Ghost Stories” e storicamente era il terzo Green On Red, altri eroi minori del Paisley, (se c’è ancora qualcuno che ne ascolta i dischi mi citofoni pure che ne parliamo bevendo qualcosa), quello che separava, nelle serate no, Dan Stuart e Chuck Prophet. Un caratterista di certo rock delle “backstreets” che ha sempre saputo il fatto suo. In “Kendra’s Dream”, pezzo che chiude il disco c’è la sorpresona del ritorno di Kendra Smith, solo alla voce però, che fa resuscitare la Nico dei dischi solisti. I pezzi stanno tutti sui 4 minuti abbondanti, un paio sono tirate da 6 minuti e la titletrack supera gli undici. Chitarre sempre in bella mostra sia nei pezzi più tirati che quelli più lenti, si respira un buona ispirazione, una grande passione, qualche furbata dovuta all’esperienza e perché no ? Una direzione dilatata, un certo “desert sound” molto californiano e anche un po’ kraut che inevitabilmente deriva dal nome del gruppo, ispirato dal titolo dell’album “Outside The Dream Syndicate” pubblicato da Tony Conrad (compositore e violinista americano considerato uno degli inventori del minimalismo) con i Faust (che non hanno bisogno di presentazioni). L’album uscito per la Caroline Records nel 1973) riprende nel titolo il nome del gruppo che Conrad frequentò con La Monte Young (fondatore), John Cale e altri musicisti. Il nome di tale ensemble aperto e ispiratore dei Velvet Underground era Theatre of Eternal Music ma sul finire della propria attività fu rinominato Dream Syndicate. Tornando ai nostri Dream, quelli che conosco meglio, posso dire che in questo ritorno li trovo messi là sullo sfondo, come dei cartonati. Aleggiano e questa reincarnazione sembra un'altra cosa...la produzione è ottima e il disco, non lo nego,


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fila come un treno ma quelli là erano un’altra pasta. Nella primavera di quest’anno esce “These Times”. 10 pezzi per 40 minuti scarsi con Cacavas in formazione ma non alla produzione, c’è John Agnello lì (John Agnello sta dietro alla consolle di un paio di dischi di Kurt Vile, un paio dei Sonic Youth e poi Dinosaur Jr, Okkervil River, Turbonegro e Son Volt). Stessa direzione, ma ritmi più serrati, solo un pezzo “The Whole World's Watching” sfiora i 6 minuti, gli altri stanno sui 4 di media. Dopo aver scaldato i motori è la parte centrale del disco a dare le maggiori soddisfazioni con pezzi come “Black Light”, “Bullet Holes” che dicono qualcosa di nuovo e con “Still Here Now” che invece si volta indietro più di una volta. Ma altri pezzi sono centrati “Space Age” per esempio, che in tre minuti scoperchia mondi o la conclusiva “Treading Water Underneath The Stars” che ci consegna dei Dream Syndicate in botta psyche. In definitiva, poniamo la domanda fatidica ? Cosa possono fare insieme un po’ di mestiere, i produttori giusti, ottimi musicisti, buoni pezzi e una visione del tutto un po’ coraggiosa e musicalmente un po’ “diversa” ? La risposta datela voi altrimenti sembriamo avercela con il Boss.

The Dream Syndicate Magnolia (MI) – 19.06.2019 (dal nostro inviato Alberto Nobili) I ritorni non mi piacciono. Sono prevenuto probabilmente (roba da farci un articolo... magari in futuro). Una delle poche eccezioni la faccio per i Dream Syndacate, che non ho mai avuto occasione di incrociare dal vivo in passato. Complice l’ascolto delloro ultimo (convincente) disco (“These Time”) e la pressione piscologica esercitata dai miei due accompagnatori (o meglio... io accompagnavo loro… Maurino e Nolo), mi son fatto convincere a sfidare zanzare e caldo per vedere il leader Steve Wynn insieme a Dannis Duck (se non sbaglio unico membro originario insieme a Mr. Wynn) con Jason Victor (grande chitarrista), Mark Walton e Chris Cacavas. Il rock è morto (lo sappiamo) e l’età da ospizio (sopra e sotto il palco - me compreso) più che da college, rende bene l’idea di una musica (la nostra) seguita da una piccolissima setta di devoti (saremo in 300 al circolo Magnolia a Milano) ultra 40/50’enni (altro spunto per un articolo…). Anche perché i Dream Syndacate non sono gli ultimi arrivati, hanno una storia (smagliante) e una posizione significativa nell’olimpo del rock degli anni ‘80 e meriterebbero folle ben più consistenti (che non hanno mai avuto in effetti). Tolti i preliminari (servono) rimane il concerto. Hanno spaccato (posso smettere?). Ok: aggiungo che i capitribù del Paisley Underground (il loro genere, così scrivono i recensori fighi – un mischione di puro classico rock americano con garage, psichedelia e sana attitudine punk) non sono sembrati una band nostalgica, tutt’altro. Vivi (o meglio vissuti), elettrici e rumorosi, diretti, umili, tecnicamente portentosi con, dalla loro, un repertorio scintillante. Il pregio (maggiore) è che i brani degli ultimi due recenti dischi, si amalgamano come un tutt’uno con le incisioni di trent’anni fa (o giù di lì), dando la sensazione, appunto, di una band che non è li a ricordare gli anni (migliori) che furono, ma l’ottimo presente di oggi. Detto che sugli ultimi due pezzi li raggiunge sul palco Manuel Agnelli, grande fan della band (prima alle tastiere e poi alla chitarra) torniamo a casa a casa carichi e contenti. PS: The Dream Syndicate il miglior nome possibile per una rock ‘n’ roll band


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DISCHI DI ULTIMA GENERAZIONE

The Violent Femmes — Hotel Last Resort (PIAS, 2019) - 13 tracce, 40 minuti scarsi.

E’ di un livello molto alto questo nuovo disco dei Violent Femmes, uscito durante l’estate appena trascorsa, e che vede il gruppo di Gordon Gano e Brian Ritchie, due dei tre componenti originali, in grande forma. Inconfondibili fin dall’attacco del pezzo che apre l’album “Another Chorus”, i Violent Femmes non perdono l’occasione di divertirci e farci pensare attraverso questa loro nuova proposta, regalandoci momenti esilaranti e altri di grande tensione emotiva. E’ indubbio che queste 13 nuove registrazioni raggiungono per scrittura, esecuzione e pathos le vette dei primi tre dischi del gruppo di Minneapolis. Chi conosce le sonorità della band non si sorprenderà certamente dell’approccio e delle sonorità che emergono dai pezzi, al limite si potrà sorprendere davanti alla freschezza della scrittura, alle idee compositive, all’ispirazione giovanile, all’attitudine tutt’altro che saccente. I neofiti saranno probabilmente investiti da un’energia, taglio corto con l’etichetta folk-punk, irresistibile, un colpo di fulmine adolescenziale, un rapimento extra-dimensionale, l’ennesima magia del rock da fienile (il riferimento non è casuale). Dieci pezzi originali, tre cover (una di se stessi, una di Irving Berlin e una del gruppo greco Pyx Lax), per un giro nel luna park agreste e sincero del rock istintivo e onesto. Gano e Ritchie sanno scrivere e interpretare, sono assi della categoria, la veste delle “femmine violente” è intatta e ricamata sulle note del coro del pezzo che apre l’album, sull’andamento lirico di “Adam Was a Man”, sui chorus micidiali di “Not Ok” e “I Get What I Want”, sulla ballatona dylaniana “Paris To Sleep”, nel r’n’r divertente di “This Free Ride”, nei sapori (w)estern/balcanici di “I’m Not Gonna Cry” , nel pezzo vocale, metà filastrocca metà sciogli lingua, “Sleepin’ At The Meetin’ ” e si riconosce la sostanza della tunica anche nei pezzi più normali come “I’m Nothing” e “It’s All Or Nothing”. Ho lasciato per ultimo i capolavori, che dire dell’accoppiata centrale formata dalla title track e “Everlasting You” ? La prima, una ballata solitaria, ha come ospite Tom Verlaine dei Television alla chitarra…..che ti viene solo da piangere a sentire quella chitarra sottotraccia e le cose che fa. Da piangere per cosa ? Per tutto. L’altra, parte come se dovesse ribaltare il mondo e si trasforma prima in un fantasma velvettiano e poi in un ode solitaria notturna che fa di un male….ma di un male……Infine a chiudere “God Bless America” di Irving Berlin, scelta strana ma forse legata al momento politico americano, in ogni modo rilettura lacinante e sfibrata sulle corde di chitarra e contrabbasso, cantato di Gano solenne per l’occasione e finale nero pece tra corde buskers e il sax che di fatto inchiodano l’America al palo. La finisco qui ricordando una curiosità: “I’m Nothing” è cantata con lo skateboarding Stefan Janoski che è ospite in quanto ha disegnato una scarpa per la tal marca famosa, scarpa che porta lo stesso nome del gruppo. Ad accompagnare i due membri originali ci sono John Sparrow alle percussioni e Blaise Garza a piano, sax, contrabbasso, theremin e organo, sono musicisti che oramai da tanti anni suonano con il duo Gano/Ritchie e alla produzione c’è l’inglese Tedd Hutt che in passato ha già prodotto Dropkick Murphys, Old Crow Medicine Show e The Mighty Mighty Bosstones. Un disco da avere, sincero, diretto, cristallino, suonato alla grande e fottutamente attuale. Se comprate ancora dischi non potete perderlo…vi assicuro che la nostalgia non c’entra. (SM)

Lloyd Cole - Guesswork (Ear Music, 2019) - 8 tracce, 45 minuti scarsi.

Un'altra perla che l’estate ci ha consegnato è il nuovo disco di Lloyd Cole, per chi è sui cinquanta come il sottoscritto lo ricorderà al comando dei suoi sodali amici con la firma Lloyd Cole & The Commotions autori di dischi di notevole successo e di ottima fattura nel pieno degli anni ‘80. Altalenante, ma sempre di buona qualità, anche la carriera post-Commotions del Sig.Cole, il ragazzo inglese trapiantato a Glasgow, giunge in questo 2019, quasi sessantenne, con la lucidità necessaria a firmare un disco che ha senso, stile, suono e canzoni. Ritrovati Neil Clark alle chitarre e Blair Cowan ai sintetizzatori, due dei Commotions originali, non registravano ufficialmente insieme da più di trent’anni e Fred Maher anche lui ai synth e alle programmazioni, Lloyd firma un disco tipicamente anni ’80, dominato letteralmente dal suono dei sintetizzatori, aggiornando le sonorità dei Commotions, nei pezzi più “movimentati” sentire “Night Sweats” o la lunga “Violins” , ma anche le splendide “Moments And Whatnot” e “When I Came Down From The Mountain” ma di fatto scrivendo un disco a tratti umbratile o, visto che ci siamo praticamente dentro, autunnale. Nei pezzi più tranquilli, per esempio “Remains” o la seguente “The Afterlife” , l’iniziale “The Over Under” e la conclusiva “The Loudness Wars” come canone di riferimento principale possono essere tranquillamente presi i Blue Nile di Paul Buchanan e il disco solista, del 2012, dello stesso Paul intitolato “Mid Air” , anche se in “Guesswork” le atmosfere appaiono un pò meno rarefatte. Speziature kraut compaiono in “Moments And Whatnot” nel pezzo conclusivo sopracitato, forse reminescenze di “Selected Studies Vol.1” il disco con Hans-Joachim Roedelius dei Cluster uscito sei anni fa. Come già detto un disco ben fatto, scritto e suonato. Una grande classe quella di Lloyd Cole, raffinata, pura. Bello rincontrarlo, bello perdersi tra questi suoni, sognare a occhi aperti, bello scoprirsi a tambureggiare le dita sulla scrivania o sul cordolo del divano. Sempre riconoscente Lloyd. (SM)


“LA VOCE DEL PADRONE” EDITORIALE Una di quelle serate che capitano di rado…una di quelle che diventa troppo velocemente notte fonda. Di ritorno dal concerto dei King Crimson a Torino, Luglio ‘19. Ad una certa mettiamo su “Western Stars”, che il sottoscritto ha comprato religiosamente tre giorni dopo l’uscita all’Ipercoop di Gravellona Toce per 21,90 cucuzze. Al terzo pezzo incominciano a volare le bestemmie...no dai le bestemmie no però...non so perché ma a me i dischi del Boss dopo “Born In The U.S.A.” mi tirano fuori un stima non precisata di improperi. Anzi no, lo so il perché...il Boss non è capace di prodursi un disco. La cosa più bella che esce è: “Se Western Stars l’avesse cantato Brian Wilson non faceva una piega !!” Ad un certo punto perdiamo anche il conto di quante volte ha scritto “Tucson Train”e l’imbarazzo di fronte a “Sleepy Joe’s Cafè” è tale che la noia di “Drive (Fast Man)”, “Chasin’ Wild Horses”, “Stones” scorre via leggera, come i km mangiati sull’ A26 semideserta. “Moonlight Motel” ci fa venire nostalgia degli Eagles. I pezzi “pop”, per esempio “Sundown”, per esempio “There’s Goes My Miracle”, per esempio “Western Stars” sono un insulto a “Prove It All Night” a “Youngstown” a “Jackson Cage”. Che cosa ci comunicano musicalmente “Hitch Hikin’”, “The Wayfarer”, “Hello Sunshine” ? Nulla, niente di niente. Rimane “Somewhere North Of Nashville” la più corta. L’unica cantata in maniera un po’ sporca, la più solitaria e asciutta. La più reale. Da qui parte una sorta di “fuoco amico” su Springsteen dove i nostri ruoli si scambiano, montiano e smontiamo a vicenda i nostri impianti accusatori (e anche difensivi a essere onesti). Poi una domenica convoco i sodali di quella nottata e “il nostro caro Angelo” per l’ascolto in anteprima di “Space And Time: American Songbook”. Quello che secondo me poteva essere un ottimo lavoro di Springsteen che ne riassumeva anima, pensiero, poetica e politica. Un lavoro tanto atteso e mai arrivato in 35 anni. Ho ipotizzato, nel presentarlo, una realtà alternativa dove lui si fosse “ritirato” dopo “Born In The U.S.A.” . Ovviamente non poteva essere un disco vero e coeso. Il suo compito doveva essere restituirci quell’artista che abbiamo amato oltremisura, a cui abbiamo perdonato tutto e da cui progressivamente ci siamo allontanati perché nella realtà da 35 anni “ne azzecca una a disco. Forse due.” E da lontano gli abbiamo dato una calcio nel sedere. Si cresce anche così. Doveva essere un riscatto, un disco falso che spazzi via tutti gli altri. Da qui è partita tutta un’altra storia e alla fine abbiamo rimesso insieme la banda. Non sto qui tanto a menarvela sul senso delle cose e sul senso di WolverNight per le nostre vite passate e future, dico solo che la passione per la musica è centrale e in questi dieci anni di silenzio a me è mancato tanto e soprattutto il confronto dialettico con chi come me ha questa passione. Così ci siamo guardati in faccia e una volta ricordato dove avevamo seppellito l’ascia di guerra abbiamo acceso il pc e iniziato a scrivere. Bruce Springsteen è naturalmente il filo conduttore di tutto il numero #51 di WN, abbiamo pensato 40 pagine che un po’ scherzassero e un po’ no sulla figura del Boss. Abbiamo chiesto la collaborazione di due importanti giornalisti a livello nazionale Marco Denti (Buscadero) e S.I.Bianchi (Blow-Up). Il primo ha accettato mentre il secondo ha declinato l’invito in quanto, da poco, ha dato alle stampe “Bruce Springsteen—The Promised Man” (Tuttle Edizioni, 2019) e non sapeva, ci ha scritto, che altro aggiungere all’argomento. Peccato. Abbiamo ipotizzato retroscena storici fantasiosi, inventato due dischi (c’è anche “Born To Be Gender” il disco springsteeniano di Ezra Furman), abbiamo chiesto un articolo a un amico e grande musicista, nonché sincero estimatore di Bruce Springsteen, come Michele Anelli. Abbiamo sviscerato la storia musicale di un possibile erede del Boss e scelto apposta di parlare di gruppi e autori, che iniziammo ad amare negli anni in cui ci innamorammo di LUI, e che negli ultimi tempi han fatto indiscutibilmente ottimi dischi (più belli di “Western Stars”). Perché poi al Boss è solo una la cosa che gli rimproveriamo perché non riesci più a fare un disco che ci emozioni? Per esempio come le “Seeger Sessions”. Quello ci andava benissimo.


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–Anno 20°–Dicembre2009 ht Fanzine è promossa ciazione Culturale ?

Considerazioni “Non voglio essere il primo nero in niente” DEAN SMITH Dean Smith è stato il primo allenatore di Michael Jordan

AGITATION FREE JaNEY SNYDER ARTO PAASILINNA ANDREA MARTI PUTIFERIO BLACK EYED DOG NOISE ADDICT MALASTRADA FILM

ANDREA MARTI AREA

ABE VIGODA, B52, JETHRO TULL, BEIRUT, QUINN WALKER TIM & JEFF BUCKLEY, DAVID FOSTER WALLACE ROSSANA ROSSANDA & FRANCESCO OMODEO ZORINI


Il PAGINONE CENTRALE “L’AGGHIACCIANTE RITORNO DEL VINILE” di Massimiliano Stoto

Il vinile è tornato !!! Viva il vinile !!! Ora più che mai !!!

Me ne sono accorto ufficialmente dalla TV, quando ho visto la pubblicità di un’assicurazione, fra una serie di veloci immagini, perlopiù sentimentali, spunta una collezione di viniloni... e poi c’è quella di una carta di credito che permette al fortunato possessore di acquistare viniloni alla bancarella sul lungo lago d’estate. Ho pensato: “Ci siamo, ora è veramente tornato !!!”. Come i migliori supereroi. E come i migliori supereroi non li ammazzano mai veramente, perché altrimenti non venderebbero più un albo. Così l’industria ha deciso di riproporci di nuovo il vinile. Cosi sia….con patatine a dosi doppie. Ben inteso non sono assolutamente contro, ma deve essere chiaro a tutti che questa non è scelta di qualità ma di affari. Come l’industria discografica ha sempre fatto del resto. Dagli anni venti del ‘900, quando distinse i dischi di artisti di musica bianca da quelli di musica nera alla rivoluzione del CD negli anni ‘80. La scelta ora è: far tornare il vinile. Conviene a tutti... e forse un po’ meno alle nostre tasche. Cerchiamo di capire perché…..i puristi hanno detto per anni che il CD faceva cagare. Le registrazioni digitali e quelle analogiche hanno scatenato più risse che il rigore di Iuliano su Ronaldo. La musica dei CD era piatta, il concetto di lati A e B era scomparso e poi le copertine, i testi e l’artwork in generale...ma sai cosa ci siamo persi ? Ora che i dischi non li vende più nessuno, il vinile ritorna !!! Ora che in analogico non registra quasi più nessuno, nemmeno il gruppo che fa cover nello scantinato e suona per se stesso, il vinile ritorna. Ma che clamoroso miracolo !!!! Sgomberiamo il campo da equivoci: Lou Reed e i Metallica non hanno pensato “Lulu” per il vinile, Bowie men che meno “Black Star” e tanto per tornaci su, non l’ha fatto nemmeno Springsteen per “Western Stars”. Magari l’artwork si, ma i dischi, oggi come oggi, non sono pensati per uscire come vinile, quindi con un minutaggio ben determinato per ogni lato, e una scaletta pensata appositamente per lato A e B, insomma come si faceva nell’era pre supporto digitale. Oggi i dischi, se esiste ancora il concetto di disco, in gran parte sono fatti per essere ascoltati sulle piattaforme digitali o per quegli apparecchi indispensabili con cui passiamo molto del nostro tempo in questa epoca: le auto, i pc, gli smartphone, i tablet. E comunque anche l’era pre CD non ci mette al riparo da possibili equivoci per esempio “Born In The U.S.A.” è stato registrato in analogico o digitale ? Quale è stato l’anno spartiacque, se c’è stato è chiaro, in cui negli studi di registrazione ci fu il passaggio tra un prima (analogico) e un dopo (digitale) ? Torniamo al povero Bruce e prendiamo l’edizione in vinile di “W.S.”, 13 pezzi, 4 facciate. Tempo stimato 50 minuti circa. “The River” che aveva dietro una divisione fra brani registrati in un certo tempo e altri in un altro, esce espressamente concepito come doppio album. Ha 20 brani e dura 33 minuti circa più che “W.S.”, che esce in più edizioni e prezzi diversi, in media il vinile lo trovate sui 34,00 €. Parlo per quello che vedo e non suppongo. Vivo una vita normale, vado all’Ipercoop, all’Unieuro entrambi a Gravellona Toce e frequento principalmente due negozi di dischi Carù Dischi a Gallarate e Paper Moon a Biella. Il primo saltuariamente il secondo soprattutto via mail. Nei grandi magazzini i vinili sono comparsi già da qualche tempo, prima timidamente e ora in maniera più massiccia. Per testare la cosa li hanno fatti sbarcare anche negli autogrill per un certo periodo, a quello figo di Lainate mi sono immolato generosamente accaparrandomi “Violator” dei Depeche


in un colpo istintivo di cui mi sono poi pentito. Generalmente nei grandi magazzini si trovano unicamente ristampe di classici di autori italiani o stranieri, con prezzi che vanno dai 23 ai 35 euro. Tutta roba, i cui diritti appartengono ai soliti noti. Noti a cui è bastato solo concepire delle nuove edizioni, e i cui vinili molto probabilmente sono stati approntati trasferendo i master dal digitale. Quindi se trovate al supermarket “Led Zeppelin” o “Colpa d’Alfredo”, e vi viene voglia di acquistarli, cosa che di per sé non ha nulla di male, un consiglio che vi posso dare è quello di non andare poi a sbandierare le millenarie doti del vinile alla prima pizzata con gli amici, solo perché avete tolto dalla soffitta il piatto dopo vent’anni. Il motivo è semplice, acquistando quel vinile vi siete portati a casa un’edizione che ha più a che fare con il CD (ma lo sentirete peggio) che con le edizioni dell’epoca. Merce venduta realizzando profitti probabilmente maggiori di quelli dell’epoca. Poi ci sono casi particolari come la collezione di vinili di Battisti uscita per la Gazzetta dello Sport e a quanto pare rieditata seguendo tutti i crismi degli originali, compresa la nuova trasposizione su vinile dai master originali. Questa l’ho sentita su Radio Uno dal curatore della collana ma essendo al corrente, come molti, dell’attenzione con cui gli eredi di Battisti curano gli interessi, non solo economici, dei lavori di Lucio non me ne stupisco. Il vinile quest’anno supererà il cd nelle vendite. Ma non ci dicono come. Sarebbe bello che ci dicessero “il vinile supera il cd nelle vendite, grazie alle ristampe di un catalogo immenso di ultramegabellissimiclassici”. Perché il vinile non supera il cd nelle vendite, grazie ai dischi usciti nel 2019. Quanto vende “Norman Fucking Rockwell” di Lana Del Rey in vinile ? Quanto il nuovo Nick Cave ? E gli artisti indie ? I giovani Big Thief e il veterano Bonnie “Prince” Billy ? Pochissimo. Il vinile che si vende “tanto” è la ristampa dei classiconi dei sixties e dei seventies. L’epoca d’oro. Il resto è solo il tentativo di riproporre una cosa che non ha più ragione di essere. Che è fuori dal tempo. Che quaranta/ cinquanta/sessanta anni fa faceva piazza, gruppo, tendenza. Uscivi di casa e se non conoscevi “Zenyatta Mondatta” da alcuni compagni di classe delle medie eri tagliato fuori. E vogliamo parlare, sempre alle medie, de “La voce del padrone” ? Ce l’avevano tutti. Se non avevi il vinile o la cassetta eri out. Il vinile era un modo di comunicare. Ora si parlano in un’altra maniera, non hanno bisogno di quel pezzo di plastica. Un paio di anni fa ho regalato a mia moglie il disco di David Crosby “Lighthouse”, affascinante copertina raffigurante un faro nella tempesta. Il disco, buono ma non fondamentale, l’abbiamo ascoltato in altra maniera e il supporto fa bella mostra di sé, sigillato, come sopra mobile in sala vicino alla TV. In vacanza a Perugia quest’estate, in un bellissimo negozio di dischi del centro ho rinunciato ad “Adversus” del Colle Der Fomento in doppio vinile, mi sarebbe costato 34 cucuzze, ho optato per il cd, che veniva 2 cucuzze più della metà. Certo che si può scegliere per carità ...ma onestamente perché devo essere messo nella condizione di strapagarla sta cosa ? In questo contesto c’è il discorso mercatini….negli anni bui sono stati dei veri e propri salvagente per gli appassionati. E’ chiaro che questa “retromania” ha scatenato una corsa al rialzo del prezzo. A Veruno al Festival Prog dello scorso settembre, di decente e tenuto bene, sotto i venti euro non si trovava nulla. Ho provato a chiedere a un venditore di farmi vedere lo stato di “Black Sea” degli XTC che vendeva a 15,00 €, mi ha detto no e ho mangiato la foglia….al centro sud si va un po’ meglio, a San Benedetto del Tronto alla Fiera “L’Antico e le Palme” (è pieno di vinile e bisognerebbe ragionare proprio su quella parola: antico) mi sono sparato mini Pere Ubu, Simple Minds “Real To Real Cacophony” e The Beloved “Happiness” tutti insieme per 30,00 €. Insomma le opportunità sono molteplici, ma la sensazione è che dietro a questo ritorno ci sia solo tanto business e tante informazioni superficiali. Dobbiamo metterci in testa che quel tempo là non tornerà più. Per la fruizione della musica è stata una fase storica, culturale e sociale dalla qualità eccezionale. Per certi versi irripetibile e la musica liquida di oggi alla fine ci farà rimpiangere anche il CD. (S.M.)


TITOLI DI CODA BRUCE SPRINGSTEEN – The Promise Berkeley Community Theatre, Berkeley, CA, USA 1/7/78

“Ci sono diversi tipi di paure diversi modi di affrontare la disperazione / Johnny lavora in fabbrica e Billy lavora in centro / Terry lavora in una rock ‘n’ roll band e sogna il colpo da un milione di dollari / io non faccio nulla di particolare, passo molto tempo da solo, certe sere vado al Drive-In, altre sere rimango a casa / ho inseguito quel sogno proprio come fanno nei film ho guidato una Challenger costruita pezzo per pezzo giù sulla nona strada attraverso i vicoli scuri e le brutte scene” e poi “E quando la promessa fu spezzata morirono anche un po’ dei miei sogni / thunder road sto alzato tutta la notte finché non diventa giorno / thunder road c’è qualcosa che sta morendo sull’autostrada stanotte” e infine “thunder road per tutti gli amanti perduti ai giochi prestabiliti / per le gomme che corrono nella pioggia e mi ricordo di quando io e Billy dicevamo che saremmo arrivati a prendere tutto e poi avremmo gettato tutto via.” Non c’è nessun pezzo di Springsteen che mi ha parlato come lo ha fatto questo. Notte tra il 30 e il 31 Gennaio 1987. Terra di confine fra un giovedì e un venerdì qualunque nel bel mezzo dell’inverno. Sono passate le due da qualche minuto, “Il nostro caro Angelo” torna a casa tutto infreddolito, dopo una serata passata chissà dove e sintonizza la radio, sulle frequenze di Rai Stereonotte, un cult per quel tempo. La radio, di notte, Angelo la ascolta veramente, è un fans di quel canale... forse per caso o forse no, si trova giusto a metà di una programmazione condotta da Massimo Cotto e Ermanno Labianca che evidentemente scontenti del “Live 75/85” ne concepiscono uno alternativo. Angelo ha una cassetta da 120 pronta. Una Maxwell bianca, nera e rossa. Il programma è iniziato da un po’...schiaccia rec e fa la storia. Mi sono giunte solo due ore di quella notte, le conservo ancora con gelosia. Nel mio cuore. E’ grazie a quel programma che ho capito cos’era veramente Springsteen lì ho trovato la sua essenza e nulla di quello che avevo scoperto mi ricordava quel ragazzo “bello pettinato” che vedevo nei video che andavano su DJ Television. E “The Promise” beh.. è stata per anni un araba fenice, che non capivo perché non fosse stata pubblicata in “Darkness”. Io i bootleeg del Boss non li ho mai frequentati, troppo distratto da altro, ci sguazzavo a sentire gli springsteeniani in coda ai concerti azzuffarsi sulla miglior versione di quella e la migliore dell’altra e poi non sapevano chi erano gli Hoodoo Gurus, i Sonic Youth, gli Smiths. Fuck off pensavo. Quando finalmente la pubblicò in “18 tracks” fu una delusione. Versione Dicembre 1999, voce patinata, senza uno straccio di tensione, la canta come fosse la lista della spesa. E invece “The Promise” è una poesia disperata, un film che finisce male. Rubo le parole a Christian Zingales che nel recensire il primo Burial su Blow Up scrisse “Un disco che poggia su un abisso infinito”. Ecco “The Promise” poggia su un abisso infinito è un buco nero che ho dentro e che a cinquant’anni non sono ancora riuscito a spiegarmi. “The Promise” è mio padre che non mi ha mai detto ti voglio bene e adesso che lo vorrebbe fare mi farfuglia qualcosa, “The Promise” è l’attesa della morte per una seconda madre in ospedale, è un amico che ti volta le spalle. “The Promise” è il tradimento. “E quando la promessa fu spezzata morirono anche un po’ dei miei sogni”. La versione che propongono i due conduttori quella notte è tratta, dal concerto di Berkeley il primo luglio del ‘78. Pieno tour di “Darkness”. Nella scaletta dello show è posta dopo “Backstreets” e prima di “Rosalita” sul finire della seconda parte del live. Nel programma, il pezzo invece, apre l’ottavo disco intitolato dai due autori“Living In The Fear”, disco che racchiude, parole di Ermanno Labianca: “tutte le paure tipiche di un periodo molto particolare della vita di Springsteen” Il pezzo che giunge alle mie orecchie è però tutt’altra cosa rispetto a quello che potrete ascoltare sul bootleeg di quella serata o di quel tour. Si fonde infatti con una prima intro di Cotto che elenca le date e i luoghi delle registrazioni dei brani che costituivano il disco precedente “Night Moves” sulle note del bellissimo strumentale “Summer On Signal Hill”, un pezzo scritto da Springsteen e donato a Clarence Clemons che la incise con i Red Bank Rockers nelle sessions di “Rescue”. Il pezzo finirà sul retro del 7’ di “Savin’Up” per poi comparire nella expanded edition del 2016, ma solo in digitale. Sfumato lo strumentale si sentono degli accordi al pianoforte, un tentativo di partenza, Bruce è solo al piano, parla e poi riprende a suonare e subito entra la voce di Cotto che inizia a recitarne il testo, tale e quale a come è stato riportato in cima, al termine del quale “The Promise” si svela. Quando comincia a cantare c’è qualche grido e poi solo silenzio. Impressionante. E poi il lamento, perché è di questo che si tratta, non di un testo. Allucinato, ripetuto, ossessivo, si mostra nella sua mole imponente come una montagna di dolore e solitudine. “Follow That Dream, Follow That Dream”, urla dal fondo delle backstreets, sangue nella bocca, forse un po’ Tom Waits, forse invece solo perso nel diluvio. Kurt Logan

Other Notes: WolverNight 51 è stato prodotto, mixato e arrangiato da Kurt Logan presso lo studio “Hyde Park House” in via Pianezza n°2 a Bracchio di Mergozzo (VB). Nelle notti del 29, 30 Settembre 2019 e 07, 08, 11,13,18,19,25 Ottobre 2019 e 8, 9, 10 Novembre ’19 sulle note di: Kim Gordon – No Home Record, Madonna – Madame X, Lana Del Rey - Normal Fucking Rockwell, Bruce Springsteen – Space And Time:American Songbook, Ezra Furman – Born To Be Gender, Marlon Williams – Make Way For Love, Simple Minds – Street Fighting Years, Ian Brown – Music Of The Spheres, Big Thief – U.F.O.F., Okervill River – Down The River Of Golden Dreams.


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