WolverNight fanzine - n°54, luglio 2021

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N° 54

NUMERO 54 - Anno 31°- Luglio 2021 Redazione: Via Pianezza 2 , Mergozzo (VB) 28802 WN è stampato in proprio. Direttore Responsabile: Leicester Bangles PREZZO cartaceo offerta minima € 3,00 PREZZO pdf offerta minima € 1,00 da versare su PayPal macy69@tiscali.it

Fanzine provinciale ma di élite

Björk

Photo by Inez van Lamsweerde & Vinoodh Matadin

e altre voci da sognare

MARA REDEGHIERI JOANNA NEWSOM ORIETTA BERTI BILLIE EILISH ANTONELLA RUGGIERO DIAMANDA GALAS RHIANNON GIDDENS & FRANCESCO TURRISI JONI MITCHELL RACHELE BASTRENGHI LISA GERRARD TRIP-HOP MADAME & CROOKERS VINYL RETURN Pt.3 GIUNI RUSSO THE SUGARCUBES MICHAELA COEL I MAY DESTROY ANNA B. SAVAGE ONE LITTLE INDIAN


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EDITORIALE di Maci and The Wolvernighters Abbiamo voluto dedicare copertina e numero a una donna e smarcarci dallo stereotipo che vuole il rock, in tutte le sue derivazioni, un affare quasi totalmente maschile. Per farlo ci siamo concentrati su una delle Artiste europee più importanti nel mondo, tutto quello che è ed è stata Bjork non è necessario che lo ripeta in questo piccolo spazio, quindi salto le iperboli dovute e per presentarvela vi dico perché abbiamo scelto lei. Il suo sguardo artistico sempre rivolto al futuro, che quando sa di vecchio è solo perché è contemporaneo. La sua ricerca vocale, che non è ossessivamente sperimentale, ma è spontanea, come fosse una predisposizione naturale a rivelare un canto ancestrale, uno spirito della terra dove è nata. Il suo tatto a fondere il suono della macchina con la sua voce. A volte sembrano un tutt’uno. Le sue maschere e i suoi costumi che, in pratica da “Post”, ce la mostrano divertita prigioniera di un eterno carnevale. Ci limitiamo a dirvi ciò che di lei ci è arrivato dalla sua musica e non andiamo oltre nel lodare una figura che veramente ha posto su un altro livello, l’utilizzo del maggiore strumento femminile, la voce, e ha aperto strade e incoraggiato ragazze, a New York come nell’ angolo più remoto del mondo, a intraprendere percorsi artistici. Bjork è, in questo senso, un’artista “politica” molto più importante di quanto riusciamo a comprendere. Quindi la vocalità è il tema di gran parte di queste 72 pagine. Tutto quello che c’è di contorno all’argomento Bjork è stato sviluppato secondo le passioni dei collaboratori. Il nostro non è ovviamente un discorso completo, non potrebbe esserlo, ma si è voluto mettere l’accento sull’l’importanza di questa parte della musicalità femminile. Poi ovviamente abbiamo voluto essere, alla nostra maniera, politicamente corretti da un lato e scorretti dall’altro, visto che non c’è cenno nelle nostre pagine a vocalità di artiste di colore, se non in un paio di casi. E’ stata l’unico vincolo che ho posto ai collaboratori e di cui mi assumo la responsabilità. Ci sarà tempo e modo per realizzare un gemello di questo numero totalmente “black”, nel frattempo preparo l’elmetto.

WolverNight fanzine è su Facebook WN – n°54 – LUGLIO 2021 – Anno XXXI Redazione in carne e ossa: Mauro Giovanni Diluca, Giorgio Ferroni, Michele Griggi, Kurt Logan, Angelo Monte , Alberto Nobili, Agostino Roncallo, Massimiliano Stoto, Lewis Tollani, Sauro Zani. A questo numero hanno collaborato: Marco Denti, DJ Kremlino, Flavio Minoggio e Massimo “Nana” Toscani

Guida Spirituale: Arwen Undómiel Logo di copertina: Daniele Comello. Progetto Grafico: Kurt Logan. QUESTO NUMERO E’ DEDICATO A: SOPHIE….che voleva vedere la luna Tutte le illustrazioni ed immagini riprodotte, (dove non indicato) sono degli autori o delle persone, agenzie, case editrici detenenti i diritti. WOLVERNIGHT Via Pianezza n°2 Mergozzo (VB) 28802macy69@tiscali.it WolverNight è stampato in proprio.

Questo numero è stato stampato in 100 copie Questa in tuo possesso è la n°

di 110

1a stampa del 28/06/21

WN n°54 – Björk e altre voci da sognare - Luglio 2021 - SOMMARIO Intro - “Björk in cuffia” di Tiziana Scaciga pag. 3 “Björk é Björk é Björk” di Sauro Zani pag. 5 “Björk Discografia 1993 - 2017” di Giorgio Ferroni pag. 16 “The Sugarcubes: Zuccherini sotto spirit maligno” di Massimiliano Stoto pag. 23 “Trip Hop: Ovvero il Bristol Sound che invade il mondo con l’aiuto delle ragazze” di Lewis Tollani pag. 26 “Gente indipendente - Il pensiero politico di Björk” di Massimiliano Stoto pag.29 “One Little Indian Records: I dischi del piccolo indiano” di Massimiliano Stoto pag. 32 “Le turbolenze blu di Joni Mitchell” di Marco Denti pag. 34 “La magia di Lisa Gerrard” di DJ Kremlino pag. 38 “La stella deviante - Per conoscere Joanna Newsom di Agostino Roncallo pag. 42 “Il dolore nella voce di Billie Eilish” di Michele Griggi pag. 45 “Diamanda Galas: La rivoluzionaria del canto” di Massimo “Nana” Toscani pag. 50 “Il canto POPolare di Orietta Berti”. Intervista di Massimiliano Stoto pag. 53 “La voce bambina di Mara Redeghieri”. Intervista di Massimiliano Stoto pag. 57 “Giuni e la “Matta”: le voci irreali di Giuni Russo e Antonella Ruggiero” di Massimiliano Stoto pag. 59 Dischi di ultima generazione: Madame, Rhiannon Giddens, Anna B. Savage, Rachele Bastrenghi con mini interviste a Crookers e Francesco Turrisi di Massimiliano Stoto pag. 65 I nuovi colori del rosa - Stato del Cinema a femminile e “I May Destroy You” di Mauro Giovanni Diluca pag. 67 Vinyl return pt.3: Il drammatico ritorno del vinile di Giorgio Ferroni pag. 70 Ritratto d’artista: Björk di Flavio Minoggio pag. 72 Björk allo Zecchino d’Oro & Titoli di Coda “Stonemilker” di Kurt Logan pag. 72


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INTRO

Björk in cuffia di Tiziana Scaciga “Noi vogliamo, per quel fuoco che ci arde nel cervello, tuffarci nell'abisso, Inferno o Cielo, non importa. Giù nell'Ignoto per trovarvi del nuovo.” Charles Baudelaire, I fiori del male Ascolta una traccia di Björk. Dimmi: in quali orizzonti arrivi? E dimmi - come ti senti? Ascoltare Björk (betulla in islandese) per me, da sempre, è un po’ come ascoltare intimamente la vita in dinamica trasformazione. Il primo album l’ho scoperto a quindici anni, lo ascoltavo in cuffia. Erano gli anni di “Debut”. In copertina lei, con le mani giunte, avvolta in un colore seppia che rimanda alle sfumature del cielo quando le nuvole sono ovattate e non hanno la minima intenzione di alzarsi. Lì, appoggiate al ventre della montagna. Le nuvole. E la voce di Björk. La sua voce, in costante esplorazione ed evoluzione, estremamente femminile, sempre simile e mai identica, è ciò che ha alimentato la mia curiosità e la voglia di ascoltarla nel corso del tempo. Preferibilmente in cuffia. In Björk la motivazione biologica che spiega la riproduzione del suono oltrepassa il confine fisico, biologico orientandosi in una dimensione in cui la carne e il respiro, il pensiero e la parola lasciano emergere un immaginario collettivo (archetipo) e narrativo (biografico). E la sua voce diventa metafora di un viaggio emotivo sostanziale capace di evocare ampi orizzonti e spazi visceralmente intimi. L’estetica della sua voce rimanda ad un substrato culturale in cui la natura della vita, la natura dell’ambiente (inscindibili le radici islandesi dalla musica di Björk) tramanda storie ataviche e futuristiche, librandosi in una dimensione in cui l’aspro e il delicato, il ruvido e il morbido si uniscono in un principio di non dualità. In musica - la voce è considerata uno strumento musicale, primo e imprescindibile. Sì, se la sai esplorare. E Björk, in questo processo di esplorazione, è una speleologa, capace di rendere manifesti suoni sommersi e di curare le sfumature vocali in modo microscopico, unendo precisione esecutiva alla capacità di esprimere emozioni dense. La sua voce, dalla versatilità istintiva, è talento naturale e racchiude studio, disciplina, ricerca, ampia sperimentazione.

Fin da bambina riproduce canzoni sui tasti del pianoforte così, a orecchio, memorizzando le melodie con facilità sorprendente. In età precoce studia solfeggio, flauto e pianoforte. La sua educazione musicale è molto varia e la sua curiosità sull’argomento è senza limiti. A dodici anni è introdotta dal suo insegnante di musica all’ascolto della musica elettronica di Stockhausen. Con i Kukl, band che precede gli Sugarcubes, Björk inizia a mostrare le indicazioni di ciò che sarebbe diventato il suo caratteristico stile canoro, punteggiato da ululati - a tratti graffianti a tratti delicati - e caratterizzato da picchi improvvisi. L’artista, come un filo rosso che si dipana di album in album, fa ricorso a differenti tecniche vocali - scat singing, belting, whistle register - che intreccia come ordito e trama in modo sapiente e imprevedibile. Lo scat singing (nato nella musica jazz con l'imitazione vocale di strumenti musicali tramite la riproduzione di fraseggi simili a quelli strumentali) prevede la sostituzione del testo con sillabe improvvisate con puro valore sonoro. In Björk - non immaginiamoci lo scat singing di “One Note Samba” di Ella Fitzgerald - teniamo in considerazione che stiamo parlando di un’artista che dalla realtà che osserva ne rielabora una sua traccia personale, singolare, caratteriz-


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Bibliografia audiofollia.it/bjork knikitashina.wixsite.com regoon.com/artist/bjork storiadellamusica.it

Photo by Jean-Baptiste Mondino

zando la tecnica appresa con sfumature eclettiche, espressive della sua personalità musicale poliedrica. In “Gling Gló” (album che raccoglie brani jazz famosi e lavori originali) emerge il virtuosismo canoro in cui i fonemi o le sillabe sostituiscono le parole per costruire improvvisazioni ritmico melodiche. E, volendo fare un passo in avanti, lo scat singing penso sia stato per Björk humus fertile nella creazione e/o approfondimento dei suoi inconfondibili e sinuosi vocalizzi che caratterizzano praticamente ogni suo brano - costanti come un mantra per un buddista. Il belting (risuonare e rimbombare) - è una tecnica di canto, sviluppatasi prima dei microfoni, che consente di generare ed emettere un suono molto potente e di grande intensità drammatica. Il meccanismo che sta alla base è quello di indirizzare il suono, ben in pressione, verso l’alto, facendolo risuonare il più possibile nelle zone delle cavità nasali - ad esempio in “All Is Full Of Love”, “Pluto”, “Oceania”. Il whistle register (registro di fischio) è una tecnica vocale che permette di raggiungere il range tonale più acuto dell'estensione umana (“It’s All So Quiet”, “Big Time Sensuality”, “Human Behavior”, “So Broken”, “Who Is It ?” ...). Un altro aspetto di imprescindibile importanza nella musica di Björk è la lingua (per i linguisti code choice, ovvero la scelta del codice). La sua prima lingua è l’islandese. La seconda è l’inglese, studiato dalle scuole elementari, e, nella realtà dei fatti, lo metterà in pratica realmente con le prime tournée in giro per il mondo con i Kukl e gli Sugarcubes. La prima lingua corrisponde all’identità e la seconda lingua (così come per molti artisti non madrelingua inglesi) delinea la necessità di esprimersi e raccontarsi attraverso un codice che risulta essere comune denominatore internazionale. Seguendo le osservazioni di Jón Friðrik Jónatansson emerse nella tesi ‘Björk Guðmundsdóttir - A Phonological, Phonetic and Sociolinguistic approach’ - l’uso delle due lingue in Björk assume un senso del compromesso tra l’abbandono alla natura selvatica e l’inseguimento del futuro - come dire, da un lato l’islandese / radici / valore simbolico afferente: Natura /Ambiente, e l’inglese / apertura al mondo / valore simbolico afferente: tecnologia-progresso. Ed è interessante notare, più facilmente catturabile nelle interviste rilasciate in inglese, come l’artista decida o meno di enfatizzare il suo accento islandese attraverso la modulazione dell’intensità della pronuncia di alcuni fonemi (glottal stop): come la r, la p, la k - volendo rimarcare la sua appartenenza. Sicuramente evocativa anche la sua capacità di creare, dal punto di vista linguistico, una sua cosmogonia personale, alternando negli album l’uso delle due lingue, creando nuove parole (Vulnicura) o suoni che sembrano arrivare da una terra non ben identificata (Öll Birtan).

La tessitura della sua voce - ovvero quell'intervallo di note in cui si canta più agevolmente, senza sforzo e con agio rientra nella categoria vocale del soprano, con estensione vocale da Mi3 a Si6. In sostanza, è una viaggiatrice di differenti registri vocali con un timbro singolare dalle ampie potenzialità espressive. La cantante islandese adatta il contenuto del racconto alla voce e viceversa, rivolgendosi all’ascoltatore in modo delicato o dirompente, provocatorio o riservato - frenetico o estremamente lento - alternando emissioni eteree o materiche. E la voce diventa espediente per esprimere traumi, segreti (attraverso suoni più gutturali) o sensualità, dolcezza, amore (tratteggiando sussurri calmi). Björk non cerca conferme, ma esprime modi di essere e di stare. Nel 2010, in riconoscimento della "sua musica e i suoi testi profondamente personali, i suoi accurati arrangiamenti e la sua voce unica" le viene assegnato il Polar Music Prize dall'Accademia Reale di Musica Svedese. Emblematico, in termini di ricerca vocale, è l’album “Medulla”. Björk dichiara, durante una intervista a Alex Ross per la rivista New Yorker “Voglio stare lontana dagli strumenti e dall’elettronica, voglio vedere cosa si riesce a ricavare dall’intero spettro emotivo della voce umana: una voce sola, un coro, voci impostate, voci pop, voci folk, voci strane. Non soltanto melodie ma qualsiasi rumore venga prodotto da una gola”. Un album in cui sollecita ed amplifica una riflessione di natura shakespeariana: quanti personaggi possono vivere ed essere rivelati nella stessa voce e nella stessa persona? Seppur non sia sempre semplice seguirla (e ascoltarla) sicuramente vale la pena conoscerla per quel fuoco che arde nella sua ricerca artistica. ti.


Esistono solo due generi di musica: quella bella e quella brutta (Duke Ellington)

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…ma questa qui, è un vegetale o un minerale? (John S.Hall – King Missile) La cifra della musica del nostro tempo non credo stia nel “mainstream”, bensì nel “multi-stream”, una moltitudine di flussi che si snodano lungo il fiume del tempo, di cui noi oggi abbiamo raggiunto il delta e forse ci siamo avventurati oltre, verso un oceano aperto che sta tornando ai cieli. (John Cage)

THAI POP Siamese Soul, Volume 2 (Sublime Frequencies) STEVE REICH Tehillim; Steve Reich and Musicians (ECM) MAHLER Symphony No. 10; Simon Rattle conducting the Berlin Philharmonic (EMI) BERG Lulu; Pierre Boulez conducting the Paris Opera Orchesta (DG) ALIM QASIMOV Azerbaijan: The Art of the Mugham (Ocora) JONI MITCHELL Don Juan's Reckless Daughter (Asylum) KATE BUSH The Dreaming (EMI) NICO Desertshore (Reprise) PUBLIC ENEMY It Takes a Nation of Millions to Hold Us Back (Def Jam) APHEX TWIN Drukqs (Warp) PANASONIC, Panasonic EP (Sähkö) BLACK DOG PRODUCTIONS Bytes (Warp) JAMES BLAKE James Blake (Atlas) (Lista degli album preferiti di Björk, da un’intervista di T. Mann del New Yorker)

Introduzione: l’inclassificabile Björk La pop star islandese Björk ha trascorso la sua carriera abbattendo i confini, scombinando le carte, intrecciando i dualismi tra opposti così come vengono rappresentati e percepiti dal senso comune. Björk sfida e rifiuta il dualismo binario tra cultura “alta” e “bassa”, tra musica d’arte e pop, tra natura e tecnologia, tra femminismo e femminilità, proponendo un ideale post-moderno come approccio possibile ad una società in evoluzione. Probabilmente Björk rappresenta più di tutto cosa sarebbe possibile se gli umani smettessero di ergere barriere e confini per definire, comprendere e dominare il mondo - dai generi musicali ai confini nazionali - un modello e un’ esortazione a concentrarci su ciò che ci accomuna, nel rispetto delle libertà d’espressione individuale. Sembra retorica, mentre è sostanza nel nostro mondo di “magnifiche sorti e progressive” in cui nonostante le sue infinite potenzialità per l’affermazione del pluralismo, del multiculturalismo e della collaborazione, si affermano altrettante (o forse più) divisioni e discriminazioni basate su razza, classe, sesso e religione e anche in un ambito puramente estetico (se non addirittura ludico) come quello musicale facciamo ancora troppa fatica a concepire ed accettare il superamento dei preconcetti di genere. Björk è Björk è Björk. Come la famosa frase di Gertrude Stein su una rosa, è davvero meglio saltare gli aggettivi e gli avverbi, le metafore e le similitudini, se si vuole veramente parlare di Björk. Dal momento in cui Stein ha postulato che "una rosa è una rosa è una rosa", la frase è stata spesso letta come un rifiuto modernista alle descrizioni fiorite dell'era romantica e un tentativo di liberare finalmente la parola dalle sue gabbie semantiche e dai simbolismi eredi-

tati e accumulati nei secoli. Tuttavia, la frase indica anche la concezione postmoderna dell'ambiguità del significato in generale. Ad esempio, una rosa può essere descritta come qualcosa di diverso dalla semplice rosa, considerando gli infiniti significati possibili della parola per persone diverse in situazioni diverse. Questo ragionamento ci porta a mettere in dubbio la capacità del linguaggio descrittivo per spiegare qualcosa che è essenzialmente soggettiva e quindi sfida in primo luogo ogni categorizzazione. La sfiducia modernista della rappresentazione, cioè "la rosa è rossa", è chiaramente portata al livello successivo dalla sfiducia postmoderna della parola "rosa" stessa. Detta male, col modernismo mettiamo in discussione gli aggettivi, col post-modernismo mettiamo in discussione anche i sostantivi. Fino ad arrivare alla pipa di Magritte (“Questa pipa non è una pipa”) dove il significante (l’immagine) viene definitivamente scisso dal significato (l’oggetto). Allo stesso modo, tentare di classificare e definire l'arte e la filosofia di Björk ingabbiandola in categorie tradizionali e condivise può risultare alquanto sfuggente e complicato: quando si dice "Björk", non ci si riferisce a qualcosa di singolare, ma a una miriade di molteplicità e ambiguità: cantante, musicista, compositrice, ballerina, fashionista, artista, madre, attrice, opinion-maker, eccentrica, celebrità, vichinga, inuit, sex-symbol, folletto, ragazza, donna, guerriero, amante, pagana, mistica, innovatrice tecnologica, femminista, casalinga,… e potremmo andare avanti. La sua arte è stata descritta come qualsiasi cosa, dal mainstream all'underground, dal pop all'avanguardia, dall'elettronica al post-rock, dal celestiale all'abrasivo, dal progressivo al decadente, dal politico all'apatico, dal sim-


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patico al sexy, e spesso semplicemente come una cosa strana, bizzarra o ridicola. Quindi, come con la "rosa" della Stein, probabilmente la cosa più facile è quella di dire semplicemente "Björk". Volendo scendere un po’ più verso il pianeta terra e tentare un approccio analitico “classico” al fenomeno, si potrebbe iniziare col dire che Björk, come artista, rappresenta così tante identità e stili apparentemente contrastanti, che, parafrasando la giornalista musicale Evelyn McDonnell, si può affermare che Björk è la "prima star post-rock al mondo". Il termine "post-rock" coniato dal giornalista musicale inglese Simon Reynolds per descrivere opere pop / rock che sono influenzate più dagli stili elettronici, dalla musica dance, dal jazz e dalla musica classica rispetto al vecchio rock 'n' roll basato sugli stilemi del blues - sembra, anche qui, implicare una certa postmodernità che probabilmente è la cifra di questa artista. Del resto, un aspetto importante del postmodernismo è proprio la sua attitudine a rimuovere e travalicare le distinzioni tra gerarchie culturali prestabilite e comunemente accettate. In questa luce, Björk rappresenta sicuramente un fulgido esempio di figura postmoderna.

1965 - 1982: Infanzia e Adolescenza Da “Sound of Music (Tutti Assieme Appassionatamente)” a “Rokk I Reykjavik” Ora, per comprendere appieno questa artista così multiforme e poliedrica, è importante definirne il background e conoscere meglio qualche dettaglio sulla vita e la carriera di Björk, in tutte le sue molteplicità. Partiamo allora dal cognome: Björk nasce Björk Gudmundsdóttir il 12 novembre 1965 figlia di Hildur Rúna Hauksdottir (madre) e Guðmundur Gunnarsson (padre). Il suo cognome è, di fatto, un patronimico e significa letteralmente "figlia di Guðmund". Nonostante le molte illazioni sui media , Björk non è né un elfo, né un "Inuit", né tantomeno cinese, nonostante i sui tratti mongolidi. I suoi genitori sono di origine europea, e le sue caratteristiche Inuit derivano da un

gene Inuit proveniente da incontri passati tra islandesi e popolazioni artiche come i groenlandesi, risalenti ai tempi di Erik il Rosso. Contrariamente a quanto si dice, non viene dallo spazio: è cresciuta e vive ancora parte del suo tempo a Reykjavik, capitale dell’Islanda, un luogo remoto e interessante sotto molti punti di vista e, come vedremo più avanti, un elemento chiave in ciò che rende Björk "Björk". E’ bene considerare che Reykjavik ospita più della metà dei circa 300 mila abitanti dell'Islanda, che insieme trascorrono sei mesi dell'anno in una luce diurna pressoché costante e gli altri sei in un'oscurità costante. L’Islanda è un paese giovane sotto molti aspetti. Dal punto di vista storico-politico, quest’isola fu colonizzata da norvegesi e celti (questi ultimi provenienti dalle attuali Irlanda e Scozia) che vi si stabilirono alla fine del IX e X secolo dell’era moderna e non divenne una nazione indipendente fino al 1944, al termine dell'occupazione danese. Da un punto di vista geologico si tratta di una terra emersa di recente (si fa per dire, parliamo di 15-20 milioni di anni) dalla dorsale medio-atlantica, da cui deriva la sua instabilità tellurica e la sua diffusa e imponente attività vulcanica e geotermica: tutto questo, unito alla sua latitudine settentrionale (oltre il 64° parallelo Nord) la rende un luogo estremo, caratterizzato da paesaggi aridi dominati da ghiacciai sterminati, dolci colline verdi, tundra incrinata, lava ribollente e fango. Björk, quindi, non solo cresce in un contesto geografico unico, ma anche in una casa e un contesto famigliare decisamente singolari. I suoi genitori - sua madre una hippie stravagante e suo padre un elettricista un po’ pedante – rappresentano un’alchimia che non funziona e si separano poco dopo la sua nascita. Hildur si trasferisce allora con la figlia in una comune contro-culturale, dove si innamora rapidamente di Sævar Árnason un chitarrista noto come il "Jimi Hendrix d'Islanda" (!) con cui si risposa poco dopo. Artisti e musicisti si riuniscono regolarmente nella casa di famiglia per suonare musica , scambiarsi storie e farsi qualche... drink, in un’atmosfera bohémien che sicuramente contribuisce a plasmare il suo carattere e la sua visione del mondo. A quanto pare, mamma / papà è stato il primo dualismo che interviene a complicare la vita della piccola Björk: infatti mentre vive principalmente nella comune di adulti con sua madre e il suo patrigno, trascorre però anche molto tempo col padre biologico e i nonni, assorbendo e integrando così una varietà di stili di vita e di gusti tra i più disparati fin dalla più tenera età. Il principale tra questi gusti disparati è la musica. La comune è piena di rock 'n' roll a tutte le ore, sia allo stereo che dal vivo, suo padre è invece appassionato di jazz mentre i nonni (anche il padre si risposa e quindi aumentano…) sono il veicolo per il folk tradizionale islandese e il musical. Essendo esposta a così tanti stimoli musicali fin da piccola, per Björk è naturale diventare una cantante e una musicista. Pare che fin da bambina esprima doti da fenomeno in campo musicale: è in grado di riprodurre al pianoforte canzoni appena ascoltate, semplicemente e naturalmente, “a orecchio”, memorizzando le melodie in maniera sorprendente: sa cantare l'intera colonna sonora di “Sound of Music (Tutti Assieme Appassionatamente)” all'età di tre anni e ancora in tenera età inizia un percorso formale presso una scuola di musica di Reykjavik, inserendo così nella sua tavolozza musicale oltre agli ingredienti “domestici” fatti di rock, musical e jazz anche la musica classica che studia a scuola dall'età di sei anni fino


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all'età di quattordici. Si verifica quella che in altri contesti viene definita “una tempesta perfetta”, dove considerevoli doti naturali sono inserite in un milieu favorevolissimo, in grado di favorire al massimo grado lo sviluppo del suo innato talento multiforme. Anche se inizialmente non è così interessata al canto (i suoi strumenti preferiti pare siano il pianoforte e il flauto), è subito evidente che ha del talento con la voce. In effetti, è la sua voce a portarla alle sue prime registrazioni all’età di undici anni. Dopo una registrazione scolastica del classico “I Love to Love” di Tina Charles del 1976, il suo insegnante di musica è così entusiasta che ne invia una copia all’emittente islandese Radio One. Anche alla stazione radio se ne innamorano e, grazie ai contatti del suo patrigno nel mondo della musica, Björk ottiene il suo primo contratto discografico con l'etichetta islandese Falkkin. Alla fine del 1977, entra in studio con un gruppo di musicisti e incide il suo primo album completo: semplicemente intitolato Björk, la copertina era disegnata da sua madre Hilda ed è composto principalmente da cover di brani folk islandesi, brani disco americani (Stevie Wonder) e pezzi pop (Beatles), ma anche un paio di originali. L'album diventa rapidamente disco di platino in Islanda, vendendo oltre settemila copie e facendo di Björk una celebrità per i bambini dell'isola. Nonostante questo promettente avvio della sua carriera musicale, Björk, mostrando una maturità eccezionale per una ragazza così giovane, rifiuta di fare un secondo album sulla scia del primo. Non solo non le piace l'attenzione generata dal fatto di essere una star bambina, ma trova anche degradante il fatto che l’etichetta Falkkin voglia farle cantare musica per bambini, mentre lei si è sempre considerata una musicista impegnata, alla pari degli adulti: del resto, l'unico originale scritto da Björk al suo debutto nel 1977, “Jóhannes Kjarval”, è un pezzo per flauto dedicato a un pittore islandese che lei ammirava molto. Alla fine si annoia della scuola di musica (dove si suona "musica vecchia " per tutto il tempo) e, dopo essersi diplomata all'età di quattordici anni, lascia la casa/comune dove viveva con la madre per intraprendere una propria strada come batterista per un gruppo punk di sole ragazze chia-

mato Spit and Snot. Sfruttando l’eterogeneità musicale del suo background e mostrando un eclettismo innato, continua nei due anni successivi a esibirsi in un paio di band molto diverse tra loro: Exodus, un gruppo sperimentale jazzistico, e Jam 80, una bizzarra cover band da discoteca. Nel 1981, i Jam 80 iniziano a scrivere canzoni proprie in uno stile pop-punk e cambiano il loro nome in Tappi Tikarrass. Non manca certo il carattere a questa ragazzina inquieta di 15 anni. Sebbene secondo la maggior parte dei riscontri sia una band abbastanza mediocre e derivativa rispetto ai modelli post-punk anglo-americani (anche se gli va riconosciuta una certa “preveggenza” post-punk, tra Pixies e Gang of Four), i Tappi Tikarrass diventeranno un gruppo cardine per gli sviluppi della carriera musicale di Björk. Infatti, come membro di Tappi, Björk è immortalata sul poster del documentario locale sulla scena punk in erba di Reykjavik, “Rokk I Reykjavik”. La sua immagine appare così su tutti i poster promozionali del film, sulla copertina della colonna sonora e anche sulla copertina del film omonimo del regista Por Fridriksson che documenta l’evento. L'aumento dell'esposizione si rivela foriero di nuove opportunità musicali per Björk anche per le sue doti musicali evidentemente superiori alla media degli altri protagonisti di quella scena. Tappi permette poi a Björk di entrare in contatto con altri artisti, come la Medusa Clique, un gruppo di scrittori e filosofi adolescenti dove incontra due figure chiave per i successivi sviluppi artistici e personali: Sjón Sigurðsson, il suo primo collaboratore alla scrittura dei futuri brani, e Þór (Thor) Eldon, il suo primo amore… Tappi Tikarrass

1983 – 1992: Oltre l’Islanda Dalla Crass Records agli Sugarcubes Nel 1983 l’entusiasmo e il fervore (post) punk hanno ormai esaurito la loro spinta propulsiva sulla scena di Reykjavik e dalle ceneri delle band che avevano animato quella scena ormai in declino, emerge come una fenice un super gruppo di talenti musicali locali che si fa chiamare Kukl ("Stregoni"), composto da Björk ed Einar Örn alla voce, Sigtryggur “Siggi” Baldursson alla batteria, Gudlaugur Ottarson alla chitarra, Birgir Mogenson al basso e Einar


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Gli Sugarcubes prendono vita originariamente come uno scherzo, un divertissement, concepito dalla Smekkleysa per Melax alle tastiere. Il suono sperimentale, intellettuale e irridere e parodiare la musica pop del periodo. La band include oscuro dei Kukl attira l'attenzione dei media e Örn riesce a Örn e Björk dei Kukl alla voce, ma rispetto alla band d’origine, rimediare alla band un accordo con l'etichetta inglese Crass qui i due cantano testi più articolati e soprattutto melodie più Records - braccio operativo dell’omonimo collettivo anarcoruffiane e orecchiabili. La band include anche il batterista dei punk, primi teorizzatori e promotori dell’approccio DIY che Kukl, Siggi Baldursson, il marito di Björk Eldon alla chitarra, tanta parte avrà nel plasmare, non senza qualche ingenuità, Bragi Olafsson al basso e Einar Melax, sempre ex-Kukl, alle tal’etica indipendente più radicale degli anni ’80 - che avrebbe stiere. Nonostante l’iniziale atteggiamento ironico e satirico, si supportato il gruppo in un paio di tour europei e due album. innesca una sorta di corto circuito che li porta a scrivere diverIl contesto anarco-intellettualoide, l’eclettismo strumentale si brani wave-pop molto validi e finendo per diventare un (organi, fisarmoniche, ottoni e vibrafoni) e il miscuglio di gruppo da classifica, talmente determinato che Örn inizia a generi (dalle ruvidezze post-punk al funk fino alle pretenzioprendere contatti con l’industria discografica per alcuni demo se raffinatezze prog del sound di Canterbury), fanno dei che li condurranno ad un contratto in Inghilterra . Kukl una band di culto in Europa. Intanto, come se tutto Nonostante il divorzio tra Björk ed Eldon nel 1987, gli Sugarcuquesto non bastasse, durante la sua militanza coi Kukl, Björk bes continuano la loro avventura come band e a scrivere nuotrova il tempo per suonare la batteria coi Rokha Rokha va musica. Proprio quell’anno, il 22 agosto 1987, dopo una Drum e soprattutto per impegnarsi con Siggi e il chitarrista prima edizione in lingua islandese, esce il loro singolo Hilmar Hilmarsson nel progetto Elgar Sisters, le cui traso“Birthday” accolto da recensioni entusiastiche in Inghilterra e gnate ninnenanne minimaliste lasciano stupefatti gli ascoldal favore di John Peel che trasmetterà ripetutamente il brano tatori: due brani in particolare composti sotto questa denonel suo famoso programma sulla BBC: il gruppo ha infatti firminazione vennero registrati e utilizzati nel 1993 come bmato un contratto discografico con la One Little Indian, un'etiside di “Big Time Sensuality” e “Venus As A Boy” di Björk. chetta indipendente con sede a Londra guidata da Derek BirNel 1986, anche l’avventura Kukl arriva al capolinea, anche kett e Tim Kelly, rispettivamente bassista e chitarrista degli se il profondo legame tra i suoi membri li porta a continuare anarcho-punk Flux Of Pink Indians e si appresta ad invadere a esibirsi dal vivo assieme. Örn, Björk e Eldon creano un l’Inghilterra, prima, e l’Europa poi. nuovo progetto, il collettivo Smekkleysa (“Cattivo Gusto”) Presto, la band firmerà un contratto con la major Elektra per la con l’obiettivo dichiarato di promuovere espressioni di distribuzione negli Stati Uniti e nel 1988 l’album di debutto "gusto discutibile" (cioè l’underground) combattendo tutti i “Life’s Too Good“ sarebbe diventato un successo internazionaprincipi del "buon gusto" imperante (cioè il "mainstream"). le, facendo registrare ben oltre un milione di copie vendute in Questo progetto sopravviverà fino ad oggi come etichetta tutto il mondo. discografica senza scopo di lucro e diversi gruppi islandesi Il successo degli Sugarcubes si rivela però fugace quando dagli contemporanei come i Múm e i Sigur Rós, per citarne alcuni anni '80 si passa ai '90. Uno dei problemi maggiori è la tensiodei più noti, hanno pubblicato i primi lavori proprio con ne nella band riguardo al ruolo della voce nell’economia comSmekkleysa. Nel frattempo, i Kukl si riuniscono per un paio positiva della band. Nonostante si considerassero un gruppo di "reunion show", il più famoso dei quali è uno spettacolo democratico senza predominanza di ruoli, è chiaro che è Björk televisivo (Rokk Arnir on Ríkis út varpíð) in cui Björk, all’epoil beniamino dei media ed è sempre Björk a essere identificata ca incinta del figlio di Eldon, esibendosi “a pancia scoperta” come il leader della band da parte della stampa. Il suo aspetto si attira gli strali della comunità conservatrice islandese. Il Inuit, la voce ferocemente unica, la bellezza sbalorditiva e loro figlio Sindri nasce nel giugno 1986 e quasi contemporal'atteggiamento giovanile portano rapidamente i media britanneamente vede la luce la nuova “house band” dell’etichetta nici a idealizzarla come una sorta di meraviglia pop "elfoSmekkleysa che porterà entrambi i giovani genitori (ora mafolletto-eschimese-donna-bambina". rito e moglie) alla ribalta internazionale: i Sycurmolnarnir Al contrario, la bizzarra voce di Örn è sempre stata aspramenovvero gli Sugarcubes. te criticata dai media, il che, combinato con la grande popolarità e l’appeal di Björk, finiSugarcubes sce per generare sempre più malumori ad Örn e agli altri membri del gruppo. Nel 1989 viene poi licenziato il secondo album della band, “Here Today, Tomorrow Next Week!”, che viene accolto da critiche poco entusiastiche e da uno scarso successo commerciale, mentre la maggior parte dei media e molti fan chiedono che Örn sia espulso dal gruppo per far posto a Björk come frontwoman. A quel punto, siamo nel 1990, è chiaro che la band ha bisogno di una pausa di riflessione. Invece che risolvere e attenuare i conflitti, la pausa porta però alla luce un'altra tensione chiave tra Björk e il resto del gruppo: la sua diversa visione musicale e il rifiuto di vedere e soprattutto praticare i confini del genere.


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degli U2 del 1992. E’ questo il suo ultimo atto di buona volontà nei confronti dei suoi ormai ex-compagni di band e, dopo tre estenuanti settimane ad alta tensione, diventa finalmente un’artista solista.

Björk and 808 State

Durante il 1990, mentre Björk lavora in un negozio di dischi di Reykjavik – lei che ormai è una star internazionale - si interessa sempre di più alla nuova musica dance elettronica proveniente dall'Inghilterra dell'epoca, conosciuta in modo intercambiabile come techno, acid house o musica rave e dallo sperimentalismo della Warp (Autechre, Up, Speedy J). Nello stesso anno, Björk si unisce al principale trio jazz islandese, Tríó Guðmundar Ingólfssonar, per eseguire e registrare una raccolta di standard islandesi che viene pubblicata con il titolo “Gling-Glo”. L'album diventa rapidamente disco di platino in Islanda. Nel frattempo, inizia a lavorare a del nuovo materiale che riflette il suo lavoro in ambito jazz, l'educazione classica e, soprattutto, il suo crescente interesse per la musica dance elettronica. Quando tutti gli Sugarcubes tranne Baldursson esprimono la loro avversione per la deriva elettronica, diventa chiaro a Björk come sia giunto il momento di cercare altrove i suoi futuri collaboratori e compagni di viaggio. La nuova meta sarà l’Inghilterra, ovviamente, ma non si rivela un passaggio facile. Inizialmente nessun produttore locale di techno o house è disposto a investire su di lei, fino a quando nel 1990 riesce a mettersi in contatto con uno dei suoi gruppi elettronici preferiti, gli 808 State e le cose prendono un’altra piega: composto da Graham Massey e Martin Price, il duo di Manchester è uno dei gruppi di punta della scena dance elettronica e offre a Björk la possibilità di cantare su un paio di brani (Ooops e Q-mart) del loro nuovo album, “Ex:El”. Massey è particolarmente colpito dalla vocalità di Björk e la sua collaborazione si estese così al materiale solista di Björk. Nel 1991, nonostante le crescenti tensioni all'interno del gruppo, gli Sugarcubes si riuniscono per registrare un nuovo album, il terzo e l’ultimo previsto dal contratto con la Elektra. Björk è evidentemente già oltre l’esperienza con quella band e lei e il produttore di quelle sessioni, l'americano Paul Fox ingaggiato dalla Elektra a garanzia della qualità del prodotto, iniziano a discutere le sue idee per un disco solista. Il terzo album degli Sugarcubes, “Stick Around for Joy” del 1992, viene effettivamente accolto con reazioni positive sia dai fan che dalla critica, ma il destino di Björk con gli Sugarcubes è ormai scritto: il suo crescente interesse per la musica dance elettronica, la popolarità di un film in cui ha recitato nel 1987 (“The Juniper Tree” della regista statunitense Nietzchka Keene) e le sue collaborazioni con gli 808 State marcano la crescente distanza creativa nel gruppo e diffondono la gelosia degli altri membri della band nei confronti di Björk, la cui stella continua a brillare con un’intensità crescente, al di là e indipendentemente dal gruppo. La goccia che fa traboccare il vaso è l’esibizione dal vivo con gli 808 State di fronte a 10.000 fan al G-Mex Stadium di Manchester nel 1991: sebbene relativamente sconosciuta nella scena rave hardcore di cui fa parte la maggior parte del pubblico, i suoi compagni di band disapprovano completamente quel genere di musica in quanto inautentica e vede questa collaborazione come un vero e proprio affronto alla band e alle convinzioni ideali dei suoi membri. Siamo al punto di rottura, Björk non vede l'ora di smettere, ma accetta di rimanere con gli Sugarcubes per uno slot di apertura di tre settimane per il tour Zooropa

1993 – 2001: Il Successo Internazionale Da “Debut” a “Vespertine”, da Dom T a Matthew Barney (via Tricky, Goldie e Howie B). Nasce Ísadóra. Nel 1993, Björk si trasferisce a Londra con il figlio Sindri. Vive in un appartamento con il DJ house Dom T, che Björk ha incontrato a Los Angeles durante le registrazioni con Paul Fox per l’album “Stick Around For Joy”, ultimo atto degli Sugarcubes. I due sono sempre più coinvolti sentimentalmente, nonostante la separazione geografica, e quindi il trasferimento di Björk a Londra è anche una sorta di coronamento della loro relazione. Londra si rivela un ambiente fertile per la nascita del primo disco solista di Björk: non solo vi ha scritto le prime versioni di “Army Of Me” e “The Modern Things” con Massey, ma è qui che entra in contatto, sempre grazie a Paul Fox, con due musicisti jazz che risulteranno decisivi negli sviluppi musicali a venire: l'ex arpista di Frank Sinatra Corky Hale e il leader del World Saxophone Quartet Oliver Lake, che sarebbero apparsi entrambi nella sua imminente opera prima solista. Tuttavia, l'album rimane ancora solo un idea fino a quando non incontra il produttore Nellee Hooper – già produttore di Soul II Soul e Massive Attack e successivamen-


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te di Madonna e U2, tra gli altri. Presentatole da Dom T, Hooper diventa il produttore del progetto solista di Björk. La coppia lavora così intensamente e proficuamente assieme che in seguito Björk descriverà questo periodo come "una storia d'amore musicale tra me e Nellee": Fox e Massey si erano gentilmente fatti da parte (“ubi major…”) mentre Björk e Hooper realizzano quello che sarebbe diventato in Europa uno degli album più importanti dei primi anni '90: “Debut”. Pubblicato alla fine del 1993 su One Little Indian (nel Regno Unito) ed Elektra (negli Stati Uniti), “Debut” ha un immediato successo in Gran Bretagna, Islanda e Europa continentale. Il disco è il prodotto dell’ampia tavolozza musicale a disposizione di Björk e Hooper, dove troviamo un amalgama di ritmi techno dance, i fiati della tradizione swing, classici arrangiamenti orchestrali di archi, timpani e tabla indiani, piegando o infrangendo ogni regola di genere. Con singoli che raggiungono la posizione # 17 nel Regno Unito, l'album ha funzionato sia come un disco pop, sia come album dance destinato al dancefloor dei club più alla moda, conquistando ascoltatori al di fuori di entrambi questi generi. Le vendite di “Debut” vanno un po’ meno bene negli Stati Uniti, ma i video musicali innovativi di artisti del calibro di Michel Gondry contribuiscono a rendere rapidamente Björk un’icona di MTV. Alla fine del 1994, Björk vince i Brit Awards come Miglior Artista Esordiente e Migliore Artista Femminile internazionale – memorabile la cover di “Satisfaction” degli Stones eseguita in duetto con PJ Harvey durante la cerimonia di premiazione, che plasticamente riunisce le due artiste tanto diverse quanto complementari, probabilmente le più significative degli anni ’90.

Björk e P.J. Harvey Sempre nel 1994, Björk appare nuovamente in un film, un cameo in “Ready To Wear” (Prêt-à-Porter) di Robert Altman, rinunciando a numerose altre proposte cinematografiche che iniziano a fioccarle addosso. Nel frattempo assurge a icona della moda, mentre il suo marchio di abbigliamento usato e i riccioli “alla Principessa Leia” diventano la tendenza più “hype” sia in Europa che negli Stati Uniti. Dopo un tour mondiale di supporto a “Debut”, Björk e il figlio

Sindri si stabiliscono a Londra in modo permanente, ma per conto loro: il tour ha messo a dura prova la relazione con Dom T e i due si sono lasciati alla fine del 1994. A questo punto Björk inizia a lavorare con Nellee Hooper al suo secondo lavoro, collaborando con i produttori di elettronica Massey, Howie B, Marius DeVries e Tricky per completare l’album “Post” che uscirà nel 1995. L'album si rivela un successo ancora maggiore di “Debut”, annullando ulteriormente le barriere di genere e aprendosi a nuovi orizzonti sperimentali. Inizia anche a prendere lei stessa sempre più il ruolo di produttrice della sua propria arte: accanto al suo cast di co-produttori esperti in musica elettronica, Björk lavora direttamente alla produzione dell'album, in particolare sui singoli che vedevano la partecipazione di artisti provenienti dalla tradizione classica come Eumir Deodato, The Brodsky Quartet e la percussionista scozzese Evelyn Glennie. Anche il jazz fa la sua apparizione, attraverso la cover di un vecchio brano interpretato da Betty Hutton nel 1951, intitolato “It’s Oh So Quiet”, a sua volta cover di “Und Jetzt Ist Es Still” scritto da Hans Lang ed Erich Meder nel 1948: grazie soprattutto al video di accompagnamento di Spike Jonze che catapulta Bjork in un musical stradaiolo, rivelandola un po’ Mary Poppins e un po’ folletto da fiaba, questo brano diventa sorprendentemente il più grande successo di Björk fino ad oggi spalancandole finalmente le porte della popolarità anche negli Stati Uniti. Nel 1996, Björk è ormai una superstar di caratura internazionale e, come un copione che spesso si ripete nello star system, inizia a sperimentare anche i lati oscuri della celebrità. Nel febbraio del 1996, esaurita per i ripetuti jet lag, le continue apparizioni in pubblico e il tour internazionale, si rende protagonista di un episodio di reazione violenta ai danni di un’insistente giornalista televisivo (Julie Kaufmann) all'aeroporto di Bangkok che apparentemente si era rifiutata di interrompere le riprese e di farle domande. Sebbene la giornalista non abbia sporto denuncia e Björk si sia poi scusata pubblicamente per l'incidente, il video del violento attacco si diffonde rapidamente tra i tabloid, rendendo un cattivo servizio all’immagine pubblica dell’artista. Nel frattempo, la sua rocambolesca vita amorosa attira sempre più la morbosità media, particolarmente interessati alle sue complesse vicende sentimentali e ai suoi famosi fidanzati. A questo punto anche i paparazzi si avventano sulla vita privata di Björk in caccia di pettegolezzi da spiattellare al grande pubblico dei tabloid: l’episodio più noto è probabilmente il resoconto molto dettagliato di una scazzottata fra l'ex fidanzato Tricky e il nuovo fidanzato Goldie in un night club di New York: la lotta, condotta proprio di fronte alla stessa Björk, diventa fonte di ulteriore imbarazzo e stress, innestandosi in una sfera privata già duramente provata. Sfortunatamente, le cose sono destinate a peggiorare ulteriormente . Nel settembre 1996, proprio nel periodo in cui si sta interrompendo la relazione di coppia con Goldie, Björk si trova suo malgrado coinvolta in un terribile atto di autolesionismo da parte di un fan ossessionato e mentalmente instabile: Ricardo Lopez, ventunenne disadattato di Miami, ossessionato da Björk (che non aveva mai incontrato) e incollerito con lei per la sua relazione con Goldie, inizia col filmare per intero la sua lenta discesa nella pazzia nel corso del 1996: solo, nel suo appartamento, Lopez sprofonda pro-


gressivamente nell’abisso della follia e inizia a escogitare un modo per uccidere Björk fabbricando una bomba acida da porre all'interno di un libro vuoto. Registrandosi in video per tutto il tempo, trasforma lentamente il piano in realtà e il 12 settembre 1996 spedisce il pacco mortale all'indirizzo dell’abitazione londinese di Björk. Dopodiché addenta la canna di una 38 Special e preme il grilletto, sempre filmando tutto. Fortunatamente per Björk, il pacchetto viene inoltrato alla One Little Indian Records, verso cui veniva normalmente dirottata la posta dei fan e dove rimane per alcuni giorni senza essere aperto. Nel frattempo, la polizia di Miami scopre il corpo di Lopez e dopo aver visionato la videocassetta con le registrazioni informa rapidamente la stupefatta casa discografica del suo contenuto, evitando così a questa vicenda di approdare ad esiti ancor più drammatici. Dopo l'incidente di Lopez e lo scioglimento straziante della sua relazione con Goldie, Björk ne ha abbastanza della celebrità e di Londra. Con l’imprevedibilità che la contraddistingue da sempre, trova una sua via d'uscita componendo una canzone di flamenco con cui riesce a elaborare e a superare la tensione derivante dall’episodio: quando Björk racconta a Trevor Morais, batterista del tour di “Post”, di aver scritto una canzone e di come sperava di registrarla con un chitarrista di flamenco, si scopre che Morais non solo possedeva uno studio a Malaga, città costiera nel sud della Spagna, ma conosceva anche un eccellente chitarrista di flamenco, Raimundo Amador, con il quale registrare. Detto-fatto: non solo Björk registra la canzone, intitolata “So Broken”, ma rapita dal clima e dall’atmosfera dell’Andalusia, decide di fermarsi a Malaga per registrare il suo album successivo. Descritto da Björk come un modo per "tornare alle mie origini", “Homogenic” diventa il suo album più oscuro ma anche, per molti versi, il più interessante. Uscito nell'autunno 1997, presenta ampi arrangiamenti d'archi composti da Deodato ed eseguiti dall'Islanda Octet, sovrapposti a ritmi elettronici stridenti opera di Björk e del produttore Mark Bell (dei rivoluzionari LFO, siamo sempre in ambito house), modellati sui suoni “concreti” del paesaggio islandese, del magma ribollente, al vento sibilante fino al crepitio di quell’instabile terra. Sebbene sia probabilmente il suo album meno radiofonico, è un enorme successo in Europa, arrivando al quarto posto nel Regno Unito. Nel frattempo, trascinato dal successo americano del suo album di remix tratti da “Post” del 1996, “Homogenic” si classifica al 28 ° posto negli Stati Uniti, il suo traguardo migliore di sempre in USA. Nel 1998 Björk ritorna quindi nella natia Islanda, lasciando definitivamente Londra. A questo punto della sua carriera decise di allon-

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tanarsi dalle pressioni della grande città e dallo star system. In un certo senso, la natura sempre più d’avanguardia della sua musica nel corso dei suoi cinque anni di carriera ha reso questa transizione più facile e quasi obbligata: pur avendo perso alcuni vecchi fan con le asprezze e le complessità di “Homogenic”, ne ha contemporaneamente e per le stesse ragioni guadagnati anche di nuovi. Il bilancio è sicuramente a suo favore e il considerevole culto che ruota attorno al suo personaggio è sicuramente in grado di garantirle adeguato sostegno economico. Björk è a questo punto venerata presso diverse tribù musicali, sia nei media che tra i fan, tra cui quella del pop, della dance elettronica e ora anche presso le scene di musica colta e d'avanguardia. E sebbene abbia negato qualsiasi connessione con il movimento femminista, la sua difesa lirica del "femminile" e il suo ruolo come una delle principali produttrici femminili di musica elettronica le fanno guadagnare, agli occhi dei più, la posizione di icona femminista. Alla fine degli anni '90, quindi, Björk si è chiaramente ritagliata uno spazio in più sfere e ha guadagnato abbastanza credibilità e rispetto da permetterle di ritirarsi dalle luci della ribalta, mantenendo comunque un seguito fedele e numeroso. Anche in ambito sentimentale le cose sembrano assestarsi, merito soprattutto della relazione con Howie B, nata e sviluppata durante le registrazioni di “Homogenic” e che si dimostra decisamente più tranquilla delle precedenti liasons. Le luci della ribalta, però, finiscono per ritornare su di lei. Nel 1999 – complici gli straordinari videoclip a supporto di “Homogenic”, tra cui quello di “Bachelorette” diretto da Michael Gondry e “All Is Full of Love” di Chris Cunnigham - è contattata dal regista danese Lars von Trier per la colonna sonora del suo nuovo musical, nonché per la possibilità di interpretare il ruolo principale nel film. Björk inizialmente accetta l'offerta della sola colonna sonora, rifiutando il ruolo di attrice; Von Trier deve insistere e alla fine riesce ad averla Björk “Selma”

nel cast del suo progetto. Inizia così una drammatica collaborazione tra i due, sfociata in “Dancer In The Dark” e nella sua colonna sonora, “Selmasongs”, nel 2000. Nonostante il conflitto tra von Trier e Björk, e tra Zentropa Films e Björk: tra il profeta del Dogma 99 e Björk si alternano momenti di intesa e laceranti conflitti, che sfociano in minacce da parte di Björk di lasciare il set e addirittura di abbandonare l’intero progetto, fino al culmine delle presunte molestie sessuali da parte del regista, rivelate dalla stessa Björk nel 2017 in seguito allo scandalo Weinstein. Ad ogni modo, il lavoro viene completato e il film si rivela un successo di critica e la stessa Björk è al centro degli elogi: non solo il film vince la Palma d'Oro al Festival di Cannes, ma Björk riceve il premio come migliore attrice e viene nomi-


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nata per due Golden Globe, uno per la migliore colonna sonora e uno per la migliore interpretazione femminile, a cui si aggiunge anche la nomination agli Oscar dell’Academy Awards per la migliore canzone. “Dancer In The Dark” finisce così per allargare ancor di più la sua fama, mettendola in contatto diretto con il mondo di Hollywood e dei suoi fan, un mondo che in larga parte non aveva mai sentito parlare di lei o della sua musica. Nonostante il suo assoluto disgusto per l'intera esperienza - ha giurato di non recitare mai più! - e nonostante il suo difficile rapporto con la più tradizionale scena di Hollywood - che alla fine non le riconosce né il Golden Globe né l’Oscar, e l’ha ferocemente stroncata, non senza ragioni, per il suo bizzarro abito da cigno indossato alla cerimonia di premiazione - Björk ha sicuramente colpito l’attenzione di milioni di spettatori come la "ragazza pazza con l'abito da cigno" agli Academy Awards del 2000. In qualche modo, proprio mentre la sua musica stava diventando sempre più sperimentale e la sua figura si è sostanzialmente ritirata dalla scena pubblica, Björk finisce per diventare ancora più popolare. La fama e il successo sono per lei un destino, quasi una condanna. Il suo quinto album in studio come artista solista, “Vespertine” del 2001, è stato un netto punto di transizione nella carriera dell’artista, un passaggio che metaforicamente potremmo definire dall'oscurità alla luce: durante l'estate del 2000, durante le sessioni di registrazione del nuovo disco con l'arpista Zeena Parkins, incontrò a New York il performer Matthew Barney. Fu un colpo di fulmine e “Vespertine” è un'ode a quell'amore e una controforza rispetto all'oscurità opprimente di “Dancer In The Dark” e alla drammatica esperienza vissuta lavorando con Lars von Trier. Registrato quasi interamente sul suo laptop, “Vespertine” presenta un suono celestiale, risultato dell'intenzione di Björk di realizzare un album che suonasse bene attraverso altoparlanti piccoli tipici dei computer portatili (laptop), un album "domestico" da suonare tra le mura di casa, folk elettronico da salotto. Parzialmente ispirata da Thomas Knak (Opiate) e Matmos, per ottenere questo risultato, ha incluso suoni e timbri molto specifici: per la parte ritmica, ad esempio, anziché batteria e percussioni, utilizza una serie di "microbeats" mutuando lo stile dalle sonorità glitch di ambito elettronico, per cadenzare il ritmo attraverso graffi, clic e segnali acustici; per la parte melodica e armonica utilizza invece solo archi, celesta, arpa, coro e carillon. Ne risulta un disco dal suono paradisiaco, allo stesso tempo di facile ascolto e immensamente seducente, in grado di conquistare così fan e critici di estrazione molto diversa. Dopo un breve tour per promuovere “Vespertine” nel 2001/2002, in cui si limita a suonare in teatri, chiese e teatri d'opera (in Italia è ospite al Teatro Regio di Parma), Björk si trasferisce definitivamente a New York con Barney, dove dà alla luce la loro figlia Ísadóra, il 3 ottobre 2002 e per Björk inizia così una nuova vita con una nuova famiglia: nel frattempo, infatti, il primo figlio di Björk, Sindri si trasferisce a Reykjavik dal padre, Þor Eldon.

2002 – 2020: La Maturità Da “Medúlla” a “Utopia”

Il suo crescente disgusto per la risposta dell'amministrazione Bush agli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti, la portano all'idea di sviluppare un lavoro interamente vocale, come metafora ed esortazione ad un ritorno agli albori dell’umanità, ad un tempo non L.A. Oscar 2001 ancora gravato delle complessità della vita moderna e dalle sovrastrutture e dall’ipocrisia della religione. Il risultato, nel 2004, è stato “Medúlla”, uno dei suoi album più apprezzati dalla critica, anche per il suo spiccato sperimentalismo. A parte un po’ di pianoforte, l'intero album è realizzato con voci umane che, dopo essere state trattate con pesanti effetti digitali e interventi di post-produzione, sono spesso difficilmente riconoscibili come tali: le eccellenze in ambito vocale spaziano dal “Godfather Of Noyze” Rahzel – beatboxer capace di riprodurre praticamente qualsiasi parte percussiva e di basso con la sola voce- spalleggiato dall’omologo giapponese Dokaka, fino alla cantante “di gola” canadese Tanya Tagaq e, udite udite, Mike Patton dei Faith No More. “Medúlla” consolida Björk come una delle forze musicali più originali nel settore, in grado di lavorare con cantanti di mondi apparentemente disparati come il rap e la musica corale per escogitare un prodotto senza soluzione di continuità tra generi e stili, che ha ridefinito le potenzialità della voce come strumento musicale, spezzando le catene che imprigionano i concetti di natura (voce) e tecnologia (elettronica).

Cover del singolo “Oceania” photo by Inez van Lamsweerde & Vinoodh Matadin


Nel 2006, Björk infrange la sua regola personale di non recitare mai più per il grande schermo e si concede per il film “Drawing Restraint 9”, un progetto del suo partner Matthew Barney. Si tratta di un film sperimentale ambientato in Giappone e che ambirebbe a mostrare il lato più autentico e profondo della cultura nipponica, sconosciuto ai più. Il film è stato distribuito solo nei cinema d'arte e di proposito non è mai stato pubblicato su DVD . Per la colonna sonora la cantante islandese presta la voce in tre brani (“Bath”, “Storm” e “Cetacea”), mentre in veste di produttrice interviene su tutte le canzoni, addirittura scrivendo lei stessa la musica per lo strumento caratteristico dell'album, lo Sho - particolarissimo strumento dalle sole tre note, suonato da Mayumi Miyata – e per un coro di cantanti Hoh giapponesi. Un’opera bizzarra e difficilmente fruibile, sicuramente la più impersonale della discografia di Björk.

“Drawing Restraint 9”

Nella primavera del 2007, Björk pubblica il suo successivo album in studio, “Volta”. L'album funziona come un microcosmo perfetto, una sintesi di ciò che ha reso Björk unica nel corso della sua carriera di artista solista. C'è il disprezzo dei confini di genere, con collaborazioni che abbracciano continenti e stili musicali tra i più disparati. C'è un forte sentimento neo-pagano, animista, di chiara matrice islandese e un sapore quasi tribale mescolato perfettamente con l’aura tecnologica che promana della musica elettronica più d'avanguardia. C'è la difesa e l’affermazione dell’elemento femminile nonostante la mancanza di un esplicito programma femminista nei testi. E, riprendendo da dove “Medúlla” si era interrotto (e andando oltre), c'è un intento politico in “Volta”, un appello per una nuova società in cui recuperare la saggezza dei tempi antichi e l’essenzialità della nostra natura corporea e fisica, con un particolare richiamo al corpo femminile e al culto ancestrale della Dea Madre.

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Dopo un estenuante tour mondiale di oltre 70 date, Björk sembra prendersi una pausa di riflessione e sparisce dalla scena fino al 2010, quando riappare con l’EP “Mount Wittenberg Orca”, realizzato con la collaborazione dei Dirty Projectors. Nel frattempo, a partire dal 2008 l’Islanda va incontro alla più pesante crisi politica ed economica della sua storia, col crollo dell’intero fragile sistema finanziario dell’isola che getta il paese in una profonda prostrazione economica da cui inizierà (timidamente) a riprendersi solo a partire dal 2011. In questo drammatico contesto sociale vede la luce “Biophilia”, ufficialmente considerata la settima uscita da solista di Björk e il suo primo "concept album" che esplora le relazioni tra natura e tecnologia, cercando una convergenza tra teorie cosmiche/biologiche e teoria musicale. Dimostrando ancora una volta la sua profonda attitudine avanguardista e innovatrice, Björk decide di pubblicare l'album attraverso una serie di app, sfruttando non solo le potenzialità della distribuzione della musica in streaming digitale ma creando delle vere estensioni transmediali che aggiungono valore intrinseco all’opera d’arte. In concomitanza con l'uscita del suo album “Biophilia”, viene infatti sviluppata e distribuita un'applicazione per telefono, successivamente adattata al programma educativo Biophilia: si tratta di uno strumento destinato a stimolare la creatività dei bambini attraverso l’interazione tra scienza, musica e nuove tecnologie informatiche. Dopo l'uscita del suo album, la cantante si impegna in laboratori didattici nei quattro continenti per la promozione del progetto, affidandosi ad ingegneri e tecnici per gli aspetti tecnologici e al suo estro d’artista per coordinare la sperimentazione. Il progetto ha un tale successo che molte scuole in tutta la Scandinavia lo inseriscono nel loro piano didattico.


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“Biophilia” è il risultato della crescente convergenza tra arte e tecnologia grazie alla quale gli artisti musicali oggi dispongono di una gamma sempre più ampia di strumenti digitali per esprimere le proprie idee su una varietà di piattaforme multimediali. Quando queste idee appartengono allo stesso universo narrativo e questi nuovi media estendono l'estetica dell'artista diffondendo la sua poetica a un nuovo pubblico, allora ci troviamo di fronte a quello che Henry Jenkins definisce narrazione transmediale (H.Jenkins – Cultura Convergente – Apogeo 2014). “Biophilia” è in questo senso un album paradigmatico, un fulgido esempio di narrazione transmediale e Björk, ancora una volta, indica la via. L'album è stato un grande successo; nominato Album of the Year da numerose pubblicazioni musicali, ha vinto il Best Recording Package al 55 ° Grammy Awards e ha debuttato nella top 40 di quasi tutte le classifiche internazionali, seguito anche da ben due album remix. Si apre a questo punto un altro periodo interlocutorio per Björk, che metterà ancora una volta alla prova la sua sfera privata ed emotiva: dopo un intervento alle corde vocali per rimuovere un polipo nel novembre 2012, la fine della relazione con Matthew Barney (e la conseguente battaglia legale per la custodia della figlia) sarà un colpo violentissimo che andrà a costituire il centro tematico del suo ottavo album in studio, “Vulnicura”. In uscita a tre anni dal suo lavoro precedente, l'album è molto atteso sia dalla casa discografica e sia dai fan, con NME che alimenta le aspettative, annunciando che il 2015 sarebbe stato l'anno del grande ritorno di Björk: finisce così che viene immesso sul mercato già a gennaio per contrastare la diffusione del leak, praticamente due giorni dopo l’annuncio a sorpresa della sua uscita programmata a marzo L'album, prodotto dalla venezuelana Arca (Alejandra Ghersi, nata Alejandro), incorpora elementi di elettronica sperimentale e musica ambient e molti critici l’hanno accomunato a “Homogenic” del 1997. La profusione di composizioni per archi è stata una sorta di elaborazione emotiva per Björk: "L'unico modo in cui potevo affrontare la cosa era iniziare a scrivere per archi; ho deciso di diventare un nerd del violino e arrangiare tutto per 15 archi, provando così a fare un altro passo avanti". Passano solo due anni e, ritrovata la serenità, arriva quello che ad oggi risulta l’ultimo album di Björk, “Utopia” (One Little Indian, 2017), prodotto ancora una volta da Arca. L’album riceve commenti unanimemente positivi da parte della critica e viene promosso attraverso un tour di 11 date in grande stile, che trova la sua apoteosi nella data finale alle Terme di Caracalla a Roma il 30 luglio 2018. Segue un altro tour in pompa magna (“Cornucopia Tour”), dove solo l’esposizione della strumentazione è uno spettacolo che vale di per se stesso. Oltre alla presenza di un settetto di flauti, coro e percussioni, vengono infatti impiegati strumenti musicali assolutamente singolari: un flauto circolare per quattro suonatori, una "camera di riverbero" che riproduce l'eco della voce, un Calabash ad acqua (percussione dell’Africa occidentale, tecnicamente un idiofono), un Dhol (un membranofono proveniente dall’India settentrionale), due canne d'organo di otto metri dalla forma di cannoni, uno Xylosynth (xilofono a percussioni elettriche),

un violino piezoelettrico, un Aulofono (insieme di campane) e la Segulharp (un'arpa elettromagnetica). A inizio 2020 viene annunciata una nuova tournée (Björk Orchestral), successivamente sospesa e ripianificata: al momento, sono programmate solo 5 date tra Agosto e Settembre 2021, disponibili anche per la fruizione in streaming. In generale, si può affermare che gli anni ’10 hanno progressivamente visto sfumare la centralità di Björk come figura di riferimento nel panorama pop internazionale, anche se l’artista continua a godere di una indiscussa autorevolezza e i suoi prodotti rivelino, oltre ad una innegabile valore concettuale, anche una progettualità profonda e un livello qualitativo sempre eccellente, il tutto aggraziato da un’adeguata fruibilità.

Conclusione: Poetica e Filosofia dell’Artista Dalla disamina biografica emergono i modi specifici che rendono l'approccio di Björk alla musica (e alla vita) così speciale: il suo rifiuto di conformarsi ai confini stabiliti socialmente e la sua creazione di uno spazio in cui qualcosa di nuovo e meraviglioso può essere creato in loro assenza è forse la cifra più importante della sua poetica e della sua filosofia d’artista. In particolare, tale rifiuto si esprime attraverso la capacità di trascendere la dualità tra arte "alta" e "bassa" e di sfumare i confini tra "mainstream" e "underground". In campo musicale, nonostante il suo enorme potenziale aggregativo, questi elementi di divisione e settarismo invece tendono a separare piuttosto che unire. Ad esempio, il tradizionale concetto modernista di "arte di qualità" generalmente sostiene che le "belle arti" siano preferibili all'arte popolare in quanto ciò che è popolare è inevitabilmente controllato, compromesso e omogeneizzato in quanto prodotto economico destinato al consumo e ostaggio del capitale. In ambito musicale questa visione porta ad anteporre la complessità virtuosistica e il "difficile ascolto" simboleggiati dalla moderna musica sinfonica rispetto a generi più accessibili e commerciabili come il rock'n'roll o la musica dance. All’estremo opposto, assistiamo alla celebrazione di sottoculture musicali popolari come il punk o la musica dance elettronica, spesso con un una conno-


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roganza, al riduzionismo e alla miopia delle filosofie che collocano gli esseri umani e la loro tecnologia al di fuori della Natura, addirittura in contrapposizione con essa. Degno di nota poi il rapporto di Björk con il femminismo e i concetti tradizionali di femminilità, trascendendo le definizioni e i limiti di entrambi, ritagliandosi così la sua femminilità "Björkish". In questo ambito, Björk ha forgiato una femminilità al di fuori degli schemi, che è allo stesso tempo maschile e femminile, sessuale e asessuale, ragazza e donna. È stata fermamente a favore delle donne evitando allo stesso tempo l'etichetta femminista e nel corso della sua carriera ha messo in dubbio i dualismi creati dalla politica dell'identità di genere in primo luogo, il che la allinea più strettamente con gli ideali postfemministi che sfidano le nozioni di sesso fisso e Genere. Dimostra che il femminismo radicale e il femminismo "tradizionale" non devono essere in conflitto e che la donna che si definisce al di fuori di questo dualismo alla fine sarà una vera icona femminista: una donna guerriera indipendente, forte, che sostiene gli ideali tradizionali femminili di istinto, intuizione, emozione e amore. Questa poetica della rimozione delle barriere e dei confini che abbiamo appena analizzato si è espressa inizialmente nell’ambito musicale e artistico, per poi estendersi ai temi umanitari e politici con la stessa sensibilità postmoderna con cui si avvicina agli altri ambiti della sua vita. L'ideale postmoderno di distruggere i confini intellettuali e culturali viene così portato al livello successivo: quello di distruggere i confini nazionali, politici, economici, spirituali e di genere. Alla fine, la lezione di Björk che vale per ognuno di noi è che aprendoci oltre i confini preconcetti, possiamo essere tanto complessi quanto semplici (come implica la parola "Björk") e elevarci al di sopra di tutte le categorizzazioni, senza cadere nella trappola del pensiero binario che ci impedisce di renderci conto che, alla fine, "un essere umano è un essere umano è un essere umano". sa.za.

Photo by Santiago Felipe

tazione populista in senso stretto, cioè come esaltazione demagogica delle qualità e capacità delle classi popolari, in aperta contrapposizione allo snobismo delle belle arti dell'alta borghesia: in sostanza, si afferma un ulteriore dualismo all’interno della cultura popolare, dove accanto a un (preponderante) ambito "mainstream" di qualità inferiore che minaccia la purezza della musica "autentica" attraverso il dominio aziendale e la sua insistenza sulle vendite rispetto ai contenuti, esistono ambiti di sottocultura "underground" che rappresentano la musica veramente “autentica” e “innovativa”, in contrapposizione (di nuovo) al mondo della musica colta o d’arte, appannaggio dei parrucconi. In realtà, nel 2020 post-moderno che viviamo, questa visione populista delle subculture "underground" è tanto divisiva quanto il mondo delle belle arti che ripudia ed è altrettanto frustrante e limitante quanto il "mainstream" contro cui si scaglia. In questo senso, Björk si rifiuta come artista di vedere questi confini tra "alto" e "basso" o "mainstream" e "underground", aspirando ad una espressione musicale finalmente libera da tale retorica, per evidenziare e valorizzare i punti di contatto, le sovrapposizioni e contrapposizioni virtuose tra stili e grammatiche musicali: il suo modo unico di mescolare i concetti di "naturale" e "tecnologico" evidenzia come i due abbiano molto più in comune di quanto la retorica binaria che li circonda indicherebbe. Che si tratti dell'idea umanista che la natura debba essere dominata dall’Uomo o dell'idea eco-centrica e pseudo-luddista che tutta la tecnologia sia intrinsecamente distruttiva e innaturale, gli esseri umani e le loro tecnologie sono troppo spesso rimossi dal mondo naturale per giustificare l'uso illimitato delle risorse naturali o, al contrario, per creare una concezione romantica e irrealistica della natura. Björk, nella sua combinazione di strumentazione "organica" tradizionale con la tecnologia musicale elettronica, la sua confusione di immagini naturali e tecnologiche e il suo senso pagano della interconnessione tra spiritualità e scienza, afferma in modo perentorio come natura e tecnologia siano fusi uno nell’altra, senza soluzione di continuità. In quanto tale, è un antidoto all'ar-


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Björk: discografia 1993 - 2017 di Giorgio Ferroni Quando il Direttore ha messo in campo il tema Bjork abbiamo parlato in redazione del suo ruolo artistico, che, come quello di tutti gli artisti importanti, suscita molta discussione. Per mettere subito in campo un minimo di dibattito, vorrei partire dall’opinione del giornalista Piero Scaruffi, opinione che non condivido a pieno, ma che comunque ha degli elementi molto interessanti e che consiglio di leggere sul suo sito. Estrapoliamo dunque una sua frase molto forte che potrebbe fare rizzare i capelli ai talebani dell’indie rock e affini e che potrebbe essere un utile stimolo al dibattito. “Madonna è il simbolo dell'alternativa, della provocazione, dell'affronto, e, in una parola, dell'estetica punk, Björk è il simbolo del mainstream, dell'allineamento, della condiscendenza, e, in una parola, del riflusso borghese seguito al punk. Bjork non shocka il pubblico: lo intrattiene.” (Nda la recensione sottolinea anche molti commenti positivi al suo lavoro a partire dall’ovvio apprezzamento per la sua vocalità) Björk si manifesta artisticamente nel mondo della musica indipendente, inizia a incidere con l’etichetta dei Crass, con gli Sugarcubes incide per la One Little Indian, con cui continuerà poi a lavorare anche da solista. La One Little Independent Records è nata per iniziativa dei membri di alcuni gruppi anarco punk sulle ceneri dell'etichetta punk Spiderleg Records; ha pubblicato i dischi di: Kitchens of Distinction, Sneaker Pimps, The Shamen, Skunk Anansie, Chumbawamba e, ovviamente The Sugarcubes e Björk. Credo che il ragionamento complessivo di Scaruffi sia condivisibile solo in parte, nel senso che per quanto mi riguarda intrattenere il pubblico con una proposta musicale che ingloba elementi della musica indie non è un disvalore, perché introdurre nel mainstream elementi di novità è un valore aggiunto che non sta nella facoltà di chiunque; poi la provocazione a prescindere come elemento artistico non mi convince da molti anni e che Björk ha dato prova di essere un carattere forte e fuori dagli schemi, sia personalmente che musicalmente, ma di questo parleremo poi. I primi album della carriera di Björk si collocano grosso modo in un ambito legato alla musica indie/pop del momento, con una forte influenza della scena elettronica indipendente inglese. Con il tempo si sposta poi in un contesto che si stacca da quel mondo, approdando verso una composizione che ingloba alcuni elementi della musica colta e della ricerca, questo anche con l’uso di strumenti e tecniche inusuali. Il tutto in un contesto comunque Popular, che garantisce la fruibilità e la gradevolezza della sua musica. È proprio questo che le permette ad esempio di comporre il tema per le olimpiadi o di essere una vera icona dell’arte contemporanea, non solo musicale. Non è così scontato fare per la prima volta la protagonista in un film e vincere un premio a Cannes, queste cose accadono solo se si ha un talento naturale e Björk ce l’ha... Se dovessimo pensare all’elemento caratterizzante della pro-

posta musicale di Björk è evidente che ci rivolgeremmo alla sua vocalità, che è unica, capace di passare dal sussurro ad un grido selvaggio e al tempo stesso estremamente controllato, è quello che credo si possa definire “Crescendo alla Björk”. Ha una tecnica vocale eccezionale ed un’espressività unica che rende i suoi lavori inconfondibili fin dalla prima nota del cantato. Bjork è dunque una cantante prima che una musicista, non ha una band stabile con cui si accompagna e questo fa sì che il risultato del suo lavoro sia mutevole nella forma e indubbiamente legato alle interazioni con i vari produttori che si sono susseguite negli anni e con le innumerevoli collaborazioni sparse qua e là. Fra queste possiamo citare: Nellee Hooper; Jah Wobble; Tricky; il poeta islandese Sjón; i Matmos; Mike Patton, Robert Wyatt; Timbaland, I Kokono n. 1 e molti altri. Ciò detto possiamo definirla una cantautrice, ma è certamente una cantautrice atipica. Nella composizione si può avere come elemento su cui costruire la canzone la musica su cui si adatta il testo, oppure nel caso dei cantautori si parte dal contesto narrativo del testo su cui si crea un arrangiamento di accompagnamento. Björk nella composizione delle sue canzoni parte certamente dalla sua voce, ma dalla voce intesa come elemento musicale prima che narrativo; la sua voce È uno strumento musicale, unico per timbro e per dinamica ed è il perno su cui costruisce la sua composizione, ovviamente questo è il suo punto di forza e al tempo stesso il suo limite. Nella prima parte della sua carriera manifesta una vocalità unica, selvaggia e spesso al limite dell’urlo primordiale, nell’ultima parte della sua carriera questo lato selvaggio viene ovviamente meno ed emerge anche un certo manierismo che tende a non mettere in campo significativi elementi di innovazione. Non sono certo opere disprezzabili, tutt’altro, compone ed interpreta


sempre brani estremamente curati e con suoni stupendi, ma il guizzo che emoziona manca da qualche anno, anche se ci sono in ogni album ottime canzoni. Bjork ha una discografia ampia e complessa, con molte raccolte e singoli che vengono espansi con varie versioni dello stesso pezzo (vedi “Bacholerette Two” che contiene 7 versioni dello stesso brano e dura circa 37 minuti); ha anche realizzato diverse versioni live dei suoi album in studio (ci sono due versioni live di “Vulnicura” di cui una versione acustica) e ha inciso due colonne sonore (“Selma Song” per “Dancer In The Dark”, di Lars Von Trier nel 2000; “Drawing Restraint 9” nel 2005) e un bel numero di versioni rimixate. Dunque in questa sede escludiamo (in accordo con il direttore) i live, le colonne sonore, raccolte et... tecnicamente Bjork esordisce praticamente da bambina, con un disco del 1977 pubblicato solo in Islanda che comprende standard pop e canti popolari islandesi. Un ultimo avviso importante agli jihadisti del Rock, che in base a questo possono decidere se continuare a leggere o no: in questi dischi non ci sono chitarre elettriche.

L’esordio solista significativo è “Debut” (1993, One Little Indian Rec., CD, UK, TPLP31 CDL) , è un album esuberante che rivela al mondo un’artista che ha un’urgenza espressiva pazzesca che stava stretta nel mondo del punk/indie/ rock da cui proviene. È un esordio che non lascia indifferenti la critica e il pubblico arrivando velocemente nelle classifiche europee e statunitensi. L’album si apre con il singolo “Human Behaviour”, che è un buon manifesto del modo di Björk di intendere la musica, è un brano ritmato e molto percussivo, con i timpani in bella evidenza e con diverse incursioni di elettronica, non ci sono chitarre elettriche; insomma per essere chiari siamo lontani dal rock (questo nell’ipotesi che il termine significhi ancora qualcosa). “Human Behaviour” è cofirmato dal produttore inglese Nellee Hooper così come gli altri brani “Violently Happy”, “Big Time Sensuality” e “Crying” che condividono

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lo stile collegato al mondo dell’alternative dance (Leftfield et...). “Big Time Sensuality” è anche il singolo ballabile che ha fatto conoscere Björk sul mercato americano tramite il suo video girato a New York. Quando Bjork arriva su MTV la sua immagine unica la rende subito un’icona della musica indie degli anni 90. Anche se lo stile di cui sopra è sicuramente il biglietto da visita del suo esordio bisogna ricordare che Debut è indubbiamente un lavoro articolato con diverse soluzioni musicali, in generale i brani scritti solo da Björk sono più dilatati e meno ritmici: ad esempio il secondo singolo dell’album è Venus as a Boy, in cui il ritmo rallenta e abbiamo un accompagnamento d’archi su una base elettronico/percussiva che sottolinea una Björk che mette in campo tutta la sua dinamica vocale e la sua abilità melodica. Lo stesso mood e le stesse soluzioni le troviamo nella stupenda Come to me. Questo uso combinato degli archi e dell’elettronica sarà anche in futuro uno degli archetipi delle soluzioni sonore di Björk. “Aeroplane” è ancora un brano lento che sostituisce però gli archi con i fiati che danno alla canzone un retrogusto jazz molto riuscito. Abbiamo in scaletta anche una cover, si tratta della canzone “Like Someone In Love” che è stata scritta nel 1944 da Johnny Burke e James Van Heusen per il film “La bella dello Yukon” ed era stata al tempo cantata da Dinah Shore, Björk la riprende con una grande delicatezza facendosi accompagnare da un’arpa. La chiusura dell’album è affidata ad una specie di racconto per bambini che narra del mare: “The Anchor Song”, che è accompagnata solo da qualche inserto di un gruppo di fiati. “Debut” è senza dubbio un ottimo risultato, fra i migliori di Björk ed in generale degli anni ‘90. Fermandoci un attimo a riordinare le idee si nota come in “Debut” ci siano già quasi tutti i riferimenti musicali e in generale artistici che Björk metterà in campo nella sua carriera, come compositrice ed interprete: c’è un forte rimando all’infanzia (il video di “Human B.” fa riferimento alla fiaba dei tre orsi) e ad un immaginario in cui sono sempre presenti i grandi spazi e gli elementi naturali; l’immagine più frequente per descrivere l’immaginario suscitato da Björk è quello della fatina, o dell’elfo, che ha dentro di sé una magia primordiale, questa grande energia ancestrale prorompe attraverso la sua voce che sa sussurrare come la brezza marina o urlare come la tempesta, al tempo stesso la fatina islandese ha saputo però scendere in città per afferrare e padroneggiare le modernità e la tecnologia. Musicalmente c’è un c’è un’attenzione alle novità e alla sperimentazione sonora, ma ci sono anche dei solidi riferimenti alla musica classica ed al jazz. (Björk ha realizzato anche un disco jazz molto interessante nel 1990, “Gling-Gló” accreditato a Björk Guðmundsdóttir & Tríó Guðmundar Ingólfssonar in cui si dimostra un’ottima interprete). “Post” (1995, One Little Indian Rec., CD, UK, TPLP51 CD) bissa il successo del suo predecessore, anche se complessivamente è un disco un po’ meno riuscito. “Army Of Me” apre il disco ed è una bomba sostenuta da un giro di basso intenso fatto con il sintetizzatore, che sta dalle parti dell’industrial rock, stile NIN, tant’è che verrà coverizzata anche dagli Helmet (ndr una brutta versione). Il secondo brano cambia completamente l’atmosfera, “Hyperballad” è una


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bellissima ballata elettronica (“We live on a mountain, Right at the top, This beautiful view , From the top of the mountain), l’atmosfera eterea continua nel terzo brano “The Modern Things”, cofirmato (come “Army Of Me”) dal produttore Graham Massey già membro degli 808 State (gruppo elettronico di Manchester).

La quarta traccia (uno dei singoli più ascoltati e venduti) è “It's Oh So Quiet”, una briosa cover di un brano jazz del 1948, “Und Jetzt Ist Es Still”, eseguito da Harry Winter e scritto da Hans Lang ed Erich Meder interpretato anche da Betty Hutton; è una canzone divertente che gioca sul senso del titolo alternando sussurri ed esplosioni vocali in cui Björk è accompagnata da una vera big band, ovviamente è un po’ decontestualizzata rispetto al suono e all’immagine iper modernista del disco, ma ha il pregio di evidenziare ancora una volta la sua passione per il Jazz e la sua duttilità interpretativa. Dopo questo momento di disimpegno incontriamo ancora un brano che si colloca dalle parti di “Army Of Me”, dal titolo “Enjoy”, anche questa traccia in sede di produzione coglie uno dei trend musicali del momento con l’atmosfera pesante, le ritmiche elettroniche serrate e le voci effettate stile Nine Inch Nails, (“The Downward Spiral” dei NIN è del 1994), qui però ovviamente di chitarre elettriche non c’è nemmeno l’ombra. Da questo clima cupo si atterra poi su “You've Been Flirting Again”, un lento orchestrato con archi e da qui passiamo ad un classico del repertorio “Bjorkiano”, il brano “Isobel”: base elettronica, orchestrazioni, grande interpretazione vocale. Il testo ha degli evidenti rifermenti ad una storia di solitudine vissuta all’interno di una relazione di coppia (“My name Isobel, Married to myself, My love Isobel, Living by herself”). “Post” è un disco molto venduto e di grande impatto da cui si pubblicheranno ben sei singoli, fra cui il lento “Possibly Maybe” e la ritmata “I Miss You”. “I Miss you” ha un incidere quasi tribale nelle sue percussioni etniche a cui nel finale si sovrappongono dei fiati. L’album si conclude con due brani con arrangiamenti minimi e atmosfere lente, per mio conto poco incisivi: “Cover Me” per voce, arpa e clavicembalo; “Headphones” per elettronica minimale, cofirmato da Tricky.

Terzo album e terzo centro consecutivo: “Homogenic” (1997, One Little Indian Rec., CD, UK, TPLP71 CD). In questo disco c’è un mood quasi classico in chiave post moderna, a partire dalla copertina che sembra una Madama Butterfly ambientata nella Los Angeles di Blade Runner. È un disco con sprazzi epici, che certamente sancisce una definitiva maturità artistica, le canzoni degli album precedenti erano spesso cofirmate dai vai produttori/artisti di cui Björk si è sempre circondata, tra l’altro scegliendo sempre molto bene le sue collaborazioni. In “Debut” le opere attribuite alla sola Björk erano 5 su 11 tracce, mentre in “Post” erano 4 su 11; le 10 canzoni di “Homogenic” sono per 8/10 scritte da Björk , con la collaborazione del poeta islandese Sjòn nella scrittura dei testi di “Joga” e “Bachelorette” (i due pezzi migliori dell’album con “Hunter”). L’introduzione è “Hunter”, una specie di versione elettronico futurista e cantata del Bolero di Ravel con un testo che parla di come il viaggio/la ricerca non finiscano mai, come Ulisse che dopo essere tornato a Itaca salpa nuovamente verso “una terra dove non si conoscono il mare e le navi e dove non si condiscono i cibi con il sale”. “Joga” è un altro cavallo di battaglia del repertorio, di Björk nel suo classico stile che mischia l’elettronica con gli arrangiamenti d’archi. (“Emotional landscapes, They puzzle me Then the riddle gets solved, And you push me up to this State of emergency… Paesaggi emotivi, Mi lasciano perplessa, Quindi l'enigma viene risolto e mi spingi fino a questo stato di emergenza…”) è una canzone ariosa e anche il suo video clip è una sequenza di panorami ripresi in volo in cui non c’è la presenza umana, una canzone su tutto quello che separa il cielo e la terra. Il terzo brano “Unravel” mantiene questa atmosfera quasi operistica ed è mixato con continuità nella quarta traccia, “Bachelorette”, uno dei migliori brani di Björk di incredibile pathos; una di quelle canzoni che assurgono immediatamente allo status di classico (“I'm a fountain of blood, In the shape of a girl, You're the bird on the brim, Hypnotized by the Whirl”). Nel video clip si sviluppa una storia molto particolare in cui Björk è rappresentata come una scrittrice che ha scoperto un libro che inizia a scriversi da solo, seguendo le indicazioni del libro incontra un editore e si innamora di lui, diventando famosa, ma in seguito il rapporto finisce e le parole del libro si cancellano.


Dopo questa introduzione epica si ritorna in un ambito decisamente più personale ed intimo con “5 Years” (“'Til after five years, If you'll live that longm, You'll wake up, All loveless”) che pare sia stata ispirata dalla fine della relazione con Tricky. Il brano sfuma (anche qui con continuità) in “Immature”, che probabilmente mette ancora in musica il lato privato, e certo non semplice, della cantante (“Come ho potuto essere così immatura? Da pensare che lui potesse rimpiazzare la parte che manca in me. Che incredibile manifestazione di pigrizia, la mia!”). Il ritmo elettronico risale poi con le ritmate “Alarm Call” e “Pluto”. La chiosa del disco è “All Is Full Of Love” che è nuovamente un pezzo lento ed importante, è il singolo del famoso video clip con i due robot femmina che si baciano. Il video è diventato un'installazione permanente al Museum of Modern Art di New York ed ha ricevuto numerosi premi. La particolarità è che il video dovrebbe essere visto al contrario come indicato dallo scorrere dell’acqua nel video stesso, quindi l’epilogo è che i due robot vengono separati e smontati, il testo è dedicato (come ovvio) al tema dell’amore come valore assoluto, ma il video mostra in realtà la fine di una relazione e il trauma della separazione che è uno dei temi portanti del disco; disco che è complessivamente un gran bel risultato artistico a 360°, ricercato e molto ben prodotto.

Per ascoltare il seguito di “Homogenic” occorre aspettare 4 anni, il risultato sarà “Vespertine” (2001, One Little Indian Rec., CD, UK, TPLP101 CD), nel frattempo Björk ha brillantemente debuttato come attrice protagonista in “Dancer In The Dark”, diretto (con tutta una serie di problemi caratteriali fra i due) da Lars Von Trier, del film realizza anche la colonna sonora pubblicata nel 2000 (“Selma’s Songs”). Dopo il successo dei tre album precedenti, “Vespertine” è un disco molto atteso, che lascia alcuni ascoltatori non pienamente soddisfatti, ma per quanto mi riguarda è un disco molto riuscito che va assolutamente ascoltato, da cui verranno estratti tre singoli molto validi: “Hidden Place”, “Pagan Poetry” e “Cocoon”. Anche se Björk ha comunque sempre bisogno di appoggiarsi ad altri musicisti è ormai un’artista matura che ha una sua impronta stilistica che unisce la ricerca sonora e l’elettronica con le orchestrazioni e l’uso di strumenti etnici e/o

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acustici. I primi due album sono sostanzialmente di musica pop/indie, con diverse hit a volte anche ballabili, ma ormai il suo percorso va verso l’esplorazione sonora e verso musiche non convenzionali e questo va certamente apprezzato. “Vespertine” si caratterizza per la collaborazione con il duo elettronico dei Matmos specializzato in campionamenti di oggetti inusuali che programmerà i brani “Aurora”, “An Echo”, “A Stain” e “Hidden Place”. Altra caratterizzazione è quella messa in campo dalla polistrumentista Zeena Parkins che si occupa principalmente di suonare l’arpa. È un disco che colpisce, un disco più soffuso del predecessore, in cui la musica non prevarica la voce e la sua narrazione, anche perché è piuttosto evidente il volersi rifare alle atmosfere “glitch” di cui i Matmos sono maestri, ma è un disco che nasconde al suo interno una grande intensità narrativa. “Pagan Poetry” è uno dei brani più riusciti e colpisce nel suo contrasto fra il suono soffuso, in cui si distingue un carillon, e un video che mostra scene esplicite di piercing. Nel “Live at Royal Opera House”, pubblicato nel 2002 in DVD, Björk mette in scena un concerto in cui nella prima parte intrepreta le canzoni di “Vespertine” e nella seconda metà i suoi cavalli di battaglia. Qui Björk è accompagnata, oltre che dai Matmos e dalla Perkins, da un’orchestra sinfonica e da un coro di donne Inuit della Groenlandia. Björk è stata la prima artista pop contemporanea ad esibirsi nel prestigioso teatro d'opera londinese. È un video emozionante, assolutamente da non perdere, si trova anche su You Tube e mostra Björk all’apogeo della sua carriera, nel giusto equilibrio fra l’innovazione e il consolidamento di uno stile proprio. Medúlla (2004, Polydor/One Little Indian Rec., CD, EU, 9867589) è un disco che vira in modo evidente verso il mondo della ricerca vocale, infatti, fatta qualche eccezione per alcune sonorità elettroniche, il pianoforte accennato di “Ancestor”, qualche percussione, e qualche altra piccola cosa qua e là, il suono si fonda sulla sovrapposizione di vari strati di linee melodiche e ritmiche create direttamente con la voce e/o campionando la voce ed elaborandola elettronicamente. Al disco partecipano anche un coro Islandese e uno Londinese. La voce è stato il primo strumento musicale umano e può essere elemento ritmico oltre che melodico, basta pensare al beat boxing che nasce nell’Hip Hop newyorkese, proprio questa tecnica viene sfruttata nel brano “Triumph Of A Heart” (uscito anche come singolo) che vede la partecipazione dei beatboxers Rahzel dei The Roots, Gregory Purnhagen e Dokak. Il primo singolo del disco “Who Is It” (“Carry My Joy on the Left, Carry My Pain on the Right”) era stato in realtà scritto per l’album precedente ed infatti se si fa un po’ di attenzione si coglie come il sound percussivo glitch della versione pubblicata in “Medulla”, lo distingue in modo abbastanza netto dalle altre tracce. La versione singola che si ascolta nel video clip è diversa perché l’accompagnamento è fatto da una serie di campanelli che (nel video) fanno parte del vestito di scena di Björk e dei bambini che la accompagnano.


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Possiamo in sintesi considerare Medulla un lavoro sperimentale sulla vocalità umana. Björk ha sempre messo in campo una grande voglia di sperimentare, soprattutto con il suo strumento principale che è la voce. Se si parla di sperimentazione vocale vengono di solito in mente i lavori solisti di Demetrio Stratos e magari “Vena Cava” di Diamanda Galas; ma, al contrario degli artisti sopracitati, l’approccio di Björk in “Medulla” non perde mai di vista lo scopo di realizzare delle canzoni prima che delle sperimentazioni. È ovvio che realizzando un disco del genere si realizza principalmente un esercizio di stile, anche perché è evidente che se ti autolimiti su un progetto musicale inevitabilmente limiti anche la sua fruibilità, che diventa difficile, a meno che non si sia degli esperti di canto corale. Ciò nonostante l’esercizio di stile funziona molto bene, anche se ovviamente superato l’apprezzamento per l’idea e per la grande maestria nell’assemblare e manipolare le voci attraverso le tecnologie, resta il gesto e l’intenzione, ma l’ascolto in alcuni tratti può diventare un po’ faticoso (“Oll Birtain”, “Sonnets”). Restano in ogni modo dei risultati veramente apprezzabili, che danno un senso all’impegno di un ascolto non immediato. Ad esempio anche la canzone “Where Is The Line” è assolutamente da ascoltare ed è molto significativa della qualità del lavoro di Björk; tecnicamente lo potremmo classificare come un brano a cappella, ma è un coro con un insieme di voci di registri diversi ottenuti anche con l’elaborazione elettronica. “Vökuro” è un altro brano bellissimo dal sapore gregoriano composto da Jórunn Viðar, pianista e compositore islandese, adattato da Björk in una versione per sole voci, mentre il testo è l'ambientazione di una poesia di Jakobína Sigurðardóttir. Il brano “Oceania” è stato scritto appositamente per la cerimonia di apertura della XXVIII Olimpiade ad Atene ed ha avuto una nomination ai Grammy Award del 2005. Hanno partecipato il coro londinese, il beatboxer inglese Shlomo e Robert Wyatt che compare anche in “Submarine”.

“Volta” (2007, One Little Indian Rec.,CD DIGIP., UK, TPLP460CD) è un album, non apprezzatissimo dalla critica, che rientra in una dimensione un po’ meno concettuale del suo predecessore, è un lavoro certamente di più facile ascolto, ma che mette comunque in campo una serie di soluzioni musicali veramente ampia e non certamente fedele all’ortodossia del pop. Ad esempio, nel singolo “Earth Intruder”, che apre il disco, troviamo una miriade di percussioni di varie tipologie (al disco partecipa il gruppo di percussionisti africani Kokono n.1), queste realizzano un clima quasi tribale per sostenere una canzone sul tema del rapporto uomo natura (che è un classico di Björk). Nella seconda traccia “Wandelast” si nota la presenza di una sezione di ottoni femminile islandese, e questo uso degli ottoni sarà un altro degli elementi caratterizzanti il disco, c’è uno dei consueti usi delle percussioni elettroniche ed è un’ottima produzione musicale, anche veicolata da un video clip che vale veramente la pena di vedere. Altro risultato molto riuscito è la solennità della magnifica terza traccia “The Dull Flame Of Desire” in cui sono ancora gli ottoni a sostenere le voci. Questa canzone è un duetto con il cantante Antony Hegarty in cui le parti vocali sono costruite con un grande lavoro di stratificazione di diverse melodie vocali, un po’ come succedeva in “Medulla”. Il testo è la traduzione di una poesia del poeta russo Fëdor Ivanovič Tjutčev. Antony torna anche nella traccia che conclude l’album, la delicata “Juvenile”. La quarta traccia: “Innocence” è il secondo singolo dell’album ed è stata scritta oltre che da Björk anche da Timbaland che è uno dei produttori del disco (i produttori accreditati sono Mark Bell, Timbaland, Danja e Damian Taylor) è un bel brano elettronico che rimanda un po’ ai suoi cavalli di battaglia degli anni novanta.

“Volta” è anche un album dove si sfruttano degli strumenti popolari per un rimando all’ambito della World Music: in “I See Who You Are” si usa la pipa, uno strumento a quattro corde della tradizione cinese, suonato da Min Xiao-Fen; mentre in “Hope” si sente la Kora, uno strumento a corda africano che ha un suono che ricorda quello di un’arpa. Vale la pena di citare anche “Declare Independence” che Björk dedicò al Movimento di Indipendenza Tibetano, causando una marea di polemiche con il governo cinese, è un brano che lambi-


sce il campo dell’EBM (electronic body music), questo è ben percepibile anche nel video in cui Björk impersona una specie di situazione da agit prop (anche questo è un video da non perdere).

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È ovviamente un lavoro concettuale, dove l’idea progettuale sovrasta il lavoro di composizione, (facendo un paragone con la pittura potrebbe essere un quadro di Pollock), di solito queste operazioni sono da apprezzare più per lo spunto che per i risultati, ma pur nella prevalenza del gesto, c’è anche una storia da raccontare, perché comunque parliamo sempre di canzoni e quindi di storie e molte canzoni sono veramente belle, io in particolare adoro “Cosmogony”. Biophilia è diventato poi anche un progetto di educazione della città di Reykjavík e dell’università islandese, rivolto ai bambini per ispirare la loro creatività attraverso la musica e la scienza ed è descritto nel sito https://biophiliaeducational.org/ . (Ps essendo un insegnante di formazione tecnico scientifica sono naturalmente affascinato da queste operazioni, quindi potrei essere positivamente pregiudiziale…)

Abbiamo già detto come Björk sia sempre estremamente aperta agli sviluppi e alle possibilità della tecnologia, “Biophilia” (2011, One Little Indian Rec., CD, UK, TPLP1016CD) è in questo senso un album manifesto. È uno dei primi “app-album” (certamente il primo di un artista di grande notorietà) ossia un album musicale inserito all’interno di un’applicazione per smartphone o tablet, che consente all’utente di interagire con il materiale artistico presente o di approfondirne la conoscenza con contenuti speciali e multimediali. “Biophilia” è stata anche la prima applicazione ad essere aggiunta alla collezione permanente di un museo, il MoMA di New York. La scommessa è quella di costruire un album di canzoni realizzate in collaborazione con scienziati ed informatici, prendendo come spunto fenomeni naturali e scoperte scientifiche ed usando nuove tecnologie. Ogni traccia è costruita su un tema specifico, come ad esempio i cristalli, il big bang, i fulmini etc… inoltre per ogni tema c’è l’uso di strumenti inusuali (come la bobina di Tesla) o addirittura creati per l’occasione (il "gameleste", un ibrido tra una celesta e un gamelan). Ogni canzone è scaricabile anche come app ed ognuna ha una funzione diversa, ad esempio quella della canzone “Virus”, oltre a fare ascoltare la canzone contiene anche un semplice videogioco in cui si cerca di impedire a un virus di infettare una cellula. L’associazione delle soluzioni sonore con la canzone non è casuale, ad esempio “Thunderbolt” (fulmine) utilizza una bobina di tesla che è un circuito risonante ad alta frequenza, il sistema può produrre delle fulminazioni che a loro volta producono un crepitio che può essere modulato per essere intonato proprio come uno strumento musicale. Le bobine tesla si possono vedere in funzione anche nei live disponibili su YouTube sul suo canale (il video è bellissimo). Il gameleste è usato nella canzone “Virus” che racconta l’amore tra un virus e una cellula "Si tratta di una sorta di storia d'amore tra un virus e una cellula. naturalmente il virus ama la cellula così tanto che la distrugge”.

“Vulnicura” (2015, One Little Indian Rec., CD DIGIP., UK, TPLP1231CDX) è un album che cristallizza il sound di Björk attorno ad uno dei suoi archetipi, che si potrebbe sintetizzarne la descrizione come: arie d’opera romantiche post moderne cantate su basi elettroniche e arrangiate con l’orchestrazione di una sezione di archi; si fa poi ancora un uso abbondante della sovrapposizione dei suoi vocalizzi, in stile “Medulla”. Il mood del disco è volutamente languido e nostalgico perché il tema è il racconto delle sensazioni di smarrimento provate da Björk dopo la rottura della decennale relazione con il compagno Matthew Barney, da cui ha avuto una figlia, Isadora. Il titolo dell'album fa riferimento alla guarigione dopo il dolore, vulnicura è infatti un neologismo (anche questo uso di neologismi e parole inventate è caratterizzante del linguaggio di Björk) ottenuto mescolando le parole latine "vulnus" ("ferita") e "cura". Dal punto di vista strettamente musicale non è certo una delle opere più riuscite di Björk in una evidente fase di manierismo auto citazionale; più che un disco per il pubblico sembra decisamente una seduta di introspezione


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terapeutica, certamente è una delle sue opere più personali in cui rinuncia a raccontare storie e scenari dedicandosi a condividere la sua nostalgia con gli ascoltatori. Proprio per questo motivo è un’opera che può appassionare solo se si crea quel legame speciale fra interprete ed ascoltatore che si trovano a condividere empaticamente il ricordo di un sentimento comune, nel mio caso questo non è accaduto, anche se non si può negare che sia un disco assolutamente intenso nella sua intimità narrativa. “Vulnicura” è un disco scuro e freddo, un lavoro sul rimpianto e sulla necessità di ricostruirsi nella solitudine dopo un addio, basta dare un’occhiata al video clip del brano “Black Lake” per capire cosa intendo. Parlando di video clip vale la pena di vedere anche “Stonemilker” che ha la particolarità di essere stato girato in realtà virtuale a 360°, a sottolineare come Björk non smette mai di confrontarsi con l’innovazione tecnologica e le sue possibilità espressive.

L’album successivo per certi versi sarà il suo opposto, “Utopia” (2017, One Little Indian Rec., CD DIGIP. , UK, TPLP1381CDX) è un disco con atmosfere eteree di cui è buon manifesto il singolo “Blissing Me”, accompagnato da lievi percussioni elettroniche e arpa. Nell’introduzione la voce di Björk lavora su un registro lieve, atipico per la cantante, solo con il procedere del brano si riconosce la sua tipica timbrica. È una canzone dai toni pastello come il suo video clip. Toni che si trovano anche nella title track in cui in un giardino magico Björk canta accompagnata da un gruppo di flautiste. In “The Gate” è una specie di fatina vestita di luce che canta della sua guarigione dalla ferita (“My healed chest wound, Transformed into a gate, Where I receive love from, Where I give love from, And I care for you, care for you”). Così come “Vulnicura” era il disco della ferita da rimarginare per la fine dell’amore, “Utopia” è il disco della rigenerazione dopo la guarigione, quindi in un certo senso sono album gemelli che descrivono due fasi di uno stesso percorso. Dunque in sintesi, pur essendo “Utopia” condotto da un’atmosfera comple-

tamente diversa, valgono alcune delle considerazioni fatte per il suo predecessore. Per ora è l’ultimo album di Björk che continua la collaborazione con il produttore Arca, iniziata con il disco precedente. Arca è accreditato come coautore di cinque canzoni sulle quattordici che compongono la tracklist. In conclusione in una discografia qualche album di Björk non può mancare, se dovessi suggerire degli “imperdibili” sicuramente citerei quantomeno i primi tre con una leggera preferenza per “Debut” e “Homogenic” e con “Vespertine” e “Volta” ad inseguire; consigliando comunque per lo meno l’ascolto anche degli altri. gi.fe.

I POSSIBILISTI Ma possiamo dire che:

Quando Björk canta non si capisce niente di quello che dice ? LETTORI RISPONDETE NUMEROSI !!!!!!!


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THE SUGARCUBES Zuccherini sotto spirito maligno di Stoto Massimiliano L’epopea degli Sugarcubes comincia, lo sanno tutti, quando John Peel inizia a trasmettere “Birthday” nel suo programma radio. E’ il 1987 e “Life’s To Good” il primo disco, verrà licenziato l’anno dopo in Aprile. Ma qualcosa si muove da prima. Tra la fine del 1986 e il primi mesi dell’87, gli Sugarcubes fanno una vita frenetica, a fine Novembre è uscito per l’etichetta Smekkleysa “Einn Mol'á Mann” firmato Sykurmolarniril (Sugarcubes in islandese), il 7” tirato in 500 cp presenta sul lato A “Ammæli”, che ben presto sarà anglicizzata e conosciuta come “Birthday”. Il gruppo è in procinto di firmare con la One Little Indian, la cui macchina promozionale però è già in movimento, se pensate che viene chiamato a immortalare “la banda dei cinque”, un fotografo importante come Ilpo Musto. Musto è un finlandese trapiantato in Inghilterra, ha studiato fotografia fin dalla fine degli anni ‘60 e nell’ambiente ha già lavorato con diversi artisti e firmato immagini iconiche. Realizzerà un set fotografico mozzafiato ai 5 ragazzi di Reykiavik. Sono le foto dove Björk ha il vestito rosso, quello che usa in certe parti del video di “Birthday”, e porta le calze verdi. I ragazzi sono quasi sempre sullo sfondo, vestiti in prevalenza di nero con alle spalle dei pannelli color grigio. Solo in una di queste foto Þór Eldon sfoggia, come la moglie, una t-shirt rossa con bretelle nere e in un altro scatto la band è ritratta sorridente su uno sfondo azzurro e con gli stessi abiti. Insomma la star è già lei, anche perché il buon Ilpo ritrae la stellina, appena ventunenne, in pose diciamo osè, scosciata con calza verde in evidenza e parte intima da scoprire appena giri l’angolo. Björk domina la scena e si presenta allo zenith della sua bellezza giovanile, e nonostante sia da poco diventata madre e sfoggi espressioni pensierose e un solo sorriso, è sicura di sé e irradia le foto di una luminosità contagiosa. La particolarità della bellezza di Björk nello star system europeo e mondiale è pressoché sconosciuta. Per provenire da un paese nordico è atipica, fuori dai canoni che vuole la tradizione scandinava, non è la classica bellezza tipo valchiria o Abba style, ma al contrario è minuta e ha dai lineamenti “asiatici” che, va detto, non sono un’esclusiva dei paesi a est di Samarcanda. L’epicanto, cioè la piega cutanea che si trova sopra l’occhio e davanti alla palpebra, sviluppato in forma mediale è una caratteristica di diverse popolazioni asiatiche, ma anche certe amerindie, certe africane e alcune europee. L’epicanto sviluppato in questa maniera lo si può trovare anche nei neonati i cui occhi in crescita vengono protetti da questa particolare piega cutanea. La selezione naturale ha fatto in modo che questa protezione neonatale, detta neotenia, (ovvero la persistenza in età adulta di tratti infantili) si sviluppasse anche in un individui adulti che vivono in un ambienti particolarmente ostili. L’epicanto mediale si può così trovare in popoli differenti come scandinavi, irlandesi, eschimesi, indigeni americani,

Björk and the Sugarcubes in London, 1986. Photo by Ilpo Musto

boscimani e asiatici. Tornando agli Sugarcubes io credo che tutto il gran parlare che se ne fece e la popolarità che ottennero fu principalmente dovuta alla voce di Björk, ma credo anche che una buona parte di quel successo fu dovuta al fatto che lei stessa era un personaggio nuovo, era una bellezza “esotica” che proveniva da un paese semi sconosciuto nel giro musicale di quel tempo….mentre sono convinto che le composizioni musicali del gruppo contribuirono ma in maniera limitata al sarabanda che venne messa in piedi. “Life’s To Good” esce per One Little Indian nell’Aprile del 1988 e contiene undici tracce. Una di queste non è indicata nella track list, si tratta di “Take Some Petrol Darling” ed è l’ultimo pezzo del lato B del vinile. I brani sono tutti firmati dai ragazzi islandesi, registrati tra Reykjavik e Londra e prodotti da Ray Shulman, noto come fondatore e membro , con i suoi due fratelli, del famoso gruppo prog inglese Gentle Giant e da Derek Birkett fondatore, a sua volta, della OLI Records nel 1985. Il disco dura poco più di mezz’ora esprime una buona energia attraverso tutti i pezzi, si muove tra remi-


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niscenze post-punk e new wave, con due grandi fonti ispirative i Talking Heads e i B’52. Il cantato è diviso fra Björk e lo spoken word del trombettista Einar che più di una volta fa aleggiare lo spirito di David Byrne, nell’iniziale “Traitor” per esempio che in quanto a fantasmi evoca anche quelli di Kate Pierson e Cindy Wilson del gruppo di Athens. Più divertente è “Motorcrash” il cui testo è molto ironico e non sense “Quella ragazza su quella bicicletta ha mostrato un grande interesse per tutti gli incidenti automobilistici del quartiere, sembra abbastanza innocente, ma credimi, so che aspetto ha l'innocenza” prima che “Birthday” ci inizi alle potenzialità della Björk che verrà, una base scarna e un incedere indolente sostengono gli esplosivi ruggiti della vocalità della protagonista di questo numero di WN, in continui rimandi dolci e ruvidi. E’ sicuramente un grande pezzo ma lo è soprattutto per la vocalità. In “Delicious Demon” continuano i rimandi marcati al duo Talking H./B’52, anche se il pezzo alla fine è divertente, semplice, ma divertente. “Mama” è un pezzo più subdolo, dove ancora Björk esprime il suo clamoroso potenziale in una traccia introdotta dal basso di Bragi Ólafsson e la cui trama sonora ben si adatta al testo sofferente e incestuoso “Con un seno in ogni palmo, è così che sono nato, ed è così che voglio morire, dammi una grande madre, morbida e bagnata...mi accarezzerebbe”. E’ bruttina invece “Cold Sweat” con il suo incedere muscolare e non tanto meglio è “Blue Eyed Pop”, anche qui le influenze delle “teste parlanti” sono esplicite e nei cori si sentono tutte le ragazze dei B’52. Nella seconda parte della canzone, il pezzo è cantato a due voci, Björk con padronanza occupa la scena ma non può fare miracoli ogni volta. Due pezzi che non ci fosse la voce di B. passerebbero inosservati. Il brano più lungo del lotto è “Deus”, appena oltre i 4 minuti, un pezzo dove B. entra subito, esprimendosi al massimo, peccato per gli inutili spoken word e gli acuti vocali. In “Sick For Toys” il suono è rubato a molta new wave inglese, quella più di maniera U2, Mission, Cult, B. si fa tirare dentro e alla fine non ne riemerge. E’ invece ruspante “Fucking In Rhythm and Sorrow” dove l’andamento è un rock ‘n’ roll sgangherato e B. dimostra la sua capacità di interpretare diversi generi. Il pezzo tutto sommato assomiglia a uno standard del Kentucky o giù di lì, ed è veramente suonato a modo. La finale “Take Some Petrol Darling” pur essendo un divertissment a metà tra la sperimentazione e la libertà interpretativa, mette in mostra un po’ di “palle” da parte del gruppo che tra reminiscenze gutturali modello Crass Records, chitarre e percussioni in libera uscita e la voce della predestinata, fissa un minuto e mezzo che non c’entra nulla con tutti gli altri pezzi,

che lancia uno sguardo al loro passato e che perlomeno ha il pregio di essere originale. Musicalmente il primo disco degli Sugarcubes, per me, è un disco considerato più grande di quello che realmente è. Ci fosse stata un’altra ragazza alla voce, con una figura più nei canoni, il gruppo non sarebbe mai emerso. Andate a vedervi i dischi usciti nel 1988, provate a riascoltarne qualcuno e poi mi dite.

Al contrario dell’esordio, uscito da subito sia in CD che in LP ma con l’edizione in vinile supportata dalla trovata di colorare la cover in colori diversi, (la cover verde è comunque quella più comune), “Here Today, Tomorrow Next Week!” ha l’edizione principale che esce in CD con tre brani in più (dura in totale più di 50 minuti) e fa la sua comparsa sui mercati musicali nel Settembre del 1989. E’ un disco che ha ben pochi pregi, fra questi il più meritevole di essere segnalato è che i sedici pezzi mostrano una crescita sonora rilevante e uno smarcamento sostanzialedai riferimenti che tanto avevano caratterizzato l’esordio. Björk è ormai lanciata nell’Olimpo, sicura di sé domina tutte le canzoni con una naturalezza sbalorditiva, al contrario la tenacia con cui Einar Örn continua a “cantare” e proporre i suoi isterici spoken word, ha dell’ incredibile. Di fatto il disco è rovinato dalle sue parti vocali. Considerate pure che il disco era attesissimo, da critica e fans, e che rappresenterà per molti una grande delusione. Sarà inevitabile a questo punto che i due cantanti arrivino allo scontro. Se siete lettori di riviste musicali, sapete benissimo che il “disco del mese” è, da sempre, uno dei riferimenti principali a cui il lettore si affida per conoscere tendenze e avere un’idea di che aria tiri in certi ambienti. Il disco del mese è il disco della redazione. Ebbene, sorprende che la recensione di Riccardo Bertoncelli sul numero 110 di Rockerilla dell’Ottobre 1989, parli di “Here Today, Tomorrow Next Week!” quasi con toni dimessi, anche se il disco in sostanza vien recensito positivamente, non ci sono accenni alle incursioni incontrollate del trombettista vocalist e alla fine sembra bastare a Bertoncelli la voce di Björk, la crescita della sezione ritmica e la dimestichezza del gruppo a occupare ogni spazio sonoro disponibile. Tutto sommato sono d’accordo con lui, anche se tutto questo è troppo poco per un disco del mese…. e le parole deludenti e non scritte, volteggiano come avvoltoi sopra il cadavere. Con questo non voglio certo prendermela con Bertoncelli ma solo segnalare come la più bella rivista italiana di rock, dell’epoca, si trovò di fatto spiazzata dal secondo disco degli Sugarcubes e non fu la sola. Ma “Here Today…” comincia ad essere abbastanza indecifrabile fin dalla cover grigio/azzurra, con il pupazzetto per-


plesso sovrapposto a bolle di sapone fra le due scritte che riportano nome del gruppo e titolo con colori differenti, risultando soprattutto quella della firma della ditta, piuttosto invadente. Lo stacco è netto rispetto alla cover del disco precedente realizzata da Paul White rifacendosi alla grafica di dischi jazz americani e che caratterizzò anche le copertine dei singoli estratti dal disco d’esordio, “Deus”, “Motorcrash” e “Coldswat”. Insomma se il buongiorno si vede dal mattino e nonostante di cover brutte se ne sono viste di peggiori, “Here Today….” marca male già visivamente. Il compito di aprire il disco è affidato a “Tidal Wave” aperta dal cantato maschile, ancora in botta David Byrne, e caratterizzata da uno stuolo di strumenti a fiato che danno un sapore esotico al pezzo. “Regina” è il pezzo che dovrebbe replicare il successo di “Birthday” peccato che ci sia la voce di lui che cerca di fare qualcosa, che so una primordiale forma di rap ? Ed è fuori posto come un orso polare all’equatore. “Speed Is The Key” non è una meraviglia anche se il cantato di B. fa di tutto per risollevare le sorti di un pezzo eccessivamente muscolare. “Dream TV” vive di accelerazioni punk, “Nail” è un bel pezzo sostenuto da basso e batteria in gran forma e celestiali passaggi di canato bjorkiano, passaggi decisivi anche in “Pump” e “Eat The Menu”. “Bee” e “Dear Plastic”, quest’ultima anche con sezione fiati, riescono a mettere in mostra le tastiere della nuova arrivata Margret Ornolfsdottir. I pezzi non sono nemmeno scritti male, ma si incrinano ogni volta che la voce maschile entra a supportare un pezzo strumentale, perché i duetti maschio/ femmina sono una rarità negli Sugarcubes. Uno di questi è “Shoot Him”, dove Einar ne esce rovinato, ma il pezzo tutto sommato per essere una tirata post punk funziona. “Water” ci presenta la B. più sognante e “A Day Called Zero” quella più incalzante, supportata da un bel gioco di tastiere e basso pulsante. “Planet” ha un arrangiamento d’archi su cui si slancia in volo la voce di B., “Hey” ha pennellate di negritudine mentre “Dark Disco 1” è un guazzabuglio disordinato che precede la chiusura con l’esercizio country rock di “Hot Meat”, ben svolto. Mi ripeto ancora per poche righe, “Here Today…” non presenta un gruppo involuto anzi tutt’altro, la ricerca di un suono identitario è ben avviata, il lavoro della sezione ritmica è notevole, la cantante può cantare di tutto, ma evidentemente qualche scelta produttiva non è stata ben calibrata e certi parti, non serve ripetere quali, risultano essere forzate e mal interpretate. Il produttore del disco risulta essere il patron della casa discografica in accoppiata con il gruppo, Shulman, che era un musicista non c’è più, forse lui o chi per lui avrebbe potuto ben consigliare i ragazzi che nonostante gli sforzi si troveranno ad avere deluso gran parte delle attese. Senza una guida e con tanti problemi al proprio interno, il divorzio fra Björk e Þór in primis, con lui che poco dopo sposa la nuova tastierista, la personalità testarda e ingovernabile di Einar incapace di accettare la leadership talentuosa e d’immagine di B., gli Sugarcubes diventano un bel rompicapo per tutti quelli che da semplici appassionati o da fans si sono interessati a loro. A farne le spese è la loro vulcanica miscela di funk, new wave, post punk, un fuoco fatuo che rischia di spegnersi per sempre.

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Dopo il tour e una pausa di quasi un anno, tempo nel quale alcuni dei componenti del gruppo si dedicano a progetti personali, Björk per esempio realizzerà il famoso disco jazz, gli Sugarcubes si riuniscono per comporre quello che sarà il loro ultimo album insieme “Stick Around For Joy” che uscirà a febbraio del 1992. Prodotto da Paul Fox, che fino ad allora aveva lavorato con musicisti per lo più mainstream, ma che solo qualche anno prima aveva messo le mani su “Oranges & Lemons” degli XTC. il disco ha un taglio più indie rock, la chitarra di Eldon è più in evidenza, Einar è tenuto a bada, fa ancora qualche spoken word ma in maniera contenuta e ben controllata, la sezione ritmica è meno furiosa e la ragazza con la sua voce, come al solito, regge tutto. Ma l’essenza dei primi Sugarcubes, quella cosa che li fece salire alla ribalta, che li faceva sembrare freschi e furiosi, quasi animati da dispettosi spiriti maligni, non c’è più. Se il primo disco pur non essendo, come ho detto originalissimo risultava perlomeno molto fresco e sbarazzino e appetibile per un mercato che era molto ricettivo per le cose che provenivano dal basso o dalle province dell’impero, ora quell’essenza si è sciolta come neve al sole. Con una come B. in gruppo è difficile fare un disco indegno, non lo è nemmeno quest’ultimo, ha qualche bel pezzo, a me piacciono soprattutto “Hit”, “Leash Called Love”, “Hetero Scum” e “Happy Nurse”, ma in definitiva la sufficienza è strappata in extremis. Uscirà sempre nel ‘92 una raccolta di remix intitolata ”It’s - It“ e in seguito varie altre raccolte sulla produzione canonica. La produzione degli Sugarcubes io la valuterei nella seguente maniera: sette al primo disco e sufficienze più o meno risicate ai capitoli successivi. In ogni caso non c’è nessun titolo degno di fregiarsi di essere un “disco del mese” . La storia finisce qui, ma poco dopo nel ‘93, ne nascerà una più meravigliosa che continua ancora oggi. ma.st.


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TRIP-HOP ovvero il Bristol Sound che invade il mondo con l’aiuto delle ragazze di Lewis Tollani

Per il trentennale dell’uscita di “Blue Lines” dei Massive Attack, non potevamo ignorare il cosiddetto genere Trip-Hop. Genere che Bjork ha preso a braccetto all’inizio della sua carriera solista e che, fra i pezzi che lo caratterizzano, ne ha un buon numero interpretato da donne. La cittadina portuale di Bristol, nel sud-ovest della Gran Bretagna, si è sviluppata ed evoluta fin dai primissimi anni del 1700 come uno dei porti principali di collegamento per le rotte navali transoceaniche, soprattutto Canada e Stati Uniti, con la ditta armatrice Britstol City Line a farla da padrone. Questo continuo scambio con il "Nuovo Mondo" subisce un brusco arresto nei primi anni '70 del secolo scorso, ma ormai la città è un autentico "melting pot" umano e culturale, secondo solo a quello della capitale Londra; e quindi "il dado era ormai tratto" e il miscuglio multicolore di influenze musicali è la base per la nascita di una nuova fusione di generi, apparentemente inconciliabili fra loro, ed il propulsore per portare la cittadina alla ribalta mondiale. Il nucleo che genera tutto questo risponde al nome di “Wild Bunch”, una sorta di posse dedicata alle arti tipiche dell'hip hop americano, “writing” (la leggenda metropolitana Bansky fa la sue prime apparizioni nella cittadina e si narra sia proprio di Bristol, alcuni si spingono anche ad identificarlo con Robert Del Naja, deus ex-machina del “Wild Bunch” prima e dei Massive Attack poi), “djing” completamente fuori dal comune, che frullano funk, house, r&b, reggae, dub, rap, elettronica, jazzy in un miscuglio mai sentito prima (ed il soundsystem del “Wild Bunch” presto si prende la leadership della scena cittadina), “rapping” con gli MC che declamano liriche infuocate, come nelle strade di New York facevano i pionieri dell'hip hop nei primi anni '70, ma a Bristol aggiun-

gono anche il “toasting”, cantilene e soprattutto vocalizzi, sussurri e melodie di matrice wave e post-punk rendendo il tutto ancor più incredibile. Anche in questo campo, presto il “Wild Bunch” inizia a risplendere di una luce particolarmente abbagliante, tanto forte da riuscire a mettere in ombra tutti gli altri collettivi... certo se al tuo interno puoi vantare dei fuoriclasse come, il suddetto Del Naja a.k.a 3D, Tricky Kid, Nellie Hopper, Daddy G, Dj Milo e Mushroom tutto risulta più "facile". Fra il 1983 ed il 1989 il collettivo sale alla ribalta cittadina e pian piano comincia a diffondere il proprio verbo in tutta la nazione, ma i rapporti fra i vari membri sono sempre più tesi, difficili, sia per quanto riguarda la gestione quotidiana di un numero esteso di persone, che soprattutto per la convivenza di personalità fortissime che iniziano ad avere idee diverse nella direzione artisti-

Massive Attack “Wild Bunch”

ca del gruppo. Al momento dello scioglimento "ufficiale" 3D, Daddy G e Mushroom avevano già formato un nuovo progetto, chiamato Massive Attack, con Tricky Kid (ora divenuto grande e quindi solo Tricky) che andava e veniva a suo piacimento (come aveva sempre fatto anche prima nel “Wild Bunch”). La storia (della musica ma non solo) prende, a questo punto, decisamente un'altra direzione, partorendo ufficialmente il cosiddetto Bristol Sound. Nel 1991 i Massive Attack pubblicano il loro disco di esordio "Blue Lines" e grazie al traino del singolo "Unfinished Sympathy" con la splendida voce di Shara Nelson (ottima cantante soul ed r&b, già famosa nel cir-


cuito underground londinese, con la sua voce calda e morbida) il brano diviene presto un successo planetario, prodotto dall'amico e sodale Nellie Hopper ed è una vera e propria ventata di aria nuova tanto che anche i media dedicati se ne accorgono, "il disco più elegante, letale ed urbano mai sentito" scriveva Dele Fadele sulle colonne del NME ed Andrew Harrison gli faceva eco su Secret definendolo "Un disco che trascende ogni confine. Il termine "trip-hop" vede la luce solamente qualche anno dopo, nel numero di giugno del 1994 del magazine Mixmag, nel quale il giornalista Andy Pemberton descrive in questo modo il mix "In/Flux" dell'artista americano Dj Shadow, un vero e proprio "taglia e cuci" di breaks, bassi pulsanti, litanie di spoken words, rumori bizzarri e beats rallentati "che danno all'ascoltatore l'impressione di essere in un trip musicale" aggiunge Pemberton; e da quel momento il termine che definisce un genere viene applicato istantaneamente ai Massive Attack che di lì a poco pubblicano il loro secondo lavoro su lunga distanza "Protection". Nello stesso anno esce anche il disco di esordio dei Portishead, "Dummy" per cui il genere viene subito esteso a tutta la musica della città, che presto si prende prepotentemente la ribalta nazionale, prima, ed internazionale poi. I Porti-

Portishead

shead si formano attorno alle figure del produttore e dj Geoff Barrow, del chitarrista Adrian Utley e soprattutto della cantante Beth Gibbons, dotata di uno stile molto particolare, molte volte accostato a quello di Billie Holiday, anche se lei molto spesso ha dichiarato Nina Simone, Edith Piaf e Bono fra le sue maggiori influenze/ispirazioni, nonché Liz Fraser dei Cocteau Twins. Simultaneamente si sviluppano altre realtà in tutta la Gran Bretagna, come l'etichetta Mo'Wax di James Lavelle (che nel proprio rooster ha proprio quel Dj Shadow "responsabile" della nascita del termine) o la Ninja Tunes di Matt Black e Jonathan Moore che vanta artisti come Funki Porcini, The Herbalaiser e Dj Wadim, entrambe realtà londinesi famosissime nel sottosuolo della "club-culture" cittadina, ma che presto diverranno anche loro fenomeni internazionali. Millenovecentonovantacinque l'anno della svolta, definitiva.

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Tricky Kid diventa grande e prende coscienza di se, elimina il ragazzino dal suo nome, si stacca definitivamente dal cordone ombelicale del “Wild Bunch” (la collaborazione in "Karmacoma" dei Massive Attack dell'anno prima resta uno dei punti più alti del genere, a mio avviso, che nasce, narra sempre la leggenda, da una serata al centro sociale Forte Prenestino di Roma durante la festa del raccolto "Karmacoma, what? Jamaica a Roma") e rilascia il suo debutto "Maxinquaye" dove tenta di esorcizzare tutti i suoi demoni (il titolo nasce dalla fusione de nome e del cognome della madre Maxine Quaye, morta suicida), con l'aiuto del produttore Howie B (Madonna, U2, Soul II Soul, Björk, Siouxie And The Banshees, Santana, fra gli altri) e della Martina e Tricky

compagna Martina Topley-Bird, che con la sua voce riesce a mitigare gli incubi sonori di Tricky, ascoltare la sola "Hell Is Around The Corner" per credere... anche se penso che tutti l'abbiano sentita almeno una volta nella pubblicità di un noto marchio di lavatrici, fatto che da solo testimonia la diffusione del Bristol Sound nel mondo, qui non solo prettamente musicale. Sempre nello stesso anno, ma a Londra, esordisce un’altra band destinata da subito a diventare una vera superstar del genere, formata qualche tempo prima dai fratelli Paul e Ross Godfrey e dalla cantante funk/soul Skye Edwards che propongono una miscela meno spigolosa di quella proveniente da Bristol, con una maggiore venatura “pop”… “Who Can You Trust?” dei Morcheeba, trascinata dal singolo “Trigger Hippie”, è un successo clamoroso, tanto da guadagnare il disco d’oro in patria e quello di platino in una nazione “ostica” per certe sonorità, come l’Italia. Fuori dall'asse Bristol-Londra prontamente si sviluppano


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una sacco di nuove realtà e molte già esistenti virano artisticamente verso la "next big thing", nel 1993 Björk si immerge totalmente nella "scena" e con il suo albun "Debut" strizza l'occhiolino alle nuove sonorità inglesi, grazie anche (o soprattutto) alla produzione di quel Nellee Hopper che chiusa l'esperienza “Wild Bunch” si era trasferito a Londra ed aveva fondato e costruito il proprio studio di registrazione, alzando ancora di più il livello con i successivi "Post" (1995) e "Homogenic" (1997) entrambi con la produzione/ collaborazione di Tricky e Howie B, artista e produttore scozzese Howie B. e Björk che ha scandagliato gran parte della musica elettronica degli anni '90, da protagonista. I Portishead, dopo il folgorante esordio, nel '97 licenziano il loro omonimo secondo album ed estendono ancora di più la loro popolarità a livello mondiale, superando anche quella dei "pionieri" Massive Attack, immortalata perfettamente nel disco live "Roseland NYC City" dell'anno successivo, registrato durante l'esibizione dal vivo alla Roseland Ballroom della "Grande Mela" con la New York Philarmonic Orchestra di "supporto". Ma la magia sembra ormai al tramonto, sempre nel 1998 i Massive Attack realizzano il vero capolavoro del trip-hop (a mio, ma non soltanto mio, parere) che è "Mezzanine", ma come dicevamo la magia primigenia legata al dancefloor, all'hip hop delle origini, all'elettronica da ballo (house) non c'è più, la cupezza dei brani, l'oscurità dell'intero lavoro (a partire dalla grafica) lasciano presagire un nuovo millennio molto più cupo ed inquietante alle porte (e non hanno proprio sbagliato le previsioni), il brano traino del disco è quella "Teardrop" con la splendida voce “materna” di Elizabeth Fraser dei Cocteau Twins a farla da padrone (voce che ritorna più volte all’interno dell’album), dove quel senso di inquietudine tipico delle composizioni della band viene ammorbidito dalla melodia rassicurante della Fraser, ma anche brani più "aperti" come "Man Next Door" (cover del brano dei Paragons del 1968) ed interpretata dalla superstar londinese del reggae Horace Andy risulta carica delle peggiori angosce di fine millennio, ben rappresentate dal secondo disco solista di Tricky, intitolato proprio "Pre-Millennium Tension" di due anni precedente a "Mezzanine".

"There is a man that live next door In my neighborhood In my neighborhood And he gets me down"

Ma oltre a Shara Nelson, Beth Gibbons (imperdibile “Out Of Season con l’ex Talk Talk Paul Webb), Martina Topley-Bird e Shirley “Skie” Edwards tante altre ragazze hanno dato voce e caratterizzato il genere, alcune sono presenti nei dischi riportati qui sotto, Roisin Murphy dei Moloko, Nina Miranda dei Smoke City, Kelli Dayton degli Sneaker Pimps, Martha Schwendener dei Bowery Electric, Roya Arab degli Archive, Liesje Sadonius degli Hooverphonic e Alison Goldfrapp della band omonima. Senza dimenticare Lou Rhodes dei Lamb, Siobahn de Marè dei Mono, Roba ElEssawy degli Attica Blues, Anita Jarrett unica donna del terzetto vocale che caratterizza il disco dei Pressure Drop “Elusive”, cantato con Martin Finley e Constantine Weir dei Galliano, Leila collaboratrice di Bjork e sorella di Roya Arab, Alice Temple e chissà chi mi dimentico ancora. La menzione finale però la debbo al capolavoro “Nearly God” che è un parto di Tricky, che esce nel Febbraio del ‘96 e vede la collaborazione vocale, fra le donne di Björk, Neneh Cherry, Alison Moyet, Martina Topley-Bird e Cath Coffey. Lewis Tollani

10 DISCHI "ALTRI" PER UNA MIGLIORE COMPRENSIONE MOLOKO - Do You Like My Tight Sweater? (Echo, 1995) SMITH & MIGHTY - Bass Is Maternal (More Rockers, 1995) ARCHIVE - Londinium (Island records, 1996) SNEAKER PIMPS - Becoming X (Virgin, 1997) SMOKE CITY - Flying Away (Sony, 1997) MORCHEEBA - Big Calm (China, 1998) GROOVE ARMADA - Vertigo (Pepper, 1999) BOVERY ELECTRIC - Lushlife (Beggars Banquet, 2000) HOOVERPHONIC - The Magnificent Tree (Sony, 2000) GOLDFRAPP - Felt Mountain (Mute, 2001)


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Gente Indipendente Il pensiero politico di Bjork fra universalità e indipendenza di Massimiliano Stoto “- Lo Sneffels! – gridò. – Lo Sneffels! Poi, dopo avermi raccomandato con un gesto il silenzio più assoluto, scese nella lancia che ci aspettava. Lo seguii, e ben presto cavalcavamo il suolo d’Islanda” (Jules Verne, “Viaggio al centro della Terra”, traduzione di Carlo Fruttero e Franco Lucentini, L’Unità/Einaudi, 1996) “Allora Bjartur si infuriò e si mise a parlare in maniera incoerente, e disse di essere un libero islandese e, e, e, non me ne importa un diavolo, e, e mi farete a pezzetti vivo come hanno fatto con la buonanima Gunnvör al cancello del cimitero di Útiraudsmýri, e lei non si è data per vinta, anzi li ha maledetti tutti in punto di morte, e si è avverato tutto, associazioni femminili e cooperative, io non cederò mai.” (Halldór Laxness, “Gente Indipendente”, traduzione di Silvia Cosimini, Iperborea, 2004) “A molti islandesi dà un certo fastidio quando i media internazionali o documentari come “Where To Invade Next” di Michael Moore raccontano una storia disneyana di una nazione intera unita nella lotta contro l’avidità e la corruzione. Qualche banchiere è finito in prigione, si, ma per il resto, quelli che prima della crisi erano ricchi sfondati in linea di massimo lo sono ancora.” (Egill Bjarnason, da “The Passenger - Islanda”, traduzione di Tomaso Biancardi, Iperborea 2018)

Gente indipendente, ostinata, caparbia, decisa. Ma non più del nonno di Heidi o di un tartaro della steppa. Così possono essere descritti gli islandesi secondo gli scritti della tradizione e i voleri dell’industria mediatica del ventunesimo secolo. Gente tosta, forgiata da elementi che modellano una terra inospitale d’origine vulcanica. Un popolo millenario e una nazione ancora adolescente (1944). Un posto che vive oramai da qualche anno un boom turistico sensazionale, che ha molto aiutato chi ci vive, a risollevarsi dopo la crisi economica del 2008. Turismo che ha generato ricchezza e ha presentato un conto non poi così salato, se a perdersi è stata un po’ di “tranquillità” della altrimenti sonnolenta Reykjavik. Un prezzo che molti islandesi sono stati ben lieti di pagare pur d’accogliere qualche turista in più, smanioso di fotografare l’ennesimo vulcano, il solito geyser o l’incantevole aurora boreale. Una scoperta, quella della terra d’Islanda a cui anche la musica ha contribuito non poco, ricordandomi, ciò che successe con la verde Irlanda negli anni ‘80. Ma facciamo un passo indietro: a quando Hitler invase la Danimarca. Fu infatti grazie a quell’intervento che il Regno Unito cominciò a considerare che l’eventuale occupazione

tedesca, del neutrale Regno d’Islanda, volontariamente unitosi alla Danimarca tramite referendum nel 1918, sarebbe potuta diventare un grosso pericolo per il controllo dell’Atlantico del Nord, perciò procedette ad un invasione molto soft nel Maggio del ’40. L’isola fu da quel momento di importanza strategica per gli alleati, soprattutto per gli americani che arrivarono nel 1941 se ne andarono ‘46, per poi tornarci nel ’49 e rimanerci fino al 2006. Un ’ occupazione perlopiù strategica quella U.S.A. che non riuscì, durante la guerra fredda, a mettere testate nucleari sul suolo islandese. Ma se con gli inglesi, come con i russi, i norvegesi e i danesi i rapporti furono sempre stati al limite della sopportabilità, più che altro per questioni legate alla pesca, con gli americani le cose andarono meglio e la presenza militare per cinquant’anni si è fatta “sentire” più culturalmente che militarmente e in seguito vedremo perché. Un esempio di questa influenza, di questo “sentire” è “Glin-Gló” l'album di Björk & Tríó Guðmundar Ingólfssonar, pubblicato nel 1990, un album jazz, che contiene dei classici internazionali, ma che non è espressamente un tributo ad essi, visto che la prima stesura in vinile conteneva 14 brani equamente distribuiti fra “standard” e altri firmati da autori islandesi. Autori che sono da annoverare fra categorie quali compositori e interpreti, tutta gente che attorno agli anni ‘50 aveva in media 25/30 anni. Fu la versione in cd (16 brani) editata lo stesso anno, a sbilanciare la tracklist a favore degli stranieri etichettare il disco come un tributo a un jazz più famoso. Ma cosa voglio dire con questo esempio ? Voglio dire che all’alba degli anni ’90 un gruppo di ragazzi islandesi, la cui cantante ha già alle spalle svariate esperienze interpretative, decide di reinterpretare una serie di brani riappropriandosi di una cultura musicale “importata” ma che in definitiva considerano anche propria, in virtù del fatto che dei loro coetanei appena quarant’anni prima l’avevano assorbita e riscritta. Certamente grazie alla radiodiffusione ma soprattutto grazie ai militari americani che ne portarono di

Louis Armstrong e Jón Múli Árnason


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nuova. Il militare che porta l’eccitazione di una liberazione, il chewin-gum e una nuova musica è un fatto che avviene anche alle nostre latitudini e sappiamo anche che sono stati il jazz e lo swing a intrattenere e scatenare i ragazzotti europei nel primissimo dopoguerra, prima che, nel ‘58, Elvis sbarcò in Europa per fare il servizio militare. Da lì qualcosa cambiò. Ma è la televisione, come in altri luoghi a incidere maggiormente su gran parte della popolazione islandese, seppur con un ’importante e macroscopica differenza. Quando Björk viene alla luce, il 21 Novembre 1965, la televisione islandese non ha ancora iniziato a trasmettere. Le prime trasmissioni in lingua madre sono infatti del Settembre del ’66, le primissime invece sono del 1951 per merito dell’American Forces Radio and Television Service (AFRTS) che allestì un servizio televisivo solo in lingua inglese che trasmetteva dalla base aereonavale di Keflavik e che fu attivo fino alla dipartita americana del 2006. Quindi l’Islanda, giocoforza, dalla seconda metà del ‘900 ha subito gli influssi sociali a cui erano sottoposte le popolazioni angloamericane, con tutte le varie influenze artistiche, economiche, sociali e politiche del caso. L’Islanda è stato un paese distante dalle beghe europee del dopoguerra. Ricostruzione postbellica, Guerra fredda, Muro di Berlino, etc etc...sono stati “solo” grandi temi europei che hanno lambito la popolazione islandese esclusivamente di riflesso e anche per questo l’Islanda fu scelta per l’incontro Regan / Gorbačëv del 1986. Sono gli influssi angloamericani che hanno inevitabilmente investito la generazione dei genitori di Björk per poi riversarsi su la stessa e i suoi coetanei. Attualmente in Islanda la lingua inglese è materia di studio, come da noi, fin dai primi anni scolastici. Questa è ovviamente una cosa utile che apre delle possibilità ma è anche una cosa che ti mette sotto a un cappello. Ora, risalire all’organizzazione scolastica islandese degli anni sessanta/settanta, mi è stato impossibile, ma evidentemente Björk, l’inglese lo sa bene vista la spavalderia con cui interpreta a 11 anni “I Love To Love” della Charles (https:// mikropragmata.lifo.gr/zoi/i-11chroni-bjork-tragouda-to-i-loveto-love-to-proto-tragoudi-pou-ichografise-to-1976/) e nel diPhoto by Santiago Felipe

sco del ‘77 coverizza tre brani in lingua inglese, uno è dei Beatles, anche se vengono poi interpretati in islandese. Resta il fatto che la piccola Björk cresce con accanto sia una televisione giovane, capace di interpretare la generazione di cui lei stessa fa parte e con un’altra che parla inglese che le mostra tutto un altro mondo, pieno di cambiamenti, contraddizioni e stimoli. L’infanzia la vede divisa fra la comune in cui viveva con madre e patrigno e la casa dei nonni paterni, con il padre e in un ambito familiare più normale. Tutto questo trambusto non le impedisce di comparire in televisione a soli 11 anni e raccontare la storia della natività accompagnata da coro, flauti e violini (https:// mikropragmata.lifo.gr/zoi/i-11chroni-bjork-tragouda-to-ilove-to-love-to-proto-tragoudi-pou-ichografise-to-1976/). Il fatto di essere cresciuta in un habitat particolare, e con habitat intendo la connessione di più condizioni, da quelle geografiche, climatiche e naturali a quelle domestiche che la sua famiglia viveva e che si possono definire anche come politiche e sociali, a quelle sensoriali che riceveva da una lingua e una cultura differente l’hanno resa un’artista aperta a tante influenze musicali, un’icona dal percorso artistico impressionante. Un percorso musicale e umano che senza il fiero indipendentismo e la tenacia determinazione islandese, probabilmente sarebbe affondato sul nascere nel Mare del Nord. Indipendenza e tenacia sono anche due riflessi del suo carattere che nel corso degli anni le hanno permesso di assumere posizioni politiche e sociali mai banali, spendendo poche parole per esprimere concetti chiari. In rete trovate molti spunti a riguardo e tante interviste ma una in particolare, rilasciata a Miranda Sawyer del Guardian pubblicata nel Novembre del 2017 , contiene ottimi spunti per interpretare il pensiero politico/sociale di Björk. Un pensiero che prende coscienza di sè quando nel 1983 con i Tappi Tikarrass, Björk, avrà modo di fare il suo primo tour nel Regno Unito, durante il secondo mandato governativo della Thatcher, in un contesto britannico molto particolare che lei assorbirà frequentando tutto l’ambiente anarco punk legato alla band Crass e all’etichetta che porterà lo stesso nome. Ma ecco qualche passaggio di quell’intervista realizzata poco prima dell’uscita di “Utopia”. Anni ’90 scena di Manchester: "Ricordo di essere andata ai rave a Manchester, io e i miei amici uscivamo e andavamo in discoteca (…) era importante essere asessuali. Ci siamo sentiti come se avessimo pensato: "Il modo in cui affronteremo la comunicazione dei sessi è che tiriamo fuori la lingua. Era una ribellione non affrontarla, una dichiarazione contro lo status quo. Non essere maschio o femmina, annullare il ruolo che avresti dovuto interpretare." A proposito di Trump e della sua elezione: "È stato eletto quando il progetto di “Utopia” era già nata da un paio d’anni. Ho pensato, ok, ora è davvero importante essere intenzionali. Se senti che questo mondo non sta andando nella direzione giusta, devi essere fai-da-te e creare una piccola fortezza. Voglio dimostrare che l’ottimismo può essere una scelta". Il tema di “Utopia” le donne, il femminismo: “In “Utopia” le donne arrivano a creare una società nuova e migliore. Portano bambini, musica e tecnologia eco-compatibile (….) Mi è venuta l'idea di un posto nuovo, di donne che sostengono le donne, di rifiutare i vecchi sistemi (in Tabula Rasa canto: “spezzate le catene delle cazzate dei nostri padri”). "Sono un po’ a disagio a parlare di femminismo con la F maiuscola. Mia madre era un'attivista, e


quando parlo degli anni '90, parlo di loro come un momento di reazione contro il femminismo degli anni '70, che secondo me stava esaurendo tutto. Ma etichettare le cose in modo definitivo non è molto da me, non mi piace la rigidità, nella vita come nell'arte”. Donne davanti al laptop: “Quando stavo promuovendo “Vulnicura”, in un'intervista a Pitchfork, ho sottolineato che, per anni, sono stata considerata una cantautrice che lavorava solo con produttori uomini. In effetti, ho prodotto tanti miei album con artisti uomini, ma ho il controllo degli arrangiamenti, del suono, del missaggio, di tutto, passo giornate intere davanti al laptop. Mi sono chiesta, se fosse in parte colpa mia, non essere riuscita a far conoscere questa cosa, mi piace creare bellissime immagini ma non sono mai stata fotografata veramente in studio, accanto a un mixer o con in mano un'unità di effetti. Molte giovani musiciste mi hanno presa in parola e ora c'è un sito web dedicato alle loro immagini accanto all'attrezzatura tecnica. Sono così onorata di questo, cercherò di parlare di più di queste cose.” Sulle molestie sessuali: "La mia umiliazione e il mio essere molestata sessualmente dal regista erano la norma sul set ed è scolpito nella pietra. Una dozzina di persone dello staff lo ha reso possibile. Ho operato a lungo da una posizione di potere nell'industria musicale, sono rimasta scioccata nello scoprire che le attrici non avevano un tale potere. Mi sono esposta per sostenere le donne che non possono dire di no o che non sono abbastanza fortunate e forti da aver la possibilità di farlo. Sono consapevole del fatto che la cosa non riguardi solo me e tra l’altro me la sono cavata pure bene, in quella situazione. E poiché vengo da un mondo artistico in cui il comportamento di bullismo sessuale, non è normale e ho potuto vedere il contrasto tra i due mondi, voglio dire a tutti:

Björk in Shanghai 2008 “Tibet ! Tibet ! ”

“Non state immaginando le cose!!”. È così. Sono stimolata dalla prospettiva che il mondo cambi, che le vecchie idee patriarcali vengano abbattute, a beneficio di tutti. Ciò che è eccitante è che i ragazzi stanno davvero cambiando ora, I ragazzi che ora sono adolescenti, sono davvero emotivi.”

Le parole di Björk nell’intervista alla Sawyer mi sembrano aderenti a quello che il termine “politica” dovrebbe significare. Il senso delle parole e dei concetti usati non è a caso, descrivono con misura, calma e attenzione un mondo che deve cambiare, auspicano che questo cambiamento sia veloce ed esprimono la preoccupazione per la condizione del pianeta, senza mai perdere la fiducia. “Dobbiamo farlo, dobbiamo riuscirci, so che ce la faremo”. Ma ci sono ben altre prese di posizione “contro” di Bjork, molto popolari e famose, le trovate facilmente in rete senza che sia necessario che ve le ripeta. Le dichiarazioni contro Trump non si contano e quelle durante alcuni spettacoli dal vivo pro Tibet, Catalogna e Kosovo, sono anch’esse ben note, come

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sono note le polemiche che ne sono seguite e in alcuni casi anche i concerti che sono saltati. E’ nei concetti che le posizioni politiche di Björk emergono, nelle canzoni c’è qualche sporadico riferimento ma in un portfolio di pezzi trentennale sono ben poca cosa. In “Mouth's Cradle” dall'album “Medúlla” c’è un riferimento a George W. Bush e Osama bin Laden in cui l’artista nel testo esprime la sua voglia di fuggire e proteggersi da personaggi del genere, mentre invece “Declare Independence” contenuta nell'album “Volta” è stata scritta e dedicata alla Groenlandia e alle Isole Fær Øer ed è il pezzo con cui generalmente va a cacciarsi nei guai e in cui, a seconda delle occasioni, esprime solidarietà gridando “Raise Your Flag!!”. Ma ci sono ancora due cose molto importanti da dire sulle tematiche affrontate da Björk. La prima è un fatto conclamato. Come molti islandesi l’artista è molto legata al proprio paese di origine ed è molto sensibile alle tematiche riguardanti la salvaguardia della natura e dei suoi territori Non ha mai perso occasione per denunciare lo sfruttamento a cui rischiano di essere sottoposti le cosiddette “highlands” islandesi. Sul finire del 2015 ha denunciato al mondo questo fatto chiedendo esplicitamente, con un video pubblicato sul proprio canale youtube, che il resto del mondo intervenga per salvare l’Islanda dai suoi politici. Più che un fatto clamoroso, un fatto dalle parole clamorose, che l’ha posta sullo stesso livello del premio Nobel Halldór Laxness che sul giornale Morgunblaðið nel Dicembre del 1970, pubblicò un articolo al vetriolo intitolato “Guerra alla nazione” in cui si esprimeva contro la costruzione di una serie di centrale idroelettriche, con toni fortissimi e uno stile meraviglioso. Björk è veramente una voce importante in Islanda, è considerata, ascoltata e rispettata ha creato uno stile proprio, sia musicale che politico, che la mette al di sopra di qualsiasi partito o movimento e la rende più che una cittadina islandese, una vera cittadina del mondo. Gran Bretagna esclusa quale altra nazione europea ha una star internazionale del suo livello ? La seconda è una considerazione personale su “Dancer In The Dark”. Il film di Von Trier mi mise a disagio da subito e rivisto per l’occasione lo ha fatto di nuovo. Se n’è parlato perché c’è Björk, per i premi di Cannes, per l’abito del cigno, per la vicenda delle molestie etc etc ma se n’è parlato poco per quello che è il centro della storia: il lavoro. Ho letto alcune recensioni dell’epoca e sono poche quelle che fanno riferimento a questo tema. Selma “deve lavorare” per far fronte alle cure del figlio, non può perdere il lavoro, Selma deve barare alla visita medica. In una delle prime scene impara addirittura a memoria il tabellone della visita oculistica necessaria per rinnovare il contratto. Insomma, quello che mi chiedo è se alla lettura del copione Björk abbia pensato anche solo per un attimo di accettare e fare quel film per quella ragione. Probabilmente è una mia fantasia ma io credo proprio che sia andata così. ma.st.

“Ho visto ciò che ero e so ciò che sarò” da “I’ve See It All”


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ONE LITTLE INDIAN Records I dischi del piccolo indiano di Stoto Massimiliano Come per Nick Cave nel numero scorso, vale la pena spendere, anche in queste pagine estive, qualche parola su quella che è stata ed è, l’unica casa discografica che Björk ha avuto, da quando per lei il gioco s’è fatto serio. Intendendo con questo la discografia dagli Sugarcubes in avanti. I Flux Of Pink Indians sono un gruppo anarcoide che si forma nella regione dell’Hertfordshire, a nord-est di Londra, nei primi anni ottanta incidono un Ep per la Crass Records, etichetta dove si sono accasati anche i KUKL, la seconda band di Björk. I FOPI fanno solo un breve passaggio alla Crass, incideranno infatti i loro primi due LP “Strive To Survive Causing Least Suffering Possible” del ‘82 e “The Fucking Cunts Treat Us Like Pricks” del ‘84 su Spiderleg Records un’etichetta da loro formata. I dischi di questa band si rifanno in pieno all’attitudine punk dell’epoca testi al vetriolo, avversione al potere, politico, economico e religioso e critica perenne alla società consumistica. Il secondo disco del gruppo, avrà dei problemi con la censura perché accusato di avere testi violenti. Colonna portante dei Flux Pink Of Indians è Derek Birkett, che assieme al cantante Collin Latter porterà avanti il nome fino a ridurlo a Flux e con questa sigla pubblicherà nel 1986 “Uncarved Block”. Unici due membri originali a concludere la storia, che ha nell’epitaffio finale della sua produzione, l’opera più meritevole di essere segnalata. Trentacinque minuti che vedono un cambio di registro musicale importante che abbraccia sonorità dub sperimentali che flirtano con ritmiche tribali e chitarre post punk e che vede il coinvolgimento di nomi importanti come Adrian Sherwood alla produzione, Ray Shulman, Paul White, Kenny Wellington, Brian Pugsley, Style Scott e molti altri. Il secondo e il terzo della lista saranno poi coinvolti, in maniera diversa, nell’esordio degli Sugarcubes. TP 1 o TPLP1CD questa la sigla di catalogo del primo prodotto della One Little Indian Records fondata da Derek Birkett assieme a Tim Kelly, un’ex chitarrista dei Flux Pink Of Indians, quando staccatosi dal, e stancatosi del punk, abbracciò canoni musicali di chiara matrice crossover, genere che in quegli anni stava emergendo. Sfruttando l’esperienza maturata con la Spiderleg Records, fondata anch’essa da Birkett, Derek e Tim partono quindi per questa fortunata avventura che si chiamerà fino al Giugno dell’anno scorso One Litlle Indian Records. Prima di pubblicare il 7” di “Birthday”, lato A in inglese e B in islandese, i due hanno modo di pubblicare altri artisti, tra questi i più rinomati furono gli A.R. Kane che di fatto esordirono

con il singolo “When You’re Sad”per la OLI Rec. nel 1986. Ma fu negli ambienti della Crass Records che Derek incontrò i ragazzi che daranno una svolta all’etichetta. Con il fenomeno degli Sugarcubes la casa discografica si pone sotto la luce dei riflettori anche se negli anni successivi saranno solo due i grandi nomi che l’etichetta accoglierà tra le sue fila i Kitchens Of Distinction di Dan Goodwin, Julian Swales e Patrick Fitzgerald che usciranno per l’etichetta fino al 1994 con la parte più importante delle loro produzione musicale, e i The Shamen che tra l’89 e il ’96 usciranno con un buon numero di album e un più folto numero di Ep’s. Furono proprio gli Shamen con il brano “Ebeneezer Goode” a far registrare il primo grande “craque” della One Little Indian, mettendo a segno un colpo da primo posto nelle classifiche dei singoli del 1992. Il pezzo, che nel titolo contiene la citazione del famoso personaggio di Dickens, parla esplicitamente dell’uso di droghe e dell’Ecstasy in particolar modo. Per questo viene bandito dalla BBC per diverso tempo, cosa che non gli impedisce di diventare un grande successo e un grande classico del genere indietronica. A mio parere questi sono gli Shamen più tamarri, ma anche quelli più efficaci nel coniugare l’essenza del genere indie house con i gusti più commerciali dell’epoca. Rimane inequivocabile il fatto che il loro classico “In Gorbachev We Trust”, uscito nel 1989 su Demon, artisticamente sia un album che anticipa tante cose e di una purezza artistica inattaccabile. Direi che è un ascolto obbligato per ogni appassionato del genere. Gli affari con l’etichetta di Birkett si chiudono male nel 1996 con accuse reciproche, su sballate strategie artistiche, probabilmente più ingigantite che altro, la frase topica di Birkett che fa suo il vecchio adagio calcistico in cui i giocatori sarebbero più importanti degli allenatori, con lui che la gira dicendo che “i gruppi sono più importanti delle etichette”, non è sufficiente a sanare la questione.


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Quando nel 1984 Flux Pink Of Indians e Chumbawamba condividono il palco della Conway Hall, la registrazione finirà poi su cassetta per la Acid Rain Products, non possono certo immaginare che dieci anni dopo, il bassista dei FOPI, sarà il titolare di un’etichetta e il collettivo anarco punk nato nel 1982, firmerà per questa, tre album, di cui un live, in un paio d’anni. Peccato veramente per Derek e soci che l’inno dei Chumbawamba “Tunbthumping” finisca su etichetta Emi/Universal solo due anni dopo, altrimenti sarebbe stato un altro “craque” milionario. Ma Birkett, che questa cosa non può certo immaginarsela, avrà di che consolarsi, infatti “Debut” il disco d’esordio della principessa d’Islanda, a conti fatti risulta essere stato acquistato da quattro milioni di individui. Nel 1995, dopo vari singoli, esplode la voce di Deborah Anne Dyer, che sarà meglio conosciuta di li a poco come Skin, e che con il suo gruppo Skunk Anansie darà alle stampe per l’etichetta, prima di passare a Virgin, due album “Paranoid & Sunburnt” e “Stoosh” a distanza di otto mesi uno dall’altro. Dalla metà degli anni’90 c’è un ulteriore allargamento dei generi musicali proposti e anche la qualità degli artisti, pur non raggiungendo vertici mondiali, è migliorata. Nomi come Alabama 3, Sandy Dillon, Emiliana Torrini, Jesse Malin uno che è consigliatissimo ai fans di Springsteen e che con il Boss vanta un featuring in un brano autografo e non memorabile, “Broken Radio” del 2007. Poi c’è stato il ripescaggio degli epici e inglesissimi Black Box Recorder di Luke Haines, John Moore e Sarah “occhi da tigre” Nixey, quando il mio spacciatore mi ha proposto di completare la loro discografia mettendomi sotto il naso il loro parto per One Little Indian, non ho esitato a recarmi nel pollaio, prendere la gallina più in carne e piazzarla al mercato nero pur di farlo mio. Il loro “Passionoia” nel 2003 è per gente “con un certo stile”. Dopo di loro aggiungerei alla lista Polly Paulusma, la rediviva Sinéad O'Connor, Ólöf Arnalds e le Amiina che passarono anche dal Perché No ? a Verbania, un bel po’ di anni fa, e che con gente come Samaris, Ásgeir, Kaktus Einarsson, Sindri Eldon (il figlio di Björk) e Gabríel Ólafs costituisce in OLI una nutrita enclave islandese. Ma per OLI tramite la sussidiaria americana o direttamente, abbiamo avuto in Europa le prime edizioni di dischi di They Might Be Giants, Dj Shadow, Cody Chesnutt, Pernice Brothers oltre che le ristampe di roba di livello come Disco Inferno e The Woodentops.

Black Box Recorder

The Shamen

Non si può certo dire che One Little Indian sia stata un’etichetta specializzata in un genere specifico, nata dalle ceneri di gruppi e collettivi punk abbastanza marginali, ha mosso i primi passi in un ambito, quello del crossover, che iniziava ad svilupparsi a metà anni ’80 per poi abbracciare stili e artisti differenti. Anche gli Sugarcubes erano una band dedita alla contaminazione e al miscuglio di generi. Se si pensa al cantato di Björk alle ritmiche funky-soul, al parlato di Einar abbiamo un bell’incrocio di sentimenti, per di più proveniente da un angolo di mondo non segnato sulle mappe delle rock. Di certo l’incontro fra Björk e Birkett è stato fondamentale soprattutto per il secondo, lei avrebbe fatto la fortuna di qualsiasi etichetta l’avesse messa sotto contratto, con una voce del genere era impossibile che capitasse il contrario. Lo dimostra il fatto che OLI abbia a disposizione tutto il catalogo dell’artista islandese, dai Tappi Tíkarrass all’ultimo disco. Ma prima di chiudere è necessario raccontarvi ancora un paio di cose. Partiamo dalla prima, la OLI Records dal 2008 anno d’uscita di “Electric Arguments” può vantare tra le sue fila il progetto THE FIREMAN, una collaborazione fra Martin Glover alias “Youth” membro fondatore dei Killing Joke e Sir Paul McCartney membro fondatore della nota band The Beatles. I due collaborano insieme già dal 1993 dall’album di McCartney “Off The Ground” e per via di una sintonia trasformatasi in una bella amicizia, fra i due è partito questo progetto che ha prodotto in quindici anni oltre a quello citato altri due album “Strawberries Oceans Ships Forest” sempre nel 1993 e “Rushes” nel 1998. I primi due album hanno avuto un’ispirazione più elettronico/ sperimentale mentre l’ultimo ha molte più parti cantate dall’ex-Beatles e risulta essere un album più classico. La seconda cosa riguarda il cambio di nome dell’etichetta, avvenuto come accennato poc’anzi, in seguito all’omicidio di George Floyd e alle proteste mondiali e legittime che ne sono seguite. Derek Birkett si è sentito un razzista per aver chiamato la propria etichetta “Un piccolo indiano” e scusandosi per questo, ha cambiato nome alla casa discografica che dal Giugno scorso si chiama One Little Independent Records. Pur capendone le motivazioni non sono d’accordo su questa scelta, se reagiamo agli orrori delle prepotenze razziste, cancellando gli errori del passato, penso che avremo sempre meno riferimenti che ci aiutino ad evitare di farne di nuovi. Ma.St.


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Le turbolenze blu di Joni

Mitchell

di Marco Denti Era piccola, relegata nella sua camera. Fuori era tutto grande, le pianure gelide e sterminate del Canada, il cielo infinito, le stagioni che si gonfiavano di tempo. Joni Mitchell chiusa tra quattro muri, con una finestra che guarda su un mondo enorme. Tutto quello che c’è da fare in quella casa nella prateria è salutare l’unico treno che passa, guardando il macchinista che le rispondeva dalla distanza. Solo un gesto, ma qualcosa si muoveva dentro quell’orizzonte immobile e supremo. Forse la mano che sventolava dalla locomotiva era soltanto il frutto della sua fervida immaginazione, ma Joni Mitchell sembrava già sapere che “ogni preghiera, ogni messaggio che mandiamo, alla fine riceve una risposta”. Sarà una lunghissima metamorfosi, cominciata dall’interpretazione del bagaglio folk e che, passando attraverso mille stagioni, l’ha trasformata in una delle interpreti, nel senso più esteso del termine, più originali del ventesimo secolo. Un’evoluzione così ampia e articolata aveva bisogno, senza dubbio, di fondamenta sicure e il background di Joni Mitchell nasce dalla sua conoscenza della musica folk. Le canzoni di Tom Rush, Woody Guthrie, “Dark As Dungeon”, “The House Of The Rising Sun”, “Jack Hardy”, e poi Dylan, ma c’è qualcosa in più perché per Joni Mitchell non si tratta di uno stile, ma di una posizione, come diceva: “La musica folk è un buon posto da cui cominciare”. La musica come luogo, colori che diventano destinazioni e Picasso che dice: “Dipingere non è un’operazione estetica: è una forma di magia intesa a compiere un’opera di mediazione fra questo mondo estraneo ed ostile e noi”. Vale anche per le canzoni. All’inizio viene presentata come Joan Anderson, il suo vero nome e lei si intrufola in ogni angolo: “A me piaceva molto suonare nei club per una quarantina di persone. Mi piaceva essere al centro dell’attenzione. Era come essere la festeggiata di un party”. È una di quelle notti e Jimi Hendrix, che suonava nella stessa città e con lo stesso promoter, la registra dal vivo, seduto davanti al piccolo palco. I nastri, insieme con il registratore, saranno trafugati, ma in quella voce, in quel modo di intendere la chitarra e le canzoni c’era già un vocabolario, un alfabeto, il DNA di un linguaggio, ma come diceva PicasEGOKID so “ogni atto di creazione è, prima di tutto, un atto di distruzione”. A questo diktat, Joni Mitchell si atterrà scrupolosamente. Prima, con due canzoni, definirà altrettanti capisaldi, sulla mappa e nel tempo, come nessun altro è stato capace di fare. “Woodstock” e “California”, sono gli estremi, geografici e storici. Woodstock è la prima, l’unica e vera celebrazione di un’utopia che al suo zenith era già segnata da una data di scadenza. Joni Mitchell l’aveva percepito, allora, e risentita mezzo secolo dopo “Woodstock” più che l’inno per un trionfo, suona come un’intensa elegia perché “noi siamo polvere di stelle”, e la luce che emaniamo non ha alcun colore. La “California” arriva nell’incontro (o incrocio) con David Crosby: l’eterea ragazza delle coffee house si trasforma nella “lady del canyon”, incarnando una delle figure preponderanti della West Coast di quegli anni. La collaborazione e il legame con David Crosby è un dialogo tra due opposti che usano la stessa lingua delle canzoni e l’arte del songwriting decollerà molto velocemente perché, come sostiene Joni Mitchell: “Porto la conversazione su temi che nessuno vuole toccare. Alla gente non interessano le stesse cose che interessano a me”. Uno dei primi ad accorgersene sarà Neil Young: “Conosco Joni (Mitchell) da quando avevo diciotto anni. La conobbi in una coffe

house, e la prima cosa che pensai fu che era bellissima. Era molto fragile, di aspetto esile e aveva la forma degli zigomi stupenda. Indossava sempre seta e raso leggero: mi ricordo che pensavo: ‘Se soffi abbastanza forte forse la fai cadere’. Eppure riusciva a tener su una Martin D18 piuttosto bene, comunque. Davvero, un talento incredibile, scrive delle sue relazioni in maniera di gran lunga più vivida della mia”. Forse soltanto Leonard Cohen ha scritto con la stessa chirurgica precisione, ed è Joni Mitchell a descriverla nel dettaglio: “Ognuno ha un lato superficiale e un lato profondo, ma questa cultura non ha molto valore nella profondità, non abbiamo sciamani o indovini, e la profondità non è incoraggiata o compresa. Circondati da questa società superficiale e lucida sviluppiamo anche un lato superficiale e diventiamo attratti dal piffero. Questo si riflette nel fatto che questa cultura crea una dipendenza dal romanticismo basata sull’insicurezza, l’incertezza del


fatto che tu sia veramente unito all’oggetto della tua ossessione è la fretta che le persone si agganciano”. Sono canzoni per un’età matura, il treno dell’infanzia è scomparso, e come scrive Ellen Melloy in “Antropologia del turchese”, il blu è il colore della visione adulta e sembra “un bel posto in cui andare, un paese in sé, superiore imperturbabile, dove non eri costretto a parlare con nessuno”. L’estrapolazione del dolore in “Blue” è “la sensazione che ti prende quando canti e apri del tutto il cuore”, dove l’intimismo raggiunge il suo apice, mostrando le ferite aperte, quei “ritagli d’anima”, che avevano bisogno di un fiume per galleggiare, e per volare via. È un’altra partenza che Ellen Melloy vede così: “Un giorno avevo intravisto un varco in una rete metallica e per qualche tempo avevo seguito il corso del Los Angeles, un fiume che scorre per ottanta chilometri fra due pareti di calcestruzzo e che qualche ardimentoso gruppo di cittadini si ostina a tutelare pur non essendo di fatto meritevole della definizione di fiume. Su una spiaggia nei pressi di Santa Barbara avevo nuotato fra onde densamente popolate e fatto lunghe passeggiate. A mollo a un centinaio di metri dalla riva, avevo osservato il volto maestoso e fiero del continente. Sulla sabbia, di spalle all’entroterra, avevo guardato il mare e avevo provato un’immensa soddisfazione nel vedere il sole tramontare sul Pacifico: per tutta la vita, ovunque mi fossi trovata, quella sfera sull’oceano era stata il mio meridiano di Greenwich, il preciso e affidabile punto di riferimento per ogni cosa”. Anche quella California tramonta e Joni Mitchell si ritrova di nuovo sulla costa opposta, nella Rolling Thunder Revue di Dylan. Anche in quella “comune itinerante” appare come una figura a parte, circondata da una luce nel caos di una sarabanda zingaresca. I dialoghi con Ratso alias Larry Sloman, cronista di quei giorni di tempesta, sono illuminanti, quando Joni Mitchell gli dice: “Questo tour lo conosciamo tutti. È difficilissimo e molto limitante e allo stesso tempo molto indulgente, nessuno di noi è abbastanza maturo per riuscire ad accettare che gli altri possano amare delle altre persone. In tutte le relazioni che iniziamo vogliamo esse-

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re i conquistatori, gli unici e i soli”. Nella forma indefinita di quel circo viaggiante c’era posto per tutti, ma il confronto è serrato e Joni Mitchell se ne accorge: “Le persone si mettono alla prova a vicenda di continuo, fraintendendoti, e tu sai che devi avere a che fare e decidere se lasciare che ti fraintendano o chiarire le cose. Mi sembra di aver imparato a nuotare, e mentre venivo da una posizione in cui avevo sempre il bisogno di essere sincera e compresa, ora invece riesco a cavarmela in tutte le situazioni. È quello che cercavo di dirti: per me è così intrigante riuscire a fregarmene. Non esiste la coerenza”. Il rapporto con Dylan è contraddittorio (e tale rimarrà per sempre) ma forse è proprio in quel momento che Joni Mitchell intraprende la svolta significativa nella sua vita, confessando a Ratso: “Sono scesa a patti con le mie personalità multiple, ho capito che sono tutte reali. Ci sono tanti di quei modi di guardare le cose, tu come scrittore lo saprai, e bisogna farsi strada tra i vari strati per arrivare alla personalità più onesta, capisci?”. Lì cominciava tutto un altro viaggio, che avrebbe avuto un suo turning point nel 1975 con “The Hissing of Summer Lawns”: “Allora cominciai a scrivere descrizioni sociali invece delle confessioni personali”. Il cambiamento di prospettiva è contemporaneo a quello musicale. Il passaggio nel mondo dei jazzisti avviene come conseguenza della sua attitudine da rabdomante. Avendo suonato con alcuni tra i più richiesti musicisti dell’area californiana, Joni Mitchell cominciava ad affrontare nuove strutture ritmiche e armoniche, tutte filtrate attraverso una caleidoscopio di accordature aperte, ma la risposta dei talentuosi partner restava limitata. L’episodio fondamentale è stato quando nel corso di una session, un bassista gli disse semplicemente e anche con una certa cortesia, che per suonare tutti quei tempi le occorrevano dei jazzisti. Guarda caso, il bassista successivo sarà un certo Jaco Pastorius. Quel passaggio avrebbe segnato nuovi, sorprendenti interlocutori: Wayne Shorter, John Guerin, Pat Metheny, Don Alias, Herbie Hancock, Larry Carlton, Robben Ford, Tom Scott.


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La svolta jazzistica, ampia, completa, determinante trova una sua celebrazione con “Mingus”. Ancora una volta l’incontro è propiziato dalle canzoni, dal terreno comune della musica, vista attraverso più dimensioni, ma per arrivarci dovrà rileggere l’epica, tutta americana del viaggio, del movimento, della fuga, con “Hejira”, un disco in bianco e nero, con la strada come riferimento, prendendo le distanze dall’ennesima frattura partendo senza meta, concedendosi (ancora una volta) il lusso di perdersi. Sulla mappa ci sono dei punti fermi, come li indica Joni Mitchell: “Io mi muovo per il paese in un modo molto disorganizzato. Ho tre residenze. Una è selvatica e naturale, una è New York e non ha bisogno di descrizioni. La California, per me, rappresenta i vecchi amici, e la salute. Adoro nuotare. Per me è come volare. Posso entrare nella piscina e galleggiare per due ore senza mai toccare i bordi. È meglio di qualsiasi psichiatra per me. Sviluppo il corpo, i polmoni, quelle povere cose annerite dal fumo delle sigarette, e guardo la natura. A New York queste cose non le ho. New York mi dà la possibilità di muovere un muscolo che non uso mai; per esempio, là c’è la schiettezza. E questo mi rende più forte. Qui non hai così tanti incontri anonimi. A New York, costantemente, la strada ti spinge ad avere contatti con lei”. Ma resta la traversata, l’elemento riparatore per separazioni, abusi, drammi. Dirà di Jaco Pastorius, suo principale interlocutore musicale in quel momento: “Lui aveva un ego grande e grosso che dava fastidio a un sacco di gente, ma la sua arroganza mi piaceva. Alla fine la vita lo travolse, ma lui sapeva davvero fermarsi e un sacco di gente lo aspettava al varco. Fu una vera tragedia”. Le sottili, invisibili connessioni la portano da un bassista a un altro, e questa volta si spinge fino in Messico, a trovare Charles Mingus, ma misurando le distanze: “La grandezza è un punto di vista. C’è il grande rock’n’roll, ma una grande rock’n’roll in un contesto musicale, storicamente, è scarso. Io credo di crescere come pittrice, come musicista, come poetessa, sempre. Non vedo necessariamente che questo album è, per usare una parola, più bello dell’album “Blue”. È più sofisticato, ma è difficile definire la grandezza. È onestà? È genio? Nell’album “Blue”, non c’è una nota disonesta nelle parti vocali. In quel periodo della mia vita, non avevo difese personali, mi sentivo come un involucro di cellophane di un pacchetto di sigarette. Sentivo di non avere nessun segreto e di non poter pretendere di essere

forte e felice nella mia vita. Ma il vantaggio era che neanche lì c’erano difese. Le parti vocali dell’album “Mingus” sono vere. L’azione reciproca dei musicisti è stata reale e spontanea”. Con “Mingus” celebra le leggende del jazz, Lester Young, Bird, Bud Powell, Max Roach, Monk, Sonny Rollins, Coltrane, Miles Davis, tutta un’assemblea di “santi” geniali e dissoluti cresciuti, in un mondo speciale che Mingus stesso spiegava così: “Se immagini il beat come fosse all’interno di un cerchio, sei più libero di improvvisare. La gente prima pensava che le note dovessero cadere al centro del beat nella battuta a intervalli come un metronomo, con tre o quattro musicisti della sezione ritmica che accentuavano quella pulsazione ritmica. È musica da parata, questa, o musica da ballare. Immagina invece un cerchio attorno a ogni beat: ogni musicista può suonare ovunque dentro quel cerchio e questo gli dà un senso di maggiore spazio ritmico. Le note possono stare ovunque all’interno del cerchio ma il feeling originale del beat non è cambiato. Se uno della band si trova in difficoltà, qualcun altro ribatte il tempo. Il beat è dentro di te. Quando suoni con dei musicisti così puoi fare qualsiasi cosa. Chiunque può smettere di suonare e lasciar continuare gli altri. Questo si chiama suonare insieme”. Una volta sposata la filosofia del jazz per Joni Mitchell si è spalancata una porta definitiva, che l’ha vista veleggiare senza confini. Lì, i luoghi sono venuti meno, e Joni Mitchell ha sfidato le forme, perseguendo, come cantava in “The Same Situation”: “la mia lotta per arrivare più in alto e la mia incessante ricerca di amore”. Nell’estate del 1977, quando Elvis se ne è andato, Lester Bangs scriveva: “Se l’amore è davvero passato di moda per sempre, cosa di cui non sono poi tanto convinto, allora insieme all’indifferenza che coviamo gli uni per gli altri ci sarà un’indifferenza ancor più sprezzante per gli oggetti di venerazione degli altri. Io ho creduto che fosse Iggy Pop, voi avete creduto che fosse Joni Mitchell o chiunque altro a dare voce ai molti dolori e alle rare estasi della vostra situazione privata e del tutto circoscritta”. La digressione di Lester Bangs, pur con tutta la sua ruvidità, rende bene il contesto, che poi la stessa Joni Mitchell ebbe a precisare così: “Quando la gente ascolta una canzone questa entra nella loro vita e le parole diventano simboli. Questi simboli sono instabili, la gente ha un’avversione o un’attrazione per certe parole. Prendi la parola amore. Le possibilità di fraintendimento sono immense. Questa è la natura ingannevole del linguaggio”. L’economia circolare del suo gioco la


riporta ancora laggiù: “La mia vita privata è una disastro, ed è difficile per me sapere che non sto dando niente alle persone che amo. Gran parte dei miei amici sono musicisti; non sono molto socievole. Sono una persona molto solitaria, anche in una stanza piena di gente. Mi sento completamente sola. Per fare qualcosa di artistico c’è bisogno della solitudine. Hai bisogno della concentrazione che non puoi avere se sei circondata dalla gente”. La verità è che sbagliare è un fatto personale, ma comunque indispensabile: “Le cose grandi arrivano sempre sul ciglio di un errore. Quello che arriva dopo l’errore è spettacolare. Perciò se ti fissi sugli errori, ti perdi la magia”. Ecco, come funziona. L’evoluzione è stata seguita, in parallelo, dal collega di etichetta nell’Asylum, Tom Waits, ma quella di Joni Mitchell si è svolta per parabole molto lunghe, con deviazioni coltivate per tempo, con cura. La parentesi jazzistica, mai del tutto chiusa, l’ha rivelata un’interprete capace, da lì in poi, di leggere la musica a tutto tondo, dalle orchestrazioni al pop con contorno di novità elettroniche, e tra questi due estremi sfoderare almeno due capolavori della maturità, l’intenso e rarefatto “Night Ride Home” e il poliedrico “Shine”. Gli anni passati alla Geffen saranno segnati dai tentativi di assecondare i suoni e gli esperimenti, in questo parallela agli sbalzi d’umore di Neil Young, con risultati alterni e analoghi. Joni Mitchell li chiamerà gli “anni perduti”: alla Geffen sostenevano che non fosse molto in sintonia con l’epoca, e lei confermava orgogliosa di essere completamente fuori da quei tempi, dal 1982 di “Wild Things Run Fast” attraverso “Dog Eat Dog” e “Chalk Mark in a Rainstorm”, fino al 1991 di “Night Ride Home”. È stato il momento in cui ha confermato che per lei “l’arte è sempre stata la misura di se stessa”, con la coerenza di rifiutare una milione di dollari per suonare una singola serata a Las Vegas, noncurante delle possibili reazioni perché “non posso pronunciare su come vengo vista dagli altri. La vita è breve e abbiamo la possibilità di esplorarla per quanto il tempo e la fortuna ce lo concedono”.

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E così, “Night Ride Home” è quasi la conclusione di un ciclo, la definizione di un luogo e di una storia, in un disco di una bellezza rarefatta, crepuscolare, affascinante negli arrangiamenti misurati, e minimali, curati da Larry Klein, bassista e marito pro tempore. “Night Ride Home” forse è già tutto nella copertina con le ombre nella cornice e gli occhi turchesi di Joni Mitchell che spiccano nella breccia. Attorno, solo blu. Succederà anche nell’immagine di “Shine”, un balletto ancora inciso nel blu e nelle sue sfumature. “Shine” è sorprendente e maestoso e si conclude con la famosa “If” di Ruyard Kipling che viene rivisitata dentro una suite jazzistica. Nelle linee essenziali, sembra un testamento spirituale, dato che l’incipit recita così nel dettare le condizioni per restare umani: “Se saprai mantenere la calma quando tutti intorno a te la perdono, e te ne fanno colpa. Se saprai avere fiducia in te stesso quando tutti ne dubitano, tenendo però considerazione anche del loro dubbio. Se saprai aspettare senza stancarti di aspettare, o essendo calunniato, non rispondere con la calunnia, O essendo odiato, non dare spazio all’odio, Senza tuttavia sembrare troppo buono, né parlare troppo da saggio; se saprai sognare, senza fare del sogno il tuo padrone; se saprai pensare, senza fare del pensiero il tuo scopo, se saprai confrontarti con trionfo e rovina e trattare allo stesso modo questi due impostori”. In queste parole della fine del diciannovesimo secolo c’è molto dell’autobiografia di Joni Mitchell, che rimane fedele ai valori di Woodstock e della California e però, davanti alle “guerre sacre” del ventunesimo secolo, ammette in “If I Had a Heart”: “Il mio cuore è spezzato di fronte alla stupidità della mia specie. Non riesco a piangere. In un certo senso sono vaccinata. Ho sofferto questo dolore per così tanto tempo. La civiltà occidentale ha messo il mondo intero su un treno in corsa”. Un ultimo sguardo su un convoglio impazzito, un ricordo dell’infanzia, poi il cerchio è chiuso e resta quella fotografia di James Taylor e Joni Mitchell abbracciati: l’amore ha molte facce e nella tenera età delle rughe e dei capelli grigi e diradati, basta un sorriso, e ci si saluta a occhi chiusi. ma.de.


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La magia di LISA

GERRARD

di DJ KREMLINO E “Seanvean” ne è un esempio, con l’incedere soave e liturgico che porta ad essere dei fedeli (pagani) di un rito ancestrale che lascia attoniti, una voce magnetica che purifica l’anima e ci illumina sulla grandezza che l’essere umano può, artistimente, raggiungere. Una voce che accompagna l’ascoltatore in uno stato di estasi assoluta, che proietta in un altro mondo in cui le lacrime non escono solo perché abbiamo paura di farle vedere agli altri. Ed è la voce, la sua VOCE, che cattura e rapisce, che sale e scende primordiale e tribale, che gorgheggia, accarezza, ci frusta e ci conduce in uno stato di trance, come dei bambini persi nel racconto di una favola con gli occhi strabuzzati, pieni di meraviglia e un pò di paura. E, d’altronde, la sua voce è come una favola in cui perdersi, potente e soave allo stesso tempo ma, in alcuni passaggi di questo cantico anche ammonitrice (come molte favole d’altronde lo sono) per poi arrivare alla fine del brano innalzandosi e perdendosi oltre le nuvole, irraggiungibile. “Seanvean” è stata la chiave con la quale si è dischiusa la mia porta sul suo mondo molti anni fa (con una esperienza davvero sensoriale), sulla sua voce e la sua/loro musica, per un pezzo presente in alcuni dei suoi dischi, a partire dallo strepitoso “Toward The Within” (del 1994) uno dei migliori (a mio avviso) dei Dead Can Dance, la band (o meglio dire la creatura musicale) che divide a metà con Brendan Perry. “Seanvean” si apre con un magico e celestiale tappeto di tastiere sintetiche che, unico strumento a contrassegnare il brano, in poche battute rapisce e porta altrove, letteralmente in un altro luogo incorporeo e incantato, quasi celestiale (per chi crede) o solo profondamente spirituale (per chi invece non ha fede in una entità superiore). Dopo pochi secondi, con la nostra anima già posseduta, catturata e persa dentro le sue note arriva la voce, la SUA voce: non canta parole comprensibili ma usa una lingua tutta sua, idiosincratica, emettendo magnificenti suoni privi di significato e, in un lampo, sei perso dentro di essa, nelle sue primordiali emozioni che cambiano la percezione del tempo, per secondi che sono attimi e istanti che si dilatano eterni. Una voce che parte soave, sussurrata, quasi una benedizione, una carezza, per poi assumere in pochi istanti, uscendo dal suo ventre per spingersi letteralmente nel nostro, una drammaticità evocativa e una verticalità che sembra non avere limiti. Una voce che diviene strumento in una canzone che non ha contorni, perimetri definiti, un genere, che non ha messaggi se non quello di ricordare a noi la bellezza della vita, come se fosse la natura a cantare o, per chi ha fede, come se fosse quasi il Creatore a dispiegarsi e a mostrarsi in maniera terrena. Una voce impareggiabile, capace di arrivare ovunque e a chiunque, in grado di cantare ogni cosa possibile, come la sua incredibile carriera testimonia: dal dark post punk degli esordi al pop, dal folk alla new wave, dalla musica d’avanguardia al trip hop, dalla dance all’elettronica, dalla word music a quella etnica (di qualsiasi etnia): universale insomma.

Ovviamente chi legge questa fanzine conosce probabilmente (almeno di nome) lei e la band ma, curiosamente e per alcuni versi incredibilmente, la sua voce è diventata riconoscibile (e quindi in un certo senso iconica) a milioni di persone in tutto il mondo attraverso la colonna sonora del film “Il Gladiatore”, usata “massivamente” per, appunto, colonne sonore, sigle tv, spot, persino video giochi; una voce a cui quasi nessuno sa associare il nome di Lisa Gerrard ma che molti, in qualche maniera, riconoscono alla prima vibrazione delle corde vocali, sapendo di averla ascoltata e di essere volate con lei in qualche terra e posto (dell’anima) lontano. Un risultato singolare se si tiene conto della particolarità della storia musicale della Gerrard, delle sue proposte, della sua fiera scelta senza molti compromessi, di produrre, creare e cantare all’inizio della sua carriera musica davvero lontana da qualsiasi cliché mainstream. Basta associare l’etichetta discografica per la quale hanno inciso agli inizi, la 4AD e la nostrana Contempo Records (etichetta illustre con nomi come Diaframma, Litfiba, Pankow, Christian Death, Clock DVA, attiva a Firenze per dieci anni dal 1983, gestita da Giampiero Barlotti, e che fece uscire due dischi dei DCD); etichette discografiche fieramente indie per eccellenza con il sostegno ad artisti significativi della scena alternativa elettronica, dark, new wave, gotich, industrial ecc…. . Una voce così forte e penetrante da diventare, a partire dalla fine degli anni ottanta in poi, molto ricercata per le musiche per il Cinema. Infatti, la carriera di cantante e autrice di singoli pezzi o intere colonne sonore (anche hollywoodiane) è, nei fatti, presente e importante (quasi) come la carriera solista o negli stessi


DCD. Troppe da ricordare: bastano alcuni titoli come appunto “Il Gladiatore” (per la quale ha vinto insieme a Hans Zimmer – grande compositore con il quale ha spesso collaborato - il Golden Globe per la migliore colonna sonora e ha avuto una nomination all’Oscar) e “Insider”, “L’uomo d’acciaio (Superman)”, “Mission impossibile II”, “Blakc Hawk Down”, “Alì” e, una volta, anche con il nostro grande Ennio Morricone (per un brano del film ungherese “Fateless”). O come in “Heat - La sfida “ (film del 1995 diretto da Michael Mann con Al Pacino e Robert De Niro), dove sorge “Sacrifice” un pezzo struggente, uno dei suoi più noti e più belli (ripreso in molti altri ambiti televisivi e pubblicitari) in cui la sua voce triste e malinconica, sempre nella suo “linguaggio” unico idiosincratico, e accompagnata da un leggero ma solenne tappeto di tastiere e poche note accennate di pianoforte, disegna un saliscendi di emozioni per tutti i (quasi) otto minuti di durata, con un percorso e una gamma vocale che da contralto raggiunge anche quella del mezzosoprano, regalando(ci) un brano così possente e visionario da essere, esso stesso, un viaggio sonoro, un film dentro il film. Musicare pellicole, ovviamente è un lavoro in cui le limitazioni artistiche sono più forti, dettate da esigenze del copione o dalle indicazioni della produzione (soprattutto con le major di mezzo), ma per chi ha voglia e pazienza potrà trovare brani più che degni di essere pubblicati in uno degli album dei DCD o nelle sue migliori produzioni soliste.

“Rakim” apre l’album “Toward The Within” e chiarisce meglio di ogni altro come la storia dei Dead Can Dance (a proposito, il mio nome preferito per una band dopo The Dream Syndacate) sia la perfetta sinergia tra le due figure che, per un lungo periodo, sono state anche una coppia nella vita per poi dividersi (solo sentimentalmente) e stabilirsi nei reciproci (e agli antipodi) paesi di provenienza (Australia lei e Irlanda – e poi Francia per un nuovo matrimonio lui). Un lungo rapporto musicale ancora non concluso (che ha visto una lunga pausa tra il 1997 e il 2011, con un tour mondiale nel mezzo del 2005), che nasce in Australia nel 1980 per poi rapidamente trasferirsi a Londra (“per provare a crescere” come afferma la Gerrard in una sua intervista), accasandosi inevitabilmente alla corte dell’etichetta dark per eccellenza, la 4AD, viste le sonorità del primo loro album (omonimo) chiaramente ispirato alla new wave più dark e decadente, seppur suonata con una chiara matrice folk e una impronta personale e originale. Sonorità che già abbandonano negli album a seguire, perché la caratteristica dei Dead Can Dance è quella di portare la loro musica in mondi in cui i suoni più classicamente rock lasciano spazio a percorsi senza tempo, legati a radici arcaiche e a influenze di musica antica, medievale, celtica, medio orientale,

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africana ecc. In un certo senso sono precursori di quel recupero di musiche globali (la world music) che qualche anno dopo sarebbe stata sulla bocca di molti a partire da ben più noti protagonisti (vedi Peter Gabriel con la sua etichetta Real World). “Rakim” è uno dei rari pezzi in cui le due voci dei DCD sono entrambe presenti, perché in maniera (quasi matematica) il loro è un lavoro perfettamente bilanciato e alternato nell’uso delle reciproche voci, come nella scrittura dei pezzi per poi essere assemblati e fatti crescere assieme. Qui è diverso, ma è una eccezione che conferma la regola, con la partenza di un tappeto di percussioni etniche e dallo sfavillare delle corde pizzicate dello yang ch'in (lo strumento di origini cinesi usato da sempre da Lisa Gerrard, anche sul palco nella dimensione live), che aprono a un andamento minimale, ossessivo e tribale sul quale si innesta, dopo un paio di minuti, il canto iniziale in persiano di Perry (anche lui con una bella voce profonda e calda) portandoci in mondi a noi (occidentali) poco conosciuti. Poi arriva una svolta con tastiere maestose e ferali che aprono il percorso alla sua voce che, semplice e vivace, porta il pezzo in una dimensione più serena, unendosi a quella di Perry in un finale che sa di profonda pace (per fortuna non ancora eterna). Un gioco perfetto, un alternarsi di ruoli precisi e preordinati nel loro connubio, che conduce ad un amalgama (quasi) sempre perfetta, come testimoniato dal loro lungo sodalizio artistico fatto di nove dischi in studio sino all’ultimo Dyonisus (del 2018), di cui alcuni davvero pregevoli pur con influenze e sonorità diverse (tra quelle già ricordate prima), con quattro live tra cui “Toward The Within” (che contiene di fatto otto inediti sulle quindici canzoni presenti, rappresentando più un disco a se che un semplice live), una serie di raccolte, oltre ovviamente a molte collaborazioni, (vale) la pena di ricordare, agli inizi, la presenza del duo nei This Mortail Coil “supergruppo” della 4AD di “It'll End in Tears”. “Persian Love Song”, secondo pezzo sempre da “Toward The Within”, è paradigmatica per scoprire un altro aspetto della caratura di Lisa Gerrad, essendo un pezzo in cui è solo la sua voce ad essere incisa. Un gemito apre a una cantilena spirituale dall’incedere austero, quasi marziale, che alterna toni bassi a quelli alti, sempre nella sua lingua senza parole colorata di mistero e sempre (sempre) riconoscibile e riconducibile ad una (sua) origine specifica. Una voce che disegna e riempie la stanza dell’ascoltatore, pur essendo solitaria, qui mistica e possente e, come nella versione più intransigente che presenterà nel suo disco solista d’esordio dell’anno successivo (“The Mirror Pool” del 1995), dopo un inizio pa-


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radisiaco si tramuta in un canto verso lati più oscuri, quasi malvagi (per la cronaca di questo pezzo esiste una, mediocre, versione dance remix dei Cantara). Una voce che, senza nulla togliere alle grandi capacità del suo compagno di avventura nei DCD, rende questo progetto musicale inimitabile e unico, come testimoniato dalle performance live che vedono nella sua figura il polo catalizzatore (pur nel suo solenne e ieratico immobilismo sul palco), perché è la sua voce che, grazie ovviamente alla qualità pregevoli delle composizioni, porta la dimensione del concerto su un livello superiore, in cui trascina in estasi con lei lo stupito e incantato pubblico. Una dimensione live (di norma in teatri per ricreare un’atmosfera di necessaria attenzione - non vola un mosca ai loro concerti - come se si fosse a una messa cantata), che amplifica, e non riduce, il bagliore delle loro meravigliose tessiture sonore, in cui è risaputa la sua capacità di regalare una magia unica, con una voce che stordisce e ammalia ancora di più, se ascoltata in fisica presenza a pochi metri da lei. (1)

“Yulunga (Spirit Dance), sempre su “Toward The Within”, ha un doppio binario d’ascolto: l’inizio è una (macabra) cantilena dove la sua voce, limpida, dura e cristallina si ammanta di lugubri e oscure presenze accompagnate da un tappeto di tastiere inquietanti sino a quando, l’arrivo di alcune percussioni fanno decollare leggermente il brano e la sua voce si “alza”, lentamente inizia a volare, a roteare in un vortice che porta l’ascoltatore dentro un incanto ipnotico e decadente senza fine, dal quale ci si risveglia solo perché la musica finisce. E’ questa la potenza della sua voce, la sua forza: la sua capacità di catturarti e portarti a vivere un’esperienze davvero profonda, quasi metafisica, dove ti immerge, volontariamente o meno, alla ricerca delle emozioni fondamentali dell'essere umano e dell’universo in cui vive. Un risultato stupefacente, basato su una voce naturale a cui Lisa Gerrard non ha dedicato (stando alle sue dichiarazioni) studi approfonditi o lezioni di canto particolari. Tutto (o quasi) è dentro di LEI. Un magnetismo incredibile che l’ha portata a vivere molteplici esperienze e collaborazioni diversificate, a partire

da dischi e cooperazioni con svariati artisti, come quella importante con Pieter Bourke (compositore e ingegnere del suono australiano), Patrick Cassidy, Cye Wood, Jeff Rona, Marcello De Francisci (tutti compositori americani). Da sottolineare il lungo sodalizio anche con il compositore tedesco d’avanguardia Klaus Schulze (molti i dischi prodotti assieme al membro dei primi Tangerine Dream), o le collaborazioni con il Coro delle Voci Bulgare (si, proprio loro) con disco e tour nel 2017, la registrazione della Sinfonia n. 3 di Henryk Górecki con la Genesis Orchestra diretta dal maestro Yordan Kamdzhalov (una sfida per la Gerrard per un opera prevista con una esecuzione per soprano solista, con i tre movimenti rielaborati e riarrangiati per adattarsi al registro più profondo di Lisa Gerrard, creando una “resa ultraterrena” e completamente unica dell’opera), sino all’ultima sfida con Hiraeth, insieme a David Kuckhermann, per un disco (2018) fatto di percussioni e voce, con influenze balcaniche, medio orientali e spirito jazz. Un percorso di molteplici progetti che continua con Jules Maxwell (musicista nei DCD) dell’uscita a maggio 2021 dell’album “Burn” prodotto da James Chapman. Una serie (lunga e disparata) di collaborazioni che sottolinea anche la capacità e l’intelligenza della Gerrard di provare sempre nuove sfide, nuovi stimoli, per crescere e fare meglio, non accontentandosi dello status raggiunto nei DCD o nelle produzioni – di successo - delle colonne sonore, alla continua ricerca di stimoli e passi in avanti, come testimonia, tra i molti esempi che si potrebbero fare, l’approdo in ambito dance/elettronica con la voce prestata a un brano degli Orbital in un bel pezzo come “One Perfect Sunrise, oppure (anche se non è una collaborazione) nella cover di Dylan di “All Along The Watchtower” presente nel suo disco solista “Black Opal”, riproposta in chiave tri-hop in cui sembra di ascoltare i Massive Attack. “Cantara” (sempre tratta da “Toward The Within”) è medio oriente, è danza, è un intro sinuoso di un paio di minuti di corde pizzicate di cetra (strumento musicale dell'antichità classica) che, come in “Yulunga”, si sposta altrove grazie alle percussioni che infiammano e portano dentro un vorticoso ritmo in cui la voce questa volta diventa sferzante e seducente, sempre in bilico tra oscurità e luce. Influenze, queste, che porta nelle sue prove da solista di ottimo livello, che sottolineano e chiariscono (se ce ne fosse bisogno) la statura anche di compositrice e di come, la Gerrard, non sia solo la voce dei DCD ma di come ricopra un ruolo importante dal punto di vista della edificazione delle trame sonore. Lo si percepisce distintamente nel secondo disco “Duality” (1998) in coppia con Pieter Bourke, dove le cesellature di suoni da mondi lontani, soprattutto dal medio oriente e alle sue tradizioni aramaiche e persiane medievali, minimali e tribali (già presenti nel precedente e buono “The Mirror Pool”) trovano una dimensione (quasi) perfetta, sicuramente più lucida e interessante delle incisioni dei DCD di quegli anni, un po’ troppo di maniera e scontate come in “Spiritchaser”. Ne è un esempio la incantata e delicata ninna nanna di “Forest Veil”, che sembra arrivare da una registrazione in un accampamento del deserto sahariano, o le scheletriche “Tempest” e “Pilgrimage Of Lost Children”, la danza delicata di


“Shadow Magnet” o la strepitosa “Sacrifice” (di cui ho già decantato prima la sua fastosità). Un disco, tra l’altro, dove la sua incredibile voce non copre, non si impone, non sovrasta i brani, ma li accompagna, li armonizza, li rende più musicali (grazie ovviamente anche al lavoro di Bourke, grande polistrumentista e compositore), per una produzione con arrangiamenti che innestano elettronica e strumenti acustici con naturalezza. E sulla produzione e le scelte musicali di Lisa Gerrard vanno sottolineate due fasi: una prima presente nei dischi iniziali dei DCD, aperti a molteplici collaborazioni, a una idea di band allargata, a suoni più strutturati e complessi, anche con l’uso di vere e proprie soluzioni orchestrali accanto all’uso classico di basso, chitarra, percussioni, tastiere ecc., per produzioni più “ricche” e corpose. E invece una seconda fase, sia con i dischi dei DCD più maturi (dove il rapporto diventa praticamente a due e in cui suonano loro stessi la maggior parte degli strumenti incisi) e sia nei dischi solisti, dove i suoni si fanno (di norma - eccezioni ce ne sono nelle sue collaborazioni ma non nelle prove soliste -) più minimali e scarni, in una ricerca quasi angosciante dell’essenzialità, per arrivare ad esprimere emozioni non aggiungendo qualcosa, ma togliendo, ricercando solo il necessario, come in un percorso di analisi degli elementi primordiali (allo stesso tempo misteriosi e grandiosi) della nostra vita, cercando di tramutare in suoni ed emozioni elementi basici della natura, come aria, terra, acqua e fuoco.

Una decrescita (felice) nelle produzioni e nelle strutture sonore avvenuta parallelamente alla ricerca di luoghi propri dove creare le registrazioni (un caso?) dove per i DCD è stata la sacralità di una chiesa sconsacrata (e cosa se no?), acquistata da Perry e adibita a studio di registrazione nella campagna irlandese (la Quivy Church) e invece, per alcune sue prove soliste, nello studio di casa della stessa Gerrard in Australia; una scelta anche economica certo (per non dipendere da costosi affitti di studi di registrazione altrui) ma anche una sorta di luogo dove, l’essere a casa, rende più sereni e forse, più concentrati alla ricerca dell’essenziale, del suono semplice e perfetto. Come significativo è stato il percorso che, in maniera naturale, l’ha portata negli ultimi anni, sia come DCD sia nei dischi da solista all’auto produzione con etichette da loro stessi create. Affrontare (e affondare dolcemente) nel mondo sonoro di Lisa Gerrard è, in fondo, semplice. Seppur ammantata da una ricerca per (e dentro) la musica colta del mondo, per sonorità non certo pop e mainstream, la sua versione del tutto è talmente originale (nel senso primordiale del termine) da saper colpire il cuore, le viscere (e la testa) di ognuno di noi, al di là di preferenze e gusti musicali. Il suo canto unico conduce (e obbliga) l’uditore a concentrarsi all’ascolto, portandolo ad una esperienza diversa dall’approccio comune alla semplice forma canzone che conosciamo. Si entra (per chi vuole intraprendere il viaggio, abbandonando stereotipi e cliché) in una diversa dimensione, non legata a una mera lettura razionale dell’esperienza sonora, ma che da essa parte per dipanarsi in emozioni e sensazioni che possiedono una forza spirituale e interiore impareggiabili.

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In questo l’ascolto di “Maranatha - Come Lord” (pezzo tratto dal disco “Immortal Memory” scritto a quattro mani con Patrick Cassidy), cantata in aramaico antico, è quanto di più esaustivo si possa chiedere: si scende in uno stato di trance, per una cantilena dall’incedere sacro che sembra prepararci all’arrivo di qualcosa di superiore (e celestiale anche in questo caso). Qui la sua voce non sale in cielo, non gorgheggia, non scende agli inferi: ti afferra nel suo incedere rarefatto, quasi monocorde, così misteriosa e fragile da indurre alla perdita di sé, e ti trascina in un viaggio immateriale, intimo ed evocativamente elevato. Dura poco meno di quattro minuti ma ascoltandola (in cuffia se potete), dispiega l’essenza antica ed eterna, la forza e il potere senza tempo della voce di Lisa Gerrard. DJ Kremilino

(1). Della grande statura dei loro live non ho prova, sono le mie impressioni leggendo alcune recensioni, perché con i DCD ho un incredibile conto aperto. Ovvero quattro (!) biglietti acquistati nel corso degli anni e nessun concerto ancora visto. Una serie di eventi mi hanno impedito nel corso degli anni di parteciparvi (un ricovero ospedaliero per acufene, una febbre da cavallo la sera prima, un impegno di lavoro impossibile da spostare e – l’anno scorso – l’arrivo della simpatica pandemia). Ovviamente ho ancora in “mano” il quarto biglietto, del concerto rinviato al 2022, ma già temo inondazioni e invasioni di cavallette di belushiana memoria… io volevo esserci, non è stata colpa mia, lo giuro su Dio. Discografia essenziale consigliata Dead Can Dance – Within the Realm of a Dying Sun (1987, 4AD); Dead Can Dance – The Serpent's Egg (1988, 4AD); Dead Can Dance – Toward The Whitin (1994 – 4AD) Lisa Gerrard e Pieter Bourke – Duality (1998 – 4AD) Lisa Gerrard – Sanctuary (2006 – DVD, docufilm regia di Clive Collier) Lisa Gerrard, Genesis Orchestra & Yordan Kamdzhalov - Górecki Symphony No. 3: Symphony of Sorrowful Songs (2020, Air-Edel)


La stella deviante

JOANNA NEWSOM

Photo by Mike Burnell

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Per conoscere

Arpista californiana di Agostino Roncallo Una arpista dalla voce di bambina. Nessuno, al primo ascolto, direbbe mai che si tratti di una cantante californiana. Nel panorama del genere infatti, la California è stata patria di molti musicisti, spesso accomunati da una comune sensibilità musicale, tanto riconoscibile che negli anni settanta del secolo scorso si parlò di una vera e propria “scuola”. Ma Joanna Newsom no, lei si colloca al di fuori di qualsiasi schema, una stella deviante in mezzo alle più tradizionali costellazioni. Suona principalmente l’arpa, ma anche il piano, l’harpsichord, un wurlitzer e, soprattutto, canta in maniera inusuale, un canto non accademico e dal timbro fortemente caratteristico e originale, infantile e capriccioso allo stesso tempo. Possiamo dire che è figlia d’arte, e forse non poteva essere diversamente: il padre è infatti un chitarrista country-folk mentre la madre ha sempre avuto una passione per il piano, ci sono inoltre il fratello e la sorella che suonano rispettivamente batteria e violoncello. Difficile dire cosa l’abbia spinta, a soli sette anni, a studiare l’arpa classica e poi ad approfondirne versioni diverse come quella celtica e africana. E proprio da quest’ultima trae il suo stile musicale che si può definire “polimetrico”: la polimetria è l’utilizzo di metri diversi durante l’andamento della melodia. Ad esempio una battuta in 4/4 viene seguita da una in 3/4 poi da una in 5/4 per tornare in 4/4. L’effetto è appunto quello di spostare gli accenti in posizioni diverse da quelle consuete ad esempio dal battere di ogni battuta, realizzando così un continuo effetto di alternanza di tensione e relax. Le composizioni di Thelonious Monk per esempio, utilizzano spesso questo andamento polimetrico pur in presenza di un rigoroso tempo in 4/4. Nell’adolescenza i suoi punti di riferimento sono quelli di molti: Bob Dylan, Neil Young, Nick Drake, ma anche Karen Dalton, Patti Smith e Billie Holiday. Ma la sua creatività inizia a prendere forma quando si iscrive al Mills College di Oakland, dove studia composizione; qui si avvicina al folk della tradizione sulla scia di Alan Lomax e della musica proveniente dai monti Appalachi, una terra colonizzata da irlandesi e scozzesi, rimasta culturalmente isolata per quasi duecento anni e abitata da piccole comunità rurali che avevano come unico svago

l’espressione musicale. Questo isolamento contribuì a preservare fino agli anni venti del novecento il patrimonio musicale dei primi pionieri europei tramandando così di generazione in generazione, attraverso la tradizione orale, i diversi brani nella loro forma originaria. Proprio su questi brani Joanna inizia a lavorare, cercando di recuperarne il valore ancestrale, gli echi più segreti, lontani ma nello stesso tempo vicini al canto tradizionale irlandese. L’arpa è lo strumento che le permette di far rivivere la tradizione ma in forme nuovissime. Le prime esperienze vedono Joanna suonare e cantare nei Golden Shoulders di Adam Kline, una band formatasi nel 2001 a Nevada City per poi entrare a far parte dei Pleased, una band di San Francisco capitanata dal britannico Rich Good. Si arriva così alla pubblicazione dei primi due Ep, “Walnut Whales” (2002) e “Yarn And Glue” (2003), che contengono in nuce alcuni ingredienti di fondo che caratterizzeranno il suo stile musicale. Viene così notata da Bonnie "Prince" Billy che la porta in tour sé come spalla e la aiuta a ottenere un contratto con i discografici della Drag City. Per questo editore nasce nel 2004 il suo primo album “The Milk Eyed Mender”, un disco assai composito che presenta delicate ballate ispirate alla tradizione folk ma anche brani che si possono ascrivere al pop rock indipendente di scuola americana. I testi dei brani hanno un valore importante e rivelano una notevole abilità letteraria al servizio della musica, alcuni di essi hanno un tono fantastico e fabulatorio mentre altri esibiscono una divertita ironia, un umorismo fatto di parole con bizzarri accostamenti e sorprendenti allitterazioni, ma anche la malinconia e la tristezza generate dalla forza istintiva del canto. “Salpammo via un giorno d’inverno, Con un destino malleabile come argilla. Ma le navi sono fallibili, dico io, E il navigare, come tutte le cose, svanisce con il tempo. Riesco a ricordare la nostra caravella, Un piccolo guscio di coleottero fatto di vimini Con quattro alberi sottili e vele latine. “


Nell’incipit di “Bridges And Balloons” l’uso del passato remoto è evocativo tanto quanto il riferimento a un lontano giorno d’inverno e a un destino precario sul quale, come nella terra argillosa, si aprono crepe. E le navi, rappresentanti i molti viaggi della vita, sono fallibili, svaniscono dalla memoria col passare delle stagioni. Un ricordo appare più definito, una caravella o un guscio di coleottero, per poi scomparire, diafano, nell’incertezza dell’esperienza. La stella Joanna canta inoltre di costellazioni ("Cassiopeia"), di cigni bianchi ("Swansea"), di gente che succhia limoni ("This Side Of The Blue") o che distrugge la propria cena a colpi di karate ("The Book Of Right-On"). Questo primo album riscuote un buon successo nel giro indie e spinge Joanna a partire per una tournée mondiale, come spalla a personaggi del calibro dei Pixies, di Kristin Hersh e di Devendra Banhart. I suoi compagni di viaggio sono in questa fase Animal Collective, CocoRosie, Skygreen Leopards, autori dagli stili disparati, ma che si possono accomunare sotto l’etichetta del psych-folk . Un’etichetta che tuttavia va molto stretta alla Newsom. A questo punto della sua carriera, Joanna sente l’esigenza di chiudersi in una casa isolata sulle colline nel nord della California per preparare le composizioni che andranno a formare il suo nuovo album: “Ys” (2006). A partire dalla copertina a cura del pittore Benjamin Vierling, il disco rivela i suoi contatti con la tradizione e l’artista diviene una bellezza medievale, capelli biondi sciolti e mossi, corona di fiori, finestra sul fiume e sulle montagne, una tenda rossa. Lo stesso titolo di questa opera seconda prende del resto il nome da un’isola leggendaria: la protagonista è una principessa che, trasformata in sirena, incanta i marinai con il suono della sua voce. L’album è co-prodotto da Van Dyke Parks, registrato nella parti vocali e di arpa da Steve Albini, mixato da Jim O'Rourke e masterizzato da Nick Webb presso gli studi Abbey Road di Londra. Il successo è notevole e le riviste specializzate di mezzo mondo iniziano a interessarsi di questa artista. Non mancano sicuramente le critiche perché la musica della Newsom non ha mezze misure, o la sia ama o la si odia. Alcuni definiscono il suo stile con aggettivi quali "prolisso", "pretenzioso" e “infantile”. Ma lei va avanti senza esitazioni e un anno dopo pubblica un Ep di tre brani dal titolo “Joanna Newsom And The Ys Street Band”. Il percorso che ha portato alla pubblicazione di “Ys” è stato assai complesso: prima c’è stata la stesura per voce e arpa, poi è stata la volta dell'orchestrazione di trenta elementi affidata a Van Dyke Parks, infine il missaggio, affidato a Jim O'Rourke. La strategia commerciale è stata bene architettata se si considera che a fronte di una pubblicazione prevista per novembre, l’album diviene reperibile online già a settembre. Ciò ha determinato attese e curiosità al punto che quando “Ys” è stato pubblicato, era già stato molto discusso. Se il disco d’esordio risentiva di alcune ingenuità , il successo di quest’ultimo si spiega con la capacità della Newsom di adattare il suo canto per renderlo più misurato, potente e sicuramente meno aspro, ben inserito all’interno del sontuoso arrangiamento degli archi. Il merito del tutto va anche a Bill “Smog” Callahan, attuale compagno di Joanna nella vita,

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un artista che è passato dagli esordi in "bassa fedeltà" all'austero rock da camera della maturità. Smog ha un talento fuori dal comune, rivelandosi probabilmente il miglior cantautore dell'attuale scena indie americana, con un repertorio fatto di atmosfere tetre e storie minimaliste. Anche i testi contribuiscono certamente al buon impatto del disco: “C'è una luce arrugginita sui pini stanotte; Il sole versa vino, signore, o midollo nelle ossa delle betulle, e sulle guglie delle chiese, che spuntano dalle ombre; il giogo, e l'ascia, e le vecchie ciminiere, e la balla di fieno, e la carriola. E ogni cosa pendeva, come fosse trascinata da una corda, Nella bocca del sud, laggiù.” Abbandonate le divertite stranezze del primo disco e le stravaganti associazioni di parole, il testo di “Emily” sul lato A del disco è intriso di un lirismo fortemente evocativo e di paesaggi fiabeschi. Sulla scorta di questo successo datato 2006, l’anno successivo Joanna pubblica, come dicevamo, “Joanna Newsom And The Ys Street Band”, un Ep registrato negli studi Record Plant di Oakland con un gruppo che comprendeva Ryan Francesconi alla tamboura e alla chitarra, Dan Cantrell alla fisarmonica, Neil Morgan alla batteria e voce e Kevin Barker al banjo e chitarra. Multistrumentista, programmatore e artista multimediale, Ryan Francesconi è uno di quei personaggi misteriosi che, di tanto in tanto, ci fanno dono di un pezzo del loro universo privato, fatto di magia e inquietudine. Un personaggio irrimediabilmente vicino alla sensibilità artistica di Joanna. Passano alcuni anni e nel 2010 esce nientemeno che un triplo cd, un progetto che può apparire ambizioso e che si intitola “Have One On Me”. Ma ambizioso non è, se si considera che non ci sono lungaggini e che l’intero lavoro regge benissimo all’ascolto: su 18 brani diluiti in due ore quelli


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un pochino più deboli si contano davvero sulle dita di una mano. Certamente è un album in cui l’artista rivela grande maturità a cominciare dall’iniziale e sorprendente “Easy”: “Facile, facile Io e il mio uomo Potremmo riposare e rimanere qui, facilmente Siamo testati e sofferti Da cosa c'è oltre il nostro letto Siamo benedetti e sostenuti Da ciò che non si dice. “ Si tratta di una composizione molto brillante, immediata, destinata a catturare subito l’attenzione di chi ascolta. Le parole del testo sono cariche di suggestione nella loro cripticità. La realizzazione si deve alla collaborazione al missaggio di Jim O'Rourke e Noah Georgeson e all'accompagnamento per gli arrangiamenti del solito Ryan Francesconi. Oltre all'arpa, strumento prediletto dalla Newsom, vengono utilizzati altri strumenti come pianoforte, tambura, clavicembalo e kaval. La produzione spazia dal blues e dal jazz di alcune tracce, all'indie folk di altre, in cui sono inserite chitarre elettriche e batteria. Passano altri cinque anni e nel 2015 esce l’atteso “Divers”, un disco assemblato con cura e precisione, realmente vissuto e dal grande impatto emotivo. Così lo ha voluto Joanna Newsom, che ne ha supervisionato produzione e missaggio assieme a Steve Albini e Noah Georgeson. Per gli arrangiamenti, si è avvalsa anche del compositore Nico Muhly, di Dave Longstreth (Dirty Projectors), nonché del fidato Ryan Francesconi. I testi, come nella seguente “Same Old Man”, rivelano il loro carattere onirico. Il tema è quello di un ritorno nella propria casa (ma dove non è detto) lontana dal caos metropolitano newyorkese, quel caos che rende ripetitivo ogni gesto e folle la mente; significativo in questo senso

è il riferimento alla foglia caduta dall’albero, all’invito a ritornare sui suoi rami, a riprendere il suo colore e ritrovare la propria strada: È la stessa vecchia signora che fa il bucato In piedi sotto la pioggia nel suo mackintosh La stessa vecchia signora in piedi sotto la pioggia Il pensiero di New York stava diventando pazzo Ehi piccola foglia stesa a terra Ora stai diventando leggermente marrone Perché non torni sull'albero Trasforma il colore verde nel modo in cui dovresti essere La mia mente sta svanendo e il mio corpo si indebolisce E le mie labbra non formeranno le parole che pronuncio E ora sto fluttuando via su un barile di dolore New York City non mi vedrà più È lo stesso vecchio seduto al mulino Il mulino arriverà e di sua spontanea volontà Sono sicuramente felice di essere a casa New York City continua da sola Sono sicuramente felice di essere a casa New York City continua da sola New York City continua da sola New York City continua .

ag.ro.


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Il dolore nella voce di BILLIE EILISH di Michele Griggi Tutto ha inizio da una voce, la voce di una ragazzina di 13 anni che assieme al fratello si diverte a comporre canzoni in cameretta e a registrarle, la loro prima canzone a circolare in rete, ma ce n’era stata già una precedentemente, poi fatta sparire perché considerata “veramente brutta” dalla ragazzina, è “Ocean Eyes”, che come si usa dire oggi, diventa virale su youtube e procura alla ragazza, Billie, la possibilità di incidere musica e pubblicare i primi singoli, tutto questo succede nel 2016, ed è l’inizio della popolarità di Billie Eilish. In realtà Billie nasce ballerina, prima dei 12 anni la sua passione è ballare, balla tutto il tempo, lo sogna per il suo futuro, interrompe solo dopo un grave infortunio che la obbliga appunto a smettere di danzare e la condiziona fisicamente, costringendola spesso a dolorose cure, a tenere concerti sotto effetto di antidolorifici, con tutori alle ginocchia e la proibizione di saltare e ballare sul palco, cosa che puntualmente disattende, perché Billie on stage è una forza della natura, salta di qua e di là senza sosta, da tutto per il suo pubblico perché se il suo pubblico sta bene, sta bene anche lei. Billie ama cantare, ama avere canzoni da cantare, ma non sopporta la fase compositiva, in questo per fortuna c’è il fratello ad aiutarla, infatti se parliamo di Billie Eilish in realtà parliamo di un duo, o di una band di quattro persone, due delle quali vanno sul palco e due restano dietro le quinte, “it’s a family affair”, perché gli O’ Connell sono un team. Billie Eilish Pirate Baird O’Connell nasce a Los Angeles nel 2001, figlia di Maggie Baird e Patrick O’Connell , la madre insegnante e sceneggiatrice, il padre operaio edile con qualche particina come attore, peraltro in film anche conosciuti come “Iron Man”, sono musicisti, dilettanti, anche i genitori e crescono i due figli, Billie e suo fratello Finneas all’insegna delle arti, Billie sa suonare ukulele e pianoforte e da autodidatta la chitarra, Finneas sa suonare un po’ di tutto, destreggiandosi benissimo tra apparecchiature elettroniche sia per suonare che per registrare. Famiglia moderna a proprio agio con telefonini e Webcam documentano la crescita dei figli e cosi vediamo, mi riferisco come fonte al bellissimo docufilm “The World’s A Little Blurry” relativo al periodo immediatamente precedente e successivo alla pubblicazione dell’album “When We All Fall Asleep Where Do We Go?” , una neonata Billie fatta danzare sulla tastiera di un pianoforte, partecipare a contest musicali con il fratello e anche tutta la famiglia al completo performare sul palco. Billie non frequenta la scuola, ma studia a casa, l’home schooling, ovvero l’istruzione domiciliare, è una pratica tutto sommato abbastanza diffusa in America, e così la ragazza ottiene il suo diploma di scuola superiore prima di avere inciso il suo primo album. Come dicevo, la prima passione di Billie è la danza, arte che si inizia già in tenera età, danza classica e moderna, è una passione, un modo di esprimersi che la coinvolge totalmente finché non deve smettere perché il suo fisico non regge. La salvezza arriva dalla musica, già presentissima nella sua vita. Il suo primo brano è “Ocean Eyes” , scritto per una coreografia e presentato al suo insegnante di danza, finirà poi in un video.

I primi passi nel mondo della musica e l’attenzione procuratasi con “Ocean Eyes” valgono un contratto con l’etichetta discografica Darkroom, che fa parte della Interscope records, escono quindi il singolo “Six Feet Under” e una serie di remix di “Ocean Eyes”, “Six Feet Under” è una bella canzone melodica e romantica dove le qualità compositive del duo Billie/Finneas si sposano con i testi mai banali della ragazza che privilegia sempre accostamenti in rima, assonanze, cambi di tempo e molta ironia, by Gianluca Moro “our love isPhoto six feet under, I can’t help but wonder, if our grave was watered by the rain, would roses bloom?” Una storia un po’ tarantiniana fa invece da sfondo a “Bellyhache”, una canzone scandita da una bella ritmica di chitarra, “where is my mind? Maybe is in the gutter, where I left my lover, what an expensive fate, my V is for vendetta, thought that I’d feel better, but now I got a bellyhache”. Nel frattempo, i singoli di Billie trovano posto nelle colonne sonore dei telefilm maggiormente seguiti dai teenagers americani e di tutto il mondo, come “Tredici” ed “Euphoria”, per “Tredici” incide il brano “Bored”, altro pezzo melodico e dolce con accelerazioni che lo rendono irresistibile e cantabile “what makes you sure you’re all I need, forget about it, when you walked out the door and leave torn you’re teaching me to live without it” Con il suo immediato successo in rete e il contratto discografico arrivano in primi concerti e subito si stabilisce tra Billie e i suoi sempre più numerosi fans un rapporto speciale, Billie non perde occasione di abbracciarli salu-


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tarli, incontrarli, preoccuparsi per loro durante i concerti, più che interessarle il successo non sopporta l’idea di deludere chi la ascolta, non è interessata a pubblicare singoli di successo se questo significa svendere le sue idee musicali, sul palco vuole dare tutto, ama cantare, ballare e saltare continuamente, il morale le va a terra se non è in grado di dare il massimo o se pensa di non averlo dato. Fin dagli esordi prende gli spunti per le canzoni da quaderni che riempie di disegni e idee per i testi, che poi discute con il fratello, mentre nella di lui camera provano e registrano le canzoni. La gran parte dei primi singoli sono raccolti nell’ep “Don’t Smile At Me”, tra il giugno del 2017 e il successivo agosto Billie aggiunge un brano ogni venerdì finché poi la Interscope non pubblica tutto il progetto. “Don’t Smile At Me” non viene considerato il primo album di Billie, ma con le sue 9 canzoni, senza punti deboli, con la presenza della ormai famosissima “Ocean Eyes” e di una manciata di canzoni irresistibili destinate ad essere tra i momenti più entusiasmanti dei concerti, è considerato da chi scrive un vero e proprio album, un pezzo da avere nella propria discoteca casalinga. Spiccano in particolare “My Boy”, un pezzo molto ballabile che parla di un ragazzo poco partecipe e forse infedele “my boy my boy my boy, don’t love me like I promised, my boy, he ain’t a man and sure as hell ain’t honest”, “Watch”, una delle canzoni più melodiche con uno dei testi più romantici “go ahead and watch my heart burn, with the fire that you started in me” che viene replicata a fine disco con il titolo “&burn” e la partecipazione di un rapper, Vince Staples, ma tutte le canzoni, cosi come i singoli che non hanno trovato posto nell’ep , sono degni di nota. Un po’ tutte le prime canzoni incise da Billie riportano con grande fantasia e freschezza le tematiche d’amore tipiche della giovinezza e dell’adolescenza, con qualche momento anche più maturo, altre canzoni invece denotano una certa cultura e predilezione per generi cinematografici e letterari che definirei pulp, come ho scritto prima, “Tarantiniani” se non altro nell’atteggiamento e nell’ironia, sono comunque ancora testi abbastanza classici, non eccessivamente personali od originali, Billie scrive e canta, meglio di tanti altri, cose già scritte e cantate, aggiungendoci la freschezza e la modernità di una ragazza nata nel 2001. Va detto che oltre ai problemi fisici dati dall’aver chiesto troppo al suo fisico durante gli anni di danza, Billie soffre della sin-

drome di Tourette, per la quale prende farmaci e che a volte si impadronisce di lei al punto che lei stessa ne fa una sua prerogativa introducendo nei suoi video e sul palco, quando non avviene senza volerlo nella vita normale, tic e movimenti dettati da questo disturbo. Billie ha uno stile nel vestire tipico dei ragazzi della sua età , uno stile urbano con le note marche, felpe e tute in quantità , inoltre veste molto large, anche per non dare adito ai pettegolezzi sul suo corpo, consapevole di essere osservata e potenziale vittima di bodyshaming, consapevole di aver un largo seguito tra tutti quei ragazzi e ragazze che a scuola sono ai margini, non è certo un pubblico fighetto quello che per primo si è appassionato a lei, i fans della prima ora, il suo zoccolo duro. Parte del successo lo deve al fatto di saper interpretare molto bene quello che passa nella testa, nel cuore e nell’anima dei teenagers americani, il che tra l’altro spiega il suo enorme successo in patria e il fatto che in Europa non sia ancora un nome particolarmente famoso. Nel docufilm di cui dicevo prima si vede, durante una delle sue prime tournee’, la data milanese, dove inciampa, si fa male ad una caviglia, interrompe il concerto e poi lo riprende alla faccia del dolore, dirà una cosa del tipo “mi hanno detto di stare tranquilla e di non saltare o ballare, ma so già che non obbediro’ “ Essendo nata nell’era di youtube ed a suo agio con videocamere e social media fin da piccola, è naturale che quasi ogni sua canzone sia diventata un videoclip, e ogni videoclip è un piccolo film dove le ossessioni di Billie trovano una gratificazione visiva e forse ancor più che nei testi esce fuori qualcosa di lei, dei suoi pensieri. Due appunti che mi sembrano importanti, mi riallaccio spesso, per chi fosse curioso di saperne di più o di conoscere meglio di quel che può offrire questa lettura, il personaggio Eilish, dicevo, faccio riferimento spesso al docufilm girato per la Apple e visibile sul loro canale Apple+, nel quale mi hanno colpito appunto un paio di cose, una quando spiega, parlando con sua madre che se nei suoi testi parla di cose come il pensiero del suicidio e altri temi abbastanza oscuri e depressivi, se non scrive canzoni allegre e spensierate, è perché questi pensieri ce li ha dentro, scrive quello che sente e scrivere di suicidio è anche un efficace modo di non commetterlo. L’altra cosa è relativa appunto ai video, ad un certo punto della sua carriera, quasi subito in realtà, Billie si accorge che i vari registi, anche di grande fama, dei suoi videoclip, non riescono a fare propri i suoi suggerimenti e non colgono quello che lei vorrebbe trasmettere, decide così di diventare lei stessa regista dei propri video, e così sarà. In particolare nel film si vede lei preparare con una videocamera tutta una serie di suggerimenti per il video di “Xanny”, la vediamo utilizzare la madre come comparsa e spiegare ogni movimento e inquadratura in modo pignolo e precisissimo, cose tipo “la gamba del tavolo rimane al centro dell’inquadratura tutto il tempo finché …”, a me ha fatto


pensare ad una novella Antonioni, il regista famoso per rimanere a preparare ogni singola inquadratura e movimento macchina con una precisione maniacale. Da un certo punto in avanti i video di Billie sono ricchi di effetti speciali, la vediamo bere liquidi neri che le fuoriescono dagli occhi, cadere dal cielo sotto forma di un angelo nero, vediamo sigarette spente sulla sua pelle, camice di forza, ragni che le escono dalla bocca e serpenti che la strangolato mentre canta. Nel 2018 esce il singolo “Party Favor”, brano dove suona l’ukulele e che si apre con una segreteria telefonica dove lei inizia a registrare il suo messaggio e che prosegue sotto forma di minaccia musicale verso un ragazzo che deve averle fatto qualcosa di brutto visto che lei si vendica proprio il giorno del suo compleanno “I’ll call the cops, if you don’t stop, I’ll call your dad, and I hate to do this to you on your birthday , happy birthday ,by the way”, questa canzone rimane come una delle più allegre ed è sempre presente in “Don’t Smile At Me”.

Segue il grande successo del singolo “Lovely”, con il cantante Khalid e presente nella colonna sonora di “Tredici”. Il primo vero e proprio album di Billie Eilish è “When We All Fall Asleep, Where Do We Go?”, Il cui titolo si domanda quale sarà mai il luogo in cui finiamo quando ci addormentato e dove si ambientano i nostri sogni. L’album esce nel 2018 quando l’artista ha 17 anni e già, come abbiamo visto una dozzina di canzoni di successo alle spalle. Il disco ha la particolarità di essere stato composto e inciso pressoché totalmente in cameretta, per la precisione nella cameretta del fratello Finneas, dotata di ogni mezzo di registrazione moderno e della strumentazione base per la loro musica, tastiere, microfoni, chitarre e ukulele, tutto quello che serve al duo per mettere insieme la loro miscela di elettropop e per divertirsi ad inserire nei brani brevi spezzoni parlati che introducono alcuni brani. Il disco inizia con la brevissima “!!!” dove appunto si sentono le voci di Finneas e Billie celebrare l’aver smesso di usare l’apparecchio per i denti e l’aver inciso il disco “i have taken out my invisalign and this is the album” segue risata ed è subi-

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to “Bad Guy”, un brano veloce e ritmato il cui testo gioca su questa ragazza che prende in giro un tipo il quale si crede di essere un bad guy quando forse lei lo è più di lui ed è in grado di prendersi gioco del malcapitato. Il brano “Bad Guy” ci permette di raccontare qualcosa di più di Billie e di inserire un simpatico aneddoto o anche due. Billie è , alla fine, una normale ragazza con le sue passioni, ed una sua fissa da ragazzina era il cantante pop canadese Justin Bibier, per il quale lei aveva una adorazione totale, immaginando nella sua testa di aver con lui una relazione e pensando di non potere avere nella vita reale un ragazzo poiché era già impegnata nel suo mondo immaginario con Bieber. Ovviamente il successo ha portato Billie all’attenzione di Justin, e per quanto la differenza di età e il fatto che Bieber abbia finalmente messo la testa a posto (gioca brutti scherzi avere troppo successo troppo giovani) sposando la modella Haley Baldwin, I due si sono finalmente incontrati e hanno registrato una nuova versione di “Bad Guy” con l’inserto di un freestyle di Justin. Inoltre, nel corso della tournée seguita all’uscita del disco, Eilish ha suonato al famoso festival musicale Coachella, una sorta di Woodstock per ricchi dove a quanto pare non c’è attore o modella che si rispetti che non vi partecipi. Tra gli altri a Coachella Billie incontra Katy Perry, che le presenta il fidanzato, Orlando Bloom, che lei non riconosce, che si confessa grande fan e le dice di aver scalato montagne ascoltando “Bad Guy”. Ritorniamo al disco, che prosegue con “Xanny”, brano che si riferisce alla frequentazione di persone che fanno uso di droghe quando si è convinti di non voler fare altrettanto e si sente la pressione degli amici che cercano di tirarti dentro ai loro vizi “I’m their second hand smoke, still drinking canned coke, I don’t need a Xanny to feel better”, quarto brano dell’album è “You Should See Me In A Crown”, considerato un po’ come il pezzo potenzialmente più commerciale, adatto a sfondare le classifiche, è un bel brano aggressivo e ritmato, che cresce fino al ritornello “you should see me in a crown, I’m gonna run this nothing town, watch me make them bow, one by one by one”, questo e altri brani appariranno


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poi nella colonna sonora del telefilm “Dickinson”, trasposizione molto moderna della vita della poetessa americana Emily Dickinson. Ancor più coinvolgente è la canzone successiva, melodicamente irresistibile, persino ballabile, “All Good Girls Go To Hell” è quella del video con l’angelo nero che cade sulla terra, “all good girls go to hell, cause even God herself has enemies, and once the water starts to rise, and heaven is out of sight, she’ll want the devil on her team”, uno dei testi meglio scritti e più maturi della giovane Eilish, ironico e iconoclastico nel suo alludere al sesso femminile di Dio. Nella seguente “I Wish You Were Gay”, uno dei pezzi più leggeri del disco, si parla di una strana storia d’amore dove lei non riesce ad avere le attenzioni richieste dal ragazzo, che però la fa impazzire e così lei si ritrova a quasi sperare che lui abbia gusti sessuali diversi “how am I supposed to make you fell okay? When all you do is walk the other way? I can’t tell you how much I wish I didn’t wanna say, I just kinda wish you were gay”. Si ritorna ad atmosfere più lente e romantiche con “When The Party Is Over”, un pezzo più classico con un testo di amore sofferto “don’t you know I’m no good for you, I’ve learned to lose, I can’t afford to, tore my shirt to stop you bleeding, but nothing ever stops you leaving, quiet when I’m coming home and I’m on my own, I could lie, say I like it like that”. Con la successiva “8” ecco la intro con ukulele e voce bambinesca, quasi una filastrocca d’amore ritmata e piacevole, da fischiettare o canticchiare “you said don’t treat me badly, but you said so sadly, so I did the best I could, not thinking you would have left me gladly” la canzone si interrompe quasi di colpo e sentiamo la voce di Finneas dire qualcosa di un ballo che non ha fatto mai e affermare come fosse una cosa importantissima che “c’è un sacco di gente la fuori che ha bisogno di sapere come si balla lo scarn” e ci troviamo proiettati in “My Strange Addiction”, uno dei brani più coinvolgenti del disco, con un intermezzo ad un certo punto con le solite voci, di Finneas e probabilmente dei genitori di Billie che discutono a proposito di un qualche film, il ritmo è travolgente e ci sono dei cambi di tempo e momenti tra il rappato e il parlato, con un bel ritornello “bad bad news, one of us is gonna lose, I’m the powder you are the fuse, just add some friction”, nella successiva “Bury A Friend”, una ritmica ipnotica che fa da base ad un altro dei pezzi forti dell’album abbiamo uno dei testi più interessanti del disco dove il tema è la morte degli amici e il desiderio di morte, di suicidio, che assieme alla depressione ed al bisogno di ascolto, al punto di andare in analisi, è qualcosa di sempre più presente nella vita degli adolescenti 2k, oltre che contenere nel testo il titolo dell’album e quindi interrogarsi sull aldilà , su dove andiamo quando non siamo coscienti, quando dormiamo o forse anche, quando moriamo, “today I’m thinking about the things that are deadly, the way I’m drinking you down like I wanna drown, like I wanna end me”, per molti versi la canzone migliore e più rappresentativa dellarte di Billie, neanche diciottenne. Anche in questo brano trovano posto delle parti rappate e una sorta di cantilena mentre il ritmo si fa più veloce, è inoltre in pezzi come questo che si sente più forte il contributo creativo e il talento di produttore del fratello Finneas, indispensabile braccio destro di Billie. Terminata “Bury A Friend” parte un’altra canzone dal ritmo irresistibile con una bella melodia, che parte piano per velocizzarsi, anche qui torna il tema della morte e del sogno, il testo

è triste e la musica fa venire voglia di ballare “the world is a little blurry, or maybe it’s my eyes, the friend I have had to bury, they keep me up at night, said I couldn’t love someone, cause I might break, If you’re gonna die, not by mistake, so where did you go? I should know, but it’s cold, and I don’t wanna be lonely” canta in “Ilomilo”. Il disco si avvia alla conclusione e c’è ancora tempo per tre brani lenti e malinconici, in “Listen Before I Go” si parla di una separazione e le parole sono così tristi che non si capisce se sia una ragazza che sta lasciando il proprio innamorato o se si stia ancora parlando di suicidio, in questo ricorda un po’ “Asleep” degli Smiths, ma più triste ancora “if you need me, wanna see me, you better hurry, I’m leaving soon, sorry can’t save me now, sorry I don’t know how, sorry there’s no way out, but down”, la canzone termina con il suono di una sirena, forse l’ambulanza che accorre per la protagonista della canzone. Una canzone d’amore molto intensa, dove esce fuori ancora meglio che nelle altre la bravura come cantante di Billie è “I love you”, dove ci sono vari crescendo con un sottofondo musicale minimo, chitarra e poco altro, “maybe we should just try, to tell ourselves a good lie, I didn’t mean to make you cry, baby won’t you take it back?” Un effetto vocale che fa riverberare la voce di Billie contraddistingue il brano che fa da commiato al disco, intitolato “Goodbye”, è anche questo triste e come altre volte riprende parole già usate in altre canzoni del disco, anzi pare riassumere il disco, il brano è molto corto e si spegne quasi all’improvviso, come se le energie fossero finite. L’edizione in CD dell’album contiene tre pezzi in più, il primo è “When I Was Older”, ispirato dalla visione del film “Roma”, il film diretto da Alfonso Cuaron che narra le vicende di una famiglia messicana negli anni 70, ambientato a Città del Messico, nel quartiere Colonia Roma, è un pezzo elettronico e lento con voce effettuata e un testo molto sognante che ad un certo punto si velocizza e diventa molto intenso, anche qui una parte è rappata e il duo Billie Finneas, lei alla voce lui alla strumentazione e produzione da prova di


una evoluzione musicale molto promettente appena iniziata “youd sympathize with the bad guys, I’m still a victim in my own right, but I’m the villain in my own eyes, yeah”. La seconda bonus track è “Bitches Broken Heart”, ancora pop elettronico, con un bel ritornello molto dolce, un pezzo lievemente jazzato (opinione mia) “you can pretend you don’t miss me (me) you can pretend you don’t care, all you wanna do is kiss me, oh what a shame I’m not there”. Ultima bonus è “Everything I Wanted”, molto bella con una melodia elettronica e soft che sostiene il cantato quasi sussurrato di Billie e sfocia in qualcosa di ballabile, va detto che molte canzoni di Eilish si prestano a dei remixes da discoteca così come paiono perfette per colonne sonore, entrambe le cose spesso puntualmente avvenute, “i had a dream, I got everything I wanted, but when I woke up, I see you with me, and you say as long I am here, no one can hurt you”. Il successo del disco è travolgente e Billie inizia a suonare davanti a platee sempre più grandi ed entusiaste, ma senza perdere di vista il suo legame con i fans, insomma, scherzando un po’ resta umile. Billie e Finneas vincono un botto di Grammy Awards, gli Oscar della musica, quanto meno della musica pop e vengono scelti per comporre e registrare, lo faranno durante la turne, il brano guida del nuovo film di 007, brano e canzone si intitolano “No Time To Die”, al cinema non è ancora uscito causa covid. La canzone “No Time To Die” segue perfettamente la tradizione delle canzoni utilizzate per trainare questa saga fatta di spie, sparatorie e belle donne delle quali James Bond si innamora nello spazio di un film e avanti la prossima al successivo. Nel suo incedere molto coinvolgente con un ritornello facilmente memorizzabile e una orchestrazione degna di Sanremo, è si un pezzo che si discosta dalla normale produzione di Billie, ma è al contempo un magistrale pezzo pop, molto ma molto godibile, il testo parla di una ragazza che capisce di essersi innamorata della persona sbagliata, ma reagisce “was it obvious to everybody else ? that I’d fallen for a lie, you were never on my side, fool me once, fool me twice,are you death or paradise? Now you’ll never see me cry, there’s just no time to die” Con il successo arrivano prima le attenzioni della stampa ma anche dei fans, degli haters e degli impiccioni di varia natura, Billie si ritrova a doversi difendere da body shaming e pettegolezzi, nonché dalle critiche di una parte del suo pubblico per aver sostenuto Biden nella sua corsa alla presidenza. E, come per tutti noi, arriva anche il covid e con esso la quarantena, il lockdown, è tra le mura domestiche, spostando l’azione dalla cameretta di Finneas allo scantinato dove nasce uno vero e proprio studio di registrazione, che fratello e sorella si rinchiudono e progettano le loro nuove canzoni, la prima ad uscire è “My Future”, accompagnata da un cartone animato dove Billie viene in contatto con la natura del mondo, è una canzone lieve che diviene solo un poco più veloce nel finale, una canzone che getta lo sguardo oltre il lockdown e nella quale Billie si dichiara innamorata del proprio futuro. Nell’estate del 2020 esce “Therefore I am” che nel testo fa propria la massima cogito ergo sum , penso dunque sono, è un brano molto

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più ritmato e coinvolgente con l’ennesimo ritornello irresistibile, ritornano anche le parti rappate. Il testo è molto interessante, Eilish se la prende con tutti gli haters, siano essi giornalisti o scocciatori o millantatori che si fanno pubblicità usando il suo nome, il video, alla faccia del bodyshaming (è grassa o magra? Sta bene o sta male?) è girato in un centro commerciale deserto, dove una Billie vestita oversize gira indisturbata arraffando ogni sorta di junk food possibile e scappando fuori alla fine, ridendosela di quelli che vorrebbero renderle difficile la vita “I’m not your friend, or anything damn, you think you are the man, I think therefore I am”. È di questi giorni, Aprile 2021 mentre scrivo, l’annuncio della uscita in luglio del nuovo album di Billie che si dovrebbe intitolare “Happier Than Ever”, mentre esce un nuovo, per me bellissimo singolo intitolato “Your Power”. La musica è dolcissima, si apre con una chitarra che sostiene e accompagna il cantato di Billie, una bella base ritmica e una bellissima intensità, Finneas si conferma un talento nel costruire armonie e melodie attorno alla bellissima voce della sorella, ma soprattutto è molto bravo come produttore e chissà quando verrà ingaggiato da qualche altra star che non sia sua sorella, certo i due appaiono indivisibili. Però in “Your Power” quel che più conta è il testo, una riflessione molto toccante sui pericoli dell’abuso di potere, argomento in primissimo piano da qualche anno a partire dalle vicende del me too, nonché del movimento black lives matter e cancel culture, “she said you were a hero, you played the part, but you ruined her in a year, don’t act like it was hard, and you swear you didn’t know…she was sleeping in your clothes, but now she’s got to get to class, how dare you?” Billie ha dichiarato che senza il lockdown non ci sarebbe questo disco, come a sottolineare che le nostre vite sono state molto influenzate da questo ultimo anno, che forse, mentre sembra che stiamo piano piano uscendo dall’incubo, ci sta per regalare un altro gioiello, non mi sento di scomodare la parola capolavoro, in ogni caso queste prime canzoni, primi tasselli del nuovo album indicano una grande maturità nei testi e confermano le capacità compositive del duo dei fratelli O’Connell, considerando quanto Billie ama cantare e quanto poco scrivere canzoni, non speravo di avere notizie di un LP tanto presto, sono felicissimo di essere stato smentito. Prima dei saluti, una ultima bonus track, è sempre di questi tempi l’uscita di un duetto, una canzone in perfetto stile Eilish, un pop elettronico delicato e melodico nel quale divide le parti vocali con la cantante Rosalia, il pezzo è quasi tutto cantato, anche da Billie, in spagnolo e si intitola “Lo Vas A Olvidar”, che significa Lo dimenticherai. That’s all folks, spero di avervi fatto venire voglia di ascoltare Billie Eilish. mi. gr.


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DIAMANDA GALAS

La rivoluzionaria del canto di Massimo “Nana” Toscani Nata a San Diego nel 1955 da genitori di origine greca Diamanda da piccola fu incoraggiata dal padre ad imparare il pianoforte e ad ascoltare blues, jazz e musica classica fino al debutto a 14 anni con l'Orchestra Sinfonica di San Diego con un concerto per piano su musica di Beethoven. Una ragazzina che a causa del padre non poté iniziare col canto perché considerato per idioti e puttane, niente tv, niente vestiti frivoli, niente amici e niente radio! Unico sfogo oltre al pianoforte i libri, da Nietzche a De Sade, da Pasolini a Poe. Crescendo riuscirà a trovare molte più libertà anche nel segno della trasgressione soprattutto durante gli studi universitari dove esplorò l'uso delle droghe (LSD in primis) e libertà sessuali spregiudicate. Inizia anche a collaborare con jazzisti d'avanguardia come Mark Dresser e David Murray ed arriva nel 1979 l'esordio con il ruolo principale nell'opera di Vinko Globokar "Un jour comme un autre" e furono queste esperienze che la spinsero a maturare l'idea di creare un canto musicale mai sentito prima. E così nel 1980/81 comincia a girare l'Europa in genere in festival punk e simili per proporre la propria musica. Il tempo è maturo per il debutto discografico, "The Litanies Of Satan" del 1982, album estremo, formato da due lunghe tracce per voce ed elettronica che reputo personalmente il capolavoro della Galas, il manifesto della sua arte. Dice la Galas:" The Litanies Of Satan" sono riflessioni sull'isolamento, sulla prigionia e sulla morte: Ma il mio lavoro non ha un obbiettivo strettamente politico, sono connessioni al mondo dei sentimenti e come io mi sento rispetto a queste situazioni terribili tipo le torture subite dalle donne turche." La grandezza e l'originalità della sua musica è a volte la totale assenza di accompagnamento strumentale. Con la sua voce cavalca i concetti di umiliazione, dolore, sofferenza, vuole dare voce a ciò che la società rifiuta di ascoltare, gli sconfitti, i feriti, la prigionia ingiusta. Se "The Litanies Of Satan" è l'album del dolore fisico il secondo lavoro intitolato semplicemente "Diamanda Galas" è l'album del vuoto interiore, dell'annullamento dell'individuo. Pur continuando sulla fal-

sariga del primo album qui c'è un maggiore uso dell'elettronica ed è aumentato l'interesse per le questioni politiche, la voce è più immersa nel suono ed incredibilmente bella, molto più lirica e poetica, basta ascoltare il brano "Tragouthia" per rendersi conto del livello altissimo raggiunto da Diamanda ed a mio parere mai più raggiunto nei lavori successivi. Nel 1986 muore di Aids suo fratello Philip Dimitri e dal lutto nasce l'ispirazione per una trilogia sull'AIDS e sulle sue vittime. Il primo disco "The Divine Punishment" è anche il lavoro con cui il sottoscritto si è avvicinato all'arte della Divina, soprattutto per un brano cantato in italiano “Sono l’Antichristo”, con versi che riescono a connotare perfettamente l'arte della Galas:

“Sono la prova Sono la salva Sono la carne macellata Sono la sanzione Sono il sacrificio Sono il Ragno Nero Sono lo scherno Sono la Santa Sede Sono le feci del Signore Sono lo segno Sono la pestilenza Sono il Antichristo” Qui la Galas si professa l'Angelo Caduto in persona e da qui sono partite le accuse di satanismo da parte dei suoi detrattori, in realtà lei è un agnostica convinta e questo brano vuole essere una critica verso il cristianesimo in quanto istituzione e la sua genialità sta anche nel fatto di cantare nella lingua della sede di questo potere da lei considerato solo un organizzazione oscurantista. Il secondo album di questa trilogia "Saint Of The Pit" è anche uno dei miei preferiti con quei suoni molto


più gotici ma soprattutto nel brano "L'Heautontimioroumenos" dove la voce è limpida ed espressiva come forse poche volte nella sua carriera a venire, ed è anche l'ultima volta che incarna la voce del demonio nel brano conclusivo quasi fosse la fine del primo periodo di ricerca artistica. Infatti poco aggiunge il terzo capitolo "You Must Be Certain Of The Devil" dove la critica la accusa di scendere a compromessi per rendere più comprensibile la sua musica. Archiviata la trilogia il mondo del cinema comincia ad interessarsi alla sua arte per realizzare colonne sonore di film per lo più horror, da segnalare la collaborazione con due registi importanti come Francis Ford Coppola e Wes Craven ma è con il disco successivo "The Singer", che fa largo uso di cover di pezzi blues e gospel, si allontana dalla sperimentazione ed abbraccia sempre più le performance piano e voce, comunque un ottimo disco per gli amanti del blues. Con "Vena Cava" si ritorna alla voce come strumento del dolore, è un live incentrato sul lamento e sul dolore dei malati di AIDS e dei malati mentali. Ho avuto la fortuna di assistere ad un concerto di questo tour ed è stato veramente memorabile dove la performance si divideva in due parti; il primo set dedicato a “Vena Cava” fu terrificante e bellissimo con quelle urla alternate a silenzi e parole, così scioccante che diversi spettatori uscirono senza più rientrare per il secondo set. La seconda parte la Galas rientra a petto completamente nudo e sola con il suo pianoforte. A livello comunicativo è tutto portato all'eccesso come si può vedere e sentire nel live "Plague

Mass" registrato nella cattedrale di St. John The Divine a New York dove oltre all'importanza della location qui si presenta a petto nudo ma completamente ricoperta di sangue con il suo pianoforte completamente circondato da candele. Uno dei concerti più intensi della mia vita. Nel 1994 esce "The Sporting Life" in coppia con l'ex Zeppelin John Paul Jones ed è forse l'inizio di una involuzione musicale che la caratterizzerà per il resto della carriera, sempre più incentrata sulla registrazione di cover in chiave blues ed affini. Per quanto riguarda la collaborazione con J.P.Jones la reputo un occasione persa ma probabilmente la vena compositiva della coppia non funziona e sono veramente poche le cose degne di nota in tutto l'arco del disco. Fortunatamente anche la Galas si accorge della pochezza di questa collaborazione e si ricorda quale grande cantante d'avanguardia è stata componendo quello che è forse il suo canto del cigno. Esce "Schrei 27" che ha come tematica la tortura, sia fisica che psicologica e sono 27 minuti come da titolo di urla, latrati infernali, gemiti violentissimi e quant'altro. Basta ascoltare il brano finale "Hee Shock Die" per ritornare alla grandezza del passato. Negli ultimi anni discografici ha sostanzialmente pubblicato album live con un ritorno alle sue origini blues, jazz e gospel con lavori prevalentemente composti da cover di classici e nonostante ciò la sua fama internazionale è aumentata a dismisura molto più dei suoi primi lavori, fama che ha portato Diamanda Galas ad essere anche omaggiata in Italia, paese che lei adora particolarmente, del premio alla carriera "Demetrio Stratos". Per concludere io credo che la sua arte non sia solo la musica ma si allarga anche alla letteratura, alla storia, alla politica e che il suo messaggio artistico sia volto a risvegliare le coscienze ed a raccontare la verità con la speranza che certi orrori non si verifichino mai più.

Photo by Santiago Felipe

Photo by Austin Young

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LE FIGLIE ARTISTICHE DI DIAMANDA GALAS Ogni voce è ricca di sfumature che la rendono unica. La voce caratterizza ognuno di noi proprio come un'impronta digitale, è il prolungamento del nostro corpo ma soprattutto delle nostre emozioni.Come ogni avanguardia musicale ci vuole un po' di tempo per essere metabolizzata e di conseguenza usata per trarre spunti nei propri lavori, mi piace pensare che esiste una generazione di giovani artiste che ha fatto


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tesoro della ricerca musicale fatta da Diamanda Galas. Ovviamente la voce di Diamanda è unica ed inimitabile ma come disse John Cage nel 1955 "una composizione sperimentale è quella il cui risultato non è prevedibile". La prima giovane artista che mi richiama a Diamanda Galas è ANNA VON HAUSSWOLFF, musicista e cantante svedese nata come una promessa dell'indie folk scandinavo, dopo un debutto folk-pop malinconico ed oscuro ben presto si addentrerà nella ricerca musicale che lambisce elettronica, doom metal, dark e minimalismo soprattutto per l'uso originalissimo del suono dell'organo a canne da chiesa. Guardate il video " The Mysterious Vanishing of Elektra"per capire la grandezza della sua musica sempre in bilico tra luce ed oscurità, armonia e dissonanza, oppure ascoltate il disco solo strumentale con protagonista l'organo a canne "All Thoughts Fly" per perdersi in suoni al di fuori del tempo. Stessa età per HOLLY HERNDON americana ma trasferita a Berlino dove ha trovato la sua dimensione di ricercatrice musicale usando principalmente programmi per computer. La Herndon lavora molto sulle voci come se fosse la musica ad essere incastonata sulle parole e quel continuo girare attorno all'elemento vocale smontato e ricomposto creando sempre nuovi impasti con la musica. Somigliante nell'aspetto fisico e nel gusto gotico a Diamanda Galas è CHELSEA WOLFE californiana di Sacramento autrice di una musica dark-noise profumata di angoscia e dolore, una vera sacerdotessa dark con quel velo di malinconia tipica di alcuni ambienti negli anni ottanta. Capace di mescolare folk, gothic ed elettronica con testi poetici ed introspettivi, a mio parere tra le migliori di questa generazione. Musica più sperimentale per JULIA HOLTER di Los Angeles che definisce la propria musica "cacofonia della mente in un mondo in liquefazione" che nasce dalla volontà di descrivere il caos. Nonostante sia una musica di ricerca il risultato è molto piacevole dove Julia riesce a spaziare dal folk al jazz, dall'avanguardia all'elettronica ed anche a suoni più pop. Ed è questa miscelazione tra musica popolare e ricerca sonora che personalmente trovo affascinante. Statunitanse di origini russe è Nika Roza Danivola ma con il nome d'arte ZOLA JESUS autrice di una musica ibrida dove le influenze sono molteplici; dalla musica da camera al goth, dall'elettronica alle derive sonore con atmosfere cupe e tenebrose ed il tutto farcito con la sua incredibile voce che risulta spesso poeticamente brutale. E' maturata molto durante le sue uscite discografiche e se la prima parte della sua vita artistica l'influenza della Galas è molto presente, col tempo è riuscita a mettere a fuoco ciò che il passato insegna e di creare un proprio percorso personalissimo. Ex componente del gruppo newyorchese degli Swans JARBOE più che una figlia di Diamanda Galas la considero una sorella d'arte ed una di quelle voci alla quale ti affezioni per tutta la vita. Voce ispiratissima, lamentosa ed inquietante dove se per la Galas il blues è diventato il suo territorio espressivo per Jarboe le proprie canzoni hanno dentro un cupo misticismo dove la voce assume quasiuna connotazione religiosa, il canto è ossessivo, minimalista e capace di generare sensazioni da cerimonia pagana, quasi maledetta con quel sentore di piace-

vole discesa verso il suo inferno musicale. Altra artista degna di nota è Elizabeth Bernholz, inglese di Canterbury conosciuta con il nome d'arte GAZELLE TWIN autrice di una musica definita postindustriale dove sono molto presenti, come nella Galas, contenuti politici soprattutto contro la propria nazione accusandola di troppo nazionalismo. La sua musica la definirei caotica, caos industriale appunto, dove la voce viene storpiata, deformata, quasi aliena nel risultato. Eppure ci trovo anche un retrogusto psicadelico anni '60, una cantante veramente interessante. Ultima cantante che vorrei umilmente consigliare è Anja Franziska Plaschg nota con il nome di SOAP&SKIN, cantautrice proveniente dall' Austria e credo sia tra le giovani più promettenti, tanto che il suo esordio discografico a neanche diciannove anni lo considero un vero e proprio capolavoro ed arriva incredibilmente in vetta alle classifiche di vendita del suo paese. Un talento precoce capace di miscelare elettronica, sperimentazione e gusto gotico dove la sua inquietudine si percepisce soprattutto nei suoi concerti. ma.to.

DISCOGRAFIA CONSIGLIATA - ANNA VON HAUSSWOLFF, Dead Magic - 2018 (City Sland) - HOLLY HERNDON, Proto - 2019 (4AD) - CHELSEA WOLFE, Abyss - 2015 (Sargent House) - JULIA HOLTER, Aviary - 2018 (Domino) - ZOLA JESUS, Conatus - 2011 (Sacred Bones) - JARBOE, Illusory - 2020 (Cpunsouling Sounds) - GAZELLE TWIN, Pastorial - 2018 (Anti Ghost Moonray) - SOAP&SKIN, Lovetune for Vacuum - 2009 (Pias) - ANNA VON HAUSSWOLFF, All Thoughts Fly - 2020 (Southern Lord)

Zola Jesus

Jarboe


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Il canto POPolare di ORIETTA BERTI Intervista esclusiva di Massimiliano Stoto Una delle voci più pure e cristalline della nostra tradizione canora. Un pezzo unico della storia del bel canto italiano. Uno scrigno di storie, esperienze e canzoni. E’ un orgoglio per le nostre pagine ospitare le sue parole e presentarvi, colei che è una “Professionista e Protagonista” assoluta della nostra canzono popolare. Cari lettori e lettrici: ORIETTA BERTI Quando in redazione abbiamo sviluppato “il tema” di questo numero, la vocalità femminile, più che la sola Bjork, ho pensato che fosse doveroso parlare anche di qualcuno dei tanti talenti di casa nostra. Il primo nome a cui pensi su un tema del genere è il più irraggiungibile: Mina. Poi hai solo l’imbarazzo della scelta. Volevo però due nomi che provenissero da due mondi distanti, una voce popolare e conosciuta e una più di nicchia, più indiealternative diciamo. Così mi sono buttato su Antonella Ruggiero e Mara Redeghieri e non essendo riuscito a convincere la Sig.ra Ruggiero dei miei intenti, Mara mi ha involontariamente portato a Orietta. E’ stata infatti la loro “Cupamente” a farmi scattare la scintilla e a provare a contattare il suo entourage. Le prossime pagine contengono le interviste a Orietta e Mara e due brevi pezzi su Antonella Ruggiero e Giuni Russo, di cui negli scorsi mesi, sono usciti due nuovi dischi. Quattro angoli diversi per parlare del bel canto italiano. Buona lettura.

WN: Come stati i suoi inizi e come si è accorta di avere particolari doti vocali? La passione per la musica mi è stata trasmessa da mio padre, era un appassionato di musica lirica e avrebbe voluto diventare un tenore, però allora dovette lasciare gli studi ed andare a lavorare per mantenere la sua famiglia e i suoi fratelli. Cosi decise di trasmettere a me questa sua passione. Fin da piccola mi incoraggiava a cantare e a prendere lezioni di canto lirico. Per lui avrei dovuto fare la cantante a tutti i costi, per fortuna avevo i mezzi vocali. Mi portò a studiare canto lirico a Reggio e a Bologna, allora (fine anni ’50) era un sacrificio non era semplice come può sembrare oggi. Poi durante un concorso di “voci nuove” a Reggio Emilia nel 1962 o 1963

conobbi Giorgio Calabrese (grande autore di canzoni e programmi tv) che da “talent scout” apprezzò la mia voce e si impegnò per farmi fare dei provini a Milano e per farmi ottenere un contratto discografico.

WN: Ha sempre posseduto una predisposizione naturale al canto ma quanta tecnica ha dovuto imparare per indirizzare al meglio il talento? Lo studio del canto è fondamentale e non si smette mai di studiare e di imparare. Ancora oggi dopo 55 anni di carriera “alleno” la voce attraverso esercizi vocali combinati con il cantare il mio repertorio per almeno 2 ore al giorno. Perché la voce dipende dalle corde vocali che sono muscoli e devono essere “allenate” e curate come un atleta sportivo allena il suo fisico in vista di una gara o di una performance. Ovviamente con il tempo la voce se curata può acquisire anche delle tonalità nelle note più basse, ma allo stesso tempo mantenere la brillantezza nelle note più alte. La predisposizione naturale al canto e le doti possono esserci in ognuno di noi, perché ognuno di noi ha una voce unica però occorre lo studio e la tecnica per controllare e salvaguardare il talento della voce. WN: La vittoria al disco d’oro e l’incontro con Giorgio Calabrese è stato fondamentale per lei, l’ho può ricordare? Grazie alla sua fiducia ottenni il contratto presso la Polydor-Philips (oggi Universal Music Italia) e nel 1965 vinsi il primo premio a “Un disco per l’estate” con il brano “Tu sei quello” e da li la mia carriera inizio. A Giorgio sarò sempre grata perché se non ci fosse stato lui ad incoraggiarmi e a convincere mia madre che avrei potuto intraprendere la carriera di cantante…e a perseverare nel trovarmi una casa discografica adeguata, oggi forse non avrei potuto festeggiare 55 anni di carriera nella musica. E pensare che


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dopo pochi mesi dalla vittoria del disco d’oro (che in realtà non era d’oro ma di cartone) nel concorso di Voci Nuove dove conobbi Giorgio, il mio papà perse la vita in un tragico incidente stradale. A quel punto decisi insieme a mia madre di intraprendere un’altra strada lavorativa, avrei voluto fare la maestra d’asilo o la disegnatrice di modelli per la moda (allora era una professione molto gettonata). Fu proprio la tenacia di Giorgio, che non si dette per vinto, a convincermi a non mollare e supportarmi nella ricerca di una contratto discografico. Giorgio credeva nel mio talento ed è stato un gesto di generosità che non potrò mai dimenticare. WN: La prima canzone che incise era “Franqueza” di Maysa Matarazzo, grande interprete della bossa nova brasiliana, quindi a casa sua si ascoltava musica a tutto tondo? Si, mio padre era un grande appassionato di lirica e di musica in generale. Ovviamente nei primi anni ’60 non c’era la disponibilità economica e nemmeno la distribuzione digitale che abbiamo oggi per la musica e per i dischi. Era tutto più complicato da reperire. Però io ero fortunata, perché oltre alla passione che aveva mio padre trovavo tanta musica e tanti dischi anche alla Casa del Popolo di Cavriago, che era un centro culturale (in quel momento storico) nel mio paese. Li si ascoltava musica di tutti i generi, si prendevano anche lezioni di canto e di strumento. “Franqueza” fu una delle mie prime incisioni, una canzone bellissima e la incisi anche perché la traduzione del testo originale in italiano era proprio di Giorgio Calabrese (allora tanti successi stranieri venivano tradotti nella versione italiana, le cover, come anche tantissime canzoni italiane venivano reinterpretate nel mondo nelle altre lingue). WN: Lei ha venduto milioni di dischi di una musica spesso definita “leggera”. Era un tempo in cui i dischi aveva un senso farli anche perchè avevano un mercato...ma quella etichetta

“leggera”, secondo lei non sminuiva un po’ il lavoro di autori, interpreti, musicisti? Si, diciamo che sono stata fortunata (come tanti miei colleghi e colleghe) a vivere una “periodo d’Oro” della musica italiana, parlo degli anni ’60 ’70 e ’80, dove le nostre canzoni dalla bella melodia italiana andavano in tutto il mondo e venivano reincise come cover da cantanti e gruppi stranieri. Oggi il mercato discografico è in crisi in tutto il mondo, però è anche vero che la produzione discografica (il fare dischi) è fondamentale per la creatività di un artista…inoltre è ritornato di moda il vinile come oggetto di ascolto (non solo per i collezionisti) e non si può immaginare un mondo discografico solo digitale, solo sulla rete. Per quanto riguarda l’etichetta “leggera” che viene data alla musica “Pop” , penso sia una questione storica per distinguerla dalla musica classica, che per definizione è la più importante e che è l’origine della musica leggera e Pop. Se pensiamo alle melodie delle romanze, della classica e alla musica classica napoletana capiamo che la musica Pop viene da li, le sue melodie hanno origine li e vengono interpretate con una struttura differente ma che si ispira a quello. La connotazione che gran parte della stampa italiana pensa di dare alla etichetta “musica leggera” per sminuire la musica è del tutto fuori luogo; spesso pensano che se un brano, un motivo o un ritornello di una canzone ottenga un grande successo tra le masse, tra la gente, un grande successo di pubblico…allora automaticamente debba essere etichettato come “di poco valore o popolare” nel senso di non essere abbastanza “alto e sofisticato”. Purtroppo commettono cosi un errore madornale nel confondere la “semplicità” di una musica (che può arrivare al cuore del pubblico con una forza incredibile) con la “superficialità”…che sono due concetti opposti e distanti tra loro. La semplicità e l’essenza sono due cose difficili da trovare e da produrre nell’arte e quando questo accadde trasmettono nello spettatore (o fruitore) una emozione fortissima… sprigionando una forza comunicativa incredibile. Questo tipo di critica penso sia una sorta di “provincialismo” che in altri paesi non considerano perché rispettano ogni genere musicale…anche se a mio avviso i generi musicali non esistono perché l’unica distinzione che si può fare è tra la buona e la cattiva musica. In questo senso più che sminuire il lavoro di autori, interpreti e musicisti questa etichetta “leggera” (in questi termini) non restituisce il vero valore in termini di rispetto e considerazione al lavoro di chi produce musica leggera. La cosa che mi sento di dire è che nella musica e nel suo processo creativo non bisogna ascoltare la critica, perché se fosse per loro non si produrrebbe mai niente o non sarebbe mai all’altezza. Invece l’artista deve andare sempre oltre…ascoltando solo le emozioni. WN: Orietta Berti è una artista POP, una voce e un marchio famoso in Italia e in molte parti del mondo, c’è il comune pensiero che essere troppo popolari non è sinonimo di qualità (io non la penso così) lei cosa ne pensa al riguardo? Essere popolare significa essere amato e rispettato da tanta gente, significa che l’emozione che hai trasmesso è arrivata, è stata compresa ed è stata condivisa da un pubblico ampio. Tutto questo può essere solo un bene, un privilegio per l’artista. Il mio caro amico Tommaso Labranca, com-


pianto scrittore e geniale autore tv, mi ricordava sempre che tutto è connesso, che “L’alto” ed “il basso” nella cultura sono sempre legati, è solo una illusione o meglio una distinzione che alcuni vogliono fare per sentirsi “elite” o per distinguersi, ma in realtà la musica e le emozioni non si possono scindere ne classificare in una gerarchia elitaria. L’emozione struggente può essere trasmessa con un brano dalla larga melodia suonato con una orchestra di 80 musicisti su un palco prestigioso, ma allo stesso tempo si può emozionare altrettanto intensamente con un brano leggero dal ritornello simpatico casomai accennandolo al pianoforte in un programma tv; perché la musica evoca ricordi, emozioni, vissuti della vita delle persone e li lega a se con una magia che è inspiegabile e a volte indescrivibile. L’emozionare è l’unica qualità da considerare nel valutare la musica. WN: Ha interpretato tanti brani che parlano della condizione femminile. Perché secondo lei certi temi fanno parlare solo se vengono interpretati dall’artista impegnato e non da quelli di “musica leggera”, la differenza

la fa veramente solo la canzone? Perché a volte si vuole costruire intorno all’artista impegnato un’aurea particolare, come se avesse l’esclusiva su alcuni temi e fosse l’ unico ad avere una visione sul mondo che ci circonda, ma non necessariamente è cosi. La sensibilità dipende dalla persona, dall’interprete che esegue il brano…non dal personaggio che gli è stato costruito addosso. Nella mia carriera ho sempre interpretato anche brani dai testi impegnati o comunque dal “sotto-testo” audaci ed

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ironici, soprattutto i brani scritti dai grandi Daniele Pace e Mario Panzeri avevano liriche che sembravano “facili” da comprendere invece tra le righe si nascondevano critiche alla società e ai cliché di quel momento storico. Penso che indipendentemente dalla critica siano stati apprezzati dal pubblico e dai miei fans, quindi per me questo è fondamentale. Ovviamente il successo di una canzone dipende da tanti fattori e sicuramente la promozione e l’appoggio della stampa può essere di grande aiuto. Diciamo che il clamore che si può “costruire” intorno ad una canzone o ad un personaggio può creare interesse, però se poi il pubblico non apprezza o non si emoziona questo clamore si spegne rapidamente. WN: Nel 1986 andò a Sanremo con il brano “Futuro” di Balsamo-Raggi. La canzone è stata con il senno di poi una prova di grande coraggio artistico, sintetizzatori e drumming sostenuto la caratterizzavano, e magari ha infranto anche il tabù che certi artisti suonino e cantino se stessi senza aggiornarsi mai e senza stare al passo con i tempi. Si, “Futuro” ebbe un grandissimo successo di pubblico e anche il caro Lucio Dalla mi scrisse un bellissimo telegramma di congratulazioni perché anche a lui era piaciuta tantissimo. Come ripeto la critica in quegli anni era un po’ prevenuta nei miei confronti e nei confronti di altri miei colleghi. Ma nella mia carriera, grazie anche ai collaboratori che ho avuto, ho sempre cercato di “sperimentare” e cambiare senza mai stravolgere la mia personalità vocale e musicale. Dalle canzoni d’amore dalla grande melodia, alle canzoni ironiche di Pace e Panzeri, alle canzoni Folk (incisi 3 dischi negli anni ’70), alle sigle tv, alle sonorità elettroniche anni ’80, alle canzoni d’autore, agli omaggi alla musica Latina e Swing…fino alla musica napoletana. Il pubblico questo lo ha sempre apprezzato e dovrò sempre ringraziarlo per l’affetto e gli stimoli che sempre mi trasmette per rimettermi in gioco. WN: Sempre su “Futuro”…. si classificò 6° ma fu un po’ snobbata dalla critica, il testo parla delle preoccupazioni di una madre sul futuro politico e sociale che aspetta ai propri figli, c’è la paura del nucleare, il Sud Africa in subbuglio ma so-


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prattutto c’è la frase “oggi è tempo di stare attenti e non parlo dei delinquenti, questa volta no c’è Pilato…è andato via”. Nella stessa edizione Sting canta la celebre “Russians” che tratta gli stessi temi e la critica lo sta applaudendo ancora adesso. Che cosa determina questo scarto nel comportamento secondo lei? È solo pura e semplice “esterofilia”? Si, penso sia stato determinato da un senso di esterofilia che spesso sia la stampa che per tutta la nostra società ha avuto sia nei gusti musicali che nelle mode dal dopoguerra ad oggi. Inoltre occorre considerare che Sting in quel momento era un ospite internazionale prestigioso e quindi occorreva elogiare lo sforzo che la produzione Rai aveva fatto in termini economici per avere più visibilità a livello di eurovisione. WN: Negli anni ’70 lei ha inciso 3 dischi dedicati al repertorio folk con brani che rappresentano l’Italia intera e uno “Zingari” che presenta brani della tradizione gitana e zingara, esempi cristallini di contaminazione musicale. In realtà era già avanti 40 anni fa? Diciamo di sì, perché le contaminazioni musicali che oggi sembrano una novità esistevano già 40 o 50 anni fa. Negli anni’70 con l’avvento dei cantautori, che erano autori dei propri testi e delle proprie canzoni, mise in ombra il successo dei cantanti interpreti degli anni ‘60. In quel momento la mia casa discografica che era la Phonogram-Philips, una multinazionale molto attenta al mercato, volle sperimentare per differenziarsi dai cantautori senza però perdere la visione sulle vendite dei dischi. Così decisero di sviluppare il progetto Folk e il progetto Zingari, ed ebbero entrambi un grandissimo successo di vendite e che, come diceva lei, sono rimasti un esempio di “sperimentazionecontaminazione” di quegli anni. In 55 anni di musica ho visto e vissuto tanti cambiamenti, mode ed evoluzioni musicali…e posso dire che malgrado tutte le contaminazioni del caso…la melodia italiana resta e rimane sempre apprezzata come il bel canto. WN: Cosa ne pensa di “Merendine Blu”, il brano nato insieme agli Extraliscio e Lodo Guenzi ? Per me la sua voce la potevano “usare” meglio…

Io sinceramente non lo so questo, per me è stato una collaborazione bellissima che è nata dietro le quinte del programma “Che tempo che fa” di Fabio Fazio. Ci incontrammo al tavolo con Lodo che era venuto a promuovere con Lo Stato sociale un loro brano. Conoscendoci è nata subito una simpatica amicizia e ci eravamo ripromessi di fare un duetto insieme. Cosi poi attraverso i ragazzi favolosi degli Extraliscio (Mirco Mariani, Moreno Conficconi e Mauro Ferrara) insieme alla cara Elisabetta Sgarbi, ci hanno proposto questo brano “Merendine Blu” scritto da Pacifico, per incontrare mondi musicali diversi attraverso la chiave del “crossover” ( o “crossovèr” come piace dire a me) su un brano “in levare” della tradizione musicale ungherese. Il risultato è stato favoloso a mio avviso: oltre alla musicalità contagiosa che ti fa ballare, ha quel senso di leggerezza nostalgico che lo rende fresco e trasversale. Poi hanno prodotto un videoclip bellissimo che abbiamo promosso in tantissimi programmi tv in Rai e Mediaset e che rappresenta davvero la volontà di essere EXTRA di questo progetto e di voler sperimentare sempre senza mai dimenticarsi le origini. Poi ritrovarsi tutti a Sanremo quest’anno in gara (io, Extraliscio e Lodo con Lo Stato Sociale) è stato come rivivere quella collaborazione…è stato di buon auspicio per tutti. Viva “Merendine Blu”! WN: Fra gli artisti giovani ci sono delle cantanti che le piacciono? Premetto che le cantanti giovani di oggi sono preparatissime e alcune di grandi doti vocali. Si vede come hanno studiato e come hanno sviluppato la tecnica oggi. La nostra generazione ha avuto dei talenti meravigliosi e la tecnica si basava su studi classici lirici per lo più. Oggi una cantante oltre a quelli può vantare studi anche sui generi di musica contemporanea che vanno dal rock, al pop, al rap, alla elettronica, etc. Quello che mi sento di consigliare alle voci più giovani è di trovare una loro personalità e una loro vocalità, che rispecchi l’italianità e non necessariamente volersi avvicinare per forza alle vocalità anglosassoni o straniere. Tra le cantanti giovani mi piacciono molto Arisa, Francesca Michielin di cui sono anche amica, ma trovo molto brave anche Noemi, Malika Ayane, Madame e tante altre.

Un grazio a Stefano Bianchi del Management di Orietta Berti a Otis Paterlini e ovviamente a Orietta. ma.st.


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La voce bambina di

MARA REDEGHIERI Intervista di Massimiliano Stoto

La voce di Mara Redeghieri ha segnato gli anni ‘90 della musica indipendente italiana. Una delle poche voci femminili, a dir la verità, che hanno caratterizzato quel momento. Dopo la fine dell’esperienza Üstmamò, un lunghissimo silenzio e il ritorno con “Recidiva” nel 2017, presentato, due anni dopo, anche in una versione plus dove l’autrice duetta con vari interpreti del panorama musicale italiano (Carboni, Berti, Ruggiero, Nannini e altri). Fra questi due momenti della sua carriera, Mara, non è mai uscita di scena ha scritto per altri, ha interpretato canzoni scomode e cantato la sua terra: l’Appennino. Per non farsi mancare niente ha anche insegnato, e insegna tuttora, e combattuto duramente per la sua salute. La disponibilità che mi ha concesso una volta presentata l’idea di questo numero e la sintonia/ironia che si è creata tramite mail, messaggi vocali e non, fra malintesi e una “proposta”, forse nuziale, non è stata comune. Fra il dubbio “ti do del tu, ti do del lei” e formalissimi “alla cortese attenzione di” etc etc…. Mara mi ha messo a mio agio in un attimo, il ringraziamento a questo punto sembra una lisciata di pelo ma è la cosa più normale che mi esce. WN: Lei è stata una delle prime donne a caratterizzare fortemente un gruppo “indie rock” italiano, ovvero gli Üstmamò. Se è vero che certo rock “mainstream” è decisamente “macho” non è che negli ambiti “alternativi” le possibilità per le ragazze fiocchino….si è mai sentita, in questo senso, una pioniera ? Non mi sono ma vista così. La mia idea di cosa volesse dire essere la ‘front woman’ di una band Indie/Alternativa/ Underground, che dir si voglia non ha mai compreso un essere femminile o maschile. Nella numerosa famiglia che al tempo raggruppavano le etichette indipendenti ‘Dischi del Mulo’ e ‘Consorzio Suonatori Indipendenti’ di Ferretti ,Zamboni e Maroccolo le ragazze erano parecchie, sia cantanti che musiciste. Quello io l’ho considerato un progetto pilota parecchio pionieristico. WN: Nel canto è stata un autodidatta ? Sì, Il mio avvicinamento al canto è stato completamente autodidatta, associato e radicato alla nascita del gruppo Üstmamò, che i musicisti Ezio Bonicelli e Luca Rossi stavano sognando da tempo, avendo iniziato a suonare assieme da adolescenti.

Photo by Lawrence Watson

“Donna di verde acerba Non ancora cresciuta Donna di vaghe attese Sono di notte fonda Cerco ciò che non trovo Mi muovo a stento Tra fili di rosespine” Da “Cuore/Amore” WN: Il canto è terapeutico ? Considero il fare musica, il canto, la danza assieme a tutte le attività artistiche creative, squisitamente terapeutiche e legate alla più profonda e vera natura del nostro animo. WN: Una domanda su gli Üstmamò….ad un certo punto vi bastò alzare i cursori delle ritmiche e inserirne di nuove per tracciare un asse, scrisse qualcuno, “tra l’Appennino e Bristol”. Era un suono che andava di moda, certamente, ma voi eravate anche altro….soprattutto contaminazione linguistica e musicale…. L’asse “Appennino Reggiano / Bristol” è legato ad quel tipo di sound con cui i nostri produttori dell’epoca, assieme ai musicisti, hanno voluto confezionare i tre album “UST”, “Stard’Ust” e “Tutto Bene”. Per quello che riguarda il contenuto concettuale dei brani, e la nostra radice culturale non mi sono spostata di un millimetro. Sempre e comunque schierata ideologicamente e personalmente, in accordo con tutto il gruppo. WN: Gli anni novanta sono stati anni incredibili, per voi gruppo ma per tutto quello che girava al mondo CSI….ha dei ricordi particolari legati a situazioni, concerti, incontri ? Beh i fatidici ‘ Anni ’90, quelli della nostra giovinezza, sono costellati di ricordi ed episodi emblematici. Direi che quello più vivido resta sempre la nostra presenza come gruppo spalla all’apertura dei concerti Italiani dell’ indimenticabile David Bowie nel 1996. WN: In “La mia generazione”, l’album di Mauro Ermanno Giovanardi che rilegge una certa scena italiana degli anni ’90, c’è un


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l’affetto” , la mia canzone d’amore più disgraziata, che chiede pietà all’amore che mi strazia. Una commistione di musica ed intento concettuale perfetta per me. La mia voce bambina, poco allineata, leggermente calante come la luna. ‘”Anni Luce”, il brano della maturità, sia canora che letteraria. Ne vado profondamente fiera. E’ stata così difficile da domare in studio, così particolare piena di sfumature e di inciampi da superare. Il racconto di una vita, di quei flash che ti passano davanti quando sembra che tutto stia finendo. Grazie di cuore. WN: Lei è un’artista ma anche un’ insegnante….i suoi allievi sono al corrente della sua arte e cosa ne pensano ? La scuola, rappresenta l’altra parte, professionale della mia vita. Mi sono sempre considerata poco insegnante, e molto ho dovuto apprendere dai miei adorati studenti, ragazzi in erba della scuola “Primaria di Secondo Grado”, come viene ora denominato il triennio della scuola media. I miei giovani ragazzi hanno un rapporto con la musica molto innocente e primordiale direi, assolutamente legato alle prime emozioni dell’adolescenza. Non hanno mai inteso a fondo come mai la loro “Prof”, rappresenti una fetta così esigua, poco famosa, laterale, decentrata della musica commerciale. Come mai non sia ricca, vestita lussuosamente, truccata, carica e aggressiva, come si conviene ad una vera Rock Star.

brano di Üstmamò “Baby Dull”. Non c’è un suo coinvolgimento diretto nel disco perché la sua parte la interpreta Rachele Bastrenghi dei Baustelle… però poi dal vivo lei ha partecipato ad alcuni live e la sensazione è stata di un grande rapporto con Giovanardi …. Non avevo mai avuto il piacere di frequentare così da vicino Mauro Ermanno Giovanardi, ‘Jo dei La Cruz’ , pur conoscendo i suoi brani e la sua musica. E’ stata una piacevole sorpresa riascoltare ‘Babydull’ dopo trent’anni, cantata in maniera così raffinata ed elegante. Ci siamo sentiti subito dopo l’invio della stesura, e ritrovati molto più vicini che allora, complici della medesima avventura. WN: “Recidiva” è un album costruito sulla parola… sulla filastrocca…ma alla base, secondo me, ha una grande interpretazione vocale... Sono molto grata alla tua considerazione e comprensione della mia nuova creatura musicale. L’album ‘Recidiva‘ mi è costato 17 anni di silenzio e meditazione profonda, anche sul fatto se riprendere di nuovo la mia avventura di cantante pop. Una nuova squadra musicale, un nuovo produttore Stefano Melone, una nuova etichetta bolognese ‘Lullabit’, nuove cose da dire finalmente. Ho dovuto aspettare pazientemente, e allo stesso tempo crescere, maturare, capire cosa fossi diventata a 56 anni ‘suonati’.

WN: Come mai ha deciso di reinterpretare “Recidiva” con il supporto di altri artisti ? ‘Recidiva +’ , nasce due anni dopo dalla idea a tavolino di Label ‘Lullabit’ e Produzione ‘Sonirik’. Una operazione strettamente commerciale, mirata ad espandere l’impatto e la conoscenza di canzoni che valgono la pena di essere riascoltate e reinterpretate con cura devota. WN: Se mi chiedessero di prendere ad esempio due brani che rappresentino bene la bellezza della sua voce e la sua bravura sceglierei “Anni luce” da “Recidiva” e “Piano con l’affetto”….due parole su questi pezzi…. Direi che hai proprio colto nel segno. “Piano con

WN: In pochi sanno che lei è anche un autrice di canzoni, “Meravigliosa creatura” della Nannini è cofirmata da lei per esempio. Ha scritto testi di spettacoli musicali e progetti che recuperano la memoria della canzone di resistenza, anarchica, di lotta e della tradizione popolare appenninica….un impegno a 360° attorno alla canzone… seguendo però sentieri tutti suoi…poco battuti…magari impervi. In questa domanda un riassunto rispettoso e nobile della mia carriera, alla quale cerco di rendere dedizione e coraggio. Essere autrice di testi per altri artisti mi costa parecchio, perché sono abituata a scrivere per descrivere me stessa. Successivamente, alla carriera iniziata con gli Üstmamò, ho voluto approfondire la mia conoscenza per il canto politico e rivoluzionario, per il canto popolare della mia terra, un percorso che racconta la storia e le vicende dell’umanità precedente. WN: Visto che su “Recidiva +” avete duettato ci spiega la vocalità, apparentemente semplice, di Orietta Berti ? La vocalità di Orietta Berti è rimasta nel tempo limpida ed esatta, proviene da una esperienza e da una padronanza che fa parte di un mondo antico oltre che ad una sua predisposizione naturale. La sua partecipazione al duetto in “ Cupamente” è durata un quarto d’ora appena in studio, dove tutte le ‘take’ erano perfette. Una emissione di voce invariata nel tempo ancora brillantissima. WN: Ora l’ultima fondamentale domanda, come mai è nata a Verbania ? Una fanzine di Verbania….che incantevole sorpresa!!! I miei genitori si sono trovati lì , entrambi emigrati dalla loro terra di origine per lavoro, dall’Appennino e dalla pianura reggiana. Siamo ritornati in Appennino quando io avevo a otto mesi, e quindi poco serbo in ricordo delle mie origini Piemontesi. Ma tutte le volte che le sento nominare mi tornano in mente mio padre e mia madre, giovani e poverissimi, impegnati a regalarmi un futuro che mi scagionasse per sempre dalla miseria che loro avevano ben provato.

Foto di Debora Costi


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Giuni e la “Matta”

di Stoto Massimiliano

L’uscita, praticamente nel 2021, di due dischi diversissimi fra loro nella concezione, uno è una raccolta, “Aliena” di Giuni Russo, e l’altro la registrazione di un concerto, “Empatia” di Antonella Ruggiero, mi dà l’occasione di parlare di queste straordinarie artiste italiane e della loro voce irreale.

GIUNI RUSSO Un’ indimenticabile aliena

ANTONELLA RUGGIERO Nel Bazar della “Matta”

E già, con la voce che possedeva, a molti, Giuni Russo sarà parsa anche più di un’ aliena. E parecchi di quei molti, se la ricordano, esclusivamente ad ogni scoccare d’estate, quando si ritrovano a canticchiare la notissima “Un’estate al mare” perché “Alghero” è già più difficile e meno popolare. L’uscita di “Aliena - Giuni dopo Giuni” è un’altra bellissima occasione per conoscere questa incredibile artista, la sua musica e le sue bellissime canzoni. Per la sua voce ho invece esaurito gli aggettivi. “Aliena” è una raccolta di dieci pezzi, ne presenta sei rimasterizzati e quattro assolutamente inediti. Avviso per i naviganti, il disco non contiene Hit commerciali del suo passato, ma solo brani editi dopo la sua scomparsa nel Settembre del 2004. Dicevo che quattro di questi sono assolutamente inediti e portano i titoli di “Gli uomini di Hammamet”, che vede Pino “Pinaxa” Pischetola alla programmazione di sequenze e ritmi e Marcello Quartarone alla voce narrante per un testo ispirato da uno scritto di Cosimo Damiano Dingeo, il brano viaggia tra ritmi e atmosfere arabeggianti che rendono perfettamente l’atmosfera del testo. “La forma dell’amore” e “Song Of Naples (O sentiero d”o mare), occupano la po-

Pensi a Antonella Ruggiero e la prima cosa che ti viene in mente è Matia Bazar, il gruppo in cui ha militato per quindici anni, con cui è diventata famosa e ha scritto canzoni memorabili. Quando al fans medio “indie-rock”, viene in mente Antonella Ruggiero, l’associa a “Ti sento” e si ricorda di aver ascoltato quel pezzo e di non averlo apprezzato poi molto….ma poi, dopo che i Pet Shop Boys ne han cantato le lodi….bè in effetti...ragiona….e pensa: “è un grande pezzo”. Inesorabilità italiche. Antonella Ruggiero da Genova, studentessa d’arte, appassionata di grafica e cantante per diletto, incontra i Jet, in pratica la prima fase dei Matia Bazar, nel 1974 con cui collabora per un suo 45 giri che uscirà con il nome d’arte Matia, termine che in dialetto genovese significa Matta, e con lo stesso gruppo collabora, non accreditata, al disco “Fede, speranza, carità”. Poi nel 1975 nascono i Matia Bazar. I Matia Bazar con Antonella Ruggiero sono stati un gruppo, molto interessante, negli anni passati insieme hanno presentato dischi più che degni, scritti molto bene, con sonorità che cavalcavano benissimo le mode del momento, passando dal progressive al free rock, dalla canzone pop a quella melodica e raffinata, assorbendo sonorità sintetiche e dance. Un percorso, anche commerciale per certi versi,


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sizione tre e quattro nella track list. La prima è arrangiata da Stefano Medioli con alla chitarra Riccardo Onori, è una canzone melodica con un drumming sostenuto e slanci liberatori della voce. Questo pezzo è anche presente in una versione demo come ghost track al termine del disco. La seconda è una canzone in dialetto napoletano, dedicata a Pietro, il padre di Giuni Russo. E’ un pezzo atmosferico e sognante dove inevitabilmente la voce ha un ruolo assoluto e con leggerezza sale sul sentiero del mare. Per ascoltare l’ultimo inedito bisogna saltare alla track 10, dove troviamo “Pekino” una serie di vocalizzi che non sono altro che sensazionali improvvisazioni eseguiti nella lingua dell’antica “Opera di Pechino”, che è “solo” patrimonio dell’Unesco. Tutto il disco però ha un taglio “world” che sposa benissimo lo spirito e il canto libero di questa donna aperta a mille influenze figlia di una terra, la Sicilia, che è uno storico crocevia di culture. Così le trame arabe le troviamo anche in “Sharazad”, mentre quelle latine le troviamo in “Para Siempre” e “Non voglio andare via”, nei sapori elettronico gregoriani anni 80/90 di “Cercati in me”, nei passaggi esotici di “La sua voce (Come sei bella)” e infine nella canzone italiana melodica all’acqua di rose, ma di livello, di “Tu che ne sai”. Questo progetto è stato prodotto da Maria Antonietta Sisisi, compagna di una vita di Giuni Russo e co-autrice di moltissime canzoni, in collaborazione con l’Associazione Giuni Russo Arte e la Warner Music. Il disco presenta molti dei collaboratori preferiti da Giuni: l’ingegnere del suono Pino Pinaxa Pischetola di cui ho già detto e di cui vale la pena citare solo due nomi con cui ha lavorato, Battiato e Depeche Mode, per misurarne la statura, il chitarrista Riccardo Onori, il violoncellista Marco Remondini, oltre ad alcuni arrangiamenti di Alberto Radius. E’ una raccolta che di minimo offre il piacere di riascoltare la voce di Giuni Russo, i fans conosceranno gran parte dei pezzi e forse per loro il disco sarà un po’ meno sorprendente, ma i neofiti da “Un’ estate al mare” avranno di che sorprendersi. Fra i tipi da spiaggia che mulinano le braccia sugli “ombrelloni-oni-oni” ho avuto il pregio di annoverarmi anche io per anni, poi ho avuto il piacere di scoprire il podcast

ma sempre eseguito con stile e ragione d’essere. Un percorso caratterizzato dalla voce inconfondibile di Antonella, capace di cantare praticamente tutto. Ma voglio partire da “Empatia” il disco dal vivo uscito sul finire del 2020 e poi tornare, sul finire dell’articolo, sui Matia Bazar. Da tempo Antonella Ruggiero ha deciso di esprimersi attraverso scelte artistiche coraggiose, la sua uscita dai Matia Bazar oramai trent’anni fa è stata una scelta non comoda, che l’ha messa di fronte a nuove sfide e soprattutto a rimettersi in gioco artisticamente. Tutto quello che esce a suo nome passa da Libera Music un’etichetta fondata in occasione del suo ritorno al canto nel 1996, dopo una pausa di sei anni, con l’album che porta lo stesso nome “Libera”. Per Libera Music è uscito anche “Empatia” che è l’ottavo album live in dodici anni dell’artista, tutti live molto diversi fra loro a dimostrazione della duttilità esaltante della sua voce. L’occasione per ascoltare questa nuova performance è la registrazione dell’ultima esibizione dell’artista prima del lockdown dell’anno scorso. E’ un concerto tenuto a Padova nella Basilica di Sant’Antonio e dedicato al mondo del volontariato, la scaletta presenta quindici brani del repertorio popolare e sacro. La Ruggiero ha presentato in questa occasione unica, l’inaugurazione di Padova Capitale Europea del volontariato 2020, una scaletta che concede poco al “pop” se non qualche disgressione nel repertorio suo e dei Matia Bazar. C’è “Cavallo Bianco” famoso pezzo dei Matia e poi “La danza”, “Il viaggio” e il brano che portò a Sanremo in solitudine “Echi d’infinito” fra i suoi. Il resto sono canti appartenenti a un genere, direi “spirituale”, che abbraccia pezzi di De Andrè “Ave Maria” e “Creuza de Ma”, l’inno latino “Veni Veni Emmanuel”, “Deus Ti Salvet Maria” canto devozionale di origine sarda o “Respondemos” un’ invocazione in latino eseguita da Antonella Ruggiero nell’ambito di un suo spettacolo di rilettura della musica ebraica, eseguito anche nell’unica sinagoga di Berlino sopravvissuta alla Notte dei Cristalli. La registrazione è molto intensa e focalizzata sull’attenzione dell’ascoltatore, in fase di mixaggio gli applausi tra un brano e l’altro sono stati tolti e gli arrangiamenti dei brani sono stati realizzati cercando di evidenziare gli interventi più significativi di ogni strumento, rendendo il più essenziale possibile ogni esecu-


della rivista “Blow Up”, nella serie “Ripeschiamoli”, dove Piergiorgio Pardo presentava e spiegava quel capolavoro indiscusso che è “Love Is A Woman”, ovvero l’esordio assoluto su long playing e in lingua in inglese, di Giuni Russo, all’epoca Junie Russo. Ma vediamo cosa c’è stato prima del ‘75. Giuni nasce Giuseppa Romeo a Palermo il 10 Settembre del 1951, ma forse era il 7 o il 6, l’approssimazione in casa Romeo era all’ordine del giorno. E Giuni non la digerì mai. Il padre è un pescatore che fa un po’ di fortuna, la madre fa la casalinga anche perché deve badare a dieci figli di cui Giuni è la penultima. Abitano nel quartiere portuale vicino al Teatro Lirico di Palermo, il Politeama. La madre però ha una grande passione che non potrà mai praticare perché sposa il padre di Giuni appena quindicenne: il canto. Canta sempre in casa, potrebbe essere un soprano lirico dicono in molti e Giuni ne resta abbagliata tanto che fin da piccola dirà sempre di voler fare la cantante. Si iscrisse a un corso di chitarra al Conservatorio e si pagò le lezioni di canto del professor Gaiezza lavorando in un fabbrica di aranciata, riempiva le bustine per fare l’aranciata casalinga. Determinatissima trovò modo di esibirsi ben presto in situazioni di fortuna e all’oscuro della famiglia, ma quando fu scritturata la prima volta per ben tremila lire, dopo aver cantato “Girl” dei Beatles, la farsa finì e ottenuto il beneplacito del padre, la carriera finalmente cominciò. Ebbe inizio con l’auto iscrizione al Festival di Castrocaro del ‘66, nella sezione “Voci Nuove”, si comportò benissimo ma non potè partecipare alle finali in quanto troppo giovane. L’anno dopo vinse a mani basse e ottenne un contratto con la EMI. Quando arrivò a Milano nel Dicembre del ‘67, era la terza volta che arrivava in continente, c’era da preparare Sanremo ‘68 e Giuni Russo, all’epoca Giusy Romeo, si mise senza batter ciglio nelle mani dei discografici che scelsero per lei una canzone “No amore” firmata dal duo Intra/Pallavicini ma che in realtà fu proposta da Paolo Conte. Abbinarono la giovane siciliana a Sacha Distel, a quel tempo al Festival si partecipava a coppie, più noto per essere il ragazzo di Brigitte Bardot che per le sue doti canore. La canzone era troppo sofisticata per il pubblico di Sanremo, molto “francese e jazz”, e così Giuni venne eliminata. Nell’estate di quell’anno però si smazza La cover di “Love Is A Woman”

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zione. In questo concerto Antonella è accompagnata da Roberto Colombo (vocoder e organo liturgico), Maurizio Camardi autore anche di due brani presenti in scaletta l’iniziale “Nos Padre” e “Armaduk”, lui suona saxofoni, duduk e flauti, e un quartetto di musicisti acustici che si chiama “Sabir” composto da giovani musicisti e che vede Alessandro Tombesi (arpa), Ilaria Fantin (arciliuto), Annamaria Moro (violoncello) e Alessandro Arcolin (percussioni) che nelle bonus tracks eseguono brani autografi. Inutile dire che il concerto e la registrazione è di un livello intenso, chiaramente l’interpretazione esprime una musicalità mirata, altamente spirituale e evocativa, una tecnica pazzesca e poco “divertente”, che necessita di un approccio consono per essere completamente apprezzata e che richiede una predisposizione raccolta e attenta. Non è musica da spiaggia. Ma questo viaggio nella riscoperta della Ruggiero, voce che non poteva assolutamente essere esclusa da un numero tematico sulla vocalità femminile, mi ha fatto scoprire altre cose sulla sua “seconda” carriera. Innanzitutto che la sua vocalità, travalica i confini italici e abbraccia un respiro internazionale che le rende merito e in cui è molto conosciuta e mi ha fatto scoprire un’artista che negli anni non si è mai fermata e ha fatto della ricerca spirituale e musicale una costante della sua arte canora. Mi sono procurato, per avere un riassunto veloce della sua produzione, un cofanetto di sei CD intitolato “Quando facevo la cantante” che in sei sezioni come i CD contenuti, riassume e concentra tanto del lavoro fatto dal 1996, anno del suo ritorno, al 2018. Centoquindici brani che raccolgono registrazioni in concerto e in studio, di brani mai pubblicati finora nella sua discografia. Sezioni che sono divise nelle seguenti categorie: “La canzone dialettale e popolare” che racchiude, tanto per darvi qualche assaggio “Crapa Pelada”, “O mia bela Madunina”, “Tapum” e “Vola Colomba”, “Le mie canzoni” dove ci sono dei pezzi dei Matia con degli arrangiamenti sensazionali p.es. “Vacanze Romane” o “Ti sento” ma soprattutto della sua carriera solista, “La canzone d’autore” dove la Ruggiero prende in carico pezzi come


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tutti i vari Festival al termine dei quali parte per un tour in Giappone, remunerativo ma stressante. Al ritorno dall’Asia le cose si complicano. Giuni comincia a sentirsi poco valorizzata dalla EMI, il manager che l’ha voluta viene sostituito, anche se la stessa etichetta la manda in tour negli States nell’inverno del ‘69. Il 1970 la vede barcamenarsi a Milano un po’ in depressione e senza tanti soldi, andrà in tour con Albano e Romina, frequenterà delle politicizzate scuole serali e dentro di sé non coltiva più tante speranze di sfondare anche se ha già fatto l’incontro decisivo sia per la sua carriera che per la sua vita, che la sosterrà fino alla fine. Prima della partenza per Stati Uniti e Canada, infatti, in un locale “proibito”, ha conosciuto Maria Antonietta Sisini. Costei era una ragazza sarda che abitava con la madre a Milano, suonava di nascosto la chitarra in un gruppo e fu semplice per le due ragazze entrare in sintonia avendo la stessa passione. Dopo il tour con Albano e Romina, nell’ ambito di un “riassetto aziendale”, la EMI non le rinnova il contratto. Negli anni successivi fa un po’ la corista per Celentano e per Il balletto di Bronzo, torna a cantare in estate in Sicilia dove è richiestissima ma alla fine decide di emigrare in Germania, dove anche Antonietta la seguirà. L’esperienza dura poco e al ritorno in Italia prende la decisione di provare a cantare la lirica e trova un posto nel coro del Teatro Massimo di Palermo. In questo periodo tutti gli studi con il maestro Gaiezza torneranno a galla e verranno affinati ancor di più, anche se il direttore del coro le ripete che “una voce come la sua è sprecata per cantare in un coro”. Le canzoni che Giuni esegue quando “prova” per la prima volta con il gruppo dove suonava Maria Antonietta furono “Save Me” e “Chain Of Fools” di Aretha Franklin. Aretha e Maria Callas, Maria Antonietta e Giuni

pur appartenendo a generi distanti fra loro furono sempre due riferimenti importantissimi per la nostra ragazza siciliana e la dimestichezza nell’uso della lingua inglese fu un altro tassello decisivo. Elemento fondamentale nello sviluppo di quel capolavoro che si chiamerà “Love Is A Woman”. Nel 1974, fu il manager che la convinse a tornare a Castrocaro dopo la prima delusione, Pietro Vitelli, a proporre il suo nome a Alfonso Ponzoni della BASF Italia. La BASF produceva i nastri magnetici delle cassette e voleva provare a il mercato discografico. Decisero di azzerare la carriera di Giuni precedente a quel momento, volevano produrre un disco e un’artista dal respiro internazionale, coniarono il

“Impressioni di Settembre”, “Parlami d’amore Mariù”, “La sedia di Lillà” e “Auschwitz”. “Canzoni dal mondo” con “Coimbra” un brano appartenente al genere portoghese del Fado, così come la “Balada do sino”, entrambi sono pezzi portati al successo da Amalia Rodriguez , “Alfonsina Y el Mar” riemersa e conosciuta nei miei ricordi in un disco degli Orsi Lucille di tanti anni fa e il classico evergreen “Summertime”. “Il sacro e il classico” con brani che ripercorrono il senso di “Empatia” e infine “Le stranezze” che è l’ultimo cd del lotto e raccoglie registrazioni di brani eseguiti una volta sola in progetti eccezionali e con collaborazioni uniche. C’è “Papaveri e Papere” con la Banda Osiris, “Madredea” che è un pezzo scritto da Mara Redeghieri per “Recidiva” e interpretato in “Recidiva +” con Antonella Ruggiero. Qui è presente in una versione differente. C’è “L’esigenza” con i Radioderwish, “Aleppo” con Arké String Quartet e una cover pazzesca “Luglio, Agosto, Settembre nero” degli Area al Conservatorio a Milano nel 1999. Per la varietà di stili interpretati, per il livello interpretativo quest’ultimo cd è il simbolo che riassume tutta la ricerca e il lavoro svolto da Antonella Ruggiero in quella parte di carriera che è stata meno popolare ma, visto cosa dice nelle interviste che ho letto, ben più soddisfacente. Libertà d’azione e di pensiero questo è la base della ricerca del lavoro di Antonella Ruggiero, con i Matia Bazar le cose vanno a morire perché la consolidata routine disco, tournèè, passaggi televisi ad un certo punto diventa una prigione. Antonella è negli anni ‘70 una ragazza che ascolta Beatles e Kraftwerk, che è ammaliata dal suono cosmico tedesco, è una che vuole osare, e per certi versi lo farà perché in tanti dischi dei Matia Bazar ci sono perle assolute che meritano di essere riscoperte e che nel tempo non hanno fatto altro che vivere nell’ombra degli innumerevoli “greatest hits” e “essentials”. Sono andato a cercare fra queste raccolte, io ne ho una meravigliosa comprata in autogrill, e alla maniera di Kurt Logan e dei suoi dischi assurdi, partoriti da una fantasia che lambisce il trash, ho eliminato tutte le canzoni top che conosciamo tutti, e ne ho scovate undici, una per ogni disco dei Matia Bazar uscito con Antonella come cantante , che vale assolutamente la pena di riscoprire. E’ obbligatorio partire dai “Io, Matia” il pezzo che in origine era il lato B


nome Junie Russo. Giuni e Antonietta composero nove delle dieci canzoni, aiutate nella traduzione da Mike Logan, che compone un brano “Every Time You Leave” a completare la track list. E’ un album che non avrà il successo che tutti si aspettavano, da lì a poco anche la BASF Italia chiuderà i battenti e gli ottimi propositi finiranno per perdersi. Ma come nelle più tristi storie un fiore meraviglioso fu il risultato. “Love Is A Woman” è un disco incredibile per quel tempo, coniuga la voce stratosferica dell’interprete, il soul e il rhythm ‘n’ blues che stanno mutando nella disco, il jazz e pennellate di progressive. Un cosa che per il mercato discografico italiano era un improponibile, distante, aliena. Era veramente un operazione dal respiro internazionale e mostrava un’artista ventiquattrenne che aveva una dannata voglia di imporsi e di cantare. Il senso di straniamento che può salirvi al primo ascolto è del tutto giustificato dalla ammaliante title track e quel flauto traverso che svolazza a “Milk Of Paradise” che parte con assolo prog che lancia la voce, e più avanti è viceversa, e fra le parti un piano jazz lega tutto. Fuori di testa. “Every Time You Leave” è una pezzo di alto livello che non centra nulla con i primi due, ambisce ad essere un pezzo di grande caratura e in parte ce la fa anche se mi sembra che sia l’interpretazione a salvarlo, si sente anche che è l’unico non scritto dalla due ragazze. “Carol” parte come un lento da night club ed esplode nei mille colori della voce. “Suddenly I’m Alone” pare un duello fra sax e voce, ma poi il sax s’arrende, i toni qui sono molto black. “Acting The Part” ha venature jazz e refraim killer. “Give One Reason” ha una struttura d’atmosfera che si fa travolgere dalle impennate furiose di Giuni che qui con la voce, sembra fare del prog, quasi senza controllo. “I’ve Drunk My Dream” sembra un blues ruspante dove Giuni ricama le parole con al voce. Un incantevole nenia sognante. In “If You Wanna Really Say Goodbye” la voce viene accompagnata da un bell’arrangiamento d’archi e la voce esprime tutta la sua potenza in diverse modula-

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del vero esordio di Antonella Ruggiero, che allora si firmava Matia, il 45 giri che ho menzionato all’inizio dell’articolo e che aveva sul lato A “La strada del perdono”. Il brano finisce anche sull’esordio dei Matia Bazar, è il penultimo del lato B del 33 giri. Sostenuto da chitarre, organo e lieve percussioni è una sfida impari fra l’armonica e i vocalizzi impressionanti di Antonella che esplodono nel finale. Dal secondo LP “Gran Bazar”, che è un taglia e cuci fra brani dal vivo e pezzi vecchi e nuovi, vale la pena ripescare la cover di “Yesterday”. Se l’arrangiamento sembra un po’ scanzonato, vi lascio immaginare cosa succede quando nella seconda parte del brano è lei a liberare la melodia in un finale in technicolor. Il pezzo “E’ magia” in realtà compare in un lontana raccolta del 1983 uscita per la Oxford ed è un pezzo tratto dall’album “Semplicità” del 1978. Grande atmosfera per un brano cantato quasi tutto in falsetto con una classe superiore. Anche il quarto pezzo scelto, “Ragazzo in Blue Jeans” è presente nella raccolta della Oxford che rappresenta molto bene il primo periodo della band. E’ un pezzo tra la ballata e il melodico che sale di forza quando la voce della Ruggiero si fa aggressiva. In questo pezzo si può paragonare la performance della cantante ligure con l’istinto espressivo della prima Bertè, anche se qui l’interpretazione, anche nelle parti più rock, appare più controllata e calibrata. Sebbene più soft e raffinata del brano precedente, “Una persona normale” estratta da “Il tempo del sole”, si distingue per i vocalizzi della parte finale, che liberano la solita tecnica vocale impressionante. “Stella Polare” tratta dal primo disco “elettronico” della band quel “Berlino, Parigi, Londra” del 1982, presenta potenti slanci melodici e aggressivi, contrappuntati a parti liriche che in un disco pop non è proprio semplice sentire e inserire, né allora e nemmeno al giorno d’oggi, che stilisticamente vale tutto o la copia di tutto. “Tango” il disco che contiene l’epica “Vacanze romane”, è un disco che spiazza. Se non ci credete potete accostare il brano più famoso a “Elettrochoc” e poi mi dite. Da questo disco, fra le misconosciute, estrarrei “Tango nel fango” che ripresenta di fatto lo stesso esercizio anni ’50 di “Vacanze Romane” ma con meno fortuna e più ironia. Un gioiellino. Fra i dischi meno popolari


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zioni e parti. “Vodka” esprime la felicità del canto, fra il coro iniziale liberatorio, un assolo acido e la voce free che si libera e riprende il tema principale. Torna lo straniamento iniziale e il finale in libertà è sfumato e sembra durare per sempre. Il disco originale ha prezzi folli sul mercato ma per fortuna è stato ristampato diverse volte negli ultimi anni quindi se vi siete incuriositi vi dico che merita assolutamente l’acquisto e l’ascolto. In finale posso dirvi che non voglio passare per l’esperto di Giuni Russo come nell’epoca di internet verrebbe facile farsi passare, ho conosciuto “Love Is A Woman” nei modi che ho detto, ho letto il libro di Bianca Pitzorno uscito per Bompiani e comprato nel tempo solo, “Aliena” e “Armstrong” il disco che nel titolo omaggia proprio il grande Louis, che al Festival di Sanremo del ’68 regalò il bocchino d’argento della sua tromba dopo un duetto improvvisato nella hall dell’albergo dove risiedevano entrambi. Giuni non se ne sbarazzò mai nonostante le altissime offerte ricevute dai numerosi collezionisti. Offerte che in qualche momento avrebbero potuto anche risolverle qualche problema economico. “Armstrong” è un bel disco, presenta i nastri originali, che girarono a suo tempo illegalmente, di pezzi registrati negli anni’80 prima che Giuni diventasse famosa. E’ uscito in doppio cd con i brani riarrangiati da Stefamo Medioli e mixati da Pischetola e nelle versioni originali. In un numero di WN così impostato non si poteva non parlare della voce di Giuni Russo, la sua storia ha un’infinità di altre sfumature che varrebbe la pena di raccontare e di canzoni da scoprire, magari avrò un’altra occasione per parlarvi della sua voce incredibile e di qualche disco in più.

ma più belli dei Matia Bazar, c’è “Aristocratica”, un disco impostato dall’inizio alla fine in maniera elettrosynth-pop. Un treno di canzoni che hanno un suono e sono modellate su questo standard. E’ molto difficile trovare uno dei pezzi di questo disco nei greatest hits sull’A1, io vi propongo il brano che apre il disco “Sulla scia” un brano con reminiscenze arabe dove la Ruggiero passa dall’improvvisazione al ritornello pop con la leggerezza di una farfalla. “Melancholia” del 1985 è il disco aperto da “Ti sento”, qui rispetto al disco precedente il suono si perde un po’ e c’è più varietà negli stili dei brani proposti. Da questo disco non brillantissimo non si può non menzionare le modulazioni vocali di “Angelina”, dopo “Ti sento, il brano più complicato vocalmente della raccolta. Introdotto dagli standard classici “Noi” e “Mi manchi ancora” l’album “Mèlo” del 1987 ci offre un gruppo con un suono più robusto. In questo disco non si può prescindere da “Oggi è già domani...intorno a mezzanotte” che non è nient’altro che la cover di “Round Midnight” il famoso pezzo jazz degli ‘40. Eseguito strumentalmente senza fronzoli con un arrangiamento all’altezza, è letteralmente esaltato dall’interpretazione della vocalist. E Infine dall’ultimo disco dei Matia Bazar cantato da Antonella Ruggiero, ossia “Red Corner” non posso che estrapolare “L’era delle automobili”, il pezzo che chiude il disco. Un sogno, un canto, una liberazione che riassume un percorso artistico che ora si può dire compiuto. La ragazza minuta che cantava per diletto e che, almeno all’inizio, è stata autodidatta ha imparato tecnica a iosa, e ora è pronta a camminare da sola. Molto umilmente mi sono immerso nella musica di un gruppo che da ragazzo ho amato molto, e che negli anni ‘80 non potevi “popolarmente” non amare o non conoscere. Un gruppo che ha espresso, questo l’avrete capito, una delle voci più trasversali e uniche della musica italiana di sempre. ma.st.

ma.st.

...dal n°53 -

I POSSIBILISTI: Ancora NICK CAVE !!!

In merito al quesito che ponevano nella rubrica “I Possibilisti”, sul numero scorso, e sul fatto che Nick Cave con tutte le sue menate sulla Bibbia, le sue bestemmie, il peccato originale e quant’altro ci ha preso in giro per anni, ci ha risposto Padre Ralph prete irlandese traferito per insubordinazione a Gillanbone in Australia, dove a suo dire, ha incontrato e stretto amicizia spirituale con il nostro caro Nick fin dai tempi della sua tarda adolescenza. Ebbene le parole di Padre Ralph non sono riproducibili interamente in quanto molto violente. Nella sua lettera si scaglia contro la nostra redazione invocando la punizione divina per noi e addirittura la morte per Kurt Logan. Motivando tale reazione violenta come sacrosanta risposta “alla vostra ipotesi che Nick Cave usi nell’interpretare e parlare dei testi sacri e di Dio, una leggerezza banale e oramai stancante”. “Parole distanti galassie dalla spirito della nostra Chiesa”, queste le parole arrivate in nostro sostegno dal vice sostituto vescovo Jean-Peter Posthelvite della diocesi di Maitland-Newcastle, aggiungendo anche che “lo sanno tutti che Padre Ralph dopo aver ereditato 13 milioni di sterline e aver visto Maggie cresciuta non ci ha capito più una mazza.” Abbiamo comunque incaricato il nostro avvocato di procedere per vie legali e denunciato il fatto presso le autorità.


DISCHI DI ULTIMA GENERAZIONE

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MADAME RHIANNON GIDDENS ANNA B. SAVAGE RACHELE BASTRENGHI MADAME - same (Sugar / Universal, 2021) 16 tracce x più di 46 minuti. CD acquistato c/o Ipercoop Gravellona Toce € 16,90

Questo di Madame è uno dei dischi del 2021 che ho ascoltato di più finora. Lo dico senza nascondermi e credendo molto nelle doti della giovane Francesca Calearo, uno dei personaggi più interessanti usciti dal panorama italiano negli ultimi tempi. La sua proposta rap e definita “urban” che flirta in sostanza con generi come la trap, lo stesso rap e echi soul e rhythm ‘n‘ blues ha un suono fresco, convincente e maturo, considerando che si sta parlando di un’artista appena diciannovenne. Evidentemente il lavoro di produzione e il team che l’ha reso possibile ha ben indirizzato gli sforzi. Madame ha anche partecipato al Festival di Sanremo 2021, presentando il pezzo “Voce” in gara (è giunta ottava in classifica) e il pezzo “Prisencolinensinainciusol” di Adriano Celentano nella serata dedicata alle cover. Anche se proprio questo pezzo ha messo in mostra un ottimo approccio alla materia soul e R&B, aspetterei ancora un poco a definire la sua voce come una di quelle destinate ad avere un grande futuro. La “colpa” è tutta dell’autotune che seppur senza eccessi è abbastanza utilizzato dalla ragazza in molte canzoni del suo primo disco. Disco che mette in mostra una grande capacità di scrittura da parte di Francesca, ottime collaborazioni, qualche passo falso e una fotografia nitida delle fragilità degli attuali adolescenti. Manca il coraggio di una produzione affidata a un unico nome (una delle risposta di Phra in fondo alla recensione supporta la tesi) ma è indubbio che molti singoli funzionino e che probabilmente in questa fase si sia scelto un taglio più commerciale per spingere l’artista e sfruttare al massimo la ribalta sanremese. Ma veniamo al disco…ottimi i singoli che ne fanno da traino, il pezzo di Sanremo “Voce” e “Il mio amico” scritto con Fabri Fibra. Con l’iniziale “Istinto” formano un terzetto che segna il territorio. Specialmente “Istinto” e “Voce” hanno il pregio di presentare lo “spleen” di Madame, stile di parole, umori e musiche che facciamo molta fatica a trovare in pezzi facili e superficiali come “Bugie”, “Babaganoush” e “Dimmi ora” ma che per fortuna si dimenticano facilmente e le stimmate da gran dama le ritroviamo poi in tutto il resto del disco da “Clito” la traccia nume-

ro 7 a “Vergogna” la 16. La forza di questo esordio sta nelle parole della giovane vicentina che non trema a raccontarsi in modo esplicito, che non arretra di fronte al baratro che ha dentro e sotto i suoi piedi. Anzi lo esorcizza buttandolo tutto fuori. La produzioni musicale poi alza il livello penso al lavoro di Bias e Crookers che segna tutti i pezzi migliori, il suadente stile di “Mood”, il ruvido avvitamento di “Clito”, la subacquea “Nuda”, l’intenso rappato di “Bamboline Boliviane” che è preceduto da un magnetico intro. L’accoppiata “Mami Papi” e “Baby” è da tappeto alla prima ripresa e perfetto Crookers style. “Luna” il pezzo con Gaia, vince il premio di pezzo easystyle, un pezzo semplice ma funzionale e divertente. Il trittico finale è un pugno allo stomaco, “Amiconi”, “Tutti Muoiono” e “Vergogna” riportano l’astronave Madame sulla terra a fare a botte con invidie, realtà e vita vissuta. Madame è lontana dalla collana di perle che sfoggia sulla cover del disco, dalle spalle nude e dal luccichio della scritta, mi piace immaginarla incappucciata e arrabbiata che si aggira in strade poche illuminate sola, disperata, bella e reale come tutti i “millenials”. Un personaggio sorprendente e un disco che mostra un grande talento. A seguire qualche tre domade a Crookers che ha curato la produzione di quattro brani del disco. 1) Ciao Phra grazie per la cortesia ….conoscevi già Madame prima di lavorare sui suoi pezzi cosa ti piace di lei? Phra: No non la conoscevo prima, l'avevo solo sentita nominare ma senza prestare molto caso alla sua musica già uscita, come molte volte mi capita. Di lei mi piaceva la iniziale libertà di genere musicale che voleva esprimere. 2) Il lavoro sui brani è stato fatto tramite una collaborazione diretta oppure a distanza? Phra: Entrambe, ci siamo sia visti in studio che lavorato a distanza durante il lockdown. 3) Ho la sensazione che il tuo lavoro nel disco sia marcato. I pezzi su cui hai lavorato aprono e chiudono il disco e due sono in sequenza al termine di una ipotetica parte centrale. Tra l'altro mi sembrano anche i pezzi con i testi più duri. Che tipo di approccio musicale hai avuto su questi brani? Phra: In realtà inizialmente avrei dovuto curare l'intera direzione artistica dell'album, ho 13 provini prodotti da me nel mio computer, poi un pò per la distanza dovuta alla pandemia, i tempi che sono cambiati, e probabilmente per stare più "safe" nel mercato Italiano hanno tenuto solo 3 tracce completamente prodotte da me. Il mio approccio lavorativo in tutti i brani a cui lavoro è quello "libero”, come “sento” poi faccio e spero sempre di far felice l'artista x cui lavoro al momento.

RHIANNON GIDDENS (with Francesco Turrisi) - They’re Calling Me Home (Nonesuch Records, 2021) - 12 tracce, durata: 46 minuti meno un secondo. CD acquistato c/o Carù Dischi Gallarate € 17,50 Album nato in periodo di lock down nei dintorni di Dublino “They Are Calling Me Home” è il terzo album solista di questa bravissima cantante, in passato membro dei Carolina Chocolate Drops e anche attrice nella quinta e sesta stagione della serie americana “Nashville”. L’album è cofirmato con Francesco Turrisi, un polistrumentista piemontese a cui ho potuto rivolgere qualche domanda sul disco e che ringrazio molto per la disponibilità concessami. Veniamo al disco che presenta principalmente la rilettura di brani traditional e cover e un solo brano “Avalon” che è scritto dall’interprete principale. Si respira una aria magica in queste 12 tracce, certo non è un disco sorprendente ma è un disco fa una proposta musicale di altissimo livello e con belle idee, a questo proposito è vibrante e teso l’arrangiamento per la rilettura di “Amazing Grace” che chiude il lavoro. Le grandi doti vocali di Rihannon oltre ad essere conosciute e stimate si esaltano a interpretare pezzi che appartengono alla sua terra, lei è americana del North Calorilna, quindi “Calling Me Home” di Alice Gerrard, la canzone di protesta americana “I Shall Not Be Moved”, “O Death”, “Waterbound” sono essenziali mentre tutti gli altri pezzi, esclusi quelli in italiano, risentono di un’influenza irish che di certo non li penalizza, anzi, ma crea un’ atmosfera che spezzetta il disco in un saliscendi fra stili e influenze. Ho parlato di pezzi in Italiano perché il duo presenta con risultati meravigliosi “Si dolce è ‘l tormento” di Claudio Monteverdi compositore italiano vissuto tra 16° e 17° secolo e “Nenna Nenna” una ninna nanna pugliese. Incredibile la bravura della Giddens e la sua prova interpretativa sul canto e la dizione, se non si sa chi canta non si pensa certo a una ragazza nordamericana. Il disco è suonato da chi ne porta la firma, le collaborazioni esterne sono minime (flauto irlandese e cornamusa)


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mentre il resto della strumentazione è acustica e vede l’utilizzo di fisarmonica, viola, cello e minstrel banjo e le percussioni del Calabash. Un disco che guarda un po’ al passato della Giddens, la tradizione da cui proviene ma che cerca anche di abbracciare nuove influenze. Forse è l’inizio di una nuova fase della sua carriera, che potrebbe intraprendere un percorso di “world music” e magari anche un’impostazione di canto diversa, mirabile e perfetto l’approccio da canto lirico di “When I Was My Prime”. D’altronde le capacità tecniche a disposizione della sua voce sono evidentemente notevoli. Come accennato poc’anzi, il legame fra i pezzi risulta un po’ frammentario, ma è anche vero che chi si interessa a un disco di questo genere, al centro c’è la voce e l’interpretazione, le canzoni e il legame fra esse viene dopo. Nell’ambito di un discorso sulla vocalità classica, “They Are Calling Me Home” è uno dei dischi più interessanti usciti nel 2021 e senza dubbio conferma la bravura e le grandi capacità vocali di Rihannon Giddens. E ora tre domande a Francesco Turrisi. 1) C'è un atmosfera incredibile nel disco, un misto tra sacro, antico, magia....ok per le vostre capacità ma ho dato un'occhiata allo studio di registrazione...sembra un luogo incantato....quanto incide l'ambiente in cui si registra in un disco come il vostro ? FT: Si lo studio che abbiamo scelto (Hellfire Studio) è nel mezzo di una fattoria tra le montagne giusto fuori Dublino. Praticamente è un edificio tutto di pietra in mezzo ai campi, quando arrivi con la macchina vedi solo ruderi e mucche, e poi in mezzo ai ruderi sono riusciti a ricavare questo spazio molto bello tutto in pietra che è diventato un studio di registrazione. Sicuramente l’atmosfera di questo spazio unico e molto “Irish” ha influito molto sul suono del disco. 2) Avete riletto pezzi di epoche e mondi diversi, tecnicamente come avviene l'approccio all'arrangiamento per fare in modo che tutto si leghi il più possibile? FT: In realtà non è un processo conscio, ma una cosa per noi si sviluppa in maniera molto naturale e organica. Ovvero non ci sediamo mai a tavolino per scegliere pezzi che vengono da mondi diversi e per arrangiarli in maniera “uniforme". Sia io che Rhiannon abbiamo esperienza in moltissimi campi musicali, quindi solitamente scegliamo pezzi che pensiamo possano funzionare con il nostro sound, senza preoccuparci più di troppo da dove vengano e come dovrebbero essere suonati. In poche parole non vediamo differenze così grandi fra tutti questi stili musicali e cerchiamo di interpretare la musica attraverso la lente del nostro sound (che anche quello è un gran miscuglio) 3) Infine avete scelto due brani appartenenti alla tradizione italiana, diversi fra loro per epoca e stile. Una scelta importante nell'economia di un disco che comunque ha un approccio musicale e perché no? anche commerciale, decisamente anglofono. Come mai? FT: Domanda interessante! Rhiannon ha una passione per cantare canzoni in una lingua che non è la sua (probabilmente le viene dai suoi studi come cantante di opera). Quindi è sempre interessata a canzoni in lingue diverse (canta pezzi in Spagnolo, Portoghese, adesso ne ha imparato uno in Giapponese!). In realtà avevamo anche altri pezzi in Italiano ma ci siamo limitati a due per il disco, perché come dici tu la maggior parte del suo pubblico è anglofono e più di due pezzi sono un po' difficili da giustificare. Abbiamo scelto questi due pezzi perché ci sembravano “universali" e perché avevamo l’impressione che chiunque li sentisse, avesse una reazione immediata all’ascolto senza neanche capire una parola. Il nostro Kurt Logan lo aveva auspicato scherzandoci sopra, esattamente un anno fa nel numero 52, ed eccolo qui “Psychodonna” il primo disco solista di Rachele Bastrenghi dei Baustelle. Non si tratta di parlare di un disco di un’artista che ha delle capacità vocali eccezionali o sviluppate, che so, dallo studio della lirica o del blues, ma di celebrare il giorno d’indipendenza di una cantante e musicista che ha contribuito a scrivere tante pagine meravigliose della canzone pop italiana. Un disco bello ma soprattutto importante. Femminile e femminista. Melodico, rumoroso, elettronico. Baustelliano e non. Così “Psychodonna” è lontano dall’idea che ci siamo fatti di lei da “La canzone del Parco” in avanti, è un album profondamente personale ma che guarda al passato a tratti, e solo nel pezzo “Lei” è un po’ ingombrante, anche se lo stesso pezzo ha uno stacco finale che si

RACHELE BASTRENGHI Psychodonna (Gusstaff Records, 2021) 9 tracce, durata: poco + di 38 minuti. CD acquistato c/o Papermoon Biella € 19,90

distingue. Per il resto da “Poi mi tiro su”, decadente, a “Not For Me” incendiaria, a “Come Harry Stanton” commovente, alla doppietta ellettropop di “Penelope” e “Due ragazze a Roma”, al richiamo tribale di “Psychodonna”, alla cover Oxa/Fossati di “Fatelo con me” trasformata in un assalto sfacciato e al manifesto finale di “Resistenze” con le parole di Anne Sexton, c’è un senso musicale e politico che staglia nel nostro presente questa figura, spesso oscurata, somigliante a una coraggiosa giacobina che prende in mano il proprio destino, la propria idea e la compone, la modella e la struttura con musicisti, Mario Conte il più decisivo direi, ma anche Colapesce che suona batteria e basso in un paio di pezzi oppure Fabio Rondanini e Roberto Dellera e partecipazioni azzeccate come quelle con Meg, Chiara Mastroianni e Silvia Calderoni. Ma è sull’asse Colapesce/Mario Conte che il disco si poggia. Dove nasce l’idea produttiva del disco, il “suono” con cui poi sono “vestiti” i pezzi. Conte ha infatti già collaborato a “Egomostro” e “Infedele” di Colapesce curandone vari aspetti dalla produzione alla programmazione di batterie e sintetizzatori. Rachele Bastrenghi scrive, canta, suona e produce un disco mirabile, che ha personalità, stile e messaggio. Che è istinto e fredda ragione. Dando prova di essere una musicista a 360° e non solo una “cantante”. Quindi viva Rachele che s’è fatta grande e naviga sicura in questi tempi agitati.

Tra le voci presentate in queste due ANNA B. SAVAGE pagine di recensioA Common Turn ni, quella di Anna è (City Slang, 2021) la più pura e il suo 10 tracce, disco è il meno durata: 7” e 47 minuti. immediato, ma è CD acquistato probabile che sia c/o Papermoon Biella quello che custodi€ 19,50 sce le pietre più preziose. Una voce che mi ha fatto pensare a un mix fra Anthony, Joni Mitchell e Anna Calvi. Il canto della Savage sembra provenire da un buio profondo. Tanta sofferenza attorno e dentro a sè. Una crisi per lo più personale da cui sono emersi questi pezzi che costituisco l’esordio sulla lunga distanza per la ragazza londinese. Una predestinata cresciuta in un ambiente musicale, i genitori sono cantanti lirici, e che senza aver fatto granché (solo un EP) si è trovata in tour con Father John Misty e Jenny Hval. Un dato questo che fa pensare perché con una produzione così scarna non puoi conquistare certe ribalte. I casi sono due o sei un’imbucata o sei bravissima. Sta di fatto che questa veloce affermazione non ha fatto altro che creare insicurezza nella giovane, così “A Common Turn” ha avuto una gestione travagliata, è stato smontato e rimontato dalla stessa autrice più volte, che non ne vedeva né capo e né coda. Poi le cose sono cominciate a cambiare e l’incontro con William Doyle, produttore e musicista conosciuto anche con il nome di East India Youth, è stato decisivo. “Ha fatto brillare il sole per me” così la Savage sintetizza il lavoro di Doyle che l’ha smossa dall’impasse, nell’intervista a Lino Brunetti del Buscadero. Le canzoni si muovono in un ambito indie rock, con assonanze che rimandano a personaggi enormi come Nick Drake e Jeff Buckley, la voce è in grande evidenza e supportata a volte da strumentazioni classiche e a volte da passaggi elettronici. Tutto è stato suonato da autrice e produttore. Generalmente l’umore è introspettivo e raccolto, ma non è bene dare tutto per scontato, perché poi spesso l’incidere riserva aperture energiche, per esempio in “Baby Grand”, oppure la title track, ma anche “Two” o la conclusiva e speranzosa “One”. Per chiudere si può dire che è un disco in cui la vocalità è il pezzo forte e trascendentale ma che rivela anche un tendenza a non farsi imprigionare in steccati eccessivamente tecnici, ha aperture “rumorose” e energia da vendere tanto che, se la Savage non si offende, la chiosa finale è “piccole Anna Calvi crescono”. ma.st.


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I NUOVI COLORI DEL ROSA STATO DEL CINEMA AL FEMMINILE di Mauro Giovanni Diluca Dal 1998 al 2018 la percentuale del numero di film con maggiori incassi negli USA diretti da donne è oscillata dal 2 al 7%. Nel 2018, le donne impegnate nel settore cinema a qualsiasi titolo erano il 17% del totale (più due punti nel cinema indipendente). Nel 2019, l’indicatore dei registi di sesso femminile supera il 10 percentuale. Nel 2020, le donne hanno rappresentato circa il 16% del totale dei registi che hanno lavorato nei 100 film con il maggior incasso. Una bella spinta in avanti. In Italia: a inizio 2019 solo il 12% dei film a finanziamento pubblico sono diretti da donne. Nove è la percentuale dei film di autrici che arrivano nelle sale italiane. Numeri migliori sul fronte della produzione, della sceneggiatura, nel casting e nel trucco e costumi, peggiori nella direzione di fotografia e nei tecnici di macchina e di ripresa. NUMERI CHE INGANNANO - Le donne che fanno cinema però non sono così poche. Nel 2019, il 34,5 % del cinema indipendente europeo è a firma femminile, in particolare nel mondo del documentario. Non son poche nemmeno le autrici apprezzate da pubblico, critica e giuria. In Italia, il 33% dei film diretti da donne ha ricevuto riconoscimenti nei festival, il 51% nell'Unione Europea. Stessa percentuale per il gradimento del pubblico (equamente divisi per sesso dell’autrice, secondo ricerche avvenute grazie ai dati aggregati da Metacritic). Ad essere poche, che novità del resto, sono le donne che fanno carriera, che lavorano là dove girano soldi e dove si prendono decisioni importanti che tracciano le linee di sviluppo del comparto. Nel cinema, l’incremento del numero delle donne che firmano, decidono e partecipano a livelli significativi di budget è salito negli ultimi anni, probabilmente per due ragioni tra loro connesse. L’attenzione generata da movimenti come il Me Too e più in generale dalla decisa spinta che ha avuto il movimento transfemminista da un lato, e le politiche che alcuni Paesi (anche l’Italia) hanno messo in campo per colmare il gap. FUORI I NOMI – FILM E CINEMA - Le “majors”, o comunque le più note, che molti di noi ricordano, sono Jane Campion, Sofia Coppola, Susanne Bier (e più indietro ancora Agnes Varda, e in Italia la Comencini e Lina Wertmuller …). Le conosciamo più o meno tutti, anche perché sono, come detto, relativamente poche. A queste, negli ultimi anni, tra le più accreditate, va aggiunta anzitutto Kathryn Bigelow. Il suo “Zero Dark Thirty” è un vero manuale di professionalità tra i sessi in campo militare, tra l’altro. Tra le premiate e riconosciute c’è pure la cinese Chloe Zhao, vincitrice di Venezia e dell’Oscar con “Nomadland” e l’ungherese Ildiko Enyedi che con “Corpo e anima” ha ottenuto l’Orso d’oro al festival di Berlino nel 2017. Ma è nel cinema indipendente degli ultimi anni che ci sono molto più frequentemente autrici di enorme talento e capacità. Spessore narrativo che, se messo al servizio di storie femminili, riesce a non farsi ingabbiare in una riflessione rivolta all’interno,

anzi. Tra la vasta filmografia esistente, citiamo solo alcuni tra i nomi che stanno animando il settore, consci che non potranno essere esaustivi e restituire la vivacità di ciò che si sta realizzando, specialmente negli ultimi anni. Il primo è quello della scozzese Lynne Ramsey, in particolare con il folgorante e imprescindibile “E ora parliamo di Kevin”. Un film sulla relazione alla base di Tutto; quella tra madre e bambino, raccontata attraverso i passaggi dell'esistenza intrecciata di Eva con il figlio Kevin "troppo difficile da gestire"; un padre normalmente alienato e una adorabile sorellina che finirà per essere l'agnello sacrificale nel rapporto. Il tutto punteggiato dalle melodie taglienti di Johnny Greenwood dei Radiohead. Un film duro ma che non giudica e si presta, anche a distanza di tempo, a molteplici letture e riflessioni. Dall’altra parte della Manica, Maïwenn Le Besco ha girato lo spezzacuore “Polisse”, narrazione immersiva e ritmica (anche qui, con ottimo supporto delle musiche) sul lavoro e la vita personale dei poliziotti del reparto anti-pedofilia francese. Una storia corale e emotivamente coinvolta che si addentra, come il film della Ramsey, nelle zone d’ombra del rapporto materno con dignità e lucidità, sfuggendo alle sempre inadeguate logiche binarie “è giusto così per tutti” “è completamente sbagliato e non mi riguarda”. Restiamo in Europa per alleggerirci con intelligenza grazie alla tedesca Maren Ade. La comicità originale del suo “Vi presento Tony Erdman”, garantirà una serata stimolante ed ilare, grazie alle burle che un vecchio padre ha preparato per la figlia rigida e workaholizzata. A porre rimedio a troppa (?) frivolezza, ci penseranno i film di Rachel Tsangari, esponente di picco della Nouvelle Vague del cinema greco, quell’onda iniziata circa una decina di anni fa difilm crudi e spiazzanti che raccontano lo smarrimento della contemporaneità con allegoriche chiavi di lettura. A chiudere la carrellata filmografica femminile non possono mancare il viaggio di deriva di “Zurich”, diretto da Sacha Polak e interpretato in modo indelebile da Wende Snijders, Naomi Kawase dal Giappone, nota per il delicato “Le ricette della signora Toku“ e, più vicina a noi geograficamente, la talentuosa Alice Rohrwacher.


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SERIE - Nel mondo della tv e della serie le cose sono sempre andate meglio per le donne, sia per ragioni storiche (l’esplosione delle multinazionali della serialità è contemporanea ai fatti sopracitati) sia politica, per la presenza di più iniziative incentivanti sulle pari opportunità. Amazon e Netflix hanno più donne con potere di scelta rispetto a Paramount o Lionsgate, e non è più infrequente che queste donne diano semaforo verde a storie di donne. Tra le tante serie di livello create e realizzate negli ultimi tempi da donne e che raccontano di donne, da ricordare per avere il merito di essere stata la prima tra le mainstream a “rompere gli argini” su nuovi e tanti modi di essere donna, c’è “Orange Is The New Black” (2013). Un caleidoscopio di punti di vista femminili particolarmente esplosivo, data l’ambientazione della serie in un luogo compresso come il carcere. In galera si vive insieme, le relazioni sono continue e inevitabili. Ogni donna, privata del suo mondo, dei suoi oggetti che ne rimandano l’identità, persino degli abiti, si sostanzia nei dialoghi e nelle relazioni che instaura con le altre. E’ una serie nota, apprezzata e premiata, scritta da Jenji Kohan (autrice di “Weeds” e sceneggiatrice di svariate serie tv americane) sulla vicenda vera di Piper Chapman, una borghese di ceto medio-alto che finisce in prigione per una vecchia questione di denaro sporco. Dirompente, piena di sesso, allegria e dolore, “Orange” è uno show che si prende molto in giro e per questo non smette mai di divertire. Un gran cast, musiche graffianti tra cui la splendida sigla di Regina Spektor, la serie di Kohan matura e si struttura ancora meglio con la seconda e la terza stagione, per poi perdere brio nella scrittura e nella regia con le successive (ben) quattro stagioni. Uno dei maggiori meriti di Orange è non aver paura di lasciar parlare i corpi, ottenendo così un risultato di sconcertante bellezza. Da segnalare, a colmare le pesanti lacune dell’educazione sessuale in Italia, la puntata 2x04 "Tutto un altro buco": un prezioso corso accelerato di anatomia. Dopo “Orange Is The New Black”, è nel 2020 che un’altra serie ha segnato un nuovo passo imprescindibile e innovativo, diciamolo pure, nel “discorso” sul e del femminile (e non solo, ça va sans dire), facendo alzare tanti dalla sedia, aprendo il cuore e la mente. Siamo davanti a un prodotto destinato a fare scuola e a cui è doveroso dedicare tutto lo spazio che merita. * I dati citati nell’articolo provengono dal portale Metacritic, da Gap & Ciak: uguaglianza e genere nell'industria dell'audiovisivo, evento di chiusura del progetto di ricerca 'Dea - Donne e audiovisivo' del CNR e dal report della USC Annenberg, la facoltà di Comunicazione e Giornalismo dell’Università del Sud della California, prodotto ogni anno per monitorare l’inclusione e la diversità all’interno del mondo dello spettacolo e del cinema americano.

I May Destroy You di Michaela Coel

Di questa serie inglese fresca di uscita (2020, ma non ancora in Italia) si parla come “serie dell’anno”, addirittura del decennio. Non solo perché Jane Fonda ha detto di essersela sparata tre volte di seguito, ma perché ha oggettivamente ottenuto un giudizio della critica storicamente altissimo per unanimità. Come si può vedere dal dato (https:// www.metacritic.com/feature/tv-critics-pick-10-best-tv-shows-of-2020) aggregato di Metacritic, “I May Destroy You” ha surclassato le “inseguitrici” (distanziando semi-capolavori quali Better Call Saul e Normal People, quest’ultima consigliatissima, tratta da un libro di una giovane scrittrice) piazzandosi veramente spesso al primo posto delle top ten dei critici statunitensi. E tra quelli del VCO, ovviamente. Sì, perché i motivi per essere serie del decennio ci sono tutti. Il primo è che “I May Destroy You” è una storia vera-vera. Non è un errore di battitura. I dodici episodi sono veri-veri perché non rappresentano una vicenda, quanto invece lo “sono”. E quel sono significa sia contenuti narrativi, sia produttivi. Produttivi perché l’autrice ha tenuto la testa alta finché non ha ottenuto il “minimo sindacale”, cioè una partecipazione agli utili e la garanzia del controllo realizzativo, dai padroni, cioè le corporation della serialità. Ha scartato Netflix (con cui era uscita la sua esilarante prima serie, “Chewing Gum”) che metteva sul piatto un milione senza però concedere titoli né garanzie autoriali. Alla fine ha siglato con BBC / HBO che le hanno riconosciuto un ruolo nella produzione, totale controllo creativo e tutti i diritti. Non è un fatto da poco, e va letto sapendo che l’autrice Michaela Coel è una donna poco più che trentenne, nera, che fa parte della classe operaia inglese. Figlia di un’addetta alle pulizie, fino a pochi anni fa sbarcava il lunario con lavori precari e per passione recitava poesie nei pub londinesi. Finché qualcuno non le ha suggerito di provare con il teatro, e lei ha fatto il botto, scrivendo “Chewing Gum” e ottenendo così tanto successo da approdare al settore video. Narrativi perché nella storia di “IMDY” c’è molto di autobiografico. La protagonista Arabella Essiedou, come l’autrice, è una giovane, nera, vitale, precaria e squattrinata. Gli amici sono la sua famiglia. Arabella è una scrittrice in erba ed è anche una persona violata e stuprata, la serie comincia più o meno così. Con gioia di vivere, ironia, amicizia e crescente consapevolezza dei traumi e delle violenze subite e delle innervature che questi hanno nella realtà che tutti noi frequentiamo, Arabella ci trasporta nel suo mondo con miliardi di sfumature e un ritmo perfetto di montaggio intrecciato e narrazione plurale. Uno sguardo rapido ma coloratissimo di dettagli, curioso e partecipe, che schizza tra appartamenti, locali, strade di Londra e..di Ostia, accompagnato da una colonna sonora decisamente all’altezza. La storia…. La trentenne Arabella ha pubblicato un libro su Twitter ottenendo un successo inaspettato; ora ha un editore che l’ha messa sotto contratto e la incalza per la scadenza imminente della consegna del secondo. Lei però non ha scritto nulla, forse anche perché in questo momento è ossessionata da un ragazzo di Ostia, è tornata a trovarlo e sta cercando di non innamorarsi. Biagio è un tipo indipendente e tranquillo, rispettoso e affascinante. Ma è uno spacciatore. Arabella lo ha conosciuto durante una vacanza “a ufo” in Italia come fornitore di droghe ricreative. Al rientro a Londra, Arabella scrive di notte per onorare l’impegno editoriale, ma si concede una pausa di un‘ora per raggiungere alcuni amici (più hipster e danarosi di lei) in un bar. Non tutto ciò che accade viene immediatamente colto da noi spettatori e dalla protagonista. Scopriremo a breve che la giovane è stata drogata e stuprata, e questo sarà il nucleo attorno a cui girerà un po’ tutto. Un fulcro che parla di consapevolezza, wokeness, e progressiva messa in discussione di aspetti che Arabella, come tutti noi in teoria, dà per scontati. L’amicizia e la sua capacità protettiva, la libertà di muoversi, divertirsi e socializzare (non solo per una donna ma per


chiunque sia portatore di una qualche fragilità), il rapporto con le donne bianche, con il sesso e i piccoli grandi abusi. Il potere, il controllo e l’ossessione della vita social e l’impatto sulla persona. Il consenso. “Prima di essere stuprata non ho mai pensato a cosa significasse essere una donna. Ero impegnata ad essere nera e povera” scriverà Arabella. ...e tanta voglia di cambiarla La preziosità di “I May Destroy You” è la capacità di tenere fermo il trauma di violenza fisica e mentale (Arabella soffre vuoti di memoria legati allo stupro che appaiono in tutta la loro drammaticità) mentre, grazie alla sceneggiatura e alla regia, ci permette di sfuggire a un feroce ed espiatorio processo al singolo, allargando l’ottica e permettendo a tutti noi di riconoscerci nelle vite degli splendidi ragazzi coprotagonisti. Impossibile sfuggire alle domande sui personaggi (amicizia e responsabilità, sessualità, lavoro) e sul contesto della vita che ci troviamo a vivere nella contemporaneità. Feste, street-art, commissariati, palestre, atelier, bar, uffici, discoteche, psicologi, spiagge; sembra impossibile che in meno di mezz’ora di episodio ci stia tutto questo, con coerenza e ritmo. Nella serie di Coel ciò accade ogni episodio, al termine del quale ci si trova spesso a pensare che sia durato il doppio. I personaggi di “IMDY” rivelano via via le loro ambiguità, tutti, ma senza perdere la loro familiarità; giovani esuberanti pienamente inseriti nel flusso della vita che a un certo punto si scoprono coinvolti in bullismo al liceo, violenze famigliari, stalking, revenge porn, gogne social, stigmi e pregiudizi vari. E quasi tutti si trovano, prima o poi, da una parte e dall’altra. Coel non punta il dito contro nessuno, alla fine, nemmeno verso i “peggiori”, ma porta i personaggi a intraprendere nuovi cammini, fare scelte che non rimuovono, forse nemmeno risolvono, ma si sganciano, o almeno, permettono di sopravvivere. Crescere, anche. Con sconcerto, urlando rabbia al mondo (social, soprattutto) e poi terapia, elaborazione creativa, e riapertura alla vita..e ai suoi abusi, di cui forse, con la consapevolezza, possiamo comprendere gli obiettivi e sottrarci al tiro più spietato. Vite che sono la mia Lo stupro è come un padre tra i traumi, è un manto che Arabella sfila da ciò che la circonda, mettendosi radicalmente in gioco e guardando le cose con nuova coscienza. Con grande abilità narrativa, le vicende collegate dei ragazzi di “I May Destroy You” ci dicono che le vittime sono tutti coloro i quali si trovano in condizione di fragilità, anche momentanea. L’abuso è uno scherzo pesante nel momento sbagliato, una madre che allontana con la menzogna i figli dal padre, un preservativo tolto di nascosto, un atto non desiderato in un incontro di sesso sfrenato combinato online. I traumi di Arabella e dei suoi amici non saranno utilizzati per generare empatia. Lo stesso vale per le rappresentazioni di minoranze e “subalternità” presenti nelle vicende dei personaggi della serie. Non sono inscenate per impattare, indignare, redimere, commuovere. Non c’è stigma, non c’è rappresentazione enfatica. Non c’è IL male e nemmeno IL colpevole. La crescita di Arabella e dei suoi amici coinciderà con il rendersi consapevoli di quanta violenza, sfruttamento e abuso possa permeare le vite, tutte, le nostre e anche quella della protagonista, decidendo di non tacere più e di agire senza, al tempo stesso, perdere la voglia di stare al mondo liberi e il senso di un’umanità complessa che erra (in tutti i sensi) ed è capace di comprendere, evolvere, e perdonare. Potranno volerci anni, mesi...Arabella mostra una via, la sua via, per affrontare da un lato gli svantaggi dovuti a nascita e condizione e dall’altro gli abusi subiti, senza chiudersi nell’odio, nella violenza, divisivi e sempre in guerra col mondo. Forse, un lungo lavoro (generazionale e di classe) sui primi prepara ad affrontare i secondi. Raccontare, comunque, è l’inizio della cura. Stravolgere il punto di vista, raccogliere ciò che l’altro ha da dire, concedere seconde possibilità ai carnefici, è terapia. Mettere il dito nelle crepe e nelle ferite. Perchè siamo storie che possono voltare pagina. La vita è tutta un’app La socialità e il soddisfacimento dei bisogni contemporanei (lavorare, mangiare, fare sesso, spostarsi, costruire una relazione, farsi conoscere)

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avvengono spesso tramite applicazioni telefoniche, spersonalizzando relazioni e modalità di incontro, dimenticando il caso ed il caos, smaterializzando il lavoro e la povertà, il corteggiamento, i corpi. La serie ci turba perché evidenzia che integrarsi in questo mondo significa esercitare e subire piccole grandi violenze ed ingiustizie ai danni dei più esposti, senza nemmeno (più) coglierle, perché le rimuoviamo e/o sono appunto “smaterializzate”, lontane dai nostri occhi ipersensibili ma ciechi. Dalla rappresentanza alla presenza “I May Destroy You” è uno di quei pochi prodotti arrivato ai circuiti distributivi mainstream in cui la classe lavoratrice (e soprattutto quella nera e femminile) non viene dipinta, in un modo o in un altro, ma si mostra per come dipinge. In quali strade vive, quali pennelli conosce e si può permettere, come li usa e cosa ci disegna. La “minoranza” si racconta da sola, con i suoi corpi, gli sguardi, i sogni e i nodi alla gola, le ferite e le scelte compiute per andare avanti e farci i conti. La “subalternità” è protagonista di se stessa e si emancipa fin dove può e ne ha consapevolezza. Grumi di sangue e canti selvatici Il racconto di Coel raccoglie la palla di altre narrazioni (come “Orange Is The New Black”, di cui si parlava prima) sul corpo femminile, che mostra senza edulcorare, anche nelle sue parti più intime e solitamente poco popolari, su cui riesce anzi a scherzare e intenerirci. Un corpo che in qualche modo ci riflette: possiamo camuffarlo o rimuoverne alcuni aspetti, ma resta composto in più o meno pari misura da pelle, curve, nervi, viscere, merda e sangue. Roba profumata e roba che non lo è affatto, insomma. Roba che possiamo condividere e gioirne, e roba che no. E’ come quando si taglia lo stelo del fiore e dentro c’è il verme. E’ così. E’ legge di natura. E anche in questa serie, sullo sfondo fino alla fine, la natura c’è. E’ un uccello che canta e continuerà a farlo. La differenza che possiamo fare noi, è decidere di fermarci un momento, uscire dalla spugna delle nostre esistenze automatiche, e ascoltarlo. ...e a proposito di musica La serie di Michaela Coel è molto musicale, e probabilmente non poteva essere altrimenti, data l’ambientazione, i personaggi e il ritmo narrativo. Quasi tutto il sound è black: hip-hop, elettronica, R&B e gospel. Ciara Elwis, la 27enne curatrice di una colonna sonora che prevede lo sgancio di ben 150 frammenti musicali in 12 episodi, ha sottolineato come l’approccio al sonoro sia stato concepito proprio per evitare l’assorbimento sic et simpliciter nel dramma individuale/emozionale di cui si è detto sopra. Per fare un esempio, racconta Elwis in un’intervista al NYT, alla fine del secondo episodio Terry, l’amica sorella di Arabella, piange dopo aver messo a letto la protagonista reduce dalla denuncia dello stupro alla polizia. Invece di pompare con una classica canzone triste, parte "Nightmares" degli Easy Life, un pezzo R&B in cui delle trombe suonano in modo piuttosto giocoso. E così, al posto del solo pugno nello stomaco tipo "Oh mio Dio, non posso crederci, è orribile" (che comunque arriva) si genera dello spazio emotivo da esplorare, per il personaggio, e per lo spettatore. Funziona. ma.di.


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Vinyl Return pt.3

IL DRAMMATICO RITORNO DEL VINILE di Giorgio Ferroni L’argomento è gia stato oggetto di approfondimento su WN, è significativo perché il mondo della musica registrata su supporto fisico è assolutamente caratterizzante per la generazione degli over 40 a cui bene o male appartiene tutta la redazione. Per noi la musica ha avuto un ruolo importante che oggi le nuove generazioni (i nostri figli) probabilmente faticano ad immaginare. Fino a qualche anno fa, con l'ascolto di un certo tipo di musica in qualche maniera aderivi anche ad un gruppo sociale e quel gruppo sociale ti caratterizzava profondamente, i negozi di dischi erano spazi di aggregazione come le radio libere e i locali dove si suonava dal vivo. L’andamento del mercato discografico fra il 1977 e oggi ha avuto due valori di minimo, uno verso il 1983 e uno più recente nel 2015. Il mercato mondiale nel 1977 valeva 16 miliardi di dollari USA (riattualizzati) di cui circa per il 2/3 relativi alla vendita della musica con supporto in vinile. Nel 1983 il mercato si era ridotto a circa 10 miliardi. Dal 1983 in poi il mercato cresce ininterrottamente fino al 2000 e proprio in quel periodo il volume di affari raggiunge il massimo storico finora insuperato di 21,5 miliardi, di cui il 95,5% era rappresentato dalla vendita del CD. Verso la fine degli anni 90, proprio in prossimità del picco di massimo sviluppo del mercato discografico, viene presentata la piattaforma Napster; per gli smemorati o i rari giovani che leggono WN, ricordiamo che era un programma che permetteva la condivisione di file mp3, creato da Shawn Fanning e Sean Parker, rimasto attivo dal giugno 1999 fino al luglio 2001. L’anno 2000 è quindi l’evidente spartiacque fra due epoche diverse del mercato discografico: Quella in cui tutto ruota attorno alla vendita della vendita di un oggetto fisico che conteneva la musica e quella più recente che si basa su un sistema in cui l’oggetto materiale diventa superfluo.

alla quota 20,2 miliardi di dollari. Nel dettaglio si conferma che il merito è delle piattaforme di streaming che sono cresciute del 22,9%, realizzando un volume d’affari di 11,4 miliardi di dollari. Questa crescita ha ampiamente compensato il calo del -5,3% del segmento fisico. C’è anche da notare che il calo del mercato tradizionale è più lento rispetto al 2018. In questo contesto gli abbonamenti dei servizi a pagamento sono aumentati di circa il 24% e alla fine del 2019 c'erano infatti 341 milioni di utenti di servizi di streaming a pagamento, questa quota ha rappresentato il 42% delle entrate totali della musica registrata. Secondo uno studio di Goldman Sachs, i ricavi dell’industria discografica raggiungeranno i 45 miliardi di dollari a livello mondiale entro il 2030 dei quali ben 37,2 derivanti dagli ascolti streaming, un risultato ben oltre il picco del 2000. Nonostante la pandemia anche in Italia nel primo semestre del 2020 il ricavo commerciale è cresciuto comunque del 2,1% sempre grazie al digitale e si assesta su un valore di 88 milioni di euro (fonte Federazione Industria Musicale italiana https:// www.fimi.it/#/). Qui arriviamo al dato oggetto della discussione: nella prima metà del 2020 gli ascoltatori di musica statunitensi hanno speso di più in dischi in vinile che in CD. Rispetto ad un fatturato complessivo di 376 milioni di dollari, il 62% di questi è derivato dalle vendite di vinili (232 milioni di dollari) e tutte le previsioni ritengono che il mercato del vinile sarà comunque in costante crescita nei prossimi anni. Confrontiamo i dati dei primi semestri del 2019 e del 2020 forniti dalla RIAA (Recording Industry Association of America) in Milioni di Dollari USA.

Totale mercato USA Digitale LP CD

Ora come si può vedere il mercato discografico è nuovamente in una fase crescente ma con delle caratteristiche di novità legata almeno ad un paio di aspetti interessanti: Il primo è che il traino del mercato sta nello streaming a discapito del mercato del supporto fisico, fra il 2017 e il 2018 il volume di affari cresce del 2,6% pur di fronte ad un crollo del 26% della quota del mercato tradizionale di CD, LP cassette et... Già in quegli anni però si notava come il vinile (15%) cedesse al mercato digitale meno spazio del CD che invece era in caduta libera (-29%). Nel 2019 è andata ancora meglio perché i ricavi totali per il mercato globale sono cresciuti dell'8,2%, arrivando

2019 5350

2020 5652

4736 224 248

5148 232 130

Tutto ciò detto qualche conclusione rispetto al ruolo dei vinilomani di ieri e di oggi, categoria in cui mi pregio di annoverarmi, la dobbiamo fare. È vero che il vinile ha un momento di vitalità nell’ambito del mercato della musica registrata, tant’è vero che, essendo sostanzialmente chiusi la maggior parte dei negozi di dischi, sta avendo un discreto successo anche la distribuzione tramite le edicole. Un tempo le edizioni per le edicole erano generalmente raccolte di bassa qualità, ora sono LP di ottimo livello con vinili da 180 grammi che sono perfette riproduzioni della discografia classica. Non dobbiamo però pensare che questa tenuta del vinile sia la panacea di tutti i mali dell’industria discografica. Il mercato del supporto fisico vale comunque meno del 10% del totale, quindi il ritorno nel vinile NON SARA’ IL MOTORE dell’industria discografica che ha ed avrà il suo fulcro nella distribuzione digitale. Prima di tutto occorrerebbe fare un ragionamento su come il mercato digitale, con cui tutti i musicisti dovranno fare i conti, ridistri-


List of Streaming Services Tornando al vinile l’impressione consolidata è che il boom del vinile riguardi principalmente il catalogo consolidato dei classici, quindi non ci sarà nessun interesse delle case discografiche ad investire nelle nuove proposte, a meno che non siano nuovi artisti che godono della fortuna di essere espressi da un qualche aggregatore sociale tipo i citati Talent. Innanzitutto non credo ad un complotto delle case discografiche. La smaterializzazione del prodotto ha grandissimi vantaggi, per chi vende, non hai magazzino, non hai resi e non paghi per la distribuzione fisica, quindi credo che le case discografiche non alimentino il fenomeno del vinile, ma si limitino a cavalcarlo. La questione del vinile che suona meglio del CD e attira così gli ascoltatori è tutta da dimostrare, perché la qualità del suono dipende, oltre che dal tipo di supporto, anche da come viene regi-

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Prince Rogers Nelson

buisce le risorse ai musicisti e quale quota del mercato attiene all’ascolto del catalogo storico di artisti consolidati e quanto va invece a ricadere sulla produzione di nuovi artisti di qualità. Esiste poi la questione del “value gap” ossia la differenza tra gli introiti generati dalla musica messa messi a disposizione dalle piattaforme digitali, e quanto effettivamente riscosso dai titolari dei diritti sulle opere. Anche lo studio di Goldman Sachs pone l’accento sul rischio della sostenibilità economica delle piattaforme streaming dal punto di vista degli artisti, viste le cifre molto basse delle royalty che vengono riconosciute ai musicisti. Uno dei punti importanti della questione sta anche nel fatto che i metodi con cui la musica viene prodotta e distribuita influenza anche la musica stessa. Da un lato abbiamo che i costi di produzione si sono abbassati e che le nuove tecnologie permettono praticamente a tutti di realizzare musica a basso costo in modo indipendente, quindi nel mondo della “musica indipendente”, che è quella che più ci interessa, abbiamo una sovrabbondanza di produzione. Per la distribuzione, usando le piattaforme di streaming il problema si azzera. Ho perso atto di persona di ragazzi che non si erano mai occupati di musica che hanno registrato una canzone con una base presa in rete e l’hanno messa su Spotify a costo zero (ovvio che i risultati sono quello che sono). Questi due aspetti abbinati rivoluzionano il ruolo dell’industria musicale. Le industrie discografiche avevano, ed hanno, come ovvio lo scopo di fare profitto e lo facevano però con una strategia che comunque aveva delle ricadute complessivamente positive su tutto il sistema della produzione e della fruizione musicale, ma in un mondo come quello digitale che per sua natura tende alla fram mentazione vengono meno tutti i corpi intermedi e la distanza fra i grandi artisti consolidati e le potenziali novità diventa incolmabile. Non è casuale che le etichette importanti lavorano molto sugli artisti dei Talent Show, perché il talent rappresenta l’aggregatore sociale che può ancora far vendere ii dischi. (ma questo potrebbe/ dovrebbe essere oggetto di un ulteriore approfondimento)

strato e riprodotto. Certamente un vinile nuovo su un impianto Hi-fi con un giradischi a cinghia et... suona meglio di un CD ascoltato in macchina, ma da qui a dire che l’analogico suona SEMPRE meglio del digitale ne corre... un buon CD su un buon impianto non è necessariamente qualitativamente inferiore ad un LP. Sicuramente l’ascolto tramite piattaforme streaming varie ha dei meccanismi di compressione che riduce la qualità e questo è un problema. Resta comunque da capire perché i vinili vendono, ma è evidente che il loro inaspettato successo ha il fulcro nel loro essere un bene materiale e i beni materiali hanno un valore che i servizi non hanno. Quando compro un disco o un libro, acquisto anche un bene materiale, che posso usare a mio piacere e che posso rivendere, ricavando magari gli stessi soldi che ho speso, se l’ho comperato usato. Se pago un servizio su una piattaforma, affitto semplicemente un ascolto. Proprio in virtù di questo aspetto, il mercato degli LP sta diventando (https:// blog.discogs.com/en/vinyl-investment-trends/) un settore in cui, se si è informati, si possono fare degli affari interessanti esattamente come succede ad esempio nel mercato del vintage, o del modernariato. (Un disco di Prince è stato venduto a 27.500 $). Insomma i dischi diventano una merce in funzione della loro rarità, un po’ come i pupazzi dei puffi o le sorprese della Kinder. Qui troviamo un altro elemento di riflessione: se il valore del disco sta nella sua rarità, allora la musica che contiene va decisamente in secondo piano e per rendersene conto basta guardare discogs. Il mercato è una cosa strana, in cui il prezzo delle cose dipende anche da una convenzione sociale e quindi dal valore che noi gli attribuiamo. L’ultimo aspetto è quindi quello strettamente sentimentale legato alla nostalgia per un tempo che non c’è più, un tempo in cui la musica aveva un valore economico e sociale imprescindibile. Ascoltare musica tramite internet ha indubbiamente un sacco di vantaggi, costa poco se non niente, non ti riempie la casa di dischi che non sai dove ritirare, ti permette di trovare subito quello che vuoi, consente di ascoltare (almeno per una volta) anche cose che non acquisteresti mai. Ma toccare una cosa la fa sentire tua e noi vogliamo sentire nostre le cose che amiamo. gi.fe.


Björk e lo Una carriera cominciata presto e che l’ha abituata subito ai riflettori. Una Cristina D’Avena che ha preso altre strade. Il canto è stato spontaneo nella piccola islandese e già nel 1977 come riportano le cronache e Wikipedia, divenne un mito per i suoi coetanei, con l’incisione del disco che portava il suo nome e che vendette un botto. In Islanda diventò un caso nazionale, oltre che disco platino. Ma Bjork è sempre stata legata ai suoi inizi e al canto dei bambini, così ha sorpreso un po’ l’intervista uscita l’anno scorso per il settimanale di musica inglese “Old Musical Express” dove ripercorre i suoi primissimi anni nella musica e racconta di come sfumò la sua partecipazione allo Zecchino d’Oro del 1978 e di come le fu preferita la concorrente indiana, tale Kayshik Jayakar, che presentava il brano “La nonna più bella ce l’ho io”. Non entro nei dettagli perché lo spazio è tiranno e perché nella lunga intervista, Bjork trova modo di lodare la manifestazione, cita Mariele Ventre e la definisce un’insegnante di canto di altissimo livello ma soprattutto, dichiara di seguire quando può la manifestazione dell’Antoniano e di essersi persa ben poche edizioni. Alla domanda di Terence Pickford se sarebbe in grado di stilare una playlist dei suoi brani preferiti Bjork non ha battuto ciglio e ne ha elencati dieci, che vi riportiamo qui sotto. Le sorprese non mancano, ci sono pochi brani famosi e alcune perle misconosciute, anche se la sorpresa più grande è stata leggere che le piacerebbe prima o poi poterle reinterpretare. Meravigliosa.

1) 2) 3) 4) 5) 6) 7) 8) 9) 10)

Il pulcino ballerino Popoff La sveglia birichina Gugù bambino età della pietra Bambinissimi papà Goccia dopo goccia Samurai Il katalicammello Pigiama party Lo stelliere

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TITOLI DI CODA Björk – Stonemilker (da “Vulnicura” One Little Indian, 2015) “Cos’è quella cosa che possiedo che mi fa percepire il tuo dolore ? Farmelo dire è come mungere una pietra” Ho tutta una serie di problemi con la musica e il canto di Bjork. Una cosa che mi porto dietro già dagli Sugarcubes. So che sono limiti miei, ne sono ben consapevole, ma quel suo modo di cantare quasi a scatti, quella tecnica che si muove fra una vetta e un baratro, me la fa sembrare una miope cacciatrice di farfalle in una radiosa giornata estiva. In “Vulnicura” l’amore è stato graffiato e le ferite bruciano. “Stonemilker” ne è il manifesto. Sono disarmato davanti alle modulazioni degli archi, al cantato controllato, alle sporadiche ritmiche che sembrano giungere dagli abissi. In questo pezzo tutti i miei problemi con lei e con tutto il mondo svaniscono. Questo abbraccio, questa consolazione mi bacia e mi accarezza. Mi immagino parole che non dice e mi faccio cullare. Benedetta Signora delle Nevi questo è il dono che mi fai, qui trovo la tua inarrivabile essenza. Mi inginocchio.

Other Notes: WolverNight 54 è stato prodotto, mixato e arrangiato da Kurt Logan presso lo studio “Hyde Park House” in via Pianezza n°2 a Bracchio di Mergozzo (VB). Nelle sere e notti del 24 e 25/04/2021, del 3,4,5,7,8,9,11,12,23,24,26,27,28/05/2021 e del 12,13,14,15,16,17,18,19,20,21,22,23,24/06/2021sulle note di: THE BLUE NILE - “Hats”, TINDERSTICKS - “Distractions”, ENZO CARELLA - “Vocazione”, MOSES SUMNEY - “Grae”, THE FLAMING LIPS “American Head”, AUTECHRE “Sign”, VINICIO CAPOSSELA “Da solo”, THE WHO “Sell Out”, THE CHARLATANS “Up To Our Hips”, LEONARD COHEN “Thanks For The Dance”, GIUNI RUSSO “Armstrong” e “Aliena”, JOHN TRUDELL “Aka Graffiti Man”, WILL BEELEY “1970 sessions”, TOM PETTY “Wildflowers”, VV.AA “Riding The Rock Machine”, MASSIVE ATTACK “Blue Lines”, EXTRALISCIO “E’ bello perdersi”, GAL COSTA “Nenhuma Dor”, MADAME “same” e più volte tutto di BJORK.


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