15 minute read
“Le turbolenze blu di Joni Mitchell” di Marco Denti pag
di Marco Denti
Era piccola, relegata nella sua camera. Fuori era tutto grande, le pianure gelide e sterminate del Canada, il cielo infinito, le stagioni che si gonfiavano di tempo. Joni Mitchell chiusa tra quattro muri, con una finestra che guarda su un mondo enorme. Tutto quello che c’è da fare in quella casa nella prateria è salutare l’unico treno che passa, guardando il macchinista che le rispondeva dalla distanza. Solo un gesto, ma qualcosa si muoveva dentro quell’orizzonte immobile e supremo. Forse la mano che sventolava dalla locomotiva era soltanto il frutto della sua fervida immaginazione, ma Joni Mitchell sembrava già sapere che “ogni preghiera, ogni messaggio che mandiamo, alla fine riceve una risposta”. Sarà una lunghissima metamorfosi, cominciata dall’interpretazione del bagaglio folk e che, passando attraverso mille stagioni, l’ha trasformata in una delle interpreti, nel senso più esteso del termine, più originali del ventesimo secolo. Un’evoluzione così ampia e articolata aveva bisogno, senza dubbio, di fondamenta sicure e il background di Joni Mitchell nasce dalla sua conoscenza della musica folk. Le canzoni di Tom Rush, Woody Guthrie, “Dark As Dungeon” , “The House Of The Rising Sun”, “Jack Hardy”, e poi Dylan, ma c’è qualcosa in più perché per Joni Mitchell non si tratta di uno stile, ma di una posizione, come diceva: “La musica folk è un buon posto da cui cominciare”. La musica come luogo, colori che diventano destinazioni e Picasso che dice: “Dipingere non è un’operazione estetica: è una forma di magia intesa a compiere un’opera di mediazione fra questo mondo estraneo ed ostile e noi”. Vale anche per le canzoni. All’inizio viene presentata come Joan Anderson, il suo vero nome e lei si intrufola in ogni angolo: “A me piaceva molto suonare nei club per una quarantina di persone. Mi piaceva essere al centro dell’attenzione. Era come essere la festeggiata di un party”. È una di quelle notti e Jimi Hendrix, che suonava nella stessa città e con lo stesso promoter, la registra dal vivo, seduto davanti al piccolo palco. I nastri, insieme con il registratore, saranno trafugati, ma in quella voce, in quel modo di intendere la chitarra e le canzoni c’era già un voEGOKID cabolario, un alfabeto, il DNA di un linguaggio, ma come diceva Picasso “ogni atto di creazione è, prima di tutto, un atto di distruzione”. A questo diktat, Joni Mitchell si atterrà scrupolosamente. Prima, con due canzoni, definirà altrettanti capisaldi, sulla mappa e nel tempo, come nessun altro è stato capace di fare. “Woodstock” e “California”, sono gli estremi, geografici e storici. Woodstock è la prima, l’unica e vera celebrazione di un’utopia che al suo zenith era già segnata da una data di scadenza. Joni Mitchell l’aveva percepito, allora, e risentita mezzo secolo dopo “Woodstock” più che l’inno per un trionfo, suona come un’intensa elegia perché “noi siamo polvere di stelle”, e la luce che emaniamo non ha alcun colore. La “California” arriva nell’incontro (o incrocio) con David Crosby: l’eterea ragazza delle coffee house si trasforma nella “lady del canyon”, incarnando una delle figure preponderanti della West Coast di quegli anni. La collaborazione e il legame con David Crosby è un dialogo tra due opposti che usano la stessa lingua delle canzoni e l’arte del songwriting decollerà molto velocemente perché, come sostiene Joni Mitchell: “Porto la conversazione su temi che nessuno vuole toccare. Alla gente non interessano le stesse cose che interessano a me”. Uno dei primi ad accorgersene sarà Neil Young: “Conosco Joni (Mitchell) da quando avevo diciotto anni. La conobbi in una coffe house, e la prima cosa che pensai fu che era bellissima. Era molto fragile, di aspetto esile e aveva la forma degli zigomi stupenda. Indossava sempre seta e raso leggero: mi ricordo che pensavo: ‘Se soffi abbastanza forte forse la fai cadere’. Eppure riusciva a tener su una Martin D18 piuttosto bene, comunque. Davvero, un talento incredibile, scrive delle sue relazioni in maniera di gran lunga più vivida della mia”. Forse soltanto Leonard Cohen ha scritto con la stessa chirurgica precisione, ed è Joni Mitchell a descriverla nel dettaglio: “Ognuno ha un lato superficiale e un lato profondo, ma questa cultura non ha molto valore nella profondità, non abbiamo sciamani o indovini, e la profondità non è incoraggiata o compresa. Circondati da questa società superficiale e lucida sviluppiamo anche un lato superficiale e diventiamo attratti dal piffero. Questo si riflette nel fatto che questa cultura crea una dipendenza dal romanticismo basata sull’insicurezza, l’incertezza del
Advertisement
fatto che tu sia veramente unito all’oggetto della tua ossessione è la fretta che le persone si agganciano”. Sono canzoni per un’età matura, il treno dell’infanzia è scomparso, e come scrive Ellen Melloy in “Antropologia del turchese”, il blu è il colore della visione adulta e sembra “un bel posto in cui andare, un paese in sé, superiore imperturbabile, dove non eri costretto a parlare con nessuno”. L’estrapolazione del dolore in “Blue” è “la sensazione che ti prende quando canti e apri del tutto il cuore”, dove l’intimismo raggiunge il suo apice, mostrando le ferite aperte, quei “ritagli d’anima”, che avevano bisogno di un fiume per galleggiare, e per volare via. È un’altra partenza che Ellen Melloy vede così: “Un giorno avevo intravisto un varco in una rete metallica e per qualche tempo avevo seguito il corso del Los Angeles, un fiume che scorre per ottanta chilometri fra due pareti di calcestruzzo e che qualche ardimentoso gruppo di cittadini si ostina a tutelare pur non essendo di fatto meritevole della definizione di fiume. Su una spiaggia nei pressi di Santa Barbara avevo nuotato fra onde densamente popolate e fatto lunghe passeggiate. A mollo a un centinaio di metri dalla riva, avevo osservato il volto maestoso e fiero del continente. Sulla sabbia, di spalle all’entroterra, avevo guardato il mare e avevo provato un’immensa soddisfazione nel vedere il sole tramontare sul Pacifico: per tutta la vita, ovunque mi fossi trovata, quella sfera sull’oceano era stata il mio meridiano di Greenwich, il preciso e affidabile punto di riferimento per ogni cosa”. Anche quella California tramonta e Joni Mitchell si ritrova di nuovo sulla costa opposta, nella Rolling Thunder Revue di Dylan. Anche in quella “comune itinerante” appare come una figura a parte, circondata da una luce nel caos di una sarabanda zingaresca. I dialoghi con Ratso alias Larry Sloman, cronista di quei giorni di tempesta, sono illuminanti, quando Joni Mitchell gli dice: “Questo tour lo conosciamo tutti. È difficilissimo e molto limitante e allo stesso tempo molto indulgente, nessuno di noi è abbastanza maturo per riuscire ad accettare che gli altri possano amare delle altre persone. In tutte le relazioni che iniziamo vogliamo essere i conquistatori, gli unici e i soli”. Nella forma indefinita di quel circo viaggiante c’era posto per tutti, ma il confronto è serrato e Joni Mitchell se ne accorge: “Le persone si mettono alla prova a vicenda di continuo, fraintendendoti, e tu sai che devi avere a che fare e decidere se lasciare che ti fraintendano o chiarire le cose. Mi sembra di aver imparato a nuotare, e mentre venivo da una posizione in cui avevo sempre il bisogno di essere sincera e compresa, ora invece riesco a cavarmela in tutte le situazioni. È quello che cercavo di dirti: per me è così intrigante riuscire a fregarmene. Non esiste la coerenza”. Il rapporto con Dylan è contraddittorio (e tale rimarrà per sempre) ma forse è proprio in quel momento che Joni Mitchell intraprende la svolta significativa nella sua vita, confessando a Ratso: “Sono scesa a patti con le mie personalità multiple, ho capito che sono tutte reali. Ci sono tanti di quei modi di guardare le cose, tu come scrittore lo saprai, e bisogna farsi strada tra i vari strati per arrivare alla personalità più onesta, capisci?”. Lì cominciava tutto un altro viaggio, che avrebbe avuto un suo turning point nel 1975 con “The Hissing of Summer Lawns”: “Allora cominciai a scrivere descrizioni sociali invece delle confessioni personali”. Il cambiamento di prospettiva è contemporaneo a quello musicale. Il passaggio nel mondo dei jazzisti avviene come conseguenza della sua attitudine da rabdomante. Avendo suonato con alcuni tra i più richiesti musicisti dell’area californiana, Joni Mitchell cominciava ad affrontare nuove strutture ritmiche e armoniche, tutte filtrate attraverso una caleidoscopio di accordature aperte, ma la risposta dei talentuosi partner restava limitata. L’episodio fondamentale è stato quando nel corso di una session, un bassista gli disse semplicemente e anche con una certa cortesia, che per suonare tutti quei tempi le occorrevano dei jazzisti. Guarda caso, il bassista successivo sarà un certo Jaco Pastorius. Quel passaggio avrebbe segnato nuovi, sorprendenti interlocutori: Wayne Shorter, John Guerin, Pat Metheny, Don Alias, Herbie Hancock, Larry Carlton, Robben Ford, Tom Scott.
La svolta jazzistica, ampia, completa, determinante trova una sua celebrazione con “Mingus”. Ancora una volta l’incontro è propiziato dalle canzoni, dal terreno comune della musica, vista attraverso più dimensioni, ma per arrivarci dovrà rileggere l’epica, tutta americana del viaggio, del movimento, della fuga, con “Hejira” , un disco in bianco e nero, con la strada come riferimento, prendendo le distanze dall’ennesima frattura partendo senza meta, concedendosi (ancora una volta) il lusso di perdersi. Sulla mappa ci sono dei punti fermi, come li indica Joni Mitchell: “Io mi muovo per il paese in un modo molto disorganizzato. Ho tre residenze. Una è selvatica e naturale, una è New York e non ha bisogno di descrizioni. La California, per me, rappresenta i vecchi amici, e la salute. Adoro nuotare. Per me è come volare. Posso entrare nella piscina e galleggiare per due ore senza mai toccare i bordi. È meglio di qualsiasi psichiatra per me. Sviluppo il corpo, i polmoni, quelle povere cose annerite dal fumo delle sigarette, e guardo la natura. A New York queste cose non le ho. New York mi dà la possibilità di muovere un muscolo che non uso mai; per esempio, là c’è la schiettezza. E questo mi rende più forte. Qui non hai così forte e felice nella mia vita. Ma il vantaggio era che neanche lì c’erano difese. Le parti vocali dell’album “Mingus” sono vere. L’azione reciproca dei musicisti è stata reale e spontanea”. Con “Mingus” celebra le leggende del jazz, Lester Young, Bird, Bud Powell, Max Roach, Monk, Sonny Rollins, Coltrane, Miles Davis, tutta un’assemblea di “santi” geniali e dissoluti cresciuti, in un mondo speciale che Mingus stesso spiegava così: “Se immagini il beat come fosse all’interno di un cerchio, sei più libero di improvvisare. La gente prima pensava che le note dovessero cadere al centro del beat nella battuta a intervalli come un metronomo, con tre o quattro musicisti della sezione ritmica che accentuavano quella pulsazione ritmica. È musica da parata, questa, o musica da ballare. Immagina invece un cerchio attorno a ogni beat: ogni musicista può suonare ovunque dentro quel cerchio e questo gli dà un senso di maggiore spazio ritmico. Le note possono stare ovunque all’interno del cerchio ma il feeling originale del beat non è cambiato. Se uno della band si trova in difficoltà, qualcun altro ribatte il tempo. Il beat è dentro di te. Quando suoni con dei musicisti così puoi fare qualsiasi cosa. Chiunque può smettere di suonare e lasciar continuare gli altri. Questo si chiama suonare insieme”. Una volta sposata la filosofia del
tanti incontri anonimi. A New York, costantemente, la strada ti spinge ad avere contatti con lei”. Ma resta la traversata, l’elemento riparatore per separazioni, abusi, drammi. Dirà di Jaco Pastorius, suo principale interlocutore musicale in quel momento: “Lui aveva un ego grande e grosso che dava fastidio a un sacco di gente, ma la sua arroganza mi piaceva. Alla fine la vita lo travolse, ma lui sapeva davvero fermarsi e un sacco di gente lo aspettava al varco. Fu una vera tragedia”. Le sottili, invisibili connessioni la portano da un bassista a un altro, e questa volta si spinge fino in Messico, a trovare Charles Mingus, ma misurando le distanze: “La grandezza è un punto di vista. C’è il grande rock’n’roll, ma una grande rock’n’roll in un contesto musicale, storicamente, è scarso. Io credo di crescere come pittrice, come musicista, come poetessa, sempre. Non vedo necessariamente che questo album è, per usare una parola, più bello dell’album “Blue”. È più sofisticato, ma è difficile definire la grandezza. È onestà? È genio? Nell’album “Blue”, non c’è una nota disonesta nelle parti vocali. In quel periodo della mia vita, non avevo difese personali, mi sentivo come un involucro di cellophane di un pacchetto di sigarette. Sentivo di non avere nessun segreto e di non poter pretendere di essere jazz per Joni Mitchell si è spalancata una porta definitiva, che l’ha vista veleggiare senza confini. Lì, i luoghi sono venuti meno, e Joni Mitchell ha sfidato le forme, perseguendo, come cantava in “The Same Situation”: “la mia lotta per arrivare più in alto e la mia incessante ricerca di amore”. Nell’estate del 1977, quando Elvis se ne è andato, Lester Bangs scriveva: “Se l’amore è davvero passato di moda per sempre, cosa di cui non sono poi tanto convinto, allora insieme all’indifferenza che coviamo gli uni per gli altri ci sarà un’indifferenza ancor più sprezzante per gli oggetti di venerazione degli altri. Io ho creduto che fosse Iggy Pop, voi avete creduto che fosse Joni Mitchell o chiunque altro a dare voce ai molti dolori e alle rare estasi della vostra situazione privata e del tutto circoscritta”. La digressione di Lester Bangs, pur con tutta la sua ruvidità, rende bene il contesto, che poi la stessa Joni Mitchell ebbe a precisare così: “Quando la gente ascolta una canzone questa entra nella loro vita e le parole diventano simboli. Questi simboli sono instabili, la gente ha un’avversione o un’attrazione per certe parole. Prendi la parola amore. Le possibilità di fraintendimento sono immense. Questa è la natura ingannevole del linguaggio”. L’economia circolare del suo gioco la
riporta ancora laggiù: “La mia vita privata è una disastro, ed è difficile per me sapere che non sto dando niente alle persone che amo. Gran parte dei miei amici sono musicisti; non sono molto socievole. Sono una persona molto solitaria, anche in una stanza piena di gente. Mi sento completamente sola. Per fare qualcosa di artistico c’è bisogno della solitudine. Hai bisogno della concentrazione che non puoi avere se sei circondata dalla gente”. La verità è che sbagliare è un fatto personale, ma comunque indispensabile: “Le cose grandi arrivano sempre sul ciglio di un errore. Quello che arriva dopo l’errore è spettacolare. Perciò se ti fissi sugli errori, ti perdi la magia”. Ecco, come funziona. L’evoluzione è stata seguita, in parallelo, dal collega di etichetta nell’Asylum, Tom Waits, ma quella di Joni Mitchell si è svolta per parabole molto lunghe, con deviazioni coltivate per tempo, con cura. La parentesi jazzistica, mai del tutto chiusa, l’ha rivelata un’interprete capace, da lì in poi, di leggere la musica a tutto tondo, dalle orchestrazioni al pop con contorno di novità elettroniche, e tra questi due estremi sfoderare almeno due capolavori della maturità, l’intenso e rarefatto “Night Ride Home” e il poliedrico “Shine”. Gli anni passati alla Geffen saranno segnati dai tentativi di assecondare i suoni e gli esperimenti, in questo parallela agli sbalzi d’umore di Neil Young, con risultati alterni e analoghi. Joni Mitchell li chiamerà gli “anni perduti”: alla Geffen sostenevano che non fosse molto in sintonia con l’epoca, e lei confermava orgogliosa di essere completamente fuori da quei tempi, dal 1982 di “Wild Things Run Fast” attraverso “Dog Eat Dog” e “Chalk Mark in a Rainstorm”, fino al 1991 di “Night Ride Home”. È stato il momento in cui ha confermato che per lei “l’arte è sempre stata la misura di se stessa”, con la coerenza di rifiutare una milione di dollari per suonare una singola serata a Las Vegas, noncurante delle possibili reazioni perché “non posso pronunciare su come vengo vista dagli altri. La vita è breve e abbiamo la possibilità di esplorarla per quanto il tempo e la fortuna ce lo concedono”. E così, “Night Ride Home” è quasi la conclusione di un ciclo, la definizione di un luogo e di una storia, in un disco di una bellezza rarefatta, crepuscolare, affascinante negli arrangiamenti misurati, e minimali, curati da Larry Klein, bassista e marito pro tempore. “Night Ride Home” forse è già tutto nella copertina con le ombre nella cornice e gli occhi turchesi di Joni Mitchell che spiccano nella breccia. Attorno, solo blu. Succederà anche nell’immagine di “Shine”, un balletto ancora inciso nel blu e nelle sue sfumature. “Shine” è sorprendente e maestoso e si conclude con la famosa “If” di Ruyard Kipling che viene rivisitata dentro una suite jazzistica. Nelle linee essenziali, sembra un testamento spirituale, dato che l’incipit recita così nel dettare le condizioni per restare umani: “Se saprai mantenere la calma quando tutti intorno a te la perdono, e te ne fanno colpa. Se saprai avere fiducia in te stesso quando tutti ne dubitano, tenendo però considerazione anche del loro dubbio. Se saprai aspettare senza stancarti di aspettare, o essendo calunniato, non rispondere con la calunnia, O essendo odiato, non dare spazio all’odio, Senza tuttavia sembrare troppo buono, né parlare troppo da saggio; se saprai sognare, senza fare del sogno il tuo padrone; se saprai pensare, senza fare del pensiero il tuo scopo, se saprai confrontarti con trionfo e rovina e trattare allo stesso modo questi due impostori”. In queste parole della fine del diciannovesimo secolo c’è molto dell’autobiografia di Joni Mitchell, che rimane fedele ai valori di Woodstock e della California e però, davanti alle “guerre sacre” del ventunesimo secolo, ammette in “If I Had a Heart”: “Il mio cuore è spezzato di fronte alla stupidità della mia specie. Non riesco a piangere. In un certo senso sono vaccinata. Ho sofferto questo dolore per così tanto tempo. La civiltà occidentale ha messo il mondo intero su un treno in corsa”. Un ultimo sguardo su un convoglio impazzito, un ricordo dell’infanzia, poi il cerchio è chiuso e resta quella fotografia di James Taylor e Joni Mitchell abbracciati: l’amore ha molte facce e nella tenera età delle rughe e dei capelli grigi e diradati, basta un sorriso, e ci si saluta a occhi chiusi.
ma.de.