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Le turbolenze blu di Joni
Mitchell
di Marco Denti Era piccola, relegata nella sua camera. Fuori era tutto grande, le pianure gelide e sterminate del Canada, il cielo infinito, le stagioni che si gonfiavano di tempo. Joni Mitchell chiusa tra quattro muri, con una finestra che guarda su un mondo enorme. Tutto quello che c’è da fare in quella casa nella prateria è salutare l’unico treno che passa, guardando il macchinista che le rispondeva dalla distanza. Solo un gesto, ma qualcosa si muoveva dentro quell’orizzonte immobile e supremo. Forse la mano che sventolava dalla locomotiva era soltanto il frutto della sua fervida immaginazione, ma Joni Mitchell sembrava già sapere che “ogni preghiera, ogni messaggio che mandiamo, alla fine riceve una risposta”. Sarà una lunghissima metamorfosi, cominciata dall’interpretazione del bagaglio folk e che, passando attraverso mille stagioni, l’ha trasformata in una delle interpreti, nel senso più esteso del termine, più originali del ventesimo secolo. Un’evoluzione così ampia e articolata aveva bisogno, senza dubbio, di fondamenta sicure e il background di Joni Mitchell nasce dalla sua conoscenza della musica folk. Le canzoni di Tom Rush, Woody Guthrie, “Dark As Dungeon”, “The House Of The Rising Sun”, “Jack Hardy”, e poi Dylan, ma c’è qualcosa in più perché per Joni Mitchell non si tratta di uno stile, ma di una posizione, come diceva: “La musica folk è un buon posto da cui cominciare”. La musica come luogo, colori che diventano destinazioni e Picasso che dice: “Dipingere non è un’operazione estetica: è una forma di magia intesa a compiere un’opera di mediazione fra questo mondo estraneo ed ostile e noi”. Vale anche per le canzoni. All’inizio viene presentata come Joan Anderson, il suo vero nome e lei si intrufola in ogni angolo: “A me piaceva molto suonare nei club per una quarantina di persone. Mi piaceva essere al centro dell’attenzione. Era come essere la festeggiata di un party”. È una di quelle notti e Jimi Hendrix, che suonava nella stessa città e con lo stesso promoter, la registra dal vivo, seduto davanti al piccolo palco. I nastri, insieme con il registratore, saranno trafugati, ma in quella voce, in quel modo di intendere la chitarra e le canzoni c’era già un vocabolario, un alfabeto, il DNA di un linguaggio, ma come diceva PicasEGOKID so “ogni atto di creazione è, prima di tutto, un atto di distruzione”. A questo diktat, Joni Mitchell si atterrà scrupolosamente. Prima, con due canzoni, definirà altrettanti capisaldi, sulla mappa e nel tempo, come nessun altro è stato capace di fare. “Woodstock” e “California”, sono gli estremi, geografici e storici. Woodstock è la prima, l’unica e vera celebrazione di un’utopia che al suo zenith era già segnata da una data di scadenza. Joni Mitchell l’aveva percepito, allora, e risentita mezzo secolo dopo “Woodstock” più che l’inno per un trionfo, suona come un’intensa elegia perché “noi siamo polvere di stelle”, e la luce che emaniamo non ha alcun colore. La “California” arriva nell’incontro (o incrocio) con David Crosby: l’eterea ragazza delle coffee house si trasforma nella “lady del canyon”, incarnando una delle figure preponderanti della West Coast di quegli anni. La collaborazione e il legame con David Crosby è un dialogo tra due opposti che usano la stessa lingua delle canzoni e l’arte del songwriting decollerà molto velocemente perché, come sostiene Joni Mitchell: “Porto la conversazione su temi che nessuno vuole toccare. Alla gente non interessano le stesse cose che interessano a me”. Uno dei primi ad accorgersene sarà Neil Young: “Conosco Joni (Mitchell) da quando avevo diciotto anni. La conobbi in una coffe
house, e la prima cosa che pensai fu che era bellissima. Era molto fragile, di aspetto esile e aveva la forma degli zigomi stupenda. Indossava sempre seta e raso leggero: mi ricordo che pensavo: ‘Se soffi abbastanza forte forse la fai cadere’. Eppure riusciva a tener su una Martin D18 piuttosto bene, comunque. Davvero, un talento incredibile, scrive delle sue relazioni in maniera di gran lunga più vivida della mia”. Forse soltanto Leonard Cohen ha scritto con la stessa chirurgica precisione, ed è Joni Mitchell a descriverla nel dettaglio: “Ognuno ha un lato superficiale e un lato profondo, ma questa cultura non ha molto valore nella profondità, non abbiamo sciamani o indovini, e la profondità non è incoraggiata o compresa. Circondati da questa società superficiale e lucida sviluppiamo anche un lato superficiale e diventiamo attratti dal piffero. Questo si riflette nel fatto che questa cultura crea una dipendenza dal romanticismo basata sull’insicurezza, l’incertezza del